the trip magazine n°5

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the trip

N째5 / settembre-ottobre 2010 / free press


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Livingston è la compagnia aerea italiana leader per i voli leisure. Ecco perché viaggiare con noi è un perfetto mix di comfort, innovazione, qualità e sicurezza per raggiungere Caraibi, Centro America, Oceano Indiano, Africa, Mediterraneo, Mar Rosso, Isole dell’Atlantico e Medio Oriente. Volate con Livingston: ad ogni volo sarete con noi ambasciatori dell’eccellenza italiana nel mondo.

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il terzo occhio

Le gocce di sangue sporcano il pavimento che sta fissando. La mano gli pulsa come il suo cuore rotto dal tradimento. “Maledetta Fata Verde”, pensa Arthur Rimbaud, non sapendo che le stesse parole saranno scritte dal suo carnefice, un tempo suo amante, durante la prigionia in Belgio. Paul Verlaine, infatti, darà la colpa del suo gesto disperato all'Atroce Strega. I due colpi di pistola sparati contro Rimbaud sono la conseguenza dell'effetto dell'assenzio. Un episodio che si tramuta in aneddoto per raccontare le peripezie di questa bevanda leggendaria, che nella seconda metà dell'Ottocento raggiunge il suo apice grazie alle vicende e ai capolavori lasciati da uomini come Oscar Wilde, Charles Baudelaire, Edgar Degas e Henri de Toulouse Lautrec. La nascita dell'absinthe risale al 1792 quando un medico francese, esiliato in Svizzera, prepara una miscela composta da diverse erbe in soluzione alcolica che si supponeva curasse tutti i malanni. Dopo la morte del suo inventore, il dottor Ordinaire, la ricetta passa alle due sorelle che cominciano a distillare il composto in casa fino al 1797, quando vendono il misterioso intruglio al maggiore Dubied. Nel giro di un decennio il genero di quest'ultimo, Henri Louis Pernod, apre la prima distilleria a Couvet nella regione di Pontarlier. Fino alla metà del XIX secolo l'assenzio rimane un liquore tradizionale della regione dello Jura e della Val di Travers in Svizzera. È con la guerra in Algeria (1840) che la storia cambia. I soldati francesi per curare la dissenteria diluivano un bicchiere d'assenzio con l'acqua e in breve tempo questo liquore invase i locali del nord Africa. Al rientro in patria gli ex combattenti richiedevano sempre di più questa bevanda che spopolò nel paese fino a diventare un fenomeno nazionale. Nasce la cosiddetta “ora verde”, l'antenato del nostro happy hour: l'abitudine francese di bere absinthe come aperitivo dalle 17 alle 19 nei boulevard di Montmartre. L'“erba santa”

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si diffonde sia tra le teste calde romantiche sia tra quelle ultrasensibili dei decadenti, diventando l'accompagnatrice abituale della vita dei bohèmien. E comincia, come i protagonisti di quella stagione culturale, a dare scandalo. Fino alla sua messa al bando. Dall'inizio del ventesimo secolo, il suo abuso e l'assuefazione che provocava, cominciarono a far sospettare che fosse una sorta di droga allucinogena (tanto che ancora oggi qualcuno crede che sia un liquore contenente oppio). Le dicerie sul suo “principio attivo” (il tuoione) che portava a pazzia e delirium tremens, il forte movimento contro l'alcolismo che attraversò tutta l'Europa dell'epoca, le pressioni dei produttori di vino francesi che temevano la crescente popolarità dell'assenzio, furono gli espedienti per metterlo al bando. Nell'immaginario comune il verde magico che ispirava pittori e poeti si trasformò in un bagliore infernale. Il 28 agosto del 1905 un fatto di cronaca decretò la sua fine. In un cantone svizzero, un contadino, dopo essersi scolato enormi quantitativi di alcol (compresi due bicchieri di assenzio), torna a casa e uccide a colpi di fucile la moglie e i due figli. Il Belgio vieta la produzione di assenzio nello stesso anno, in Italia viene messo al bando nel 1913, ma la sua morte definitiva arriva nel 1915 capitolando anche in Francia. Arte e leggenda. Ragioni commerciali e genio letterario. Cultura e storia. Alchemici intrecci che fin dall'antichità hanno condizionato le società del globo intero. Spesso si dimentica l'origine e il significato culturale di ciò che oggi siamo abituati a catalogare come droga. Dalle piante di coca, sacre per il Perù e la Bolivia, al peyote dei vecchi sciamani messicani. Ciò che un tempo è stato parte indissolubile di tradizione e religione oggi viene trasformato in mero abuso. Culture manipolate ci vengono proposte come spauracchi del nuovo millennio, dove la paura, o la totale assenza di essa, diventano il timone del nostro tempo. E dove ci si abitua troppo facilmente ad essere trasportati dagli eccessi del “sentire comune” in contrapposizione con il “proprio io”. Per cui o si demonizza o si eccede. Senza riuscire a cogliere quella famosa via di mezzo dove il libero arbitrio dovrebbe diventare il faro del singolo viaggio di ognuno di noi. Senza perdersi tra fate verdi ma scegliendo liberamente la loro compagnia. Perché la verità sta nel mezzo. Ed oggi disponiamo di tutti gli strumenti che possono alimentare la ricerca della conoscenza, per accendere quel terzo occhio che aleggia nei nostri sogni. Artificiali e non. Valentina Diaconale


sommario

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04 editoriale

eventi dal mondo

intervista

Tel Aviv

36 inviati

Mississippi

38 48

46 markets in Berlin

54

62

60

64 a qualcuno piace freddo

50 la riserva dei Rockabilly

Sarah la nera

Ungheria

Islanda

40 Bolivia

Jim Denevan

Bibi Russel

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17 pagina del fotografo

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67 libri

68 nel prossimo numero

redazione the trip N° 5 settembre/ottobre 2010

sede legale Via Gasperina 188 – Roma

direttore responsabile Valentina Diaconale direttore editoriale Lorenzo Verrecchia lorenzoverrecchia@thetripmag.com vicedirettore Veronica Gabbuti capo redattore Francesca Rosati art director Andrea Bennati info@andreabennati.com responsabile marketing Luca Salice lucasalice@thetripmag.com

sede redazione Via Apollo Pizio 13 – Roma

editore Associazione di promozione sociale “ELLE” centro stampa A.T.I. Arte Tipolitografica Italiana srl Via Nicaragua 8 – 00040 Pomezia (RM) atispa.com

Registrazione Tribunale di Roma n. 329 del 6 ottobre 2009 hanno collaborato Elena Adorni, Guido Baligioni, Claudia Bena, Maria Capaldi, Alessandra Corbi, Marco Costa, Mateo Dineen, Cecilia Gatti, Alessandra Iodice, Marianna Kuvvet, Elena Mainella, Marta Malatesta, Anna Mastrolitto, Desirée Nardone, Johan Potman, Alexandra Rosati, Gianmaria Schönlieb, Arianna Spagnolo, Matteo Tabacchini, Alessandra Valente, Luis Ignacio Villa.

foto Gerald Bruneau – blacharchives.it Francesco Collina – flickr.com/photos/petux Francesco Corti – diogenewiliams@gmail.com Oddlaug Sjöfn Árnadóttir Roberto Grassi – flickr.com/photos/robertograssi Alessia Laudoni – alessialaudoni.com Arthur Lima – flickr.com/photos/malungo Francesco Ricci Lotteringi – francescoricci.com la foto di copertina è di Gerald Bruneau L’illustrazione dell’editoriale è di Kero (kerokarousel@gmail.com) contatti info@thetripmag.com thetripmag.com


eventi dal mondo a cura di Francesca Rosati

BRISBANE (AUSTRALIA) 4 SETTEMBRE – 25 SETTEMBRE “BRISBANE FESTIVAL” Giunto alla sua quindicesima edizione, questo festival di musica, danza, teatro e arti visive è oggi riconosciuto come una delle prime manifestazioni australiane e sicuramente la più importante della città di Brisbane. Dall’anno scorso ha inglobato anche il River Festival, un evento culturale che si svolge lungo il fiume, e che segue quella tendenza che ha visto i fiumi diventare protagonisti della vita mondana delle città, dopo essere stati abbandonati per decenni (o quantomeno utilizzati come mere vie di trasporto). brisbanefestival.com.au MACAO (CINA) 11 - 18 - 22 - 25 SETTEMBRE - 1 OTTOBRE “INTERNATIONAL FIREWORK DISPLAY CONTEST” Suggestivo e scenografico come solo i fuochi d’artificio possono essere, il torneo di fuochi pirotecnici di Macao, oltre a illuminare le notti della città, scalda anche i cuori di chi vi assiste. Si tratta di una gara nata negli anni Ottanta e oggi riconosciuta a livello internazionale, che celebra un’eredità culturale di Macao, quella dei fuochi d’artificio, che affonda le sue radici proprio qui nel lontano ottavo secolo. DUBLINO (IRLANDA) 11 SETTEMBRE – 26 SETTEMBRE “FRINGE FESTIVAL” Si tratta del “fringe” (letteralmente marginale, alternativo) più famoso del mondo, durante il quale Dublino si trasforma in un trampolino di lancio per artisti emergenti, irlandesi e non. Il festival offre spettacoli di danza, teatro, musica e arti visive, e coinvolge la città intera invadendola: spazi aperti, i teatri, appartamenti, chiese, magazzini, gallerie e scuole cambiano 08

faccia. Sedici giorni ideali per andare a respirare l’aria di Dublino. fringefest.com VARSAVIA (POLONIA) 17 SETTEMBRE – 25 SETTEMBRE “WARSAW AUTUMN” La romantica Varsavia ospita questo festival imbevuto di tradizione e storia: fu fondato infatti nel 1956, subito dopo la caduta della dittatura stalinista, ed era l’unico festival di musica contemporanea dell’Europa centrale ed orientale. Oggi rimane la manifestazione polacca più importante nel suo genere, riconosciuta a livello internazionale. Si tratta di musica classica, e quindi la vera vittoria dell’autunno di Varsavia è che gli auditorium sono stracolmi soprattutto di giovani. warszawska-jesien.art.pl CHICHEN ITZA (MESSICO) 22 SETTEMBRE “EQUINOZIO D’AUTUNNO” Imponente e misterioso, maestoso e affascinante, anche senza esserci mai stati, tutti conosciamo il complesso archeologico maya di Chichen Itza, nel nord della penisola dello Yucatan. Ma è durante l’equinozio d’autunno (o quello di primavera) che esplode nella sua unicità, quando un’ombra a forma di serpente si staglia sotto una delle sue piramidi. ABU GOSH (ISRAELE) 6 OTTOBRE – 10 OTTOBRE “VOCAL MUSIC FESTIVAL” Immerso nelle meravigliose colline di Gerusalemme si trova il pittoresco e incantevole villaggio arabo–cristiano di Abu Gosh, con i suoi seimila anni di storia, Conserva due gioielli religiosi che sono il monastero benedettino e la Chiesa di Nostra Signora dell’Arca dell’Alleanza, costruita nel 1924 sulle fondamenta di un’antica

chiesa bizantina. E proprio queste chiese ospitano il Vocal Music Festival, a cui partecipano gruppi vocali e cori provenienti da tutto il mondo. E se la musica non è la vostra passione, sappiate che Abu Gosh è il sinonimo di “hummus”: i deliziosi ristorantini del paese servono infatti questa gustosa composta in tutte le sue varianti. BASTIA (CORSICA) 13 OTTOBRE – 17 OTTOBRE “MUSICALES DE BASTIA” A ottobre la Corsica è imperdibile: autentica e incontaminata, regala ancora giornate tiepide di bel tempo. E il festival Musicales de Bastia è una buona occasione per visitare questa città corsa e genovese. L’evento propone musica barocca, polifonie, blues e musica popolare. Se poi i giorni a disposizione lo permettono, dilungatevi in un’esplorazione della selvaggia penisola di Capo Corso: la lingua di terra nell’estremo nord, chiamata “Dito”. musicales-de-bastia.com REYKJAVIK (ISLANDA) 13 OTTOBRE – 17 OTTOBRE “ICELAND AIRWAVES” Sia che siate amanti della natura, sia che siate amanti della vita notturna, non perdete questa occasione per andare a visitare la capitale dell’Islanda (si dice che ci si va o perché si ama la “wildlife” o perché si ama la “night life”). È una delle città più care del mondo e, a metà ottobre fa già parecchio freddo, ma Reykjavik si è affermata come una delle capitali mondiali più mondane e culturali. Iceland Airwaves ne è la prova, ed è ormai riconosciuto come uno degli avvenimenti di musica alternativa più importanti del globo. icelandairwaves.is

TRAVELLING AROUND ADE! AMSTERDAM, OLANDA 20 – 24 OTTOBRE foto di Alessia Laudoni

Già piove e già fa freddo, ma la voglia di festival è ancora nell’aria. Per fortuna la musica non è mai fuori stagione, bisogna solo essere disposti a viaggiare per ritrovare quel calore che soltanto Lei può regalare. Da mercoledì 20 ottobre fino a domenica 24, appuntamento ad Amsterdam, la metropoli ultramoderna ed ecologista delle case galleggianti, delle biciclette, dei tulipani, dei quartieri a luci rosse, dei coffee shop, dei musei di Rembrandt e di Van Gogh, della casa di Anna Frank e

molto più. L’occasione dell’incontro sarà la quindicesima edizione della Conferenza Internazionale sulla Musica elettronica, l'Amsterdam Dance Event (ADE). A fianco alla conferenza, dove migliaia di addetti ai lavori si confronteranno sulle ultime novità tecnologiche, ci sarà una grande festa che risuonerà per tre giorni in tutta Amsterdam. Con oltre settecento artisti che si alterneranno in consolle e in conferenza nei locali sparsi per tutta la città, il festival ospiterà migliaia di appassionati di musica elettronica provenienti da tutto il mondo. Tra gli ospiti: Dave Clarke, Michael Mayer, Joris Voorn, Boys Noize, Dubfire, Richie Hawtin, M.A.N.D.Y., Steve Bug, Sven Väth, Jeff Mills, Moodymann, Derrick May, Juan

Atkins, Ellen Allien, Hercules & Love Affair, e molti altri. Quattordici anni fa l’ADE nacque come un piccolo evento con qualche centinaio di professionisti della musica, tre club e una trentina di Djs; l'anno scorso l'Amsterdam Dance Event è stato visitato da novantamila persone di cinquantadue nazionalità diverse e per quest’anno gli organizzatori ne attendono duemilacinquecento durante la conferenza e centomila negli eventi correlati. Affrettatevi a prenotare l’albergo. amsterdam-dance-event.nl Anna Mastrolitto annamastrolitto.blogspot.com

travellingaroundmusic.com



la ginnastica degli sciamani di Maria Capaldi

I registri per l'immigrazione indicano che Carlos Cesar Arana Castaneda nacque il 25 dicembre 1925 a Cajamarca in Perú. I medesimi registri mostrano che fu la madre, Susana Castañeda Navoa, a dargli il cognome che infatti appare con la ñ in molte dizionari spagnoli, anche se i suoi più famosi lavori riportano una versione anglofona. Nei primi anni Cinquanta Castaneda si trasferì negli Stati Uniti, acquisendone la cittadinanza nel 1957. Studiò all'Università della California a Los Angeles conseguendo la laurea in Storia dell’arte nel 1962 e il dottorato in Filosofia nel 1973. Con il primo libro “Gli insegnamenti di Don Juan: una via Yaqui alla Conoscenza” del 1968, Castaneda iniziò la carriera di scrittore con il proposito di descrivere il suo percorso di iniziazione allo Sciamanesimo mesoamericano. Tradotti in diciassette lingue, i suoi dodici libri hanno venduto più di otto milioni di copie. Nel marzo del 1973 Castaneda fu oggetto dell'articolo di copertina del “Time”, che lo descriveva come "an enigma wrapped in a mystery wrapped in a tortilla" (“un enigma avvolto in un mistero avvolto in una tortilla”). Da quella data e fino al 1990, Castaneda si sottrasse all'attenzione pubblica. Nei suoi libri, Castaneda descrive in prima persona la propria esperienza sotto la guida di Don Juan Matus, uno sciamano di etnia Yaqui proveniente dalla Contea di Yuma (Arizona), erede della conoscenza di un lignaggio di veggenti del Messico antico. Castaneda scrive che egli fu individuato da Don Juan Matus come in possesso della configurazione energetica del "nagual", termine usato per descrivere quella parte della percezione che appartiene alla sfera del non conosciuto e ancora non conoscibile dall'uomo, a cui spesso Castaneda fa riferimento 12

come "realtà non ordinaria". Parla anche dell’uso di piante allucinogene, in particolare del Peyote e della Datura, usate per raggiungere la conoscenza. Ma, spiega, queste servono solo agli inizi, quando la mente non è abbastanza fluida. In seguito vanno evitate perché possono danneggiare la sfera luminosa di emanazioni del corpo energetico, così come il corpo fisico. Oggi è Reni Murez, apprendista del Nagual Castaneda, a raccontarci il lavoro del suo maestro che ha inventato la Tensegrità, la ginnastica degli stregoni fatta di “passi magici”. In cosa consiste la conoscenza di cui parla Castaneda? La conoscenza che il lavoro di Carlos Castaneda ha reso disponibile a tutti, riguarda principalmente il fatto che la nostra percezione, il modo in cui normalmente vediamo il mondo, è artefatta, socializzata e condizionata dentro di noi. Se ognuno di noi facesse con sobrietà e disciplina il passo necessario per espandere la sua percezione, allora potrebbe trovare strati sopra strati, mondi sopra mondi, che pure esistono in ogni momento, ma per poterne diventare consapevoli abbiamo bisogno di un addestramento. I veggenti del Messico antico suggeriscono che questa visione espansa è disponibile in ogni momento, perché proviene da una parte di noi stessi con cui siamo sempre connessi - la nostra natura o il nostro essere energetico. Quello che bisogna fare è imparare a fare i passi necessari per coinvolgere questo altrimenti nascosto aspetto di noi stessi. Che cos’è la Tensegrità? È la versione moderna di questa pratica

degli sciamani dell’antico Messico, che attualmente insegna i principi di percezione espansa lungo tre principali linee: i Passi Magici, o movimenti del corpo e tecniche di respirazione che, quando vengono praticati, aiutano a spostare la nostra percezione e aggiungono consapevolezza energetica alla nostra consapevolezza fisica; l’arte della Ricapitolazione, in cui l’individuo rivede molte scene salienti della propria vita, prima nella loro natura fisica e sensoriale e poi nella loro natura energetica; e infine le pratiche del Sognare, ovvero di trascorrere lunghi periodi di tempo nella consapevolezza espansa. Tutte queste pratiche stimolano continuamente la percezione dalla propria natura energetica, aumentandola o espandendola. Quale beneficio possiamo trarre dalla Tensegrità nella nostra vita quotidiana? Il piacere e l’accrescimento di avere il proprio “pieno” di energia disponibile, piuttosto che una parte di essa. Con la pratica continua della Tensegrità, gli stimoli sensoriali - colori, suoni, sapori - diventano più ricchi, i pensieri e le decisioni più chiare e dirette, le emozioni sobrie invece che esasperate ed isteriche. E si percepisce interiormente - psicologicamente come anche energeticamente - un profondo senso di benessere, una conoscenza interiore di quale potrebbe essere la prossima e giusta azione da intraprendere nel corso della nostra vita. In cosa consistono le arti dell’“Agguato” e del “Sognare” degli antichi veggenti del Messico? “Sognare”, come abbiamo già detto, è lo stato di consapevolezza espanso che

anni ’50: villaggio di Cajamarca (Perù)

proviene dall’essere in contatto cosciente con il nostro aspetto energetico, ed avviene sia mentre siamo svegli sia quando siamo addormentati. “L’Agguato” è l’arte che ci permette di cambiare le nostre vecchie abitudini ed aprirci a nuove possibilità, che possiamo impiegare in modo da mantenere questo nuovo stato. Per esempio scoprire il modo migliore per me per cominciare la giornata da sveglio ed iniziare la notte da addormentato, sapere come approcciarmi a questo con autorità durante la veglia e il sonno, come negoziare meglio i termini nel mio giorno da sveglio e la notte dormendo etc. Qualunque cosa impariamo da svegli o da addormentati la trasferiamo immediatamente nell’altro stato, perché, per i

veggenti del Messico antico, la veglia e il sonno sono un continuum senza interruzione della coscienza, se solo impariamo i metodi per trattarli come tale. È possibile ampliare la nostra percezione e “vedere” l’energia direttamente, così come fluisce nell’universo? Quello che è difficile da capire è che tutti noi vediamo l’energia in ogni momento con la nostra natura energetica, solo che il nostro essere socializzate non è stato addestrato per includere questo contributo quotidianamente, minuto per minuto. Chi è che non ha mai avuto un’esperienza di conoscenza anticipata di qualcosa che sarebbe successo e poi, qualche ora o giorno dopo, è avvenuta? O una “reazio-

ne a pelle” riguardo a una persona appena conosciuta che poi si è rivelata corretta? Questi, come altri avvenimenti, sono il risultato dello stimolo della nostra natura energetica - quella parte di noi stessi che vede o legge l’energia istantaneamente e immediatamente senza conoscenza preconcetta. La pratica costante della Tensegrità, o la pratica costante del porre l’attenzione su queste parti nascoste di noi stessi, ci permette di vedere, alla fine, più e più eventi astratti e per molto più tempo.

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diventa protagonista di questa pagina. "Waiting for" foto di Francesco Corti, diogenewiliams@gmail.com


la White City senza sonno di Desirée Nardone foto di Francesco Collina

Aeroporto di Ben Gurion. Battito cardiaco: 200 bpm. L’adrenalina è un vasocostrittore che mi blocca il flusso nelle arterie. Penso: “Non sono un criminale terrorista di Al Qaeda”, eppure ho ugualmente la coscienza sporca e non ne capisco il motivo.


edifici fatiscenti vicino al porto di Jaffa

Ossigeno. Mi manca l’aria. Barbara è vicino a me. Mi osserva mentre io osservo le persone intorno. Lei conosce questi posti molto bene, sono anni che vive questo territorio e proprio per l’infinita quantità di timbri arabi che marchiano di terrore il suo passaporto, mi dice di mettermi in fila ad un altro check-out per evitare che facciano storie anche a me. Dopo quattro ore e mezza di volo, l’ansia a Fiumicino di aver perso l’aereo, averlo preso in corsa dopo lamentele e pianti isterici, c’è anche il rischio che rimandino indietro

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la mia compagna di viaggio! E io? Cosa potrei mai fare in mezzo a questi barbuti neri con la kippah in testa e delle strane code di laniccia che scendono ai lati delle loro facce dall’età indecifrabile? E se mi fermano perché qualcosa non quadra? Risolto. Devo rispondere che sono lì per incontrare il mio fidanzato di Tel Aviv e devo mostrargli il numero di telefono di un certo Tzvika Shahak, ex generale dell’esercito israeliano. L’unica regola da seguire è garantirgli che non mi sposterò per nessuna ragione dal territorio

di Israele. Ripeto a bassa voce quelle parole in inglese cento volte prima che arrivi il mio turno. Nel gabbiotto c’è una militare donna. Fredda, come lo spazio vuoto che riempie, e bella, da copertina. Mostro il mio passaporto alla modella in mimetica. Poche domande, risposte giuste, lo sguardo tagliente, un cenno con la testa per farmi scivolare via, un cenno con la testa ad indicare al prossimo di avanzare. Sono a mille. Felice, strafelice di essere a Tel Aviv, nella White City, cosiddetta per via delle tante costruzioni in stile

Bauhaus che si trovano lungo il Rothschild Boulevard e la Bialik Street. Sono in Terra Santa e sono salva. Mi giro indietro, speranzosa di incrociare la mia bionda compagna di viaggio, e la vedo riemergere con un sorriso rincuorante e gli occhi che mi fanno cenno di non avvicinarmi. Sconosciute, fino all’uscita. Una volta fuori, mi concede un urlo da principiante. Rischio l’esplosione. Eccoci catapultate in un caldo anomalo, considerando che è novembre e io indosso un cappotto di lana. Un’auto a noleggio e via. Partiamo

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Porto di Jaffa

alla volta della Palestina, con una macchina targata Israele. Subito mi rendo conto di quanto l’aria di tensione respirata all’aeroporto Ben Gurion sia così diversa dall’aria leggera che tira tra i grandi e moderni skyscraper di Tel Aviv. Il pericolo è passato, a Tel Aviv non c’è traccia di guerra. Una città moderna, ricca, piena di palazzi. Tel Aviv è la globalizzazione allo stato più puro. Una mistura di razze ed etnie che ti fanno sentire al centro del mondo. Una città nuova di zecca, in cui le cose funzionano e i mezzi ti scor-

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razzano ovunque. Una città gremita di giovani (belli da morire, peraltro) dove posso dire, per una volta, che oltre alle bellissime modelle vestite in mimetic, anche i ragazzi sono da copertina. Un’autentica metropoli cosmopolita, dove tradizione e modernità si incontrano: l’architettura contemporanea dei grattacieli con le viuzze e le case dei tempi antichi, i baretti con i caffè Wi-Fi. La fortuna vuole che becco il centenario di Tel Aviv. Incredibile quanto nuova sia la “Collina della Primavera”, quando Jaffa, il suo

porto, ha una storia di cinquemila anni. Ininterrottamente agitata dal vigore dei mercati delle pulci e dai pescherecci che arrivano al porto e si allontanano all’orizzonte, si raggiunge con una piacevole passeggiata, zigzagando fra soldati che marciano e salutisti che sbuffano, ma, una volta lì, vi riconcilierete con tutto. Girovagate per le stradine acciottolate, curiosate fra le bancarelle, compratevi un bagel dalla fornaia che non chiude mai, godetevi il mare di Tel Aviv dall’alto. In questi giorni mi pare che nessuno

abbia voglia di dormire ma i miei nuovi amici israeliani mi dicono che Tel Aviv è sempre cosi. La città sembra vivere una sorta di vacanza permanente e in qualsiasi ora del giorno e della notte si può andare in giro per le strade principali e trovare caffè affollati di clienti, persone che fanno jogging, gente che bighellona in spiaggia. Gli abitanti di questa città sanno come divertirsi e vanno forte sul nightclubbing. Con i miei nuovi amici conosciuti a Shuka, un kibbuts immerso nel deserto di Mitzeberamon, ci sediamo a

fare un piccolo ristoro in un bar storico di Tel Aviv gestito da una signora dai capelli celesti e grigi. Siamo in una viuzza del centro, Tamara, che in ebraico significa Palma. Fotografie dell’olocausto, sue, del suo passato, dei suoi famigliari, del bar com’era trent’anni prima. Uguale identico al posto dove siedo ora. Mi sembra tutto così singolare. Mi godo la diversità e mi ci adatto facilmente tracannando birre e mangiando hummus, tehina e falafel. A Tel Aviv troverete ogni tipo di cucina: l’etnico è ormai radicato nell’imma-

ginario collettivo al pari della cucina kosher. Vi consiglio un posto che sto ancora sognando a distanza di mesi e a cui penso ogni volta che mi siedo in un sushi romano: si chiama Onami, un sushi bar spaziale, considerato il miglior giapponese di Tel Aviv, con piatti inediti e un servizio super cool. Dopo la cena in un bar storico in una viuzza del centro, insieme con Dvir, Ilan e la biondona, ce ne andiamo a Florentin: un quartiere dinamico nel sud di Tel Aviv che pullula di gioventù. Bar, caffè, localini di ogni genere, pub

e ristopub e gente che va e viene. Mi rendo subito conto che, nonostante le profonde diversità religiose e culturali, l’umorismo dei nostri amici del posto non è poi cosi diverso da quello nostrano. Grasse risate fino al sorgere del sole: qui non si dorme, anche se al mattino si lavora presto. Io e la bionda rincasiamo alle sei del mattino e c’è abbastanza luce per goderci la collezione di storiche e pittoresche casette di Neve Tzedek. Questo è il più antico quartiere ebraico di Tel Aviv, e oggi è il posto con più stile dove vivere. Un

pò come Rione Monti a Roma. E qui, Neve Tzedek Rothschild, è la zona rinomata del divertimento notturno, perfetta per girovagare di bar in bar. Non a caso c’è un detto israeliano che dice: “Gerusalemme prega, Tel Aviv si diverte”. a pagina 18, 21 e 22 il lungomare tra Jaffa e Tel Aviv

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blues in Mississippi reportage fotografico di Gerald Bruneau blackarchives.it “It ain't a juke joint without the blues.� (Carl Sims)







inviati Alessandra Iodice MELBOURNE

Matteo Tabacchini BERLINO

Cecilia Gatti BUENOS AIRES

Arianna Spagnolo SÃO PAULO

Gianmaria Schönlieb SAN FRANCISCO

Luis Ignacio Villa SANTA CRUZ DE LA SIERRA

Aussie rules

Music Week Fête de la Musique, Fusion, Melt, ClubTransmediale, Suicide festival, qui ogni settimana è la settimana della musica. Eppure la Berlin Music Week è qualcosa di diverso, per la precisione è una “shared platform for shared music experience”, ovvero un luogo dove i confini tra chi la musica la fa, la ascolta e la produce sono estremamente labili come quelli tra i generi proposti. Il programma, infatti, è molto diversificato: 1000 clubs, 1000 palchi dove si esibiranno altrettanti artisti di ogni provenienza e di diversa visibilità, da Tricky fino al mio vicino di casa. Un progetto che unirà bookers, managers, promoters, agenti, labels, musicisti e fanatici in un'unica e infinta live session di performance e dibattiti alla ricerca del futuro della musica o ancora, della musica del futuro. Il suono puro, da creare, somministrare e contaminare costantemente. Proprio come si fa qui, a Berlino. 6 -12 sett. 2010. www.berlin-music-week.de

l'asilo delle mamme di San Vito

Haight Ashbury

Se dall’altra parte del continente la domenica ci si ferma per il calcio qui a Melbourne il weekend è paralizzato dal footy: dal venerdì sera fino alla domenica almeno sedici squadre si incontrano per il campionato di football australiano. Melbourne ne è il cuore. La maggior parte dei team infatti prende il nome dai suoi quartieri, solo sei squadre hanno i colori di altre città. Oltre a calcoli e numeri, questo sport è caratterizzato da una forte passione che accomuna tutti. Non esistono curve, i tifosi sono mischiati e tra una birra e uno hotdog si ritrovano a scambiare commenti sulle proprie squadre. Tutti aspettano la grande finale a fine stagione per partecipare alla parata che vede sfilare giocatori e allenatori. L’ultimo giorno, però, è soprattutto un modo per riunirsi intorno al barbecue per festeggiare l’evento più australiano che ci sia. Non esistono colori, ma l’idea di sentirsi, per una volta, appartenenti ad un’unica razza, quella degli Aussie.

tra la foresta e mille colori

la pista d’atterraggio degli UFO

Se dicessi Argentina pensereste subito alla Patagonia. Ma se invece dicessi Salta? Niente? Beh, è una delle regioni più belle del Paese! Situata a nord, è un po’ lontana da Buenos Aires, ma l’aereo risolve tutto (o, se siete coraggiosi, un giorno e mezzo di bus). I pittoreschi pueblos salteñi sono abitati dai discendenti dei popoli indigeni. Molti vi offriranno calze, capellini, borsette e strani maglioni (tutto di lama!), mentre i bambini vi seguiranno sorridenti per una caramella o per darvi peluches a forma di vigogna fatti con le loro mani. Ma la cosa più spettacolare di questo luogo è il paesaggio: montagne che superano i quattromila metri e che sembrano dipinte di tutti i colori: vedrete rocce verdi, viola, rosse e gialle. E se vi spostate di soli dieci chilometri vi ritroverete nel mezzo di una foresta selvaggia come l’Amazzonia.

Una tarantella canticchiata da Antonio, il più anziano. Un rimprovero che arriva da donna Maria, la ultra novantenne responsabile dei pomodori da tagliare, salare e collocare a raggiera sulla pasta per focaccia, prima che cresca troppo. Un circo di storie e leggende che si consumano come il colletto ormai logoro della camicia di Matteus, uno dei discendenti di Polignano a Mare, oggi direttore della “ficazza”. A San Vito sa tutto di armonico e fedele, come se si facesse improvvisamente parte di un patto col divino, di un atto di fede, di un voto, di un amore centenario mai tradito. Da oltre novant’anni in quella fabbrica dell'amore ci si sente scoppiare la vita dentro e tutto il resto, ciò che si consuma fuori dalle sue calde mura, perde d'importanza. Perché se gli occhi di uno solo di quei centotrenta bambini potesse posarsi su di voi, vi assicuro che vi sentireste minuscoli e insignificanti, ma anche forti ed invincibili nello stesso istante.

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Giovedi mattina, passeggiata per Haight Ashbury. Paradiso di vintage clothing e accessori, è senza alcun dubbio la strada più hippie della città. Barboni che suonano la chitarra ai lati dei marciapiedi, turisti, ragazzine in cerca del vestito indie per la serata, ragazzotti americani, soliti hipster dal look volutamente trascurato. Vetrine dai colori accesi, anziani hippie tatuati, negozietti di vinili ed un leggero odore di marijuana nell'aria. Si entra così da Wasteland, per poi passare dal più raffinato Villains. Un salto nel negozio di abiti anni '60 al lato opposto della strada, ed una piccola sosta nel negozietto a fianco alla ricerca di un nuovo cappello. Luna sta cercando un vestito a palloncino, io vorrei un tuxedo azzurro. Nel frattempo, prendo uno smoothie alla fragola e mango. Consigliato vivamente di giorno ai migliori shopaholic, di sera agli affamati di musica live.

L’immaginazione di un bambino corre veloce quando a scuola si parla di El Fuerte e degli UFO che vi atterravano. Ma poi arriva mamma che si scompiscia dalle risate e dice che è solo una leggenda metropolitana: El Fuerte de Samaipata è un sito archeologico e religioso così lungo, piatto e ben scolpito che è semplicemente il candidato perfetto per una scena favolosa come quella degli UFO. Posta proprio sull’orlo dell’autostrada che porta al piccolo paesino di Samaipata, quest’enorme pianura rocciosa è patrimonio dell’UNESCO per le sue venature a zig zag incise meticolosamente per tenere traccia dei passaggi planetari, per le sue fosse cerimoniali che sembrano vasche idromassaggio e per i portici usati come calendari. I visitatori potevano una volta camminarci sopra e intorno, sedersi sui troni cerimoniali scolpiti nella roccia, e toccare le forme incredibili intarsiate su tutta la superficie. Oggi rimane un sito da non perdere sia per gli amanti dell’archeologia, sia per bambini affamati di curiosità.

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un tipo da spiaggia di Alessandra Valente

Quante volte, da piccoli, abbiamo provato la soddisfazione di ultimare un castello di sabbia sulla riva del mare e subito dopo la delusione di vederlo crollare sulle sue stesse fondamenta, rosicchiato da un’onda più lunga del solito? Ma non importava, si ricominciava da capo, in fondo quella delusione era il rischio da correre per potersi illudere di nuovo. Chi non ha almeno un ricordo dell’infanzia legato a questo momento? Le dita sulla sabbia come la matita sul foglio bianco. Il mare, gomma gigante. Nessun bambino avrebbe mai rinunciato ad un simile piacere. Jim Denevan ha fatto di quel gioco una delle sue più grandi passioni. Il quarantottenne statunitense, oltre che rivoluzionario chef e surfer entusiasta, è anche un esponente di punta della Sand Art. Supporto artistico? Sabbia. Strumenti? Bastoni di fortuna e rastrelli. Soggetti? Figure geometriche matematicamente perfette e forme stilizzate di estrema precisione. Spirali, cerchi, triangoli ricamano la superficie, ma sono le proporzioni monumentali e la larghissima scala con cui vengono riprodotte a renderle impressionanti. Non ci si spiega come faccia Denevan a mantenere la prospettiva, senza alcu-

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no strumento di misura, dal momento che le sue opere sono visibili nella loro interezza ad almeno centocinquanta metri d’altezza. Ed ecco le immense sconfinate spiagge della Northern California o i letti prosciugati dei laghi del Nevada trasformati in una gigantesca tela che ospita sorprendenti creazioni ad effetto finché vento, piogge e maree non decidono che la mostra è finita. Un’attività che ha del poetico: è un manifesto del valore tanto nobile quanto effimero della bellezza e dell’arte, in generale. Dopo secoli passati a vantare la funzione eternatrice dell’arte, Denevan ci prende in contropiede col carattere passeggero delle sue opere. Come dire: dall’arte come strumento di immortalità all’arte come creazione corruttibile, fragile, precaria, votata ai capricci della natura. Ai più, l’impresa di Sandman – come viene soprannominato – ha un che di folle: perché investire tempo ed energie per una creazione provvisoria, ergo inutile? Tra l’altro, ogni quadro a cielo aperto gli costa uno sforzo titanico. Il processo creativo comincia dalla scelta delle location: Jim cammina per chilometri e chilometri, durante il tragitto sceglie tra tanti il bastone o il ramo più adatto,

portandoselo dietro come un amico fedele, e intanto osserva il paesaggio, ascolta il rumore dell’oceano, e, una volta entrato in sintonia con il posto, si ferma a regalargli una dedica. Personifica il terreno, gli dà la parola prima che possa tornare di nuovo vergine. È una continua sinergia tra uomo e natura: alla fine del processo, certo, la natura ristabilirà le gerarchie, ma l’uomo le avrà recapitato il suo messaggio. Il più colossale artwork che la storia ricordi è stato realizzato nel 2009 nel Black Rock Desert del Nevada: centinaia di cerchi concentrici, di diverse dimensioni, un diametro totale di oltre 13 km. Tempo di messa a punto del graffito: due anni. Un camion, aiutato da algoritmi e GPS, ha solcato il deserto con pesanti catene fino a nove metri di profondità, così da rendere l’opera visibile persino dagli aerei. Ancora una volta, trattasi di temporary art. Un altro disegno ha significato per Denevan trenta chilometri – all’incirca sette ore – di marcia. E pensare che basterebbe un’onda a cancellare tutto. Ma, in fondo, tutto torna. Denevan, prima di essere un artista, è innanzitutto un surfer. Così descrive l’epifania del primo disegno: “Una sera, scesi in spiaggia per una pas-

seggiata. La bassa marea aveva risucchiato via il mare e lasciato chilometri di spiaggia liberi. Ho ceduto all’impulso di lasciare una traccia nella sabbia con le dita. Così, ho disegnato un pesce di una ventina di metri. Ho fatto un passo indietro e sono rimasto a guardarlo, compiaciuto. Poi, ho disegnato un sacco di pesci, dovunque, sulla spiaggia. Ho camminato su per la scogliera e ho ammirato il disegno da lassù: era bellissimo, in quella luce della sera. E mi sono detto: dovresti farlo più spesso”. L’illuminazione gli è venuta proprio dal surf: la visione della spiaggia come una enorme tela vuota, l’interesse morboso per i movimenti delle onde. La creazione è tanto importante quanto la distruzione. L’azione casuale degli elementi naturali costringe a dare importanza all’immediato, al momento presente, a vivere l’arte per l’arte. Quando la traccia viene cancellata, non se ne esce col cuore spezzato, ma con un sollievo che è catartico. Le emozioni che sono state liberate nel disegno, sono ritornate alla terra. Ora, si ricomincia.


Bolivia la Babele delle Ande di Guido Baligioni foto di Arthur Lima

A La Paz, capitale della Bolivia, chi ha i soldi vive nei quartieri bassi. È l'unica città al mondo in cui succede una cosa del genere. D'altronde su un altopiano di quattromila metri, anche cento in meno fanno la differenza, per i polmoni. Per lo meno, per i miei polmoni. È davvero spiazzante trovarsi in una grande città che è alla stessa altitudine

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delle nostre montagne più alte. Conosco dei ragazzi dalla pelle chiara: mi rivolgo a loro in inglese. Invece, mi rispondono in spagnolo di essere “bolivianos con cara de gringos” (boliviani con la faccia da americani): sono i ricchissimi discendenti dei primi conquistadores.


La Paz

Fanno parte, ancora oggi, della minoranza opulenta che possiede la maggior parte delle terre. E che vive nei quartieri bassi di La Paz. La maggioranza dei boliviani, invece, è fatta di persone abituate da generazioni all'ossigeno rarefatto. Per respirare un po' meglio quasi tutti masticano foglie di coca. L'infuso di questa pianta, il mate, aiuta da sempre a lenire il “soroche”, il mal d'altitudine. La cocaina è un'altra storia, e non l'hanno inventata i boliviani. Per scoprire però che cos'è davvero la tradizione

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del masticare le foglie della pianta sacra, mi basta andare nel coloratissimo mercato, e vedere gli enormi sacchetti pieni di foglie seccate. Mi colpisce una donna: vecchia, fragile, una di quelle che nei nostri paesini starebbe a chiacchierare seduta su una sedia davanti a casa. Se ne va via con un sacco formatofamiglia di quella pianta dai poteri magici e dal delicato odore amarognolo. Gli uomini, invece, mi sembrano più deboli delle loro compagne e delle loro madri: non hanno un accenno di barba, le

loro guance sono quelle di un ragazzino. Forse per questo sono rimasti intimoriti, secoli fa, alla vista degli spagnoli, barbuti come Virachocha, il loro Dio fin da prima della civiltà Inca. Sarà perché ho letto di queste storie, sarà perché ho la barba incolta e sono un po' più alto di loro, ma mi pare di vedere nei loro occhi il timore che avevano i loro antenati all'arrivo, profetizzato dalla religione tradizionale, dei primi “barbudos”. Un uomo con un abito marroncino mi ferma: è entrato in una mia foto e se n'è accorto, ma

non è arrabbiato, vuole solo sfogarsi un po'. “La Bolivia ha tutto, tranne il mare”, mi dice. Mi racconta della guerra del Pacifico. Dal 1884, cioè dopo aver perso contro gli inglesi, i boliviani non hanno accesso all'oceano e la marina militare è costretta a battere le sponde del lago Titicaca. “O mar es un derecho” (il mare è un diritto), mi dice. Pochi giorni prima avevo letto queste parole vicino al palazzo della Marina, sulle sponde del Titicaca. Nonostante manchi un porto sul Pacifico, la Bolivia è ricchissima: metalli

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Laguna Colorada (Reserva Nacional de Fauna Andina Eduardo Abaroa)

(montagne d'argento boliviano nelle chiese d'Europa), acqua dolce (eppure il popolo lotta per bere, e a ogni angolo c'è una scritta Coca-Cola) e ancora il litio del Salar de Uyuni con cui si fanno le batterie per le auto elettriche e i telefonini più recenti. Quest'uomo ha ragione da vendere, e dal suo racconto ho imparato più che da tanti articoli di geopolitica. Vorrei fargli qualche domanda, continuare a parlare con lui, ma mi saluta in fretta e se ne va, mescolandosi tra la gente. Da La Paz decido di andare

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nel Parco Nazionale Madidi, a circa 200 km di distanza. Parto su un piccolo aereo a sei posti dall'aeroporto della capitale, il più alto del mondo. Il volo dura poco ed è tutto in discesa, se così si può dire, perché dall'altopiano bisogna arrivare al livello del mare. I vuoti d'aria si fanno sentire dal piccolissimo velivolo, per cui sono contento quando il pilota, sopra la foresta tropicale, dice di prepararsi all'atterraggio. “Dove?”, chiedo. Poi vedo la pista: è un rettangolino di prato rubato alla natura. Da questa prima

Tiahuanaco

immagine, capisco subito che a comandare, qui, non è l'uomo. Qui è già tanto riuscire a scavare un angolo nella foresta come Rurrenabaque: un villaggio circondato dagli alberi e dall'acqua.Il Parco del Madidi è uno dei luoghi più incontaminati al mondo, con una ricchezza di biodiversità quasi impareggiabile. Nella stagione delle piogge il fiume, il río Beni, straripa e forma un enorme lago. La vegetazione lussureggiante si riflette nell'acqua, e forma simmetrie perfette che ricordano le macchie di Rorschach, quelle

usate dagli psichiatri per l'indagine della personalità. Solo una piccola scia increspa lo specchio d'acqua calmissimo: è la nostra barchetta che ci porta nel cuore della foresta. Nei tre giorni sul fiume dormiamo su una palafitta con Pedro, la nostra guida, e un piccolo gruppo di persone. Di giorno andiamo alla ricerca di animali bellissimi e la sera ci rilassiamo davanti alla porta di casa. In quei momenti veniva vicino Alona. Così chiamavano il coccodrillo femmina a cui davano da mangiare gli avanzi, come noi

facciamo con il nostro cane. A questo animale spaventoso Pedro riesce a dare delle timide carezze. L'ultimo giorno, al tramonto, abbiamo fatto tutti un bagno nella zona presidiata dai delfini rosa: è l'unico punto della sterminata distesa d'acqua in cui si è sicuri di non incontrare animali pericolosi, tenuti lontani dai mammiferi. Poi, a motore spento, lasciando che la barchetta si faccia trasportare dalla corrente, provo una sensazione di pace assoluta. La notte che scaccia il giorno: in città non fa lo stesso effetto. La Bolivia,

in questi giorni, mi ha dato la possibilità di scoprire com'è la vita nella natura selvaggia: piena di pericoli e di bellezza. Mi rimane solo da vedere una cosa: l'avevo letto nei libri e me lo aveva detto anche l'uomo al mercato di La Paz: “La Bolivia ha tutto, anche una misteriosa storia antichissima”. Poco distante dal lago Titicaca c'è Tiahuanaco, un'antica capitale, mille volte meno famosa di Macchu Picciu in Perù ma mille volte più bella, più imponente, più misteriosa, e anche mille volte peggio gestita. Macchu Picchu è un

gioiellino Inca in cima alle Ande con tanto di negozio che vende cachemire e vigogna. Tiahuanaco invece è quel che resta di una ricchissima città, probabilmente la capitale dell'impero che ci fu secoli prima degli Inca. L'incuria con cui l'area archeologica è tenuta non è riuscita a cancellare le tracce di una civiltà dall'arte raffinata e dalla tecnologia evoluta. La statua di un puma accovacciato con una maschera di uomo fra le mani ricorda che siamo nell'altro emisfero, coi piedi in alto e la testa all'ingiù. Ma il si-

stema di unire le pietre gigantesche per costruire palazzi e piramidi, identico a quello usato dagli egizi - colare del metallo in due incavi gemelli con forma di cunei nelle due pietre da unire - mette in dubbio ciò che è scritto nei libri di storia: sì, la Niña la Pinta e la Santa Maria, ma forse manca un pezzo.

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i sogni colorati di Bibi Russel di Alexandra Rosati

Bibi Russel, figlia del Bangladesh, coltiva fin da piccola una gran passione per il disegno, vive un’infanzia circondata da musica, arte e cultura e, “step by step”, come dice sempre lei a proposito del modo in cui ognuno di noi dovrebbe seguire il proprio percorso, raggiunge Londra, dove, nel 1975, si laurea al London College of Fashion. Comincia a fare la fotomodella per riviste come Vogue, Cosmopolitan e Harper's Bazar, e nel giro di pochi anni diventa indossatrice per importanti stilisti, fra i quali Yves Saint Laurent, Kenzo, Karl Lagerfeld e Giorgio Armani. Ma i suoi sogni sono nel suo paese, e dopo aver sfilato lungo passerelle internazionali, nel 1994, i suoi passi la riportano a Dhaka. Da lì il suo viaggio prosegue negli innumerevoli villaggi bengalesi, dove, entrando in contatto con la gente, ne studia le lingue e i dialetti, e i loro diversi modi di vita. Si guadagna la loro fiducia, con la convinzione di poter spiegare ai suoi connazionali che la povertà non è una malattia, ma una condizione dalla quale si può uscire grazie ad una dignità che nasce proprio da una vita apparen46

temente tanto misera. I suoi continui spostamenti, spesso in macchina, sono alimentati dalla speranza di riuscire a far prendere coscienza agli abitanti del suo paese delle loro concrete possibilità. Questo è il sogno che Bibi insegue con gran tenacia e passione, senza mollare mai. Finché proprio nella capitale, situata nel cuore della regione con la più grande coltivazione di juta al mondo, la stilista finalmente crea la sua linea di prêt-àporter, il cui scopo è usare la moda come mezzo di sviluppo sociale. Il suo marchio infatti si chiama “Fashion for Development”. E riesce nel suo intento. Oggi la Bibi Productions dà lavoro a quasi trentacinquemila artigiani tessitori che stanno riuscendo ad esportare, con la lavorazione dei tessuti destinati a divenire abiti, una parte della cultura e della bellezza del Bangladesh. È importante ricordare che la caratteristica comune delle fibre utilizzate per le creazioni manuali è l’origine vegetale. I suoi risultati artistici, che comprendono abiti, scarpe, accessori e tappeti, hanno infatti come principio fondamentale l’ecocompatibilità. Ogni tessuto

o materiale, grazie anche ai processi di colorazione naturale che non prevedono l’utilizzo di additivi chimici, è biodegradabile e riciclabile: juta, lino, canapa, seta, gusci di noci di cocco, terracotta, legno, foglie di palma, giacinti d’acqua e tutto ciò che si può trovare tra le risorse naturali della pianura del Gange. L’occasione che Bibi sta offrendo al proprio paese è frutto di un notevole impegno umano e civile. Non è un caso che l’UNESCO abbia sponsorizzato la sua prima sfilata a Parigi e l’abbia insignita della carica di “Artista della Pace”. “I colori del Bangladesh”, questo il titolo della sua seconda sfilata, sono entrati così nel circuito internazionale della moda, e il sogno che all’estero si parli, oltre che delle miserie bengalesi, anche delle tante cose belle che ci sono, sta prendendo forma nella realtà. E se a sensibilizzarsi sono organizzazioni come l’UNESCO vuol dire che nei villaggi può arrivare l’elettricità, i bambini possono andare a scuola e la salute di tutti può essere salvaguardata: questo il significato di “Fashion for Development”. L’apparente arretratezza del

Bangladesh è divenuta la sua forza, l’eco-sostenibile si oppone ad un progresso che si è auto-degenerato alterando i delicati equilibri terrestri. Ecco come la moda eco-solidale, favorendo un basso impatto ambientale sia nella coltivazione dei materiali, sia nella produzione e commercializzazione dei capi, diventa la vera forma di progresso e di sviluppo economico e sociale. Grazie all’impegno per la sua causa Bibi Russel ha ricevuto numerosi premi nazionali ed internazionali. È stata dichiarata “Donna dell’anno” da Elle Magazine nel 1997, “Imprenditrice dell’anno” dalla Foundation of Entrepreneur Women nel 1999, e nominata nello stesso anno “Inviato speciale UNESCO: Designer per lo sviluppo”. La cosa più bella da constatare è come da un’idea in fondo estremamente semplice la stilista stia svolgendo un’attività di enorme importanza umanitaria, un esempio che, se seguito, riporterebbe davvero il mondo ai suoi originari, splendenti colori.


le domeniche a Berlino di Francesca Rosati

È crollato da più di vent’anni ma lo si sente ancora respirare. Come quei fantasmi nostalgici che non riescono ad abbandonare la vita terrena e rimangono incastrati nelle loro dimore, per sempre. O semplicemente come quei ricordi – belli, brutti, drammatici o divertenti – che la mente sceglie di conservare, e che ci accompagnano per tutta la vita, sbucando quando meno te l’aspetti. Il muro di Berlino è così. Onnipresente e costante persino quando non lo vedi, spunta all’improvviso nei luoghi più impensabili. Come per esempio nel Mauerpark (letteralmente “parco del muro”), a Prenzlauer Berg, dove l’aria è allegra e gioiosa soprattutto nelle domeniche di bel tempo, nonostante si tratti di un luogo di memoria. In un ambiente semplice e underground, tedeschi e stranieri passeggiano tra le bancarelle del mercatino vintage con passo lento e occhi stanchi, ancora un po’ storditi dal sabato elettronico della capitale. Per rimettersi in forze basta fermarsi a uno dei tanti stand che servono spremute d’arancia fatte sul momento o, se si vuole essere più originali, andare dalle due ragazze armate di martello che vendono cocchi freschi dotati di cannucce. Perché poi da vedere c’è davvero tanto: abbigliamento hip nuovo o usato, vintage originale, 48

oggetti artigianali, frutta e marmellate biologiche, spezie di tutti i tipi, elettrodomestici (spesso non in ottime condizioni ma anche loro molto vintage), stand di cibo etnico, persino delle spiaggette artificiali allestite tra una bancarella e l’altra. Ma la punta di diamante del parco è il “Bearpit Karaoke” che si svolge nell’anfiteatro di pietra vicino al mercatino e che ogni domenica attira almeno mille persone. I partecipanti cantano seguendo i testi su un piccolo computer portatile pieno di basi per il karaoke, la musica si diffonde grazie a due casse potentissime e il pubblico impazzisce, incitando e deridendo gli impavidi concorrenti. Le risate sono contagiose e l’energia che si sprigiona è positiva. Finché non lo scorgi tra gli alberi: è un resto del muro che confinava con la Berlino Est, quello costruito in un secondo momento per rendere ancora più difficili eventuali fughe. Nonostante i colori sgargianti dei graffiti, come un’ombra malvagia ti ricorda che non molto tempo fa il Mauerpark era un segmento della “striscia della morte”. Ti ricorda che, nella ricerca disperata di una vita, in centinaia lo scavalcavano, per essere poi fucilati o, peggio ancora, per vagare in quel limbo infernale tra i due muri finché non morivano di fame.

E il muro è lì per questo. Perché nessuno deve dimenticare. Cerco di scacciare la malinconia e decido di andare a vedere un altro mercato. Mi sposto nel Friedrichshain, centro vibrante della Berlino Est, più precisamente nel “Kiez” (in italiano si potrebbe tradurre con “piccola zona alternativa”) intorno a Simon-DachStrasse, una via costellata di ristorantini, bar e locali stravaganti e di tutti i tipi, paragonabile alla Brick Lane londinese, al Quartier Latin parigino o al Pigneto romano. Come il muro, la musica è ovunque, a Berlino. Nei negozi, per le strade, nei locali, lungo il fiume. È anche qui al mercatino delle pulci di Boxhagener Platz, il più romantico e autentico della città, dove musicanti di strada allietano anche le compere più frenetiche con vere e proprie orchestre. La forma circolare della piazzetta – detta “Boxi Platz” – è perfetta per i mercati e permette ai visitatori di vedere tutte le bancarelle facendo un solo giro della piazza. Il parco giochi è sempre pieno di bambini, come del resto lo è tutta Berlino perché, pensate, in Germania esistono i sussidi economici per chi fa figli, e gli asili sono ben organizzati oltre che molto numerosi (e, udite udite, questi privilegi valgono anche per gli stranieri!).

Insomma, musicanti, bambini, designer locali con le loro creazioni, collezionisti che si vogliono sbarazzare delle loro paccottiglie, venditori di libri, cd o – ancora meglio – vinili usati, e tanti giovani e studenti, i nuovi residenti di questo rione dell’ex est berlinese. Tra le bancarelle spiccano senza dubbio quelle degli artisti, tedeschi e stranieri, come ad esempio Mateo Dineen (mateo-art.com) e Johan Potma (johanpotma.com). Californiano il primo e olandese il secondo, creano mondi inventati e surreali e, oltre ad avere una loro galleria (la Zozoville Gallery, sempre nel Friedrichshain), continuano a partecipare ai mercatini delle pulci, così vivi e aggreganti a Berlino. Seguo anch’io il movimento lento della folla mentre le note classiche dell’orchestra di strada accompagnano le ultime ore di questo pomeriggio leggero e sospeso. Tra poco, con i primi accenni del buio, suoni elettronici si diffonderanno ovunque per fare da colonna sonora alla notte, fino alle prime luci dell’alba. This is Berlin. a destra: "Telltale Signs” di Mateo Dineen


la riserva naturale dei Rockabilly di Maria Celeste Meschini foto di Roberto Grassi Con il pettine nascosto nella giacca di pelle o dimenticato nella tasca dei jeans (rigorosamente Levi's 501) dai risvolti alti, ciondolano sui loro stivali a punta sistemandosi le basette e il ciuffo a banana. Osservano le gonne plissettate, le labbra rosso fragola e le ciglia extra volume che si sfidano tra loro a ritmo di Rock'n Roll. La parola d'ordine è brillantina. È il popolo dei Rockabilly. Non ci troviamo sul set di qual50

che revival del film “Grease”, siamo nel centro di Tokyo. Dagli anni '70 i cancelli dello Yoyogi Park sono diventati il punto di ritrovo di un gruppo di nostalgici della musica di Elvis, del look di Battie Page e delle pettinature “pomp”. Questa comunità giapponese si riunisce da anni all'interno del parco, che si trova vicino la stazione di Harajuku, a sud del Santuario Meiji di Shibuya, per scatenarsi in performance da veri rocker.

Il Rockabilly altro non è che una delle prime forme di Rock'n Roll. Tutto comincia con la fusione tra Blues, R&B, Bluegrass e Country agli inizi degli anni '50, quando la chitarra di Chuck Berry diventa lo strumento principale nelle sue canzoni. Si differenzia dal puro rock per le sue origini. Infatti, mentre il rock'n roll era considerato in America un tipo di musica leggera a carattere nazionale, la musica

Rockabilly nasce nel sud degli Stati Uniti ed ha origini popolari. La canzone di Elvis “All shoock up” apre le porte al genere e, insieme ad artisti come Eddie Cochran e Roy Orbison, il nuovo stile musicale comincia ad espandersi anche in Europa. Nel 1978 John Travolta e Olivia Newton John, nei panni di Danny Zuko e Sandra Dee, diventano l'icona di quello che negli anni è diventato uno stile di vita.


I vestiti, la musica, i modi di interagire, i calzini bassi, la pelle nera, la lacca nei capelli, le magliette colorate o a pois, il fazzoletto intorno al collo, le moto, la Corvette, i sandali dal tacco alto sono gli elementi fondamentali di uno stile che nasce dagli anni Cinquanta, si mescola con le tendenze più cool dei nostri giorni e mantiene vivo l'amore per un tempo forse durato troppo poco o forse mai esistito. Quello appunto di “Grease”. Band, community, fan club nascono in tutto il mondo arrivando sino al paese del Sol

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Levante. Conosciuti come gli zoku Takenoko, fino agli anni '80 assediavano letteralmente il Parco Yoyogi con stereo in spalla e musica a tutto volume. Mecca della moda giovanile per gli studenti di Tokyo, adolescenti ribelli per le autorità. Tanto che la polizia attuò diversi sgomberi nel corso degli anni '90, aiutata anche dalle denunce dei genitori e dall'opinione pubblica scandalizzata dall'atteggiamento di questi ragazzi, che fumavano sigarette e ballavano in gruppo nel parco che nel 1964 aveva ospitato

l'apertura dei Giochi Olimpici di Tokyo. Oggi sono rimasti in pochi, e i veri Billy si sono mescolati con le ragazze Lolita, le pin up o semplicemente con personaggi dai gusti stravaganti. La zona del parco dove si riuniscono si è trasformata in una vera e propria attrattiva turistica. Ma la domenica pomeriggio, se vi capita di passeggiare per lo Yoyogi Park con il vostro cane (è l'unico parco in tutta Tokyo dove esiste uno spazio per lasciare i cani liberi senza guinzaglio), potete imbattervi

in questa razza morente che continua a resistere. Perché i vecchi T-Bird insieme alle loro Pink Ladies non passano mai di moda. Soprattutto in Giappone. in entrambe le immagini: performance rockabilly nello Yoyogi Park di Tokyo


l'isola a vapore di Eleonora Mainella e Marta Malatesta foto di Oddlaug Sjöfn Árnadóttir

On this Island Look, stranger, on this Island now The leaping light for your delight discovers, Stand stable here And silent be, That through the channels of the ear May wander like a river The swaying sound of the sea. Here at a small field's ending pause Where the chalk wall falls to the foam and its tall ledges Oppose the pluck And knock of the tide, And the shingle scrambles after the sucking surf, and a gull lodges A moment on its sheer side. Far off like floating seeds the ships Diverge on urgent voluntary errands, And this full view Indeed may enter And move in memory as now these clouds do, That pass the harbour mirror And all the summer through the water saunter. W.H.Auden (1937)

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M: Solo dopo essermi seduta sul sedile di spugna numero quindici – fila F ho capito che il mio sogno stava finalmente per realizzarsi: quell’aereo ci avrebbe portate dritte dritte in Islanda! Per quanto si faccia non si è mai davvero pronti ad un viaggio verso quest’isola vicinissima al Circolo Polare Artico, con condizioni meteorologiche estreme, che custodisce meraviglie naturali imparagonabili. Io e la mia migliore amica E., nonché migliore compagna di viaggio, dopo essere atterrate all’aeroporto di Keflavík, che dista 50 km dalla capitale, abbiamo affittato una macchina ed è stato così che è iniziato il nostro tour intorno a tutta la costa dell’Islanda. A causa del sonnifero che prendevo per combattere l’insonnia dovuta alla troppa emozione ho soltanto un vago ricordo dei primi tre giorni ma sul mio quaderno si legge: “Saltello tra nerissimi deserti di lava e fiori di cotone, cerco di catturare con Holga montagne dai colori vibranti e casine bianche con il tetto rosso che esistono solo nei disegni di un bambino…” E: Arriviamo a Reykjavík,”baia fumosa”, chiamata così per via del vapore sprigionato dalle bocche geotermali, e qui ci riposiamo dopo più di cinque ore di viaggio. Il giorno dopo iniziamo il nostro roadtrip attraverso la costa occidentale. Búðir è la nostra prima tappa, una splendida chiesa nera tra le colline e il mare. Sempre sferzate da un vento indomabile, ci riempiamo gli occhi di questa strana terra, patria dei Vichinghi, in cui, a dispetto di ogni logica, acqua e fuoco convivono in armonia. Per scaldarci un po’ ci fermiamo a Hellnar, mangiando una deliziosa zuppa di aragosta servita in tazza, proprio quello che ci vuole per ammira-

re meglio il porto di questo paesino con i pescherecci attraccati e la spiaggia di ciottoli neri e bianchi. Trascorriamo la notte in un campeggio, è tutto inconsueto, tra colori e sapori così diversi da mischiarsi in una sensazione di pura bellezza. Riprendiamo il viaggio e arriviamo al nord, sorprese da una pioggia improvvisa, lo sguardo sempre catturato dal paesaggio, dall’oceano e da quella muschiosa natura, da curiosi cavalli, piccoli e robusti, che pascolano liberi. Attraversiamo Akureyri, la seconda capitale, rimanendo a bocca aperta nello scoprire che qui la luce dei semafori è a forma di cuore. M. Direzione sud: Seyðisfjörður, una splendida città che si affaccia sul lago, alle spalle una cascata che toglie il fiato. Tetti e lampioni sono di colori flou: siamo impazzite! Da qui in poi l’Islanda è come una torta (forse aggiungere “a strati” lo renderebbe più chiaro?), il paesaggio cambia continuamente. Ruscelli, cascate, laghi e un mare tempestoso coronato da scogli neri con in cima un faro pieno di solitudine. Ancora spiagge scurissime tagliate da strade impercorribili. Tutto quello che stavamo vivendo era veramente troppo per il mio cuore, tanto da sentire il bisogno di piangere. Poco dopo arriviamo a Vatnajökull, che è la calotta glaciale più grande del mondo, dopo i poli, ed è proprio lì, in quello spettacolo, che mi sono persa tra gli altri pezzi di ghiaccio. E. Deserto di lava frastagliato da alture che assumono le sembianze di volti. Una montagna particolarissima: due visi scolpiti nella pietra sembrano troll che si baciano. La leggenda vuole che quando


venne la luce essi si pietrificarono. Si racconta infatti che i troll escono dalle loro caverne solo dopo il tramonto e al sopraggiungere dei primi raggi solari scompaiono, tornando nelle proprie dimore umide. L'esposizione diretta ai raggi del sole, infatti, potrebbe trasformarli in pietra e di lì a poco farli scoppiare! Molti di questi troll pietrificati sono ancora oggi visibili tra le ombre delle maestose foreste nordiche. E ora eccoci a Kirkjubæjarklaustur nel nostro bungalow, grande, con tanti letti e il bagno (questo è un vero lusso). Il cielo è stupefacente, mai vista una volta così stellata. Sempre verso sud, il cielo nuvoloso a tratti si rischiara, camminiamo su un sentiero a picco tra le montagne… sobbalzo: c’è una piccola piscina natura-

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le geotermica. In questo angolo incontaminato l’Islanda mi dona il suo cuore ed io le dono il mio, liberandomi dalle paure e dai vestiti, incurante del freddo e del vento, grido felice facendo il bagno insieme alla mia compagna d’avventura, come una sirena folle che ha ritrovato se stessa. M. Dopo aver vissuto e catturato ogni minimo pezzetto del perimetro dell’Isola, stravolte, torniamo finalmente a Reykjavík. Come benvenuto la città ci regala “La Notte Bianca”: l’evento più cool dell’anno. Assistiamo al concertino degli FM Belfast e dei múm tra i palazzi illuminati da lucine gialle e blu. Centinaia di ragazzi distrutti dall’alcol, sdraiati sui marciapiedi, vengono soccorsi da appositi volontari,

riconoscibili da un giacchetto giallo. Ho una strana visione notturna di quella città, animata da volti così diversi dai nostri: sguardi penetranti e inquietanti sorrisi. Il giorno dopo, con il sole, cambia tutto: case dai colori accecanti, shop dalle vetrine particolarissime, pezzi d’arte in ogni angolo, creatività che emerge ovunque. Le persone hanno uno stile unico al mondo: scarpe esclusive, abiti vintage ma ultramoderni e pettinature stravaganti, quasi circensi! È davvero la città giusta per ricevere stimoli, per ispirarsi e per ricaricarsi! E. In questa surreale atmosfera, ci ritroviamo nel cimitero più vecchio della città, Hólavallagarður, sotto una pioggerellina

finissima. Le tombe nelle vecchie rocce, il muschio, gli alberi maestosi. Solo il rumore dello scalpiccio dei nostri piedi sul terreno pieno di foglie. Lì, con gli occhi spalancati, mi guardo intorno e penso agli affetti che porto con me in questa visita, celebrando insieme a loro e per loro questa strana giornata. Il giorno dopo partiamo per Þingvellir, dove nacque nel 930 l' Alþingi, la più antica assemblea parlamentare d’Europa. La zona è importante dal punto di vista storico, ma anche geologico. Infatti la dorsale medioatlantica, che divide la zolla tettonica americana da quella europea, dopo essere affiorata nella penisola dello Reykjanes, diventa qui ben visibile. La spaccatura, delimitata da alte pareti di basalto, si allarga di 3 cm

l'anno, e continua da sud-ovest a nordest attraversando tutta l'isola. Il sentiero che si snoda lungo il canyon principale permette così un'incredibile passeggiata sospesa tra due continenti: l'americano e l'europeo. Qui, tra enigmatici cartelli di divieto, si trova il ruscello dove furono annegate molte donne accusate di stregoneria, o condannate per la loro scelta di libertà sessuale. Visitiamo poi le cave nelle montagne. Quasi più nessuno si ricorda di questi luoghi e c’è una strana atmosfera, quasi fossimo circondate dagli spiriti delle persone che vi hanno abitato. Ci sono nomi scritti ovunque sulle rocce nere e noi scriviamo i nostri servendoci di un rudimentale scalpello. Al momento di andarcene via

spunta l’arcobaleno più grande e splendido splendente che abbia mai visto. M. Il posto per me più sorprendente e magico dell’Universo è Geysir. Una zona geotermica formata da rocce liscissime, ricoperta da pozze con acqua calda e fumante dai colori trasparenti, modellate da innumerevoli sorgenti calde: i mitici Geyser! Non riesco a smettere di ridere nel guardare lo spruzzo d’acqua che proietta lo Strokkur, un Geyser capace di creare colonne d’acqua bollente alte fino a venti – trenta metri ogni cinque, sette minuti. Sarei voluta rimanere per ore ad ammirare questo folle spettacolo della natura che sembrava arrabbiata con noi. Costrette ad andare via da quel luogo

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psicopatico, percorriamo ancora diversi chilometri con la macchina, dove approfitto per rubare qualche minuto di sonno prima che una luce bianca mi tagli gli occhi. Guardo fuori dal finestrino e vedo dei massi con delle porticine rosse e turchesi disegnate. “Un giorno il buon Dio vestito da viandante bussò alla porta di una piccola casa e chiese ospitalità. Venne accolto molto bene da questa famiglia numerosa ma poverissima, che non aveva la possibilità di vestire e curare tutti i propri figli. I genitori, vergognandosi, presentarono solo la metà di questi. Dio li trovò amabili e, ben sapendo che avevano altri figli, chiese alla donna dove fossero, ma lei negò. Dio disse loro ‘Ciò che è stato nascosto a

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me verrà nascosto anche agli occhi degli estranei’. Da quel momento i bambini nudi e sporchi diventarono invisibili, Dio gli diede dei fiori per vestirli e non patirono più il freddo. I bambini invisibili crebbero ed ebbero altri figli, facevano del bene agli uomini, ma senza farsi vedere e, talvolta, si divertivano a far loro qualche scherzo. Gli uomini invisibili vennero battezzati come Elfi. Essi diventarono gli spiriti della natura e intervenirono per contrastare le azioni irrispettose degli uomini verso la natura”. Tuttora se si chiede ad un islandese se crede negli Elfi lui dice che non ci crede, ma non nega l’esistenza di esserini invisibili! Dopo questa leggenda sconvolgente torno a dormire.

Consigli: Pellicole fotografiche a volontà. Spirito di adattamento per il tempo imprevedibile. Kway e sacco a pelo. Un quaderno per scrivere , per poterlo rileggere in seguito e domandarsi se sia realmente accaduto. Se nell’aria sentite odore di ammoniaca non vi preoccupate: è la balena che è stata messa a macerare prima di essere gustata. Dedichiamo questo articolo a Otto Oddlaug Árnadóttir, che ci ha permesso di realizzare il nostro sogno. Aprite gli occhi e il vostro cuore, solo così riuscirete a capire questa terra orgogliosa e ricca. E poi niente sarà più come prima!


FashionEast di Marianna Kuvvet

Qualche tempo fa mi sono imbattuta casualmente nel lavoro di una giovane designer, a mio modesto parere un’interessante promessa del mondo della moda. La designer in questione si chiama Éva Nyìri e non viene, come sarebbe più che scontato aspettarsi, da Parigi o da Londra. Eva è ungherese ed ha studiato alla Moholy-Nagy University of Art and Design di Budapest, scuola che non gode certamente della fama internazionale delle prestigiose scuole inglesi ma che, visti i risultati, sarà sicuramente altrettanto valida. La collezione che Éva ha realizzato come tesi di laurea, dal sedicente nome “Black on Black: versatile women’s jackets”, si compone di quattro avanguardistiche giacche da donna, ovviamente nere. Ciascun pezzo rappresenta in realtà una diversa interpretazione della stessa silhouette, alla quale di volta in volta viene dato un carattere diverso, cambiandone la lunghezza, la chiusura, enfatizzando le zone del corpo più sensibili, come per proteggerle con una corazza. Chiari sono infatti i richiami alle armature dei Samurai o dei robot, ma non solo. La giovane designer ha tratto ispirazione da una miscela di film e musica, da Dune a Blade Runner, da Ghost in the Shell a The City of Lost Children e Terminator, passando per i Portishead. Anche la scelta del colore nero non è casuale, serve infatti a mantenere l’attenzione focalizzata esclusivamente sulle forme e sulla silhouette, senza distrarre e confondere con colori accesi. Le creazioni di Éva, architettonicamente complesse, sono sicuramente molto femminili, ma al tempo stesso hanno la forza di un guerriero che ha bisogno di proteggere il proprio corpo dalle aggressioni esterne. Sono state proprio la forza e la teatralità di queste creazioni a colpirmi immediatamente. Oltre a questo, oltre al suo lavoro, di Éva mi ha sicuramente incuriosito la nazionalità. Com’è la moda ungherese? Io sinceramente non ne ho

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mai sentito parlare. Dell’arte neanche. Effettivamente dei personaggi importanti li hanno avuti anche lì, ma considerato che la maggior parte di questi è composta da fisici, matematici o Premi Nobel dai nomi praticamente impronunciabili forse il personaggio ungherese più famoso di tutti i tempi è Houdini. Oltre ovviamente a Ilona Staller. Da questa mia curiosità è nata l’idea di chiedere direttamente a Éva di dirmi qualcosa di più riguardo l’Ungheria, la sua scena creativa e, ovviamente, il suo stesso lavoro. Sei nata e vivi tuttora in Ungheria. Io non ci sono mai stata.. perché non mi dici tre motivi per cui dovrei visitare il tuo paese? Tre buone ragioni per visitare l’Ungheria… Allora: sicuramente il buon cibo, i party fantastici e i club (la gente qui sa come divertirsi!), e ovviamente la bellezza delle nostre città. C’è invece qualcosa che a te piace in modo particolare? Ciò che mi piace di più della vita qui è che ovunque si vada si incontrano sempre persone conosciute, facce amiche. Ci si sente sempre a casa. Pensi che la tua vita da fashion designer sarebbe stata più semplice se fossi nata in un altro paese, magari in Inghilterra a Londra? Sicuramente se fossi cresciuta e avessi studiato in una città dinamica e stimolante come Londra avrei avuto vita più facile. Non sto dicendo che avrei dovuto lavorare e faticare meno, assolutamente, ma sicuramente una città come Londra mi avrebbe offerto più opportunità. Secondo la tua opinione, l’Ungheria è un posto interessante dal punto di vista artistico? Assolutamente si! È un paese molto vivo dal punto di vista artistico e molte delle

persone che fanno parte della scena ungherese vorrebbero, e meriterebbero, che il loro lavoro venisse riconosciuto in tutto il mondo. L’artista ungherese che preferisco in assoluto è senza dubbio Gabor Miklos Szoke, che fra l’altro per un certo periodo ha studiato anche in Italia, a Milano. In generale, c’è un designer che ti ha particolarmente ispirato? Più di uno. Ho sempre amato Viktor & Rolf e Vivienne Westwood. Qual è secondo te la capitale della moda al giorno d’oggi? Non credo in realtà che ne esista una. Ogni posto ha la sua bellezza e il suo fascino, è interessante a suo modo. Non riuscirei a scegliere una città in particolare in base a questo o a quell’altro specifico motivo. Stai prendendo in considerazione l’idea di spostarti e lasciare l’Ungheria? In realtà non ci ho ancora pensato, ma se mai dovessi farlo sceglierei ovviamente Londra. Ho avuto l’opportunità di vivere e studiare lì per un breve periodo e l’ho semplicemente amata! Dicci qualcosa riguardo la tua collezione “Black on Black: versatile women’s jackets”. È senza dubbio una collezione molto importante per me – la più importante finora. Riflette il mio mondo interiore. Puoi descrivere il tuo lavoro in tre parole? È molto femminile ma casual… E al tempo stesso ha sempre un non so che di virile. Come ti vedi fra dieci anni? Fra dieci anni starò ancora facendo ciò che amo!


Sarah la nera testo e foto di Elena Adorni

Se il 24 maggio si entra a Saintes Maries de la Mer, un paesino della Camargue, si resta abbagliati dal contrasto tra le tipiche mura bianche delle case e i colori sgargianti che indossano bambini rom, sinti, manuches e gitani, riuniti per rendere omaggio a Santa Sarah-la-Kali. È una santa un po' speciale, dalla pelle nera e dalla storia semisconosciuta e per questo frutto di leggende spesso discordanti tra loro. Secondo alcune era la serva di Maria Salomé e Maria Iosè, secondo altre una gitana che salvò le due Marie da una tempesta. Un giorno all’anno viene ricordata per la sua impresa, e la sua statua, ricoperta di mantelli, viene trasportata dalla chiesa del paese fino alle acque del Mediterraneo, e celebrata da quel popolo di viaggiatori di cui è la protettrice. Il mare è sommerso da una folla multicolore, da cui spuntano cavalli bian-

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chi, bambini alzati in aria per essere benedetti, mani che cercano di toccarle le vesti ingombranti. Per un attimo mi sento in India, terra di partenza di questo popolo, condannato tra gioia e dolore ad un viaggio senza fine. È come se la Francia fosse la tappa finale di questo peregrinare, la Gerusalemme degli zingari di cui nessuno parla, forse solo Tony Gatlif nel documentario etnologico-musicale “Latcho Drom”, secondo episodio di una trilogia consacrata alla storia del suo popolo. Per salutare Sarah basta scendere nella cripta a sessanta gradi di temperatura, in cui l'ossigeno è stato quasi completamente rubato dalle centinaia di candele. La sera, quando i sacerdoti chiudono le porte della chiesa, la piazza è invasa dalla musica: suonatori di chitarra per turisti, gruppi di gitani ed italiani che ballano al ritmo ibrido di mandolini e fisarmoniche, coppie

di occhi asiatici che si perdono, alla fine della festa, tra i vicoli bianchi del centro. Il colore olivastro della pelle accomuna tutti, donne, uomini e bambini, che per quanto cerchino di seguire la moda sembrano sempre un po' goffi, su quei tacchi alti e con quegli occhiali da sole firmati. Gli obiettivi dei fotografi si accaniscono sui sorrisi delle mendicanti armate di bicchiere di plastica e fazzoletto sulla testa, cercando di cogliere una miseria di fondo che di ingenuo ha molto poco, perché cerca sempre qualcosa in cambio. La bellezza del battito di mani a ritmo di flamenco, la commozione davanti ad una madre che insegna a ballare alla sua bambina, le preghiere di una donna in mezzo al mare, gli anelli d'oro che modellano violini su melodie del vento, distolgono la mente dai pregiudizi con cui la nostra società ci ha plasmati fin da bambini, ma non

riescono a spiegare l'assoluta complessità di un'etnia nomade così sorprendentemente diversificata. Dopo la festa, fuori dal paese compaiono distese di roulottes tra fenicotteri e cavalli bianchi, alla luce rosa del tramonto che si riflette sull'acqua della laguna. Il gracidare fastidioso delle rane e i bambini seduti in riva al fosso che cercano di catturarle mi accompagnano. Getto tutte le armi etnocentriche che la cultura mi ha regalato e provo anch'io a battere le mani, a gettarmi in mare, a ballare e a pregare, per osservare sconcertata la fuga di questo popolo dalla globalizzazione. Spalanco gli occhi, allargo le braccia e batto i piedi. Ritrovo la bellezza tra quella gente, mi disseto con un bicchiere di diversità per poi rivestirmi e ripartire.


a qualcuno piace freddo di Marco Costa Meno tre, due, uno. Boom! La crosta d’Islanda si spacca e il vulcano Eyjafjallajkull, impronunciabile e dormiente da più di duecento anni, torna ad eruttare, proiettando incessantemente nell’aria gelida una massa calda e nera di polveri e gas. La notizia non interessa granchè, in fin dei conti riguarda quell’isola arcana e remota nel mare del nord, tutt’al più ingolosirà qualche inuit fotomunito, finché quella treccia gassosa non si espande srotolandosi verso i nostri orizzonti. E gli aeroporti di mezza Europa sono costretti a fermarsi. E tutti a chiedersi come sia possibile. Se magari sotto sotto c’entra col 2012. Un evento che da geofisico si tramuta in turistico, politico, culturale. La natura che si fa beffe della tecnologia, delle latitudini, del nostro presunto e presuntuoso antropocentrismo. E si torna ancora una volta a parlare d’Islanda, a riscoprire le radici di un popolo esiguo ma vivace – poco più di trecentomila anime tendenti all’albinismo – che proprio dalla 64

natura trae le fondamenta della sua tradizione mistico artistica. A ben guardare le foto di quei panorami, i picchi innevati che si rispecchiano nei ghiacciai, i fiumi impetuosi, le cascate possenti, i geyser improvvisi di vapore bollente, a ben guardare lo spettacolo dei volti sempre sorridenti di quegli islandesi algidi e solari, si fanno chiare le ragioni di tanta attrazione. Quello che a noi sembra sfuggire, nell’approcciare il loro modello di vita, è l’ancestrale magia che percorre una popolazione tutta volta al culto della natura, al rispetto di forze invisibili, al dialogo con la madre terra, alla meditazione e al rispetto di tradizioni antiche che riecheggiano nel contemporaneo. Unite ad una lucida tendenza delle nuove generazioni ad essere cutting edge. Insomma là dove il ciclo della natura è più scolpito e scandisce a forza ritmi e usanze di un popolo caparbio, sensuale e incline al raccoglimento, la bellezza ha modo di prosperare indisturbata. Ed ecco spiegati feno-

meni come Bjork o i Sigur Ros, superbe anomalie musicali che hanno travalicato i remoti confini dell’isola, ben prima di Eyjafjallajkull, per consegnarsi alla fama mondiale. La bambina prodigio Bjork in poco più di trent’anni di carriera – se si considera l’album omonimo registrato nel 1977 a soli undici anni come l’inizio dell’avventura – si è tramutata nell’ambasciatrice di una new wave islandese insieme esquimese e punk, bizzarra e ricercata. Dapprima come front girl della band “Sugarcubes” quindi con la carriera solista, Bjork ha sempre dominato corpo e voce per farsi ponte fra la pop star e la performer d’avanguardia. Dall’album Debut del 1993 all’ultimo Volta del 2007, la ricerca musicale di questo caleidoscopico elfo non s’è mai arrestata, portandola dalle prime sonorità fra dance e trip-hop, condite dall’inconfondibile espressività vocale (suo vero quid), alle ultime sperimentazioni trasversali fra jazz elettronico e colti vocalismi impregnati di spiritualità.

Bjork è stata capace di tutto. Il suo video “It’s oh so quiet” diretto Spike Jonze, dove ballava e strillava con l’impudenza di una bambina in un lisergico musical di strada, è un gioiello della cultura pop contemporanea, ma ancor più prolifica è stata la sua relazione artistica con Michel Gondry che l’ha diretta in ben sette video, tutti ugualmente immaginifici. Forse uno degli aspetti prevalenti di Bjork è stato il suo magnetismo artistico, che l’ha messa in collaborazione durante la sua carriera con registi, visual artist e produttori fra i più rinomati della scena occidentale. Prova ne è stata la sua performance attoriale sotto la guida del mefistofelico Lars Von Trier. Il feticista regista danese la volle obbligatoriamente, dopo averle affidato la composizione della colonna sonora, per il ruolo di Selma in “Dancer in the dark”, portandola a vincere il premio come miglior attrice al 53° Festival di Cannes del 2000. E benché rientri nella sfera del privato è oltremodo innegabile l’influenza che


libri a cura di Claudia Bena

“Le droghe: la faccia estrema della realtà”.

“Requiem per un sogno” di Hubert Selby jr “Paura e disgusto a Las Vegas” di Hunter S. Thompson “Oppio” di Jean Cocteau “Confessioni di un oppiomane” di Thomas De Quincey Anno: 1822 Editore: Garzanti Euro: 9 Pagine: 206 Matthew Barney, il magistrale video-artista e scultore americano, con cui Bjork è sposata e da cui ha avuto una figlia, Isadora Bjarkardóttir Barney, nel 2002, abbia avuto sulle posizioni ermetiche e visionarie degli ultimi anni. Per questo e molti altri motivi Bjork è stata incoronata dal popolo islandese come un’eroina senza tempo, non più semplice artista ma anche attivista, agitatrice culturale, una selvatica leggenda vivente capace di lanciare e promuovere anche altri artisti, come nel caso dei Sigur Ros. Questo gruppo

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musicale divenuto celebre per l’inconfondibile sound ipnotico e celestiale, fatto di tempi dilatati e ritmiche insieme minimali e ridondanti, è stato caldeggiato sin dal primo singolo, Fljugou, dalla regina dell’alternative music, che fece pubblicare il brano nella compilation celebrativa del cinquantesimo anniversario dell'indipendenza islandese. Da lì alle major hollywoodiane il passo è stato breve. Con cinque album, misurati e minuziosi nel loro packaging suggestivo, hanno definito un genere musicale sognan-

te e commovente, perfetto per film e pubblicità che ne hanno ampiamente sfruttato le tracce. I loro testi sono principalmente in islandese ma Jónsi, l’ipersensibile leader del gruppo, fa uso del cosiddetto "hopelandic", una lingua inventata da lui stesso affinché la voce viva come uno strumento musicale, esente da messaggi. Il tutto mescolato a violini e organetti scassati, a rintocchi di campanelli o pianoforti lancinanti che si alimentano di ghiaccio e fuoco, di generosità cristiana e misticismo Asatru (l’antica religio-

ne scandinava), di sorrisi felici e vuoti lacrimevoli, di tutto ciò che è o potrebbe essere l’antica terra d’Islanda. Almeno fino al 2012. in entrambe le immagini: Bjork

È l’inizio. L’oppio, sotto forma di laudano, è utilizzato come antidolorifico. Ma lo stato di piacere che provoca è qualcosa di più. Una “panacea”. Un farmaco per i mali dell’umanità. Il segreto della felicità. Una mente formidabile come De Quincey cade nella sua dolce trappola, e ci racconta i piaceri e le pene di questa droga. Lo scopo è di mostrare gli effetti meravigliosi dell’oppio, piacevoli o dolorosi che siano. La creatività e l’attività che stimola, contrapposte alla coscienza della dipendenza.

Anno: 1930 Editore: SE Euro: 18 Pagine:171 Scegliete le vostre trappole. Non serve disintossicarsi, ma guarire il trauma all’origine di un’intossicazione. È quindi preferibile un equilibrio artificiale ad una mancanza di equilibrio? Fumare oppio equivale ad abbandonare il treno della vita in corsa verso la morte, per occuparsi di altro. Un saggio sull’arte, il cinema, la poesia di un grande maestro del surrealismo, unito dai suoi disegni ad un unico tratto, sotto l’effetto visionario dell’oppio. Non ammirate il poeta, ma credetegli! Non una giustificazione, ma una visione dall’alto della poesia indotta da questa droga, come per Baudelaire e Rimbaud.

Anno: 1971 Editore: Bompiani Euro: 9 Pagine: 267 Sintonizzati bene, sballa, lasciati sopraffare. Un viaggio psichedelico alla ricerca del sogno americano in un’epoca di tranquillanti ed eroina, le droghe del governo, che la polizia non cerca, che la società non combatte. “E non ha nessun rilievo storico il fatto che l’era dei tranquillanti sia arrivata insieme a Nixon”. Una narrazione allucinata interrotta, come in ogni libro sulle droghe che si rispetti, da un fantastico glossario di cento pagine compilato dai grandi autori italiani. Scrittori, chimici e musicisti descrivono un periodo chiave della civiltà americana. Un’esperienza a tutta velocità imbottiti di ogni droga in circolazione, spingendosi più in la che si può. Puro giornalismo gonzo.

Anno: 1978 Editore: Fazi Euro: 15 Pagine: 260 È la fine. Il sogno dei quattro protagonisti diviene l’evidenza della sconfitta. La vita non fa neanche in tempo a divenire vivibile, non più solo sopportabile, che rivela tutta la sofferenza che le fughe nascondono. Televisione e droghe aiutano a celarsi. Bisogna essere magri e ricchi e poco importa i mezzi che si usano. E, come spesso accade, l’iniziale successo rende solo più duro il fallimento. Per il sogno americano è tempo di requiem. Ogni disfatta è un rintocco funebre. Tre stagioni, estate, autunno, inverno, dettano le proprie regole. Con la neve giunge la fine. Sara, la madre, costretta all’elettroshock, e loro tre schiavi della dipendenza. Una narrazione che segue il battito cardiaco dei protagonisti e che vi costringerà a fare delle pause, per non portare voi stessi alla rovina. Bisogna combattere!

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