the trip
N째4 / luglio-agosto 2010 / free press
lady libertà
“Succedeva sempre che a un certo punto uno alzava la testa e la vedeva. È una cosa difficile da capire. Voglio dire... Ci stavamo in più di mille, su quella nave, tra ricconi in viaggio, e emigranti, e gente strana, e noi... Eppure c'era sempre uno, uno solo, uno che per primo... la vedeva. Magari era lì che stava mangiando, o passeggiando, semplicemente, sul ponte.. magari era lì che si stava aggiustando i pantaloni... alzava la testa un attimo, buttava un occhio verso il mare... e la vedeva. Allora si inchiodava, lì dov'era, gli partiva il cuore a mille, e, sempre, si girava verso di noi, verso la nave, verso tutti, e gridava: l'America. Poi rimaneva lì, immobile come se avesse dovuto entrare in una fotografia, con la faccia di uno che l'aveva fatta lui, l'America”. Liberty Island, fiume Hudson. Le parole del protagonista di “Novecento” di Alessandro Baricco non potevano essere più appropriate. Perchè questa è la storia di un viaggio nel viaggio. Della traversata che migliaia di emigranti europei affrontavano nella speranza di un nuovo mondo. Del significato che nei loro occhi si stampava alla vista di quella imponente signora all'entrata di New York. Dello spirito di indipendenza che si respirava negli anni della sua costruzione. Comincia tutto a Parigi nel 1856. Édouard de Laboulaye, noto politico francese, decide di creare un monumento commemorativo dell'amicizia tra Francia e Stati Uniti. Si avvicinava il centenario della dichiarazione di indipendenza americana e Laboulaye, grazie all'aiuto dello scultore Frédéric Auguste Bartholdi e dell'ingegnere Gustave Eiffel, riesce a realizzare il suo progetto. Una donna, alta 93 metri, vestita con una toga romana, un braccio alzato che brandisce una fiaccola, i piedi nudi che calpestano catene spezzate. Una corona con sette punte e un libro stretto in mano con una data incisa sopra: 4 luglio 1776. Ci vogliono 1883 scatoloni per imballare tutta la statua e trasportarla con una nave da guerra francese. Ci vogliono quattordici anni per assemblarla sull'isolotto di fronte Manhattan. E finalmente, il 20 ottobre 1886 - con dieci anni di ritardo - Miss Liberty si presenta al mondo. E qui comincia il vero trip. Ma chi è la donna della statua? A chi si è ispirato Bartholdi nei suoi disegni? Cosa significano le sette punte, la torcia e le catene spezzate? La versione ufficiale ci dice che lo sculture si ispirò ad una rappresentazione del mitico Colosso di Rodi. Che le sette punte della corona rappresentano i sette mari e i sette continenti, le 04
catene spezzate sono il simbolo della liberazione dall'Impero britannico e la fiaccola accesa è il segno della libertà che illumina il mondo. C'è un piccolo particolare: sia Bartholdi che Eiffel erano massoni. E qui le interpretazioni si sprecano. Si dice che il Colosso di Rodi fosse un scusa e che la vera ispiratrice fu invece la Regina babilonese Semiramide, una guerriera sfrenata e lussuriosa che riuscì a riconquistare la città di Babilonia e i territori degli Assiri. I sette mari e continenti diventano i sette momenti della creazione del mondo. La fiaccola accesa si trasforma nella rappresentazione dei segreti massonici e quindi della conoscenza negata al resto dell'umanità. Sulla fiaccola, in particolare, sono state fatte ipotesi infinite. Una cosa è certa: la stessa fiaccola si trova a Dallas, nella Dealey Plaza, dove fu assassinato Kennedy. E di nuovo la ritroviamo sopra la galleria del Pont de l'Alma, a Parigi, dove è morta Lady D. È vero che la massoneria negli Stati Uniti ha trovato sicuramente il suo terreno più fertile - pensate solo a Franklin Delano Roosevelt che nel '33 fece imprimere sulle banconote da un dollaro la piramide priva di vertice rappresentante “l'occhio che tutto vede” simbolo per eccellenza della massoneria nostrana - ma è vero anche che la storia è un enorme puzzle. Si parte dagli angoli per concludere al centro. E se per caso perdi anche solo uno degli infiniti pezzettini che la compongono non avrai mai il quadro completo. Quindi, se vi dicessi che recenti studi vedono nelle origini della Statua della Libertà la riproduzione della “Statua della Libertà della poesia” presente sul monumento funebre di Giovanni Battista Niccolini nella Basilica di Santa Croce a Firenze? Come la prendereste? Vince l'influenza neo-classica del tempo o le interpretazioni dei cosiddetti Illuminati? Ma Lady Liberty, non esiste proprio per questo? E se New York non vi sembra a portata di mano potete recarvi nella vecchia Parigi. Sulla Senna, rivolta ad ovest per salutare la sua gemella dall'altra parte dell'Atlantico, a pochi km dalla torre Eiffel, dove un tempo sorgeva il laboratorio dello sculture che la creò, ecco una copia esatta di Donna Libertà. Oppure nella baia di Tokio e ancora ad Osaka. In Norvegia nel villaggio di Visnes, a Colmar in Alsazia e fino al '45 anche ad Hanoi capitale del Vietnam, e molte altre ancora sparse per l'intero globo. Un vero trip insomma. Il viaggio di un sogno chiamato libertà. Valentina Diaconale
sommario
08
04 editoriale
eventi dal mondo
intervista
Cuba
36 inviati
burning man
40 50
48 Svezia
60 i delfini rosa
52 Tunisia
64
63 Miranda July
libri
68 nel prossimo numero
44 Montréal
Francesca Woodman
pop market
24
18
16 pagina del fotografo
12
70 the chic trip
redazione the trip N° 4 luglio/agosto 2010
sede redazione Via Apollo Pizio 13 – Roma
direttore responsabile Valentina Diaconale direttore editoriale Lorenzo Verrecchia lorenzoverrecchia@thetripmag.com vicedirettore Veronica Gabbuti capo redattore Francesca Rosati art director Andrea Bennati responsabile marketing Luca Salice lucasalice@thetripmag.com
Registrazione Tribunale di Roma n. 329 del 6 ottobre 2009
editore Associazione di promozione sociale “ELLE” centro stampa A.T.I. Arte Tipolitografica Italiana srl Via Nicaragua 8 – 00040 Pomezia (RM) atispa.com sede legale Via Gasperina 188 – Roma
hanno collaborato Elena Adorni, Sofia Asplund, Claudia Bena, Daniel Baylis, Marco Costa, Ginevra Foderà, Sennait Ghebreab, Alessandra Iodice, Marianna Kuvvet, Anna Mastrolitto, Daniele Montemale, Alexandra Rosati, Gianmaria Schönlieb, Matteo Tabacchini. foto Gerald Bruneau – blacharchives.it Edoardo Cafasso – edoardocafasso.com Alessia Laudoni – alessialaudoni.com Julien Lebreton – julien.mammouth.free.fr Davide Pivetti – d.pivetti@ladige.it Ales Prikryl – dusttoashes.net Leonide Principe – leonideprincipe.photoshelter.com Claudio Salvatore
La foto in copertina è di Ales Prikryl L’illustrazione dell’editoriale è di Kero kerousel.com contatti info@thetripmag.com - thetripmag.com
eventi dal mondo a cura di Francesca Rosati
BORYEONG (COREA DEL SUD) 17 LUGLIO - 25 LUGLIO “BORYEONG MUD FESTIVAL” Dei numerosi festival coreani, probabilmente questo è quello che attira il maggior numero di curiosi e visitatori. Oltre ad immergersi nell’atmosfera unica del luogo, a Boryeong ci si può letteralmente tuffare nel fango, partecipando a lotte e nuotate in vasche enormi. Chi è alla ricerca di relax potrà godere degli effetti benefici del fango nella zona massaggi. Le serate invece vengono scandite da musica e fuochi d’artificio, per continuare a festeggiare sulla spiaggia fino all’alba. mudfestival.or.kr HUNTINGDON (INGHILTERRA) 22 LUGLIO - 25 LUGLIO “THE SECRET GARDEN PARTY” Lontano dalle città e dagli orari, dalle marche e dai confini, l’SGP è una vera e propria comunità temporanea che si riunisce per dare il via libera alla fantasia e alla creatività. Le sue installazioni interattive alla portata di tutti prendono spunto dal progetto del Burning Man. E, oltre all’arte, la musica, le esibizioni e le feste, i partecipanti sono coinvolti in workshop unici e variegati sull’astrologia, lo yoga, la magia, le scienze. Libero, irriverente e seducente. Farne parte è come rivivere l’esperienza della piccola Mary Lennox nel suo “giardino segreto”. uk.secretgardenparty.com
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TROBRIAND ISLANDS (PAPUA NUOVA GUINEA) ULTIMA SETTIMANA DI LUGLIO “MILAMALA FESTIVAL” Lontana e selvaggia. La Papua Nuova Guinea regala paesaggi di ogni tipo: insenature, isole, arcipelaghi, montagne e foreste pluviali. E proprio la sua morfologia fa sì che la popolazione sia ancora oggi divisa in molte tribù, la maggior parte delle quali vive tuttora molto isolata dal mondo esterno. Così sopravvivono diverse usanze antiche come il raccolto della batata (che non è altro che la patata dolce), celebrato ogni anno con grandi feste, danze e musiche tradizionali. MAFIA ISLAND (TANZANIA) 1 AGOSTO - 15 AGOSTO “MAFIA DANCE FESTIVAL” Solo qui è possibile ballare, divertirsi e rilassarsi in un luogo magico e lontano, in un’atmosfera pura e selvaggia, di fronte a una spiaggia tropicale ed in mezzo a una foresta di palme, il tutto nel massimo rispetto dell’ambiente. Un contrasto unico quello tra natura incontaminata e musica elettronica. Oltre al main stage e al palco di musica alternativa, trovate un palco dedicato all’Africa ed uno denominato “awareness” (percezione, consapevolezza), dove, oltre ai workshop di yoga e meditazione, si può partecipare a proiezioni, letture e dibattiti su temi globali come l’ambiente e la spiritualità. Chi vuole può
allontanarsi qualche ora per partecipare a dei safari organizzati in giro per l’isola. mafiadancefestival.com ROCK CREEK LODGE (MONTANA) 4 AGOSTO - 8 AGOSTO “TESTICLE FESTIVAL” Leggetevi il capitolo "Il Festival del Testicolo" contenuto nel libro di Chuck Palahniuk "La scimmia pensa, la scimmia fa" e partite per il nord degli Stati Uniti dove ha luogo uno dei festival più bizzarri del pianeta. Detti anche “ostriche delle Rocky Mountains”, più di 15.000 testicoli di toro vengono marinati nella birra, impanati e fritti. L’entrata è riservata ai maggiori di ventun’anni. testyfesty.com LAGO IDANHA-A-NOVA (PORTOGALLO) 18 AGOSTO - 26 AGOSTO “BOOM FESTIVAL” Affacciato su un lago immerso nel verde, il festival concettuale portoghese – dove il concetto è proprio la natura – giunge quest’anno alla sua ottava edizione e si sposta in una location ancora più suggestiva e mozzafiato, oltre che molto più comoda (grazie all’ombra degli alberi ed al terreno piatto dove poter campeggiare). Il tema è l’acqua e l’obiettivo quello di allargare la mente e scoprire le dimensioni più nascoste della natura, attraverso il contatto diretto con la musica e l’arte in tutte le sue forme. boomfestival.org
TRAVELLING AROUND MELT! FERROPOLIS, GERMANIA 17-19 LUGLIO foto di Alessia Laudoni
Chitarre, beats, industria e natura. Tre giorni non stop immersi nell’affascinante decadentismo postindustriale di Ferropolis, una piccola penisola circondata dalle acque del lago Gremmin a sud di Berlino. Ferropolis - la città di ferro - un tempo luogo per l'estrazione del carbone, oggi oltre ad essere un museo a cielo aperto è anche la cornice di uno dei miglior festival in Europa: il Melt! Tra le bande che hanno contribuito a diffondere la reputazione del festival: Aphex Twin, Underworld, Björk, Franz Ferdinand, Editors, The
Streets, Oasis, Bloc Party, Röyksopp e Michael Mayer, per citarne alcune. Mentre, tra gli 80 artisti che si alterneranno tra i sei palchi della tredicesima edizione del festival: Booka Shade, Chris Cunningham, dj Shadow, dOP, Ellen Allien, Fake Blood, Groove Armada, Hercules And Love Affair, Jónsi, Kings of Convenience, Massive Attack, Matias Aguayo & Band, Modeselektor, Simian Mobile Disco (DJ set), WhoMadeWho, Yeasayer, The Big Pink, Tobias Thomas. Il festival, che combina alla qualità musicale un ambiente surreale e l’efficienza tedesca, si prepara ad accogliere ventimila visitatori di trenta paesi differenti, per ballare circondati da gigantesche macchine industriali della metà del XX secolo. Cinque enormi escavatori, ognuno
lungo fino a centrotrenta metri e alto trenta, che totalizzano settemila tonnellate di estetica della storia industriale. Da lontano sembra l’inferno che brucia, e tra il ferro, la gente, le luci e i suoni, dopo il terzo drink crederai di essere in Blade Runner. Per facilitare l’accesso al festival ed il soggiorno ci sono autobus a disposizione che partono da Berlino, un'area di campeggio libero e un servizio di noleggio di tende. Tickets: Abbonamento x 3 giorni: 94 euro Abbonamento x 2 giorni: 74 euro Anna Mastrolitto annamastrolitto.blogspot.com
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l’uomo che sussurrava ai leoni di Francesca Rosati
Per i leoni non è un addestratore. È un amico. Perché lui non li istruisce: li alleva, ci gioca, ci fa il bagno, li coccola come fossero dei gattini, si avvicina persino ai cuccioli sotto lo sguardo permissivo delle leonesse. Kevin Richardson, appassionato ed esperto zoologo sudafricano, studia il comportamento dei sovrani della foresta ormai da anni, e ne custodisce trentotto esemplari – tutti nati in cattività – nella sua tenuta privata a Johannesburg. Lo abbiamo incontrato per stanare le sue paure ma, ammettendo che esistano, non le abbiamo trovate. Come nasce la tua passione per i leoni? Il mio amore per i leoni nasce nella mia infanzia, quando sfogliando i libri rimanevo affascinato da loro e dagli altri animali africani. In realtà non esistono manuali o corsi da frequentare per interagire con i leoni come faccio io: si impara sbagliando e con l’esperienza. Il primo incontro con due leoni risale a più di dieci anni fa e questa lunga storia d’amore ancora prosegue. Quando si osserva il mio lavoro, bisogna tenere a mente che tutti i leoni con cui ho a che fare li conosco da quando erano cuccioli. Costruiamo i nostri rapporti nel corso degli anni e quindi il fatto che crescendo diventino dei bestioni pericolosi non va considerato perché il legame è già saldo quando sono piccoli e innocui. Cuccioli o no, come si fa a vivere con quaranta leoni dentro casa? Ci tengo a precisare che gli animali non sono di mia proprietà: io sono un mero custode. Sono stato molto fortunato nel riuscire a creare un’area protetta dove ospi12
tare gli animali con cui lavoro in modo così intimo. Le licenze ed i permessi per tenere grandi carnivori sono - giustamente - molto rigide perché la loro custodia non deve mai essere presa a cuor leggero. Il mantenimento e la cura di questi animali incide drasticamente sulle spese mensili. Dentro casa tengo solo gli animali che hanno bisogno di cure ventiquattrore su ventiquattro, e la maggior parte di loro sono cuccioli. Detto questo, cerchiamo di non far moltiplicare i nostri animali in cattività usando la pillola contraccettiva. Riesci a distinguere ognuno dei tuoi leoni? Sì, sono decisamente tutti diversi e riesco a distinguerli come un padre con i suoi figli! Ognuno ha il suo ruolo e io interagisco con loro come se fossi parte della loro società, senza bisogno di addestrarli. Non hai paura che ti possano aggredire e uccidere? Potenzialmente sì. È vero, potrebbero farmi del male. Ma è un rischio che son disposto a correre perché il nostro legame arricchisce sia la mia vita che la loro. Ma come ho spiegato, il rapporto che ci lega diminuisce drasticamente questi pericoli. E poi, la vita di tutti i giorni non è sempre piena di rischi? Cosa pensa la tua famiglia del tuo lavoro? Mia moglie mi ha sempre appoggiato e mio figlio, di appena sette mesi, credo farà altrettanto. Non si preoccupano per me, per la mia incolumità, perché sanno che sono molto attento e non farei mai nulla per mettere in pericolo la mia vita o quella degli animali.
Hai contatti con altre specie di animali o il leone ha l’esclusiva? Interagisco con la maggior parte delle specie africane, ad esempio con le iene. Al momento non è mia intenzione lavorare con quelle esotiche, ma amo tutti gli animali e se dovesse presentarsi l’occasione potrei prenderla in considerazione. Vedere le tue foto mi ha fatto pensare al video del leone Christian e dei suoi padroni, John Rendall e Ace Berg. Ma quindi è vero che i leoni sono fedeli come i cani e hanno la memoria degli elefanti? Il Re della foresta ha parecchie caratteristiche e qualità ma fedeltà e memoria non rientrano tra queste. Il caso di Christian in realtà ha una spiegazione molto semplice: un leone di due anni è molto socievole e quindi si eccita quando incontra delle persone che non vede da un anno. Credo che la situazione sarebbe stata molto diversa se Christian fosse stato un leone maturo. Immagino che il tuo particolare lavoro ti abbia portato parecchia popolarità. Si, in effetti ho molte persone che si sono appassionate al mio lavoro e che mi seguono con costanza. Quest’anno poi, oltre ad avere i “miei” personali tifosi, a loro si sono uniti anche tutti quelli che si sono organizzati per la Coppa del Mondo che si sta giocando qui in Sudafrica. E i Mondiali di calcio sono diventati un’occasione in più per venire a trovare me e i miei leoni. a destra: Kevin Richardson nella sua tenuta di Johannesburg
diventa protagonista di questa pagina. Londra 2008, foto di Stefano Mattia, stefanomattia.it
soy Cuba testo e foto di Edoardo Cafasso Io sono… Cuba. Una volta, qui sbarcò Colombo. Egli scrisse nel suo diario: È la terra più bella che l’occhio umano abbia mai visto. Grazie, signor Colombo. Quando lei mi vide per la prima volta io cantavo e ridevo. Salutai le vele con i miei pennacchi, credendo che mi avrebbero portato gioia. Io sono… Cuba. Le navi si portavano via il mio zucchero. E mi lasciavano… le lacrime. Lo zucchero è una strana cosa, signor Colombo. In esso c’è tanto pianto, eppure è dolce. Sono Cuba. A volte credo che i tronchi delle mie palme siano stati innaffiati con il sangue. A volte mi pare che intorno a me non sia il mare a muoversi, ma le lacrime del popolo. Chi risponde di questo sangue? Chi risponde di queste lacrime? Sono Cuba. Gli uomini alla nascita hanno due strade. Quella del giogo che obbliga e soggioga, o quella della stella che illumina e uccide. Sceglierai la stella. Duro sarà il cammino e lo segneremo con il sangue. Ma quando un uomo cade per una causa giusta, mille altri si fanno avanti al suo posto. E se poi non rimarranno più uomini, anche le pietre si alzeranno.
Rivoluzionari in ciabatte, idealisti della salsa, socialisti dei rapporti umani. “Soy Cuba” è un film russo del 1964, girato in bianco e nero. Diretto da Mikhail Kalatozov, ha una sua storia particolare e travagliata. Se non fosse stato prima per il documentario di Vicente Ferraz (“Soy Cuba: Il mammuth siberiano”) e poi per la curiosità di Martin Scorsese e Francis Ford Coppola, la prima collaborazione tra Cuba e Unione Sovietica, condita dalla rivoluzionaria fotografia di Sergej Uruševskij, sarebbe andata a finire nel dimentica-
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toio. Bellissimo. È bastato vedere il film per decidere di partire. Nella prima scena, una voce di donna recita la poesia sopraccitata, mentre la cinepresa si distende a volo d’uccello sui palmeti dell’isola. Perché Cuba è così. Ti accoglie a braccia aperte. Come una mamma che ti prende in braccio e ti fa volare in alto, sopra la sua testa. La sensazione che si ha è che tutti siano fratelli e sorelle, figli della stessa mamma grossa, bella e gentile che li ama alla stessa maniera. Non importano
razza e nazionalità: chiunque arrivi sull’isola non può che sentirsi subito cubano. E come ogni madre, Cuba si preoccupa per i suoi figli. Li nutre e li accudisce con la sua terra fertile ed il suo clima caldo, ma non può proteggerli dalla cattiveria e dalle ingiustizie della Storia. Cuba è una mamma, ma ancor prima una donna, forte e tenace. Non si può addomesticarla, non si può imprigionarla. La sua libertà non ha prezzo poiché non è in vendita. Ma purtroppo non è sempre vero: la povertà dei suoi
figli è tale da spingerli a vendere tutto il vendibile. Le meraviglie che incantano i ricchi turisti che spendono sono - oltre alle spiagge bianchissime ed ai sigari profumati - i bellissimi corpi dei quali i cubani e le cubane sono dotati e che vendono con sbalordente dignità. La prostituzione non è niente di male finché permette loro di vivere meglio. È la dignità che si vende per poter acquistare più dignità. I cubani si raccontano tra di loro una barzelletta. Dopo essere morto ed aver trascorso una settimana in Paradiso, Ro-
berto, che è cubano e quindi non avvezzo alla calma che vi regna, va a parlare con San Pietro al quale chiede il permesso di passare una settimana all’Inferno, e poi scegliere dove trascorrere il resto dell’eternità. Ottenuto il permesso, Roberto si reca all’inferno, dove trova proprio quello che stava cercando: cibo, alcol, donne, sigari e musica. Finita la settimana di soggiorno, Roberto è convinto della sua scelta. Ma, dopo aver comunicato la sua decisione a San Pietro e ridisceso agli Inferi, si ritrova
davanti una scena totalmente diversa. Donne grasse e sciatte che mangiano fagioli e riso, mosche e puzza di escrementi ovunque, urla e lamenti di dolore. Sconvolto, si avvicina ad un uomo e gli domanda: “Scusami, ma dove sono le belle donne, la musica ed il rum che ho visto la settimana scorsa?” E l’uomo risponde: “Roberto, tu sei cubano, vero? Beh, l’inferno è come Cuba: visitarla da turista è una cosa, viverci è tutt’altra!” Questa storiella me l’ha raccontata una donna in un lo-
cale de L’Havana dopo che avevo rifiutato il suo corpo spiegandole che avrei voluto vivere Cuba da cubano. Cuba io volevo viverla, ma era chiaro che l’avrei fatto con i preconcetti di un europeo. Pensai quindi che il modo migliore ed anche il più veloce per potersi sentire un po’ più cubano, fosse quello di farsi battezzare: cominciare una nuova vita passando per una rinascita spirituale. A Cuba ho comprato l’ingresso nel mondo magico e religioso della Santeria. Nata dall’unione di elementi
cattolici con elementi della Yoruba, credenza originaria dell’Africa Occidentale, agli schiavi africani era stata tassativamente vietata, pena la morte. Per praticare tale religione politeista essi furono obbligati a nascondersi dietro l’adorazione dei santi cristiani. Per questo si chiama Santeria, dallo spagnolo e con accezione denigratoria. Considerata oggi più una magia bianca che una religione vera e propria, la Santeria ha ottenuto grandi benefici dalla rivoluzione castrista che la promuoveva come identità
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culturale cubana ma anche come alternativa alla religione cristiana capitalista. Oggi, grazie anche al turismo, prima risorsa dell’isola, la Santeria ha acquisito un forte carattere identitario della cultura cubana. Nonostante queste premesse, non pensavo che sarebbe stato facile trovare il modo di farsi “battezzare”. Ma è bastato inoltrarsi ne L’Havana meno turistica di notte per imbattersi in un rituale ed incontrare un vero sacerdote, il Babalao Yohan. Non ho fatto foto per evita-
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re di rompere la spontaneità dell’incontro, ho solo preso accordi. Sarei andato a casa sua il giorno dopo. Ho dovuto pagare solo, si fa per dire, cento dollari per rimediare il necessario al rituale: una bottiglia di rum locale, un gallo ed un piccione vivi, tre sigari, un osso di morto e delle statuette rappresentanti le quattro divinità della Santeria (a Cuba con cento dollari ci sfami una famiglia per almeno tre mesi ed anche per un occidentale è una somma considerevole). Sapevo che mi stava fregando, ma lo stava facendo con
così tanta innocenza che non mi sono sentito frodato. In fin dei conti stavo aiutando la sua famiglia. Credevo che i cento dollari sarebbero bastati a spalancarmi qualsiasi porta, ma mi sbagliavo. “Il rito di iniziazione è una cosa seria e complicata”, ripeteva Yohan mentre preparava ogni cosa minuziosamente. C’era il rischio che i santi non mi volessero. Per saperlo Yohan ha gettato in terra cinque pezzi di noce di cocco e fatto la proporzione tra le facce scure e quelle chiare della corteccia. Chia-
ro avrebbe voluto dire “si”, scuro “no”. Sembrava come giocare ai dadi con un avversario invisibile. Ho aspettato trepidante l’esito dell’ultimo lancio: sono stato accettato, il rito poteva cominciare. Yohan ha iniziato a recitare formule magiche in un’antica lingua comprensibile solo a tratti ed io, a bassa voce e ad occhi chiusi, ripetevo tutto. All’odore del gallo e del piccione presto si sarebbe aggiunto quello acre del loro stesso sangue. Yohan ha staccato il collo ad entrambi con un gesto secco della mano,
dopo averli strusciati lungo tutto il mio corpo senza mai smettere di recitare la stessa litania. Il sangue gli scorreva lungo le mani e gocciolava in una ciotola. Per un attimo ho temuto di doverlo bere, ma quella era solo la ciotola delle offerte che il Babalao porgeva agli dei in cambio della mia protezione terrena. Per fortuna. Al sangue si è aggiunto l’odore del rum, che Yohan prima mi ha spruzzato con la bocca in faccia e sul corpo, e poi ha versato nella stessa ciotola. Infine ha acceso il sigaro e mi ha soffiato il
fumo addosso - anche questa volta per tre volte consecutive - per poi posarlo accanto alla ciotola. “Più a lungo il sigaro brucia, più a lungo gli dei veglieranno su di te”, mi spiegò. Il fumo era sospeso a mezz’aria e saliva dritto dal braciere del sigaro, che non si è spento fino alla fine. Solo a quel punto Yohan mi ha abbracciato porgendomi due collane simbolo della mia appartenenza alla Santeria. In cuor mio pensavo di aver buttato soldi e tempo e che mi avessero abbindolato con
un paio di trucchi magici, che in fondo non ero cambiato e che ero sempre lo stesso turista occidentale del giorno prima. Mi dissi che solo un evento eccezionale avrebbe potuto cambiare la mia opinione, solo una prova tangibile dell’amore di mamma Cuba mi avrebbe dato ragione di credere che ero veramente legato a Lei, all’isola. Mi sarei convinto solo se avessi trovato un segno qualsiasi, ma tangibile, tra le rughe di questa terra. Sulla spiaggia di Trinidad, tre giorni dopo, strinsi tra le mani
una roccia marina rotonda. Esterrefatto e incredulo la guardai. Aveva le esatte sembianze di un teschio umano, simbolo che nella santeria rappresenta la morte che libera dal dramma della vita. Eccola la prova che Cuba stava offrendomi. Ormai ne ero sicuro: il legame con l’isola era compiuto. “Lei mi ama”, urlai.
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real surreal at Black Rock City reportage fotografico di Ales Prikryl, dusttoashes.com
È difficile spiegare a parole cosa sia il Burning Man a qualcuno che non c’è mai stato. Sarebbe un po’ come provare a descrivere un colore ad un cieco. Per comprendere meglio l’evoluzione di questa comunità sperimentale che ogni anno si riunisce per una settimana nel Black Rock Desert nello stato del Nevada, creando la città temporanea più grande del mondo. Visitate il sito burningman.com.
inviati Alessandra Iodice DA MELBOURNE the hidden heide
Matteo Tabacchini DA BERLINO Berlin biennale
Ginevra Foderà DA MADRID estate madrilena
Sofia Asplund DA STOCCOLMA sud
Gianmaria Schönlieb DA SAN FRANCISCO dolores park
Sennait Ghebreab DA LONDRA Borough Market
Nel sobborgo di Heidelberg c’è, nascosto, l’Heide Museum of Modern Art. Meno conosciuto della grande National Gallery of Victoria, è un vero gioiello della capitale culturale australiana. A me piace chiamarlo “fattoria per artisti”. Due collezionisti d’arte australiani acquistarono questa fattoria nel 1934, trasformandola in un circolo in cui pittori, scrittori e poeti potevano vivere e lavorare lontano dal trambusto della città. Oggi il museo ospita installazioni dei migliori artisti australiani, tra cui Sidney Nolan, Albert Tucker e Joy Hester. L’aria che si respira è quella che caratterizza la libertà di espressione di questo paese. Ogni corrente culturale trova decisamente una nuova vita e le interpretazioni più stravaganti. Il grande giardino che circonda la struttura è un vero museo all’aperto attrezzato per organizzare piacevoli picnic tra mucche di latta colorata e alberi giganteschi.
Schermo bianco. Dissolvenza. Fine dei programmi. Alla fine non si vede niente. Niente eventi, niente happening. Niente Yoko Ono. Questa biennale è diversa. Mancano i resoconti, le polemiche, le cronache annoiate sui giornali. Insomma, tutta quella retorica da Expo le cui mille variabili in gioco danno troppo spesso esiti scontati. Ci sono gli artisti, però. Vengono da ogni parte del pianeta, le strade ne sono letteralmente infestate. E c’è un dibattito, continuo e radicale come questa città, definitivo, come la domanda a cui saranno chiamati a rispondere: “Credi nella realtà?”. O ancora: “Credi nell’illusione, nella distrazione, nella manipolazione?”. Perchè questa Biennale è soprattutto un’operazione ideologica, intrisa, certo, di quell’ideologia dell’accecamento che è l’arte, invenzione costante del desiderio di fare di sé un luogo di deriva assoluta dalla realtà. O almeno da quella che non esiste realmente. 11 giugno - 8 agosto berlinbiennale.de
Avete il coraggio di viaggiare in Spagna in piena estate ignorandone le coste e le sue meravigliose spiagge? Passate da Madrid, resterete entusiasti. All’inizio di luglio, vi troverete a contatto con una realtà che difficilmente riconoscereste in Italia: la Manifestazione Statale dell’Orgoglio Gay, Lesbico, Transessuale e Bisessuale. Il quartiere di Chueca (come poter sceglierne un altro?) si anima di parrucche colorate e musiche, tacchi vertiginosi e trucchi esagerati, parate e voci fuori dal coro. Ma Madrid è bella perchè è varia: se vi fermate fino ad agosto, nella zona de La Latina e Lavapiés verrete travolti dalle feste di San Cayetano (il 7), San Lorenzo (il 10) e la Vergine della Paloma (il 15), di carattere religioso: processioni, carrozze, abiti antichi della tradizione madrilena, buon cibo tipico e colori, colori, colori. Avete solo da scegliere e… come dicono qui: “¡A disfrutar de Madrid!”.
Mi chiamo Sofia, ho vent’anni e Stoccolma è la mia casa da tre. È una città meravigliosa posizionata su una serie di piccole isolette, tanto che l’acqua ne è la caratteristica predominante. La mia zona preferita è Söder, che letteralmente significa “sud”. Andavo a scuola qui, in un bellissimo palazzo antico sull’acqua chiamato Münchenbryggeriet (la fabbrica di birra di Monaco). Oggi è un posto molto frequentato dove trascorrere serate tra le discoteche e i concerti offerti dal complesso. Se venite a Stoccolma informatevi sugli eventi in programma. Un altro posto da non perdere, dove ho trascorso tante ore tra una lezione e l’altra, è Skinnarviksberget. È un punto panoramico della superficie rocciosa su cui sorge la vecchia fabbrica, da dove si può godere di una vista incredibile sull’acqua e su gran parte della città. Sorseggiare una birra quando il sole va giù è sicuramente uno dei modi migliori per far scorrere le serate estive.
Dolores Park non ha più alcun ricordo della sua storia. Cimitero ebraico fino alla fine del 1800 e poi refugee camp dopo il terremoto del 1906, tra il quartiere Mission e il più vivace Castro, è oggi ritrovo di ragazzi, famiglie, coppie, gruppi di amici che vogliono rilassarsi nel parco più hip della città. Con in mano un salted caramel ice cream appena preso da Bi-Rite Creamery, mi dirigo assieme a Jes verso la parte più alta della collina. Giocatori di frisbee, venditori di fruit punch, mojito, cold beer, empanadas e brownies. Di fronte a me, seduti sull'erba, un gruppo di hipsters: skinny jeans, occhiali vintage, biciclette malconce, look alternativo arrabbiato. Il tutto reso più chic dalla picnic bag con champagne e cestino di fragole. Ci guardano sorridendo, ma il sole molto caldo mi acceca e mi sposto in cerca di ombra. Da non perdere durante le giornate di sole. 18th street and Dolores.
Se vivi a Londra, e la conosci sai che il vero mercato del sabato è Borough Market: un’incantata realtà bucolica nel cuore della metropoli. Tutti i londinesi ci vanno: dal giovane con studio flat a West London alla famigliola di SW19 (Wimbledon area), dallo squattrinato di Bethnal Green al designer iper trendy di Hackney. Scendendo a London Bridge, sulla Jubilee line, si respira subito l'aria di Borough Market. In una solenne processione, bancarella dopo bancarella, si è come catturati in una giostra di tutte le tavole del mondo. Tradizioni gastronomiche, colori, suoni, odori e profili umani diversi si uniscono all'unisono esprimendo quell'unico melting pot culinario e culturale che si vive qui a Londra. A far ombra a Borough Market, quasi in maniera più austera, c'è solo la cattedrale gotica di Southwar, davanti alla quale, dopo aver fatto il giro del mercato, ci si può sedere sull'erba e gustare il bottino gastronomico della mattinata.
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l’adolescente profeta di Alexandra Rosati Alla fine degli anni Settanta, a Roma, il quartiere di San Lorenzo vive un particolare periodo di fermento artistico animato da pittori e scultori del calibro di Gianni Dessì, Giuseppe Gallo e Bruno Ceccobelli, che occupano studi e spazi comuni dove sperimentare nuove possibilità espressive. All’interno della Nuova Scuola Romana appare una figura femminile molto particolare, una giovanissima fotografa che condivide col gruppo la ricerca di un nuovo stile creativo. Si tratta di Francesca Woodman, fantasma che ancora aleggia in quei luoghi che a lei furono così congeniali. Nasce a Denver, in Colorado, il 3 aprile del 1958, da una famiglia di artisti. Il padre è pittore, la madre ceramista ed il fratello si dedica alla video arte, nuova sperimentazione artistica che prende forma 40
proprio negli anni Sessanta. Comincia a fare i primi scatti all’età di tredici anni e, sapendo già perfettamente cosa vuole dalla macchina fotografica, come usarla, quale luce e inquadratura sfruttare, dimostra un’insolita maturità per la sua età. La prima volta che ho visto le sue fotografie, guardandole una dopo l’altra, mi sono sentita completamente catturata, e la sensazione che ho avuto è stata quella di sfogliare, pagina per pagina, un vero e proprio diario visivo, all’interno del quale, per una strana ragione, diventavo sempre più la protagonista di quello straordinario e coinvolgente viaggio emotivo. L’immedesimazione non è difficile. La Woodman è modella di se stessa, e il suo corpo, spesso nudo, viene collocato in un set fotografico scrupolosamente preparato, quasi
completamente vuoto, angusto e claustrofobico, con una luce studiata appositamente per sfaldarne la consistenza. Ne escono immagini di donne che, rese quasi fantasmi, si fondono con l’intonaco dei muri, giocano con la propria ombra, si nascondono tra mobili e oggetti. Quel tipo di tecnica, che oggi può apparire banale, all’epoca rientra in un movimento che effettua una vera rivoluzione nel modo di fare fotografia. Nel 1975 Francesca s’iscrive alla Rhode Island School of design di Providence, e i “maestri” che la ispirano maggiormente, infatti, sono Man Ray, Arthur Felling Weegee e Duane Michals. Quest’ultimo è l’esempio più evidente di come si fossero sovvertite le convinzioni sulla fotografia. L’affermazione di Henri Cartier-Bresson: “Attraverso le nostre macchine fotogra-
fiche, noi accettiamo la vita in tutta la sua realtà”, diventa obsoleta. Verso la metà degli anni Sessanta Michals usa la macchina fotografica in modo completamente diverso, considerandola il mezzo più adatto per illustrare tutto ciò che invece è invisibile agli occhi. Si entra così nella sfera dell’immaginario, cercando di mettere a fuoco i sentimenti, lo spirito e i sogni. Questa è la strada che cerca di seguire la nostra “adolescente profeta”, come è stata definita dalla critica, una strada che conduce nei meandri dell’inconscio, che smaschera le paure, così come i desideri. Con la spontaneità tenera e irrequieta dell’età adolescenziale, limbo temporale nel quale Francesca resterà sospesa in eterno, i suoi autoritratti nudi, pur essendo immagini molto forti e intense, non risultano mai volgari, ed il suo
untitled. Boulder, Colorado 1972-75
corpo a volte celato a volte ostentato non è mai sintomo di narcisismo. Una parte importante della sua produzione artistica è legata al suo periodo romano (1977-78). Le foto sono tutte scattate in interni, case decadenti e vuote, dove la figura femminile sembra esplorare quel vuoto, e dialogarci condividendone la sua intimità. L’enigma sembra essere più vicino al “dove sono” che al “chi sono”, rivendicando uno spazio soprattutto psichico, sembra quasi che gli ambienti che lei stessa si crea siano gli
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unici ove ella possa esistere fino in fondo. Nel silenzio di una stanza si materializza il suo regno interiore. La sua figura, a volte conquistata dal sonno o dalla morte abbandonata sul pavimento, dentro una vasca da bagno o sopra una roccia nuda, oscilla continuamente tra la dimensione reale e quella del sogno. Quello che molti scambiano per un’ostinata ricerca d’identità, spesso non è altro che, tramite il suo esistere per dissolvenza e il suo scomparire fondendosi con l’universo che la circonda, una cancellazio-
ne di sé. Nel 1979 Francesca Woodman si trasferisce a New York, dove fa anche da modella per pittori e fotografi. Alla fine del 1980 cade in una profonda depressione che la porterà, il 19 gennaio del 1981, a buttarsi da un palazzo, scomparendo così per sempre. Le motivazioni del suo suicidio restano più o meno oscure, come quei volti spesso nascosti nelle sue foto, che impedivano così all’obiettivo di poter “fermare” il suo sguardo svelando palesemente la sua anima. Mi piace, semmai, ri-
trovarle nelle sue parole: “Ho dei parametri e la mia vita a questo punto è paragonabile ai sedimenti di una vecchia tazza da caffé e vorrei piuttosto morire giovane, preservando ciò che è stato fatto, anziché cancellare confusamente tutte queste cose delicate”. a pag 41: untitled. Roma, 1977-78
Montréal calling di Daniel Baylis foto di Julien Lebreton
Un uomo di montagna soccombe al fascino di Montréal, e poco dopo ci si trasferisce. Daniel Baylis è uno scrittore, viaggiatore e conversatore. Nel 2002 trascorre una settimana a Montrèal dove si trasferisce un anno dopo. Oggi si diverte a parlare con entusiasmo della città in un blog chiamato The Montréal Buzz. Un’altra giornata di pioggia. Sono stati sette giorni di precipitazioni costanti, e il mio umore è plumbeo all’idea di trascorrere un’altra giornata fradicia piantando alberelli di abete nel terreno roccioso. È l’estate del 2002 e sto lavorando come piantatore di alberi nelle colline del Northern British Columbia per finanziare la mia superflua laurea in Composizione Musicale. Lo stile di vita del piantatore di alberi è impegnativo, per
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usare un eufemismo, se si considera la sveglia alle cinque di mattina, le dormite sul materassino autogonfiabile (sgonfio), la costante inondazione di zanzare-vampiro e, forse la cosa più stancante, il necessario e perenne flusso di coscienza motivante che scorre nella mente: “Non mollare. Non mollare. Non mollare.” Le serate diventano la parte meravigliosa delle mie giornate, passate per lo più a nascondermi nelle macchine ad ascoltare musica. In un’occasione degna di nota, il mio amico avventuroso Sam, la versione contemporanea e borghese di Jack Kerouac, all’improvviso spalanca la portiera del camion diesel e si fionda all’interno, nel tentativo di minimizzare l’esposizione alla pioggia ostinata. “Dan”, sospira, “A fine contratto dovremmo fare un
viaggio. Dovremmo andare a Montréal. Dicono che sia davvero hip e bohemienne, un po’ tipo l’Europa.” Uno degli “argomenti di vendita” di Sam per Montréal era l’apertura ai gay. “Dico davvero, Dan. C’è un intero villaggio gay”, mi dice nel camion. Ne rimango affascinato. Nonostante la stanchezza, probabilmente influenzato dagli effetti tranquillizzanti di una sostanza erbosa, accetto felicemente. Qualsiasi altro posto suona meglio di questo. Sam si rivela essere piuttosto serio, e solo qualche giorno dopo il termine del contratto estivo da piantatori di alberi, mi chiama e mi annuncia che ha trovato dei biglietti economici per Montréal. Con il mio conto incicciottito da un assegno post-contratto e un bisogno crescente di avventura (e forse anche di una pista
da ballo sudata), i nostri piani si evolvono presto da “conversazione assonnata sul camion” a “Oh mio dio, stiamo andando sul serio”. Arriviamo a Montréal accompagnati dal buon umore. Inizialmente siamo un po’ intimiditi dalla nostre scarsa dimistichezza con la lingua francese, ma siamo eccitati dall’idea di essere in un’oasi urbana, a 4000 km dagli insetti e dagli orsi che ci hanno perseguitato durante l’estate. (E comunque viene fuori che quasi tutti parlano l’inglese fluentemente). Saliamo su un pulmino diretto al centro della città. Sbatacchia sulle strade malmesse ricordandomi quelle famigliari e rustiche della Columbia. Ma sento che questa conduce verso qualcosa di entusiasmante, un posto dove potrebbe cadere la pioggia
Palais des Congrès
inumidendo la città con altro fascino. Dopo aver fatto il check-in nel nostro ostello, Sam e io girovaghiamo per le strade. Iniziamo da St. Catherine West, dove ci troviamo circondati da segnali intermittenti al neon e dal trambusto creato dai cittadini che fanno shopping o saltano da un bar all’altro. Per cena optiamo per una pizzeria modesta, e poi continuiamo a vagare e a osservare le persone per capire cosa fare della nostra serata. Ma è la seconda sera che ci offre l’avventura che deside-
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ravamo da morire. Dopo un'ambiziosa partecipazione ad un buffet indiano “mangi-finché-non-ti-sentimale”, decidiamo che è ora di affrontare il Gay Village. Dopo essere stato recluso nei boschi ed aver quindi indebolito la mia vita sociale, sono agitato. Ma la mia curiosità e il coraggio da vino annullano qualsiasi inquietudine. Facciamo segno ad un taxi. Nella nostra ingenuità ci vergognamo entrambi di chiedere al tassista di portarci al Gay Village. Abbiamo paura di essere giudicati. Diamo
quindi un’occhiata alla cartina e tiriamo ad indovinare su dove potrebbe essere il villaggio. “Ci porti alla fermata metro Frontenac”, chiediamo, sparando su una stazione che sembra essere proprio nel villaggio. Una volta arrivati, usciamo dal taxi aspettando di vedere dozzine di drag queen ispirate a Celine Dion, ma non c’è nemmeno una bandiera arcobaleno che segnali l’arrivo al quartiere gay. Colpo non riuscito. Facciamo segno ad un altro taxi e, con la voce più blasé
che riesco a tirare fuori, chiedo all’autista di portarci al villaggio gay. “Certo”, dice lui con un sorriso, “Quale discoteca cercate?”. Capiamo subito che la nostra ingenuità è da scemi di paese. Non solo ci regala un sorriso a trentadue denti, ma conosce perfettamente dove sono tutti i locali gay. Alla fine scopriamo che avremmo potuto raggiungerlo facilmente dalla stazione metro Beaudry Village (tre stazioni prima di Frontenac, verso il centro). Dopo aver chiesto a qualche bel ragazzo quale locale potrebbe
fare al caso nostro, optiamo per lo “Sky Bar”, che offre tre piani con musiche e ambienti diversi. Balliamo e beviamo e festeggiamo la nostra nuova felicità urbana. Ed io torno a casa con un pacchetto di cerini con su scritto il numero di un ragazzo carino. Mi sento come se Montréal mi avesse (ri)trasmesso confidenza e rivelazione. Il viaggio si trasforma in una settimana di piacevoli sorprese e trascorre velocemente ma senza fretta. Io e Sam beviamo del vino in deliziosi bistrot, osserviamo gli artisti
di strada della vecchia Montréal, passeggiamo fino alla cima del Mount Royal, vediamo un film al Festival des Film du Monde e vaghiamo per la vivace fiera all’aperto lungo Ave Mont Royal. La città è sofisticata ma energica, sfacciata ma mai volgare. Ci sono certe città che si visitano e che colpiscono per la loro bellezza, senza però solleticare l’idea di viverci. Ad esempio l’Havana e Brisbane sono fantastiche ma durante i miei viaggi non mi sono mai immaginato di stabilirmi lì. Durante questo di viaggio, in-
vece, sento Montréal che mi chiama. Mi dice che ci sono persone ed esperienze che aspettano il mio arrivo. Un anno dopo lascio la mia noiosa cittadina del Canada occidentale e mi trasferisco a Montréal. Decido di darmi un anno per vedere come va. In un attimo gli anni diventano sette, e la città di cui mi sono innamorato quando ero un ragazzo continua a sedurmi con i suoi abitanti pieni d’ardore, le sue culture diverse, la sua architettura affascinante. E da qualche parte nel mio comodo appartamento a
Plateau, in una scatola coperta di polvere, tengo ancora un pacchetto di cerini con un numero scarabocchiato sopra. È la prova preziosa di un invito, un richiamo che ho felicemente seguito. a pag. 45 La Foule Illuminée (esplanade du 1981 Mc Gill College)
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pop market testo e foto di Alessandra Iodice Qui a Melbourne l’arte è qualcosa che si consuma e che fa parte della giornata. Negozi, bar e ristoranti curano i locali con grande attenzione all’aspetto. L’usato e il vintage sono molto di moda e la domenica mattina ogni sobborgo della città si riempie di mercatini che ripropongono qualsiasi forma li richiami. C’è il Rose Market nella bohemien Fitzroy, dove giovani artisti trovano spazio per offrire la loro arte nella produzione di accessori e vestiti. Non solo dipinti e sculture, ma anche collane, spille, mollette, cuscini e vestitini per bambini. Da vecchie scatole e bottoni ricavano graziosi bracciali e collane, con vecchi vinili simpatici portafoto. Come in un quadro di Warhol gli scaffali e i banchi vengono riempiti in stile pop art. Domenica scorsa siamo stati al Camberwell Market nell’omonimo quartiere, dove abbiamo incontrato tre giovani cinquantenni alla ricerca di divertimento e stravaganza. Diana, una di loro, 48
ci ha raccontato come questo mercatino sia eccentrico per questo posto. Lei e le sue amiche vivono lì da quando erano bambine e amano la domenica mattina perché possono stare sedute a bere il caffè in mezzo a mille persone affaccendate nella ricerca di un oggetto o di un vestito insolito. Camberwell Market è infatti un grande parcheggio dove chiunque può prenotare uno spazio e sostare con la sua macchina per la vendita di vecchi oggetti. Caratteristico lo sportellone del bagagliaio delle auto aperto, utilizzato come bancone o vetrina. La nostra amica ci racconta infatti che la gente va lì per vendere “garage stuff”, ossia tutte quelle cose che mettiamo in cantina perché non ci servono più. Ancora più interessante è stato incontrare ragazzi che venivano dalla capitale australiana di Canberra solo per trovare un abbigliamento o un accessorio che li rendesse diversi dagli altri. Tutti gli australiani conoscono bene questo mercato perché
è ormai da trent’anni che si ripete nonostante le lamentele dei negozi intorno e la sua atipicità rispetto al luogo. Camberwell è un sobborgo tra la middle e la upper class - ci dicono ancora Diana e le sue amiche - ed è davvero una diversità ospitare qualcosa di vecchio e sporco in un posto così ordinato ed elegante. Ma nessuno sa farne a meno, perchè con molto poco riesci a portare a casa borsette e cinture davvero cool. Noi abbiamo trovato vecchie pentole e vecchi telefoni ma soprattutto ci ha divertito scovare, tra vecchi dischi, un successo nostrano, San Remo 1967, Little Tony e Cuore Matto! Gli australiani sono pazzi per l’Italia e qualsiasi oggetto la rappresenti diventa un cult. Le buste per la spesa, le spille da attaccare ai cappotti, il giornale, l’organizzazione di un evento come quello del mercato domenicale, il caffè e il piatto del giorno sono cuore pulsante di un’attività popolare che cerca la scoperta di uno stile e la creazione di uno spazio che arricchisca il
valore artistico della città. Camberwell Market è forse l’unico spazio di Melbourne dove non si vende arte ma si comprano strumenti per farne. C’è chi si diverte a venderli e chi a racimolarli. Tutto in un puzzle perfetto, dove la merce è il pezzo necessario per comporre il quadro del folclore urbano. Gli oggetti si sponsorizzano da soli per la loro atipicità, e anche delle vecchie bambole possono essere interessanti per dare colore al dipinto giornaliero. Il mercatino di Camberwell non impegna nessuno, diverte chi vende a fingersi mercante ed entusiasma chi compra, facendolo sentire speciale. L’oggetto viene valorizzato non dal prezzo ma dall’acquisto, dalla capacità di scovare un surrogato di arte popolare. a destra: Camberwell Market di Melbourne
swedish identity di Marianna Kuvvet foto di Claudio Salvatore
Il freddo è stimolante. Fastidioso forse, ma stimolante. Di questo sono fermamente convinta. Sono le scuole dei grigi paesi nordici che sfornano in continuazione nuovi talenti creativi, futuri protagonisti della scena mondiale, neanche fosse la cosa più facile del mondo. Sono diventati quasi noiosi. Fra i vari paesi nordeuropei la Svezia è sicuramente un caso particolare, non perché meno interessante dei vicini, quanto piuttosto perché la creatività svedese è sicuramente dotata di una forte identità. Identità che la rende riconoscibile e unica nel suo genere. Genitori di Ikea e H&M, i biondi svedesi possono vantare il fatto, assolutamente non trascurabile, di aver inventato il design low cost, invadendo il mondo con mobili fai da te e abiti firmati da stilisti del calibro di Viktor & Rolf a prezzi stracciati. Oggi chiunque è in grado di montare una libreria e può di presentarsi ad una cena con un paio di scarpe dalla qualità discutibile ma firmate Jimmy Choo. E tutti possono permettersi un paio di jeans ultra skinny. Quando infatti questa moda generava ancora delle perplessità si è fatto strada Cheap Monday, che oggi vende i suoi jeans dai prezzi abbordabili nelle boutique di tutto il mondo accanto ai pezzi dei designer più famosi. Nato sulla bancarella di un mercatino svedese domenicale (da qui il nome), oggi 50
Cheap Monday firma un’intera linea di abbigliamento sia maschile che femminile, e allo stesso brand fa capo la catena di negozi Weekday. Questa primavera ha visto fra l’altro Ann-Sophie Back diventarne direttore creativo. La designer di Stoccolma, oggi considerata uno dei nomi più interessanti del fashion business e paragonata da molti al mostro sacro Margiela, torna a casa dopo dieci anni trascorsi in Inghilterra, dove si è fatta un nome presentando le proprie creazioni sulle passerelle della London Fashion Week e firmando recentemente una linea in collaborazione con Topshop. La Svezia, nella mentalità comune legata alla creatività abbordabile del gigante H&M, sta cercando di trasformarsi, slegandosi per quanto possibile dall’aspetto puramente commerciale. Le varie fiere sono state aperte a tutti, non solo agli addetti ai lavori, e la Stockholm Fashion Week è stata divisa in due settimane, una dedicata alle sfilate e l’altra orientata al commerciale, come a voler separare formalmente i due aspetti. La moda svedese è oggi caratterizzata da una pluralità di brand più o meno conosciuti ma tutti dotati di una forte personalità e identità. A differenza quindi del passato, quando tutto si riduceva ad una reinterpretazione di qualcosa di già visto, oggi la Svezia vuole affermare la propria ori-
ginalità. Fra coloro che hanno già raggiunto questo scopo va sicuramente menzionato Acne, collettivo creativo conosciuto in tutto il mondo come marchio di moda, ma che non tutti sanno essere anche molto altro, fra cui un progetto editoriale. Acne Paper è infatti una rivista semestrale di fotografia, moda e arte, frutto del lavoro congiunto di Acne Jeans, Acne Film, Acne Digital e Acne Creative. Nientedimeno. Ciascun numero è creato attorno ad un’idea chiave, un tema senza tempo che è in grado di coinvolgere chiunque lavori in un ambito creativo, indipendentemente dalla cultura, dalla nazionalità o dall’età. Ecco ancora una volta ripetersi, anche se in ambito e contesto assolutamente diversi, il concetto svedese di creatività condivisa e diffusa, in grado di raggiungere chiunque ne sia interessato. Tornando alla moda, Acne, che sta per Ambition to Create Novel Expressions, firma una linea di abbigliamento dalle linee minimali e dal ˘fitting perfetto, caratteristiche che accomunano la maggioranza dei designer suoi connazionali. Funzionalità è la parola chiave. Altro brand che si sta affermando a livello internazionale è Minimarket, disegnato dalle sorelle Sofie, Pernilla and Jennifer Elvestedt e premiato nell’ambito degli Elle Awards 2009 come miglior designer. Nato nel 2006 come linea di abbigliamento fem-
minile, il marchio comprende oggi una linea di accessori, in particolare scarpe, e ha lanciato lo scorso autunno la linea Mini for Many, venduta online e in negozi selezionati in Svezia, Finlandia, Danimarca e Spagna. La lista di designer e brand svedesi è lunga, dai più famosi Filippa K, WeSC, J.Linderberg, Hope, Nudie, Ann-Sophie Back e Acne, a Diana Orving, Odeur, Whyred e chi più ne ha più ne metta. La moda svedese ha tutte le carte in regola per farsi valere sui mercati internazionali e far conoscere al mondo i propri creativi. Per quanto possa risultare troppo ambizioso l’obiettivo di spodestare dal ruolo di bandiera nazionale il mostruoso H&M, gigante che ha invaso la bellezza di 38 paesi con uno staff di quasi 40.000 persone e che conta 66 negozi nella sola Italia, i giovani designer stanno ottenendo l’attenzione che meritano, fatto dimostrato dall’aumento delle esportazioni, che sono addirittura raddoppiate negli ultimi sei anni. La Svezia vuole affermare la propria identità, un’identità creativa ben definita, caratterizzata da numerosi aspetti che sono allo stesso tempo diversi e complementari, e per questo assolutamente originale e unica.
acquerelli bianchi a Tunisi testo e foto di Davide Pivetti
Mi piace immaginarlo così. Molti capelli in testa, più di quelli che oggi posso contare sulla mia. Con gli occhiali neri e spessi, come si usavano in quei meravigliosi anni Sessanta. Mi piace pensarlo curioso al finestrino dell’aereo, forse ad elica, che lento prende le misure a Cap Bon, sorvola la Galite, sfiora le ampie lagune che dividono il Mediterraneo dalla città di minareti e ricordi africani. Tunisi, in quegli anni, voleva sentirsi occidentale. Eppure, nonostante la presenza coloniale, le architetture francesi,
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l’influenza inglese ed italiana, non lo era. Tunisi la bianca, che però accecava per i suoi colori. Forti, netti, bruciati e brucianti. Era la città di Bourghiba, dell’indipendenza appena conquistata, dell’orgoglio tunisino: oggi come allora bandiere rosse nelle vie, sui ponti, sulle facciate. Una stella bianca, la mezza luna. I tunisini forse non sanno che sulle loro teste sventola uno dei più bei vessilli mai disegnati. “Era una città che si spostava con i carretti, a dorso di mulo, animata di figure che sem-
bravano disegnate, uscite da un libro di racconti africani o da pagine bibliche: lunghi pastrani, donne silenziose, quasi invisibili”. La Tunisi del 1964 aveva però un’anima nascosta, provocante, così moderna ed inconfessabile da essere sconosciuta alla maggior parte dei suoi abitanti. Nota ed amata, invece, da stranieri che avrebbero avuto un tavolo al “Blue Parrot” di Humphrey Bogart. “Nei night della città arrivavano i tecnici, i dirigenti delle grandi aziende europee che
cercavano il gas ed estraevano il petrolio nel deserto. Danarosi, disposti a spendere pur di godersi i pochi giorni in città. La civiltà dopo settimane nella sabbia, un letto comodo, l’acqua di una doccia, un bicchiere di cognac e le forme generose di una danzatrice del ventre. Noi eravamo l’orchestra-attrazione, come si diceva allora”. I “Quattro Pico” restavano in tournée per mesi. Si partiva con una destinazione, si tornava dopo aver suonato in due, tre paesi stranieri. Città sconosciute diventavano fa-
oasi di Ksar Ghilane
miliari. Locali fumosi dilatavano le ore di un lavoro ben pagato, invidiato, riconosciuto negli applausi e nelle mance. “Ma quando non si suonava avevamo il tempo di vivere quei luoghi”. A Sidi Bou Said, nella piazzetta del “Café de Nattes”, amato e frequentato dai visionari artisti del Magreb, non c’erano turisti. Cartagine era un sito aperto, senza cancelli né biglietterie. Bastava entrarvi per rivivere, duemila anni dopo, il mito della città che seppe sfidare Roma e pagò a caro prezzo la sua collera.
Parole nel tempo e colori nell’acqua. Più dei racconti, più dei ricordi, mi ha sempre colpito del viaggio africano di mio padre, quarantasei anni fa, la raccolta di acquerelli: macchie nere, un gregge di capre. Sospiri azzurri, le finestre di Sidi. Zebrette arcuate, l’ingresso del caffè. La città è ancora bianca. Come il colore di quegli acquerelli si è espansa nella pianura tra il mare ed i laghi. Il grattacielo dell’hotel Africa domina la capitale ed i palazzi del potere repubblicano, gli alberghi dove turisti inglesi
e finanzieri di Dubai cercano un punto di contatto tra occidente ed oriente, tra un mondo che rallenta ed uno che ancora accelera. Si incontrano sotto le fitte chiome di Avenue Bourghiba. Il presidente di allora è una passeggiata ed un mito. Il presidente di oggi - Ben Ali - è il volto che ti scruta, rassicurante e severo, da mille ritratti in strada e nelle case, tra le pagine del Corano e le flat-tv aggrappate alle pareti delle fumerie. Una cosa non è cambiata. Tavolini e narghilè non sono per le donne: nei bar solo uomini,
che guardano le partite della Coppa d’Africa, e imparano i nomi dei campioni del Real. Vivono dei riflessi d’oltremare. Il ritorno è dolce se precoce, amaro se tardivo. Gli occhi di mio padre, ancora curiosi e vivi, cercano invano i profili di allora. Il sogno di riportarlo in quei luoghi, tra quegli acquerelli, si risolve per lui in una delusione. Ma i sogni non si discutono, si realizzano. “Sembra una città europea - dice sotto la papalina nera - piena di negozi, di auto, la gente è vestita all’occidentale”. Ha ragione. Tra i tavogolfo di Gabès
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oasi di Tozeur
lini delle avenues le ragazze hanno la gonna al ginocchio, si fermano davanti alle vetrine delle griffes che firmano la globalizzazione. Anche la medina, dedalo ancora suggestivo, ospita oggi un mercato moderno, senza gli aromi e le atmosfere di un tempo, carico di accecanti souvenir per turisti da crociera. Sovrapposizioni. Penso alla mia prima volta a Tunisi, sei anni fa. Alle atmosfere che per me, vergine di cose nordafricane, avevano il sapore del nuovo mondo, della scoperta, anche dell’avventura.
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retro del celebre Café de Nattes (Sidi Bou Said)
Ero da solo, con i ricordi di mio padre nel cuore. La Tunisi del ventunesimo secolo sembra pensata per un fine settimana. Mostra orgogliosa le sue architetture coloniali. Palazzi austeri, borghesi, un tempo ordinati. Oggi celano male i segni del tempo. Ospitano alberghi dove si può dormire con sei euro. Tra i balconcini retrò spunta la nuova Tunisi, verticale e moderna, sfacciata e futurista, che viaggia con un vantaggio per ora incolmabile sulle altre città del Magreb. Racconta di un paese che è il “motorino”
della regione. Più aperto di Algeria e Libia, più dinamico del Marocco. Tre città in una: francese, moderna e araba. Avenue Bourghiba e la sua promenade dividono il traffico e fan cantare milioni di uccellini. Una strettoia introduce la città vecchia. Presente e passato (remoto) divisi da un simbolo caro ai tunisini: Bab Bhar. Sulle lastre di pietra chiara, tra zampilli d’acqua e mattoni di tufo, il viavai è continuo. Di qui si entra nella medina, città nella città, capace di celare realtà assai diverse. In quella turistica, più vicina alla porta, i
negozi riempiono ogni spazio, ogni sospiro. Si sgomita stretti tra i vicoli che conducono alla grande moschea, la Zitouna. Il suo minareto, alto, possente e quadrato, segna il territorio e l’architettura di questo angolo di Islam. Non si entra. Chilometri tra manichini kitsch, piatti d’ottone, lampade in ferro battuto. Qui è facile trovare amici. I commercianti della medina non sbagliano mai: “Amico, Italia... solo guardare!”. Altra lingua, altre priorità nella parte meridionale, che dà su rue El-Jazira: spariscono i mar-
chi ben copiati e gli abiti fintotradizionali. I tunisini si vestono di jeans e magliette. Import asiatico. Il mercato del pesce sotto le stesse tende rosse della Piscarìa a Catania. Uguale latitudine. “Sì, andiamo”. I quasi seicento chilometri che dividono la capitale dall’ultimo angolo abitato della Tunisia non entusiasmavano mio padre. Ma Tunisi non lo trattiene. Ore su un’autostrada non finita, coi caselli incustoditi, una stazione di servizio in trecento chilometri. A chi servirà l’aeroporto tra Hammamet
e Sousse? Dicono che l’hanno pagato gli emiri. Il golfo di Gabes è un terso orizzonte di vele triangolari. Immobili. Sale la strada verso Matmata. Tra le case troglodite un vecchio vende i suoi datteri. Tutta una vita qui. Roccia, polvere, profili all’orizzonte in uno spazio al quale non siamo abituati. Il bivio è uno solo in cento chilometri di strada. Poi l’asfalto che copre da poco la pista dell’oleodotto. Non c’è una curva ad interrompere la marcia di avvicinamento al Grande Erg. Le sue propaggini, ancora
minute, sfidano la strada e si allungano su di essa. Ancora domabili. Nessuna certezza che lo siano fino all’arrivo. È un rettangolo perfetto. L’acqua decide ogni cosa. Impone il suo primato sulla sabbia. E il cuore dell’oasi è la sorgente di Ksar Ghilane. Acqua sulfurea che sgorga sotto gli eucalipti. La cantano anche le rane. Il Grande Erg è un passo più in là, oltre l’ultimo tronco, oltre le tende colme di polvere e sabbia finissima che sempre ti entra in bocca a dormirci dentro. La prima duna è
frenata a fatica dalla mano dell’uomo. Dieci passi affannati, contro la gravità e altre leggi della fisica. Come la prima spiaggia di un mare solido e sconfinato. L’Erg inseguito e mai scontato, qui color salmone. Netto, impone silenzio. Avvicina. Attrae e non respinge. Inizia, non finisce. Avanza, e mai retrocede. Costringe noi. Di qui si può solo tornare.
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piranha anaconde e delfini rosa di Daniele Montemale foto di Leonide Principe
Con un volo da Bogotà sono in un'ora e mezza a Leticia, principale città colombiana dell'Amazzonia. All'aeroporto mi vengono a prendere i miei due host di Couchsurfing. Posiamo le valigie e andiamo a mangiare in motorino a Tabatinga, la città brasiliana che confina con Leticia. In realtà si tratta di un’unica città separata da una via con la frontiera e i militari di entrambi i paesi. Ma le due parti sono due mondi differenti. A Tabatinga mangiamo ceviche, il famoso pesce crudo peruviano, buonissimo! La sera andiamo in un bar a tomar aguardiente, liquore tipico colombiano con lo zucchero di canna, e facciamo le sei del mattino. Il giorno dopo prendiamo in prestito delle canoe e ce ne andiamo tra i mille fiumi che si creano durante la stagione delle piogge. Natura a
360° con scimmiette che saltano sugli alberi sopra di te. Scopro di aver fatto il bagno tra i piranha e le anaconde solo dopo essere risalito sulla canoa dai miei “premurosi” amici. Il terzo giorno prendo una barchetta “bus”a motore e mi dirigo a Puerto Narino, un tempo comunità indigena, oggi un gioiellino culturale nel cuore di tenebra dell'Amazzonia. Una volta arrivato, poso la mia roba e prendo una lunga e stretta barca a motore per andare a caccia “del piatto forte" di questo posto: i delfini rosa. Il delfino dell'Amazzonia è uno delle cinque specie di delfini di acqua dolce che si possono trovare nella foresta più grande del mondo. Può arrivare fino a tre metri di lunghezza per 150 kg. Le pinne laterali sono grandi rispetto al corpo, mentre quella dorsale
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foto di Ales Prikryl - dusttoashes.com 60
è molto piccola. Le vertebre del collo non sono saldate, permettendogli una maggiore rapidità. Il suo colore, che lo rende così suggestivo, è dovuto alle sostanze naturali che si trovano nelle acque del fiume che, a contatto con la pelle di questo mammifero, schiariscono il suo colore naturale, il grigio. Mi sembra di rivivere “Cuore di tenebra” mentre la guida mi illustra tutte le piante e gli animali che incontriamo, tra cui un bradipo. Dopo l'avvistamento di un falco arriviamo in una laguna dove si spostano i delfini nel pomeriggio. Avvistarli non è difficile, fargli una foto invece si. Mi sento come quando si gioca al tiro al piattello. Una frazione di secondo per fare una foto senza sapere da quale parte uscirà il delfino. A volte vedi solo la schiena, altre volte invece esce completamente, e
ogni tanto lo vedi saltare. Come tutti gli animali dell'Amazzonia anche il delfino è un animale sacro e quello rosato è protagonista di una leggenda molto particolare. Si narra che un guerriero indigeno, invidiato dagli dei per la sua bellezza, fu trasformato in un delfino rosato. Durante le feste però, il delfino si trasformava nuovamente in un bellissimo straniero vestito di bianco con un sombrero di paglia. Nessuna donna era in grado di resistergli e il delfino le portava nel fiume a passare la notte con lui, lasciandole incinta e procreando nove mesi dopo dei bellissimi uomini-delfino. La verità è che anche l'Amazzonia è inquinata e ha numerosi bracconieri… e i delfini rosati si stanno sempre più estinguendo.
libri a cura di Claudia Bena
"Il viaggio: da esperienza autobiografica a virtuosismo letterario".
“L’arte di viaggiare” di Alain De Botton “Conoscerete la nostra velocità” di Dave Eggers “Le vie dei canti” di Bruce Chatwin
“Sulla strada” di Jack Kerouac Anno: 1959 Editore: Mondadori Euro: 9,50 Pagine: 362 Il coast to coast epico, manifesto in “prosa spontanea” della beat generation, voce di quella generazione in attesa, i ribelli senza causa, poeticamente descritti nell’urlo di Ginsberg. Il racconto dell’amicizia tra l’autore e Cassady, approfondita dall’esperienza della strada. Non sapere dove, essere coscienti solo del perché non rimanere. L’impossibilità di adattarsi alla società conformista e borghese che li circonda, la continua ricerca di esperienze sotto l’effetto deformante di alcool e droga, a ritmo del jazz.
Anno: 1987 Editore: Adelphi Euro: 12 Pagine: 390 In Australia ogni pietra, fiume, collina e bush racconta la sua storia. Sono le vie dei canti, patrimonio, cultura e tradizione degli aborigeni. Chatwin le riporta così come le ha vissute nella sua esplorazione, che non si limita ad essere una conoscenza del posto, ma diviene una presa di coscienza sul perché del viaggio e un approfondimento sul nomadismo, oltre ad una critica sull’occupazione selvaggia, sulla guerra e sul non rispetto. Ancora prima di scrivere il suo libro più famoso, “In Patagonia”, già lavorava su questo testo, affascinato dalla geografia totemica e dalla capacità comunicativa di questo popolo.
Anno: 2002 Editore: Mondadori Euro: 9,50 Pagine: 396 Il giro del mondo in una settimana. Magari non completo, visto che i primi intoppi s’incontrano già all’aeroporto. Ma se è Eggers a scrivere, potete anche aspettarlo, l’aereo. La sua narrativa, sperimentale, innovativa, geniale, è la protagonista di questo romanzo. Un viaggio prima di tutto introspettivo nella mente del protagonista, che tocca in maniera ugualmente poetica picchi di pura scrittura e momenti di estrema ironia. Organizzazione: zero. Soldi: tanti, da spendere assolutamente, addirittura da regalare. Combattere contro l’archivio mentale andando così veloci da non pensare a nulla. Niente capitoli, perché il tempo passa senza pause. Benvenuti nel quarto mondo, dove scegliere di rimanere.
Anno: 2002 Editore: Guanda Euro: 13,50 Pagine: 250 Scegliete come compagni di viaggio Hopper, Flaubert, Baudelaire, Huysmans, Wordsworth. Van Gogh. Dalle attese della partenza all’abitudine del ritorno, attraverso i mezzi di trasporto, l’arte non può che aprirci gli occhi ed insegnarci a vivere. Nelle opere d’arte ritroviamo infatti lo stesso processo di semplificazione o di selezione che caratterizza la nostra fantasia. Oltre al dove andiamo, dobbiamo domandarci il come ed il perché. Dobbiamo lasciarci sedurre da piccoli dettagli ricchi di significato e perderci, come i protagonisti dei quadri di Hopper, nell’assenza d’intimità dei luoghi pubblici. Meditare sull’insignificante fragilità umana rivolgendo l’attenzione ai luoghi del sublime e fermarci a pensare, come Pascal, sul perché essere qui, ora, piuttosto che altrove ed allora. “Chi mi ci ha messo?” 63
lei più di chiunque altra di Marco Costa
SCRIVI LA TELEFONATA CHE VORRESTI RICEVERE Il mondo sta per finire. Lo predicono i Maya ma sotto sotto lo temiamo un pizzico anche noi. Il clima è imprevedibile, le api iniziano a sparire, in famiglia fioccano gli omicidi, le tv non sanno più intrattenere e per la strada la gente corre sorda e spedita verso le proprie solitudini. Quando la filosofia diventa incapace di offrire risposte immediate sull’umana paura di essere insignificanti di fronte al nulla, è all’arte che possiamo rivolgerci con rinnovata speranza in cerca di un senso. “Learning to love you more”: questo è l’ultimo lavoro di Miranda July in collaborazione con Harrel Fletcher, un libro che raccoglie e documenta le reazioni del pubblico alle sessantatre proposte creative pubblicate sul sito learningtoloveyoumore.com. A prima vista potrebbero sembrare inutili e bizzarre queste testimonianze di creatività autoreferenziale - fai una foto sotto 64
il tuo letto, o ad una coppia di sconosciuti che si tiene per mano, descrivi una litigata, fai il ritratto dell’amico di un amico, passa del tempo con qualcuno prossimo alla morte - ma non sarà un caso se migliaia di persone hanno partecipato ferventi, inviando i materiali e le parole che hanno infine composto il libro. QUESTA PERSONA Quando dici Miranda July chi la conosce fa: “Quella di Me & You & Everyone we know”, che nell’immaginario collettivo è un piccolo film indipendente del 2005, scritto, diretto e interpretato da questa giovane e affascinante freak girl dai riccioli neri scarmigliati, senza seno, vestita con abiti di seconda mano eccentrici ma distinti, che ha girato il mondo come un virus per spiazzare il nostro comune senso del pudore, riconciliandoci con la semplicità e lo stupore, allargando il sospetto di surrealtà che cova nel nostro vivere quotidiano. Dopo aver vin-
to importanti riconoscimenti, anche gli scettici più accaniti hanno iniziato ad occuparsi del fenomeno July, scoprendo come quel piccolo origami di film in cui si sfiorano temi indescrivibili in un crescendo di intime epifanie, fosse il frutto di un percorso esclusivo e marginale fatto di performance, scrittura e, perché no, di sesso gioioso. ENTER THE SECRET PASSWORD Per capire di che arte si tratti, basta andare sul sito personale di Miranda (mirandajuly. com) e subito si viene accolti da una schermata bianca in cui perentoria ci viene chiesta la Password Segreta. Per fortuna due righe più sotto ecco la voce di Miranda che ti dice di pulire la mente e digitare la parola, perché lo sai qual è, sì dentro di te l’hai sempre saputa. Così quando riesci ad entrare nessuno pensa sia un facile trucco, ma un altro minuscolo atto d’amore per ridarci una scintilla di fiducia in più nella nostra incontrover-
tibile unicità. Miranda Jennifer Grossinger, vero nome della July, secondo wikipedia è un’artista, musicista, scrittrice, attrice e regista statunitense, il che suona un tantino pretenzioso ma è più vero del vero. Figlia di editori alternativi e new age, Miranda si è formata in un clima inusuale e scriteriato: “A casa c’era sempre qualche matto borderline che stava scrivendo un libro per mio padre e aveva bisogno di abitare con noi fino al suo completamento”. ARE YOU THE FAVOURITE PERSON OF ANYBODY? “Tu più di chiunque altro” è il titolo della sua raccolta di racconti magici e strampalati, una sorta di vademecum della sua poetica. In queste pagine leggere e spiazzanti ci sono storie che nessuno s’azzarderebbe a raccontare. Una ragazza malinconica che dà lezioni di nuoto ad un manipolo di anziani nel suo salotto. Il resoconto di sogni umidi
Miranda July in una scena del film da lei diretto “Me & You & Everyone we know”
in cui fare l’amore col principe William durante un terribile terremoto. Un cane di nome Patata che scappa alla sua padrona. Un padre che prima di morire insegna alla figlia le sue mosse speciali per far godere una donna. L’universo letterario di Miranda non ha immediati riferimenti, è originale e disinibito, stralunato e minimale, ci insegna con delicatezza e acume a riconciliarci con il mondo e le sue assurdità poiché in fondo i primi ad essere strambi e ridicoli, siamo proprio noi esseri umani. Quello che sorprende
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nel lessico autoriale di Miranda è l’elemento erotico, che trova spazio di fianco alla poesia del quotidiano, e si fa manifestazione di gioia, irrequietezza e riscatto per questi personaggi che nonostante disastri o nostalgie inconsolabili, riescono sempre ad imparare qualcosa in più su di loro, la loro vita, i loro amori: “La gente tende a fare comunella con quelli della stessa taglia perché è più agevole per il collo. A meno che non ci sia di mezzo una storia romantica, nel qual caso la differenza è sexy. Significa: sono disposto
a coprire la distanza per te”. COME FARE UN BOTTONE Tra i nuovi progetti di questa attivista emozionale, oltre a deliziare il suo fidanzato videoartista Mike Mills e stabilire un rapporto paritario col suo gatto, c’è il ritorno alla regia con un lungometraggio intitolato dapprima “Satisfaction” quindi “The Future”, che tratta la crisi di una coppia di trentenni innamorati e sposati, ma di cui si sa ancora poco e niente. Per il resto la troveremo nei più importanti musei e fondazioni in giro per il mondo
dove, grazie al cielo, alla sua arte viene offerto lo spazio e l’attenzione che merita. A qualche pignolo concettualista le sue stravaganze potranno forse sembrare calcolate e smancerose, ma se il mondo sta davvero per finire, imparare ad amarci un po’ di più, incoraggiandoci anche solo con una parola confortante scritta sul portellone del nostro frigorifero, mi sembra la più dolce e catartica delle vie d’uscita.
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foto di Gerald Bruneau - blackarchives.it
I panorami più affascinanti? Quelli che si vedono dai grattacieli dei migliori alberghi. Le escursioni più faticose? Quelle per negozi e centri commerciali e vi giuro che farlo sulle mie Jimmy Choo è davvero un’impresa. Usanze locali? Non è che abbia ben capito cosa intendeva quel tipo della redazione. Conosco bene i locali, non le usanze. Anche un po’ di cultura quando vengo invitata ai vernissage (non ricordo bene di chi fosse l’ultimo ma si beveva ottimo champagne!) La Miss
the chic trip TRANS SIBÉRIEN EXPRESS
La mia prima settimana di lavoro è stata divertente. A proposito, sono una “cool hunter” una cacciatrice di tendenze. Lavoro con una mia amica stilista per una casa di moda (di cui non posso fare il nome perché quelli di “the trip” sono molto fiscali) e il mio ruolo è a dir poco fondamentale: devo scoprire cosa andrà di moda con un paio di stagioni di anticipo. In teoria dovrei girare per strada con una macchina fotografica ed immortalare qualsiasi cosa mi ispiri. In pratica salvo le foto che più mi piacciono da SartoriaList. D’accordo, non è ortodosso, ma fa troppo caldo in questi giorni per andarsene in giro a fare foto. Comunque, domani si parte. Primo viaggio di lavoro… con il capo. So solo che andremo a Mosca e a Pechino alla ricerca di stoffe pregiatissime e “suggestioni orientali” (cito testualmente il boss). Una volta a Mosca, una lunghissima limousine ci accompagna alla stazione e
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saliamo su un treno magnifico. Sembra di essere in un romanzo di Agatha Christie. Ok, confesso: ho solo visto i film. Quelli in cui c’è Jane Birkin, più bella che mai. Tavoli di cristallo, tappeti persiani, divani in pelle e la cuccetta in cui vengo scortata da un cortese stuart è una vera e propria camera da letto dotata di ogni comfort. “Signorina, saremo a Sua completa disposizione a bordo del Trans-Sibérien Golden Eagle durante i venti giorni di…” COSAAAAA? Non stiamo andando a Mosca e a Pechino. Stiamo andando da Mosca a Pechino. In treno. Non lo sapevo. Sono quasi certa che il mio capo non ne abbia fatto parola. Estraggo il palmare dalla custodia di Miu Miu e trovo subito tra le e-mail ricevute una comunicazione – non ancora letta – riguardo i dettagli del viaggio. Fortunatamente ho con me, come sempre, tutto l’armadio. Si parte. Volgograd. Triste e grigia. Deserto Kara Koum. Pare sia in Kazakistan o qualcosa che finisce per -stan. Il terreno sembra la pelle di Rita Levi Montalcini. Sosta a Khiva: ho letto su Wikipedia che questa cittadina dell’Uzbekistan (tutti uguali questi nomi!) era il centro del commercio tra la Mongolia, la Russia, la Cina e la Persia, per
questo inizieremo qui le ricerche. Khiva sembra un enorme castello di sabbia, di quelli che fanno i bambini prodigio. Il mercato è una profusione di colori, le stoffe sono impalpabili e ricche. Questo viaggio inizia a piacermi, ma lo spazio a me concesso è sempre troppo poco (frecciatina al direttore) per raccontarne tutti i dettagli. Il decimo giorno siamo a Samarcanda – ho evitato accuratamente di cantare “Oh oh cavallo”, ma il motivetto mi assilla – che è incantevole. Patrimonio dell’UNESCO, Samarcanda è sfarzo elegante, discreto, architettura sinuosa, volti in cui si mischiano occhi a mandorla e tratti arabeggianti. Siamo stanchi, ma a bordo del treno questa sera è prevista una degustazione di cibi e bevande dell’Asia Centrale, a cura di uno chef dal nome impronunciabile. Passata Almaty, entreremo in Cina, cambiando treno. Lo “Shangri-La Express” avrà comunque i rubinetti dorati? continua…
distribuzione ROMA 00191 Via Cassia Antica 6 40 GRADI Via Virgilio 1 ALTROQUANDO Via del Governo Vecchio 80 BAR DEL FICO Piazza del Fico 26 BARNUM CAFÈ Via del Pellegrino 87 BOHEMIENNE Via dei Cappellari 98 BUCAVINO Via Po 45 CAFFÈ FANDANGO Piazza di Pietra 32/33 CAFFÈ LETTERARIO Via Ostiense 95 - ex Mattatoio CAMPO MARZIO 70 Via di Campo Marzio 70 CARGO Via del Pigneto 20 CIRCOLO DEGLI ARTISTI Via Casilina Vecchia 42 CIRCUS Via della Vetrina 15 CONTESTA ROCK HAIR Via del Pigneto 75 Via degli Zingari 9/10 CONTROVENTO Villaggio dei Pescatori (Fregene) CREATIVE ROOM ART GALLERY Via Tommaso Campanella 36 DEGLI EFFETTI Piazza Capranica 79 DELLORO ARTE CONTEMPORANEA Via del Consolato 10 DULCAMARA Via Flaminia 449 DUKE'S Viale dei Parioli 200 ECRU' Via Tommaso Salvini 37 EMPRESA Via dei Giubbonari 25/26 FABRICA Via Girolamo Savonarola 8 FLANEUR Via Flaminia Vecchia 730/A
FLU CAFÈ Via Alessandro Scarlatti 4
PASTIFICIO SANLORENZO Via Tiburtina 196
CAPE TOWN CAFé Via Vigevano 3
FRENI E FRIZIONI Via del Politeama 4/6
PEAKBOOK Via Arco dei Banchi 3/A
CIRCUSTUDIOS Via Pestalozzi 4
GALLERIA DOOZO Via Palermo 51/53
PIFEBO Via dei Serpenti 141 Via dei Volsci 101/B
EXPLOIT Via Pioppette 3
GOA CLUB Via Giuseppe Libetta 13
RASHOMON CLUB Via degli Argonauti 16
F.R.A.V. Via Vetere 8 (ang. Corso Porta Ticinese)
RGB46 Piazza di Santa Maria Liberatrice 46
FRIP Corso di Porta Ticinese 16
IL BARETTO Via Garibaldi 27
RRTREK (Il Rifugio Roma) Via Ardea 3/A
HUMANA VINTAGE Via dei Cappellari 3
JARRO IL QUATTORDICESIMO Piazzale di Ponte Milvio 32
SALOTTO 42 Piazza di Pietra 42
INTRECCI Via Larga 2
KOOB LIBRERIA Via Luigi Poletti 2
SALOTTO GIANICOLO Piazzale Garibaldi
LA MAISON RETROUVÈE Via Flaminia 479
SANTA SANGRE TATTOO Via dei Latini 34
LA CASA 139 associazione culturale A.R.C.I. Via Ripamonti 139
L'ALTRO CHIOSCO Piazzale di Ponte Milvio
SOCIéTé LUTECE Piazza di Montevecchio 17
LE TESTE MATTE Via dei Baullari 113/114
SUPER Via Leonina 42
LEVI’S RIVER BAR Lungotevere di Castel Sant’Angelo
TAD Via del Babuino 155
LIBRERIA CAFFÈ BOHEMIEN Via degli Zingari 36
TEA ROOM Via del Boschetto 34
LIBRERIA DEL CINEMA Via dei Fienaroli 31
+++ THE MAGICK BAR +++ Lungotevere Oberdan 2
LONDON CALLING Via XXI Aprile 2
TIEPOLO Via Giovanni Battista Tiepolo 3
MOLLY MALONE Via dell'Arco di San Calisto 17
TREE BAR Via Flaminia 226
MONOCLE Via di Campo di Marzio 13
ULTRASUONI RECORDS Via degli Zingari 61/A
NECCI Via Fanfulla da Lodi 68
URBAN STAR Via Enrico Fermi 91/93
N’IMPORTE QUOI Via Beatrice Cenci 10
VILLA BALESTRA Via Ammannati
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VOY Via Flaminia 496
IED Via Alcamo 11 Via Giovanni Branca 122
OMBRE ROSSE Piazza di Sant’Egidio 12 OSTERIA DEGLI AMICI Via Nicola Zabaglia 25 PANAMINO BAR Parco Y. Rabin 23 Via Panama PARIS Via di Priscilla 97/99
LA SACRESTIA Via Conchetta 20 TAD Via Statuto 12 TRATTORIA TOSCANA Corso di Porta Ticinese 58 WOK Viale Col di Lana 5/A
NEW YORK Contesta rock hair 535 Hudson Street Epistrophy cafe 200 Mott Street INVEN.TORY 237 Lafayette Street The Box 189 Chrystie Street
MILANO BOND Via Pasquale Paoli 2 CALIFORNIA BAKERY Piazza Sant’Eustorgio 4 Viale Premuda 449 Largo Augusto (Via Verziere ang. Via Merlo 1)
ERRATA CORRIGE Nel terzo numero di “the trip” (maggio/giugno) la foto di Gerald Bruneau a p.43 è di Adriana Faranda, mentre l’articolo “Soeul transformer” a p.60 è di Marianna Kuvvet.