the trip magazine n°1

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the trip

N째1 / Gennaio 2010 / Free Press



Costa d'Avorio Accendi i tuoi sensi


adrenalina Vociare di sottofondo. Frasi metalliche che annunciano numeri e nomi in tutte le lingue. Rumore di ruote. L’ombrello giallo mascherato da guida che traina frotte di giapponesi. File. Passaporti. La faccia del poliziotto che indica di levarsi le scarpe. Settimana enigmistica, gomme da masticare e perenne sapore di caffè. Il rullo dove scorrono valigie colorate. L’angolo di tappeto per sedersi e riposare. L’attesa della partenza ha infinite sfumature. Si crea nelle situazioni più disparate, per le motivazioni più distanti. Ma c’è un comune denominatore che invade ogni viaggiatore: l’adrenalina. La stessa adrenalina che da giorni non mi fa dormire. La stessa adrenalina che mi tiene incollata davanti al computer da ore. La stessa adrenalina che ti cattura prima di una partenza. Perché il viaggio di “the trip” è appena cominciato. Un'impresa, un sogno, una sfida.

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Un viaggio reale e virtuale. Un modo nuovo per raccontare il mondo. Le vostre storie, le vostre esperienze, le nostre storie e le nostre avventure fotografiche racchiuse in un contenitore unico: la rivista che state sfogliando. Una free press bimestrale dove consigli, aneddoti, informazioni, storia, letteratura, design, moda, luoghi, persone e paesaggi vengono trattati come unici, singoli e individuali momenti di vita messi a disposizione dell'intera comunità. Attraverso il nostro sito (thetripmag.com) affamati di immagini, suoni e odori dell'intero globo vengono messi in contatto con altri che, come voi, guardano e osservano dettagli e curiosità per dividerne l’essenza con chi lo desidera. L'adrenalina continua ad aumentare. Sono alla centesima sigaretta e passeggio nervosamente sul mio balcone. Guardo la mia città. Roma è davvero incredibile. In lontananza spuntano le cupo-

le di San Pietro. Immagino Piazza Navona e la maestosità dei Fori Imperiali. I vicoli di Trastevere e i sampietrini di rione Monti. Ma è qualcos'altro che cattura la mia attenzione. Il rubinetto ricurvo in ferro, l'acqua che sgorga ininterrottamente, centoventi chili di ghisa che occupano l'angolo del marciapiede. È una delle duemila fontanelle che popolano la Capitale. I cosiddetti “nasoni”. Nel 1872, Luigi Pianciani, il primo sindaco dell'Italia unitaria, diede il via all'installazione dei nasoni soprattutto per portare l'acqua potabile alle zone periferiche di Roma che cominciavano ad espandersi. Sfido chiunque sia nato o almeno cresciuto nella città eterna a non ricordarsi di quando si era piccoli e, a spasso con i genitori in uno dei tanti parchi e parchetti della città, ci si trovava di fronte ad un nasone. L’impulso era irrefrenabile. Tappare con un dito la bocca della fontanella e aspettare le urla del parente che si ritrovava inon-

dato dal getto d’acqua schizzato dal foro d'uscita sul cannello. O aspettare l’ultimo giorno di scuola per andare a riempire migliaia di palloncini che sembravano fatti apposta per essere attaccati alla bocchetta della fontanella. I preparativi alla guerra dei gavettoni. Un'esplosione di adrenalina. La stessa che accompagna “the trip” alla scoperta dei “nasoni” di tutto il mondo, degli angoli nascosti, degli scorci, dei particolari che a volte sfuggono anche al viaggiatore più attento, ma che non sfuggiranno a noi. Questa è la sfida. Questo è il sogno. Questo è il viaggio. Fisico e mentale. Da portare a termine insieme, perché con le vostre parole e le vostre immagini abbiamo voglia di dipingere il mondo. “the trip” ha deciso di regalarvi i colori primari. Metteteci voi il resto. Valentina Diaconale


sommario

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08 eventi dal mondo

editoriale

intervista

Cina

26 Myanmar

Brick Lane

36 50

46 San Pietroburgo

58 alchimia

56 Lasse Braun

60 libri

64 dementia cinefila

40 Perù

inviati

JR

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62 Istanbul

68 nel prossimo numero

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redazione The Trip N° 1 Gennaio 2010 Direttore responsabile Valentina Diaconale Direttore editoriale Lorenzo Verrecchia lorenzoverrecchia@thetripmag.com Vicedirettore Veronica Gabbuti Capo redattore Francesca Rosati Art Director Andrea Bennati Responsabile Marketing Luca Salice lucasalice@thetripmag.com Editore Associazione di promozione sociale “ELLE” Centro Stampa A.T.I. Arte Tipolitografica Italiana s.p.a. Via Nicaragua 8 – 00040 Pomezia (RM) Sede Legale Via Gasperina 188 – Roma

Sede redazione Via Apollo Pizio 13 – Roma Registrazione Tribunale di Roma n. 329 del 6 ottobre 2009 Hanno collaborato Ilaria Agueci, Tyler Andre, Claudia Bena, Giuliano Borghi, Valentina Caligiuri, Paola Cambiaghi, Marco Costa, Claudio e Tommaso Clemente, Luna De Bartolo, Chicca De Paoli, Claudia Diaconale, Valeria Di Biagio, Ludovica Fecarotta, Ginevra Foderà, Marianna Kuvvet, Jessica Lacombe, Sergio Marmonti, Elisabeth Mladenov, Ivan Ottoboni, Stefano Romita, Antonella Sacco, Tim Smit, Matteo Tabacchini, Rebecca Vespa, Luis Ignazio Villa, Valerio Vittozzi, Francesco Vizzani, Tipografia Fiordo di Galliate (NO)

Foto Andrea di Biagio - andreadibiagio@yahoo.it Pavel Borisovich Carlo Drioli Pablo Pecora - pablopecora@gmail.com Francesco Ricci Lotterinigi - francescoricci.com La foto in copertina è di Andrea di Biagio. L’illustrazione dell’editoriale è di Kero - kerokarousel@gmail.com Contatti info@thetripmag.com thetripmag.com


eventi dal mondo NEW YORK (STATI UNITI) 22 NOVEMBRE – 26 APRILE "TIM BURTON" Il Moma, uno dei più importanti musei d’arte contemporanea, celebra il regista americano Tim Burton, con una mostra che esplora il suo lavoro creativo dai disegni dell’infanzia ai film girati in età più matura. Un viaggio nell’immaginario di un genio, attraverso più di settecento opere tra bozze, dipinti, fotografie, grafiche in movimento, storyboard, marionette, maschere e altri oggetti di scena. Un percorso per rivivere “Edward mani di forbice”, “Nightmare before Christmas”, “Batman”, “Mars Attacks”, ma anche per conoscere i suoi progetti minori e meno conosciuti che confermano il suo talento di artista, illustratore, fotografo e scrittore. Un cammino nel surrealismo pop, accompagnato da una retrospettiva dei film e dei corti di Burton. È consigliabile acquistare i biglietti in anticipo sul web, specificando data e orario della visita, in quanto la capienza della galleria è limitata. moma.org/visit/calendar/exhibitions/313 KIRUNA – LAPPONIA (FINLANDIA) 29 GENNAIO – 31 GENNAIO “FESTIVAL DELLA NEVE” Si apre il XXV Festival della neve. Munitevi di tavola, guantoni e pala e correte a Kiruna, in Lapponia. L’ultima settimana di gennaio il Kiruna Snöfestival propone un programma ricchissimo di competizioni di snowboard, palla a volo con la neve, corse con le renne, salti con le motoslitte, un'esposizione di cani da traino e soprattutto

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il campionato nazionale di sculture di ghiaccio (“Open Swedish Championship in snow sculture”). Per cinque giorni la neve ghiacciata sarà scolpita per creare vere e proprie opere d’arte che verranno illuminate con la luce dell’aurora boreale. Tra uno colpo di scalpello e l’altro, potrete visitare la miniera sotterranea più grande del mondo (LKAB Infomine) e il centro di ricerca spaziale Esrange, unica stazione europea per il turismo spaziale. Ritirato il vostro trofeo di ghiaccio, infine, perché non fare un salto anche a Jukkasjärvi? Il nome del villaggio in lingua lappone significa "luogo di incontro" perché i visitatori della Lapponia hanno iniziato ad incontrarsi qui oltre quattrocento anni fa, per riposare e parlare con chi viaggiava lungo i deserti sentieri della regione. Voi, se volete, potrete riposarvi nel famoso Ice Hotel! BERLINO (GERMANIA) 29 GENNAIO – 7 FEBBRAIO “FESTIVAL TRANSMEDIALE” “Futurity” è la parola chiave e la posta in gioco dell'undicesima edizione del festival Transmediale per le arti digitali. Perchè il 2010 è il futuro, o almeno lo è stato nella mente di tanti artisti e scrittori del XX secolo. Cornice splendente e desolata di un tempo in cui l'uomo avrebbe vissuto in perfetta armonia con il mondo o non avrebbe vissuto più, dopo il definitivo autoannientamento. Oggi che la resa dei conti non è arrivata e la società globale non assomiglia affatto all'utopia di quei visionari, il concetto stesso di futuro vive una crisi d'identità che il festival cercherà

di risolvere in un ciclo di esibizioni e conferenze nelle quali la domanda non sarà “cosa ci riserva il futuro” ma “cosa siamo noi a riservargli”. Parallelamente e in “Overlap”, il Club Transmediale porterà, nei clubs e nelle concert hall più esclusive, musicisti e DJ alla ricerca di nuovi parametri estetici e nuove forme di cooperazione tra arte, video e musica. Con l'obiettivo di far emergere la musica come “laboratory for multiform experiments”. Come ogni anno artisti e performer da tutto il pianeta invaderanno la città per esibirsi, in perfetto stile berlinese, 24 ore su 24. Se avete ancora dei dubbi sul vostro futuro, fate un salto a Berlino dal 29 gennaio al 7 febbraio. Ci penseranno loro a confondervi ancora di più. transmediale.de clubtransmediale.de HARIDWAR (INDIA) 14 GENNAIO – 28 APRILE “KUMBH MELA” Quando il pianeta Giove entra in Acquario ed il Sole entra in Ariete. Mistico, spirituale, senza tempo. Il Kumbh Mela, il più grande raduno religioso della terra, si svolge ogni quattro anni a rotazione nelle città di Allahabad, Haridwar, Nasik e Ujjain, tutte nell’India del nord. Il 2010 è toccato ad Haridwar, città situata nella zona in cui il Gange sgorga dall’Himalaya. Milioni di fedeli indù (e non solo) si uniscono per bagnarsi nelle acque sacre del Gange, per purificarsi, liberarsi dai condizionamenti dell’esistenza materiale e raggiungere così la salvezza. I Naga Sadhus si immergono all'al-

ba del primo giorno (e non vanno preceduti: nonostante siano degli sciamani, sono spesso armati, eccitatissimi e suscettibili). Si immergono poi altri Sadhus, seguiti dai Guru, che vengono accompagnati su baldacchini decorati dai loro discepoli. E infine tocca ai comuni pellegrini fino al tramonto. Uomini e donne di ogni casta si affollano lungo le rive, dando vita ad uno spettacolo magico e variopinto. DANIMARCA 22 GENNAIO – 7 FEBBARIO “VINTER JAZZ FESTIVAL” Una no-stop di diciasette giorni in giro per tutta la Daminarca. Circa duecento concerti in oltre cinquanta locali sparsi per il paese. Alcuni tra i jazzisti top del mondo faranno in modo, spostandosi di città in città, di non fermare mai la musica che invaderà tutta la Daminarca, con le sue orchestre ma anche con famosi artisti nordici e star internazionali. vinterjazz.dk REPUBBLICA DOMINICANA 15 FEBBRAIO - 19 FEBBRAIO “PROCIGAR” Un’accoglienza sontuosa a Casa de Campo, tra una partita a golf sullo splendido Teeth of the Dog e una visita alla Tabacalera de García per poi dirigersi a Santiago de los Caballeros, una cittadina che sorge sulla Cordigliera Centrale, la catena più alta della Repubblica Dominicana e di tutte le Indie Occidentali.Tutto questo assaporando un Aurora 100, uno dei migliori sigari al mondo. Dal 15 al 19 febbraio nella Repubblica Dominicana si tiene la terza

Yayoi Kusama – “Infinity”

edizione di Procigar, il festival dedicato alla produzione del sigaro. Una full immersion alla scoperta di piantagioni, luoghi di lavorazione e produzione, oltre a seminari ed a una serie di piacevoli attività parallele (partite di golf, spettacoli, cene, concerti). Partecipare alla manifestazione sarà anche l’occasione per contribuire al finanziamento di due organizzazioni umanitarie che si occupano dell’assistenza a bambini malati o ad anziani in difficoltà, grazie all’asta benefica che si terrà durante la cena conclusiva. Un evento imperdibile per gli amanti del sigaro, una particolare avventura per chi vuole trascorrere cinque giorni nel secondo stato più grande dei Caraibi. www.procigar.org

MILANO (ITALIA) 28 NOVEMBRE – 14 FEBBRAIO “YAYOI KUSAMA. I WANT TO LIVE FOREVER” Pallini. Grandi, piccoli, di tutti i colori. È questa l’ossessione dell’ormai ottantenne Yayoi Kusama, l’artista giapponese dal look estroverso, conosciuta per le sue parrucche a caschetto e rigorosamente fosforescenti. Il Pac di Milano esibisce le sue opere nella mostra curata da Akira Tatehata, il direttore del National Museum of Art di Osaka. “Yayoi Kusama. I want to live forever” s’intitola, riprendendo il nome di un dipinto in acrilico su cinque pannelli del 2008. Star indiscussa della mostra è “Narcissus Garden”, l’installazione-scultura che fu presentata alla

Biennale di Venezia nel 1966. Si tratta di un ambiente interattivo formato da millecinquecento palline metalliche e creato insieme a Lucio Fontana. Tele a pois e sculture pop, stanze buie e dalle pareti specchiate, con piccole lucine appese a fili che pendono dal soffitto, creano ambienti e suggestioni che sembrano non appartenere a questo mondo. yayoi-kusama.jp comune.milano.it/pac LONDRA (GRAN BRETAGNA) FINO AL 4 APRILE “STOMP” Per l’ottavo anno consecutivo, Stomp si presenta a Londra in una veste nuova, ancora più fresca, veloce e divertente. Comprensi-

bile a tutti perché senza parole e con poca musica (nel senso più classico del termine), lo scopo dello spettacolo – che è già in scena all’Ambassadors Theatre (West Street, Camden) – è proprio quello di creare ritmo, suoni e movimento senza usare gli strumenti tradizionali. Gli interpreti usano scope e bidoni insieme a qualsiasi altro oggetto che adoperiamo tutti quotidianamente. Non è danza. Non è teatro. Non è un musical. È una performance ibrida adatta a persone di tutte le età, nazionalità e culture. stomplondon.com

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sulle orme di Ararad di Paola Cambiaghi

Istruttore di Sleddog-Mushing (disciplina sportiva che vede protagonisti i cani che trainano slitte sulla neve) e addestratore di cani, Ararad Khatchikiàn ha percorso con la sua muta migliaia di chilometri in luoghi inospitali, compiendo imprese che solo in pochissimi sono riusciti a portare a termine. Forse il suo destino era già scritto: in lingua armena il suo nome significa “dove nasce il sole”. Ararad, tu sei nato in Africa a Khartoum (Sudan), da madre italiana e padre armeno. Dall'età di nove anni vivi in Italia in Friuli Venezia Giulia: quando e come nasce la tua passione per lo sleddog? Tutto inizia nell’estate del 1983 quando mio fratello Armen compì la sua prima esperienza avventurosa assieme ad un amico goriziano-sloveno, Tomaz Devetag, percorrendo in canoa il maestoso fiume Yukon, tra il Canada e l’Alaska. Durante quel viaggio di sessantasei giorni conobbe moltissimi conducenti di slitte e decise di partecipare alla “Iditarod”, una gara di 1600 km con cani da slitta, dall’oceano Pacifico al Mare di Bering. All’epoca io frequentavo la Facoltà di Medicina a Trieste e il mio sogno era quello di attraversare l’Europa con la mia bicicletta. Nessuno dei due aveva le risorse finanziarie necessarie, così partecipammo ad un concorso organizzato da un famoso brandy: in palio c’erano ottantaquattro milioni in gettoni d’oro per realizzare i propri desideri. Armen vinse quella somma e il suo sogno divenne anche il mio. Imparammo ad allenare ed addestrare i cani da slitta di razza Alaskan husky e nel 1985 fondammo, insieme a nostra sorella Arminè e a un gruppo di nostri allievi, la prima Scuola Italiana Sleddog a Ponte di Legno – Tonale (BS). Dopo alcuni anni, decisi di tornare nella nostra regione di adozione, lo splendido

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Friuli Venezia Giulia, a Tarvisio (UD) dove, assieme a mia moglie Monica, creai la Scuola Internazionale Mushing, che è oggi un’associazione sportiva riconosciuta dal Coni nonché centro federale di riferimento della Federazione Italiana Musher Sleddog Sport. Lo sleddog è uno sport affascinante, a contatto con la natura e con i cani, praticato da bambini e adulti; alcune volte, però, può diventare una prova di sport estremo, di grande agonismo e coraggio, come nel tuo caso. Lo Sleddog si basa sull’armonia profonda che si instaura tra il musher (conducente di una slitta trainata da cani) e la sua muta. Questa attività sportiva è disciplinata da ferrei regolamenti internazionali: non è consentito assolutamente l’uso di alcun tipo di strumento coercitivo nei confronti dei cani, ma al contrario bisogna rivolgersi alla propria muta con tono pacato e con comandi di direzione e andatura esclusivamente vocali. Sia a livello agonistico che ricreativo, si tratta di un’attività comunque molto appagante e affascinante: sembra di tornare indietro nel tempo, all’epoca dei cercatori d’oro del Klondike, le cui storie sono state raccontate splendidamente da Jack London in “Zanna Bianca” e “Il richiamo della foresta”. Lo Sleddog piace moltissimo ai bambini che, già dall’età di sei anni, possono guidare, con la sola supervisione di un istruttore, una slitta trainata da uno o due cani su percorsi semplici e sicuri. Per gli adulti, poi, è un’esperienza assolutamente indimenticabile. Nel momento in cui i musher come me affrontano sfide importanti di svariate centinaia di chilometri in ambienti assai remoti, il tipo di impegno richiesto e il livello di difficoltà aumentano notevolmente. Le condizioni climatiche sono spesso

estreme, a causa del freddo polare e del vento impetuoso; tuttavia, il bravo musher affronta queste prove con grande prudenza e coscienza, per garantire la propria incolumità e quella dei cani. Nel 1996 e nel 2004 hai corso la mitica “Iditarod sleddog race” di 1600 km da Anchorage a Nome, in Alaska: un’impresa che pochi sono riusciti a compiere. L’ “Iditarod” è senz’altro la regina di tutte le competizioni di sleddog al mondo: potrebbe essere definita una sorta di Parigi-Dakar fatta però con slitte, cani e senza alcun tipo di aiuto e assistenza. Il musher deve gestire la sua squadra di cani in completa solitudine, durante le tappe e le varie soste di riposo e rifornimento viveri. I suoi 1600 km di percorso sono un tributo alla straordinaria epopea dei corrieri postali dell’Alaska che, con le slitte e i loro cani, garantivano il trasporto e la consegna di posta, medicinali e merci di ogni genere, nello sterminato territorio dell’ultima frontiera dell’Alaska. Parteciparvi e concluderla è un privilegio unico che un musher può realizzare, assieme alla sua muta, solo con notevoli sacrifici e nel pieno rispetto della natura. Nel 2003 hai partecipato alla “Serum Run”, "La Corsa del Siero" da Nenana a Nome, un’impresa di 1200 km che si è svolta in Alaska. Che cosa ti rimane di quell’avventura? Moltissimi bambini e i loro genitori hanno visto il film a cartoni animati “Sulle orme di Balto”, diretto dal grande Steven Spielberg. La pellicola racconta una storia vera accaduta nel rigido inverno del 1925 in Alaska: venti corrieri postali, con slitte e indomiti cani, hanno trasportato per 1200 km, a tempo di record, una cassa contenente il vaccino necessario per salvare un’intera comunità di bambini e

adulti, colpita da una tremenda epidemia di difterite. Balto era il capomuta dell’ultima squadra di cani che effettuò la consegna del farmaco salvavita all’ospedale di Nome, sul Mare di Bering. Nel 2003, settantotto anni più tardi, ho percorso assieme ai miei dodici fedeli husky lo stesso itinerario, rievocando quei miti e quelle leggende, incontrando perfino alcune persone sopravvissute grazie a quell’incredibile episodio di solidarietà umana e animale. Con le splendide immagini dell’amico cameraman friulano Gianni Fachin è stato realizzato un film documentario Rai e anche un libro – diario di viaggio, “Sulle Orme di Balto”, pubblicato nel 2005 da Rai Eri e distribuito da Mondadori. È stata senz’altro una delle esperienze e avventure più toccanti che io e i miei cani abbiamo mai effettuato! Che tipo di allenamento bisogna affrontare per prepararsi ad un’impresa del genere? San Francesco diceva saggiamente “mens sana in corpore sano”, ovvero la mente è sana quando il corpo è sano. Anche io applico questa regola, praticando ogni giorno dell’esercizio fisico: mi piace molto camminare, correre, andare in bicicletta e nuotare, e anche i miei cani seguono con me delle tabelle di allenamento progressive. A fine estate, su erba e con l’ausilio di un quad (una moto a quattro ruote che funge da slitta), sono in grado di allenare anche dodici, sedici cani alla volta. Si parte con allenamenti blandi da 5 km per arrivare a percorrere anche 100 – 200 km con accampamenti notturni, in inverno, prima degli appuntamenti importanti. Il tutto viene svolto sempre e rigorosamente nella dimensione di un grande gioco e senza forzature, per mantenere alto il desiderio di correre dei miei cani.

Ma l’alimentazione è indubbiamente un aspetto molto importante, se non decisivo, per la resa di un team musher e dei suoi cani durante le gare. Io sono un accanito sostenitore delle dieta mediterranea e divoratore di frutta e verdura, mentre i miei cani si cibano di crocchette di alta gamma, carni crude di manzo, pollo, agnello, tacchino e pesce (salmone dello Yukon e aringa di fiume). Sia io che i miei cani facciamo uso di integratori di sali minerali e vitamine. Come scegli i cani che compongono la tua muta? Una delle mie passioni è la musica e la mia muta è come un’orchestra di cui io sono il direttore. Per questo, affinché l’esecuzione

riesca alla perfezione, devo poter scegliere tra elementi molto affiatati, che lavorino allo stesso ritmo ma che, soprattutto, provino un grande piacere e divertimento nello svolgere il loro compito. Sono tutte caratteristiche che i cani manifestano da soli fin dalle prime sedute di addestramento e allenamento, all’ età di 6 – 7 mesi. Alcuni di loro, poi, ci fanno capire subito le loro capacità di guidare l’intera squadra: sono gli insostituibili leader, ovvero i capomuta. Sono loro che imprimono il ritmo all’intero team e soprattutto eseguono immediatamente gli ordini vocali impartiti dal musher che, alle volte, nel caso di mute di 14 – 16 cani, si trova a più di quindici metri di distanza da loro! Il vero musher vive per godere della pro-

fonda armonia e simbiosi tra sé e la sua squadra di cani, che non abbandonerebbe mai e per nessuna ragione al mondo. Cosa ti spinge a compiere queste imprese? Probabilmente l’ansia genuina di scoprire ciò che esiste dietro una collina o una curva. Una smania di esplorare territori alle volte molto remoti assieme ai più fedeli amici, anche se a quattro zampe. Mi piace conoscere altre persone che condividono queste emozioni e poterle trasmettere ai neofiti tramite la nostra Scuola Internazionale Mushing di Tarvisio (UD). (ararad.net) Quanto può essere rischioso affrontare prove così impegnative?

Dico sempre a mia madre che per me è più rischioso guidare un’auto che affrontare 1600 km in slitta assieme ai miei cani in ambienti sub-artici. Lei non mi crede, ma per me è assolutamente vero. Ovviamente ci sono problemi reali e oggettivi che quelli come me devono saper affrontare e risolvere adeguatamente: situazioni critiche quali, ad esempio, l’assai subdola e letale ipotermia, lo stress da carenza di sonno, il ghiaccio che può cedere sotto il peso della slitta, la carica di un alce imbizzarrito che può essere pericolosissimo con le sue corna. Con la giusta preparazione si possono affrontare queste difficoltà e godere così delle meraviglie che la natura e il mondo animale riescono a regalarci.

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FOTO D'ARTE: DIVENTA PROTAGONISTA DI QUESTA PAGINA. Zingara al campo rom della Magliana. Roma 2009 foto di Francesco Ricci Lotterinigi - francescoricci.com


contraddizioni made in China di Luca Salice foto di Pablo Pecora

Campagne, fiumi, aratri, silenzi, risaie, biciclette, pescatori, profumi di tè, verdure cucinate, statue e monasteri millenari. Meditazione, spazi immensi e poi ancora caos, persone, milioni di persone, vociare, macchine, grattacieli illuminati, sputi, smog, inquinamento, trambusto, musica e colori. Tutto

in un solo viaggio, tutto diviso per tre. Tre amici, infiniti kilometri di pullman, ore e ore di treno e una traversata in nave. Un mese e mezzo attraverso la Cina, un mese e mezzo attraverso gli innumerevoli contrasti di un paese alla ricerca della sua nuova strada.


hutong Pechino

Roma – HONG KONG Un’enorme stazione dal soffitto basso, una miriade di persone divise in file più o meno ordinate, un gran vociare. Sullo sfondo la polizia cinese. Siamo alla frontiera. Facce serie, atteggiamento militaresco. Siamo gli unici ad avere fattezze occidentali. Abbiamo appena trascorso due giorni nella caotica Hong Kong, enorme agglomerato urbano dove la recente storia anglosassone e la nuova appartenenza cinese si scontrano. Il cambio netto tra occidente e oriente si nota subito appena varcata la frontiera: ci ritroviamo in una stazione di autobus, in mezzo ad uno sciame di cinesi vocianti, eccitati e tesi. Sta per iniziare il nostro viaggio. Destinazione finale: Pechino.

Hong Kong – YANGSHUÒ Dopo una notte trascorsa su un comodissimo pullman-letto, (un gigantesco autobus che al posto di normali sedili ha veri e propri letti), alle prime luci dell’alba approdiamo nella piccola cittadina di Yangshuò. Ad accoglierci c’è uno sparuto gruppetto di ragazzi. Ognuno di loro, con un improbabile inglese, prova a convincerci che sarebbe la guida perfetta per condurci nella campagna cinese in questi due giorni. Alla fine ci facciamo catturare da Robert, un ragazzone dai capelli impomatati che ci porta in un alberghetto di suoi amici. Per pochi yuan Robert ci organizza tutta la giornata. È una situazione strana, le barriere linguistiche e culturali ci fanno sempre dubitare, il timore è sem-

pre quello di essere fregati. Dopo una breve colazione a base di spaghetti di soia con verdure in una fatiscente baracca, ci avventuriamo nella campagna cinese a bordo di un piccolo pulmino. Mi sembra di essere tornato indietro di cent’anni. Strade sterrate, risaie a perdita d’occhio, contadini immersi nel fango che lavorano la terra con aratri di legno trainati da buoi. La prima tappa consiste in una mini crociera lungo il fiume a bordo di minuscole zattere di bambù. La zona di Yangshuò è famosa per i pinnacoli carsici, montagne dalla forma appuntita che spiccano tra giardini terrazzati e risaie. Una mandria di gnu sta facendo il bagno nel fiume ed enormi libellule colorate ci ronzano intorno. Siamo finalmente soli in

mezzo alla natura. Alla fine della gita sul fiume torniamo da Robert che, solo dopo averci muniti di caschetti da operaio, ci conduce in esplorazione della montagna. La visita scorre via veloce attraverso cunicoli stretti e bui. Sulla nostra testa volteggiano pipistrelli e l’eco dei nostri passi riempie la caverna con un rumore sordo. Ci immedesimiamo sempre di più nei protagonisti del film “Viaggio al centro della terra”. Yangshuò – EMEI SHAN Sto scrivendo da una piccola stanza in un monastero buddista sul monte Emei Shan. L’Europa sembra ormai lontana anni luce. Ho la testa sgombra e sono pervaso da una inspiegabile sereniShanghai

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tà. Siamo nell’est della Cina, non lontani dal Tibet, nella provincia del Sichuan. Una delle zone che ancora ha conservato quella spiritualità che anni di regime maoista hanno provato a cancellare. Siamo giunti a Leshan con un breve volo interno. La città è famosa per essere uno dei siti più importanti del buddismo in Cina. Qui risiede la statua del Buddha più grande del mondo. Settantuno metri di colosso scavato dai monaci su una parete di roccia alla confluenza di tre fiumi. Lo spettacolo è incredibile e ci lascia a bocca aperta. Trascorriamo così la giornata umida e piovosa, visitando diversi templi. Le statue del Buddha e di altre divinità si susseguono ovunque. Compro un rosario buddista e mi inginocchio alcuni minuti in un minuscolo tempio dove l’unica luce proviene da una miriade di candeline. Lasciamo la cittadina di Leshan sotto una pioggia incessante e dopo una quarantina di minuti siamo ai piedi della montagna sacra, patrimonio dell’Unesco: l’Emei Shan. Sono le sei del pomeriggio. Tra due ore non ci sarà più luce. Il nostro autista ci spiega che per trovare un rifugio dobbiamo proseguire a piedi nel bosco per circa un’ora e mezza. Dopo un animato dibattito con i miei compagni di viaggio, spinti dalla voglia d’avventura e da un pizzico di incoscienza, decidiamo di incamminarci per il sentiero. La passeggiata non è delle più rilassanti. Piove, gli zaini pesano parecchio, la fame comincia a farsi sentire e non c’è ombra di insediamenti umani. Solo alberi e questa stradina di ciottoli scivolosi. Quando il morale della truppa sta volgendo verso il più totale sconforto, appare sulla nostra destra un provvidenziale portone. Bussiamo. Veniamo accolti dal sorriso tranquillizzante di un monaco minuto, che dopo averci scrutato ed aver ricevuto una misera offerta per il pernottamento, ci fa segno di seguirlo con un impercettibile gesto della mano. Lo spettacolo che ci troviamo davanti ci lascia sbalorditi: un immenso giardino verdeggiante, curatissimo, con vasche di pesci rossi che si alternano a siepi potate ad arte e statue di divinità. In fondo, davanti a noi, il tempio. Il silenzio fa da padrone. L’unico sibilo è quello dei sonagli portafortuna attaccati ai rami degli alberi, mossi da una lieve brezza. Il tempo sembra essersi fermato. La cena con i monaci è a base di verdure e tè bollente. L’ideale dopo due ore di cammino... di acqua potabile neanche a parlarne. Trascorriamo la notte in una stanzetta semplice ma confortevole e alle cinque del mattino veniamo svegliati dal coro dei monaci. Li troviamo tutti inginocchiati nel giardino intenti ad intonare l’“Aum” (trascritto erroneamente

come “ohm”). Non era solo una sensazione: sull’Emei Shan il tempo si è fermato davvero. Emei Shan – CHENGDU Arriviamo a Chengdu in serata, dopo l'ennesimo viaggio in pullman. L’ostello è una palazzina fatiscente che brulica di viaggiatori provenienti da ogni parte del mondo. Passiamo la serata con turiste australiane, americane e tedesche. Ovviamente rimediamo solamente sorrisi e una sonora sbronza. La mattina seguente partiamo alla volta del parco del “Panda Breeding and Research Center”, l’unico motivo che ci ha spinti a visitare questa città inquinatissima. Passiamo la giornata all'interno del parco, osservando panda di tutte le specie ed età. Nell’immaginario collettivo teneri orsacchiotti ormai in via di estinzione, nella realtà giganteschi orsi che passano la giornata rotolandosi e mangiando bambù, motivo per il quale si stanno estinguendo. Il panda è in realtà un animale carnivoro ma è talmente pigro che preferisce avvelenarsi ingozzandosi di bambù piuttosto che andare a caccia! Chengdu – YANGZI RIVER Arrivati a Chongqing ci imbarchiamo per una crociera di tre giorni sullo Yangzi River. Su questo fiume è stata costruita la diga più grande del mondo, che fornisce una quantità di energia pari a diciannove centrali nucleari. Scopriamo che nel costruirla il governo cinese non ha però minimamente preso in considerazione la miriade di persone che, a causa dell’innalzamento dell’acqua, si è trovata costretta ad abbandonare le proprie case e le proprie vite. La nave sembra un piccolo Titanic e, proprio come sul Titanic, le cabine sono divise in prima, seconda e terza classe. Prendiamo un biglietto in seconda e dato che le stanze sono da due mi tocca dormire sul divano. La terza classe è una sorta di mercato cinese al chiuso. Si sente odore di cucinato e cinesi ubriachi che intonano canzoni e giocano a dadi. Da una camera all’altra sono appese lunghe corde dove la gente stende i panni. Di giorno la nave si ferma più volte per visitate vari siti: palazzi Ming, giardini, mercatini e le tipiche pagode. Ovviamente non sapendo una parola di cinese ogni volta che sentiamo un annuncio dagli altoparlanti della nave scrutiamo attentamente la reazione e il conseguente comportamento della gente, seguendoli senza porci troppe domande. Lungo il fiume incontriamo diverse città abbandonate (causa diga) che di lì a poco verranno sommerse dall'acqua. È inquietante la spettralità di una città fantasma. Si sente solo il sibilo delle aquile che volteggiando ci sovrastano. Le serate in nave scorrono veloci tra risate, litri di

birra locale (decisamente troppo leggera per i miei gusti) e uno dei passatempi più amati dal popolo cinese: il karaoke! Famiglie intere impegnatissime nell’intonare le più famose canzoni pop del momento. Anche noi ci cimentiamo con scarsissimi risultati nell’esecuzione di “Get into your eyes”. Alla fine della perfomance l’applauso che riceviamo è più di scherno che di elogio. L’ultima tappa della crociera è la visita della diga, una mastodontica struttura che si erge in mezzo al fiume Yangzi. Il rumore dell’acqua che scroscia è assordante. Per parlare anche a distanza ravvicinata siamo costretti a urlare. È pazzesco pensare come l’uomo riesca a competere e contenere tale forza della natura. Yangzi River – SHANGHAI Dopo dieci giorni immersi tra campagne e fiumi approdiamo a Shanghai. L’impatto con la città è devastante. Un enorme formicaio. Milioni di persone, macchine, biciclette e motorini rendono la città più popolosa della Cina un totale caos. Dopo tanti giorni di escursioni, monasteri e silenzio un po’ di mondanità è proprio quello che ci vuole. Lo skyline della metropoli di notte è magnifico. Sembra la città di “Futurama”, frutto della mente del fumettista Matt Groening. Una sfilza di grattacieli illuminati e colorati sovrasta l’agglomerato. Andiamo a cena al T8, uno dei ristoranti più cool del momento, dove conosciamo il proprietario: un ragazzo svizzero che si siede al tavolo con noi e ci racconta di aver abbandonato l’Occidente per aprire questa attività. È stato uno dei primi ad esportare la cucina occidentale nella terra di Mao. Dopo averci offerto un ottimo dolce e finalmente un buon caffè espresso (che non bevevo dalla mia partenza da Roma) ci indirizza ad un secret party al quale, dice, troveremo il jet-set di Shanghai. La festa è pazzesca, dopo giorni di povertà, riso e buoi ci ritroviamo catapultati nella Cina ricca. Conosciamo business man, manager, attori e modelle. Nel privé i tavoli riservati alla mafia cinese sono inavvicinabili. Dopo tanto peregrinare una sana notte alcolica era quello che ci voleva. Nei giorni successivi visitiamo la città. I giardini imperiali sono meravigliosi. Fiori e aiuole curatissime, stagni pieni di pesci, ninfee, ponticelli e le immancabili pagode. Shanghai è la città più cosmopolita della Cina, un miscuglio di razze dove il sacro e il profano, il passato e il futuro si combinano in maniera a volte addirittura grottesca. Il terzo giorno partiamo per una gita nell’assolatissima cittadina di Suzhou detta la “Venezia d’Oriente” per i suoi innumerevoli canali. La città è carinissima, ma il caldo e l’afa non ci lasciano tregua. È il 15 agosto: si suda anche da fermi.

Qui assistiamo alla pesca con i cormorani, una tecnica di pesca utilizzata in tutta la Cina. Il pescatore attende che l’uccello si tuffi in acqua e afferri il pesce; poi, con un bastone che finisce ad uncino, recupera il volatile il quale, all’interno della barca, risputa il pesce dentro un’apposita cesta. Tornati in città ci dedichiamo allo shopping e per puro caso ci avventuriamo sotto il Bund Tunnel, su una sorta di metropolitana psichedelica che a folle velocità passa sotto il fiume che attraversa la città. Un’esperienza da provare. Shanghai – SHAOLIN Shanghai – Xi’An è un viaggio troppo lungo. Abbiamo tempo e scegliamo una tappa intermedia di un giorno. Dopo una breve consultazione la decisione è presa all’unanimità: si va a Shaolin! Che sogno Shaolin, luogo natio del Kung Fu. Monaci addestratissimi che diventano vere macchine da guerra. Non possiamo perdercela. Partiamo con il massimo entusiasmo pronti ad avventurarci nei segreti delle arti marziali ma invece… il termine più adatto per descrivere la nostra giornata a Shaolin è: finzione. Un teatrino turistico montato ad arte per i visitatori. Dopo aver girato due ore per negozi che vendono magliette shaolin, cappelli shaolin, ventagli shaolin, poster shaolin, cibo shaolin, assistiamo ad uno spettacolino di un’ora sotto un caldo torrido, dove dei monaci inscenano pratiche di lotta e prove di forza. Tutto rigorosamente in stile shaolin. Una delusione totale, soprattutto dopo aver visitato i veri monasteri buddisti sull’Emei Shan. Shaolin – XI’AN L’arrivo notturno in città inizia subito male. Ho dimenticato il mio amatissimo cappello blu sul pullman. Ma riesco a consolarmi con tre birre in ostello e la simpatica conversazione con alcuni ragazzi cinesi innamorati dell’Italia. Xi’An è una delle poche città che ha conservato per intero le mura di cinta imperiali. Affittiamo una bicicletta e un tandem e mentre il sole cala ci godiamo il tramonto pedalando sul muro di cinta che delimita la città vecchia. Svegliati presto, partiamo in taxi alla volta di uno degli spettacoli più suggestivi che questo viaggio ci ha regalato: l’esercito di terracotta. Qin Shi Huang L’imperatore Qin Shi Huang, considerato il primo imperatore della Cina unificata, decise di far costruire ottomila statue di terracotta a grandezza naturale affinché vegliassero sulla sua tomba. Una cinquantina di anni fa un contadino, cadendo in un pozzo, le ha scoperte. Da allora ancora non hanno finito di riportarle tutte alla luce. Incredibile notare come siano una diversa dall’altra. La leggenda La Grande Muraglia

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Pechino

dice che l’imperatore ordinò al suo popolo di costruire ognuno la propria statua a sua immagine e somiglianza. Xi' An – PECHINO Il viaggio che ci porta a Pechino è certamente il più estenuante. Ventidue ore di treno su panche di legno circondati da una moltitudine di cinesi che sputano a destra e a manca. Ma stiamo arrivando a Pechino. La meta tanto agognata. La città dell’Impero e di Mao. La capitale. Giunti in ostello, la prima persona che ci si para davanti non la scorderemo molto facilmente. Si chiama Marco ed è un ragazzo italo-malese che parla solamente due lingue: il cinese e il romano! Con Marco stringiamo subito

amicizia, sarà il nostro cicerone per il resto della permanenza. Le giornate scorrono tra visite culturali e shopping sfrenato. I centri commerciali di Beijing sono una cosa incredibile. Piani sterminati di bancarelle e negozi dove si può trovare di tutto a prezzi ridicoli. La fase più bella è quella della contrattazione. Non esiste mai un prezzo fisso, è tutto un continuo tira e molla tra acquirente e venditore, con tanto di calcolatrice alla mano per cercare di strappare la cifra più conveniente. Alla fine ci ritroviamo a mercanteggiare, litigare e ad incazzarci per pochi euro. Non possiamo esimerci, siamo ormai contagiati dal virus della contrattazione. Finiamo con una valigia a testa riempita di ogni genere di vestiario. Pechino offre

davvero tanto a livello culturale: la città proibita, i giardini d’estate, la storica piazza Tienanmen dove padroneggia la foto di Mao. Quello che colpisce di più in una città che si modernizza alla velocità della luce, sono gli angoli nascosti. Marco ci fa scoprire la Pechino dietro le quinte. Gli hutong sono gli stretti vicoli cinesi formati da file delle tradizionali abitazioni a corte che formano interi quartieri dove è possibile trovare ogni genere di cosa, dai grilli (animale immancabile in ogni abitazione) alle cianfrusaglie, dal cibo alle stoffe. E poi, naturalmente, la Grande Muraglia. Scegliamo l’escursione più lontana, quattr’ore di pullman da Beijing per visitare la zona più incontaminata e non ristrutturata. Undici chilometri di saliscendi,

tra gradini e torrette in mezzo alle montagne. Impressionante pensare sia lunga cinquemila chilometri. Impenetrabile difesa per l’attacco mongolo (mai tentato dalla compagine di Gengis Khan), la muraglia offre uno spettacolo straordinario dato dalla perfetta fusione tra natura e architettura. Lascio la Cina con bellissimi ricordi, parecchie esperienze da raccontare e non pochi interrogativi. La futura prima potenza mondiale vive ancora in un clima di semidittatura. Sacro e profano, futuro e passato, ricchezza e miseria si alternano senza un apparente senso logico. È il paese delle mille contraddizioni.

Palazzo d'Estate - Pechino

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Brick Lane di Francesca Rosati

Non se ne può più di Notting Hill, Kensington, King’s Road o Piccadilly. La Londra esclusiva ci ha stancati. Oggi la linfa vitale della capitale britannica è la vibrante East End: il territorio che va da est della città medievale a nord del Tamigi, quello che durante la dinastia dei Tudor era il più vicino al vecchio porto e che quindi è sempre stato precursore. Negli anni ’50, la zona si trasforma da povera, criminale e sovrappopolata a glam e giovane, diventando emblema del cambiamento sociale. Zoomando ancora, ci soffermiamo su Brick Lane, dove i marciapiedi si travestono da bancarelle trendy, i muri da tele per Banksy ed i negozi e i locali da luoghi di scambio di tendenze e creatività. La strada più lunga del London Borough of Tower Hamlets (parte da Bethnal Green che sta a nord della città, passa per Spitafields ed arriva fino a White Chapel a sud) era teatro di malavita, di bordelli e dei delitti del famosissimo serial killer, Jack lo squartatore. Oggi

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invece è mosaico di persone di tutte le razze e le età, di locali di vari generi (risoranti e bar ecologici o orientali, tea room, birrerie) e, soprattutto, di negozi e bancarelle che stracciano la moda del momento e qualsiasi prezzo londinese. Detta anche “Bangla Town” (per la quantità di bengalesi che la popolano dagli anni ’60), la strada dall’insegna bilingue e dai profumi orientali ospita un mercato che si anima la domenica, dall’alba fino alle due del pomeriggio. Ragazzi e ragazze stendono teli colorati sui marciapiedi ed espongono vestiti e scarpe usati e creazioni di tutti i tipi: dal vestiario agli accessori, dall’artigianato alla bigiotteria. E poi una miriade di bancarelle con abiti vintage e attuali, biciclette (ma sì, diciamolo) rubate, e articoli per la casa. Nella “strada del mattone” (“brick lane”, appunto) gli acquisti continuano anche durante la settimana: il quartiere è costellato di negozi vintage (Rockit è il più famoso), stravaganti e di pellame. Ho comprato una

giacca di pelle che in Italia avrei pagato il doppio nonostante il cambio sfavorevole, ed un regalo per un bimbo appena nato: un bavaglino a strisce bianche e nere, con la scritta “Sono stato dentro nove mesi”. Brick Lane è anche molto altro. È design, con le sue gallerie (tra cui la Whitechapel Gallery e la White Cube). È arte, grazie al movimento Young British Artists ed agli artisti che la abitano, come per esempio Gilbert e George. È musica, con i suoi negozi di dischi ed i locali di musica dal vivo. È multi cultura, con la sua moschea all’angolo con Fournier Street, un tempo luogo di culto per gli Ugonotti, poi Sinagoga e oggi edificio sacro per gli immigrati del Bangladesh. È un miscuglio eclettico che fa pensare ad una Berlino trapiantata in oriente. 1001 Dopo una lunga passeggiata, il “1001 Café” è tappa obbligatoria. È un ampio locale su due piani con uno spazio all’aperto che si

trova su Dray Walk (una strada privata che parte da Brick Lane), all’interno del complesso Old Truman Brewery, ieri Black Eagle Brewery (fabbrica di birra fondata nel 1680), oggi centro creativo dell’East End Londinese. Il “1001” offre portate calde, panini, dolci, tè, caffè, e, inutile dirlo, birra e alcolici. Al piano di sopra, gli arredi rigorosamente vintage gli danno un tocco decadente ed intellettuale. E, in un’altra sala ancora, si esibiscono tutti i giorni DJ del panorama internazionale e musicisti dal vivo, su note elettroniche e drum and bass, ma anche reggae e più tradizionali. Dopo aver comprato il bavaglino, ho trovato rifugio qui per qualche ora. Mi sono ustionata la lingua con il tè che viene servito a temperature aliene ed ho ballato a ritmo di tech house, circondata dalle mie amiche e da veri londinesi (una specie rara da scovare, forse in via di estinzione). a sinistra: Tower Hamlets – East London


Myanmar reportage fotografico di Andrea Di Biagio Nel 1989 la giunta militare salita al potere ha cambiato il nome del proprio Paese da Birmania in Myanmar, meglio conosciuto con il nome inglese di Burma.






inviati Matteo Tabacchini DA BERLINO The Freakberg

Ginevra Foderà DA MADRID Spettacolo madrileno

Cos’ è freak. Camminare per strada vestiti di colori sgargianti, indossare grandi occhiali da sole mentre fuori piove, soffrire il jetlag anche se non ci si è mossi di un passo da casa. Siamo a PrenzlauerBerg, il luogo dove nessuno si somiglia ma tutti sono uguali, ombelico di quella freak life di cui Berlino è ormai simbolo mondiale. Un quartiere vecchio ed elegante, l’unico sopravvissuto all’invasione dell’armata rossa. Un rincorrersi di gallerie d’arte, caffè e negozi vintage che si offrono al pubblico come spazi poliedrici di espressione in cui ogni giorno succede qualcosa di diverso: concerti, dj set, proiezioni di film indipendenti, performance di ogni genere. Non importa il modo, l’importante è dare sfogo alla propria creatività. Sempre! Perche Pberg è movimento, energia e continua ispirazione. Al centro la Kastanien Allee (per gli amici Casting Alle) e il Mauerpark, il parco del muro, una volta zona morta, oggi sede di un mercatino dell’usato dove si acquista e si vende di tutto: macchine Polaroid, abbigliamento 60’s, porcellane e vecchi dischi psichedelici. Poi, più in là: La Vinerie, luogo incantato dove sorseggiare vino italiano e francese gustando ottimo cibo homemade, al prezzo più giusto di tutti; quello che decidi tu, i soldi poi li lasci nel bicchiere. Oh sì, questo è freak!

“De Madrid al cielo”: molto spesso i madrileni esordiscono così per parlare della propria maestosa ed elegante città. Madrid è una capitale giovane, industrializzata da troppo poco tempo per possedere una forte appartenenza al territorio: il madrileno doc da tutta una vita non esiste, dicono, e se esiste ha una capacità di relazionarsi al visitatore - che sia straniero, che viva o sia in vacanza a Madrid - in un modo tale da aprire il cuore. La metropolitana, qui, è piena di gente dalla domenica pomeriggio, in cui il quartiere preferito da turisti e studenti, madrileni e non, sembra essere da sempre La Latina, con il suo celebre e autentico Mercato del Rastro (delle pulci), al giovedì notte, in cui la movida inizia ad aprirci i suoi colori e le sue voci. Da Malasaña, con i suoi mille bar affollati, a Lavapiés, multietnico e bohemien, passando per il quartiere gay di Chueca e la più tradizionalmente turistica Puerta del Sol, scopriamo le mille scritte sull’asfalto di letteratura spagnola. Siamo nel quartiere de Las Letras: Huertas. Una città che durante tutto l’anno offre la fortuna di godere di festival e occasioni di incontro che attraversano diverse realtà culturali, dal teatro, alla danza, alla musica: Madrid ci incanta di bellezza e passione. Uno spettacolo vero, per occhi e cuore.

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Tim Smit DA BRUXELLES Schizofrenia ed internazionalità nella capitale belga Bruxelles in verità è un posto strano. In nessun altro luogo del mondo puoi camminare per strada e sentir parlare all’incirca ventisette lingue diverse nell’arco di un quarto d’ora. Bruxelles è davvero internazionale, cosa che la rende però anche schizofrenica. Le persone che lavorano alla Commissione (e sono tante, quasi 25.000) non si mischiano ai bruxellesi. E i belgi se ne stanno per conto loro. Ma un punto di incontro c’è: le tante birrerie in giro per la città dove le due popolazioni di Bruxelles (“BXL” per gli eurocrati) si trovano faccia a faccia e bevono. Non insieme forse, ma almeno accanto. Oltre alla ricchezza ed ai fastidiosi eurocrati, la Commissione porta a Bruxelles anche tanti giovani che vengono a fare stage e rendono la città molto viva. Tra i suoi jazz club (di alto livello), birrerie (di livello ancora più alto), pub e tanti negozi, gente in giro c’è sempre. E per finire una serata rigorosamente alcolica, non c’è miglior modo se non un bel sacchetto di “frites” che si trova anche nei posti più improbabili. Oggi però, a contrastare le frites, è arrivata la pizza, quella vera, al taglio, concetto sconosciuto fino a qualche tempo fa.

Ilaria Agueci DA LONDRA Finley Quaye

Tommaso Clemente DA COLONIA Carnevale 11

Dopo aver vissuto e lavorato a Berlino, Finley Quaye ritorna in gennaio sulla scena inglese, al Jazz Café di Camden Town, un famoso bar di Londra che dal 1990 ospita artisti Jazz, Soul, Funk, World, Dance e Hip Hop. Finley Quayle debutta sulla scena musicale britannica nel 1997, con l’album “Maverick A Strike”. Una fusione melodica di elementi soul, rock, electronic e reggae che gli permette di affermarsi tra gli artisti innovativi del momento. Riesce ad impressionare il pubblico e la critica con i brani “Sunday Shining” e “Even After All” per il suo originale tono di voce e la forte vocazione soul. Nel 2000 pubblica “Vanguard”, un nuovo album composto da dodici brani, e si afferma per le sue qualità di vocalist, accompagnato spesso solo dalla chitarra acustica. Nello stesso anno, con il singolo “Spiritualized” in versione rock con elementi di house - dance, travolge il pubblico con temi autobiografici sulla vita, l’amore e la crescita.

La Germania non è certo quel paese di persone fredde e distaccate di cui ho spesso sentito parlare. Chi fosse di quest’idea si ricrederebbe subito se dovesse visitare Colonia, una tra le città più vive e allegre di tutta la Germania. Città poliglotta, multiculturale e multi culinaria. Città dove la notte è più ospitale e accogliente del giorno. Non mancano infatti locali notturni di ogni genere, per ragazzi di ogni età, nazionalità e… orientamento sessuale! Tra gli eventi da non perdere c’è il carnevale che celebra il suo inizio l’11/11 alle 11:11 (numero matto in questa parte del paese) a Heumarkt, una delle piazze più belle della città. La festa prosegue poi fino a notte fonda lungo le strade della città vecchia. È davvero qualcosa che vale la pena vedere e vivere. E questo è solo l’inizio, il momento più importante del carnevale è a febbraio e questa volta i festeggiamenti durano per cinque giorni. Vivo a Colonia da appena tre mesi e aspetto quel giorno con impazienza, in questa magnifica città che fino ad oggi non ha ancora smesso di stupirmi.

Jessica Lacombe DA NEW YORK Sognare nella Grande Mela

Tyler Andre DA PORTLAND Anelli e ciambelle voodoo

Elisabeth Mladenov DA HELSINKI Un ricamo di cultura e creatività

New York è una giovane metropoli se paragonata alle altre grandi città del mondo. È un posto definito tanto dal suo ritmo quanto dal suo potenziale stimato. Spesso mi ritrovo ad osservare persone che danno all’urgenza frenetica dei loro lavori un posto troppo importante nel quadro generale. Allo stesso tempo - e anche nel periodo successivo al crollo economico che si è concentrato su questa città - c’è un senso di grandi possibilità per l’individuo a New York. Anche se non è mai un percorso facile, esiste una strada ineguale e irregolare per artisti, imprenditori, intrattenitori, proprietari di piccole aziende (etc - la lista prosegue) che vogliono lavorare per loro stessi. Ed avere successo. Come artista, l’abilità di concentrarsi sui propri interessi e sulle proprie passioni per vivere, invece di essere pagati per creare la visione di qualcun altro, è un sogno che inseguo. Ed in tanti modi, questo è possibile a New York. Ovviamente ci sono tanti altri elementi, alcuni deliziosi, altri profondamente viziati, che danno vita a questa città complessa - troppi da raccontare in una manciata di frasi. Ma, a volte, le personalità ruvide sono le più interessanti da guardare perché, come osservatori esterni, non le capiremo mai fino in fondo.

Portland è un mix eclettico di stili di vita sofisticati ed alternativi, condito con l’amore per l’ambiente e per la gastronomia. I cittadini di Portland consumano più letteratura, caffè e birra di qualsiasi altra città nel mondo. In effetti, Portland è la capitale mondiale della birra, in quanto ospite di trentotto fabbriche all’interno dei confini della città. È anche la città più verde degli Stati Uniti. Lo slogan ufficioso della città recita “Mantieni Portland strana” (“keep Portland weird”) ed è tenuto a cuore dai “Portlandesi”. Ad esempio, con duecento dollari una coppia può invitare ventiquattro amici in chiesa e mangiucchiare insieme i deliziosi “Voodoo Doughnuts” (“ciambelle voodoo”), sorseggiare il famoso caffè “Stumptown” e festeggiare lo scambio dei voti. Non vi preoccupate: le ciambelle sono vegane. Dopo tutto, questa è Portland.

Il mare circonda e definisce Helsinki, avvolgendola con i suoi porti, i suoi parchi sul lungomare, le spiagge di città e le sue linee di costa cangianti. La penisola del centro si immerge verso sud nel Mar Baltico ed è accerchiata da un arcipelago esteso. Nelle sue zone interne, la città è un ricamo di imprese e aziende culturali: bar alla moda, locali musicali, negozi di design che si sovrappongono all’architettura storica ed ai paesaggi urbani. Viste le sue dimensioni ridotte, Helsinki è geograficamente e socialmente molto affiatata ed unita. Creativi indipendenti hanno un punto d’appoggio saldo nella scena culturale e gli standard che fissano sono elevati.

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? Valeria Di Biagio DA BARCELLONA La città sempre sveglia

Chicca De Paoli DA PARIGI Io, me e voi

Rinomata meta mondiale per gli addii al nubilato/celibato, la città di Gaudì sprigiona libertà. Uno su cinque abitanti è straniero, l’apertura mentale è pane quotidiano, al pari dell’efficienza dei servizi. Le strade non sono mai vuote. Si vive in mezzo agli altri, respirando all’aria aperta e con il sole in faccia, sempre. C’è il mare, i negozi aprono e chiudono tardi, e ristoranti e bar sono sempre aperti per offrire “cañas de cerveza” a volontà (la birra costa meno dell’acqua) e deliziose tapas (ahimè poco generose). Una curiosità: gli spagnoli escono “a cena” per bere, poi eventualmente spizzicano tapas “comunitarie”; noi italiani facciamo il contrario. Obiettivo: immergersi senza meta nelle viuzze del barrio gotico, la ribera, el born e la ciudad vella (anche evitando las ramblas), e lasciarsi trascinare dall’entusiasmo di una città sempre sveglia.

Se decideste di partire per un week end e sceglieste come meta Parigi, la prassi è facile, quasi scontata. Internet, ricerca su google voli low cost, hotel o bed & breakfast. E magari il passo successivo sarebbe quello di comprare una guida per Parigi per avere suggerimenti più dettagliati su musei, ristoranti e zone da visitare. Ma se a tutto questo si aggiungesse un dettaglio fondamentale, come quello di avere con voi un bambino? Parigi allora è il posto giusto. Dentro una città fascinosa e viva come questa esistono mille attività ricreative ed eccitanti per i bimbi. Dai grandi e verdi parchi con i loro animali, mucche, asini, maiali, pecore, ponies sui quali è possibile effettuare passeggiate lungo il parco, alle gite in barca sui ruscelli ai trenini che attraversano il bosco o spettacoli di marionette. “Le Jardin d’acclimatation” ne è un magico esempio! E se foste in giro ormai da tante ore e i vostri figli iniziassero ad essere stanchi del vostro shopping, ecco a voi “La poussette”, un caffè per adulti e bambini che presenta un menù per i più piccoli a base di omogeneizzati e composte di frutta, e piatti più sfiziosi per gli adulti, con un grande angolo giochi per dar libero sfogo ai vostri figli. Così è anche il brunch domenicale da “Apollo” a Danfert Rocherou, dove una equipe di animatori intratterrà i vostri figli mentre voi potrete godervi il vostro pranzo. Questa è Parigi vista con gli occhi di un bambino!

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Luis Ignacio Villa DA SANTA CRUZ DE LA SIERRA Avventure amazzoniche Non ci sono problemi a Santa Cruz de la Sierra. In effetti, è il motore agricolo ed industriale del paese più povero del Sud America. Uno dei nove stati della Bolivia, sta crescendo velocemente sia in termini di popolazione che di economia, portando una vasta ondata di turismo. La resistenza all’estremismo radicale della parte occidentale del paese ha fatto di Santa Cruz de la Sierra un’alternativa per i visitatori della Bolivia. Dal suo vecchio quartiere pittoresco alla cittadina senza tempo di Cotoca, la città di Santa Cruz è localizzata proprio nel centro dello stato, ed è quindi la destinazione ideale per quei viaggiatori alla ricerca del brivido, di strade sterrate e di avventure amazzoniche inesplorate.

DIVENTA IL NOSTRO INVIATO SEI A NEW YORK? A COPENHAGEN? O A CITTÀ DEL MESSICO? VOGLIAMO SAPERE COME SI VIVE NELLA TUA CITTÀ. VOGLIAMO CONOSCERE I SUOI RITMI ATTRAVERSO I TUOI OCCHI. VOGLIAMO LA TUA OPINIONE. SULL’ARIA CHE SI RESPIRA. SU QUELLO CHE VEDI E CHE HAI VISSUTO. UN CONCERTO AL QUALE SEI STATO O AL QUALE ANDRAI. UNA MODA CHE TI HA COLPITO PARTICOLARMENTE O UN MODO DI DIRE TIPICO. VOGLIAMO LE STORIE CHE NESSUNO CONOSCE SE NON ATRAVERSO LE SPIEGAZIONI DA TESTO SCOLASTICO DELLA GUIDA DI TURNO CHE PER PARTITO PRESO NESSUNO LEGGERÀ MAI. RACCONTACELA TU LA VERITÀ. SCRIVI 10/15 RIGHE, INVIALE A THETRIPMAG.COM E DIVENTA IL NOSTRO INVIATO.

Gabon

Ascolta la vera Africa


romanzo peruviano di Veronica Gabbuti foto di Carlo Drioli


isla Kontiki

Alessandro ed io ci conosciamo solo da qualche mese e in comune abbiamo forse troppo poco. Lui fuori dagli schemi, io dentro. Lui notte, io giorno. Lui locali bui e musica elettronica, io aperitivo con le amiche e shopping sfrenato. Due gocce d'acqua, insomma, e con un sogno da condividere: Machu Picchu. Non so bene come sia successo ma un pomeriggio ci siamo fermati in un'agenzia di viaggi e abbiamo trovato due biglietti: i nostri. Il 4 Agosto 2007 arriviamo a Lima. In mano solo una guida con ancora la plastica intorno. Non abbiamo programmato nulla e siamo solo dall'altra parte del mondo... Troviamo una stanza in un albergo triste e mal messo: El Balcon Dorado. Siamo stanchissimi ma

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isla flotante sul lago Titicaca

bisogna organizzare qualcosa per il giorno dopo. Pisco è una cittadina deliziosa che prende il nome dal liquore nazionale e, Villa Manuelita, il bed & breakfast trovato su internet, la rende ancora più piacevole. Il giorno successivo riusciamo ad intrufolarci in un'escursione organizzata alle Islas Ballestas. Dicono che siano bellissime ed è assolutamente vero. Qui la natura è davvero incontaminata, i leoni marini dormono sotto il sole sdraiati sugli scogli e si sente il rumore assordante dei versi di uccelli di mille specie. Tornando verso Pisco, la nostra base, Ale si dà allo studio e, rimanendo affascinato dalla misteriosa storia delle Linee di Nazca, le propone come tappa successiva.

Bisogna assolutamente trovare un aereo, perché le antichissime figure disegnate sul terreno sono visibili solo dall’alto. Un gentilissimo signore sulla sessantina, Pepe Ortega, ci aiuta ad organizzare il trasferimento verso Nazca mettendoci in contatto con suo cugino Miguel, che ci farà sorvolare le famose linee sul suo piccolo aereo. Quella sera Pepe ci porta in un ristorantino nascosto e senza insegna in cui ho mangiato, senza esagerare, il pesce più buono della mia vita. La storia di Pepe è triste, ha due figlie che non vede da molti anni. Vorrebbe chiamarle, ma ha perso i contatti con loro, e oggi, dopo diversi anni, non sa più dove cercarle. Anche io racconto qualcosa di me, della mia famiglia, dei

rapporti difficili, e solo allora mi rendo conto che è la prima volta che ne parlo anche con Ale. Stiamo imparando a conoscerci ed è una piacevole sorpresa. Nazca invece, è una gran delusione. Le linee si vedono male, tutto ha un'aria troppo turistica con tanto di negozio di souvenir nel piccolo aeroporto e ristoranti che propongono “le vere Fetuchine di Alfredo”. Tappa successiva: Arequipa, la città bianca. Dodici ore di pullman per raggiungerla ma ne è valsa la pena. I grandi edifici in stile coloniale di questa città scintillano sotto il sole, sulla guida leggiamo che è merito del “sillar”, il materiale vulcanico con cui sono costruiti, e tutto è incorniciato dalle cime innevate delle montagne

circostanti. Ci fermiamo ad Arequipa quattro giorni per diversi motivi: siamo stanchi di girare senza sosta, dobbiamo abituarci all'altitudine (siamo a 2350 m), ma soprattutto vogliamo fare base qui per partire per un'escursione al Canyon del Colca. Il Canyon del Colca è un posto in cui ti rendi conto di quanto gli esseri umani siano piccoli in confronto all'universo. Il volo dei condor è lo spettacolo più affascinante che abbia mai visto e sento che dentro di me sta crescendo qualcosa. Ma non sono i condor. Non è il Canyon. Semplicemente mi sto innamorando. Quella notte la ricorderò per sempre. Abbiamo dormito a Chivay, uno dei piccoli centri abitati vicini

al Canyon, all'Inkari Eco Lodge, posto magnifico. Ale si è sbagliato e ha mangiato il cuy, una specie di topo fritto che ha scambiato per pollo. Si muore di freddo a quasi quattromila metri in pieno inverno peruviano. Ma con una bottiglia di liquore, il camino acceso e i nostri discorsi ancora un po' imbarazzati si sta bene, anzi benissimo. Tornati ad Arequipa a fare i bagagli, partiamo per Puno. La città è carina, non bellissima, e il primo albergo, El Buho è un completo disastro. Al nostro arrivo è ancora chiuso: dopo un'ora di attesa scopriamo che la camera doppia non è disponibile nonostante la prenotazione. Andiamo a visitare Sillustani, che ospita le “chullpas”, antichissime

torri funerarie della tribù Colla, ma ancora non sappiamo dove andremo a dormire. Allora mi torna in mente Pepe e il post-it su cui aveva segnato per noi i numeri dei suoi amici cui avremmo potuto fare riferimento: “Inka Wasi Travel agency, Puno - chiedere di Sonja”. Questa gentilissima signora tedesca non solo ci trova un bellissimo albergo a cinque stelle al prezzo di un ostello, ma organizza per noi anche l'escursione sul Lago Titicaca e tutte le tappe per i giorni successivi. Sbarchiamo sulla prima delle isole del lago, una Isla Flotante, un'isola galleggiante costruita dagli Uros con le “totora”, simili alle canne di bambù. Gli isolani non parlano spagnolo, ma aymarà. Impiego diverso tempo a far capire ad una

delle donne che vorrei le trecce come le sue con tanto di pompon alle estremità (cosa che mi ha fatto rischiare di perdere la partenza della barca ed essere abbandonata sull'isola). Poi la Isla Taquile. Affascinante, arroccata, con centinaia di scale da salire. Il tempo è bellissimo, ma dobbiamo correre a prendere il pullman per Cuzco. Il viaggio è lungo e stancante, ma il peggio deve ancora venire. Appena arrivati nel nostro ostello veniamo informati del gravissimo terremoto che ha colpito il Perù durante la notte. Pisco è distrutta. Pensiamo subito a Pepe, proviamo a chiamarlo ma le linee non funzionano. Verso sera riusciamo a trovare un internet point e chiamare l'Italia, ma di Pepe nessuna

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Machu Picchu

notizia. Cuzco sembra una bellissima città, il quartiere di San Blas è europeo e modaiolo con i suoi ristorantini e le boutiques colorate, ma quella di questi giorni non è l’atmosfera adatta per notarne i divertimenti. In ogni piazza si organizzano raccolte di abiti e cibo, e spedizioni di aiuti umanitari per soccorrere le vittime del devastante terremoto. Ci troviamo a confezionare centinaia di sacchetti di riso da inviare alle famiglie terremotate. Offriamo le nostre medicine e i vestiti che indossiamo. Vorremmo restare, fare di più, ma non possiamo spostare il volo per rientrare in Italia e, tenendoci per mano in silenzio, torniamo in albergo per preparare i nostri bagagli, ora più leggeri.

Da Cuzco ci spostiamo ad Ollantaytambo facendo rafting sul fiume Urubamba. Non avrei mai pensato di arrivare viva. A Ollantaytambo alloggiamo a El Albergue, un paradiso ai piedi del Templo del Sol. Questo bellissimo hotel ospita anche una piccola sala di lettura che offre testi in diverse lingue e comode poltrone per rilassarsi un po’. Qui troviamo un grande registro, dall’aria troppo usata. Ogni ospite vi ha scritto un messaggio e noi facciamo lo stesso. Scriviamo i nostri nomi, vicini, per la prima volta. Mi fa uno strano effetto. Alessandro e Veronica. Sorrido. Il viaggio in Perù sta per finire, ma ormai abbiamo condiviso troppe cose insieme e sappiamo che il vero viaggio, il nostro, continuerà.

Il giorno seguente prendiamo il treno per Aguas Calientes e da lì, finalmente, saliamo su una delle Sette Meraviglie del mondo moderno: Machu Picchu. Per descriverlo non ci sono parole. Sarah Ellen Nel piccolo cimitero della città di Pisco – famoso per l’ottimo liquore locale – esiste la tomba di Sarah Ellen, una donna inglese vissuta nel XIX secolo che fu originariamente seppellita viva a Blackburn nel 1913 perché creduta una strega. Il suo devoto marito decise di portare il suo corpo così tanto lontano da casa per porre fine alle voci sul suo conto. Una delle versioni della leggenda di Sarah Ellen vuole infatti che questa fosse la moglie del Conte Dracula e si

dice che prima di essere seppellita avesse promesso di ritornare dopo ottanta anni per vendicarsi. Nel 1993, incredibile a dirsi, la sua lapide si spostò e si ruppe, ma non successe niente di più. In quell’anno la piccola e tranquilla cittadina di Pisco fu assaltata da centinaia di bizzarri fan (che speravano di assistere a qualche sinistra apparizione) creando scompiglio e disordini. I cittadini, invece, posero collane di aglio sulle porte delle proprie case. Qualcuno crede anche che il terremoto che ha distrutto Pisco sia stato causato proprio da Sarah Ellen.

periferia di Pisco - mercato

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la donna su strada diventa arte di Francesca Rosati

Nell’epoca della Street Art, strade, paesaggi e angoli nascosti diventano possibili musei. JR, un venticinquenne parigino di sangue tunisino e mediorientale, espone le sue fotografie iperboliche a cielo aperto, nelle zone più povere del pianeta, apportando bellezza dove di bellezza ce n’è davvero poca. L’artista, che come la maggioranza dei writer non rivela il suo nome, sia per la natura illegale delle sue affissioni, sia perché (secondo parole sue) “nome e cognome non aggiungerebbero nulla”, ha iniziato da adolescente proprio con i tag ed i graffiti. È stata una macchina fotografica

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lasciata incustodita su una metro parigina a fare da “galeotta” nella sua storia d’amore con la fotografia. Una lunga storia d’amore coronata dal successo di “Ladj Ly” - sintesi delle rivolte del 2004 nelle periferie parigine e opera più conosciuta di JR - che ritrae un giovane nero mentre impugna una telecamera come fosse un fucile, tenendo sotto tiro chiunque si fermi ad ammirare la foto. Oggi JR è un fotografo ibrido che lascia il segno in giro per il mondo, con l’irriverenza di Banksy e la sensibilità introspettiva di Steve McCurry. Foto grandi come ponti, veloci come treni, spezzettate come muri di mattoni, grazie alla

tecnica di incollare delle tele fotografiche gigantesche sui supporti più inconsueti. Occhi, visi e corpi di donna colorano i ponti lungo la Senna e le strade di Bruxelles, ma anche le baraccopoli africane, i villaggi galleggianti in Cambogia, persino le favelas brasiliane, dando vita ad un carnevale fisionomico chiamato “Women”, l’ultimo spettacolo itinerante di JR. Il soggetto indiscusso è la donna e l’idea è quella di celebrare la forza, il coraggio e la dignità di quelle che vivono in luoghi dove la discriminazione sessuale non dà tregua. Nemmeno in momenti di pace. Uno degli scatti più belli è

incollato sul fondale della piscina di un albergo in Monrovia. “Liberia, la modella”, dice JR, “ha versato tante lacrime che sarebbero state sufficienti a riempirla”. Sebbene JR dichiari di non avere obiettivi politici, di certo le sue opere hanno avuto delle importanti funzioni sociali. Il solo fatto di esporle liberamente per le strade del pianeta attira l’attenzione di chi non frequenta abitualmente i musei o le gallerie. E nei luoghi più pericolosi e poveri del terzo mondo, dove l’arte non esiste, la gente abituata a combattere per sopravvivere scopre la bellezza del superfluo. JR entra dove nessuno può entrare: grazie a un accordo


Ecuador Dove la routine e' sinonimo di bellezza

con gli abitanti trasforma la favela Morro da Providência in una gigantesca opera d’arte. Usando un vinile resistente all’acqua per fissare le foto sulle case, ne rende impermeabili i tetti, donando, assieme al bello, delle notti meno umide. A Rio de Janeiro JR fonda in seguito un centro culturale, dove i suoi seguaci delle favelas possono esporre le loro creazioni fotografiche. Oggi si sta impegnando a crearne uno simile nella baraccopoli keniota Kibera. Ma la vera rivoluzione è stata una mostra precedente a “Women: Face 2 Face”, svoltasi in Israele nel 2007. Le foto, che ritraggono un rabbino, un prete ed un imam con fac-

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ce smorfiose, sono state incollate a Ramallah, a Tel Aviv e addirittura sul muro di cinta che separa il paese dalle zone palestinesi. Gli esperti dicevano che sarebbe stato impossibile. E, proprio per questo, lui l’ha fatto. Con l’obiettivo di mettere i litiganti “faccia a faccia” e dimostrargli che in fondo sono molto simili, che sembrano dei gemelli separati alla nascita: diversi ma uguali. Non si tratta di cambiare il mondo ma, a volte, lo scoppio inatteso di una risata in un luogo tanto difficile aiuta a credere che sia possibile. Si tratta di fare dei piccoli passi. Anche se JR è stato arrestato, grazie a questa mostra il rabbino e l’imam alla fine sono diventati amici e hanno viaggiato insieme

in Europa: a Ginevra, dove hanno incollato le loro foto, e a Parigi, dove si sono esibiti in prediche a due voci. Il fotografo ha promesso che, dopo “Face 2 Face”, presto tornerà per fare “Hand in Hand” (“mano nella mano”). Dalle bidonville africane alle favelas sudamericane, dalle palafitte del sud est asiatico ai muri di importanti capitali europee, la sua arte appare dove non era stata invitata. In seguito, le sue opere vengono trasportate a New York, Berlino, Londra e ultimamente vendute a cifre interessanti. Con una certa fama arrivano i soldi ma JR assicura che non si monterà la testa: “Se osservate il mio lavoro, vedrete che è cresciuto man a mano che cresceva il valore delle mie

opere alle aste. Non sto diventando ricco e non mi sto comprando una bella casa: quando vai in questi posti e stai con queste persone, non ci pensi nemmeno a diventare ricco. Penso sempre a come possiamo fare di più con questi progetti. Tutto il denaro alimenta il mio lavoro a venire”. foto: favela Morro da Providência Rio de Janeiro


2 sorelle a San Pietroburgo di Valentina e Claudia Diaconale foto di Pavel Borisovich

Due sorelle che si ritrovano nella stessa città a pochi mesi di distanza: San Pietroburgo. Per Valentina, la maggiore, si tratta della penultima tappa di un lungo viaggio con il fidanzato cominciato tra i fiordi della Norvegia. Per Claudia, minore di due anni, si tratta di lavoro: è infatti l’accompagnatrice ufficiale di un gruppo di musicisti che fanno riferimento alla compagnia per cui lavora. Tutto spesato

naturalmente. Per la prima è un viaggio avventuroso con i soldi contati, per la seconda è un viaggio avventuroso ma senza limiti di budget. Due punti di vista che partono da presupposti completamente diversi tra loro. Due sorelle con modi e aspetto simili ma con due personalità opposte. Due occhi per la stessa città! Due angolazioni parallele e distanti.


la Chiesa del Salvatore sul Sangue Versato

la partenza Valentina Dalla stazione di Helsinki partono solo due treni al giorno per San Pietroburgo. Fare questo tragitto sui vagoni, passando per il confine tra Finlandia e Russia, è il modo migliore per rendersi conto dell’enorme differenza tra i due paesi. Lasciandosi alle spalle le terre finlandesi con le case precise, piccole, colorate e ben curate anche in aperta campagna, il territorio russo appare come un’immensa steppa semideserta, dove incontrare anima viva durante il tragitto è davvero raro. I militari invece sono ovunque. Il passaggio alla dogana lascia una profonda inquietudine. Berretti verdi contornati da stelline si rivolgono a te esclusivamente in

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la Fortezza di Pietro e Paolo

russo, con fare duro e inquisitorio. Anche se sai di avere tutti i documenti necessari, anche se il tuo passaporto è nuovo di zecca e il tuo visto perfettamente in regola, anche se, insomma, non hai nulla da nascondere, non puoi esimerti dall’avere una paura fottuta. stazione Finlandia La “Stazione Finlandia” è la stazione dove Lenin, nel 1917, dopo diciasette anni di esilio all’estero, rimette piede nella sua patria e pronuncia il famoso discorso dal tetto dell’autoblindo sulla piazza, dove oggi sorge la sua statua. La folla che lo ascoltava aveva solamente sentito parlare di lui senza averlo mai visto prima. Ciò che non si sa è che Vladimir Ilich Uljanov zoppicava vistosamente per

un’unghia incarnita che lo faceva soffrire ormai da tre anni. Claudia L’aereo parte puntuale dall’aeroporto di Roma Fiumicino alle 10.00 del mattino. Uno scalo di un’oretta a Francoforte al fresco di un’aria condizionata impeccabile e con un drink ghiacciato in mano, per arrivare nella città di Pietro il Grande alle 18:50 spaccate. La nostra guida Svetlana ci aspetta al ritiro bagagli. Ne hanno smarrito uno così ci viene immediatamente assegnato il trattamento vip. In men che non si dica spuntano diversi facchini che, sfrecciando tra valigie e beauty, caricano tutti i nostri bagagli sul pullman che aspetta fuori. In venti minuti siamo in hotel.

cambio soldi Valentina Appena usciti dalla stazione con gli zaini sulle spalle e la guida in mano, riusciamo tramite il tipico gesticolare italiano a farci indicare un piccolo ufficio cambi. Che in realtà è proprio di fronte a noi. Definirlo ufficio è quasi un eufemismo. Diciamo una stanzetta fatiscente in mezzo alla strada con dentro una grassa signora che, bofonchiando in russo, ci strappa dalle mani gli ultimi euro rimasti e ci restituisce in cambio, dopo pochi minuti, una pallottola accartocciata di rubli. Claudia La compagnia per cui lavoro mi ha incaricato di effettuare il pagamento di tutti gli eventi ai quali

dobbiamo partecipare in contanti ed in loco: cene, concerti, mostre e tour per la città. Sbrigate tutte le pratiche doganali comodamente, sul pullman raccolgo le varie quote dei miei associati, ritrovandomi alla fine con più di trentamila euro in mano da convertire in rubli. La mia guida Svetlana mi dice che la borsa è chiusa e che quindi ho solo due soluzioni: aspettare il giorno dopo oppure cambiare il denaro in maniera, diciamo così, ufficiosa. Dopo una telefonata in russo, di cui naturalmente non capisco nulla, mi dice che sta per chiamare una macchina privata specificandomi che è più affidabile del taxi ma solo se conosci la cooperativa per cui lavora. La macchina in effetti arriva. Dopo venti minuti che attraversia-

mo la città, e lo scenario si fa sempre più periferico, ci fermiamo ad un incrocio buio accanto ad una fabbrica abbandonata. Un’altra macchina ci affianca. Svetlana mi dice di darle i soldi. Sarebbe andata lei a cambiarli. A questo punto ho solo un pensiero che mi passa per la mente: “Se questa entra nell’altra macchina e si dà alla fuga, io come faccio a dire al mio autista di seguirla visto che qui parlano solo russo?”. Svetlana scende dalla mia macchina, entra in quella di fronte e dopo poco torna con più di centomila rubli. Respiro di sollievo! hotel Valentina Un taxi ci carica di fronte alla stazione dove abbiamo appena

cambiato i soldi. Un simpatico vecchietto con solo due denti ancora sani spiccica qualche parola di italiano misto a spagnolo. Di inglese, chiaramente, neanche a parlarne. Gli mostriamo il biglietto dove ho trascritto il nome russo del nostro albergo e lui ridendo ci chiede l’equivalente di venti euro per portarci a destinazione. Sappiamo che siamo un po’ fuori dal centro della città e parecchio lontani dalla stazione. Ci sembra un ottimo prezzo e accettiamo di buon grado. Il vecchietto sembra particolarmente entusiasta. Il giorno dopo capiamo che praticamente gli abbiamo lasciato una fortuna. taxi driver Dovete sapere che i taxi in Russia

sono una vera e propria attrattiva. Ovunque tu sia, stai sicuro che non rimarrai mai a piedi! Perché? Perché chiunque si improvvisa tassista. Dall’avvocato all’imprenditore, dall’impiegato statale al panettiere, appena vedono una mano alzata sul ciglio della strada si fermano senza remore, ti caricano in macchina e ti portano a destinazione. Anche se hanno appena finito il loro turno di lavoro, anche se devono portarti dall’altra parte della città, anche se poi dovranno ripercorrerla tutta per tornare alla propria casa, quei miseri rubli in più a fine giornata fanno comunque una vistosa differenza. Questo perché la povertà è ancora sovrana in tutti gli strati sociali del paese.

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Nel tragitto passiamo all’interno della città. E qui comincia lo spettacolo. San Pietroburgo non è solo bella, è semplicemente pazzesca. Ovunque ti giri, le guglie delle cattedrali spuntano dorate tra l’acqua dei canali e la maestosità di edifici dell’epoca staliniana. Ma è facile dimenticarsi che una volta questa era Leningrado, che Stalin temeva l’aristocrazia moderna e filo-occidentale della città e che più di un milione di abitanti morirono di fame quando i tedeschi si ritirarono alla fine della seconda guerra mondiale. Questa è la città degli zar, dove l’impronta del suo fondatore Pietro rimane indelebile. Un luogo dove storia, arte, bellezza e povertà si respirano ad ogni angolo di strada. Arrivati a destinazione scopriamo che il nostro mini- hotel, il “Domik v Kolomne”, si trova a ridosso di uno dei mille canali che caratterizzano la zona. Siamo a ovest del centro storico di San Pietroburgo, dove il Teatro Mariinsky padroneggia sulla rete di canali che unisce la città alla zona del porto. Un tempo la famiglia Puškin, proprietaria del palazzo, affittava camere in questa casa. Il grande appartamento oggi è diventato un piccolo alberghetto che nelle guide viene contrassegnato sotto la voce “per spendere poco”. L’arredamento della camera è in tipico stile sovietico. Le pareti sono rivestite di stoffa pesante, i termosifoni hanno grandezze spropositate, i letti sono piccoli e stretti ma è tutto molto accogliente, soprattutto grazie alle splendide ragazze della hall. Le uniche che abbiamo incontrato che parlassero un po’ di inglese. Claudia Mi sembra di essere arrivata alla reggia di Caserta! Il “Grand Hotel Europe”, cinque stelle naturalmente, è a dir poco spettacolare, anche se, secondo i più raffinati, il migliore della città è il “Four Seasons”. Grazie ai lavori di restauro ancora in corso di una parte dell'hotel, abbiamo usufruito dell’upgrade e cioè di un livello superiore di stanza rispetto a quella prenotata. Finiamo al Piano storico, ristrutturato com’era nella sua costruzione originale nella prima metà del ‘900. La mia camera è grande almeno 60 mq con un pianoforte a coda nel bel mezzo della stanza, un letto di quasi tre piazze e l’immancabile lampadario di cristallo che padroneggia su tutta la camera. All’intero dell’albergo, esclusi i due bar per chi volesse uno stuzzichino veloce, ci sono “solamente” tre ristoranti a disposizione della clientela, con tre tipi di cucine diverse. Il “Grand Europe” affaccia su una delle vie principali di San Pietroburgo, la Nevsky Prospekt (la Prospettiva Nevsky), dove si trova anche il centro commerciale più noto e "in" della città. Viene sconsigliato lo shopping, in questa

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città dai trecento ponti. Budapest è addirittura migliore come qualità. La verità è che tutto viene disegnato e prodotto con l’idea di una donna… diciamo oggetto. tour Claudia Va bene l’albergo a cinque stelle, va bene il lussuoso ristorante dove ho portato i miei trenta musicisti, vanno anche bene le più disparate lamentele o richieste del contrabbasso o violoncello di turno. È il mio lavoro, ci mancherebbe altro. Ma l’idea di rimanere in fila ore e ore per vedere a stento qualche opera russa all’interno dell'Hermitage mi getta nello sconforto più nero. Soprattutto perché so che il museo più famoso del mondo è composto da cinque edifici diversi e il solo Palazzo d’Inverno conta 1057 sale e 117 scaloni. Un'esperienza che eviterei molto volentieri. Questi sono i miei pensieri mentre il ragazzotto dalle guance paffute mi strappa trenta biglietti all’entrata principale del museo. Quattro ore dopo non voglio andare più via. La sterminata collezione all’interno del palazzo progettato e costruito dall’architetto Rastrelli in stile rococò racchiude in sé una sorta di storia dell’arte occidentale. Dalle ceramiche dell’alto Egitto ai gioielli dell’Età di bronzo. Artisti come Rembrandt, Rubens, Picasso e Matisse riempiono le infinite sale dove una volta risiedevano gli zar. Quando mi ritrovo dall’altra parte della Neva, ammirando la facciata del Palazzo d’Inverno che dà proprio sul fiume, mi accorgo di quanto a volte pregiudizi e pigrizia impediscano di ammirare la potenza della bellezza acclamata in tutto il mondo. Non vi incuriosiscono i vasi orientali o di Sassonia? Forse vi interessa sapere che nel 1918, nel primo anniversario della Rivoluzione, migliaia di persone arrivarono in città per un convegno di contadini, la maggior parte dei quali furono ospitati all’interno del Palazzo e che questi, in segno di disprezzo per i precedenti proprietari e per tutto ciò che avevano rappresentato, riempirono proprio quei vasi di escrementi fino all’orlo. Non basta comprarsi una guida per scoprire aneddoti o curiosità. Non è sufficiente ascoltare il racconto di qualche amico per credere di sapere tutto su un qualcosa di quasi scontato come l’Hermitage. Vi assicuro che essere circondati dal barocco italiano, l’opulenza zarista e lo splendore di un quadro di Leonardo è un’esperienza unica e irripetibile. Valentina Il mio ragazzo mi sta scattando la quindicesima fotografia di fronte al Palazzo d’Inverno, l’entrata principale dell’Hermitage. La mia visita turistica, per quanto riguar-

da l'immenso museo, finisce qui. Prima di partite mi sono avidamente documentata sulle attrattive puramente artistiche della città e ho scoperto che all’ultimo piano del Museo di Antropologia ed Etnografia esiste una sala chiamata “Kunstkamera”. In questa stanza dal soffitto verde sono collezionati feti deformi, gemelli siamesi e vari altri errori della natura. Tutto nasce dalla collezione privata di Pietro il Grande acquistata da un olandese, studioso di anatomia. I russi erano famosi per la loro superstizione così Pietro, che amava circondarsi di nani e gente dalle più strambe forme, decise di esporre la collezione al pubblico per educare il suo popolo dimostrando loro che queste malformazioni non erano dovute alla stregoneria o al malocchio ma a paure e credenze della madre durante la gravidanza che provocavano danni interni. E che quindi bisognava trattare queste persone considerate “diverse” come esseri umani, non come scherzi della natura da eliminare. Tanta era la sua convinzione che addirittura lo stesso zar allestiva dei banchetti all’esterno del museo dove offriva cibo e vodka al popolo per convincerlo ad entrare. Ai contadini che avessero dato alla luce figli deformi e li avessero portati al museo per essere esposti, veniva addirittura promessa una generosa ricompensa. Trovarsi di fronte ad un barattolo di vetro con dentro un feto di bimbo con tre teste immerso in una soluzione liquida, non è certo uno spettacolo rilassante. Ma vere o no che siano, queste creature dimostrano l’enorme modernità del pensiero del fondatore di Pietrogrado. curiosità Claudia Premessa dovuta: i teatri in Russia sono pubblici e non possono essere privati. Il principale teatro a San Pietroburgo è il Mariinsky, una delle più importanti strutture teatrali al mondo, risorta grazie al direttore d’orchestra Valerij Gergiev. Il Mikhailovsky è una struttura molto più piccola che vent'anni fa era in completo disfacimento, quando un imprenditore di banane decise di devolvere i suoi guadagni per la ristrutturazione del teatro. Il soffitto è tornato ad essere quello originario. I balconcini e la platea si rivelano accoglienti sia per il pubblico che per chi esegue. La struttura di questo posto riesce ad abbattere la quarta parete. Ti predispone alla performance teatrale. Valentina La città che sorge sul delta della Neva, il più giovane tra i grandi fiumi d’Europa, formatosi solo circa quattromila anni fa, conta più di trecento ponti. Uno per ogni suo anno di vita. San Pietroburgo fu fondata nel 1703 da Pietro

il Grande. Per chi ammira la suggestiva struttura urbanistica della città, che con i suoi ponti unifica diverse isole, un consiglio: durante i mesi estivi, alle due di notte, tutti i trecento ponti vengono alzati per permettere il passaggio della grandi navi mercantili. Ciò significa che se vi trovate nella parte est di San Pietroburgo e il vostro albergo ad esempio si trova al nord dovete sbrigarvi a tornare a destinazione perché rischiate di rimanere incastrati in un angolo di città fino alle sei del mattino. Questo spiega anche il grande fermento notturno nell’ex capitale russa. la corte delle meraviglie di Pietro il Grande Pietro beveva grandi quantità di alcol e passava buona parte del suo tempo con i membri della società segreta da lui fondata, la cosiddetta “Assemblea degli Ubriachi”. Ne facevano parte tutti gli intimi dello zar, sua moglie, il suo migliore amico (il principe Menshikov), nani, giganti, gobbi e persone con varie deformità. All’interno del gruppo, Pietro, che naturalmente era il Re, nominava un “Principe Cesare” al quale si rivolgeva con l’epiteto di sua Maestà, e un “Principe Papa” – una caricatura del Pontefice. Una delle riunioni più famose fu tenuta nel palazzo Menshkov nel 1710, quando tutti i nani dell’impero furono convocati nella capitale per partecipare ad un matrimonio di nani. conclusione “Alla fine sei riuscita ad andare all'Hermitage?”. Claudia si rivolge alla sorella soffiando sul suo caffè bollente. “No, Claudi, sono stata solo tre giorni e ho preferito fare altre giri”. “Peccato, ti sei persa un vero spettacolo”, commenta Claudia sorseggiando. “Ma lo sapevi che stando in piedi sulla riva della Neva, nella spiaggetta sottostante la Fortezza di Pietro e Paolo, si prende la miglior abbronzatura del mondo?”. Valentina ha appena versato due gocce di latte nel caffè preparato da sua sorella. La mente di entrambe ripercorre quei pochi giorni trascorsi nella stessa città. “La prossima volta andiamo insieme!”, conclude Claudia.


oltraggio al pudore di Rebecca Vespa

Re del porno, pope of porno, LB (liberatore) e ancora padre nobile dell’hard. Prodotto emblematico della rivoluzione sessuale degli anni ’70 e convinto sostenitore della pornografia. È sua la convinzione che la pornografia sia al centro della più grande rivoluzione culturale del nostro secolo. Lasse Braun è a tutti gli effetti l’uomo che ha inventato il porno in Europa. Negli anni settanta lo scrittore, sceneggiatore e regista hard di origine italiana (Alberto Ferro è il nome di battesimo), guida la più grande multinazionale del porno di tutta Europa da Stoccolma, dove si trasferisce nel ‘66. La sua battaglia epica per la legittimazione del sesso comincia storiograficamente negli anni della contestazione. L’inizio simbolico è degli anni ’60. Ragazzo venticinquenne di buona famiglia, figlio di un funzionario del Ministero degli Esteri, varca su una Triumph targata corpo diplomatico il confine Francia – Italia. Ha il cofano della macchina pieno di foto di corpi di uomini e donne nudi. Per la prima volta nella storia della pornografia nostrana, entrano clandestinamente fotografie di amplessi

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espliciti. Ma il vero e grande evento (di reale portata storica) che avvicina il pupillo del porno al suo amato pelo, risale all’autunno del 1939 a Francoforte. A soli quattro anni, Lasse ha ufficialmente il primo contatto con la sua passione: la fica, o meglio il pelo. Il pelo in questione è quello della sua governante Helga, componente della hitlerjungend, tanto che la sua stanza è drappeggiata da una grande bandiera nazista con il ritratto di un tizio coi baffetti. Quello stesso anno Lasse partecipa insieme al padre ad una riunione ufficiale a Berlino. Ricorda un salone pieno di persone, capi militari, gente in alta uniforme e un tizio in particolare, sempre con dei baffetti neri. Lasse bambino trova che il baffo del tizio e il pelo di Helga abbiano molto in comune tanto da chiedere al padre, urlando a squarciagola, di potere toccare quel familiare baffetto. La stessa persona che a quattro anni stava in braccio a Hitler, trent’anni dopo sarebbe passato alla storia come il Re del Porno. Ma torniamo ai suoi primi passi nel mondo della pornografia. Negli anni ’70, dopo l’epifanico

incontro fotografico con il pelo di Giselle, una paracadutista lesbica e grassa che faceva la parrucchiera a Bruxelles, fonda con degli amici la rivista in bianco e nero “Shadows” che raffigurava “semplicemente delle ragazze che aprivano le gambe per far vedere un po’ di pelo”. Ma la sua battaglia per lo sdoganamento della pornografia ha qualcosa di straordinario. Prima di entrare ufficialmente nel mondo del cinema porno, Lasse colleziona una laurea in giurisprudenza. È proprio la tesi di laurea che lo aiuta nella sua crociata per la libera espressione della sessualità esplicita. Nel ’69 vive a Copenhagen e riesce a far avere la sua tesi ad un deputato socialdemocratico. Questa verte sulla teoria del danno sociale che la censura può provocare, indicando i rischi e le malattie che questa può indurre reprimendo la libido. Tra gli altri spiccano l’alcolismo e la violenza sulle donne. Ebbene, nel 1969 è proprio la Danimarca la prima al mondo a legalizzare la pornografia, cancellando il reato di “oltraggio al pudore”. E così si posiziona al secondo posto tra i prodotti da esportazione più redditizi del Pa-

ese, dietro solo all’agricoltura. È solo l’inizio di un processo irreversibile, che vede nella figura di Lasse Braun uno dei maggiori protagonisti. La strategia è quella di invadere il mercato per fare pressione sulla politica: creare una specie di emergenza collettiva del porno per arrivare al traguardo della legalizzazione. Legalizzazione che si raggiunge anche negli Stati Uniti nel 1973. Dopo una sfavillante vita a luci rosse, tra un set e l’altro in giro per il mondo, negli anni ‘80, dopo quasi un ventennio di lotte, repressione, successi e casi giudiziari, Lasse Braun lascia l’attività “militante” e si rifugia nel suo lavoro di scrittore dando la luce, nel 2008, a due romanzi erotici pubblicati in Italia: “Le notti di Palermo” e “Lady Caligola”. per saperne di più Il documentario di Francesco Bernabei, “L’Alieno”, ripercorre l’opera di Lasse Braun dai primi cortometraggi hard ai lungometraggi in 35mm, dal trionfo decretato dal pubblico nel 1975 al Festival di Cannes, fino alla distribuzione internazionale delle sue pellicole.


arcani sentieri tra Praga e Parigi di Giuliano Borghi

Ti trovi a Praga e vuoi provare un’emozione speciale, perché allo stesso tempo fascinosa ed inquietante? Portati, dunque, in Via della Fontana dell’Oro, l’antica strada degli alchimisti, ospiti di Rodolfo II d’Asburgo. Lì giunto devi camminare lentamente, per poter sbirciare attraverso i vetri opachi delle piccole finestre delle vecchie officine. Lascia libera la tua mente di indietreggiare nei secoli. Sentirai, subito, di muoverti in una sorta di tempo incantato e rivedrai all’opera, nei loro antri tenebrosi, i “fabbricanti dell’oro”, curvi su alambicchi, storte e crogiuoli. Sogno, o realtà, quello di una Grande Opera, l’Alchimia, di trasmutazione dei metalli vili nella perfezione del regno minerale: l’oro! Al riguardo, non sono certo le testimonianze scritte a mancare. L’elenco degli alchimisti cui la tradizione attribuisce una riuscita completamente positiva della Grande Opera è lunghissimo. Tra i nomi più illustri, spiccano quelli di Raimondo Lullo, Basilio Valentino, Cagliostro, Paracelso, John Dee e, in particolare, quello di Nicolas Flamel. Di quest’ultimo, le cronache assicurano che alle cinque del pomeriggio del 17 gennaio 1382, assistito dalla moglie, fosse riuscito a trasformare il mercurio in oro, accumulando poi una immensa fortuna, alla fine destinata alla fondazione di ospedali, chiese, case di ospitalità per viaggiatori poveri. Di Nicolas Flamel esiste tuttora a Parigi la seconda casa, la prima essendo stata demolita sotto il Secondo Impero, in rue de Montmorency, attualmente sede della Taverna Nicola Flamel,

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rinomato ristorante cittadino. In Germania, d’altra parte, sono visibili diverse collezioni di monete e medaglie, recanti simboli e moti ermetici, coniate in una qualità purissima di argento e di oro, che viene asserito senza tema essere di fattura alchemica. Quello dei rapporti con i Grandi della storia, inoltre, è uno dei capitoli più pittoreschi della lunga vicenda dell’alchimia europea. Nessuna corte d’Europa, nel ‘500 e nel ‘600, era priva di alchimisti, chiamati dai regnanti nella speranza che, con la loro arte, potessero riuscire a colmare i vuoti forzieri del tesoro reale. L’alchimia, in verità, non fu solo ricerca ossessionante di oro e di argento. Se si scruta più a fondo, l’intenzione vera dell’Arte si rivela di ben diverso, e più profondo, significato. Ha lasciato scritto Giuseppe Salomon, famoso alchimista inglese, vissuto nel diciassettesimo secolo: “Coloro che sono felici di avere questo raro possesso, per quanto cattivi e viziosi fossero prima, sono cambiati nei loro costumi e diventate ottime persone”. I procedimenti pratici dell’Alchimia, insomma, non sono altro che la “via” iniziatica attraverso la quale l’adepto dell’Arte può operare in se stesso una rigenerazione interiore, spirituale. I tre colori che caratterizzano le tre tappe fondamentali del percorso alchemico, il nero, il bianco, il rosso, segnalano non solo la riuscita del lavoro materiale, il laboratorio, ma anche quella della conversione psichica che l’adepto deve produrre, l’oratorio. Tra il laboratorio, l’insieme delle procedure materiali, e l’oratorio,

l’ascesi interiore, è posto un legame indissolubile e la Grande Opera si svolge lungo un movimento dialettico continuo di caduta e di redenzione, di morte e di resurrezione, di “solve et coagula”, che contemporaneamente investe e possiede tanto il materiale lavorato, quanto colui che su quel materiale agisce. “L’Opera al Nero”, la putrefazione, “l’Opera al Bianco”, la purificazione, “l’Opera al Rosso”, la rubificazione, si susseguono a conseguire simultaneamente l’Oro, la purezza dei metalli e la Conoscenza, la completa rivelazione della verità del Cosmo e dell’Uomo. In breve, l’Alchimia è certamente una pratica che si appoggia su gesti concreti, su un lavoro, su tecniche, ma è anche, e soprattutto, una “filosofia” segreta. A credere ai testi lasciatici in eredità, la Grande opera è, o sarebbe, per chi si impegna in essa, la via eccellente per vivere direttamente il modo con il quale il Caos si è trovato messo in forma, per vedere, e leggere, il grande libro del Cosmo e dell’Uomo. Buon Viaggio, allora! Spinoza e l’oro alchemico Helvetius, amico del filosofo Spinoza, teneva in gran spregio gli alchimisti e li considerava solo quali ingannevoli “bruciatori di carbone”. Un bel giorno, però, esattamente il 27 dicembre 1666, uno sconosciuto entrò in casa di Helvetius e mostrò allo scettico “ tre schegge di una sostanza simile al vetro o al pallido zolfo”, contenute in una scatoletta d’avorio. Era la pietra filosofale, indispensabile per fabbricare l’oro. Incuriosi-

to, Helvetius domandò di poterne avere una piccola quantità, per tentare lui stesso l’esperimento. Lo sconosciuto oppose un rifiuto, ma s’impegnò a ritornare tre giorni dopo per dar luogo alla trasmutazione. Il giorno convenuto, in effetti, si presentò in casa di Helvetius. Questi gli confessò che, durante il precedente colloquio, gli aveva rubato un pezzetto di pietra, ma l’esperimento da lui tentato era fallito, perché il piombo non si era mutato in oro, bensì in vetro. “Avreste dovuto proteggere la vostra preda con la cera gialla”, gli rispose, allora, l’alchimista, che volle, nonostante tutto, regalare ad Helvetius un altro frammento di pietra, prima di andarsene. Trascorso un certo periodo di tempo senza che l’ospite misterioso si fosse fatto più rivedere, incitato dalla moglie, Helvetius tentò nuovamente l’opera, questa volta secondo i consigli dell’alchimista. Fuse, così, tre dramme di piombo e vi aggiunse la pietra coperta di cera: nel crogiolo, questa volta, si formò l’oro. Per avere piena certezza del risultato, lo strabiliato Helvetius portò il metallo al più esperto orefice della città. Questi, dopo averlo scrupolosamente saggiato, gli dichiarò di non aver mai visto, nella sua pur lunga carriera, un oro più puro di quello. Saputo della faccenda, ma di essa dubitando, Spinoza si volle recare dall’orefice, per interrogarlo direttamente. Avutane, invece, piena conferma, si portò di corsa alla casa di Helvetius, dove poté ammirare, e invidiare, l’oro fabbricato da Helvetius e l’athanor, il crogiolo, usato per la lucrosa trasmutazione.


libri a cura di Claudia Bena

Dalla disillusione dell’american way of life ai giorni nostri, uno sguardo disincantato sull’impero americano. Dall’amara consapevolezza di Yates fino alla scelta estrema di Wallace, passando per il disagio alcolico di Carver.

“Considera l’aragosta”

“Disturbo della quiete pubblica” di Richard Yates

“Lolita” di Vladimir Nabokov Editore: Adelphi Anno: 1955 Euro: 10,00 Pagine: 395 Russo d’origine ma americano d’adozione, Vladimir Nabokov viene giustamente considerato il padre del post modernismo americano. Il suo romanzo più famoso, Lolita, è un viaggio per la provincia statunitense del dopo guerra. E’ tante soste in squallidi motel, a caccia di statue e monumenti, sfuggendo alla polizia, alla ricerca di una sensazione infantile non compiuta che crea nel protagonista traumi irreparabili. La ninfetta più famosa dello schermo è il tragico specchio della precocità preadolescenziale contemporanea.

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Editore: Minimum fax Anno: 1975 Euro: 10,00 Pagine: 285 Per fortuna c’è Yates, che con i suoi drammi ci trascina fino al limite estremo delle esperienze umane, si ricopre di fango per noi e, soffocandoci dentro, ci purifica. I suoi libri sono a un senso solo. Non c’è liberazione, né lieto fine. È l’ineluttabile capitolazione dell’uomo fino all’autodistruzione. A metà racconto c’è uno spiraglio, una luce, un momento di positività attraversato dal protagonista, ma non v’illudete: serve a rendere la caduta più spettacolare, il tonfo più forte. Ci presenta il personaggio quando ormai è troppo tardi. È già andato. E noi riusciamo ugualmente ad affezionarci.

“Di cosa parliamo quando parliamo d’amore” di Raymond Carver Editore: Minimum fax Anno: 1981 Euro: 12,00 Pagine: 151 Maestro indiscusso del minimalismo americano, con i suoi racconti ci inserisce in medias res nelle vite dei protagonisti, americani medi, che non hanno bisogno d’introduzione. Nelle loro esistenze il dramma è già in atto: la realtà stessa. La situazione è comune: il disagio. Familiare o lavorativo. Solitudine o vuota compagnia. La soluzione è la stessa: l’alcol. Diciassette racconti sulla provincia americana che ci conducono attraverso l’irreversibilità del declino dell’essere umano fino alla rovina della società. Non c’è via di scampo: questa è l’america oggi! Nel 1993 Altman traduce i racconti di Carver nel film “Short Cuts”, Leone d’Oro al festival di Venezia come miglior film.

di David Foster Wallace Editore: Einaudi Anno: 2006 Euro: 15,50 Pagine: 382 Se ci fermassimo a pensare alla sofferenza dell’aragosta bollita viva, crollerebbero le deboli basi dell’esistenza contemporanea. Wallace lo ha fatto per noi. L’autore di “Infinite Jest”, romanzo fondamentale del XX secolo, affronta il fardello delle contraddizioni made in U.S.A., dall’industria del porno (saggio che ogni donna dovrebbe leggere per far pace con l’universo maschile) a McCain, anticandidato alle elezioni presidenziali del 2000; dalla sagra dell’aragosta nel Maine ad una lezione su Dostoevskij che fa venire voglia di rileggerne i libri. Ultimo grande rappresentante del post modernismo statunitense, Wallace è il tragico simbolo del prodotto americano. Genio ironico nei testi, non sostiene il peso della sua conoscenza. La scelta di morire è il suo racconto finale, riflesso del disagio.


da Onur Özer a Hussein Chalayan di Marianna Kuvvet

Istanbul. Provate a pensarci, ad immaginarla. Le strade frenetiche di Sultanahmet, l'atmosfera surreale della cisterna sotterranea, gli innumerevoli minareti, l'imponenza di Santa Sofia. La città turca, erroneamente considerata da molti la capitale, non ha eguali. D'altronde è l'unica città al mondo a trovarsi a cavallo di due continenti. Vi pare poco? L'Asia e l'Europa si incontrano, architettura bizantina e moderna si fondono. Passeggiare per la città vuol dire attraversare culture diverse, incontrare donne che indossano il burqa e ragazze che fanno shopping da Topshop o bevono caffè da Starbucks nel quartiere di Taksim. Se pensate che Istanbul abbia qualcosa da invidiare alle capitali europee vi sbagliate. Qui la tradizione incontra l'avanguardia. Monumento alla modernità è l'Istanbul Modern, museo di arte contemporanea situato nel distretto di Tophane, sul Bosforo, un enorme ex magazzino convertito in tempio della creatività. Fra i vari artisti che espongono, Hussein Chalayan (al secolo Hü-

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seyin Çaglayan), “intruso” nel mondo dell'arte, stilista geniale e visionario. Turco-cipriota di nascita e inglese d'adozione, il versatile designer, che fra l'altro ha rappresentato la Turchia alla 51esima Biennale di Venezia, sfila sulle passerelle europee e riesce a stupire ˘ ogni volta. Chalayan ha da poco proposto a Parigi, per la stagione AI 2009/10, una collezione elegante e tecnologica, con mini abiti in neoprene, bustini dai colori shock e stivali in pelle nera alla Pretty Woman, che già si impongono come il “must have” invernale per le fashion victim di tutto il mondo. D'altra parte lo stilista non è un'eccezione, quanto piuttosto la punta di un iceberg, un iceberg di creativi turchi meno conosciuti al grande pubblico ma non per questo meno interessanti. Sicuramente, passeggiando per le strade di Istanbul, non si rimarrà colpiti dallo stile impeccabile dei passanti, ma il motivo non è certo una carenza di boutique o stilisti di tutto rispetto. Ha da poco debuttato sul mercato europeo, dopo essere sbarcata in Giappone, la linea d'abbiglia-

mento Etcetura, delle sorelle Ezra e Tuba Çetin. Queste propongono abiti il cui stile richiama le atmosfere Eighties, ma realizzati in tessuti moderni, elasticizzati, spalmati o in silicone. Istanbul, forse facendosi forza del proprio potere nel tessile, inizia a farsi avanti nel mondo della moda. Se si visita la città per la prima volta e l'obiettivo è fare shopping, non serve una mappa o una guida. Basta perdersi per le vie dei numerosi quartieri, da Taksim a Cukurcuma, da Beyoglu a Levent. È invece nella zona di ˘ Nisantasi la boutique della stilista Bahar Korcan, che realizza abiti in Lycra. La designer è conosciuta in tutto il mondo per le sue creazioni, attraverso le quali vuole filosofeggiare e rappresentare l'impatto degli esseri umani sui cambiamenti in atto nel mondo. Nessun colore è scelto meramente per motivi estetici, bensì in base al “significato nascosto”: così il verde rappresenta la speranza, il nero, il pessimismo. Insomma, le scelta è vasta e ce n'è un po' per tutti i gusti. Imperdibile, ovviamente, il centenario Gran Bazar a Beyazit, para-

diso in Terra per qualunque shopaholic che si rispetti: oltre 4000 (quattromila!) fra negozi, stand e bancarelle di ogni genere lo rendono infatti il più grande mercato al coperto del mondo. E se dopo una giornata di shopping frenetico non siete ancora stanchi, la nightlife istanbuliota non vi deluderà. Dopo una cena con vista sul Bosforo illuminato e un brindisi con il raki, le alternative sono tante. D'altra parte questa è la città di Onur Özer, dj/producer che ha contribuito alla nascita della club scene turca. Oggi con la Vakant, etichetta tedesca di Berlino, Onur è stato consacrato maestro del minimal funk. La sua è un'elettronica nuova, a volte aggressiva, spesso folkloristica e dalle influenze arabeggianti. Re indiscusso di una nuova scena, quella di Istanbul, nella sua musica c'è tutta la città, con le sue mille culture ed influenze, punto d'incontro fra Occidente ed Oriente. a destra: designmuseum.org foto di Luke Hayes


dementia cinefila di Marco Costa

Un cagnolino anfetaminico infilza i suoi canini nei testicoli di un malcapitato, fratelli siamesi che cercano di correre in direzioni opposte, vicini di casa che si sfidano a chi possiede più macchinari per la TAC, ergastolani che si violentano romanticamente nel cortile di un carcere, e poi ancora nani, albini, storpi, obesi, donne amazzoni sulla luna, poliziotti dalle pallottole spuntate e collegiali cattoliche in calore. Schegge di un genere cinematografico ancora oggi frainteso o pregiudizialmente sottovalutato, acquisito per discendenza nella galassia del genere commedia ma non ancora definito entro ragionati canoni e stilemi: il cinema demenziale. Questa variante del comico, che affonda le sue radici nell’assurdo, nell’astratto e nel nonsense, vie-

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ne spesso fatto risalire dai critici all’anno 1977 quando apparve sugli schermi americani “Animal House”, diretto da John Landis e interpretato dall’icona gommosa e caustica John Belushi. Un film che possiede legami sia con la commedia giovanilistica nostalgica alla “American Graffiti” che con la farsa parodica, riconosciuto come ufficiale capostipite del filone. Ma se è vero che sul finire dei '70 con il programma geniale dei Monty Python trasmesso sulla Bbc, ma soprattutto negli anni '80 con il capolavoro catastrofico “L’Aereo più pazzo del Mondo” del trio Zucker-Abraham-Zucker, il genere demenziale si consoliderà in un vero e proprio filone con tanto di saghe (“Scuola di Polizia”, “La Pallottola Spuntata”, “Hot Shots”, “Scary Movie”). La genesi di questa demenza libera

si può far risalire addirittura agli inizi del cinema, quando insieme ai primi vagiti della narrazione cinematografica bipolare (realismo e fantastico) vide la luce la terza via, quella della “comica finale”, tipo “L’innaffiatore annaffiato” di Louis Lumiere. Anche grazie a maestri come Chaplin e Keaton, che avevano sollevato il genere comico fino sublimi altezze, la gestazione del canone demenziale trovò un suo momento topico già nel film del 1933 “La guerra lampo dei fratelli Marx” dove il pretesto dello script offriva al quartetto la possibilità di declinare l’armamentario umoristico fino al parossismo, costruendo surreali gag fisiche e verbali che sono alla base del cinema demenziale dell’ultimo trentennio da Woody Allen ai Fratelli Farrelly. A differenza dell’umorismo orto-

dosso che prevede l‘accettazione di alcune regole ferree riguardo l’unità di luogo o i limiti fisici dell’attore comico, il demenziale ha sempre offerto ai suoi fautori la libertà dadaista di travalicare credulità e buon senso per spingersi ai limiti più caustici della critica ed all’onnipotenza narrativa, ammettendo ogni genere di stortura fisica e psichica pur di ottenere l’effetto del “ridere per ridere” come alleggerimento dell’anima. Ma se il suddetto genere è stato da sempre un cavallo di battaglia della cinematografia nordamericana, che ne aveva decretato il successo con una mercificazione livellata incessantemente verso il basso, nel 2001 con l’uscita di “Shaolin Soccer” di Stephen Chow, per gli amanti del genere, fu come udire uno squillo di tromba. Il tumultuoso “Kung Fusion” del


dal film “Kung Fusion” di Stephen Chow

2005 e il toccante “CJ7” del 2008 hanno poi confermato quanto di buono si era detto di questo formidabile ragazzo cantonese, autore, attore, regista e produttore dei suoi film. Riallacciandosi profondamente all’estetica della cultura asiatica e sfruttando evoluzioni tanto fisiche quanto linguistiche, Stephen Chow, dopo il grande successo in patria, si è così imposto anche sul mercato internazionale grazie alla sua comicità "moleitau", termine equivalente a "nonsense" con il quale viene identificato il suo umorismo, capace di far collimare insieme Chaplin e Keaton, Jerry Lewis e Willy Coyote, con azioni coreografiche di imprevedibile e irresistibile allegra follia e, con l'ausilio della tecnica digitale, a modificare la violenza

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in assurde gag grottesche. La legittimazione autoriale del genere demenziale è stata sancita l’anno scorso anche dalle candidature agli Oscar 2009 dove nella categoria miglior attore non protagonista era presente Robert Downey Junior, per il suo ruolo del soldato di colore nel film diretto da Ben Stiller “Tropic Thunder”. Nel film parodia del genere guerra in Vietnam le grandi capacità di questo attore controverso, che interpretava un'altrettanto debosciata star hollywoodiana finita metacinematograficamente ad interpretare nientemeno che un soldato di colore (in un crogiuolo comico di tutta la retorica razziale di cui la cultura americana è impregnata), sono servite a sublimare il giudizio dei critici sulle

reali intenzioni di svago del film. Una candidatura che riconsegna il rispetto dovuto a geni come Leslie Nilsen, Chevy Chase o Steve Martin ignorati a loro tempo dai membri dell’Academy. Anche in Italia si è ultimamente cercato di rinverdire i fasti del demenziale che nel giro di un ventennio, dalla fine degli anni Sessanta alla fine degli anni Ottanta, aveva visto un virtuale passaggio di consegna dalla comicità burlesca di Franco e Ciccio a quella più (s)boccaccesca dei vari Banfi, Vitali e Abatantuono, che spesso e volentieri scadevano volontariamente nel trash. Promotore dell’operazione è stato Pino Insegno che in co-regia con Gianluca Sodaro ha girato “Ti Stramo” estremo tentativo di parodiare in chia-

ve assurda il filone dei teen movie italiani attraverso la caricatura del suo interprete simbolo Riccardo Scamarcio. Sebbene l’operazione si possa definire tutt’altro che riuscita, risentendo della pochezza immaginativa degli autori, si può valutare come un segnale positivo di apertura al cinema di genere che è di vitale importanza per la sopravvivenza della creatività filmica del nostro Paese.


NEL PROSSIMO NUMERO... foto di Valerio Vittozzi


I p a n o r a m i p i ù a f fa s c i n a n t i ? Qu e l l i c h e s i v e d o n o d a i gr a t t a c i e l i dei m i g l i o r i a l b e r g h i . Le e s c u r s i o n i p i ù fa t i c o s e ? Qu e l l e p e r n e g o z i e c e n t r i c o m m e r c i a l i e v i g i u r o c h e fa r l o s u l l e m i e J i m m y C h o o è d a v v e r o u n’ i m p r e s a . Us a n z e l o c a l i ? N o n è c h e a b b i a b e n c a p i to c o s a int e n d ev a q u e l t i p o d e l l a r e d a z i o n e. Co n o s c o b e n e i l o c a l i , n o n l e u s a n z e. An c h e u n p o ’ d i c u l t u r a q u a n d o v e n g o i nv i t a t a ai v e r n i s s a g e ( n o n r i c o r d o b e n e d i c h i f o s s e l’u l t i m o m a s i b ev ev a o t t i m o c h a m p a g n e ! ) La Miss

the chic trip JAIPUR: UN PARADISO CHE PUZZA DI CURRY Il mio primo viaggio in India, lo scorso anno, è un’esperienza da dimenticare. Mi sono fatta trascinare da un gruppo di amiche zaino-in-spalla a Jaipur, per fare un bel giretto culturale tra puzza di curry e mercatini scadenti. Non dovete giudicarmi subito. Ero molto depressa dopo la fine dell’ennesima relazione difficile. E le mie amiche, le Chanel-in-spalla, erano tutte a Parigi per la settimana della moda. Avrei potuto raggiungerle? Certo che no, dato che all’ultimo momento la mia personal shopper non poteva aiutarmi a scegliere i capi giusti da indossare per l’occasione. Una tragedia.

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Beh, mi sono rattrappita sul sedile di un aereo per Delhi in classe economica. Dopodiché, alla sei di mattina, senza neanche aver avuto il tempo per una maschera rigenerante, sono stata costretta a prendere un treno per Jaipur. Si dice che le donne rimuovano dalla memoria i ricordi del parto, o di altre sensazioni orrende. Io quel treno l’ho rimosso. Una volta a Jaipur mi rendo conto che gli indiani hanno uno stile strepitoso. Abiti coloratissimi, stoffe pregiate, decorazioni, hennè, kajal. Sicuramente qui John Galliano va per la maggiore. Convinco le mie amiche a prendere un taxi fino all’albergo che hanno prenotato, l’Hotel Classic Holidays. Oh mio Dio. Che nome. Che hall squallida. È un incubo. Dopo essermi fatta forza, trascino i miei due trolley di Prada in cima alle scale (di un facchino neanche l’ombra!) fino alla mia stanza. No. NO. NOOO! Mi precipito in strada, prendo un

taxi al volo e dico: “Mi porti nell’albergo più bello di Jaipur, per favore”. The Oberoi Rajvilas è il paradiso. Sembra di trovarsi in una favola in questo parco incantato fatto di intrecci di vegetazione e corsi d’acqua. Lontano dal caos, dai bazaar della città, dal curry. Alla reception mi informano che l’unico alloggio disponibile è la Kohinoor Villa, con piscina privata e tre camere da letto. Non me ne importa niente. Voglio restare qui, voglio una stanza con la sauna. Voglio un massaggio “Touch Therapy”, che dall’illustrazione sulla brochure della Spa sembra sublime. In effetti mi è costato caro, ma ho invitato le mie amiche zaino-inspalla a cena nel gazebo a bordo piscina. Ci siamo fatte portare del cibo squisito dal ristorante dell’albergo, il Rajmahal, abbiamo bevuto un ottimo Indage Chardonnay del 2006 e poi, dato lo spazio a disposizione, si sono fermate a

dormire in due invitanti letti a baldacchino. E si sono divertite. Il giorno seguente siamo andate a vedere l’osservatorio astronomico di “Jantar Mantar” (ho addirittura cercato il nome sulla guida!) e il Palazzo di Amber. Ovviamente dopo una full immersion di architettura e storia avevo bisogno di un po’ di shopping. Sulla M.I. Road ho trovato un negozio di gioielli incantevoli. Si chiama Amrapali, è una boutique coloratissima che realizza gioielli per il cinema. Sono sicura di aver visto uno di quei collier addosso a Nicole Kidman alla Notte degli Oscar… Con quello potrei anche volare subito a Parigi… per saperne di più jaipur.org.uk oberoihotels.com e perchè no johngalliano.com


distribuzione ROMA 40 GRADI Via Virgilio 1 ARCHIMEDE 80 Via Archimede 80 ATELIER 35 Via Valpolicella 35 BAR DEL FICO Piazza del Fico 26 BIBLI Via dei Fienaroli 28 BOHEMIENNE Via dei Cappellari 98 BUCAVINO Via Po 45 CAFFÈ FANDANGO Piazza di Pietra 32/33 CAFFÈ LETTERARIO Via Ostiense 95 ex Mattatoio CARGO Via del Pigneto 20 CONTESTA ROCK HAIR Via del Pigneto 75 Via degli Zingari 9/10 CREATIVE ROOM ART GALLERY Via Tommaso Campanella 36 DEGLI EFFETTI Piazza Capranica 79 DULCAMARA Via Flaminia 449 DUKE'S Viale dei Parioli 200 EMPRESA Via dei Giubbonari 25/26 FABRICA Via Girolamo Savonarola 8 FLANEUR Via Flaminia Vecchia 730/A FLU CAFÈ Via Alessandro Scarlatti 4 FRENI E FRIZIONI Via del Politeama 4/6 GOA CLUB Via Giuseppe Libetta 13 IL BARETTO Via Garibaldi 27 JARRO Piazzale di Ponte Milvio 32 JARRO SHOWROOM Piazzale di Ponte Milvio 32 KOOB LIBRERIA Via Luigi Poletti 2

LA MAISON RETROUVÈE Via Flaminia 479 L'ALTRO CHIOSCO Piazzale di Ponte Milvio L'ALTROQUANDO Via del Governo Vecchio 80 LE TESTE MATTE Via dei Baullari 113/114 LIBRERIA CAFFÈ BOHEMIEN Via degli Zingari 36 MOLLY MALONE Via dell'Arco di San Callisto 17 NECCI Via Fanfulla da Lodi 68 OSTERIA ROUGE Via dei Sabelli 193 PANAMINO BAR Parco Y. Rabin 23 Via Panama PARIS Via di Priscilla 97/99 PIFEBO Via dei Serpenti 141 Via dei Volsci 101/B RASHOMON CLUB Via degli Argonauti 16 RGB46 Piazza di Santa Maria Liberatrice 46 ROCK CYCLE Via dei Volsci 44b RRTREK - RIFUGIO ROMA Via Ardea 3/A SALOTTO 42 Piazza di Pietra 42

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CAPE TOWN CAFÉ Via Vigevano 3 CIRCUSTUDIOS Via Pestalozzi 4 EMPORIO 31 Via Tortona 31 EXPLOIT Via Pioppette 3 FRIP Corso di Porta Ticinese 16 INTRECCI Via Larga 2 LA CASA 139 associazione culturale A.R.C.I. Via Ripamonti 139 LA SACRESTIA Via Conchetta 20 TAD Via Statuto 12 TRATTORIA TOSCANA Corso di Porta Ticinese 58 WOK Viale Col di Lana 5/A

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L'IMPULSO DELLA NATURA



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