the trip
N째3 / maggio-giugno 2010 / free press
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Fly Livingston.
VILLA APERTA 2010
MUSTANG / DOMINIQUE A. / GET WELL SOON / SOURYA + NELSON
Festival Villa Aperta 2010 prima edizione 04.06 05.06 06.06 07.06
Mustang Dominique A. Get Well Soon Sourya + Nelson
Villa Medici Viale trinita dei Monti,1 00187 Roma
Orario 21:00 Prezzo 10€ per concerto 15€ per 2 concerti
www.villamedici.it Villa Aperta tel : 0667611
Livingston è la compagnia aerea italiana leader per i voli leisure. Ecco perché viaggiare con noi è un perfetto mix di comfort, innovazione, qualità e sicurezza per raggiungere Caraibi, Centro America, Oceano Indiano, Africa, Mediterraneo, Mar Rosso, Isole dell’Atlantico e Medio Oriente. Volate con Livingston: ad ogni volo sarete con noi ambasciatori dell’eccellenza italiana nel mondo.
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Live comfortable.
1907 2010
“Quello che dobbiamo dimostrare oggi è che dal momento che l'uomo ha l'automobile, egli può fare qualunque cosa ed andare dovunque. C'è qualcuno che accetti di andare, nell'estate prossima, da Pechino a Parigi in automobile?” Parigi, 1907 “Le Matin” È il 31 gennaio del 1907. Il principe Scipione Borghese se ne sta beatamente seduto davanti al suo camino nella tenuta Salviati di Migliarino, tra Bologna e Siena, sfogliando diversi giornali. Quando l'occhio gli cade sull'annuncio pubblicato dal quotidiano francese “Le Matin”. Il principe non sta più nella pelle. Esperto alpinista, esploratore e amante di motori decide quale sarà la sua prossima avventura. Chiama il suo fedelissimo meccanico Ettore Guizzardi e prepara personalmente la sua Itala da quaranta cavalli. Sostituisce i parafanghi con delle assi asportabili da impiegare come rampe per gli ostacoli, e decide di utilizzare – a differenza di tutte le auto dell'epoca – pneumatici anteriori e posteriori delle stesse dimensioni così da renderli intercambiabili. Alle otto del mattino del 10 giugno del 1907, Scipione parte da Pechino alla volta di Parigi. Con lui e Guizzardi 04
c'è anche un altro passeggero. Luigi Barzini, inviato speciale del “Corriere della Sera” che renderà l'impresa memorabile grazie ai dispacci inviati in redazione dalle più disparate stazioni di posta telegrafica. Articoli pubblicati, oltre che dal “Corriere”, anche dal “Daily Telegraph”. E spediti lungo i pali per migliaia di chilometri, rimbalzando tra Pechino, Shanghai, Hong Kong, Singapore, Gibilterra, Londra, per arrivare in tempo in redazione così, al mattino, i lettori avrebbero potuto seguire le avventure dell'Itala. Sedicimila chilometri. Sessanta giorni di viaggio. Cina, Mongolia, Siberia, deserto del Gobi, monti Urali, Unione Sovietica, Germania, Francia. Il 10 agosto alle quattro del mattino l'Itala varca per prima il traguardo parigino, consegnando alla storia il primo grande raid automobilistico che oggi tutti ricordano grazie al reportage del re degli inviati Barzini, pubblicato al suo rientro: “La metà del mondo vista da un'automobile”. Quando ho cominciato a fare questo mestiere ho scoperto diversi aneddoti e luoghi comuni del settore ma c'è sempre stata una frase che mi ha colpita più di tutte: “Fare il giornalista è sempre meglio che lavorare”. L'ho trovata da subito leggermente sconveniente e quasi denigratoria per chi realmente vuole fare il giornalista. Della serie: come darsi la zappa sui piedi da soli. Poi ho scoperto che veniva attribuita proprio a Barzini e mi sono trovata improvvisamente in piena sintonia. Scorrazzare a cavallo di una Fiat in giro per il mondo. Ritrovarsi in Siberia con “strani individui” che non parlano la tua lingua e che non sanno cosa sia un motore. Percorrere la Transiberiana
con accanto un principe. Essere il primo testimone di popoli ed usanze praticamente sconosciuti è decisamente meglio – per dirla alla Barzini – che lavorare in miniera. Non entro nel merito di eventuali pecche o difetti di quella che viene definita l'ennesima “casta” del nostro paese, della quale evidentemente faccio parte e che difendo per partito preso. Perché lo spirito del Barzini senior è esattamente lo spirito di “the trip”. Con una leggera differenza. Oggi non c'è più bisogno di dimostrare che con la macchina si può arrivare ovunque, come nel 1907. Oggi c'è bisogno di dimostrare che con i nuovi mezzi tecnologici, Internet, GPS, iPhone, la comunicazione può essere messa al servizio di chiunque. A piedi, in bicicletta, in macchina o in autostop le testimonianze dirette del singolo possono arricchire l'intera umanità. Quindi tenetevi pronti. Occhialoni e casco da aviatore sono d'obbligo per gettarvi in questo terzo raid che “the trip” vi presenta. Scoprirete come ad Haiti il Cristianesimo sia diventato voodoo, come gli opali dell'Australia ricordino la corsa all'oro del vecchio Far West, come la musica del Portogallo racchiuda in sé tutta la storia dei lusitani. Non mi resta che rinnovare l'appello sulla scia de “Le Matin”: c'è qualcuno che accetti di seguire le orme del nostro Barzini e travestirsi da inviato speciale per raccontare le sue storie a “the trip”? Per rimanere in tema di citazioni: altro giro, altra corsa. Valentina Diaconale
sommario
04
08 eventi dal mondo
editoriale
intervista
Australia
voodoo
42
38 inviati
50
48 Lisbona
58 caffè a Istanbul
56 Indonesia
60 Seoul
64 freak show
46 libri
Gerald Bruneau
Death Valley
24
16
15 pagina del fotografo
12
62 la Mola
68 nel prossimo numero
70 the chic trip
redazione the trip N° 3 maggio/giugno 2010
sede redazione Via Apollo Pizio 13 – Roma
direttore responsabile Valentina Diaconale direttore editoriale Lorenzo Verrecchia lorenzoverrecchia@thetripmag.com vicedirettore Veronica Gabbuti capo redattore Francesca Rosati art director Andrea Bennati responsabile marketing Luca Salice lucasalice@thetripmag.com
Registrazione Tribunale di Roma n. 329 del 6 ottobre 2009
editore Associazione di promozione sociale “ELLE” centro stampa ATI Arte Tipolitografica Italiana srl Via Nicaragua 8 – 00040 Pomezia (RM) atispa.com sede legale Via Gasperina 188 – Roma
hanno collaborato Tyler Andre, Claudia Bena, Alessio Buscioni, Eleonora Carlascio, Natalia Ceci, Carlotta Cerulli, Marco Costa, Giorgio Fiorilli, Luisa Gui, Roy Halstead, Marianna Kuvet, Roberto Laurenzi, Rene Lovit, Natasya Martelli, Anna Mastrolitto, Elisabeth Mladenov, Alexandra Rosati, Gianmaria Schönlieb, Tim Smit, Arianna Spagnolo, Matteo Tabacchini, Rebecca Vespa. foto Francesco Alesi – anraphotos.com Matteo Armellini – matteoarmellini.com Matteo Bellisario – mat.bellisario@gmail.com Gerald Bruneau – blackarchives.it Natalia Ceci – la mente dell’attore (facebook)
Marco Dormino – ocram2001@libero.it Adriana Faranda – myspace.com/AdrianaFaranda Roy Halstead – royshalstead@gmail.com Sonia Hita – flickr.com/sonsonrisa Alessia Laudoni – alessialaudoni.com Ales Prikryl – dusttoashes.net La foto in copertina è di Marco Dormino lightstalkers.org/marco-dormino L’illustrazione dell’editoriale è di Kero kerousel.com contatti info@thetripmag.com - thetripmag.com
eventi dal mondo a cura di Francesca Rosati
EL KELAA M’GOUNA (MAROCCO) 14 MAGGIO – 17 MAGGIO “FESTIVAL DELLE ROSE” Maggio è il mese migliore per andare in Marocco. Il clima è mite, Marrakech non è (ancora) invasa dai turisti ma, soprattutto, la Vallée des Roses è un incanto per gli occhi e… per il naso! Tra le aride alture dell’Alto Atlante, non lontano dal deserto più deserto del mondo (quello del Sahara), l’intera valle fiorisce di delicate e tenaci rose persiane, di color rosa antico e con un profumo che inebria, che, secondo la leggenda, sono state importate dalla Mecca. La loro fioritura è celebrata in un evento che ha luogo nella piccola El-Kelaa M’Gouna, nota per essere il principale centro di produzione di acqua di rose e di tutti gli altri preparati realizzati con le foglie della pianta. I coltivatori delle colline e dei villaggi vicini scendono in città per sfoggiare e celebrare la raccolta, mentre meravigliose donne berbere ballano sotto una pioggia perpetua di petali. Nelle vie della città sfliano carri decorati e risuonano trombe e tamburi. marocco.it COPENHAGEN (DANIMARCA) 2 GIUGNO – 6 GIUGNO “DISTORTION” Dura cinque giorni questa vera e propria maratona che prevede ottanta feste in ottanta location diverse: locali, autobus, cortili, ponti, barche e afterparty in luoghi più intimi. Per gustarsi il tramonto nordico, dal pomeriggio fino alla sera vi sono le Block Party, durante le quali più di diecimila persone festeggiano, fanno breakdance, cucinano, si spogliano e passeggiano per le strade, ogni giorno in un quartiere diverso della città. E poi la sera, fino alle prime ore dell’alba, da non perdere il Club Clash. Acquistate il TurPas, che dà accesso a tutte le serate, e gode08
tevi la musica dei maestri d’Europa fino al Distortion Final Party (che ha sempre luogo il primo sabato di Giugno). cphdistortion.dk HAVANA (CUBA) 8 GIUGNO – 27 GIUGNO “FESTIVAL INTERNACIONAL BOLEROS DE ORO” Sensuale e malinconico. Il bolero è un genere antico ma ancora seguitissimo, che viene celebrato a Cuba, sua terra madre, con un evento riconosciuto come il più importante del mondo. Compositori, esecutori, ricercatori e amanti del genere si riuniscono da ventitré anni all’Havana e nei dintorni per concerti e manifestazioni. cubaabsolutely.com ISOLA DI WIGHT (INGHILTERRA) 11 GIUGNO – 13 GIUGNO “ISLE OF WIGHT FESTIVAL” Simbolo della rivoluzione culturale del 1968 (anno di debutto del festival), non è una mera icona dei meravigliosi anni Sessanta e Settanta, ma una celebrazione del rock e del folk che raccoglie tutt’oggi fan da tutto il mondo. Non sarà più possibile sentire l’esibizione memorabile di Jimi Hendrix del 1970, ma ogni anno ospiti d’eccezione assicurano la riuscita del festival. Per questa edizione è stata da poco confermata la presenza di un certo Paul McCartney… isleofwightfestival.com MACAO (CINA) 12 GIUGNO – 16 GIUGNO “DRAGON BOAT FESTIVAL” Si tratta di un festival antico, organizzato per commemorare l’eroico poeta Wat Yuen che, per protestare contro la corruzione, si annegò. Le competizioni sulle dragon boat si svolgono in uno dei due laghi artificiali di Macao, il pittoresco Nam
Van. Moltissime squadre locali e straniere partecipano a questo evento coloratissimo, sulle tipiche canoe da venti posti con le tradizionali teste da dragone. macautourism.gov.mo BALI (INDONESIA) 12 GIUGNO – 10 LUGLIO “BALI ARTS FESTIVAL” È incredibile quanto costi poco questo evento se si considera che dura un mese e che è preceduto da selezioni locali nei villaggi e paesi dell’isola. Il Bali Arts Festival è un’occasione unica per il turista di vedere e assaporare la vita vera dei balinesi, grazie alle performance, ai mercatini d’artigianato e alle tante altre attività culturali e commerciali che si susseguono quotidianamente. baliartsfestival.com SAN FRANCISCO (STATI UNITI) 26 GIUGNO – 27 GIUGNO “SAN FRANCISCO PRIDE” Oltre ad essere una manifestazione all’insegna della libertà, dell’educazione e dei diritti della comunità LGBT (lesbiche, gay, bisessuali e transessuali), quella di San Francisco – conosciuta come una delle città più tolleranti in questo senso – è una vera e propria festa vivace e colorata, arricchita da duecento parate e trecento artisti che si esibiranno in diciannove location diverse, tra palchi e locali vari. Da non perdere la celebrazione di quest’anno, che festeggia il suo quarantesimo compleanno, in cui il tema sarà, appunto, “Fourty and Fabulous” (quaranta e favolosi). Come sempre la partecipazione è aperta a tutti: non c’è un biglietto ma sono ben accette delle donazioni. sfpride.org
Dall’incontro tra la fotografa Alessia Laudoni ed Anna Mastrolitto, curatrice di eventi, nasce il progetto Travelling Around Music: un viaggio attorno all'anima e l'essenza di alcuni degli eventi più significativi della cultura musicale indipendente. travellingaroundmusic.com
TRAVELLING AROUND MUSIC VS PRIMAVERA SOUND BARCELONA foto di Alessia Laudoni
Il Primavera Sound è diventato in questi anni sinonimo di qualità, impegno, rischio, coerenza ed eclettismo. Fin dalla sua nascita il festival ha offerto la possibilità di
vedere diverse esibizioni: dalle nuove promesse indipendenti agli artisti affermati di qualsiasi stile o genere. Lo dimostrano gli artisti che nel corso di dieci anni hanno animato le notti dell'ultimo weekend di maggio della capitale catalana, fra questi: Aphex Twin, Sonic Youth, Portishead, Yo La Tengo, Lou Reed, My Bloody Valentine, Pulp, Patti Smith, Arcade Fire, Public Enemy, Devo, Moderat, The White Stripes, Wilco o PJ Harvey. Il festival avrà luogo, dal 27 al 29 Maggio a Barcellona, in uno scenario dove il mare fa da sfondo alle attuazioni di più di centosettanta gruppi che dettano legge nell'ambiente underground del pop, del rock e dell'elettronica: Pet Shop Boys, Pixies, Pavement, Orbital, The Field, Charlatans, Diplo, The XX,
Tortoise, Atland Sound, Delorean, The Big Pink, Beack, fra i tanti. Ce ne è per tutti i gusti e per tutte le età, per lasciarsi trasportare dalle emozioni che la musica e l'ambiente possono generare: feel free è il motto. Un movimento continuo caratterizza il festival, un fiume di persone che vagano metaforicamente e fisicamente seguendo mappe sonore e sensoriali. Tutto si mescola, tutto si confonde: luci, colori, suoni, e nel buio tutto si unisce. Quando il cielo diventa rosa e le nuvole si allontanano dall'orizzonte, qualcuno ci informerà sul prossimo after e il giorno non avrà mai fine, fino a quando un biglietto aereo ci ricorderà l'appuntamento con la realtà. Anna Mastrolitto annamastrolitto.blogspot.com
l’ultimo dei Nukak di Rebecca Vespa
Video maker, autore di format e packaging TV, regista e autore televisivo per caso. Roberto Laurenzi voleva fare il pilota aeronautico, ma si scopre daltonico a diciassette anni e il sogno finisce lì. Un anno fa parte alla volta della Colombia. Deve realizzare la puntata pilota di un serial TV dal titolo “ECZONE, i luoghi del conflitto ambientale”. Si ritrova nel bel mezzo dell’Amazzonia, in luoghi dove si consumano vere e proprie guerre silenziose. Esperto di tematiche socio-ambientali, Roberto ci racconta quella che lui definisce “un’esperienza che muove un'idea”. Ciò che non c’era, ciò che si pensava fosse soltanto astratto e non rappresentabile, di incanto si materializza. E diventa immagine.
se, e insieme a James Anaja, il delegato ONU, abbiamo incontrato le comunità indigene colombiane per raccogliere dichiarazioni e testimonianze. Quando la delegazione ONU ha concluso il suo mandato noi siamo rimasti per proseguire il nostro viaggio. Abbiamo raggiunto Narino, nella parte sud-orientale del paese al confine con la foresta amazzonica, dove nel 2008 dopo sei anni di sequestro venne liberata Ingrid Betancourt. Ed è solo quando siamo giunti in questo luogo che ho capito la ragione del viaggio. La necessità di raccontare storie che sembrano appartenere ad un altra epoca. E soprattutto la necessità di raccontare come queste storie siano direttamente collegate alla nostra realtà.
Che cos’è “ECZONE”? Insieme a Laura Greco, presidente dell'associazione “A SUD”, abbiamo sviluppato un progetto per documentare in forma audiovisiva, quei luoghi dove ambiente e diritti umani si intrecciano per essere calpestati insieme. “ECZONE, le zone del conflitto ambientale”, nasce per raccontare quelle aree buie del pianeta dove si consumano conflitti silenziosi. “ECZONE” è il luogo di una scoperta. Vissuta attraverso l'esperienza del viaggio.
In Colombia esistono centodue popolazioni indigene. Trentadue sono a rischio di estinzione. Perché? Le popolazioni indigene, in base alle convenzioni internazionali, hanno per diritto la proprietà di vasti territori della foresta amazzonica. Ma gli ultimi indiani d’America sono anche gli inconsapevoli guardiani di un autentico forziere: petrolio, oro, gas, acqua, legname. Con il pretesto della lotta al narcotraffico, si distruggono le basi della sussistenza alimentare e le popolazioni locali sono costrette ad abbandonare i loro territori. In particolare la Colombia ha varato una riforma agraria che tende a trasformare il paese nel secondo produttore mondiale di biocombustibili. Alla base delle strategie militari colombiane c’è il Plan Colombia, varato nel 2000 dall’amministrazione Bush. Il piano puntava a sradicare il narcotraffico attraverso pratiche di fumigazione di glifosato, una sostanza che sterilizza la vita vegetale della foresta, con l’obiettivo di sradicare le coltivazioni di coca. In realtà in base alle testimonianze raccolte questa pratica rappresenta una scusa per contaminare interi territori, distruggere la base alimen-
Perché hai scelto di raccontare la Colombia? Sapevo poco o nulla della realtà di quel paese. Quando si pensa alla Colombia, si pensa al narcotraffico, alla guerriglia, alle Farc, ai rapimenti che hanno riempito le pagine dei nostri giornali. Sono quarantasei anni che in Colombia si consuma quella che viene considerata la guerra più lunga della storia contemporanea. Io, Laura e il nostro operatore Alessandro Peticca, abbiamo seguito una delegazione delle Nazioni Unite che nel luglio del 2009 ha effettuato una missione di verifica sulla violazione dei diritti umani nel pae-
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tare per intere popolazioni e procedere in questo modo alla coltivazione intensiva di monocolture per biocombustibili. La conseguenza è che la coltivazione di coca in Colombia è aumentata per stessa ammissione dell’ONU, e le zone distrutte invece hanno indotto lo sfollamento di intere comunità. Su un altro fronte invece agisce la guerriglia che accusa gli indigeni di essere collaboratori dell’esercito. Tutto questo produce sfollamento, sradicamento culturale e perdita di identità. Questo è quanto accade alle comunità indigene colombiane. Quali sono state le testimonianze che avete raccolto? Abbiamo incontrato il popolo Nukak Maku, gli ultimi nomadi della foresta amazzonica. Vedere affiorare i loro volti e i loro sguardi dall’ombra della foresta è stata una emozione indescrivibile. I villaggi sono accampamenti improvvisati, che consistono in capanne di legno ricoperte da foglie, arredate essenzialmente da amache di corda. Un’immagine mi ha colpito particolarmente: una nukak distesa su un’amaca con lo sguardo fisso nel vuoto mentre sfogliava una rivista di moda. La rappresentazione dell’estremo contrasto di una civiltà condannata all'estinzione. La comunicazione è praticamente impossibile, non parlano spagnolo e la loro antica lingua è conosciuta solo da alcuni missionari impegnati nell’attività di assistenza. La vita nei villaggi è incentrata quasi esclusivamente sul cibo, quello che riescono a procurarsi dalla foresta come vegetali, frutta e scimmie. Non sapevo nulla di questa civiltà prima di questo viaggio e quel che ho visto è stato un popolo ridotto alla fame che lentamente sta scomparendo. a destra: Roberto Laurenzi con il popolo Nukak Maku
Foto d'arte: diventa protagonista di questa pagina. Roma 2008, foto di Francesco Alesi, anraphotos.com
Coober Pedy the opal's capital
di Giorgio Fiorilli foto di Matteo Armellini Sono passati ormai cinque giorni da quando ci siamo lasciati Melbourne alle spalle, abbiamo sentito soltanto l'odore del grande viaggio, del rosso, desolato e malinconico deserto. Penso ai due mesi passati in quel monolocale di St. Kilda aspettando questo giorno, che sembrava non arrivare mai.
Finalmente il distacco dalla capitale del Victoria (il più piccolo ma anche il più popolato stato dell’Australia) ci rende vivi e fa sembrare tutto più leggero e pieno d'emozione. Siamo a Port Augusta, South Australia, la porta verso il deserto, la porta verso la lunga lingua di cemento che taglia in due l'Australia: la Stuart Highway, strada dei pionieri, 6800 km prima dell'arrivo alle scogliere di Darwin, ultima tappa del nostro viaggio. La serata è trascorsa tra un ballo e l'altro, tra una birra VB
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e un whisky in compagnia del popolo aborigeno, così alienato e così schiavo dell'alcol da non rendersi conto che ormai in questo immenso continente non c'è più posto per loro, veri abitanti di diritto di questa meravigliosa terra... ma questa è un'altra storia. Affascinati da tutto ciò che ci circonda, apprezziamo ogni variazione di colore, i mulinelli di sabbia rossa che si alzano dinnanzi a noi con la stessa velocità con la quale scompaiono dopo qualche centinaio di metri. I cartelli stradali che si susse-
guono sulla Stuart Highway sembrano stati posizionati per le riprese di un film di Tarantino: ”Please arrive alive” è il primo, seguito da altri due che segnalano le condizioni difficili che incontreremo in quest'area remota dell'emisfero australe. Di notte, sdraiati sotto una via di stelle che si spinge all'infinito, la osserviamo arrivare fino all’altezza delle dita dei piedi, mentre la croce del sud ci segue e veglia sui viaggiatori alla nostra destra. Marciamo ad andatura molto rallentata per via dei canguri
che ci sfrecciano di fronte a pochi metri dal van, attratti dalle nostre luci di posizione. Purtroppo due di questi non vedranno il mattino seguente. Se li eviti vai fuori strada: la regola del deserto è marciare diritti e per questo di giorno la strada è piena di carcasse, il pasto preferito dalle aquile. Dopo cinque ore sulla strada dell'immenso ed incontaminato deserto, iniziamo ad intravedere i primi buchi nel terreno: ammassi di sabbia rossa dai quali si ergono comignoli, centinaia a poca distanza l'uno dall'altro. Abbiamo ap-
pena valicato il silenzioso e malinconico confine della cittadina di Coober Pedy, la capitale mondiale dell'opale. Saliamo sulla collina rocciosa dalla quale è possibile scorgere le calde e polverose vie di snodo della cittadina. Rudimentali macchinari per bucare il terreno sono buttati a gruppetti intorno alle “case” dei ricercatori, che non sono altro che grotte, montati su vecchie macchine da trasporto importate dall'Inghilterra. Siamo lontani da ogni altra realtà australiana. Il padrone dell'unico pub del-
la “ridente” Coober Pedy ci racconta che qui vi abitano all'incirca tremila persone, provenienti da quarantacinque paesi diversi, forzate a vivere nel sottosuolo a causa delle difficili condizioni atmosferiche dove lavorano nelle miniere a decine di metri sotto il livello del deserto. Il sottosuolo permette di stabilizzare le temperature, 50° nella stagione estiva e 0° nelle nottate invernali. Si scava per il sogno di ritrovare il filone d'opale (minerale amorfo dal colore tra il trasparente e il bianco latte)
estratto da un ragazzo, con l'aiuto del padre, nel 1915, che ha dato via al pellegrinaggio di ricercatori da tutto il mondo. Dopo la prima scoperta, purtroppo, ai sognatori di Coober Pedy, sono toccate soltanto le briciole. Ci lasciamo alle spalle il pub e continuiamo a costeggiare la collina. Da qui scorgiamo strane sculture all'interno di un cancello che delimita un'area dalla quale è possibile ammirare il magnifico panorama del deserto. Decidiamo di entrare. Michael, uno strano giapponese con il cappello
da cowboy, viene a darci il benvenuto, gli occhi illuminati e speranzosi di finalizzare la prima vendita giornaliera. Il patio che circonda la sua abitazione è nella posizione migliore della città, le enormi sculture fanno da decorazione, posizionate sull'arido terreno a ridosso della parete rocciosa della collina. Sono parti delle scenografie costruite per il film di Vin Diesel “Pich Black”, girato qualche anno prima nei territori adiacenti a Coober Pedy, lasciate lì dalla produzione dopo aver abbandonato il set. Micha-
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el è stato uno dei più svelti ad appropriarsene, per dare un tocco di originalità al suo “giardino” e per incuriosire ed invogliare i turisti ad entrare. Inizia il giro turistico: quando parti di opale vengono fuori da un pezzo di roccia, Michael le lavora con cura per poi presentarcele in tutto il loro splendore ad un prezzo di quindici dollari. Riusciamo ad appropriarcene per mille rupie, banconota indonesiana di valore molto inferiore alla richiesta, ma per Michael lo scambio è un affare. La guarda in modo strano, come
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se non avesse mai visto una banconota diversa dal dollaro australiano. Eravamo lì per vedere i buchi nel terreno, per percepirne la profondità, per apprezzare il lavoro quotidiano di questi strani personaggi, ma l'unica cosa che stavamo veramente portando alla luce erano le loro storie, le loro avventure, i sogni e le preoccupazioni future. Ringraziamo Michael e proseguiamo il nostro trip per le strane vie di Coober Pedy. Presso “Ice cream street” scorgiamo una porta diroccata dislo-
cata nel terreno dalla quale escono dei vapori. È la casa di Milan, un gigante di origine croata, in mutande, busto, maglietta e bastone, inciampato dalle scale della sua grotta, di ritorno da una massacrante giornata di lavoro. Ci vorrà ancora un po' di tempo per recuperare, e la preoccupazione, ci racconta, è per il suo business: non potrà più scavare per almeno un mese. I suoi occhi sono spenti e stanchi, ma illuminati, ogni tanto, dagli aiuti della comunità locale, che lo sta sostenendo finché non fini-
rà il suo periodo di recupero. Anche prima dell’incidente comunque non se la passava troppo bene: poche tracce di opale trovate negli ultimi anni e troppi pochi soldi per tornare indietro. In volto e nell'anima la consapevolezza che il sogno lo sta confinando in quella desolazione, forse per il resto della sua vita. Appena usciti dalla porta dell'abitazione di Milan, il silenzio della piana di Coober Pedy ci assale e un po' di amarezza inizia a farsi spazio. La chiamano la capitale dell'opale, ma sembra piut-
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tosto la città dei sogni infranti. È ora di divertirci un po'. Armati di bastone rudimentale e pallina da golf, ci facciamo due buche nel Coober Pedy Golf Club, un centro abbandonato tra gli scavi, nel quale erano state posizionate un paio di bandierine rosse. Il giorno nel deserto è così lungo che sembra non finire mai, la sveglia è dettata dal sole e dal caldo che invade ogni mattina il nostro van. All'aria aperta non riusciamo mai a vedere i nostri volti, coperti dalle sciarpe e dagli occhiali stretti per difenderci dalle mo-
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sche che si aggrappano sulla pelle in cerca di liquidi. Le devi prendere con la mano e staccartele di dosso, sei completamente invaso e la maggior parte delle volte non riesci nemmeno ad ammirare con tranquillità i paesaggi ed i colori della natura che ti circondano. Il pomeriggio lo passiamo entrando nelle case abbandonate della cittadina, nella chiesa sotterranea, comprando birra per la lunga serata che ci aspetta. Ciondoliamo nei piccoli negozi alla ricerca di riparo e di altre storie che
potrebbero arricchire la nostra conoscenza del posto e il nostro bagaglio di ricordi, ma senza alcun risultato. La comunità aborigena sta iniziando ad invadere i negozi di liquori e si riverserà per tutta la notte tra le strade di Coober Pedy, barcollando tra le luci gialle della città, con i loro tratti marcati ed il loro odore, più acre e pesante della terra che respiriamo. Un vento fresco proveniente da sud ci viene in salvo, portando la lucidità per scrivere tutto questo. Ci riversiamo nel nostro accampamento
notturno, dove in compagnia della musica dei “Tulipan Orange” iniziamo a fare il piano per il giorno seguente. Fortunatamente in Australia puoi fare il barbeque ovunque, anche tra le strade di Coober Pedy. Il canguro è il nostro piatto preferito e la VB è la benzina che dà il via ai pensieri, per riordinare le idee e per pensare anche alla nostra di vita, così lontana da questa realtà ma così caotica da allontanarci dai nostri sogni.
VIA NICOLA ZABAGLIA, 25 - 00153 - ROMA Tel. 06 5781466 - info@osteriadegliamici.info CHIUSO IL MARTEDÌ
voodoo reportage fotografico di Marco Dormino
Alla fine del XIII secolo, agli schiavi provenienti dalla costa occidentale dell'Africa venne imposto il Cristianesimo nel tentativo di “civilizzarli”. Pur di conservare il loro pantheon di “loa” (spiriti), questi uomini e donne lo adattarono alla nuova religione. Mentre gli schiavisti si illudevano di diffondere la parola di Cristo, essi continuavano in realtà a celebrare i riti della loro terra d'origine. Ecco come nacque il voodoo in Haiti, sincretismo di Cristianesimo e religione animista dell'Africa Occidentale.
inviati Gianmaria Schönlieb DA SAN FRANCISCO tartine
Elisabeth Mladenov DA HELSINKI World Village Festival
Matteo Tabacchini DA BERLINO open air
Luisa Gui DA NEW YORK performance as you like it
Rene Lovit DA LOS ANGELES land of la la
Arianna Spagnolo DA SÃO PAULO on the top of the roof
Eleonora Carlascio DA TOLOSA l’altro Sud
Tim Smit DA BRUXELLES c’era una volta…
Banana cream tart, bread pudding ed un doppio cappuccino. La fila di persone di fronte a me è lunga. Alla cassa, la solita hipster dal rossetto scarlatto mi sorride. Colazione al Tartine Bakery, all'incrocio tra Guerrero e 18th Street. Tarteen, perché è così che lo chiamano tutti, si trova proprio vicino casa mia, nel quartiere di The Mission, il neighborhood più eclettico di San Francisco. Aria da caffè francese, grandi vetrate, tavoli in legno scuro e una clientela tra le più trendy. Proprio sull'angolo, per guardare i passanti, ma anche per farsi guardare. Tre affascinanti signore, nel tavolino a fianco, ridono rumorosamente. Un ragazzo alla mia sinistra ordina un sandwich alla soppressata con pesto di broccoli. Il cappuccino è bollente e Luna mi aspetta a Dolores Park tra pochi minuti. Da provare: mousse al cioccolato e bread pudding. Tartine Bakery, 600 Guerrero Street - San Francisco.
Oltre ai giorni senza notte spesi nei cottage al lago o sulla spiaggia, l’estate finlandese è fatta di festival musicali. Durante l’estate, Helsinki e dintorni ospitano una dozzina di eventi culturali e musicali ambiziosi, con un picco ad Agosto (il Flow Festival, il Helsinki Festival e l’Art Goes Kapakka). Ma quello che anticipa l’estate è il World Village Festival (29-30 maggio), nel bel mezzo della città, con musica, cibo e cultura da tutti gli angoli del mondo. Un’atmosfera più finlandese e meno cosmopolita si respira nella zona più artistoide della città, Kallio – dove ubriaconi e studenti d’arte vivono gli uni accanto agli altri, in una strana simbiosi – come ad esempio nel locale Kuudeslinja o al ristorante Siltanen. Questi sono situati sui lati opposti di una vecchia fabbrica e, oltre ad avere entrambi dei programmi di ottima qualità, organizzano eventi congiunti nel cortile che condividono anche con l’Accademia delle Belle Arti.
Rest realität, quel che resta della realtà: Berlino in estate. La musica è ovunque, la festa è ovunque: per strada, nei parchi, nei vecchi edifici abbandonati. Non importa dove si suona, l’importante è suonare. Sempre. Quindi se vi trovate in città quest’estate e sentite della musica venire da un luogo non precisato, mettetevi attentamente in ascolto e seguitela, perché potrebbe portarvi dritti alla festa della vostra vita. Si chiamano open air, e gli open air sono eventi messi in piedi in poche ore, improvvisati come solo i berlinesi sanno fare: alta qualità, atmosfera tipicamente rilassata, niente entrata. Tutto è rigorosamente spontaneo. Tutto si passa di bocca in bocca e per sapere dove andare, se non siete nel giro giusto, fatevi un profilo su rest-realitaet.de. Ogni berlinese ne ha uno. Qui troverete tutte le feste e i festival (anche goa!) a Berlino e dintorni.
Ci sono performance e performance a NYC, contro, con o attraverso the art system. Girlmachine, uno spettacolo di sculture gonfiabili e argentate che fluttuano tra il pubblico e tra gli attori nella cornice di un principesco teatro neorinascimentale. Un progetto tra amici produttori, registi, attori, architetti, musicisti indipendenti che sono riusciti a materializzare un sogno lunare nostalgico ed erotico, un omaggio al futurismo un po’ sfacciato presentato alla biennale della performance, PERFORMA09. È possibile farla da te la performance, specialmente a NY, permettendosi di giocare sia fuori che dentro il circuito dell’arte, con creatività e drive, diplomazia o irriverenza, e poi magari farla viaggiare in giro per il mondo, proprio come accade a Girlmachine, che sarà a maggio a Parigi.
Quando mi sono trasferita a Los Angeles da New York, pensavo di sapere cosa mi aspettasse – Hollywood. Dove tutti vogliono essere delle star, dove nessuno che è davvero chi dice di essere, e dove, a lungo andare, tu stesso puoi dimenticare chi sei. Non pensavo che dimenticare sarebbe stato fuori questione perché mi sarei trovata faccia a faccia con me stessa, la mia vita, i miei sogni, il mio tutto come mai prima d’ora. Los Angeles è quella città dove se non hai idea di chi sei e cosa vuoi, è quasi una certezza che verrai divorato vivo. E non necessariamente dalle persone, ma dalla vita nella fast lane (la corsia veloce). Le feste, le droghe, gli appuntamenti, i sogni vi ingoieranno così velocemente da non fare in tempo a rendervene conto. E ogni categoria ha una storia dentro di sé. Ma iniziamo con una categoria alla volta, sperando che imparerò qualcosa in più di me e molto altro su quello che mi riserva “la la land”.
Passata la porta a vetri, un'aria finalmente tiepida vi gonfierà i capelli e i pochi ritagli di vestiti che riuscirete ad indossare nella torrida metropoli. Sarete avvolti dal luccichio di milioni di luci colorate appese, come a Natale, ai grattacieli. Un film di Peter Jackson, dove manca solo un grosso gorilla che dal fondo si precipita minaccioso per rapirvi. E mentre quarantuno piani più in basso il crac e la colla offuscano le menti ormai irrecuperabili della feccia della società brasiliana, i signorotti moderni, eroi dei nostri tempi, sorseggiano beffardi capirinhas gelate di maracujá, concedendosi sigari da 100 $ e pietanze prelibate. Non c'è da fare molta morale. Non certo a SP, dove gli elicotteri sono le macchine dei ricchi e le fogne le strade dei poveri. E poi lassù, sul tetto del Brasile, dov’è concesso dimenticarsi del mondo, a nessuno verrebbe mai in mente di riscendere.
Forse la regione MidiPyrénées non sarà familiare a noi cugini d’oltralpe. Più noto, invece, è il suo capoluogo: Toulouse, “la ville rose”, da sempre chiamata così per i mattoni rosa delle case del centro e, oggi, anche per la comunità gay che vi abita. È una città immersa nella campagna tra l’oceano e il Mediterraneo, all’ombra dei vicini Pirenei, attraverso i quali le influenze culturali spagnole raggiungono il più vivo e autentico Sud della Francia. Distese di vigne ricoprono le colline che furono terra degli eretici Catari, dove un tempo si parlava Occitano, lingua apparentemente morta, fino a quando non la si riscopre viva nelle indicazioni stradali del centro e persino nella voce registrata della signorina che scandisce le fermate del metrò. Toulouse è piena, pienissima di giovani, e questo perchè è la seconda città universitaria di Francia.
Un Belgio coloniale del quale si sente ancora la presenza, a partire dall’architettura della città. Al Museo Reale dell’Africa Centrale a Tervuren (poco fuori Bruxelles), oltre alla storia di un’Africa buia e sconosciuta, si racconta un aneddoto che fa discutere. Solo recentemente è stata ritrasferita in patria la salma di una guerriero, ucciso più di un secolo fa. Forse è finalmente finita la mission civilisatrice nei confronti del Congo e di quei “barbari”, che stavano tanto bene anche senza i Belgi. Volendo parlare di colonialismo però, oggi le conquiste viaggiano nel senso opposto. Fioriscono tanti negozietti africani intorno a St. Boniface circondati dai tanti odori speziati dei ristorantini e fast-food etnici. Se Bruxelles è una città internazionale, lo è anche o forse soprattutto grazie a questa gente venuta dall’Africa. Gente che oggi torna alla conquista, con una specie di colonialismo, ma partendo dal basso.
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Nat Martelli DA PUERTO DE MOGAN una scelta di vita
Tyler Andre DA PORTLAND Cartopia
Qui Puerto de Mogan, a sud dell’isola tropicale di Gran Canaria, dispersi tra l’oceano atlantico e l’Africa. Ci sono arrivata tre anni fa per cambiare aria e alla fine ci sono rimasta e ho aperto con mio marito un piccolo ristorantino sulla spiaggia, il SoGood! L’isola è Riserva Mondiale della Biosfera, patrimonio dell’umanità, meta perfetta per gli appassionati di surf, ciclismo, mountain bike, parapendio, pesca d’altura (Marlin) ma anche per chi ama l’ozio e il puro divertimento non solo notturno. Puerto de Mogan è un gioiello: lontano da smog, traffico e inquinamento ha il secondo miglior clima al mondo dopo i Caraibi e dove il tempo sembra essersi fermato. Il periodo migliore per una vacanza è da ottobre a maggio se invece state pensando ad una vita diversa, beh ogni momento è quello giusto! Venite a trovarci in Gran Canaria, a Puerto de Mogan e capirete che il paradiso non è troppo diverso da quello che avete sempre immaginato.
La buona cucina è sovrastimata e Portland ne è una prova. Uno dei must del momento è “Potato Champion”, una vecchia ambulanza trasformata in un chiosco di patatine fritte. Di notte uno dei piatti più richiesti è Poutine: patatine ricoperte da sugo di pollo e formaggio, rimedio perfetto dopo una notte di bevute. Il mio preferito? Patatine classiche accompagnate da Rosemary Truffle Ketchup, con un gusto familiare ma moderno. Non avete voglia di patatine? No problem: la zona tra la dodicesima SE e Hawthorne, conosciuta come Cartopia, è inondata di opzioni gustose, dalla internazionale “Perierra Creperie”, a “Bubba Bernie’s BBQ”, dal messicano “El Brasero”, a “Pyro Pizza” fino “Whiffies Fried Pies”. Con la crisi economica, i carretti di Portland sono una mano santa per i portafogli. Vai su foodcartsportland.com per scoprire quale chiosco fa per te. Cartopia: un’altra eccentricità che aiuta a “mantenere Porland strana” (“keep Portland weird”).
myspace.com/sogoodmogan
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la NY di Bruneau di Alexandra Rosati
Chi l’avrebbe mai detto che il biondino di diciotto anni che si scatenava in folli balletti nel film di Georges Lautner “Ne nous fachons pas”, un giorno sarebbe diventato un fotografo di fama internazionale, con un quantitativo di viaggi ed esperienze che persino la sua stessa memoria fatica a conservare. La vita di Gerald Bruneau è un tuffo senza fine in un oceano di molteplici e variegate realtà, talmente diverse le une dalle altre da disorientare chiunque provi a metterci piede. Ed io mi ci sono persa. Quando lo osservo mentre controlla le sue foto al computer, con la sigaretta in mano, la televisione accanto a tutto volume, e lo sento dire: “Secondo te questa è troppo scura? Ah, leggiti ‘Internazionale’ di questa settimana, c’è un articolo sulla depressione molto divertente!”, capisco 42
che la sua mente viaggia su mille binari paralleli. La sensazione non è molto diversa quando lo seguo su un set fotografico: mentre studia l’inquadratura ha già in mente la successiva, ti dice come regolare la luce, nel giro di un minuto cambia tre obiettivi e, arrampicandosi sullo scaffale di una libreria (nella migliore delle ipotesi), ordina gentilmente al soggetto da fotografare quale posa assumere. Ogni suo scatto è un differente punto di vista sulle infinite sfaccettature della realtà. Per raccontare ogni “scatto” della sua vita non possono bastare poche migliaia di battute, è per questo che quello che leggerete di seguito è solo una minima parte di quel tuffo infinito. Il “ballerino di Lautner”, all’occasione anche musicista nella Parigi degli anni Sessanta, dopo aver trascorso qualche
anno in Italia, sbarca a New York e viene subito assorbito dalla Factory di Andy Warhol. In perfetta sintonia con la genialità del fondatore della Pop Art, collabora attivamente all’interno di quella che definirei “un’officina dell’avanguardia creativa di massa”. Lì il lavoro collettivo s’incontrava con un mondo che, irresistibilmente attratto, gli ruotava intorno quotidianamente. Come impedire ai più ricchi imprenditori del tempo, americani e non, d’improvvisarsi collezionisti d’arte di fronte alla rappresentazione di uno dei famosi barattoli di zuppa Campbell's, o ad una grande tela con l’immagine di Marilyn Monroe riprodotta più volte, con quei forti e vivaci colori? Impresa impossibile e quindi ottimamente riuscita per gli artisti, visto che il tutto era anche condito da una vita mondana che trovava
nella Factory il luogo ideale per fondere moda, arte, cultura e divertissement. Ad animarla ogni giorno non c’erano solo i creativi all’opera, ma una vasta gamma di persone, semplici curiosi, gente legata al mondo della finanza, aristocratici europei, Drag Queens, insomma una fauna vivace che quotidianamente partecipava a brunch consumati in un ambiente decisamente stravagante. Bruneau, che non è un fotografo stanziale, sente però il bisogno di fare anche altro, e nel 1988 segue la campagna elettorale di Jesse Jackson, il secondo afroamericano che si presenta per diventare Presidente degli Stati Uniti. Come prevedibile, vince l’altro candidato, il democratico Dukakis, più votato dai bianchi, e Jackson, che si era sempre impegnato nella difesa dei più deboli, torna ad occupar-
“Because the night” – New York 1995 (foto di Gerald Bruneau)
si di diritti civili. Il lavoro successivo si riallaccia in qualche modo all’esperienza della Factory. Si tratta infatti di un reportage sul Chelsea Hotel di New York, albergo atipico in quanto considerato in primis come centro di attività artistica e bohemien, nonché importantissima sede di un grande patrimonio storico e culturale. Qui si trovano opere d'arte create da molti degli artisti che lo hanno semplicemente visitato o che vi hanno trascorso dei lunghi soggiorni, tra cui Bob Dylan, Janis Joplin, Patti Smith e Sid Vicious.
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L’esperienza americana del fotografo non si ferma. La sua fantasia, già stimolata in passato dal film di Tavernier, continua i suoi voli pindarici seguendo le orme del Blues lungo il Mississippi. Egli trascorre circa due mesi, partendo da New Orleans, città tempio del jazz delle origini, lungo un flusso continuo di immagini, colori e musica. In cammino lungo le rive della storia, ascoltando la voce dell'America nera, ruba con la sua pellicola la natura religiosa ed esistenziale che rispecchia perfettamente il quadro so-
“Eureka” – New York 1995 (foto di Gerald Bruneau)
ciale dell’epoca. Ma la sua curiosità e la sua necessità di scoperta lo riportano in Italia, dove, insieme alla giornalista Lucia Annunziata, decide di partire per Israele. In pieno conflitto arabo-israeliano, s’infiltra in un gruppo di estrema destra, per fermare con il suo obiettivo tutte le sanguinarie azioni di rappresaglia che i soldati facevano in mercati, moschee, luoghi pubblici o privati ai danni dei palestinesi. Il suo lavoro da fotoreporter a quel punto accelera, portandolo prima in Kurdistan nei movi-
menti del PKK e poi a Tirana nel 1990, rendendolo testimone di repressioni violente e drammatiche. L’eclettica attività dell’artista ritrova un po’ di quiete nel mondo dell’arte, esattamente in Russia. Dopo aver fatto un reportage sull’Armata Rossa, infatti, si dedica approfonditamente all’innovativo fermento pittorico dei primi anni Novanta, fotografando, tra gli altri, il concettualista Prigov, “il demone non meschino”. Dopo aver trascorso qualche anno in Italia ed aver avuto una relazione con la princi-
pessa Giovanna Pignatelli (relazione coronata dalla nascita del figlio Thierry), nel 1997 è di nuovo in viaggio oltreoceano: obiettivo Texas. Stavolta le immagini che immortalerà saranno quelle dei condannati nel braccio della morte della prigione di Huntsville. Qui i detenuti vivono una sola ora di ricreazione al giorno, da soli, senza alcun contatto umano con gli altri reclusi. Le restanti ore le passano chiusi nelle loro celle in attesa dell’esecuzione, che può avvenire anche dopo molti anni. Le foto più famose sono quelle di Henry
Lee Lucas, il leggendario serial killer statunitense, accusato di oltre duecento omicidi, la cui storia ancora oggi rimane un mistero. L’ultimo aneddoto che mi concedo di raccontare riguarda il suo reportage messicano “I sotterranei della vergogna” sui niños de la calle, bambini nati in edifici abbandonati e cresciuti in mezzo alla strada, che fanno uso di droghe e sopravvivono chiedendo l’elemosina o prostituendosi. A questi bambini non è bastata qualche moneta per farsi fotografare. Anzi, l’hanno
tenuto sotto sequestro diverse ore in una delle loro tane, i cui ingressi sono costituiti da tombini in mezzo a dei vicoli. L’ardito fotografo però se l’è cavata anche questa volta e dopo una lunga contrattazione è tornato a casa sano, salvo e con il rullino pieno. Ci vorrebbe un biografo esperto per poter riportare l’odissea di quest’uomo che, dopo una vita da giramondo, ha finalmente trovato il suo nido, insieme alla adorata compagna Adriana Faranda alla quale, oltre che sentimentalmente, è legato an-
che professionalmente. Certo è che questo articolo è solo un assaggio di Gerald Bruneau, che oggi vive fotografando personaggi della politica, dello spettacolo, dello sport e della cultura, pubblicati da “Washington Post”, “Time”, “Newsweek”, “Le Figaro”, “Le Monde”, “Vanity Fair”, “Magazine” del “Corriere della Sera” e questa volta da “the trip”. a pagina 43: Gerald Bruneau fotografato da Adriana Farnada
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libri a cura di Claudia Bena
La letteratura di fantascienza del XX secolo: una descrizione apocalittica del futuro come lettura critica del presente.
“Mattatoio n. 5” di Kurt Vonnegut “Ma gli androidi sognano pecore elettriche?” di Philip K. Dick “L’uomo che cadde sulla terra” di Walter Tevis “L’invasione degli ultracorpi” di Jack Finney Anno: 1955 Editore: Marcos y Marcos Euro: 13,50 Pagine: 215 Dallo spazio scendono dei baccelli e prendono lentamente le sembianze e il posto degli esseri umani. Le persone care restano identiche, ma senza emozioni né sentimenti. Il perturbante arriva a Mill Valley, e il sensazionale irrompe nella vita quotidiana. Ma c’è ancora una speranza, nell’America degli anni Cinquanta, e l’umanità può ancora farcela. Il futuro non è tutto nero… o rosso, secondo una libera interpretazione del film di Don Siegel, che vede nell’invasione aliena il “pericolo” comunista. 46
Anno: 1963 Editore: Minimum Fax Euro: 9,50 Pagine: 231 Icaro ci ha insegnato a non volare troppo in alto. Così Cristo non dimentica quello che subì nel tentativo di aiutare gli uomini. “Bastano pochi pazzi, al posto giusto” e non c’è più salvezza. Se sulla terra dovesse cadere un uomo con l’intento di evitare l’olocausto nucleare del pianeta, verrebbe torturato, reso cieco, per poi annegare, come Icaro, ma in un bicchiere di gin. La figura autobiografica di Thomas J. Newton, abilmente portata sullo schermo da David Bowie, rappresenta l’incomunicabilità e la solitudine dell’essere umano verso la propria, amara, fine: una compiaciuta autodistruzione.
Anno: 1968 Editore: Fanucci Euro: 11,90 Pagine: 224 Quando abbandoneremo la terra, quando l’aria non sarà più respirabile, e una selezione naturale escluderà i “cervelli di gallina” dalla salvezza su altri pianeti, a chi ci appiglieremo, se non all’ennesima divinità che ci promette salvazione in cambio di dolore? Quando le macchine da noi costruite si ribelleranno, vorranno avere una propria vita o, in alternativa, rendere vana anche la nostra? Se noi, con il nostro romanticismo, potessimo anche innamorarci di loro, riuscirebbe un androide a fare lo stesso? Potrebbe sognare? Quando i dubbi su “cos’è l’altro” diventeranno così forti da non essere semplici aporie? Il libro che ha ispirato “Blade Runner”, un capolavoro del secolo scorso.
Anno: 1969 Editore: Feltrinelli Euro: 7 Pagine: 196 La guerra è una “crociata di bambini” che, mandati a combattere, tornano in patria psicologicamente instabili per ciò che sono stati costretti a vivere, fare e subire. Tema quanto mai attuale. È necessario trovare una via di fuga al disagio, anche solo mentale. Rapiti da alieni, viaggiando nel tempo, l’importante è evadere dal presente. Scampato al massacro di Dresda nel 1945, Billy Pilgrim salta dal passato al futuro, conosce già la sua morte e può rivivere momenti lontani. L’autore racconta la propria esperienza bellica dal suo punto di vista antimilitarista. Ogni cosa avviene perché deve accadere, ogni persona fa ciò che deve fare, e il lento declino della terra è inevitabile. Finiremo esemplari in via d’estinzione in uno zoo fantascientifico su Tralfamadore, lontani anni luce dalla terra. Così va la vita.
like a rolling stone di Maria Celeste Meschini foto di Matteo Bellisario Una volta c'era il mare. Certo stiamo parlando di cinquecento milioni di anni fa, ma è davvero strano immaginare quella che oggi viene chiamata la Valle della Morte un caldo e accogliente lido. Il parco nazionale degli Stati Uniti si estende tra la Sierra Nevada in California e lo stato del Nevada. Perché si chiama Death Valley? Rassicuratevi subito. Le persone che ci hanno rimesso la pelle si contano sulle punte delle dita. Non è sicuramente il luogo adatto dove costruirsi un'allegra fattoria ma quando arrivarono i vecchi pionieri del Far West vi trovarono le popolazioni degli antichi nativi americani chiamati Timbisha - popolo della valle. L’origine del suo nome però è tutta un'altra storia. Nel 1849 il richiamo dell'oro portò l'ennesimo gruppo di ricercatori ad attraversare il pavimento salato della Valle della Morte per arrivare in California. Con a seguito le proprie famiglie, senza mappe adeguate, se-
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guivano la catena montuosa del Panamint. Il Telescope Peak padroneggiava a poche miglia di distanza ma non riuscivano a raggiungerlo perdendosi nel Canyon. Passarono un mese in fondo alla valle, poi due giovani esploratori riuscirono a trovare la via d’uscita verso ovest e portarono in salvo il gruppo. Solo una persona morì. Ed era anziana e malata. Ma la storia divenne leggenda grazie alle parole di William Lewis Manly, proprio uno dei due esploratori, che intitolando la sua biografia “Death Valley in ‘49”, ribattezzò la valle da lui conosciuta come Deep Valley. Il parco nazionale si può considerare un deserto. Ma sono decisamente diversi gli scenari ai quali si può assistere. Badwater, il punto più basso degli Stati Uniti. Il cartello sulla parete della montagna segnala che il bacino è sprofondato di 86 m sotto il livello del mare. Il cratere Ubehebe, formatosi più di duemila anni fa. Il castello di Scotty che pren-
de il nome da un altro avventuriero, questa volta meno eroico, che durante la corsa all’oro imbrogliava imprenditori e ricercatori fino a convincere un magnate del tempo a costruire il lussuoso castello. Telescope Peak, Dante’s View, Darwin Falls sono solo alcuni nomi da dove lo sguardo può perdersi tra dune infinite e tramonti da brivido. A Racetrack però succede qualcos’altro. In questo campo di fango, che d’estate assomiglia ad un pavimento a specchio, ci sono massi di mezza tonnellata che avanzano misteriosamente sulla sabbia asciutta e inaridita. Nessuno li ha mai visti muoversi, né i Rangers né il dott. Sharp che nel 1969 prese in esame venticinque di queste rocce delle quali controllava la posizione. Una di esse lasciò una traccia dietro di sé lunga 64 m. Ma lui non vide nulla. Ancora oggi non ci sono spiegazioni scientifiche conclamate sulle “moving rocks”. Alcuni geologi conclusero che la ra-
gione dello spostamento era data da particolari condizioni atmosferiche dove la pioggia fitta, la nebbia o la rugiada rendono il pavimento scivoloso e bagnato e i venti spingono le rocce in giro. Ma perché due rocce vicine prendono percorsi diversi? Perché una si muove ad anello, l’altra a zig zag e un’altra ancora rimane ferma? Non ci è dato sapere. Per ora. Quello che sicuramente sappiamo è che nello stesso anno, esattamente nel 1913, nella Death Valley, venne registrata una temperatura minima di -9° C a gennaio e una massima di 57° C a luglio. È vero che il clima sta cambiando ma la Death Valley detiene ancora il record di uno dei luoghi più caldi del pianeta. a destra: Furnace Creek Road (Death Valley)
il fado di Lisbona testo e foto di Natalia Ceci Parto per il Portogallo convinta che non sia la Spagna. Banale? No, secondo me sto già avanti alla media. Vanno su e giù tra Barcellona, l’Andalusia, le isole e pensano di essersi fatti un’idea completa della zona. Li prendi alla sprovvista se gli chiedi - ehi cosa c’è lì accanto? Accanto dove? C’è la Spagna… Ma sì la lingua non si discute, lo spagnolo è più sensuale e comprensibile di quello strano portoghese; popolo accogliente e aperto, vera vida; paelle, vuoi che qualcosa di simile non ci sia pure a Porto? Gaudì, il maestro, il resto non conta; e poi il rosso fuoco che sa di calcio e di corride, animiamoci. Il Portogallo sarebbe quell’appendice verticale che funge da costa atlantica della Spagna: l’ombra del caliente. Non scherzo, la gente la vede così la faccenda. Approssimativi, superficiali, generici.
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Non sono una fan alternativa del viaggio della regione accanto. Ma se il mio volo è mezzo vuoto per me è buon segno: o sono fuori stagione, e uno schizzo verrebbe più originale e misterioso, o sto visitando una terra che molti non hanno selezionato, distinguiamoci. Francia Sicilia San Francisco Dolomiti: ci si va, facciamo tutti bene. Ma se arriva l’ondata giordana, per me è ora di partire per Israele. Al grido “Cina” tifo Filippine, e se mi propongono un weekend a Madrid (e al Santiago Bernabeu non sono più i tempi dell’irraggiungibile signorilità Real), voto Liguria (da dove comincio?) o parto – finalmente – per il Portogallo. Un viaggio è un po’ come la vita: niente va dato per scontato. Soprattutto la bellezza: è una cosa tua. Su questa terra decidi tu. Il Portogallo è: i più grandi esploratori del Medioevo. Dai
Fenici ai Romani, un susseguirsi di civiltà. Nel 1290 a Coimbra una delle prime università d’Europa. Una terra povera e poco abitata, da sempre: difficile impegno tener salde le numerose conquiste. Il fado – dal latino “fatum”, destino: musica che gli calza come il tango all’Argentina e la Samba al Brasile. Ma se l’ascolti a casa tua, prima di essere stato lì, non puoi capire. Li devi guardare negli occhi, i lusitani, non conta l’età: bambini o anziani, quella melodia nutrita di saudade - sentimento generato da qualcosa che non c’è più - ce l’hanno dentro da prima di nascere. Vicissitudini storiche, emigrazione, sofferenza, e ogni tratto di vita a cui non puoi più dare un nome: il fado rappresenta quest’anima. Lisbona ha qualcosa di Palermo: agiata solo a tratti, decadente una casa su tre, ma le calze affaticate stese alle
finestre indicano vita dentro. Gli azulejos descrivono mille pareti e sanno di dedizione antica, di resistenza, di famiglia, di mare. Sono maioliche, quadrate, più o meno dipinte. Dietro non c’è il maestro, c’è una tradizione di maestria artigianale. Lisbona: ferma agli anni ’50 negli interni, nella mentalità, nel cibo, nella moda. Una città che è come un impreciso film in bianco e nero. La signora con tre buste sulla Rua da Bica finirà la sua erta salita. Si è fermata anche oggi a far due frasi sull’uscio dell’amica, per riprendere fiato. Quando riparte tu sarai giunto al centro di una nuova “praça”, ma potrai immaginarla, teneramente sicura e scandita nei suoi movimenti, verso casa. È un’abitudine: è il tempo ad averle consegnato una scena intoccabile. Come a San Francisco, tram gialli o grigi si arrampicano su
queste salite. Se un ragazzino corre, o ci si aggrapperà al volo o sta scappando perché s’è messo nei guai. Una donna sudamericana obesa abita sulla panchina della fermata prima di Praça de Camões. Sta lì seduta e la occupa tutta tutto il giorno, con le sue cose. Alla Chiesa do Carmo entri o esci dal gotico, hai comunque il cielo sopra di te. Non sei al coperto. Assi e curve tracciano il contorno di pareti e soffitto, ma sono prive di superficie. Una ragnatela in muratura. Non fa venire in mente di pregare: dà la sensazione
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che sia tutto in bilico, e ti viene di camminare piano, per non turbarlo, in silenzio; di alzare gli occhi su questo residuo di equilibrio e curarti che sia ancora tutto lì. Così fanno tutti: escono, e l’importante è che le parti mancanti siano ancora sorrette da quelle presenti. Fuori mi siedo sui gradini e guardo Rui Bimbos calciare coordinatissimo e deciso verso un muro. La palla ritorna, più o meno precisa, e per lui fino a sera è sempre come il primo tiro. Poi, nove anni e il pallone, l’istinto lo guiderà a casa.
Chi vive a Lisbona? Piena di giovani e anziani, di operai e no global, di neri e di visi dall’identità coloniale. Come la giri? Fiorente nei trasporti, di tutti i tipi. Ma ai tassisti è meglio se la strada gliela indichi tu: loro ci arrivano, in zona. Il resto verrà da se. Spesso gli girano. A Lisbona si vive di una fatica antica: lo stress non glielo dà la modernità, corse luci attivismi acquisti traffico traffici di tecnologie rumori. La fatica è l’onesto andare avanti, o insegnare ad un ragazzo che non tutte le vie di scippo ti ci
portano. Che se tuo padre vende vino verde all’Alfama, è lì che puoi iniziare a capire come funziona il mondo. Una borsa di notte non è un investimento, e magari ci rimedi solo un calcio perché hai scelto la preda sbagliata. Appartamento al bairro alto, noi partiamo da qui la mattina: raro stile moderno e pulito con vista sul Golden Gate locale - il ponte 25 de Abril - e la discesa delle case al Rio Tejo, un fiume che in certi punti è largo quasi 1 km. Guardando fuori dalla finestra penso due cose semplici e delica-
te come quei colori pastello: che fortuna, che ricordo. La ginja - tipico liquore di ciliegia - me la danno da bere pure a colazione. Nelle "tasche" - mini trattorie a gestione famigliare - l’HACCP è al massimo un residuato bellico russo, e quando si torna a casa dall’odore dei vestiti e dei capelli si identifica quasi il menù completo. Da “Avelino” quattro tavolinetti: la moglie cucina a vista, lui prende le ordinazioni, apparecchia e fa i conti. Uno di loro due deve pure fare i piatti, ma la cosa è impercettibile. I ragazzi ci
vanno perché è semplice, è come stare a casa, mangi le stesse cose che mangiano loro, bevi vino rigorosamente in caraffa e spendi sotto ai 10 €. Il figlio torna alla base quasi alla chiusura: si siede e mangia in silenzio "dourada" (orata) e si tiene la testa per ultima. Avrà studiato o lavorato prima: non ti viene in mente altro, ha la stessa aria sana dei genitori. A Belèm, la torre sull’acqua, pensi a chi partiva da qui, secoli fa. Mangi un pasteis de Belèm caldo, acquisti un vino di Madeira che resterà
indagato e sospetto all’aeroporto, e solo lì, in quella antica pasticceria, ti accorgi che è orientata - anche - a vendere turismo. Finora nulla ti aveva invitato al pensiero di visitare, acquistare, tornare. Cascais sull’Oceano più sobria e pacifica, quasi aristocratica per un portoghese. Al faro le onde si schiantano anche a dieci metri d’altezza. Il loro inconfondibile grido, unito a quello di un pavone, vivifica l’aria assopita dell’inverno. All’Estoril il più grande casinò d’Europa ci coinvolge nei numeri della roulette e in
uno spregiudicato black jack. Cinque giorni volano nei chilometri a piedi: ma i castelli di Sintra, i pescatori di Nazarè, la Expo ‘98, lo zoo, Porto… restano mete impossibili e ambite. Non andate in Portogallo. Andate dove vi aspettano. Così tutti si aspettano anche, già, cosa racconterete al ritorno. Non correte i rischi della diversità. È duro aprire strade maestre. a pag. 51 e 52 Rua da Bica
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Karimun testo e foto di Alessio Buscioni Una leggenda racconta la storia di un padre furioso che, a causa della continua renitenza del figlio, si vede costretto a cacciarlo di casa, invitandolo a non fare mai più ritorno nell’isola di Java. Il figlio, per non disubbidire nuovamente al padre, vaga tra i mari per giorni, fino all’arrivo in un arcipelago di isole, dove finalmente la sua imbarcazione si arena. Il genitore che, fino a quel momento, era stato in grado di seguirne il viaggio grazie alle sue doti da veggente, perde qualsiasi controllo: le immagini diventano discontinue e le visioni vaghe. Il ragazzo era approdato nell’arcipelago di isole chiamate Karimun, che in indonesiano significa “impreciso”, “vago”. Come il ragazzo e accompagnati dall’ostetrica dell’isola, decidiamo di andare a visitare le isole che compongono il parco marino nazionale di Karimunjawa. Ci imbarchiamo da Semarang, nella parte settentrionale di Java, e 56
affrontiamo un viaggio con l’unico collegamento pubblico possibile: un traghetto che scopriremo, in seguito, partire solo due volte la settimana. Il viaggio trascorre piacevolmente mentre la nostra accompagnatrice continua a parlare. Ci racconta che durante l’inverno, a causa del mare mosso, è stata costretta a nutrirsi unicamente di pesce per settimane. Della prima volta che ha visto una macchina, venticinque anni fa, e del terrore provato nel vedere quel mostro. Ci parla della vita, per noi atipica, che una giovane ragazza può trovare in un’isola che fino a poco tempo fa era esclusa da qualsiasi itinerario. L’arrivo è a dir poco sbalorditivo. Il traghetto abbandona un’acqua sporca e di colore verde petrolio per avvicinarsi a un’oasi in mezzo al mare. Le ventisette isole, di cui alcune non più grandi di un appartamento, sono circondate da una piccola barriera corallina. Le piroghe di pesca-
tori, strette e lunghe, girano intorno all’isola, e il colore del mare è molto più vicino all’immaginario comune dell’isola tropicale. Fino a quel momento non avevamo pienamente compreso l’importanza che può avere un’ostetrica su un’isola come Karimun. Aveva fatto nascere tre generazioni e conosceva quasi tutti dalla nascita, cioè dal giorno in cui quei bambini, ragazzi, uomini avevano aperto gli occhi per la prima volta. L’accoglienza ci prende di sorpresa e la gentilezza degli sconosciuti ci lascia senza parole (che in ogni caso sarebbero state inutili, visti il livello del nostro indonesiano e quello del loro inglese). Sono orgogliosi di mostrare la scuola coranica - che ha poco a che fare con le scuole coraniche viste nei nostri telegiornali - dove i bambini giocano, imparano e crescono. Prima di invitarci a cena ci portano nella piccola isola di fronte, nell’unico albergo
dell’arcipelago. Le stanze sono di legno e costruite su palafitte. All’interno solo il letto, non c’è bagno, doccia o qualsiasi cosa un europeo possa aspettarsi, ma la piscina naturale che ci circonda renderebbe accettabile qualsiasi compromesso. Davanti a noi e sotto la palafitta, una vasca circoscritta dai coralli contiene due piccoli squali, una tartaruga e altre specie di cui non conosciamo i nomi. Sono ormai le sei di sera. Il sole inizia a calare, la barca ci viene a prendere per portarci a cena sull’isola principale, e l’inaspettata notizia che il prossimo traghetto non salperà prima di quattro giorni trasforma il nostro Caronte in un magnifico angelo.
i caffè di Istanbul testo e foto di Roy Halstead Istanbul, città dalle mille anime, e dai mille volti, scandisce i suoni di un passato prossimo e remoto attraverso i ciottoli delle sue strade e i suoi caffè. Teatro di mille passaggi, anime cristiane, musulmane, atee, si sono disputate il controllo di questo grembo di terra, tagliata da tre lingue d’acqua che collegano mille mondi e realtà diverse. Istanbul incastonata in una posizione strategica, Cerbero di due mari. La torre di Galata, costruita dai mercanti genovesi, funge da occhio onnipresente sul mare di Marmara e la gola del Bosforo, unica via marittima per accedere al Mar Nero. Oggi si possono scorgere petroliere maltesi, russe, italiane e greche solcare il mare, dirette in diverse direzioni con i loro preziosi cargo. Centinaia di anni or sono, gli stessi mari furono teatro di titanici scontri fra opposte fazioni. E proprio accanto all’inconfondibile silhouette della vecchia torre d’osservazione, seduto nel mitico caffè Kornak,
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annidato nei meandri della vecchia Galata, lo sguardo si perde nell’abisso composto dalle mille luci del tramonto. La vista di Istanbul, solo seicento anni addietro, sarebbe parsa ben diversa rispetto alla moderna metropoli stagliata dinnanzi all’orizzonte. I profili dei minareti, fugaci ombre che tracciano l’orizzonte rosso ocra, riverberano il richiamo alla preghiera. Il calore del Chai si propaga nelle mani del vecchio funzionario dall’abito stazzonato seduto alla mia sinistra. Il richiamo del muezzin riecheggia attraverso le labbra dell’anziano, che mirando l’orizzonte attraverso le due feritoie che racchiudono gli occhi incastonati in un nido di rughe, scruta le ultime luci del tramonto. Insieme ad altri ospiti del caffè, mi accingo ad ammirare lo splendido panorama dal balcone improvvisato, grazie ad un probabile fatiscente condono degli anni ‘70. Provo a rammentare gli innumerevoli tramonti, Goa, Masada, Ouarzazate, che passano veloci nella mente,
come intoccabili fantasmi situati in un angolo della testa, spenti, d’innanzi all’avvento di nuovi crepuscoli. Il Chai, o il caffè turco, diventa inseparabile compagno, da gustare in un momento di riposo, dopo intense giornate passate a setacciare le Istanbul di ieri e di oggi. Il caffè Kornak non serve alcolici, per scelta personale, mirata a evitare eventuali schiamazzi notturni dovuti a ipotizzabili sbornie. In compenso offre un menu assortito, proponendo un ventaglio di pietanze turche da gustare nel salone interno color mogano. La cultura del caffè a Istanbul è radicata profondamente nell’animo ottomano. In questo ponte tra oriente e occidente, i luoghi di ritrovo e di aggregazione offrono tuttora blandizie di ogni genere all’ospite che cerca ristoro. Il poco distante mercato del pesce, ai piedi di Galata, oggi separa il quartiere più popolare dalla salita che porta all’Istiklal Cadesi (viale Indipendenza), l’Oxford Street di Istanbul. Nota all’inizio
del ‘900 come Grand Rue de Pera. Qui i mercanti europei si amalgamavano ai commercianti orientali venuti a barattare le spezie a buon mercato. “Pera”, termine greco per “fuori”, che oggi viene chiamata Galata, è la parte più occidentalizzata di Istanbul. Si narrava una volta che quando le lampade si spegnevano nella reazionaria Sultanahmet, le luci di Pera brillavano fino all’alba. Il gran caffè Markitz, ex caffè Lebnon, era centro di questo via vai, e sede di piacevoli incontri, dove tra un baklava e un narghilè si stipulavano diversi affari. Oggi rimane solo un pallido fantasma di ciò che era il rinomato caffè d’inizio secolo, ma vale la pena entrarvi solamente per ammirare le decorazioni Art Deco anni ‘30. a destra: il caffè Kornak di Istanbul
Seoul transformer di Marianna Kuwet foto di Carlotta Cerulli
Se fino a qualche tempo fa mi avessero chiesto di pensare alla scena creativa e alla moda in Asia avrei sicuramente pensato al Giappone, ovviamente a Tokyo. Grazie al viaggio di una mia amica in Corea ho invece scoperto un'altra realtà, meno conosciuta e ancora in fase di crescita, ma non per questo meno interessante. Seoul ha appena ospitato il primo dei due appuntamenti annuali con la Fashion Week, una settimana di eventi e sfilate, esempio di creatività giovane, democratizzazione della moda, amalgama culturale e impegno delle istituzioni. L'industria della moda è infatti uno dei sei settori economici di nuova crescita sui quali il governo coreano ha deciso di concentrare i propri sforzi per rendere Seoul un centro culturale internazionale. Anche grazie a questo interesse da parte del governo locale, nel 2009 la città è stata scelta quale location del Prada Transformer, progetto 60
assolutamente unico e innovativo, studiato dall'architetto dello studio OMA Alexander Reichert per Prada. La struttura temporanea e mobile, realizzata accanto al Gyeonghui Palace come a rappresentare la contrapposizione fra la creatività del XXI secolo e la tradizione coreana, nelle sue varie fasi ha ospitato una mostra di moda, una rassegna cinematografica e un'installazione di arte contemporanea. La fase finale del progetto, la sua ultima effettiva mutazione, dal titolo “The Student Takeover”, ha visto il Prada Transformer divenire il laboratorio di centotrenta studenti coreani di discipline quali la moda, l'architettura, l'arte, il cinema e la grafica, che hanno avuto l'opportunità di appropriarsi dello spazio per esprimere liberamente la propria creatività, permettendo di perseguire il nobile obiettivo di individuare e puntare l'attenzione internazionale sui giovani talenti della città coreana. Lo stesso obiettivo è stato per-
seguito con la Seoul Fashion Week, svoltasi al SETEC (il Seoul Trade Exhibition Center), nata come una piccola fiera locale, arrivata oramai alla sua decima edizione. Oltre alle sfilate si è svolta, sempre al SETEC, la Seoul Fashion Fair, dal sottotitolo “Business friendly global fashion market”, il che la dice lunga sulla volontà della Corea di far sentire la propria voce alle grandi capitali internazionali della moda. Fra i brand esposti merita un'attenzione particolare Juun.J. Il designer di menswear è già stato etichetta˘ to da alcuni come il prossimo Raf Simmons, grazie alla sua capacità di ricostruire e combinare elementi classici dell'abbigliamento maschile come blazer e trenchcoats con dettagli militari, giacche da motociclista, zip e forme ampie e geometriche. Juun.J è recentemente approdato sulle prestigiose passerelle parigine e vanta collaborazioni, fra le tante, con il brand
di sportswear Speedo, con l'illustratore italiano Lorenzo Petrantoni e con gli inglesi di Ground Zero. Oltre ai designer coreani più affermati, nell'ambito della Seoul Fashion Week ampio spazio è stato dedicato agli emergenti grazie all'evento dal sedicente nome “Generation Next”. Questa particolare sezione della settimana della moda si è svolta al Kring, spazio creativo multiculturale, architettonicamente ultra moderno, che con i suoi quattro piani ospita solitamente mostre d'arte e film accuratamente selezionati nell'apposita avanguardistica sala cinema. A questo punto mi viene un solo pensiero. L'Italia farebbe bene a stare attenta e a darsi una mossa, perché è tutto vero, c'è la crisi economica mondiale, non esistono più le mezze stagioni e si è fatto di un euro mille lire. Ma mentre qui ci si ferma e si sopravvive grazie ai fasti del passato, il resto del mondo si muove.
la Mola di Alexandra Rosati foto di Sonia Hita
A maggio, o a settembre, Formentera non è un’isola fuori stagione, Formentera è un’isola fuori dal tempo. La prima volta che sono scesa dall’aliscafo ho capito immediatamente che quei passi stavano calpestando una terra in un’altra dimensione, dalla quale, per un misterioso senso di appartenenza, sono stata totalmente rapita. Da quella dimensione molti altri non ne sono più usciti, tanto da trascorrerci sei mesi l’anno, lasciando i loro paesi per andarci a vivere, svolgendo attività soprattutto legate al turismo che invece a luglio e ad agosto arriva a stravolgere quel Paradiso. I primi a scoprirlo furono gli hippie che, giunti dalla Germania negli anni Sessanta, trasformarono “l’isola dei gechi” in un’oasi lontana dal consumismo dilagante, che permetteva di vivere a stretto contatto con 62
una natura particolarmente aspra e selvaggia, ancora oggi infatti area protetta dal WWF. L’approdo di questi “conquistadores” ha lasciato un’impronta indelebile non solo sulle meravigliose spiagge (la maggior parte della quali nudiste), ma anche in molti locali pubblici, che prima dell’arrivo degli italiani erano anche gli unici, e soprattutto nel pittoresco mercatino hippie. Esso ha luogo sulla piazzetta di El Pilar della Mola, un borgo presente sull’altopiano in direzione del faro più alto, ove l’isola, lunga ventitre chilometri, finisce improvvisamente con una scogliera a picco sul mare, popolata da numerosissimi albatros. La piccola piazza è caratterizzata da un pavimento in mosaico colorato dove, al centro, è disegnata un’immensa stella marina azzurra.
Tutti i mercoledì e le domeniche pomeriggio, da giugno a ottobre, il caratteristico pavimento viene ricoperto da una cinquantina di bancarelle colorate, dove si possono comprare prodotti di artigianato tradizionale. Anche se di tradizionale, fondamentalmente, a Formentera c’è l’incontro di svariate culture, perciò la bigiotteria, i dipinti, la ceramica e i vestiti sono tutti rigorosamente fatti a mano da artigiani nati nei paesi più disparati, pur essendo per la maggior parte spagnoli, tedeschi e francesi. L’unico spazio del mercatino che viene lasciato libero è la stella, sopra alla quale artisti di vari generi (oggi soprattutto rock, blues e jazz) e nazionalità svolgono le loro performance musicali o danzanti. Tutto ciò in perfetta armonia con le tradizioni folcloristiche dell’isola che riguardano, oltre agli abiti ca-
ratteristici, proprio la musica e la danza, completando così un quadro davvero magico per chi ha la fortuna di trovarcisi dentro. E trovarcisi dentro significa realmente entrare a farne parte, respirando, oltre la tiepida brezza proveniente dal mare, l’antico spirito dell’isola e quello di tutti i personaggi che ancora, ognuno a suo modo, lo animano e raffigurano in modo immortale. Ciò che a mio avviso fa di questo un mercato unico al mondo è la sua intrinseca natura, che lo trasforma in un viaggio nel viaggio, che auguro a tutti di fare almeno una volta nella vita. a destra: El Pilar de la Mola il mercatino hippie di Formentera
freak show di Marco Costa
“Tutta l’umanità è formata da potenziali clienti”. Così parlava Phinas T. Barnum, l’uomo che inventò lo show business, un imprenditore geniale e irrefrenabile che aveva iniziato lustrando scarpe in un fetida cittadina del Connecticut e morì, ricco da far schifo, all’età di ottant’anni, non prima di aver insegnato al mondo che l’impensabile era assai possibile. Tutto quello che serviva era un’astuta promozione e la credulità del popolo. Benché la sua fama di abile millantatore sia storicamente legata a diverse iniziative spettacolari, non tutte inerenti l'ambito circense, nella memoria contemporanea il suo nome è sinonimo di attrazione, sarabanda, mostruosità esposta. Fiutando l’interesse dell’essere umano verso l’inumano, del pubblico pagante verso lo spettacolo della deformità, ad un certo punto della sua carriera, aveva ingaggiato persone con tre gambe, ermafroditi, obesi, rachitici, uo64
mini lupo e gemelli siamesi, pagandoli come artisti e sfruttandoli come fenomeni da baraccone, trasformando il suo circo nel più Grande Spettacolo del Mondo, una delle più richieste attrazioni d’America dalla fine dell’Ottocento in poi. Per molti di loro la possibilità di esibirsi in un circo fu un’occasione di riscatto, un modo per guadagnare soldi e fama, firmare autografi sulle cartoline che li ritraevano e talvolta per trovare l’amore, ma per tutti gli altri fu soltanto l’ennesimo capitolo di una tragica esistenza consumata tra avvilenti dolori e desideri inespressi. Le loro storie personali sono rimaste come echi inudibili dietro alle antiche fotografie che li ritraevano in posa, ad esibire le loro straordinarie alterazioni con orgoglio. Accanto a qualcuna di queste immagini ritratte nei libri, non sopravvivono che alcune righe: Charles Barnet, detto il ragazzo foca, fu allevato da una madre adottiva e si esibì nel circo di Coney
Island. Serpentina, la ragazza senza ossa, era nata nell’Ontario e non aveva ossa nel corpo tranne che per il cranio. Eddie Masher, lo scheletro vivente, non ha mai pesato più di 19 kg. Sembrano tristi epitaffi per una dimenticata Spoon River del popolo freak. Negli anni che seguirono l’exploit di Barnum, intorno a queste figure distorte e quasi mitologiche si soffermò l’attenzione di conti e collezionisti d’arte, celebri fotografi e anonimi feticisti che ne fecero un caso estetico e culturale, un’allegoria in forma fantastica degli scherzi del Creatore, immortalata poi nel capolavoro cinematografico del 1932 “Freaks” di Todd Browning o nel più recente “Elephant Man” di David Lynch o ancora nello splendido romanzo “Carnival Love” di Katherine Dunn. Perché le donne barbute o con tre seni, gli uomini albini, senza fronte o con la pelle da elefante, esistono eccome e, benché come primo istinto, di
fronte alle fotografie di un freak, ci sovvenga il brivido del ripudio, in fondo in fondo ne siamo come segretamente avvinti o per lo meno incuriositi. C’è persino chi li ha usati verso la fine del diciannovesimo secolo per corroborare le teorie darwiniane sull’origine della specie, considerandoli una prova dei tentativi della natura alla ricerca della diversità più adattabile, ma per la maggioranza del pubblico erano solamente uno specchio deformante della mostruosità insita nell’uomo. Cosa significherebbe vivere con un gemello siamese la cui testa cresce all’interno del vostro ventre, mentre il corpo esile ma ben formato pende sospeso fuori dalla pancia? Come ci comporteremmo se in fila alla posta, proprio dietro di noi si accomodasse un uomo totalmente ricoperto di peli o una donnina di appena sessanta centimetri? A giudicare dai milioni di visitatori che su YouTube hanno guardato il video dedicato
dal film “Elephant Man” di David Lynch
ad Abby & Brittany, due gemelle siamesi adolescenti (corpo unico con due teste), che conducono una vita relativamente spensierata, la diversità fisica continua ad attrarre. Sarà anche per questo che nella cultura contemporanea il termine freak si è ampliato semanticamente fino ad inglobare molte più forme di mostruosità, siano esse natali o autoinflitte. È diventato un indicatore di malformazioni talvolta anche morali o interiori. Si parla di freak riferendoci a personaggi come Michael
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Jackson o Cher, Dolly Parton o Amanda Lepore, a causa dei continui ritocchi plastici che hanno sfigurato i loro lineamenti, preservandoli dall’incedere del tempo. Ma senza giungere a tali estremi, basta guardarci intorno per scoprire che di mostri e mostruosità, ne siamo circondati. In questa società dello spettacolo dove l’autentico freak è stato bandito grazie al vessillo del politically correct, eccezion fatta per lo Show dei Record, nuove orribili creature si offrono in pasto alle smanie del grande pubblico. Non è
forse una mostruosità autoinfliggersi una protesi mammaria che sfida la gravità, deformarsi in palestra e riempirsi d’ormoni trasfigurando il proprio corpo in una catena montuosa di muscoli o tirarsi la faccia come la pelle di un tamburo, al punto da non poter neppure più sussurrare “auguri” al proprio nipotino? Ora che il termine “diverso” ha acquisito difformi contenuti e che la paura per il deforme s’è fatta leva economica per gli studios hollywoodiani e le major televisive, ora che Marylin Manson s’è trasforma-
to da rocker ribelle in sofisticato ospite da salotto, come distinguere i mostri veri da quelli presunti? Il timore è che se oggi uno yeti scendesse dalle montagne e si dirigesse in uno qualsiasi dei nostri centri commerciali, dopo un reciproco scambio di sguardi fra lui e la contemporanea razza umana, sarebbe quest’ultimo a correr via stravolto dal terrore.
NEL PROSSIMO NUMERO...
foto di Ales Prikryl - dusttoashes.com
I panorami più affascinanti? Quelli che si vedono dai grattacieli dei migliori alberghi. Le escursioni più faticose? Quelle per negozi e centri commerciali e vi giuro che farlo sulle mie Jimmy Choo è davvero un’impresa. Usanze locali? Non è che abbia ben capito cosa intendeva quel tipo della redazione. Conosco bene i locali, non le usanze. Anche un po’ di cultura quando vengo invitata ai vernissage (non ricordo bene di chi fosse l’ultimo ma si beveva ottimo champagne!) La Miss
the chic trip MARE E LUSSO A GRAND TURK Con ogni probabilità dal prossimo mese inizierò un nuovo lavoro. Un’amica stilista mi ha chiesto di aiutarla in un progetto decisamente interessante. Ma di questo, forse un po’ per scaramanzia, vi parlerò più avanti. Il punto è che prima di diventare una donna in carriera (ho appena acquistato una valigetta portadocumenti in pelle di struzzo rosa che mi fa sentire rampante e ambiziosa come non mai) ho assolutamente bisogno di una vacanza. Da Miami, che mi ha stancata e un po’ delusa con la sua caotica pacchianeria fatta di lustrini e silicone (v. “the trip” n°2), parto per Turks and Caicos, uno splendido arcipelago dei Caraibi nell’Oceano Atlantico che, stando a quanto dice il mio personal trainer, è un luogo incantevole e rigenerante, tanto che Madonna vi si rifugia spesso alla fine dei suoi tour internazionali. Per quest'ultima vacanza da disoccupata, in assoluta solitudine e in completo relax, ho scelto il resort “Amanyara”, che si trova nell’isola principale di Grand Turk (che dall’aereo aveva chiaramente la forma di un fagiolo), nei pressi del parco nazionale marino di Northwest Point. Nonostante il resort offra la possibilità di affit70
tare splendide ville private, ho scelto una camera con vista sull’oceano, che, fin dal depliant, sembrava un vero e proprio angolo di paradiso. Appena giunta a Grand Turk, salgo su un’auto che la reception ha prenotato per me e sorseggio il miglior cocktail di frutta che abbia mai bevuto. Sembra infatti che la frutta dell’isola abbia un gusto straordinario, lontano anni luce dai prodotti trattati, lucidati e incellophanati che usiamo consumare nelle nostre case. Qui la vegetazione è rigogliosa: cactus e alberi di acacia (ok, non è farina del mio sacco, l’ho saputo dal mio gentilissimo autista) rendono l’isola coloratissima e profumata, un luogo ideale per fuggire lontano da orari e problemi. I colori del mare sono incredibili: la sabbia sembra cipria bianca e finissima, l’acqua un miscuglio di verdi e di azzurri che ricorda – beh, solo a me, in effetti – un abito di Emilio Pucci. Amanyara è l’unione perfetta tra natura incontaminata e avanzatissimo design, con la sua struttura in elegantissimo tek che non sembra in alcun modo infastidire stormi di aironi e pellicani che la sorvolano disinvolti. Il mio appartamento è perfetto: ispirato alla struttura delle capanne rudimentali, è un capolavoro di modernità e comfort. Il televisore al plasma mi promette un po’ di svago, senza rubare il ruolo di protagonista alle tre enormi vetrate che si affacciano sul mare. Una brochure appoggiata sul comodino mi rassicura, ricordandomi che non avrò modo di soffrire la solitudine. Ho infatti la possibilità di usufru-
ire di un team di terapisti e massaggiatori, un cuoco personale ed un cinema in cui si proiettano film in lingua inglese, oltre ad una vasta scelta di cd e dvd per trascorrere piacevolmente le mie serate. Scopro presto che il resort offre cibi squisiti a base di pesce freschissimo, che variano dalla cucina asiatica a quella mediterranea. Decido di mangiare al ristorante sulla terrazza dell’Ocean Pavillon, per godere della splendida vista e della brezza che, un po’ più forte dalle sette di sera, mi costringe ad indossare un leggero cashmere. Il giorno seguente Marcel e Anie, una coppia di ragazzi del luogo, mi accompagnano a fare un giro in barca. Incredibile: so pescare. Beh, so tenere la canna da pesca in mano, loro hanno fatto il resto. La barriera corallina è uno spettacolo da non perdere. Sulle spiagge, inaccessibili se non via mare, le tartarughe riposano al calare del sole. E le persone del luogo sono così affabili e gentili che non ho più voglia di andar via. Ma presto sarò una lavoratrice instancabile, piena di responsabilità ed impegni. E dovrò assolutamente comprare una maschera defaticante.
distribuzione ROMA
GOA CLUB Via Giuseppe Libetta 13
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