La Casa Bruciata

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CASA BRUCIATA Storia, valorizzazione e riuso del Mandracchio di Marina di Montemarciano

Comune di Montemarciano

Mugianesi, Munafò, Ripanti


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CASA BRUCIATA Storia, valorizzazione e riuso del Mandracchio di Marina di Montemarciano

Mugianesi, Munafò, Ripanti


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Indice generale

Presentazione Amministrazione comunale Saluto Regione Marche

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Parte I 13 Note storiche sul Mandracchio di Marina di Montemarciano di Danilo Ripanti Parte II Valorizzazione e riuso dell’antica stazione di posta di Marina di Montemarciano di Placido Munafò ed Enrico Mugianesi Biografie degli Autori

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Presentazione

Liana Serrani, Sindaco di Montemarciano Dopo aver letto per intero questa pubblicazione sarà impossibile guardare al “Mandracchio” come lo abbiamo visto fino ad oggi, come un antico, decadente monumento. In queste pagine non c’è infatti soltanto la riscoperta di un edificio storico, ma anche una parte della memoria della Comunità di Montemarciano: senza questo elemento qualsiasi Comunità sarebbe come un corpo privo di anima e da questo deriva, pertanto, l’importanza di tutte quelle azioni che mirano a ricostruirne, pezzo dopo pezzo, il passato, la storia, le tradizioni. Negli ultimi anni il Comune ha cercato di favorire questa ricerca con varie iniziative: alcune pubblicazioni storiche e storico-fotografiche, la riscoperta di personalità montemarcianesi che con le loro azioni sono ricordate anche a livello nazionale (tra tutte Pacifico Sabbatini, Deputato della Repubblica romana del 1849, e Luigia Mandolini Matteucci, una delle 10 ed uniche donne in Italia ad aver ottenuto nel 1906 il diritto di voto). Il percorso ha poi visto anche la realizzazione dell’Archivio storico fotografico comunale e, seppur parzialmente ed a cura sempre di cittadini appassionati di storia locale, la mappatura delle “grotte” di Montemarciano (pubblicazione depositata in Biblioteca comunale), antichi cunicoli sotterranei che attraversano in più direzioni il centro storico, vestigia rimaste del distrutto “Castello di Monte Marciano”. Ora l’attenzione principale si rivolge al “Mandracchio” di ”Case Bruciate” (quest’ultimo è l’antico toponimo che indicava l’odierna Marina) con lo scopo, ambiziosissimo, di iniziare un percorso che porti a renderlo, dopo più di mezzo secolo e le ferite infertegli anche dal terremoto del 1972, nuovamente fruibile, per ricordare quale bene e valore sociale rappresenti per la Comunità e quanto forte sia il legame con il territorio nel quale è inserito. Per questo, dopo un primo e parziale consolidamento strutturale effettuato anni fa, è assolutamente doveroso perseguire il totale recupero del monumento, individuando e raccomandando idealmente tale obiettivo come uno dei principali delle prossime Amministrazioni. Tutto ciò è fortemente auspicato, oltretutto, anche da tantissimi Cittadini che con le loro firme, raccolte in diverse petizioni, hanno chiesto il restauro della struttura, soprattutto per il suo valore storico e sociale ed in questo modo, pertanto, con la mobilitazione culturale dell’opinione pubblica, si rafforza ulteriormente la valenza dell’iniziativa volta alla salvaguardia di questo importante patrimonio pubblico, nella cui storia affondano gran parte delle nostre radici. Anche il Presidente della Repubblica, nel messaggio che ha inviato alla Nazione per i festeggiamenti in occasione del 150° dell’Unità d’Italia, ha ricordato che è fondamentale riscoprire le radici storiche di un Popolo, di una Comunità, perché solo con radici solide e profonde si può guardare al futuro con maggior sicurezza. Corre però l’obbligo di ricordare che le disponibilità finanziarie dei Comuni sono sempre minori e che, in questo diffi-

cile momento economico e sociale che stiamo vivendo, incombono sempre priorità più importanti: ad esempio la necessità di promuovere una nuova edilizia scolastica e mettere nella maggior sicurezza possibile le strutture scolastiche esistenti. Ciononostante il dovere di provarci ed il desiderio di rivedere prima o poi la rinascita del Mandracchio sono entrambi molto forti. Per la riuscita di questa iniziativa l’Amministrazione comunale, per cominciare, ha sottoscritto dei protocolli di intesa con l’Università Politecnica delle Marche. Quest’ultima, oltre che a svolgere studi e sondaggi all’interno della struttura ed effettuare un esame storico delle murature, ha abbozzato anche delle ipotesi per il riutilizzo della stessa. Ipotesi, seppur non esaustive, che possono servire di stimolo per un esame a tutto campo delle potenzialità che il monumento potrebbe offrire. Per l’Università Politecnica questa parte è stata curata, con apprezzabilissima professionalità, principalmente dal Prof. Placido Munafò e dal nostro concittadino Ing. Enrico Mugianesi. Contemporaneamente, ed è l’altro pilastro di questa pubblicazione, lo storico Danilo Ripanti (anch’egli nostro concittadino e già Autore di alcune delle pubblicazioni sopra citate), ha invece fatto uno studio assai pregevole, per qualità della documentazione e per l’interesse che suscita, in merito alla collocazione storica del Mandracchio. Per questi impegnativi compiti e per gli ottimi risultati conseguiti deve andare a tutti gli Autori la considerazione ed il più ampio e caloroso ringraziamento dell’Amministrazione e dell’intera Comunità montemarcianese, avendo tra l’altro gli stessi, evento raro di questi tempi, svolto il loro lavoro in forma del tutto gratuita. Fatta questa premessa l’auspicio è che lo storico monumento possa riacquistare il ruolo che ebbe in passato, ritornando nuovamente ad essere propulsore dell’economia locale, magari dandogli vitalità artigianale e commerciale, affinché la nostra Comunità possa tornare a muoversi ed operare entro ed attorno ad esso. Quindi non pensare soltanto a soluzioni che lo vedano unicamente come contenitore museale, ma restituirgli anche quella dignità, quella collocazione baricentrica sotto i profili sociale, culturale ed economico che ha sempre ricoperto nei vari secoli dalla sua costruzione. Il restauro architettonico dovrà comunque trovare una destinazione d’uso compatibile, per non comportare uno stravolgimento della consistenza fisica e dei significati del manufatto. Intervenire minimamente, pertanto, proprio per salvaguardarne i caratteri specifici che lo rendono prezioso e ne definiscono l’identità. Per questo lo studio rileva anche l’uso ed il ruolo che ebbe nelle diverse fasi evolutive e nel contesto del territorio di Marina: collocazione, oggi come allora, in un focale crocevia della viabilità. Il progetto, ovviamente, sarà difficilmente realizzabile senza i necessari finanziamenti, comprensibilmente cospicui. Nel frattempo questo lavoro, in particolare la parte tec7

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nica, è da ritenersi soltanto un primo passo, verso l’obiettivo finale, cui dovrà seguire un progetto veramente esecutivo da tenere pronto, da far valere nel caso in cui si presentino occasioni di cofinanziamenti, anche privati oppure, come invece potrebbe accadere più facilmente, attingendo a fondi strutturali europei. Da oggi si potrà guardare al “Mandracchio” - o “Fortilizio Piccolomini” o “Osteria di Case Bruciate”, come si preferisce - in due modi. Il primo attraverso gli occhi di coloro che non hanno letto questo libro: per essi continuerà ad essere soltanto un rudere senza valore cui volgere distrattamente lo sguardo. Il secondo è con gli occhi di tutti quei Cittadini, “Casabrugiatesi” in primis, che questo libro lo avranno invece letto: per essi il monumento tor-

nerà immaginariamente ad animarsi, ad affollarsi di tutta quella umanità e quelle storie, a volte anche cruente, che lo hanno attraversato negli ultimi sei secoli dalla sua costruzione. Crescerà sicuramente in tutti il desiderio di poterlo veder riemergere da quella sorta di nebbia medievale che sembra averlo avvolto finora e farlo tornare a vivere ed a rappresentare ciò che in fondo è sempre stato: uno dei principali simboli storico-sociali del nostro territorio, un luogo dove preservare una gran parte dell’identità e della storia della nostra Comunità. Il Mandracchio risanato: un Progetto, un Impegno, un Sogno da realizzare.

Montemarciano, Marzo 2014

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Dott.ssa Liana Serrani Sindaco di Montemarciano



Saluto

Pietro Marcolini, Assessore alla Cultura - Regione Marche di posta, tanti sono stati le funzioni e gli usi della “casa bruciata” o “mandracchio” e tantissime le vicende della storia più blasonata e di quella minore, perfino minuta, fatta di tantissime vite umili e di fatica che vi sono passate o vi hanno abitato. E proprio questa stratificazione di usi, vicende e vite costituisce la molla nel presente che ci spinge a pensare all’utilità del bene culturale per il domani, la possibilità cioè che esso non giaccia morto, ma torni ad essere vivo ed utile per la comunità e i tanti che potrebbero ancora attraversarlo e in qualche modo fruirne. Per realizzare questo “sogno” bisogna, allora, -sulla base di studi come questo e di progetti di fattibilità concretaricercare quelle collaborazioni istituzionali che consentano di dar forma a sinergie pubblico-private, senza le quali oggi è impensabile la gestione sostenibile di beni culturali simili a quello di cui stiamo parlando. Il restauro effettuato è il punto di partenza, l’accessibilità e baricentricità del bene relativamente alle vie di comunicazione e all’abitato costiero sono aspetti importanti della sua potenziale valorizzazione, la conoscenza e gli spunti per il riuso qui descritti rappresentano un ulteriore passo in avanti. Non mi sembrano poca cosa per poter immaginare e costruire i passi successivi. Chissà che un “sogno” non diventi allora realtà.

La “casa bruciata” o “mandracchio” di Montemarciano è uno di quei luoghi emblematici che identificano una città e il suo territorio. E come succede per tante altre situazioni analoghe è anche il “sogno” di un’intera comunità. Il pregio della pubblicazione che opportunamente il Comune di Montemarciano ha promosso, avvalendosi di validi studiosi e dell’università, è proprio quello di ricostruire e ripercorrere la storia di un manufatto e di studiarne le caratteristiche architettoniche, il restauro operato e quello da completare, unitamente a delle ipotesi di riutilizzo compatibile e sostenibile del bene. La conoscenza è la premessa imprescindibile di qualsiasi passo successivo, dalla valorizzazione al riuso, e diffonderla o divulgarla è la precondizione di ogni strategia che guardi al presente o al futuro, quanto più prossimo. Senza la conoscenza che realizza un processo d’identificazione consapevole con un oggetto non può esserci nessun “sogno”, sia quello dell’immaginazione storica che va a ritroso alla ricerca delle origini e delle prime testimonianze documentali relative al bene culturale, al perché nacque, ad opera e a beneficio di chi; sia quello dell’immaginazione futuribile che guarda un bene e pensa, progetta, il suo nuovo splendore, ossia come restituirlo pienamente alla comunità. Terminale di vallata, punto di approdo dal mare, fortilizio, magazzino, luogo di commerci, osteria e stazione

Ancona, Marzo 2014 Pietro Marcolini Assessore alla Cultura Regione Marche

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Parte I

Danilo Ripanti

Note storiche sul Mandracchio di Marina di Montemarciano ovvero Osteria di Case Bruciate



Sommario parte I

Il destino di un monumento “Mandracchio” o “Casa Bruciata”? Note sull’insediamento litoraneo e la “Casa Bruciata” fino al XVI secolo Dentro l’osteria tra ‘500 e ‘600

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SCHEDE: 1. La “mutatio” litoranea di “Ad Sestias”, ovvero l’antenata romana della Casa Bruciata 2. Un antico “capolinea” della Vallesina 3. Un “porto” per il grano 4. L’osteria fortificata

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La Posta-cavalli di Casa Bruciata

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SCHEDE: 5. Flaminia “adriatica” e Flaminia “lauretana” 48 6. Carrozze, diligenze, corriere, velociferi…migliorie sì, ma relative… 49 7. Avvisi ai signori viaggiatori 52 8. Poste, “mezze poste” e…false poste 56 9. Un altro “Mandracchio”? La caserma pontificia o dogana di Porto d’Ascoli 57 10. “…una delle più rinomate…” 58 11. Un po’ d’osti… 60 12. Case Bruciate agli inizi del XIX secolo…poche anime 61 13. La spiaggia, ossia la straordinaria storia dei “Relitti di mare” 62 14. Problema d’allora, problema di oggi… 68 Fine di una storia e inizio di un’altra

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Note, bibliografia e fonti

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Scorcio della torre “nuova” del Mandracchio negli anni ‘20 del Novecento 16 LA CASA BRUCIATA


Il destino di un monumento.

Qualsiasi manufatto antico o solamente “vecchio” è la testimonianza tangibile di un pezzo di storia. L’affermazione appare talmente ovvia da risultare perfino banale. Il vero problema sta altrove. E’ necessario, indispensabile o semplicemente opportuno profondersi in sforzi (tempo e denaro) per conservare quel pezzo di storia e magari valorizzarlo in un contesto distante anni luce, con altre esigenze “pressanti” e la solita, cronica carenza di risorse? Le motivazioni ad una generica risposta affermativa, che di solito non viene negata, potrebbero essere svariate e ciascuna con la propria indiscussa validità. E tuttavia di peso maggiore o minore nella scala delle “priorità”, che normalmente si tende a disegnare quando la coperta è troppo corta. O l’Italia troppo lunga. Pompei è in degrado, la Reggia di Caserta quasi, etc., etc. Morale: c’è sempre qualcosa che deve aspettare, quando va bene, il suo turno. Col rischio che quel qualcosa si perda per sempre. A questa tragica sorte il nostro “Mandracchio” è andato assai vicino. Fortunatamente, sia pur tra disguidi, ritardi e qualche inevitabile polemica, abitanti, associazioni e amministratori hanno saputo creare quel fronte sufficientemente compatto, indispensabile a una soluzione positiva. Non conclusiva ancora, perché il cammino appare lungo e incerto, ma, per lo meno, il “Mandracchio” è fisicamente in salvo. Il che non è poco e, alla fine, verrà anche il resto (1). Non c’è dubbio che, sotto certi punti di vista, il nostro non possa venire classificato nel novero dei monumenti eccelsi, per cui, inevitabilmente, finisce per essere collocato tra i manufatti architettonici “minori” di cui la penisola è stracolma. Niente a che vedere, ad es., con l’eleganza della facciata della settecentesca Collegiata di Montemarciano, disegnata da Carlo Marchionni, l’allievo del Vanvitelli. L’aspetto un po’ sghembo e “pasticciato” ne tradisce l’origine bastarda, ed ha, per giunta, ingenerato incertezza sulla sua funzione. Dura a morire, tant’ è che, ancora oggi, in qualche pubblicazione, e pure con la

segnaletica turistica, ci si ostina a definirlo “fortilizio”. Parafrasando il domenicano, viaggiatore e geografo, frate Leandro Alberti (2), che passò dalle nostre parti verso il 1525-26, quando il manufatto poteva ancora presentarsi con l’aspetto della primitiva “casa-torre” malatestiana, o magari già molto simile all’odierno quadrilatero con corte, non si può non notare la stridente differenza tra la potenza espressa dalla “…assai forte Rocchetta ben fornita di artiglierie…” alla foce dell’Esino (vale a dire la fortezza di Rocca Priora) e quella che, lontana appena un miglio, era, in fin dei conti, solo “…una taverna…”, sia pure “… di mura ben fortificata…” Nella pratica una osteria quasi camuffata da castellaccio, o ricetto difensivo, più a scopo deterrente che altro. Quel tanto che bastava a scoraggiare giusto qualche ladrone da strada o a rendere indeciso un legno pirata, nella speranza che dal castello di Montemarciano arrivasse in tempo il soccorso. Dunque sarebbe più aderente il termine di “osteria fortificata”, ma con questo non avremmo ancora reso la definizione esatta del nostro “Mandracchio”. Nell’ormai lontano 1990, quando la staticità del manufatto era sempre a rischio, mi venne spontaneo definirlo un antico “capolinea” della Vallesina (3). Ciò proprio per meglio sottolineare le molteplici incombenze, cui venne destinato contemporaneamente per oltre quattro secoli in virtù della posizione. Posto di guardia e di gabella sul confine terrestre e marittimo, scalo e deposito portuale, osteria-albergo naturalmente, e financo stazione di Posta-cavalli (“…una delle più rinomate…” lungo la costa), e, all’occorrenza, pure casermaggio per soldataglia in transito. Dunque una rotella essenziale nei traffici di cose e persone, non solo del luogo, ma anche dell’entroterra e dell’altra sponda adriatica, un ingranaggio piccolo fin che si vuole, ma non per questo meno indispensabile alla viabilità e all’economia del tempo. Verrebbe quasi spontaneo un paragone, e non certo in senso riduttivo, con l’attuale aeroporto di Falconara 17

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Marittima e l’ancora languente Interporto della Vallesina. Certo il “Mandracchio” non è uno di quei monumenti che lasciano a bocca aperta il turista, le raffinatezze architettoniche non sono il suo forte, il contesto ambientale non è dei migliori, in mezzo al traffico caotico e inquinante della Statale Adriatica ( però bisogna ammettere che questo è il posto giusto ancora oggi, anche in assenza di cavalli e diligenze), eppure pochi altri edifici, almeno nella media e bassa vallata dell’Esino, hanno visto tanta storia scorrere lungo e dentro le sua mura. Dalla metà del Quattrocento, almeno, fino alla metà dell’Ottocento l’intera vicenda di Montemarciano è riassumibile in quella della antica osteria. Ma anche oltre per quanto riguarda la frazione costiera di Marina. Come è possibile trascurare la fase “condominiale”, tra tardo Ottocento e oltre la metà del secolo scorso, quando, decaduto da deposito portuale e Posta-cavalli, il “Mandracchio” ha offerto un

tetto a oltre un centinaio tra pigionanti, operai, pescatori e artigiani (depositi di remi, reti e botteghe comprese)? Poi è arrivato il terremoto del 1972 e quindi il definitivo abbandono con rapidissimo degrado, al punto che non pochi auspicavano la definitiva demolizione di quello che ormai rappresentava per molti solo “…un covo di pentigane…” Rischio del resto corso più volte durante la sua storia tormentata. A cominciare coi pirati e gli eserciti in transito nel Medioevo, per finire con gli Alleati, che al momento del passaggio del fronte, nel 1944, avrebbero voluto spianarlo per ricavarne materiale per la Statale dissestata. Fortunatamente il “Mandracchio” è ancora lì, sulla strada, e questo è un bene incommensurabile, poiché un paese che perde la propria memoria storica smarrisce anche la propria identità. E senza identità, come dicono i saggi, non c’è futuro per qualunque comunità, ma solo egoismo, incertezza e confusione.

1930 circa: gruppo di “inquilini” al Mandracchio di Marina di Montemarciano. In apertura: vista dall’alto della osteria di posta (fine anni ’80 del Novecento).

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“Mandracchio” o “Casa Bruciata”? Fino al 1938 la denominazione della frazione costiera di Montemarciano era Case Bruciate, toponimo abbastanza diffuso in molte regioni (c’è, ad es., una Case Bruciate in provincia di Pesaro, un’ altra in Veneto e via di seguito). L’origine, quasi sempre, appare riconducibile a qualche evento distruttivo, per lo più di tipo bellico (4). Nella convinzione di migliorarne l’immagine turistica, si decise di cancellare “…il luttuoso evento”, senza che poi si conoscesse affatto il quando, il perché o il come, con un più tranquillizzante Marina di Montemarciano (5). Col risultato che gli indigeni continuarono ostinatamente a definirsi “Casabrugiatesi”, vuoi per attaccamento alla tradizione ( non fosse altro che per la tenace e orgogliosa volontà di distinguersi dai Montemarcianesi, “signori” in collina), vuoi perché chiamarsi “Marinesi”, o roba del genere, dovette sembrare loro piuttosto ridicolo. Oggi che la frazione è diventata più grossa e popolosa del capoluogo, a motivo della vera e propria “Völkerwanderung” costiera marchigiana dagli anni ’70 in poi del Novecento, non so se la questione sussista ancora. Ma potrebbe a

maggior ragione riproporsi, anche considerando come i Casabrugiatesi doc. siano ormai una piccola minoranza. Comunque in tutti i documenti disponibili, da quelli più antichi fino almeno alla seconda metà dell’Ottocento, dalle testimonianze dei governanti per finire con quelle degli osti, dei mozzi di stalla, etc., viene sempre usato il toponimo “Casa Bruciata” nelle sue innumerevoli varianti (“Caxa brusciata”, “Casa abrusiata”, “Casabrugiata”, e via di seguito). Inizialmente al singolare, poi anche al plurale (“Case Brugiate”, “Case Bruciate”, etc.), fino al netto prevalere di questa ultima toponomastica. E’ indubbio come la denominazione indichi non solo la località ma anche una singola struttura, cioè il nostro manufatto, tanto che l’osteria-deposito portuale e, in seguito, postacavalli è proprio la “casa bruciata”. Anche se poi finisce per prevalere la definizione di “osteria di Casa Bruciata”, “Posta di Casa Bruciata”… C’è cioè una completa identificazione. E non potrebbe essere altrimenti, visto che per secoli questo è l’unico edificio presente in zona.

La denominazione “Case Bruciate” comincia a prendere piede con la comparsa delle prime abitazioni nei pressi dell’osteria, a partire dal XVIII secolo. Dapprima sulla via litoranea (odierna Statale), quindi lungo la comunicazione interna (odierna Via Roma). Oggi il manufatto è per tutti il “Mandracchio” e la più antica denominazione di “osteria di Casa Bruciata” o anche quella semplice di “Casa Bruciata” fa fatica a ritornare in auge. Non è in effetti un dramma toponomastico, poiché ormai è circa un secolo che s’è consolidato il termine, a patto di non dimenticare il resto. Piuttosto perché “Mandracchio”? Probabilmente la cosa s’è affermata a seguito della cessazione della Posta-cavalli, con il reimpiego della struttura in una sorta di falansterio in cui finiva per abitare una buona parte della popolazione della frazione costiera, complice anche un ampliamento sul lato a monte. Nel periodo di massimo “fulgore” (circa l’inizio del secolo scorso) gli ambienti dell’osteria-deposito venivano suddivisi e trasformati da una serie incredibile di tramezzi in numerosi mini-locali, dove s’affollavano decine di

nuclei familiari in attesa di futura, miglior sistemazione. La “carenza” (per usare un eufemismo) di servizi idrici ed igienici finì per provocare un vero e proprio crivellamento delle pur solide muraglie, ingegnosamente percorse da tubi in coccio, che allontanavano (si fa per dire) gli scarichi domestici. I magazzini e le stalle al piano terra si trasformarono in botteghe per piccoli artigiani (sartoria, barbieria, ferrivecchi, etc.) e, naturalmente, depositi di attrezzatura per la marineria locale, dedita a sbarcare il lunario con la piccola pesca. Sparirono molti dei vecchi mattoni, destinati a fornir zavorra a lancette e nasse. Non mancava l’osteria, ma questa non poteva certo vantare i “fasti” di quella dell’albergo di posta, essendo una semplice bettola. A completare il quadro di questa specie di pittoresco assembramento da “insula” romana, ad un certo punto, pure un circolo anarchico. Del resto i Casabrugiatesi, o almeno diversi di loro, donne comprese, non si tirarono certamente indietro quando esplosero i disordini della “Settimana rossa” d’Ancona, tra il 7 e il 14 giugno del 1914. Niente di più facile che si guardasse 19

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al vetusto edificio come ad una sorta di ricetto da “Corte dei miracoli”, un ambiente da angiporto o lazzaretto, e a qualcuno deve essere venuto in mente l’accostamento con la ben più nobile, splendida Mole Vanvitelliana del porto d’ Ancona, destinata originariamente alla quarantena degli equipaggi di legni sospetti d’epidemia a bordo. Il sito del lazzaretto dorico finì per trasformarsi in quella parte di porto utilizzata per il ricovero del naviglio minuto, normalmente detto “mandracchio”. Da lì a divenire

popolarmente la Mole stessa “il Mandracchio” il passo fu breve. Dal greco “mandra”, genericamente recinto, stazzo, luogo di ricovero per armenti e non solo, in località marinare, specie adriatiche, presso marinai e pescatori, il termine ha soprattutto il significato di cui sopra (6). Diciamo comunque che, in quella fase di utilizzo del nostro antico manufatto, la nuova denominazione risultava abbastanza azzeccata. E, in ultima analisi, oggi può ben continuare a coesistere con “Casa bruciata.”

Grazioso scorcio del “Mandracchio” di Case Bruciate nel semplice schizzo a matita apparso su “LA TRIBUNA” del 14 agosto 1937.

Assai meno romantico questo scorcio del muro esterno, percorso dallo scarico approssimativo con elementi in cotto a forma d’imbuto.

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Note sull’insediamento litoraneo e la “Casa Bruciata” fino al XVI secolo. La prima citazione di Casa Bruciata è piuttosto tarda. La riporta nelle sue “Croniche Anconitane” Lazzaro Bernabei per l’anno 1446, quando, nel corso di una delle solite guerre che insanguinavano la regione, le milizie del patriarca d’ Aquileia si radunarono appunto a “Casabrusiata”, nel tentativo, fallito, di prendere agli Anconitani la rocca di Fiumesino (7). Dunque l’evento “luttuoso” per il luogo s’era già consumato e chissà in che periodo. Gli insediamenti precedenti sulla fascia costiera di cui si hanno riscontri risalgono al periodo tardo-imperiale romano fino all’invasione longobarda dell’Esarcato (dati archeologici certi e citazioni letterarie probabili per l’area, quest’ultime con riferimento alla “statio” o “mutatio” di “Ad Sestias” (8). E’ possibile che la presenza di abbondanti rovine di superficie abbia influenzato la successiva toponomastica (9). Poi è la volta dei monaci cistercensi dell’abbazia di S. Maria in Castagnola di Chiaravalle. Questi ultimi arrivano sul litorale di Montemarciano nel 1240, acquisendo terreni dal vescovo di Senigallia proprio al confine col vescovato d’ Ancona, “in curte de Robiano” (10). Non c’è alcun dubbio che la zona sia quella dove si costruirà l’osteria. E nulla esclude che, con l’utilizzo agricolo (inizialmente si tratta di circa 30 ettari di “…terre optime…”), finendo per estendersi le possessioni abbaziali di Chiaravalle lungo tutta la fascia costiera fino oltre Montignano di Senigallia, i monaci abbiano sentito la necessità di una struttura adatta al commercio via mare dei cereali e al ricovero di mercanti e viaggiatori. Non a caso nel 1252 sul litorale si affacciano ben tre “grance” (cioè fattorie autonome dei cistercensi, pur dipendenti della casa madre). La “Grancia de Rubiano”, la più a levante; la “Grancia de la Grancetta in mezzo (rimane il ricordo toponomastico con Via Grancetta); ed infine la più a ponente, o “Grancia di S. Giovanni”, nell’odierna zona di Montignano. A questi possessi si aggiunge appunto il diritto di porto e di commercio (11). E’ noto che i monaci tentarono a più riprese di rendere navigabile il basso corso dell’Esino, lungo cui avevano vallati con mulini e “valcherie”. Con scarsi risultati, per via dei depositi portati da un fiume a carattere torrentizio. Né la foce del fiume costituiva un punto d’approdo idoneo. Il problema, invece, non si presentava più a nord, dove era possibile (e ciò almeno fino al XIX secolo) l’attracco anche di imbarcazioni con discreto pescaggio. Cioè sul litorale di Montemarciano, dall’antica foce del torrente Rubiano (che ancora sul finire del ‘500 si trovava a levante del “Mandracchio”) fin verso l’odierna Marzocca di Senigallia (oltre si estendeva la zona paludosa delle “Saline”, bonificata dai della Rovere solo a partire nel XVI secolo). Dunque con tre grance è impossibile pensare ad un litorale del tutto disabitato. Certo la situazione demografica generale, europea e italiana, appare altalenante. All’incremento successivo all’anno Mille susseguono periodi di depressione e di parziale

ripresa, ma è anche chiaro come un qualsiasi insediamento sulla nostra zona costiera risulti aleatorio, troppo esposto ad eventi distruttivi, a cominciare dal rischio delle scorrerie, da terra e dal mare (ricordiamo le terribili devastazioni saracene anteriori al Mille). Qualsiasi insediamento costiero nell’area di Marina risente della conformazione geografica. Lì, infatti, s’interseca, per forza di cose, la viabilità costiera con quella della bassa valle dell’Esino. Almeno fino agli inizi del ‘700, quando si riesce ad approntare la strada Clementina (Rocca Priora-Jesi, poi Statale 76 della Vallesina). Ragioni di sicurezza inducono ad insediamenti sulle colline interne. Alla fine del ‘200 si registra l’incastellamento collinare di Montemarciano e con esso la comparsa di turbolente signorie laiche, dai Baligani di Jesi ai Malatesti della Romagna. Diciamo anzi che se si crea un territorio distinto di Montemarciano ciò è dovuto all’incapacità dei tre principali centri urbani circostanti di acquisirne un saldo possesso. Sono noti i tentativi di Jesi, reiterati fino al ‘500, per avere uno sbocco al mare, dapprima a scapito di Senigallia, poi in lotta perenne con Ancona. Occorre anche tener presente il drastico calo demografico conseguente alla micidiale pandemia della metà del ‘300 (la famosa “Peste nera”), nonché le continue guerre che sconvolgono la regione (12). Emergono i Malatesti, sia del ramo di Rimini-Fano, sia del ramo di Pesaro. Le notizie sono scarse, ma sappiamo che costoro avviarono una “ricolonizzazione” agricola su aree abbandonate e invase dalle selve, anche favorendo l’immigrazione dall’altra sponda adriatica pressata dai Turchi. Interessante è la documentazione di imbarchi di cereali ai primi del ‘400 per le “abbondanze” di città come Bologna e Venezia in netta ripresa. E alcuni di questi imbarchi avvengono“…sucto la torre de Rubiano”(13). Siamo forse in presenza di un precursore del “Mandracchio”, magari nelle vecchie pertinenze della grancia omonima? Di lì i monaci dovrebbero aver sloggiato, o con le buone o con le cattive. Però sul litorale di Montemarciano la loro presenza non si conclude del tutto. Infatti, ancora agli inizi del ‘500 (presenti ormai i Piccolomini) mantengono la possessione della Grancetta, posta al confine con Senigallia. Attorno alla prima decade del ‘400 la signoria di Montemarciano è chiaramente nelle mani dei Malatesti di Pesaro e tale condizione si protrae di fatto almeno fino al 1445, l’anno precedente l’ormai famosa prima citazione del Bernabei di una “Casabrusiata” (14). L’ultimo dei Malatesti di Pesaro, l’incapace signor Galeazzo, che già aveva dato prova della propria inettitudine militare in occasione del fallito attacco notturno ad Ancona dell’ottobre del 1414 (col padre Malatesta dei Sonetti, che stazionava a Montemarciano), era costretto a vendere la propria signoria pesarese, nel 1444, ad Alessandro Sforza, fratello del condottiero Francesco Sforza, in procinto di lasciare le Marche per la signoria di Milano. Veniva allora il momento 21

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per il parente di Rimini, Sigismondo Pandolfo Malatesta dei Malatesti, “la procellosa anima imperiale”, di riprendersi quella parte dei domini paterni di cui s’era appropriato il ramo pesarese. Senigallia, innanzitutto e poi anche Montemarciano. Su Senigallia Sigismondo mise le mani quasi subito, col consenso della Chiesa. Per Montemarciano l’investitura papale avverrà nel 1453 (15). Dai registri del fattore della “factoria de Montemarzano”, ser Nicola di Lunardo di Montemaggiore, emergono, finalmente, note importantissime su “Caxa abrusiata”. Sigismondo, come tutti quelli della sua famiglia del resto, per mantenere e rafforzare la propria signoria (e Montemarciano diviene il possesso più meridionale della stessa), si finanzia con l’esercizio mercenario della professione militare (le “condotte” conto terzi, Chiesa, Venezia, Regno di Napoli, Firenze, etc.) e con lo sfruttamento agricolo dei propri territori. Montemarciano (che formalmente risulta donata alla terza moglie, Isotta degli Atti) è una delle “factorie” più importanti. Si disbosca per avere terra da seminare, soprattutto a grano, da esportare (i cereali costituiscono vera e propria moneta corrente), e per esportare ci si avvale soprattutto della via marittima. Ecco allora la necessità di disporre di magazzini di stoccaggio nel punto adatto d’imbarco, e non solo. Servono, infatti, alloggi per i mercanti, un minimo di attrezzatura portuale, un posto di guardia, che aiuti anche la riscossione della gabelle, etc. Se prima c’era qualcosa di simile alla foce del Rubiano è probabile, tuttavia la situazione delle strutture ora non risulterebbe la più adeguata. Nel 1454, infatti, c’è già un oste, Giovanni da Rimini detto “il Padoano”, solo che costui è definito nel registro del fattore “hoste de Senegaglia”. Però, nel contempo, deve rispondere degli introiti “… del datio de caxa brusiata, passo e magazini…” per la bella cifra di 10 ducati al mese, a cominciare dall’agosto del ’54 (purtroppo i registi riguardano solo due annate agricole, quella del ’54-55 e quella del ’55-56, e già siamo fortunati per la dovizia relativa del contenuto…). Tuttavia il riferimento al “…libro del 1453…” lascia intendere che Giovanni era presente anche l’anno precedente. Appare comunque chiaro che si era già deciso un grosso intervento a Casa Bruciata. Che poi si tratti di un’ edificazione ex novo o, come più probabile, di una ricostruzione o di un forte ampliamento la cosa è difficile da stabilire. Il fatto che dai registri non risulti specificatamente una sosta del grano o di altro nei magazzini, ma si parli solo d’introiti dovuti a “tratta” (cioè imbarco) pare abbastanza indicativo. Poiché il commercio del grano deve continuare, si comincia col rinnovare lo scalo, tenendosi pronti per la nuova osteria-deposito, e anche per altri grossi lavori che pure sono previsti al castello di Montemarciano. Legname adeguato non manca di certo, considerate le rigogliose selve circostanti, ma per i mattoni occorre prima costruire una “fornace” (probabilmente replicata nel tempo, sempre, più o meno, nella medesima zona, al punto che il toponimo Via Fornaci è ancora presente a Marina di Montemarciano, a monte del “Mandracchio”). Fare mattoni solidi, ben cotti, e in gran quantità non è cosa da niente: la fornace deve essere ben concepita. Già nel 1453 è necessario chiamare l’esperto, “…uno mastro da fornace lo quale venne a disegnare la fornace da fare…” Fornace, che, sottoposta a ritmi produttivi in-

tensi, ogni tanto va rifatta. Nel luglio del 1455 arrivano, “…per lavorare e murare e fare la dicta fornace…”, esperti artigiani forestieri, quasi certamente sottratti ai lavori di Senigallia. I loro nomi li indicano come settentrionali formati all’antica e famosa scuola dei “mastri comacini”: mastro Gasparino e mastro Giovanni d’ Alberto, entrambi da Como, mastro Giovanni da Vercelli e il “garzone”, Giovanni da Castro. Parlare di porto alla vecchia foce del Rubiano può sembrare eccessivo, ma non deve essere stato comunque uno scherzo, tanto più che si lavora anche con la brutta stagione. Il legname (ottima quercia) viene scelto e tagliato sotto l’attento controllo di mastri falegnami. Tra il gennaio e marzo del ’55 è all’opera il mastro “marangone” Matteo di Senigallia. Sul finire d’aprile l’approdo pare praticamente terminato: “palanghe” antiflutto, passerella e scivoli per le barche da tirare a riva. Nel febbraio del ’56 a Casa Bruciata ci sono ancora lavori in corso e a maggio pure: arrivano, ad es., quattro carrette “…da portar malta…”, tre all’osteria per mastro Piero da Senigallia, anche lui“…marangone…”, e una alla fornace, per mastro Michele. Pare chiaro che si sta anche mettendo mano all’osteria, e quello che non è disponibile in loco viene poi fatto arrivare da fuori. Ad es., i grossi chiodi da carpenteria giungono, via mare, da Venezia. La segnalazione di uno di questi carichi, portati col naviglio di “paron” Lorenzo Faxiolo dalla Serenissima e pagati il 9 giugno del 1456, finalmente, ce ne dà esplicita conferma. I chiodi servono “…per la caxa de l’ostaria (che) se fa a caxa brusciata…” Nel frattempo tutto deve andare avanti senza inceppare il flusso di cereali che prendono la via del mare. Come non lo sappiamo, magari utilizzando strutture temporanee in legname (a che serve una “capanna grande”, che si tira su nel litorale?) o parte della vecchia osteria, mentre se ne aggiunge una parte nuova. Quel che è sicuro è che gli osti, sia pure a rotazione annuale, ci sono sempre, a garanzia che tutto continui a funzionare e i soldi arrivino nelle casse del signore. Nel 1455 oste di Casa Bruciata è Antonio Grande (sposato a Margarita), che per il dazio della località sborsa in lire l’equivalente di ben 104 ducati d’oro. Piero Grande, un parente (probabilmente il fratello) si prende il dazio dell’osteria del castello si Montemarciano, per 52 ducati d’oro. Dovrebbe trattarsi di un famiglia ben addentro nel settore, visto che Piero gestisce pure un’ altra osteria a Senigallia. Per l’anno successivo Antonio continuerebbe per 129 ducati, ma in realtà subentra a Casa Bruciata mastro Cristofano di Giovanni da Fano a dieci ducati il mese. Forse in questa fase di “lavori in corso” ci guadagna qualcosa anche qualche pesce piccolo come Lorenzo da Zagabria, che, sul litorale sotto Montignano, è semplice “…tavernaro a caxa nova…” Gli imbarchi di cereali registrati tra l’estate del ’54 e primavera del’55 sono 86. 90 quelli tra l’estate ’55 e la primavera ‘56 (16). Ormai Case Bruciata pare funzionare a pieno regime, e, fatte le debite proporzioni, potremmo definire i lavori a Montemarciano, tra 1453-56, quasi “grandiosi”. Ma è noto che Sigismondo in questo campo non badava a spese: a Rimini aveva avviato la grande fortezza di Castel Sismondo e lo splendido Tempio Malatestiano; Senigallia la stava rifacendo di sana pianta; ovunque non c’era castello, rocca o torre che non ricevesse consistenti ritocchi. Insomma una politica edilizia da splendido principe…debiti mostruosi 22

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compresi. E questo, alla fine, lo porterà alla rovina… Purtroppo i registri del fattore non indulgono affatto ad una descrizione, sia pure sommaria, degli interventi. Il risultato finale possiamo solo immaginarlo (e sicuramente la parte tecnica di questa pubblicazione, con l’indagine sulle strutture, offrirà importanti delucidazioni). Probabilmente la nuova osteria malatestiana consisteva in una casa-torre, oggi inglobata nell’ala di levante dell’attuale “Mandracchio”. Che poi la torre risultasse o meno preesistente (magari identificabile con la già citata “torre de Robiano” o con qualche residuo analogo dell’omonima grancia monastica), e quanto fosse alta anche questo pare quesito squisitamente tecnico. Il vicariato ecclesiastico di Sigismondo Pandolfo su Montemarciano dura esattamente dieci anni, durante i quali, oltre a consolidare la propria fama di condottiero, il signore di Rimini si scava anche la propria fossa politica. La sua partecipazione alla ennesima guerra tra Jesi ed Ancona, nel 1460 ( il Malatesti si schiera dalla parte degli Anconitani) è la goccia che fa traboccare la pazienza di Pio II, fautore del “Lodo di Mantova” dell’anno prima, con cui aveva tentato di sanare i contrasti tra il Sigismondo e il re aragonese di Napoli, per via di un forte credito che costui pretendeva per una condotta militare tradita. Montemarciano, assieme ad altri domini del Malatesti, era stato dato in pegno al papa a garanzia del debito. Per il venir meno della parola data, Pio II sembrava cedere alle richieste degli Jesini, che volevano assolutamente il castello. A patto che fossero in grado di prenderselo. Era la solita questione dello sbocco al mare per Jesi con l’esigenza opposta per Ancona, malgrado qualche tentativo d’accordo in precedenza, come quello dell’ottobre del 1456, quando le due città erano arrivate ad una composizione sul transito nella “…strada… per la quale se va da Esi a Casabrusiata…”(17). Per farla breve, quando il Malatesti, nel 1463, apparve ormai avviato alla sconfitta e in ritirata, gli Jesini si precipitarono a prendere Montemarciano, ma il castellano e gli abitanti preferirono resistere, chiamando in soccorso gli Anconitani. Costoro riuscirono a superare il blocco degli assedianti, rafforzando le difese del castello. A questo punto il papa mostrò d’ averne abbastanza, minacciando entrambi i contendenti con l’esercito comandato da Federico da Montefeltro, che aveva appena battuto Sigismondo. Ormai Pio II aveva già deciso: Montemarciano, in situazione strategica importante sulla via Roma-Ancona per la crociata che voleva organizzare contro i Turchi, e per giunta feudo agricolo non disprezzabile, sarebbe stato affidato in “vicariato perpetuo” ai nipoti (18). Entravano così in scena i Piccolomini, con Antonio duca d’Amalfi nel 1463 e quindi il fratello minore di questi Giacomo I, nel 1464. Sarebbero restati fino al 1591. In pratica i Piccolomini trovarono, come si dice, il piatto già bello e servito, vale a dire un territorio in cui la colonizzazione risultava ben avviata e il commercio dei cereali fonte di sicuri introiti. Purtroppo non rimangono descrizioni della osteria-deposito portuale, ma dagli “Statuti antichi” del castello (in gran parte malatestiani con riformazioni soprattutto di Giacomo I) sappiamo che la stessa godeva della massima considerazione. A buon motivo, visto che si pagava per il deposito delle merci (non solo grano, ma anche legname, bestiame, etc…), per l’estra-

zione (o “tracta”) dei cereali via mare, per l’alloggio e per il dazio di quanto proveniva anche dall’entroterra o attraverso la via litoranea. Il gestore dell’osteria naturalmente pagava l’affitto. Interessante è la parte riguardante i “bastagi”, vale a dire i facchini o portuali del tempo. Costoro, contadini, pescatori saltuari o semplici lavoranti, erano riuniti in apposita “compagnia”, la cui attività (doveri e diritti) era regolata da appositi “capitoli per li bastagi”. Una delle mansioni consisteva nel tirare fuori dal magazzino della “Casabrugiata”, il cosiddetto “ponte”, vale a dire la passerella in legno che serviva a collegare la riva con il bordo del naviglio. Terminata l’operazione d’imbarco (o sbarco) delle merci, la passerella doveva essere accuratamente riposta. Ciò indirettamente conferma testimonianze successive di come, all’epoca, la distanza tra l’osteria e il mare fosse minima, e come le imbarcazioni da carico (anche fondo tondo) potessero attraccare a pochi metri dalla riva. Giacomo inoltre tiene due magazzini per il sale. Uno di sua spettanza (“…per sua salara…”), l’altro, in affitto, per “li offitiali della salara della Marca”. Che l’osteria-deposito divenisse in breve inadeguata a stoccare il grano per periodi troppo lunghi ce lo rivela la norma del 1499, che stabilisce il sovrapprezzo dopo un mese. (19). Ma non era solo un problema di capienza dei magazzini! Bisognava sempre aver presente il forte rischio degli attacchi pirateschi. Sicuramente devastante fu quello della notte del 28 settembre 1485, quando cinque “fuste” turche attaccarono il litorale (20). Una sbarcò gli armati a “Casa Nova” presso Marzocca (e il nome la dice lunga, poiché pare che nel XIV secolo ci fosse già stata una devastazione). Anche questa era un osteria e venne subito saccheggiata, e due donne rapite. Saccheggiate pure le possessioni agricole sulla collina retrostante. Altre due approdarono a “Casa Brugiata”, mentre le restanti sostarono di guardia alla fonda. Che successe all’osteriadeposito la cronaca non specifica. Ma è facile immaginarlo: effrazione, saccheggio, devastazione. Furono trucidati tre uomini, lì o nei pressi, e rastrellate 46 persone, soprattutto donne per il mercato degli schiavi. La casa-torre non poteva certo resistere all’assalto di due o trecento armati (le fuste erano un po’ più piccole delle “galee” da guerra, ma più agili e con minor pescaggio), sufficienti anche a tentare un colpaccio al castello di Montemarciano. Già l’11 agosto la cosa era riuscita a Mondolfo, che era stato saccheggiato. Fortunatamente l’allarme scattò in tempo, e gli assalitori si trovarono a fare i conti con la rocca ben serrata e in armi. Il primo corso sul ponte della fortezza venne infilzato dai dardi, precipitando nel fossato. Altri “feriti a morte”. Non se ne ritrovarono i cadaveri, poiché, ritirandosi, i Turchi se li portarono via a dorso d’asino. All’osteria, presumiamo, si dovettero riparare i danni. Col tempo emerse la necessità di una migliore ristrutturazione. Per arrivare ad una configurazione quasi definitiva bisognerà attendere il secolo successivo, probabilmente solo dopo gli anni ‘60-70 circa. Avanzo questo lasso di tempo in linea d’ipotesi, poiché è disponibile solo uno stralcio catastale del 1588, che offre una sommaria descrizione, a oltre 60 anni dal viaggio di padre Leandro Alberti. Il domenicano, viaggiatore e geografo, l’aveva descritta come “…una taverna di mura ben fortificata…” per potersi difendere dagli assalti pirateschi, che dovevano 23

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essersi verificati a più riprese, specie a danno degli avventori, che la frequentavano per motivi di viaggio (“i peregrini”) o di commercio. Quanto al nome non ebbe difficoltà a dar credito a quello che gli raccontarono in loco. I “Ladroni” l’avevano già “abbruciata” più volte, prima che venisse “fortificata”. Il dubbio sta in che fase di sviluppo fosse l’osteria vista dall’Alberti. Forse era solo la “casatorre” malatestiana, magari con l’addizione successiva verso monte (21). Il catasto del 1588 (quasi tutto perduto con la distruzione del castello di Montemarciano -22), sia pure estremamente sintetico, per lo meno ci dice che il manufatto ha ormai “…due torri, una vecchia e l’altra nuova, con magazzeni da grano e stalle…” Circa i suoi confini: a nord “…la riva del mare…” (che è sempre quasi a ridosso); a est “…il fosso di Rubiano...” (che ancora scorre sul lato di levante dell’osteria, come meglio si dirà) e il confine con Ancona; dagli altri due lati “…i Beni o case..” del signore di Montemarciano (all’epoca Alfonso Piccolomini). Terreni a vario utilizzo, ma quanto alle “case”, ho forti dubbi che, al momento, ve ne fossero. Sappiamo che l’osteria s’affitta annualmente assieme alla “Gabella” per le merci in transito (23). Sotto quale Piccolomini avvenga la “ristrutturazione”, che porta a disporre di un corpo quasi “gemello”, con la torre nuova contrapposta a quella antica della casa-torre malatestiana, non è noto. Posso però pensare che ciò sia avvenuto sotto Antonio Maria II o, meglio ancora, sotto il figlio Giacomo II. Occorre, infatti, sapere che Giacomo I muore nel 1509, lasciando il feudo al figlio Silvio, che, a sua volta, scompare dopo il 1529. Gli succede il figlio Giovanni Francesco, che, tuttavia, scompare senza eredi attorno al 1535. E’ quindi destinato al vicariato il cugino, Antonio Maria II (figlio di Enea, fratello di Silvio), di cui si conoscono atti dal 1536. Il problema è che Silvio ha avuto anche un figlio naturale, Piccolomo, che è stato comunque legittimato. Piccolomo, come succedeva spesso in tali casi, era stato avviato alla carriera ecclesiastica, facendo la comoda vita di parroco di Montemarciano. La morte senza eredi del fratellastro Giovanni Francesco, evidentemente, creava qualche problema di successione, al punto che Piccolomo ricorreva in Sacra Rota, rivendicando una quota dei beni paterni. Si riconobbe che Antonio Maria II dovesse al cugino un vitalizio cospicuo. Scomparso nel 1548 Antonio Maria, subentrò il figlio Giacomo II. A questo punto si riaccese la controversia. Giacomo II e il fratello Scipione, spinti soprattutto dalla madre, l’energica Elena Sforza di

Santa Fiora, che disponeva di forti legami con la Curia Romana ( dove contava molto il potente cardinale Guido Ascanio Sforza di Santa Fiora, loro parente), cominciarono a tormentare il povero Piccolomo, affinché si contentasse di un taglio al vitalizio. Per quieto vivere costui si lasciò convincere, rinunciando a 40 dei 200 scudi d’oro di spettanza. O meglio, invece di pagarlo direttamente, i parenti gli concessero le entrate dell’osteria “vulgariter nocupanti di Casa Brusciata”, più quello dei pascoli di Montemarciano. Che fosse una pessima risoluzione se ne accorse ben presto Giacomo II, che una volta libero dalla tutela materna, ricominciò le trattative col parente. Non era, infatti, possibile che il signore di Montemarciano non potesse disporre liberamente di una struttura così fondamentale nel circuito economico del feudo. Tanto più che, sia lui, che il padre, avevano spinto sulla colonizzazione del territorio, cercando di estendere le concessione enfiteutiche agricole, la cui conduzione appariva sempre più improntata al tipo mezzadrile. Giacomo riebbe pertanto indietro, nel 1563, le concessioni sull’osteria e sul pascolo, concedendo a Piccolomo l’esenzione del “quarto” sui raccolti dei suoi numerosi poderi e anche l’estrazione del grano libera da “tratta” (24). Se c’erano lavori da fare alla “Casa Bruciata”, questo era dunque il momento buono. D’altra parte, i Piccolomini cercavano capitali all’esterno, favorendo la presenza di “Affittuarji”, che ricevevano ampie pertinenze. Uno dei primi, Pierfrancesco Clementi, nel 1567, entrava “… nell’affitto di Casabrusiata e di M.te Marciano…”, il che stava significare non solo la gestione dell’albergo-deposito sul litorale, gabelle comprese, ma anche dell’osteria del castello, del forno, del macello e del mulino (il “mulino da maltempo”, sul Rubiano a Molinello). Gli “Affittuarji”, naturalmente subaffittavano a loro volta. Tuttavia il signore badava ad evitare che il feudo fosse spremuto come un limone anche a suo danno. Quando arriverà la Camera Apostolica il metodo dell’affitto verrà esteso all’intero complesso delle prerogative dei vecchi feudatari, e con molto minor scrupolo. In pratica l’intero territorio, tutto il paese finiva affittato, all’asta! Gli “Affittuarji”, “gente su” e danarosa, sborsavano la cifra pattuita per il tempo concordato (anche una dozzina d’anni) e, come logico, oltre a rientrare nelle spese, volevano guadagnarci lautamente senza troppi rischi. A rimetterci, semmai, oltre agli abitanti, spesso erano coloro che subentravano nell’esercizio: delle osterie, del forno, del macello, etc. (25).

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Due scorci delle scomparse strutture castellane di Montemarciano, come raffigurate in albero genealogico dei Piccolomini (Archivio Parrocchiale Montemarciano, fondo Trusiani-Medi, XVII-XVIII sec.).

Alcuni Piccolomini di Montemarciano (Collegiata di S. Pietro Apostolo, pala d’altare del tardo XVI sec., d’anonimo); a lato arme dei Piccolomini di Montemarciano. Accanto alla classiche lune nascenti su croce, i quarti di parentela con gli Aragona e Castiglia di Spagna ( Codice XVI sec., “Statuti di Monte Marciano”, Biblioteca Senato della Repubblica, Roma).

A sinistra: Isotta degli Atti e Sigismondo Pandolfo Malatesti. Montemarciano, già di Galeazzo Malatesti di Pesaro, veniva concesso dalla Chiesa in vicariato al signore di Rimini nel 1453. Alla nobildonna, prima amante e poi terza moglie del condottiero, pare andassero le rendite del feudo, come indicherebbe l’attestazione del fattore, ser Nicola di Lunardo di Montemaggiore, sul libro di “…entrata e spesa di Monte Marciano per donna Isotta” per il 1455-56.

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Dentro l’osteria tra ‘500 e ‘600. Nel 1591 muore l’oste di Casa Bruciata, un certo Luca, che lascia la vedova Cassandra col figlio minore Cesare. I due non sono in grado di gestire l’osteria, pertanto i “Signori Padroni” trovano subito il subentrante in tal Fabio Dialdelli, detto “Barbarino”. Lo scomparso Luca doveva aver impiegato un bel po’ di capitale per dotare adeguatamente, a sue spese, gli arredi dell’osteria, tanto che vedova e figlio cercano di recuperare qualcosa, vendendo al nuovo gestore “…infinite masseritie, robbe, letti e mobili diversi…” per un totale di circa 64 scudi (26). Consideriamo che per l’affitto dell’osteria se ne sborsavano almeno il doppio. L’inventario è interessante poiché ci conduce direttamente entro alcuni ambienti, altrimenti oggi irrecuperabili. C’è la grande “sala” (forse identificabile con vano al piano rialzato, accosto alla torre nuova o di ponente), dove si pranza e si trascorre il tempo, dotata di camino, due grandi tavoli per i clienti, tre banchi, una credenza e ben cinque scaffali di noce. La dotazione minuta pare invidiabile, con ben 180 piatti di terracotta, sia pur “piccoli”. Nella “loggia” di fianco, che sta sopra il portico con l’ingresso ad arco verso mare, stazionavano un cassone pieno di pignatte e 10 candelieri di legno. “In cosina” (che, per forza di cose, doveva trovarsi in qualche ambiente non lontano dalla sala) ci sono un paio di “capofochi grandi”, spiedi, catene da fuoco, mollette, uncino da carne, “ferro da friggere”, “gradella”, padelle di ferro e di rame, “caldari”, “cochiare di ferro”, etc., più due grosse “mattere” (madie per la farina), e quattro capienti “scansie d’uso”. Queste dovrebbero servire per altri 120 piatti, tovaglioli e un gran numero di tovaglie, tovagliette, tutte chiaramente usate, ma tre, tenute di riserva per gli ospiti importanti, sono“bone”. E ancora “piatti, brocche

et altro bagaglie de cocina”. Per le camere ci sono 50 lenzuola, 24 “succhamani”, 38 “tovaglietti”, e (forse ci si lavava la faccia con la punta delle dita) solo 5 “tovaglioli da sciucare il viso”. Le “Cambere”, per gli avventori che stazionano la notte, sono, all’epoca, almeno otto, contrassegnate con lettere d’ alfabeto (nove forse, poiché manca nell’inventario quella “D”). Sembrano arredate discretamente e pure con qualche sforzo d’eleganza: quasi tutte le coperte sono azzurre (qualcuna gialla, altre con le frange, altre ancora “coperte turchesche”, qualcuna di borra e “piumacci” per i più freddolosi). Se non circolavano troppe pulci, ci si sarebbe pure potuto dormire bene, essendo i letti forniti di materazzi di lana o di borra e “cavezzali” (guanciali unici, larghi quanto il letto) anche di piuma. In effetti i viaggiatori più accorti, per scansare l’assalto di pulci, cimici e pidocchi vari, che normalmente infestavano le locande, erano soliti portarsi dietro un bel sacco di lino o di seta (quelli nobili o raffinati), dove ci si infilava come in un sudario, limitando le suddette aggressioni. Ai topi, che scorrazzavano, abbondanti e satolli per via dell’irresistibile richiamo dei granai, provvedevano navigati gatti. Quanto ai servizi di decenza di sicuro non c’era da scialare. Qualche “stanziolino” ricavato in angoli discreti, con un semplice sedile in mattoni, o lastra di pietra, al massimo con asse in legno per non gelarsi le natiche, e foro a caduta libera in qualche pozzetto sottostante, che la servitù provvedeva periodicamente a svuotare. Di tali apparati igienici ne rimane uno (difficile stabilirne l’epoca), non si sa se per scelta “strategica” o per bello spirito di qualche mastro muratore burlone, ricavato a vista sul lato interno del muro di fianco all’ingresso con sovrastante caditoia della “torre vecchia”.

Vista della corte interna verso nord-est: s’intuisce l’antica casa-torre con il portico e la sovrastante loggia, che ormai nasconde il vecchio accesso rialzato alla torre. A sinistra il servizio igienico di fianco all’ingresso dotato di caditoia . 26 LA CASA BRUCIATA


In alternativa ci si doveva servire di classici pitali, o buglioli, o di “commode” in legno a chiusura “ermetica”. La “cambera A”, probabilmente la migliore, è l’unica fornita di questo tipo di “cassetta dal corpo”, per gl’impellenti bisogni notturni. Un’altra ha il “lavamano di ferro con la conca de rame”. Abbondano banchetti e tavole. Per i più freddolosi ci sono tre “trabacchi”, dipinti in rosso e turchino (si tratta del nostrano “prete”, cioè un intelaiatura di legno che, posta sotto le coltri o tra le lenzuola, è destinata a ricevere lo scaldino in coccio con la brace, la cosiddetta “monaca”). Tutte le camere, indistintamente, hanno la possibilità di variare il numero dei letti, secondo le esigenze degli occupanti. Cioè i letti effettivamente montati sono uno o due al massimo, con le loro brave “spalliere” in legno da capo e da piedi e i “tornaletti”. Accatastati in qualche angolo ci sono però “trespodi”, tavole e altri elementi smontati, compresi pure diversi ma-

terazzi (di lana o di borra) o semplici “paglierecci”, che, all’occorrenza, aumentano i giacigli. “Paviglioni”, vale a dire grandi tende in tela, consentono, una volta montati, di isolare porzioni di camera e di riparare da eventuali spifferi d’aria. Fatti due conti, in otto camere sono presenti ben 28 materazzi e 18 pagliericci, vale a dire che l’osteria è in grado di far pernottare sul morbido almeno 46 persone. Gli eventuali esclusi dovevano accontentarsi di sistemarsi alla meglio, dove capitava, paglia della stalla compresa. L’importante era un tetto sulla testa. L’affollamento era un’eventualità che non si sarà presentata sempre, ma che in certi periodi occorreva prevedere, specie quando c’erano numerosi carichi di grano da imbarcare, fiere franche castellane, o comitive in pellegrinaggio (a Loreto ad esempio), o qualche personaggio di rilievo in transito con numerosa scorta.

Ala di ponente, piano superiore: il vano che dà sulla scalinata esterna e la successiva fuga d’archi verso monte.

L’inventario riporta ancora altri elementi essenziali al funzionamento dell’osteria, pur trascurando d’indicare il luogo esatto. Ci sono, supponiamo nel vano al piano terra ad uso di cantina, “7 posti” (cioè supporti, in muratura o legno) per le botti del vino, botti che però, in totale, sono ben 13, tutte di discrete dimensioni, poiché tengono 100 “some” (probabile che quelle senza “posto” siano variamente collocate e destinate all’acqua potabile, che è presa da pozzi esterni). Approssimativamente, poiché le misure variavano da luogo a luogo e nel tempo, diciamo che 1 “soma” (o “salma”) per il vino corrispondeva a circa 138 litri. Dunque ciascuna botte per il vino teneva un po’ più di 1000 litri. Insomma si beveva. E forse era meglio, perché sulla potabilità dell’acqua, a quei tempi, bisognava sempre andarci coi piedi di piombo. Gran uso di vino facevano i “bastagi”, per via del loro pesante mestiere. Ed era consuetudine incrementare la mercede in denaro di questi facchini, oltre che con un po’ di sale per ciascuno, anche con una bevuta collettiva terminale, offerta da chi imbarcava il grano. Pure il fattore di Sigismondo Ma-

latesti, ser Nicola, non si sottraeva al rito, specie quando chiamava i “bastagi” a qualche sfacchinata straordinaria, come quella tra il 13 e il 25 aprile del 1455, quando dovette anzi utilizzare “…tucti li homeni de Monte Marzano…”, con bufali e buoi da lavoro, per completare in fretta lo scalo per le barche di fronte all’osteria (27). Che vino si beveva? A parte il popolare “acquaticcio”, a mo’ d’economico dissetante (e poi, si sa, gli osti tendevano sempre ad allungare…), localmente si consumava soprattutto ottimo trebbiano già in epoca malatestiana (c’era anche un altro, forse assai antico, vitigno, che il fattore di Sigismondo definiva ermeticamente “vizagho”, con una produzione d’entità quasi analoga, ma di cui s’è persa memoria). Accanto al vino l’aceto, ma per questo all’osteria bastavano due sole “botticelle”. Per la stalla (o forse stalle) c’erano dieci “tavole in mangiatora”. Poteva accadere che vi si ricoverasse anche bestiame vario in attesa d’imbarco, ma si trattava soprattutto di cavalli. E gli osti di Casa Bruciata figurano tra i pochi personaggi in loco a disporne (a volte risulta dai permessi di pascolo). 27

LA CASA BRUCIATA


Possono, infatti, presentarsi clienti che abbisognano di cambio di cavalcatura (da sella o da tiro). Per il servizio postale organizzato nello Stato pontificio occorre attendere il XVII secolo, come meglio vedremo, però l’esigenza di disporre di strutture e mezzi adatti ai viaggiatori privati e alla diffusione di notizie per i governanti (tramite messi o “corrieri”) non era mai venuta meno, anche dopo lo sfaldamento del antico “cursus publicus” romano, e la Casa Bruciata, in qualche modo, dovette sempre offrire un servizio del genere, erede com’era di fatto dell’antica “mutatio” di “Ad Sestias”. Nel nostro inventario, tuttavia,

non risultano (ma magari i cavalli erano già stati venduti). Finiamo con uno sguardo al “cortile” (i magazzini da grano o da sale, etc. non vengono citati, ma certamente la vedova lì non aveva niente da vendere) dove, tra varie cose rilevate da “Barbarino”, stazionano un carretto, un “imposatore de legna ferrato”, una tavola per pranzare all’aperto, due larghe scale un po’ malmesse, un mucchio di strame e due malinconiche“…gabbie da quaglie” vuote, segno che quando il volatile era disponibile finiva subito nel menù dell’osteria.

Dalla “casa-torre” malatestiana al dopo il terremoto del febbraio del 1972

“ …Passata adunque Ancona al fine del suo territorio, ritrovasi la bocca del Fiumesino…Appresso la foce di esso fiume (per la quale entra nel mare) si vede una assai forte Rocchetta ben fornita di artiglierie da gl’Anconitani, per guardia de’ vicini luoghi, acciò non siano rubbati et bruciati da Ladroni maritimi. Caminando poi alquanto presso al lito del mare, si scorge Casa Bruciata, la quale è una taverna di mura ben fortificata, acciò che sia sicura da i Pirati et Turchi che soleano quivi scendere, et rubbar’ ogni cosa, et far prigioni i peregrini, et è così nominata per essere stata molte volte abbruciata da i detti ladroni avanti che fosse fortificata…” (LEANDRO ALBERTI, Descrittione di tutta l’Italia e Isole pertinenti, presso Gio: Battista Leni, Venezia 1577, p.286). Dopo il frate domenicano bolognese Alberti, un altro ancor più noto viaggiatore, lo scrittore francese Michel de Montaigne, transitava in carrozza davanti all’osteria (senza fermarsi) il 27 aprile del 1581. Avesse avuto meno fretta d’arrivare a Senigallia, per poi ripartire subito, forse avrebbe potuto incrociare il signore di Montemarciano, Alfonso Piccolomini, bandito e ribelle dello Stato ecclesiastico, cui papa Gregorio XIII aveva fatto demolire rocca e palazzo di Montemarciano nel 1578. Alfonso, una ventina di giorni dopo, anche lui come un pirata, proveniente su un bragozzo dalla foce del Po, sbarcava nottetempo a Casa Bruciata con la sua masnada armata per attuare un sanguinoso raid vendicativo nelle terre del papa (28). Oste e contadini del luogo offrirono alla banda tutta la complicità possibile, compresi due grossi birocci su cui caricare l’armamentario. Sarebbe servito per la strage di Montalboddo (Ostra)… 28 LA CASA BRUCIATA


SCHEDA I

La “mutatio” litoranea di “Ad Sestias”, ovvero l’antenata romana della Casa Bruciata.

Schematizzazione grafica del settore medio adriatico della “Tabula peutingeriana” tra Pesaro e Ancona. Copia medievale di uno stradario romano d’epoca tardo-imperiale, la “Tabula” indica sommariamente i principali percorsi con le località collegate, notificando a volte le distanze, i luoghi di sosta, cambio cavalcature, pernottamento (“stationes”, “mutationes” o “mansiones”). Spesso la segnalazione di questi sottintendeva anche l’incrocio con una deviazione, il passaggio di un fiume, etc. Sulla destra, al centro, si nota “Sestias”, tra Senigallia e Ancona. Per questa località è stato, a più riprese, ipotizzata l’identificazione con l’insediamento romano individuato a Marina di Montemarciano. Forse strutture di una “villa rustica” con funzione di “mutatio” lungo la viabilità costiera.

Gallerie Vaticane, temi geografici affrescati della fine del ‘500: insediamenti romani a nord e a sud del Conero. Si tratta di una testimonianza di come già il luogo di “Ad Sestias” venisse ipotizzato a nord della foce dell’Esino, nell’area di Casa Bruciata. Da sinistra a destra, da “Ariminum” ad Ancona si susseguono, oltre ai vari corsi d’acqua,“Pisaurum”, “Fanum Fortunae (col Metauro), la sosta di “Ad Pirum Filumeni”, “Sena Gallica” e quella di “Ad Sestias”, a nord del fiume Esino, col municipio di Jesi sul medio corso. Si notano pure gli scomparsi municipi di “Ostra” e “Suasa”. Ancora due secoli dopo si citavano abbondanti reperti archeologici a Casa Bruciata (29). 29 LA CASA BRUCIATA


Da sinistra a destra e dall’alto in basso: frammenti di colli d’anfora con “bollo”(costone costiero); rocchi di colonna (Via delle Querce); muretto di materiale di riciclo (frammenti tegole, manici, puntali d’anfora, etc.), resto forse di ”tabernae” (area archeologica); collo d’anfora (via Brecciata); testina femminile fittile (Marinalta); “esagonette” da pavimentazione (S. Veneranda). Questi reperti e numerosissimi altri sono venuti alla luce nel secolo scorso.

“Taberna” con “thermopolium”, banco per cibarie (Pompei). Mosaico romano tardo-imperiale ( Nord-Africa), con raffigurazione di “villa rustica”. Spesso queste strutture rurali, se prospicienti ad una strada, fornivano la funzione di “statio” o “mansio”, destinandosene una parte al ricovero e al cambio. Indubbia, in tal caso, una certa somiglianza con la nostra osteria. Ma, si sa, i Romani avevano anticipato i tempi…

Avventori alla “taberna” e scene di traffico su ruote di persone e cose (varia provenienza). Per molti secoli (e in parte ancora oggi) la viabilità continuò a sfruttare quanto era rimasto dello straordinario sistema stradale di Roma, quello che aveva assicurato il rapido spostamento delle legioni e il regolare “cursus publicus” dei messaggeri imperiali e della classe governativa. Ne usufruivano, come logico, anche i privati, fino a veri e propri “sovraccarichi” del sistema, spesso giudicati” abusivi”, poiché si viaggiava non solo per necessità, ma anche per diporto o per pellegrinaggio religioso. Osti con le loro locande (“cauponae”), tavernieri e carrettieri o vetturini privati si affiancavano al “cursus publicus” e prosperavano. Così i carradori, che riparavano bighe e carretti, come quel Lucius Tempius, “cisiarus”, cioè carrozziere, il cui lapideo epitaffio fu rinvenuto nei pressi di Montignano dopo uno scavo. 30 LA CASA BRUCIATA


SCHEDA II

Un antico “capolinea” della Vallesina

Sintesi della viabilità essenziale tra Jesi e la costa fino ai primi del XVIII secolo 31 LA CASA BRUCIATA


Il settore centrale di un’ormai famosa Mappa in pergamena della Vallesina e area circostante. Si tratta di un documento fondamentale dal punto di vista storico-topografico, tuttavia non ancora ben inquadrato in molte pubblicazioni più o meno recenti. Oggi può considerarsi certa l’attribuzione e la datazione (Archivio Storico Comunale di Jesi). 32 LA CASA BRUCIATA


Lo stralcio riguardante il litorale alla foce dell’Esino e del torrente Rubiano con il territorio di Montemarciano. Autore della mappa nel 1510 fu il pittore-agrimensore jesino, Pieramore di Bartolomeo di Pierlone, col contributo del suo maestro Pier Paolo Agapiti, su richiesta del commendatario di Chiaravalle, nonché governatore di Jesi, cardinale Alessandro Cesarini (30). Lo scopo era quello di evidenziare, sia nella bassa Vallesina, sia in ampie porzioni di territorio verso Senigallia ed Ancona (visibili nel documento intero), zone di controversia, rivendicate da Jesi. Si tatta di una delle prime raffigurazioni quasi “topografiche” disponibili per una così vasta area. Oltre agli insediamenti, alla viabilità essenziale e alla rete idrica si notano perfino i singoli rilievi collinari. Le linee rosse delimitano le terre contese. Il settore centrale preso in esame evidenzia la viabilità fondamentale di fondovalle, che da Jesi porta alla costa, appunto al “capolinea” di “Casa abrusiata”. In verità, poco dopo Jesi, si dipartono due tronchi. Uno diretto a Chiaravalle, che, dopo aver attraversato la zona boscosa de’ “lo Cerreto de Selvatorta” e de’ “lo Gualdo”, arriva all’abbazia, immersa nella selva di “Castagnola”, e lì termina bruscamente. Questo tronco stradale, definito “la strada imbrecciata che se chiama Fiambegna che porta per fino al mare”, ha in realtà solo una definizione di comodo, poiché, per giungere al mare e a Casa Bruciata occorre immettersi nell’altra strada, quella, che, subito dopo Jesi, devia sulla sinistra sotto il castello di Monsano, per poi passare sotto quelli di Monte S. Vito, di Cassiano e di Montemarciano. E’ “la strada che va da Exi a la marina” e, come si nota chiaramente, è quella fondamentale per la costa. Il suo tratto terminale, quello che dal Ponte di S. Andrea, passando sotto Aberici, arriva a Casa Bruciata, è “la via de catastri per fino al mare”, nominata in documenti assai più antichi. Oggi, tranne alcuni tratti, l’intera strada da Jesi alla Marina è ancora presente e uno di questi, in territorio di Montemarciano, presso Gabella, è Via Brecciata, che poi è la “strada Fiammenga” degli Statuti del castello: “…declarandodosi che chi pagarà per la strada Fiammenga che va a Casa Brusiata debbi pagare il passo prima che passi la Figura (alla Gabella, appunto)” Come nel toponimo, il diverticolo jesino della strada romana Flaminia, sopravvive dunque anche di fatto, almeno nel fondovalle. Del resto fino al XVIII secolo non esisterà viabilità importante tra Fiumesino (qui non c’è neanche il ponte, ma solo il traghetto!) e Jesi. Basterebbe comunque un occhiata alla mappa, per rendersi conto dell’assurdità di un tale percorso, nel bel mezzo della pianura selvosa dell’Esino, con un fiume sempre pronto a rompere gli argini come testimonia la mappa stessa. Il grande salto del fiume da Castelferretti a Chiaravalle è già avvenuto (XIV-XV secolo?), forse per frana ai calanchi di “Ripa del Corvo” (presso Camerata). Piuttosto va rilevato che la terminazione della via al mare era ancora a levante dell’antica foce del Rubiano. Il segno rosso che l’accompagna dalla zona della Gabella fino all’osteria ricorda la pretesa di Jesi di arrivare liberamente sulla costa, con le cattive o con le buone, come con l’accordo del 1454: “..l’uso della strada per la quale è stata questione tra la comunità d’Ancona et de Esi, per la quale se va da Esi a Casabrugiata, sia libera alli homini de Esi et del suo Contado senza alcuno impedimento…” Dalla “mansio” di “Ad Sestias” all’osteria di Casa Bruciata è cambiato ben poco, a parte il fondo stradale: con solido basolato prima, al massimo “brecciato” in seguito.

33 LA CASA BRUCIATA


Archivio Storico Comunale di Jesi, “Miscellanea”, n. 21: Mappa cartacea della Vallesina. Valutata un lavoro preparatorio alla pergamena, è in realtà posteriore, della seconda metà del XVI. Ad es. l’iconografia di Montemarciano esibisce ancora le mura e i due torrioni di fiancheggiamento (distruzione nel 1578). Ma il dato più interessante è la scomparsa del tratto finale della strada per la marina, prima a levante della foce del Rubiano. Ora resta solo il collegamento per la Casa Bruciata, che scavalca il Rubiano, la cui foce è ancora a levante dell’osteria. La deviazione del Rubiano a ponente può essere collocata tra il 1593 e i primi del secolo successivo (31). 34 LA CASA BRUCIATA


SCHEDA III

Un “porto” per il grano

Querceto mediterraneo. Così doveva presentarsi gran parte del territorio ai primi del ‘400, con ancora alberi talmente grandi da evocare il soprannaturale (“Madonna della Quercia” d’ Alberici). Poi, con la “ricolonizzazione”, prevalsero ovunque i campi di grano, fonte di ricchezza per i signori del luogo e di lucrosi commerci per i mercanti.

Miniature con boscaioli, contadini e mercanti di grano. L’ antico “staio”, recipiente per la misura esatta dei cereali. Anche da noi i Piccolomini pretendevano l’uso del loro “copparone”, certificato col simbolo della falce di luna. L’addetto alla misura, con apposito bastone, operava la “rasatura” del grano strabordante il margine dello staio. 35 LA CASA BRUCIATA


Imbarco di cereali su navi onerarie del periodo tardo-antico e del Medioevo. La situazione rivierasca di Montemarciano, simile a quella di molte altre “fattorie” malatestiane, rese conveniente il trasporto via mare, sfruttando punti di deposito e d’approdo di fondovalle, alla foce di modesti corsi d’acqua. Appunto detti “porti”…

In realtà il porto dell’osteria-deposito detta “Casa Bruciata” era solo un approdo alla vecchia foce del Rubiano, sommariamente protetto da palizzate in legname, soluzione adottata su gran parte della costa romagnola-marchigiana.

Vecchia foto del porto-canale di Cattolica, con ancora le tipiche “palanghe” in tronchi. A destra in alto miniatura tardo-medievale di panciute imbarcazioni da carico, a vela, assai somiglianti a quella alla fonda davanti l’osteria e alle altre della mappa jesina del 1510, forse “marciliane”, economici (e poco manovrieri) mercantili veneti essenzialmente usati per i traffici con Istria, Romagna e Marche. Il fattore del Malatesti registra genericamente “barcha”o “navilio”, ma già agli inizi del ‘400, spesso, si specificava “navilio over marsiliana”, per cui è probabile che quelle di minor pescaggio fossero di casa. Sul finire del ‘700 arrivarono i più agili e robusti “trabaccoli” (32). 36 LA CASA BRUCIATA


Bastagi…Gli scaricatori di porto della Casa Bruciata, riuniti in “Compagnia” con un “capo bastagio”, vantavano, secondo Statuti di Montemarciano, vari privilegi nei confronti di facchini e barcaioli forestieri. Tuttavia conducevano vita assai grama, specie non esercitando qualche altro mestiere. Pur indispensabili, non godevano di gran considerazione presso governanti e resto degli abitanti. Poiché “…si ha che le proprietà del facchino, secondo il detto di Fracastoro, sono quattro: parlare grosso, vestire sporco, operatione incivile et atione da ruffiano…” In alto portale della cattedrale di S. Maria del Mare, Barcellona, formella raffigurante un bastagio.

Pescatori… Al pari dei bastagi (e spesso i due mestieri andavano a braccetto), nella società locale, rigorosamente suddivisa in mezzadri e possidenti (e possidenti, anzi enfiteuti, lo erano anche i pochi professionisti, i religiosi e perfino gli artigiani), costituivano dei marginali, come i braccianti o altri salariati. Gli Statuti del castello, nell’ottica rivolta esclusivamente alla qualità “agricola” del territorio, non dedicano alla pesca nemmeno una riga, anche se questa serviva a parecchi per sbarcare il lunario. Erano pochi, quindi, i fortunati che disponevano di una vera barca, armata da qualche signore del paese, con tanto di regolare accordo societario. Come, nel 1614, Andrea Tomasetti, Ottavio Forti, Giovanni Maria detto “Tinto”, Gianatonio Sistini e Bartolino Martini, che ricevevano una “cimbam piscatoriam” con tanto di rete, burchiello, quattro remi, ferro da “cappole” con relativo cavo, rete da tratta, etc., addirittura dallo stesso affittuario camerale, il fiorentino Neri Spinelli. Con l’obbligo di consegnargli, ogni sera, la sua parte del pescato in denaro, provvedere alle manutenzioni, ricoverare barca e attrezzi, rispettivamente nell’apposita “capanna” e nell’adiacente “…cascina in terra vicino a Casabrugiata…” Naturalmente lo Spinelli avrebbe fornito “…tutta la roba che ci andrà et li pescatori la fatiga…”

37 LA CASA BRUCIATA


Santa Lucia venuta dal mare...

Uno dei più famosi dipinti di Lorenzo Lotto (Venezia 1480-Loreto 1557), la “Pala di S. Lucia” (oggi nella Pinacoteca comunale di Jesi), commissionato dalla Confraternita omonima, arrivò col suo autore nel 1532, sbarcando all’osteria di Case Bruciate. Molto probabilmente, il Lotto approdò in questa località altre volte, trovando più comodo e rapido il viaggio via mare dalla costa veneta (che si poteva coprire in meno di una giornata), utilizzando una delle numerose imbarcazioni da carico dirette a prendere grano, in quello che gli Jesini consideravano da sempre, a torto o a ragione, un po’ il loro porto. La storia della pala ebbe in realtà una lunga gestazione, cominciando con la richiesta pervenuta a Bergamo l’11 settembre 1523. Il Lotto arrivò a Jesi una prima volta l’11 dicembre dello stesso anno per accettare il contratto, firmato davanti all’altare della confraternita, in S. Floriano. 250 ducati d’oro, con 50 d’anticipo e il resto a scadenze concordate. Dopo due anni, era di nuovo a Jesi, alquanto irritato, poiché aveva visto solo l’anticipo. Dunque niente pala. Nel 1525 e nel 1526 consegnava, piuttosto, le due tavolette della “Annunciazione”, ai frati conventuali di S. Floriano, e la “Vergine in trono fra santi” alla chiesa di S. Francesco al Monte, lasciando ancora a bocca asciutta la Confraternita di S. Lucia. I priori della medesima, trascorsi cinque anni dall’accordo, avrebbero voluto rivolgersi a un altro artista, il fanese Giuliani Presutti, con l’obbligo di dimorare a Jesi e lì dipingere la benedetta pala. Tuttavia, rinunciare al talento del Lotto non pareva un buon affare. Si dovette cedere alle giuste richieste del pittore: “I Jesini mandassero i denari ed avrebbero la cona di S. Lucia!” Questa giunse dal mare, a Case Bruciate, assieme all’autore nel 1532, sempre un 11 dicembre, come nel 1523 per la firma del contratto. I due giorni successivi trascorsero a Jesi, per il montaggio del pala, che il Lotto volle curare personalmente. Legatissimo alle Marche per motivi professionali, il pittore si ritirò a Loreto nel 1552, per trascorrervi gli ultimi anni di vita (Cfr. MARIO LIVIERI, “Lorenzo Lotto jesino”, Jesi 1968, pp. 73-75).

38 LA CASA BRUCIATA


SCHEDA IV

L’ osteria fortificata

L’osteria di Casa Bruciata doveva il suo aspetto fortificato ai due “torrioni” verso mare, uno solo dei quali originava da una vera torre di incerta genesi, accorpata a un ala destinata ad alloggio e deposito, insieme formanti una sorta di “casa-torre”, protetta sul fianco di levante dall’antico corso del torrente Rubiano. Quando il Rubiano venne deviato permase sempre il fossato residuo, dove scorreva l’assai più piccolo “Fosso detto delle Case Bruciate”, alimentato solo dalle acque reflue della zona (oggi curiosamente detto “Fosso Avena”, probabilmente per qualche confusione toponomastica relativamente recente; esiste, semmai, in territorio di Falconara un “Fosso della Vena”). La torre primitiva, forse trecentesca, pur ben strutturata, è un manufatto modesto, presentando un’ unica caditoia sull’ingresso sopraelevato. Era solo un presidio alla marina e al confine col territorio d’ Ancona. Il corpo di fabbrica adiacente, con varie addizioni a più riprese, si caratterizza per una “scarpatura” presente solo sul lato di ponente, non essendo necessaria quella sul lato di levante, protetto dal fosso. Dal punto di vista difensivo un complesso piuttosto limitato. Un miglioramento delle capacità in tal senso si verificò con l’aggiunta di un’ analoga struttura a ponente e la conseguente realizzazione (forse in varie fasi) di un complesso a corte chiusa, quadrangolare, con due accessi, a mare e a monte. La via che correva di fianco alla parte di levante si trasformava pertanto in un cortile rettangolare, o se vogliamo, si dislocava in situazione simile all’odierna (Via Roma). La torre nuova, di ponente, non presentava le caratteristiche strutturali della vecchia, né aveva caditoie, ma solamente “beccatelli” puramente ornamentali. Analoghe considerazioni, anche dimensionali, per il corpo laterale e il resto. Le varie aperture al piano terra (a parte i due accessi carrabili contrapposti e sbarrabili con solidi portoni) vennero realizzate quando non fu più necessario assicurare l’ermeticità dell’intera struttura. La parte tecnica di questo lavoro chiarirà in dettaglio i vari aspetti di questa evoluzione dell’osteria.

Fronte a mare e ala di levante verso Ancona. Sotto la corte, verso l’accesso a mare. Si nota la scarpa dell’ala di levante, assente sul lato del fossato (oggi non visibile), e la sua totale mancanza nell’ala “nuova” contrapposta. 39 LA CASA BRUCIATA


Due foto anteriori al terremoto del 1930. La prima ripresa dalla Statale 16, la seconda forte ingrandimento di una dalla stazione ferroviaria. E’ visibile la sopraelevazione della torre “nuova” di ponente. Oggi la copertura è all’altezza dei “beccatelli” ornamentali. Non è da escludersi che le torri, in origine, fossero di un piano più elevate. Uno stralcio del catasto del 1588 descrive, molto sommariamente, l’osteria-deposito di Casa Bruciata, che sotto i Piccolomini aveva raggiunto un configurazione assai simile all’attuale. Va però sottolineato che seguirono un consistente restauro (quasi una ricostruzione, ma non sono noti dati tecnici) nel ‘600, e un altro intervento nel XIX sec. “…un hostaria con due torri, una vecchia e l’altra nuova, con magazzeni da grano in essa, posta nel detto Territorio di Monte Marciano alla riva del mare da una banda, o vero la riva del mare Adriatico, da l’altra la Comunità d’ Ancona, il fosso di Rubiano, e da tutti gli altri lati i Beni o case del detto Ill.mo Sig.re ( all’epoca Alfonso Piccolomini), la quale s’ affitta ogn’anno con la gabella che esso Ill.mo Sig.re ha nel passo di detto luogo delle robbe che vi passano. Item la tratta di tutti i frumenti et altre sorte di mercantie che si levano dalla spiaggia del detto luogo e che in essa provengono, percioché non si puole caricare cosa alcuna nella detta spiaggia senza espressa licentia inscriptis del detto Ill. Sig.re o suoi Ministri…(33)”

Da sinistra a destra: l’unica caditoia sopra l’ingresso rialzato della torre “antica” di levante, rimasta nascosta dal loggiato; quadrotto per archibugio sulla fronte della torre “nuova” di ponente (purtroppo scomparso); la “torre antisaracena” Fregoso/Albani, tipico manufatto cinquecentesco (con caditoie e campana d’allarme) sul crinale collinare costiero, presso Montignano. In epoca napoleonica (in luogo della torcera sommitale della torre) arrivò il telegrafo ottico Chappe, in località “Capanna”, a sua volta in vista del “casino del telegrafo” di Case Bruciate. Nelle torri dell’osteria l’ambiente più alto era riservato agli armati di guardia. Inizialmente “birri” di Montemarciano, che s’occupavano pure del contrabbando, poi alcuni cavalieri (“corazze”) per la sorveglienza della strada postale e la “battitura della marina”; in seguito drappelli di cavalleria varia (pontifici, napoleonici, etc.). Nel 1823 vennero trasferiti a Fiumesino, portandovi il toponimo “Casermette”. Pure il “deputato alla sanità della spiaggia” (un consiliere di Montemarciano a capo dello scalo portuale, con incombenze di salute pubblica) disponeva di una sua milizia. 40 LA CASA BRUCIATA


Una ricostruzione ideale della Casa Bruciata (“Marche ignorate”, CITELLI, a.1963). In realtà, su altezza e aspetto delle due torri a mare si sa ben poco, ma la sopraelevazione arretrata e ristretta appare “improbabile”, dovendo risultare questa parte, oggi perduta, a filo (o quasi) con la parte inferiore, come nella riproduzione “corretta” di lato.

Fuste turche sottocosta

Pirati e soldati turchi

“Ancora tornorono li Turchi a dì 28 settembre 1485 et calorono una notte cinque fuste, doi a Casa Brugiata, e corsero a Monte Marciano sino al ponte della Rocca, e fu ucciso un turco sopra il ponte e cadde nel fosso, e delli altri feriti a morte e li portarono via sopra li asini, et menorono in preda 46 teste, la maggior parte donne, e furono morti tre Cristiani. Una fusta calò a Casa Nova e mise a sacco l’osteria e menò via doi femine… (34)”

La costa da Ancona verso Fano nel portolano del famoso ammiraglio turco Piri Reis (35). I portolani erano carte nautiche dove venivano segnalati i porti, i luoghi dove si poteva approdare, le eventuali minacce provenienti anche dalla presenza di centri fortificati interni. La località sulla costa a levante di Senigallia (contrassegnata dall’asterisco) potrebbe indicare la rocca di Fiumesino accosta alla foce dell’Esino. Ma anche riferisi alla Casa Brugiata o, meglio, a Montemarciano, o alla torre antisaracena di Montignano,visto che la simbolica fortificazione è posizionata su un’altura. Come pure il corso d’acqua potrebbe essere il Rubiano, alla cui foce (a differenza dell’Esino) si poteva approdare. 41 LA CASA BRUCIATA


L’osteria dunque rimase, fino alla prima metà del XIX secolo, esposta a qualsiasi minaccia proveniente dal mare o dalla strada litoranea. La tensione, specie notturna, era spesso tale, che gli armati di guardia a volte si rifiutavano di aprire perfino ai militari pontifici. Come accadde, nel 1597, a un uficiale e ai suoi uomini, arrivati da Jesi su ordine del governatore provinciale. Il capoposto rispose a male parole alle credenziali esibitegli, affermando che “…se venisse il papa non gli voleva aprire…”, e mettendosi pure”… a suonare la campana all’armi…” Non era la norma, ovviamente, perché in genere i “rinforzi” venivano accolti come una benedizione (anche se poi qualche oste finiva sul lastrico, poiché le autorità tardavano a saldargli il conto dello squadrone o della compagnia, che gli aveva svuotato dispensa e cantina -36). Ma valgono meglio di tutto le parole con cui un cronista jesino descrisse la paura e l’esaltazione che colpiva la popolazione, quando la minaccia, reale o presunta, incombeva soprattutto dal mare, soprattutto dal Turco. Allora era un accorrere frenetico di armati, dall’interno alla marina, per parare un eventuale sbarco in forze dell’odiato nemico. “Et oggi che semo adì 29 detto (anno 1620), questa notte la guardia ha fatto ceno con il focho, che a la marina dicesi che vi è gran quantità di vascelli turcheschi. Et la nostra torre qui in Jesi, ha sonato tutta notte alarme, et apiciar fochi a li gabioni. Che certo tutta la Città è levata in arme, et monsignor Baglione, nostro governatore, è partito doi ore avanti giorno con molti cavalli alla volta della marina. Et la città li vecchi sonno rimasti in guardia, essendo marciati tutta la soldatesca, racomandata al capitan Licinio Manutij che si faccia le guardie alle porte, perché sonno mosse tutte le bataglie e cavalleria della Marca. Il Signore ci aiuti e ce liberi da questi cani, nemici della Fede Cristiana! Et oggi che semo adì 30 sono arivati qui in Jesi una compagnia de cavalli da Fabriano, da 50 cavalli, certo son bella gente, et vanno alla marina. La soldatesca nostra sono ritornata tutta, et per gratia del Signore non si sa altro. Solo se dice che abbia brusiata la città di Manfredonia in segnio. Et le guardie se continua…(37)” Se scorrerie turche in grande stile, fortunatamente, non se ne verificarono sulle nostre coste, si ebbero però costanti incursioni piratesche, portate con singoli o pochi legni per volta, allo scopo di far bottino. O catturando navi da carico, o barche di pescatori, o con qualche rapidissima calata a terra. Tra le pratiche più diffuse c’era era quella di sorprendere i pescatori quando uscivano in mare o rientravano. Allora se ne “beccavano” molti, con un forte guadagno. O si vendevano al mercato degli schiavi in qualche porto dell’altra sponda, o si ottenevano fior di quattrini, chiedendo il riscatto. In genere le trattative andavano per le lunghe (occorreva racimolare i soldi, trovare i mediatori, etc.), e, spesso, i poveretti, se ritornavano a casa, vi ritornavano dopo mesi o anni. Responsabili di tali colpi erano o Turchi, o Algerini, ma anche Uschocchi convertiti, o transadriatici di Dulcigno, etc. A volte avevano il “basista”, cioè il complice a terra, o il cristiano rinnegato imbarcato. Come uno di Sirolo, certo Domenico Pampanone, che, catturato, fu impiccato e poi squartato al prato della Maddalena di Senigallia nel 1716. L’ultima incursione, di 5 legni algerini, si ebbe nel 1815 ai danni di 17 paranze di Senigallia: bottino ben 86 pescatori. Ma ai pirati poteva anche andar molto male e, allora, la rabbia dei rivieraschi diventava incontenibile (38). Il 6 maggio 1585, una fusta barbaresca sorprende due barche di pescatori, appena uscite dal porto di Senigallia. Gli equipaggi sono fatto prigionieri, mentre i parenti delle vittime e molti altri, assistito all’assalto da terra, corrono disperati lungo la riva, invocando i nomi dei disgraziati. Ma per loro non pare ci sia più niente da fare. La fusta si allontana velocemente con l’intenzione di prendere il largo. Sfortuna per i pirati, la scena è stata vista da una galea da guerra veneziana, che sta incrociando in zona. A forza di remi, la galea si pone in caccia, apprestandosi a tagliare la rotta della fusta. E’ come uno squalo grosso che s’avventi su quello più piccolo. Resisi conto del pericolo, i pirati si portano sottocosta, in direzione Casa Bruciata, fidando sulla maggior agiltà e sul minor pescaggio del loro legno, con l’intenzione poi di filare al largo, una volta seminata la più grossa e pesante galea. Ma i Veneziani, comandati abilmente, non si lasciano sorprendere e, aumentando forsennatamente il ritmo di voga, si pongono in breve di fianco alla fusta, stringendola sempre più contro riva. Il terrore comincia ad impadronirsi dell’equipaggio barbaresco. Non resta altra alternativa, che sbarcare a terra, tentando la fuga verso la collina. Una risoluzione fatale. Infatti, ormai sulle alture, a seguire la drammatica scena, s’è radunata una massa di gente urlante: quelli di Senigallia, quelli di Montignano, e quanti lungo la costa si sono accorti dell’accaduto, terrazzani, contadini, pescatori, militi e bastagi. Tutti agitano armi, zappe, forconi, roncole o bastoni e sassi, all’indirizzo dei pirati scesi a terra. In breve è una spaventosa caccia all’uomo. Mentre tutti i pescatori fatti prigionieri vengono liberati, non uno dei pirati riesce a sfuggire ai rivieraschi inferociti. Massacrati senza pietà dal primo all’ultimo.

Modello in legno di galea veneta da guerra 42 LA CASA BRUCIATA


La Posta-cavalli di Casa Bruciata

“Casa brusata” o “Case Brugiate”, una presenza costante nella cartografia. A sinistra ORTELIO, “Marcha Anconae olimm Picenum” del 1572. A destra A. ZATTI, “La Marca d’ Ancona. Nuova proiezione”, Venezia 1783.

L’osteria di Casa Bruciata, s’è pur detto, non era una semplice taverna-albergo, come se ne trovavano in abbondanza lungo le strade o nei borghi, nei castelli e nelle città. Già il fatto di disporre di depositi per cereali, “salara” e altro, con un approdo antistante apposito, e che fosse luogo di dazio o di gabella, sia che le merci prendessero la via marittima, sia che transitassero semplicemente sulla strada litoranea o interna, con tanto di posto di guardia, la rendeva un luogo “sensibile” per l’economia del posto. L’oste della Casa Bruciata (che rinnovava il suo affitto annualmente) era pertanto un personaggio importante, da che se ne ha notizia, non certo un comunissimo taverniere, come poteva essere quello della vicina osteria di “Casa Nova”, sotto Montignano. E naenche come quello dell’osteria del castello, che pagava d’affitto la metà circa di quanto si versava per la Casa Bruciata. In effetti poteva essere definito quasi un erede del “mansionarius” governativo dell’antico luogo di sosta romano di “Ad Sestias”, non fosse altro che per dover rispondere del proprio variegato operato al signore di Montemarciano e poi alla Camera Apostolica o a i loro “Affittuarji” o sovrastanti. A dispetto del fatto che in molti atti notarili ancora stesi in latino (o in qualcosa che gli somigliava) gli si appioppasse l’appellativo non troppo lusinghiero di “caupone” (“caupo – cauponis”, vale a dire gestore della “caupona”, cioè la taverna, l’osteria comune, luogo solitamente tutt’altro che raccomandabile…). Insomma, “oste” lo era di sicuro anche lui, dovendo fare pure il taverniere e il locandiere, ma in una ideale graduatoria stava sicuramente al gradino più alto. A questa “ingiustizia” lessicale però si sarebbe messo riparo ben presto, con la più altisonante qualifica di “mastro di posta”. Bisognava solo attendere che lo Stato pontificio istituzionalizzasse il servizio postale: po-

sta-lettere e posta-cavalli, cioè che si riprendesse a fare quello che avevano fatto, a loro tempo, i Romani. Almeno ufficialmente, poiché di fatto, messaggi, messaggeri, pellegrini o viaggiatori avevano avuto sempre la bella pretesa di partire ed arrivare, magari anche mangiare e dormire o trovare animali e mezzi di trasporto lungo la via. L’osteria di Casa Bruciata (come la sua antenata) era sempre al posto giusto, distante il giusto per la tappa tra due città quali Senigallia ed Ancona, in una viabilità essenziale che era sempre quella (considerate le debiti, modestissime varianti), ad uno snodo altrettanto importante, per giunta con gente che partiva o veniva via mare. Tanto bastava perché un luogo, altrimenti insignificante, praticamente disabitato (a parte l’osteria con i suoi dipendenti, pochissimi pescatori e contadini…), finisse per essere annotato sulle approssimative carte geografiche del tempo e sulle primissime “guide” a stampa, che cominciavano a circolare. Già nel ‘500. Nel ‘600 poi, quando la Posta di Casa Bruciata era ormai nel novero delle stazioni ufficiali, chi veniva dalla litoranea diretto all’interno e passava in carrozza a Gabella, prendendo la “brecciata” per Jesi, diceva che faceva la “strada consolare per Roma”, anche se poi doveva affrontare l’orrido percorso della Gola della Rossa. E anche se una formidabile concorrente s’era rivelata la “via Lauretana”, che da Ancona (specie dopo il “porto franco”), passando per Loreto (col suo frequentatissimo santuario), Macerata e affrontando l’Appennino sul passo di Colfiorito, Foligno, Spoleto, Terni, Narni, Civita Castellana, giungeva all’Urbe, usurpando un po’ il nome antico di via Flaminia… La vera Flaminia romana, attraverso il Furlo, portava a Rimini-Fano. Ma alla fine erano diventati Flaminia anche i diverticoli delle vallate marchigiane dall’Esino a nord e pure la via litoranea da Fano ad Anco43

LA CASA BRUCIATA


na (tanto che il toponimo di “Via Flaminia” ancora persiste lungo la statale adriatica). Nell’antico Stato pontificio ( XIV-XVII sec.) tra le strade più importanti s’annoverano: quella che congiungeva Roma- Firenze-Bologna; il percorso Bologna-Ancona e, considerando il grande flusso di pellegrini per uno dei più famosi santuari della Cristianità, la via Roma-Loreto, che però non trascurava Ancona, al cui porto molti di questi pellegrini pervenivano, per poi proseguire. Inoltre, costituendo le Marche il granaio dello Stato, la Lauretana era anche quella col principale movimento di cereali verso l’Urbe. A Montemarciano il grano, come abbiamo visto, prendeva soprattutto la via del mare (39). Però sulla via Bologna- Ancona, Casa Bruciata costituiva sempre un passaggio obbligato, specie dopo la

Il “pedone”, portalettere a piedi

costruzione del ponte su Fiumesino nel 1578 (lo stesso su cui transitarono i cannoni d’Ancona per far arrendere quell’anno la rocca di Montemarciano), sulla cosiddetta “strada del miglio” (la distanza tra l’osteria e l’Esino). E gia nel 1562, la nostra località, compariva nella prima guida postale a stampa reperibile in Italia (che anzi risultava la ristampa di un’edizione non meglio specificata), dall’altisonante titolo “Le Poste necessarie a Corrieri, per l’Italia, Francia, Spagna, & Alemagna…”, edita in Brescia da Damiano Turlino, su istanza di Gio: Battista Bozola, e con tanto di dedica al “foriere generale” di Pio IV, il bresciano Geronimo Gambaro, e al Concilio Tridentino (40). Segno indiscusso della sua importanza.

La prima guida postale italiana

Sulla nascita di un regolare servizio postale (Posta-lettere, cioè la trasmissione di dispacci o corrispondenza) il discorso appare piuttosto complesso. La pratica, prima svolta con approssimazione, cominciò a diffondersi dopo la pace di Lodi del 1454, praticamente con l’affermarsi del Rinascimento. Al latore a cavallo (appunto “corriere”), ancora più spesso, si associava quello a piedi (o “pedone” o “cursore”), ma, ben presto, da parte dei principali governanti, si pretese una maggiore efficienza, con corrieri in grado di cambiare rapidamente cavalcatura o di trovare un sostituto fresco a distanze regolari. Queste tappe o luoghi di cambio vennero definite “poste”. Non s’inventava niente, ma il successo del sistema fu tale, che tutti i governi vi si adeguarono rapidamente. Lo Stato pontificio non fece eccezione, con staffette a cavallo che partivano in giorni determinati, facendo arrivare la corrispondenza in tempi rapidi e “certi”. Nelle principali città ci si organizzò egualmente, delegando la cura del servizio a un responsabile presto noto come “mastro di posta”, A Bologna, ad es., il primo mastro di posta venne nominato nel 1513. Costui era in effetti un mastro di posta, ma “generale”, al massimo gradino della scala, poiché, provvedeva a delegare ad osti o tavernieri, con l’affitto, l’organizzazione e gestione della tappa o posta. Poi il termine “mastro” finirà per qualificare anche questi

“Corriere” del XVII secolo

personaggi. Soprattutto inizialmente, costoro erano liberi, entro certi limiti, di regolarsi come meglio credevano, e ciò comportava disparità su tariffe e franchige varie. Si cercò quindi di regolamentare meglio la questione. Ora per la Casa Bruciata non sappiamo niente di questa attività, finché il luogo rimase un vicariato ecclesiastico dei Piccolomini. Il fatto però che la località fosse inserita nella guida bresciana del 1562 sta a dimostrare che in qualche modo ci si era organizzati, tenendo nell’opportuno conto quelle che erano le disposizioni governative. Ad es. papa Giulio III, nel 1551, decise la liberalizzazione del servizio pubblico, poiché non c’era verso di impedire ai corrieri di prendersi anche la corrispondenza privata, con congruo guadagno. Un impulso considerevole al miglioramento del servizio lo portò il Concilio di Trento. La necessità di un’ intensa e regolare comunicazione tra L’Urbe e i delegati tridentini condusse ad una vera e propria ristrutturazione. Il “mastro generale delle poste pontificie “dovette redistribuire ogni cosa (corrieri, stazioni di cambio, numero e qualità delle cavalcature, etc.), garantendo la regolarità del servizio, cosicché doveva assicurare, tanto per dire, il recapito da Roma a Bologna, per quattro giorni d’estate e cinque d’inverno. E a proprie spese, riscuotendo dal mittente o dal destinatario un “carlino” per oncia di peso della corrispondenza. In pratica si privatizzava il 44

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servizio, poiché il mastro generale pagava un canone fisso alla Curia. Sulla tratta più importante, Roma-Bologna, il servizio era settimanale. Sul resto dello Stato bisettimanale e, cosa rilevante, non era ad uso esclusivo della Curia, ma anche dei privati. L’altro passo fondamentale lo fece Paolo IV, che nel 1556 decretò la chiusura nel territorio dello Stato di tutti i servizi di posta gestiti da governi stranieri. Cosa che suscitò non poche proteste, specie da pare dei Veneziani. Non fu un’evoluzione facile. La fine delle guerre in Italia dopo la metà del ‘500, vide esplodere il fenomeno del banditismo, che rese le strade insicure al massimo grado (e qui basti ricordare come uno dei principali rappresentanti del ribellismo allo Stato pontificio fosse, sullo scorcio del secolo, proprio il signore di Montemarciano, Alfonso Piccolomini). Purtuttavia, nel 1575, Gregorio XIII ordinava al governatore della Marca di sistemare le principali vie, specie sull’Appennino, “…di modo che, incontrandosi le carrozze, non urtano insieme, né si offendono…” Poi, nel 1586, Sisto V fece istituire sulla via Lauretana un regolare servizio di posta tra Roma, Ancona e Bologna. La stessa posta di Sua Santità doveva essere spedita con un”procaccio” per la via di Loreto-Ancona a Bologna, e lo stesso doveva avvenire da Bologna per Roma. Il “procaccio”, cioè legno postale con postiglioni armati, si presume godesse anche di buona scorta, perché, altrimenti, la disposizione che dovesse anche “…fare compagnia ai viandanti che fanno quel viaggio, e così potranno sentirsi più sicuri…” sarebbe suonata quasi una presa in giro, tanti erano i banditi e i briganti da strada che infestavano il percorso (41). E fu proprio per la ripresa forsennata dell’attivita di bandito da parte d’Alfonso Piccolomini, che, il 3 settembre 1590, si presentò dalle nostre parti “…moltitudine

di gente armata, a piedi et a cavallo, con fanteria et altri istromenti di guerra…” con l’ordine di “…passare al luoco di Monte Marciano, et all’ostaria di Casa Brusiata, et presidiare l’uno e l’altro di detti luochi…” Da quel momento le milizie papali non lasciarono più il territorio, che nel 1591 passò alla Camera Apostolica. Immediatamente ci fu un primo intervento all’osteria (altri analoghi a castello). Non era economicamente impegnativo, ma di sicuro di grande impatto mediatico. Vennero eliminati tutti gli stemmi che ricordavano i Piccolomini. In particolare, si scalpellò accuratamente quello in pietra sovrastante il vecchio accesso sopraelvato all’antica casa torre, rimasto ora interno al loggiato. E’ ancora ben visibile ( vedi foto alle pagine precedenti). Insorse però un problema “diplomatico”. Sulla facciata dell’ala di levante, quella sul Rubiano e che guardava verso Ancona, campeggiava un grosso dipinto con l’arme della Casa reale spagnola, con cui i Piccolomini erano “apparentati” già nel ‘400. Si fregiavano, infatti, anche del nome di Aragona-Castiglia. Il commissario pontificio Massimiliano Nerotti, temendo l’incidente con gli Spagnoli (Filippo II regnava sulla massima potenza del tempo), reputò saggio chiedere lumi a Roma. Ma qui erano stanchi delle prepotenze della Spagna, e, del resto, Alfonso Piccolomini aveva anche brigato con l’ambasciatore Olivarez, nell’ultimo periodo della sua carriera di bandito. Via anche quello. Poi ci fu subito il breve intermezzo del nipote di papa Gregorio XIV, Ercole Sfondrati, ma, morto inopinatamente l’augusto parente, Montemarciano (che per lui era stato elevato a “nobile et perpetuo Ducato”) e la Casa Bruciata ritornarono definitivamente, nel 1593, nelle disponibilità dirette dello Stato pontificio (42).

Il passaggio non fu indolore e ci volle un po’ affinché i riottosi sudditi del Piccolomini, che, senza dubbio, si sarebbero accontentati del duca Ercole, si convincessero ad accettare la nuova situazione di appartenenza alla legazione della Marca, anzi, per “devoluzione diretta” allo Stato, alla Camera Apostolica, sua mano amministrativo-economica. Non era colpa loro (banditismo a parte… però avevano solo seguito il loro signore…), poiché, con il cosiddetto “affitto”, s’accorsero ben presto in che mani potevano capitare. Concessione enfiteutiche, su case e terreni in discussione, uso disinvolto del “braccio reggio camerale” (cioè gli sbirri) e della galera per i debitori, e pure multe e tratti di corda a chi s’azzardava anche solo ad andare a caccia o magari a coglier funghi nella “Selva di Rubiano”, a cavallo del torrente tra Marinalta e Palombara. La chiamavano ancora “selva”, ma in realtà gli “Affittuarji” (Arsilli di Senigallia e soci, nel caso specifico), l’avevano completamente disboscata per ridurla a grano (da vendere fuori naturalmente), ed ora, per timore che la poca legna rimasta, bastevole sì e no a lor signori, venisse raccolta dai Montemarcianesi (che non ne trovavano nemmeno per cucinare) fosse sottratta alla “azienda”, avevano preteso che si applicasse pure il divieto di caccia, invocando danni ai seminati. Tanto che cacciavano a fare, visto che il Paese era ormai “domestico” e privo di boscaglia? Già, ce l’avevano ridotto loro… Questo spiega perché la gente guardasse con sospetto e malanimo pure i funzionari pubblici, dal podestà o pretore o governatore politico, al governatore economico, dal cancelliere, agli sbirri (tutti scelti dagli “Affittuarji, con l’approvazione formale della Camera) e, ohimé, di tanto in tanto, pure l’oste di Casa Bruciata, che finendo per divenire anche “mastro di posta”, era pur sempre un pubblico ufficiale, e in quanto tale non s’attirava molte simpatie…(43)

Nei “Capitoli dell’affitto” la Camera Apostolica, pur lasciando ampia libertà, esigeva che, come per tutti gli altri beni immobili (forno, macello, mole, casamenti, etc.), l’osteria di Casa Bruciata, con le sue pertinenze, dovesse ricevere le manutenzioni necessarie, venendo rimessa alla fine del mandato nel medesimo stato in cui era stata consegnata (semmai “piuttosto meliorata”). In genere si richiedeva una spesa globale sugli immobili di 60 scudi annui per le manutenzioni ordinarie. In caso di danni, per cause naturali, belliche, etc. si sarebbe discussa la cosa. Il sale, elemento “strategico, doveva essere preso dalle

saline di Cervia e venduto esclusivamente in loco (44). L’oste di Casa Bruciata pagava l’affitto annualmente, ma gli “Affittuarji” potevano concludere contratti più a lungo termine. Nel 1608, il mercante fiorentino Paradiso Zati, che, oltre ad essere l’affittuario di Montemarciano, operava soprattutto in Ancona, affidava l’osteria, magazzini del grano e il terreno attorno di spettanza (compresa la pulizia dei fossi per evitare allagamenti ai depositi), a Francesco di Giovanni d’Antonio d’Ancona per cinque anni, a 160 scudi annui (45). Un flusso ininterrotto di cerali prendeva la via di Casa Bruciata e, “barca alla vela”, par45

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tiva per la destinazione degli acquirenti. In tutto ciò l’oste aveva solo la responsabilità del magazziniere, ma questo non toglie che la cosa gli complicasse la vita. La popolazione, che vedeva il grano prodotto in abbondanza nel territorio, spesso ne rimaneva carente, con gravi sofferenze, relativi mugugni e oltre. Al punto che governanti e loro sottoposti avevano il diritto di girare armati per tutelare la pelle. Gli “Affittuarji” tenevano il paese per dodici-nove anni, avendo tutto il tempo per farsi odiare, soprattutto il “governatore economico” per la Camera Apostolica, che, quando l’affitto passò direttamente agli appaltatori delle tasse della Regione (i “Tesorieri della Marca”), venne considerato dai Montemarcianesi per quel che era: “… un esattore del Tesoriere della Marca, che è la maggiore delle nostre croci… (46)” Bastava andar a spasso con una macilenta vacca, due pecore o un sacco di grano, per venire considerati sospetti di frode fiscale. Sequestro, multa, galera, spesso previa feroce bastonatura. Specie se s’incappava nella famigerata “…squadra delle fraudi che gira a cavallo per conto de li Signori Thesorieri della Marca.” Naturale che qualcuno accusasse l’oste d’aver fatto la spia, per via dell’incarico “occhiuto” di cui era investito nella sua posizione strategica. E le incombenze aumentavano. Nel 1611 l’oste Giovanni Lotti riceveva dal “Mastro Generale delle Poste” dello Stato della Chiesa, l’ordine di prendere le missive dirette da Montemarciano per Macerata, “…per la via d’Ancona a Casa Brusciata per antica posta ordinaria”. Anche i centri più piccoli cominciavano a godere di un servizio che a noi oggi pare ovvio. Addirittura con un collegamento per due volte la settimana. Si dovette pertanto assumere “il postiglione di Monte Marciano”. Allora era un tal Francesco Riciani, che poteva viaggiare a cavallo, comunque mai senza armi. Se poi, per prendere la coincidenza con il corriere, si doveva muovere di notte, serviva l’aiutante, persona di fiducia e armata. E guai a non esser scrupolosi…il postiglione era obbligato a rimanere all’osteria di posta fino a quando non vedeva partire, al trotto o al galoppo,“la staffetta”. “… Et in caso di negligenza, o retardamento ne darà subito ragguaglio a monsignor Tesoriere o al detto sig.r Mastro delle Poste di Nostro Signore, acciò che al delinquente se dia il dovuto castigo (47).” Il mestiere non era cioè scevro di rischi. C’era pure il contrabbando della corrispondenza (era ormai obbligatorio usare il servizio ufficiale), il malcontento dei viaggiatori con la posta-cavalli, i soliti rompiscatole di passaggio, gli ubriaconi abituali…e allora poteva toccare all’oste! Figlio d’arte, Carlo Lotti subentrava al padre Giovanni (l’unico che nei notarili in latino osi farsi definire addirittura “magister castri Casae Abrusiatae”!) nell’ambìto mestiere di oste-mastro di posta della Casa Bruciata. Certi ed incerti compresi. Solo nel 1625 ebbe a subire due gravi attentati. Nel primo quasi gli spaccarono la testa a bastonate, mentre era intento a un rilassante pisolino, sdraiato sulle scale dell’osteria. Sanguinò abbondantemente, ma non ebbe permanenti conseguenze. Stava già molto meglio quando un rissoso soldato di passaggio gli tirava “… un’archibusiata”, che lo mancò per miracolo, sbriciolando un pezzo di “muraglia”. Anche se tutto s’era ridotto a un fragoroso “chioppo”, l’attentato ad un mastro di posta venne reputato fatto gravissimo, tale da far ordinare

una caccia serrata al tentato omicida (48). Ne andava del buon nome del servizio, poiché al mastro di posta competeva “…mettere a cavallo, et alloggiare tutti li corrieri ordinari, o altri che passaranno per la posta, et anco il jus di dispensare lettere…” Per cui l’osteria di posta doveva essere sempre in piena efficienza, il che comportava anche l’obbligo “…di tenere sufficiente numero de cavalli…” Occorreva disporre di polso fermo, specie coi dipendenti, adattabilità per far fronte agli imprevisti, onestà (nei limiti del possibile) verso i viaggiatori, disponibilità finanziaria o di credito, e…autorità. Doti che si cercava di rafforzare, concedendo “…tutti li privilegi, et essentioni, immunità, et altre prerogative…che hanno e godono tutti gli altri postieri dello Stato ecclesiastico..(49)” A volte si poteva finir male e senza averne colpa. Nel 1643, ad es., l’osteria era gestita in società da Francesco Morichini e Giovanni Antonio Santi. Dovettero alloggiare per un mese uno squadrone di cavalleria di Jesi, deputato dal “Mastro di Campo della Marca” a pattugliare “…la solita spiaggia della marina.” Nessuno intervenne a saldare il salatissimo conto (350 scudi). Costretti a cedere osteria, masserizie, etc., per quietare appena gli inviperiti fornitori, malgrado le suppliche alla Sacra Consulta, onde evitare la galera per debiti, si diedero “fuggitivi dalla Corte” per almeno due anni (50). Più che il Turco poterono i nostri… L’affermazione potrebbe sembrare azzardata, ma, in verità, i maggiori danni alla Casa Bruciata, dopo l’assalto del 1485, derivarono proprio dai militari di Sua Santità. Non solo gli osti erano posti a pericolo, ma persino le mura stesse. L’osteria si prestava magnificamente al casermaggio delle truppe in transito, a patto di darsi una limitata. Così non fu durante una delle fasi della Guerra dei Trent’anni. Urbano VIII ordina nel 1623 il trasferimento di milizie in Valtellina,e, come consuetudine del tempo, alla logistica debbono concorrere gli abitanti dei territori attraversati: vitto, alloggio, bestiame da soma, da sella e da carne. Peggio del passaggio di una moltitudine di fameliche cavallette. Si continua sino al ’25 e, alla fine, l’osteria è “…ridotta inabitabile, in modo che in parte minaccia ruina…” E’ l’affittuario stesso di Montemarciano, Pietro Falconieri (che non vuole sobbarcarsi lui le spese), che avverte la Camera dell’urgenza degli interventi. Si dà pertanto il via a dei restauri radicali, su cui non si hanno purtroppo notizie, ma che potrebbero aver condotto ad ampliamenti e, forse, anche a sopraelevazione. Una simile ipotesi, in assenza di documenti, è, ovviamente, tutta da verificare. Un “ristretto” (cioè un’elencazione sommaria degli ambienti dell’osteria, non datata, forse del XVIIIXIX secolo) parrebbe avvalorarla. “Casa ad uso d’osteria e Posta detta delle Case Brugiate, fuori di detta Terra (il castello di Montemarciano), consistente come in appresso. Al pianterreno un portico, cortile, forno, tre granai, cinque magazzini, rimessa, stalla e cantina. Al primo piano dodici stanze, due portici et una loggia. Di sopra (s’intendono solo le due torri o altro?) tre granari, uno stanziolino e due stanzoni che si dice servire per li soldati in occasione di bisogno (51).” Pur raccomandando che le spese del restauro (anzi quasi un rifacimento) fossero mantenute le più basse possibili, la Camera non volle trascurare il benessere spirituale di viaggiatori ed avventori locali, pretendendo che si rifa46

LA CASA BRUCIATA


cesse anche la “chiesola”, che stava davanti all’osteria, di là dalla carreggiata della strada postale litoranea. Una notizia interessante, poiché non esistono documenti precedenti che citino l’edificio di culto. L’ordine era che la nuova, eretta nel medesimo punto, proprio davanti alle due torri a mare, fosse un po’ più grande “…per comodità di forestieri e paesani…” (vedi mappa alle pagine seguenti), e ciò sembra testimoniare che l’osteria di posta era piuttosto frequentata. La chiesetta venne inaugurata il 30 giugno del 1626 (tempi di costruzione che ai giorni nostri sarebbero impossibili…) e dedicata a S. Carlo Borromeo dal pievano di Montemarciano, il senigalliese don Gerolamo Bianchi (52). In contemporanea, e comunque nel medesimo anno, anche l’osteria doveva essere a posto, tanto che nuovi transiti “…d’infanteria et di cavalleria per costà, per la volta del paese della Valtellina…” non procurarono danni, se non, come abbiamo detto, alle tasche degli osti. Nel 1644 si resse l’impatto di ben 500 Francesi (che si distribuirono anche nelle poche case circostanti), diretti a Bologna al servizio del papa (53). Piuttosto si stava, già da tempo, verificando una delicata situazione ambientale, che riguardava non tanto il ruolo di stazione di posta dell’osteria (semmai a dar pensieri continui era la “strada postale”), quanto quello di deposito portuale. Il torrente Rubiano lo si era dovuto deviare nel tratto finale, mentre l’attracco per le barche, “il caricatojo de’ grani della Camera” (come invalse l’uso di definirlo) si sarebbe allontanato sempre più dai depositi dell’osteria, per un aumento considerevole dell’ampiezza della spiaggia, come meglio specificheremo in apposita scheda. Un ultimo danneggiamento di cui si ha notizia l’osteria di posta lo subi-

rà nel 1815, non tanto, sembra, all’opera in muratura, quanto agli infissi. Il 30 marzo, il cognato di Napoleone e re di Napoli, Gioacchino Murat, aveva tentato la carta dell’indipendenza italiana, lanciando il famoso “proclama di Rimini”. Il 2 maggio veniva sconfitto nei pressi di Tolentino. L’esercito austroungarico, al suo tallonamento, era passato per Montemarciano, sostando diversi giorni a bivacco prima dello scontro decisivo. Gli Austriaci rastrellarono tutto quello che poterono, compreso il “caldarone” dell’ospedale di Montemarciano. Servì, nel suo piccolo, a rafforzare la sussistenza alle Case Bruciate. Qui il grosso “…fece campo e si trattenne alquanti giorni, e rovinò et abbrugiò quasi tutte le porte, finestre (dell’osteria), ma anche i quattro quinti del legname trasportato dal Garulli (l’imprenditore che doveva erigere un nuovo ponte sul Rubiano ) per servigio del ponte…” Quasi 300 scudi in “…tavoloni, travi e travicelli…”andati in fumo (54). Sarà stato per spirito patriottico, che gli ultimi mastri di posta a Case Bruciate, i Cancellieri, finirono nel 1860 in combutta coi “precettati politici” Pacifico Andreanelli e Francesco Berardi. All’osteria ormai si spargevano “… notizie allarmanti sul prossimo arrivo dei Piemontesi…” e, dopo abbondanti brindisi, “…i compromessi…” avevano pure la faccia tosta di far corteo fino a Cassiano, “… esultando e cantando…” strofe proibite! E tuttavia, fino all’arrivo della ferrovia Rimini – Ancona (anni ’60 dell’Ottocento), che ne decretò la fine, l’osteria di posta-cavalli non ebbe mai seriamente intaccata la propria consolidata reputazione. Finché funzionò, per dirla col canonico Vincenzo Trusiani, storico di Montemarciano della fine del XVIII secolo, si tenne la fama di essere “…una delle più rinomate…” del litorale adriatico (55).

Una locanda di posta piutosto confortevole del XVIII secolo. Si serve pure il “caffè alla turca”… 47 LA CASA BRUCIATA


SCHEDA V

Flaminia “adriatica” e Flaminia “lauretana”

1702, le due principali vie postali che collegavano Roma alla costa adriatica dal comune snodo di Foligno. Sulla sinistra, la vera Flaminia per Fano, sulla destra la “Flaminia lauretana”, che collegava Loreto e terminava in Ancona. Tra Fano ed Ancona la “Flaminia adriatica”, con la Posta di “Case Brugiate”. L’edificio della foto è la Posta di Valcimarra, in comune di Caldarola. Sotto le poste della Via Lauretana e quelle tra Bologna e Ancona (XIX sec.).

In questa edizione la cartina riporta l’evidente errore della Posta di Case Bruciate a levante di Fiumesino. 48 LA CASA BRUCIATA


SCHEDA VI

Carrozze, diligenze, corriere, velociferi…migliorie sì, ma relative…

Carrozza della metà del XVI secolo.

Grande trasporto veloce della metà del XIX secolo. Simile alla diligenza (solitamente con 4 cavalli), era dotato di un maggior numero di cavalli e, vantando tempi di percorrenza minori, era detto pure “velocifero” o, se trasportava anche corrispondenza, “corriere postale”. Le principali migliorie di questi mezzi, fino all’avvento del motore a vapore e dunque del treno, riguardarono le sospensioni. Ancora alla metà del ‘400 ci si affidava a una sorta di carro chiuso poggiato direttamente sull’asse, che trasmetteva brutalmente ai disgraziati passeggeri qualsiasi vibrazione e scossone provocato dal fondo stradale. Si stava però affermando nelle pianure ungheresi un sistema di sospensione, con catene metalliche e cinghie di cuoio, che attenuava il problema, tenendo separato il vano passeggeri dalle ruote. Dal nome della città di Kocs si ebbe il “cocchio”. In Italia, soprattutto nel Ferrarese, si svilupparono, dal’500 in poi, delle sospensioni metalliche, a molle, che, tuttavia, stentarono a dare risultati decenti per via degli impossibili fondi stradali del tempo. I passeggeri rimbalzavano come pupazzi! Solo col miglioramento delle strade, specie delle vie postali, e, alla metà del ‘700, della metallurgia con l’acciaio elestico e, dunque, la diffusione di sistemi ammortizzanti basati su ottime balestre, gli inconvenienti si attenuarono considerevolmente. Ciò non toglie che un viaggio in diligenza fosse sempre una rude esperienza. 49 LA CASA BRUCIATA


La Clementina alla Gola della Rossa

La Flaminia al Passo del Furlo nel 1870…percorsi da brividi.

Diligenza della seconda metà del XIX secolo.

Il posto dei conducenti era piuttosto alto e scoperto per un miglior controllo del tiro (solitamente 4 cavalli) e della strada. Per affrontare tracciati come quelli sopra, specie col cattivo tempo, occorrevano postiglioni molto esperti e dai nervi d’acciaio. Non era infrequente, in caso di salite o tratti molto accidentati, che i passeggeri venissero invitati a scendere. Per non sfiancare i cavalli ed evitare eccessivi ritardi, il cambio era indispensabile e la frequenza dipendeva molto dal tipo di strada. Su quella postale litoranea Flaminia, il problema maggiore era rappresentato dai numerosi fiumi, torrenti e fossi, che, specialmente verso la foce, s’impantanavano, esondavano o minacciavano i ponti. Il Rubiano era tra quelli più pericolosi. Il 14 aprile del 1809, sul far della sera, un’ onda di piena spazzava via il ponte, obbligando il mastro di posta di Case Bruciate a mandare d’urgenza, con il cavallo da sella, un postiglione in Ancona, per bloccare il corriere che doveva transitare per Bologna di lì a poco. Anche la Clementina, malgrado fosse stata creata solo a partire dal 1730, dava sempre dei problemi, tra Esino e Vallato. Il tratto Rocca Priora-Chiaravalle, ad es., era sempre a rischio smottamento. Quello appenninico, tra massi pericolanti, frane, bufere di pioggia o di neve, … allucinante (56). 50 LA CASA BRUCIATA


Finalmente! L’arrivo della corriera al classico “Hotel de la Poste”. Un sollievo per uomini e bestie.

A sinistra disegno del nuovo “velocifero”adottato nel 1848 dalle Poste pontificie per il trasporto rapido della corrispondenza. A destra trasporto viaggiatori, tipo “omnibus” o “break” chiuso. In genere forniva il collegamento tra i centri interni e la posta-cavalli sulla strada postale (e poi la stazione ferroviaria). Anche Montemarciano istituì un servizio simile per Case Bruciate. La partenza era preannunciata al suono di una campanella. Sotto uno di questi esemplari fotografato nel tardo Ottocento su una strada della Romagna.

51 LA CASA BRUCIATA


SCHEDA VII

Avvisi ai signori viaggiatori…

*

L’indispensabile strumento del viaggiatore accorto, la guida tascabile stampata a Milano, ma nella lingua internazionale del tempo, il Francese. C’ è quasi tutto, comprese due righe su Case Bruciate e sulla miglioria stradale. 52 LA CASA BRUCIATA


Il viaggio in diligenza era uno dei soggetti preferiti dai caricaturisti dell’Ottocento. Già le normali traversie che affliggevano i viaggiatori del tempo costituivano di per sé motivo d’ilarità. Figurarsi se non si prestava l’accostamento con la satira politica. Anche oggi è rimasta in voga la quanto mai significativa metafora di “Assalto alla diligenza!”, “Tutti sulla diligenza!”, “Signore e signori in carrozza!”, e via di questo passo. Nel caso specifico si ironizzava sulle manovre diplomatiche in corso con l’arcinemico del Risorgimento, l’Impero austro-ungarico di Cecco Beppe…

Il modello più diffuso sulle strade postali del neonato Regno d’ Italia: due vani chiusi e uno sopra …”en plein air”. 53 LA CASA BRUCIATA


Tipica targa in pietra di una delle tante “Osteria della Posta” e il Regolamento-tariffario del 1858 sulla Bologna-Ancona. Ora si parla di “calessi”(sempre carrozze coperte), a due o quattro ruote, con due, tre, quattro e anche sei cavalli, e postiglioni da uno a tre. Tutto è calcolato minuziosamente, compresa la mancia al postiglione e il “beveraggio” ai mozzi di stalla. Coi legni veloci, tipo corriere postale, da Case Bruciate a Bologna si impiegano “solo” sedici diciotto ore. Clima e condizione della via permettendo… 54 LA CASA BRUCIATA


Dall’osteria di posta alla stazione ferroviaria...

L’autocorriera (o “messaggeria”) sulla via della stazione negli anni ‘20 del secolo scorso. Sullo sfondo a sinistra della prima parrocchiale, ancora la torre “nuova”. 55 LA CASA BRUCIATA


SCHEDA VIII

Poste, “mezze poste” e…false poste

La stazione di Posta-cavalli di Senigallia in una vecchia e brutta foto. Si distinguono comunque i due corpi gemelli ai lati della parte centrale porticata. Oggi è sopravvissuta solo quest’ ultima. Niente a che vedere con il Mandracchio…

L’antica osteria di Marzocca, al confine con Montemarciano in una foto degli anni ’90 del secolo scorso. La targa, sotto l’insegna recita: “MARZOCCA/CASA ANTICHISSIMA/ERETTA/NELL’ANNO 1301/RIEDIFICATA/DALLE FONDAMENTA/L’ ANNO DEL SIGNORE/1766” . Al centro come si presentava nel XIX secolo, con le due curiose torrette laterali merlate, oggi ribassate, ma col corpo avanzato rispetto al nucleo centrale, tutt’ora ben riconoscibili. E’ probabile che l’edificio “antichissimo” fosse l’osteria di “Casa Nova” (toponimo anteriore a Marzocca e ancora presente con“Villanova”), quella assalita dai Turchi nel 1485. In quello ricostruito è evidente una ricercata somiglianza con l’osteria di Casa Bruciata, ma non si trattava neanche di un cambio o”mezza posta”. Anche l’insegna del cavallino rampante sopra la targa (arme della famiglia Cavalli di Senigallia, che aveva proprietà in zona), contribuiva alla forse voluta confusione. Cioè serviva a “sviare” i viaggiatori dalla vicina osteria di posta di Case Bruciate, col malcelato proposito d’ incrementare i guadagni dell’oste e dei vetturini privati, che sostavano per offrire i loro servizi (57). I vetturini privati non erano soggetti abusivi e potevano esercitare liberamente il mestiere, a patto di non barare con i severi regolamenti dello Stato pontificio. Non era tollerata la “concorrenza” al servizio ufficiale sulle strade postali. Ciò valeva sia per la posta-lettere, sia per la posta-cavalli. Con la Restaurazione si pensò bene di dare un giro di vite, forse anche a seguito delle proteste dei viaggiatori, sia a carico dei vetturini privati, sia anche del personale delle osterie di posta. Tra gli “intollerabili abusi” dei mastri di posta le “creste”, fatte appioppando cavalli in sovrappiù rispetto al necessario, oppure col farli pagare senza…attaccarli, “sotto pretesto di far risparmiare la buona mano (la mancia) di uno dei postiglioni…” e altre sgarberie di vario genere. Ad onor del vero la Posta di Casa Bruciata sembrava esente da tali disdicevoli comportamenti, anzi il mastro era definito “molto esatto nel suo impiego”, ma il quadro generale non pareva confortante. “La condotta dei Mastri di Posta Cavalli e loro inservienti nella maggior parte delle Stazioni dello Stato è la più censurabile e odiosa, abusando della loro posizione per aggravare i viaggiatori…” Quanto ai conducenti il quadro era speculare, poiché “…alla somma indiscretezza (sic.) de’ Postieri si aggiunge l’avidità veramente stomachevole dei Postiglioni nell’estorcere a forza di cattivi trattamenti le buone mani dei viaggiatori…” Insomma, a meno di non tenere sempre il borsellino in mano, il viaggio e le soste (a stare ai reclami) potevano trasformarsi in uno spaventoso incubo per i disgraziati clienti. E di vero qualcosa doveva pur esserci, se per i casi “lievi” si stabiliva un minimo di 50 scudi di multa, per poi arrivare alla galera, e fino alla somministrazione pubblica del “cavalletto” (variante della più nota gogna). Quanto ai vetturini privati avevano molto da farsi perdonare, ma una cosa non si poteva tollerare: che facessoro i furbi, imitando i postiglioni statali. I mascalzoni avevano l’ardire di guarnire i cavalli dei loro calessi con campanelli e pelli di tasso e financo la tuba, che portavano in testa, era orlata da pelo di tasso. E, come se non bastasse tale mascherata, tronfi come veri postiglioni, lanciavano i propri cavalli scampanellanti al trotto allegro, magari suonando il corno, cose altamente proibite ai vetturini sulle strade postali. Di tanto in tanto i Carabinieri pontifici ne beccavano qualcuno, come il povero Domenico Panni “vetturale di Case Bruciate”, ma, da più parti, s’invocava moderazione nell’applicazione dei bandi, poiché era anche vero che bisognava pur campare…(58)

56 LA CASA BRUCIATA


SCHEDA IX

Un altro “Mandracchio”? La caserma pontificia o dogana di Porto d’ Ascoli

La dogana di Porto d’Ascoli (oggi comune di S. Benedetto del Tronto), massicio edificio quadrilatero in laterizio, cordolato. La fronte sulla Statale 16, è costituita da un corpo centrale con ingresso carrabile ad arco ribassato, e due corpi laterali avanzati simulanti “torrioni”. Altri due corpi emergenti posteriormente. Corte interna con portico e loggiato su tre lati. Costruzione a partire dal XVI secolo. Utilizzo: magazzino portuale, posto di guardia, osteria-albergo, etc.Solo non fu stazione di posta. Sono evidenti le analogie stilistiche e funzionali con il “Mandracchio”.

Vista parziale della corte interna con l’accesso sulla Statale. Il porticato col sovrastante loggiato è assente solo sul lato interno a mare. A destra un’ immagine recente, ripresa dalla Statale 16., che ancor più mostra la somiglianza con la Casa Bruciata. Detta anche “Caserma pontificia “o “Dogana del porto”, era, come la Casa Bruciata, il “porto” a tutti gli effetti, non essendovi, a parte l’approdo di fronte, quasi null’altro che potesse giustificarlo. E in effetti, la denominzione più antica pare essere quella di “magazzino del porto”. Vi sono diverse versioni sulla sua costruzione. Secondo una, venne iniziata sul finire del XVI secolo, e il suo esecutore fu un certo “mastro Giovanni Andrea” di Monsanpolo, “faber cementarius” . Secondo un’altra, l’autore fu invece un “mastro Piero, lombardo”, che chiese ed ottenne il permesso di costruire nella area del “porto” (in pratica una zona d’attracco o poco più, con qualche resto del precedente porto, distrutto dai Fermani nel 1348) un’ osteria-residenza-magazzino di buone dimensioni nel 1551. Il progetto ebbe delle difficoltà, ma venne ripreso, nello stesso anno, da un altro intraprendente lombardo, “Antonio di Franceschino da Como”, che ricevette il permesso dagli Ascolani, a patto di non trasferirne la proprietà ad altri e lasciando alla città ogni giurisdizione. Nel 1558 il Consiglio cittadino fece iniziare una nuova “fabrica hospitii Portus”, ampliando decisamente l’osteria, pare con l’intervento esperto di Giovanni Scalamonte di Bologna. Alla fine del XVII secolo era descritto “…come un forte casamento quadro fiancheggiato da feritoie e capace di alloggiare molta gente e bestiami. E’ guardato da sei soldati di fanteria e sei di cavalleria di Milizia.” Ancora nel 1760 si specificava che il “…porto non è altro che un gran magazzino lontano dalla spiaggia più di un miglio…”, probabilmente, anche qui, conseguenza dell’incremento della spiaggia. Pio VII, nel 1816, con la creazione della Delegazione apostolica d’ Ascoli, per risolvere i problemi commerciali col Regno di Napoli, lo trasformò in sede di dogana, con impiegati e, nel 1821, anche militi. Ora è difficile non trovare punti di contatto con la Casa Bruciata. Certo l’edificio è più imponente, manca dei tratti scarpati, ma cordolatura e pietre angolari, i due “torrioni” (in effetti solo due corpi aggettanti) anteriori, etc. potrebbero far ipotizzare qualche “scambio culturale” o di maestranze con la più settentrionale struttura rivierasca dei Piccolomini, e comunque l’affermarsi di un modello architettonico funzionale come deposito portuale di cereali, osteria, guardia alla marina (59).

57 LA CASA BRUCIATA


SCHEDA X

“…una delle più rinomate…”

Case Bruciate nella seconda metà circa del XVIII secolo (60). Usiamo qui il plurale, piuttosto che “Casa Bruciata”, poiché ora c’è, sia pur modestissimo, un nucleo abitato. La mappa è una delle diverse raffigurazioni “topografiche” della spiaggia di Montemarciano, compilate da agrimensori vari a seguito del fenomeno dei “Relitti di mare” (vedi oltre). Per il momento c’interessa notare la strada postale Flaminia (che, pronto ormai il tronco Rocca Priora- Chiaravalle-Jesi, dall’osteria alla rocca di Fiumesino diviene “La Clementina”), e le due strade locali che vi si immettono all’altezza della posta-cavalli. Una è la via di comunicazione “storica” interna per Gabella-Montemarciano-Ponte di S.Andrea-Jesi. L’altra, diretta al “porto”, cioè al punto d’attracco, detto “caricatojo della Camera” o “caricatore de’ grani”, altro non è che la comunicazione tra i magazzini dell’osteria e l’approdo, tra di loro sempre più distanti per l’aumento della spiaggia. Il corso d’acqua che fiancheggia il Mandracchio è quello che rimane del vecchio corso terminale del Rubiano, deviato all’altezza di Molinello (piuttosto a monte dell’osteria) verso ponente (qui non visibile). La detta deviazione può essere datata tra la fine del ‘500 e le prime due decadi al massimo del’600, sotto il governo della Camera. La si è volle per evitare gli allagamenti dei magazzini al piano terra della Casa Bruciata, frequenti per l’esondazioni del Rubiano. Dopo soluzioni rabberciate (tipo rialzo delle soglie ed amenità del genere), e scartata la ridicola proposta di spostare addirittura l’osteria-deposito in collina, si procedette allo scavo di un nuovo letto (nell’odierna situazione). In pratica di fianco all’osteria rimase un corso d’acqua di portata assai minore, che convogliava solo le acque reflue dei terreni circostanti. Come il Rubiano in precedenza, il fosso costituì sempre il confine col territorio anconitano, e venne denominato “Fosso detto delle Case Bruciate”. E’ ben visibile nella mappa, con il ponte della via postale (B) che lo scavalca. E’ anche ben evidenziato il fatto che detto fosso, a motivo dell’ampliamento della spiaggia, ha finito per assumere un andamento parallelo alla linea di costa, subendo una deviazione verso ponente. Questa deviazione a ponente produsse attriti con Ancona, che pretese di avanzare col confine dietro il fosso! Sembrebbero questioni di bassa lega, ma la faccenda dei “Relitti di mare” innescava polemiche legali non di poco conto. A motivo del loro sfruttamento agricolo. E non solo legali, poiché, a più riprese, si arrivò a delle vere zuffe tra i contadini dei possidenti di Montemarciano nella zona e quelli della tenuta di Rocca Priora o delle “Pojole” del Marchese Trionfi. Relitti di mare a parte, quest’ultimo allontanava pure l’acqua stagnante della sua tenuta verso Montemarciano. Notiamo, infatti, all’altezza dell’osteria, il “Fosso delle Pojole”, che scaricava (grazie a sapiente e fraudolenta pendenza) nel Fosso di Case Bruciate, e similmente succedeva monte. Insomma, una situazione delicata sul piano idrogeologico e complicata su quello amministrativo, cui dobbiamo essere grati almeno sul piano storico, grazie alle mappe prodotte. Oggi Marina di Montemarciano ha una spiaggia praticamente inesistente, completamente erosa per alterazioni d’origine antropica, che risalgono sostanzialmente (anche se può sembrare impossibile) solo agli anni ’70-80 del secolo scorso (61). Rapida formazione di una nuova spiaggia allora, rapida erosione oggi… Il fatto è che per rompere equilibri ambientali su aree fragili basta pochissimo. E la spiaggia di Marina di Montemarciano (quella che vediamo sopra) era, a sua volta, il frutto di una alterazione ambientale verificatasi solo due secoli circa prima, con un disboscamento dissennato della media e bassa Vallesina. Sul piano economico ciò s’era tradotto (allora solo dal punto di vista agricolo) in un vantaggio. Diciamo che è stato fatto di tutto per annullarlo…

58 LA CASA BRUCIATA


Correggendo la prospettiva “a volo d ‘uccello” del particolare centrale della mappa alla pagina precedente è forse possibile avere un’ immagine meno distorta dell’osteria di posta. Di sicuro la località non appariva un granché, specie se raffrontata all’odierna Marina. “Tre casettine dai tetti aguzzi, un verde praticello, un esiguo ruscello: Rio Bo?” No, “Case Bruciate”…Le tre “casettine” (case a schiera) però ci sono ancora (tra Via Roma e Via Manzoni) e sono sintetizzate dal casamento sulla strada postale sotto l’osteria. Davanti alla fronte a mare della stessa, notiamo poi la “Chiesa di S. Carlo”, di cui non resta traccia, se si eccettua un pezzo di muro, prima inserito in una rimessa di qualche mastro d’ascia del luogo, poi supporto per manifesti, accanto ad un’esposizione d’arredi per giardini. Quanto all’osteria, è un po’ faticoso distinguere i vari corpi di fabbrica, ma è il “ritratto” più realistico che conosciamo, dopo il restauro del 1626. Del “ruscello” oggi c’è poco da vedere, essendo tutto coperto e lo stesso dicasi per il ponte. Riemerge comunque al sottopasso ferroviario, ma ormai è solo il fossaccio dell’ex Montedison. Sul finire del ‘700 bastava però una buona osteria di posta a nobilitare un litorale semidesertico, aspro e ghiaioso. “Nel nostro littorale dell’Adriatico, lungo la via Clementina,, vi è la Posta delle Case Brugiate, una delle più rinomate, e per il numero de’ cavalli, che vi si mantengono, e per l’ampiezza, e benintesa struttura delle fabbriche, commode non solo per uso d’albergo, ma ancora e molto di più per guardia de fanti, e delle corazze, in caso di bisogno essendovi due torrioni per ambedue le milizie. Vi è ancora bon numero di commodi magazzeni da sale, da grano, e da qualunque genere che si voglia scalare in quella spiaggia…(62)”

59 LA CASA BRUCIATA


SCHEDA XI

Un po’ d’ osti… Giovanni da Rimini, detto “il Padovano” (1453/54); Antonio Grande, sposato a Margarita (1455); mastro Cristofano di Giovanni da Fano (1456); mastro Luca, moglie Cassandra, figlio Cesare (1590/91); Fabio Dialdelli, detto “Barbarino” (1591); Paolo di Bartoluccio di Rocca Contrada (Arcevia), moglie Cattarina (1596); Domenico Sasso da Urbino (1597); Giovanni Lotti di Antonio (1602); Francesco di Giovanni di Antonio di Ancona con Cesare Bibino (1608); di nuovo Giovanni Lotti (1610); Carlo Lotti di Giovanni(1625); Fabrizio Marini da Senigallia (1635); Giovanni Antonio Santi con Francesco Morichini (1643); Antonio Santi da Senigallia, moglie Francesca (1643); Bernardino Correrato di Mondavio, moglie Floridiana; (1646); Antonio Correrato di Bernardino 1653); Giovanni Siena di Battista da Montignano (1662); mastro di Posta Vittorio Siena; Vittorio Vici di Giulio, moglie Orsola (1739); Pietro del fu Girolamo Andreanelli 1789); Angelo del fu Pietro Andreanelli (1807); famiglia Cancellieri (1860).

L’ elenco ( con anno di documentazione) è ovviamente del tutto incompleto, essendo ricavato da vari documenti d’archivio utilizzati per lavori diversi. L’addensamento di nominativi per alcuni periodi è semplicemente frutto del caso. Ad es., per gli anni 1453-56 si hanno i preziosissimi registri del “fattore” di Montemarciano per Sigismondo Pandolfo Malatesti. Per il periodo dei Piccolomini va tenuta presente la quasi totale distruzione delle carte locali nel 1578. Alcuni osti e mastri di posta rimangono per lunghi periodi e, a volte, subentrano i congiunti, come nel caso dei Lotti o dei Siena. Degli Andreanelli i discendenti sono ancora presenti a Marina di Montemarciano. Nel 1792, prima dunque che Pietro di Girolamo divenisse mastro di posta, un certo Nicolò Andreanelli gestiva una semplice “bettola” a Case Bruciate. E ancora un’ osteria Andreanelli era presente nel secolo scorso, vicina al Mandracchio (63). 60 LA CASA BRUCIATA


SCHEDA XII

Case Bruciate agli inizi del XIX secolo …poche anime

Ancora ai primi dell’Ottocento sono pochissimi coloro che abitano nella località: il personale dell’osteria di posta, finanzieri e gendarmi, il “telegrafista” e qualche pigionante d’incerta professione (contadini, facchini, salariati, pescatori). Nel 1808 alla Posta Cavalli: Angelo del fu Pietro Andreanelli (mastro di posta), Barbara del fu Francesco Pauri (sua moglie), Barbara (figlia), Annunziata (figlia), Vincenzo (figlio), Giovanna di Giuseppe Morlini (moglie di Vincenzo), Pietro (figlio di Vincenzo), Felice (idem), Antonio (fratello di Angelo, vedovo), Francesco (figlio di Antonio), Annunziata (idem), Pasquale del fu Franco Pierucci (uomo di stalla), Luigi del fu Giovanni Strillozzi (altro uomo di stalla), Domenico (figlio di Luigi). Nel 1808 al Quartiere di Dogana: Sig. Giovanni Severi (“capo de’ soldati di finanza”), sig. Camillo Silvestri (“vicecapo”), Florido Bettoni (soldato), Costanzo Molini (soldato), Nicola Bianchi (soldato), sig. Alessandro Damiani (“primo ministro”), sig.a Anna Maria (vedova e madre del Damiani), sig. Pietro Comi (“primo ministro”). Nel 1809 al Casino del Telegrafo (telegrafo ottico, con metodo Chappe, d’introduzione napoleonica, tra le postazioni di Fiumesino e “Capanna” di Montignano di Senigallia): Sig. Antonio del fu colonnello Paride Turicchi, sig.a Maria di N. Cavalli (sua moglie), sig.a Annunziata Cavalli (sorella di Maria), sig. Giacomo del fu Giuseppe Tanni. Nel 1809 al Quartiere della Reale Gendarmeria: Sig. Camillo Serrachioli (brigadiere), Giovanni Venturini (gendarme), Antonio del fu Angelo Bianchi (gendarme), Sante Francinetti (gendarme), sig.a Clemente Servizi (moglie del Francinetti), Antonio di Giuseppe (gendarme). Nel 1809 “Case Brugiate”. E’ curioso notare come Posta, Dogana, Telegrafo e Gendarmeria non fossero accostate al toponimo,destinato invece alle sole abitazioni civili, per lo più case a nolo.1)Casa a nolo Baccarini: Angelo del fu Antonio Mancini, Maria di Antonio Ragaini (moglie di Angelo), Antonio (figlio). 2) Casa a nolo Baccarini, colonica: Giovanna del fu Francesco Piccinini e vedova di Pietro Goffi, Antonio (figlio), Rosa (figlia), Angelo(figlio). 3) Casa a nolo di Antonio Andreanelli: Giuseppe di Antonio Molinelli, Fiora di Giobatta Gambini (sua moglie), Giovanni (figlio). 4)Casa a nolo Baccarini: Giambattista del fu Giuseppe Gambini, Amelia del fu Giuseppe Guidoni (moglie), Giuseppe (figlio). 5) Casa a nolo Baccarini: Giuseppe del fu Antonio Catena, Sebastiano del fu Orazio Goffi, Giovanna (figlia di Sebastiano), Antonio (idem), Pasquale (idem), Luigi (idem), Nicola (idem). 6) Casa a nolo Baccarini: Francesco del fu Domenico Antonio Canonico, Bartolomea del fu Pietro Formica (moglie).7) Casa a nolo Baccarini: Francesco del fu Domenico Goffi (vedovo), Maria (figlia) Pietro del fu Domenico Cancellieri (marito di Maria). Dunque nemmeno sessanta abitanti, stando allo “Stato delle Anime” dell’arciprete di Montemarciano Giovannetti (60).In rare occasioni il luogo poteva però affollarsi, diligenze o truppa in transito a parte. Memorabile fu il passaggio del papa nel giugno1800. Sua Santità Pio VII si fermò giusto il tempo di una benedizione, di fronte all’osteria e alla chiesetta di S. Carlo, l’una con la fronte sulla strada postale addobbata di tendaggi, che coprivano tutta la carreggiata, per dare frescura all’augusto corteo, l’altra sommersa da rutilanti “damaschi”. Ben in vista le “armi gentilizie” del papa e dei due cardinali protettori. “Per dare contrassegno di giubilo alle Case brugiate”, fu prevista un’assordante scarica di 50 botti di “mortari”, il tutto con la raccomandazione ( migragna infame!) di podestà, gonfaloniere e priori “con usare il più risparmio possibile…” Di rigore per i consiglieri “vestir di negro”. Se qualcuno poi avesse voluto pavoneggiarsi col “rubbone” (l’antico e sfarzoso manto con guarnizioni preziose delle magistrature locali), avrebbe dovuto affittarlo a proprie spese…(64).

61 LA CASA BRUCIATA


SCHEDA XIII

La spiaggia, ossia la straordinaria storia dei “Relitti di mare”

…Per commodo poi di detto scalo vi è il porto, che chiamano caricatojo, uno de’ più frequentati, e più sicuri di questa nostra spiaggia; lo credono fatto dalla natura, ma forse, e con più di probabilità, sarà fin da tempi antichissimi fatto dall’arte, per commodo di quell’antica città che ivi esisteva, e coperti poi gli argini col lungo lasso di tempo, e dalle brecce, e dall’arena, se ne sarà perduta affatto ogni memoria. Muove a ciò credere la profondità del suo letto, e l’abbondanza grande di acqua, che danno sicurezza di accostarvisi a legni da carico anche di considerazione, tutto che v’imbocchi solo un piccolissimo rivolo d’acqua, dove che alla foce del fiume Esino, con tutta l’abbondanza grande, che ve ne viene da quel vasto regio fiume, non possono che accostarvisi piccolissime barche pescherecce…(65)” Di che accidenti stesse parlando il canonico Vincenzo Trusiani, dopo aver descritto succintamente “la rinomata” osteria di Posta di Case Bruciate, è un po’ difficile da capire se non si conosce l’evoluzione della spiaggia di Montemarciano, dopo il XVI secolo. Il canonico, nel sottolineare la possibilità d’attracco di barche da carico sul litorale di Case Bruciate, che era poi la causa prima della edificazione dell’osteria-deposito, malgrado allora vi sfociasse ormai solo il piccolo Fosso delle Case Bruciate, faceva riferimento a una sorta di scalo artificiale, secondo lui solo in apparenza di formazione naturale, ricoperto com’era da ghiaia e rena. Piuttosto era fermamente convinto che vi fosse la mano dell’uomo e che l’approdo non fosse altro che il “porto” della scomparsa “città” romana. Il che era semplicemente assurdo, considerando che le barche approdavano benissimo, anche quando la riva del mare arrivava a sfiorare il Mandracchio. Al massimo si proteggeva l’approdo con qualche palizzata (“palanche”) in legname. Questione di fondale e di correnti sottocosta, mentre all’altezza della foce dell’Esino sabbia e ghiaia tenevano costantemente il fondale con scarsissimo pescaggio. Ampliandosi la spiaggia, si approdava egualmente, solo sempre più distanti dall’osteria. Che poi questo ampliamento si stesse facendo sempre più rilevante e veloce lo sapevano bene i cartografi e gli agrimensori, che avevano cominciato a misurarlo una sessantina d’anni prima della inconsistente teoria “archeologica” del canonico.

1711, “La Marca Anconitana e Fermana” dell’abate Moroncelli (particolare). Un altro religioso col gusto dell’esagerazione: il tratto di costa tra Fiumesino e Senigallia riporta una sorta sporgenza “peninsulare”, che dalla foce dell’Esino si protende sul litorale di Casa Bruciata. Questo è delimitato da due corsi d’acqua. A destra il vecchio tratto di foce del Rubiano (cioè il “Fosso detto di Case Bruciate”, piuttosto enfatizzato); a sinistra il Rubiano già deviato da circa un secolo. E’ chiaro che una traduzione grafica del genere, con accentuazione spopositata di alcuni particolari, indurrebbe chiunque in confusione, facendo pensare quasi all’esistenza di baia o cala riparata, in realtà inesistente. In pratica siamo di fronte alla trasfigurazione quasi “poetica” di un fenomeno assai più “piatto”. Anche altri cartografi (MAGINI, HONDIO, BLAEU), già nel ‘600, avevano cominciato a riportare l’ampliamento della spiaggia, conseguente al grandioso apporto di sedimenti per il capillare estendersi degli arativi ai danni della copertura vegetale (66). La documentazione precisa del fenomeno dei Relitti di Mare è dovuta però ad una diatriba tra possidenti locali: i Baccarini di Monte San Vito e il marchese Trionfi d’Ancona. Non vi fosse stato un contrasto economico non se ne sarebbe saputo molto. Chiamati in causa per la questione gli agrimensori, costoro (a differenza del nostro immaginifico canonico) cominciavano dal principio, ovvero da quella che era stata la situazione di partenza: “…Osteria delle Case Bruciate, sul confine del territorio di Falconara, e principio del territorio di Monte Marciano, che ha il suo prospetto sulla strada consolare, e che una volta confinava col mare…(a. 1739- 67)”

62 LA CASA BRUCIATA


1739 circa: il “relitto” maggiore, tra la foce dell’Esino e il Fosso di Case Bruciate, che misurava almeno 40 ettari. La Camera, ritenendo che fosse di pertinenza statale, ne concedeva lo sfruttamento ai Baccarini di Monte S. Vito. Il marchese Trionfi, affittuario della tenuta delle Pojole di Ancona, si opponeva, sostenendo che era parte della tenuta,uno dei cui confini era rappresentato dal mare. Ebbe riconosciuta la ragione. Oggi non è rimasto quasi niente.

L’iconografia dell’osteria di posta e della rocca di Fiumesino (con la Flaminia che passa a monte). Entrambe le raffigurazioni sono abbastanza realistiche. A lato, il piccolo relitto di mare in formazione alla foce del Rubiano, nel 1743. Il ponte della via litoranea corrisponde all’incirca a quello odierno di via Spontini, il che dà un idea di quanto sia stato rapido ed imponente l’incremento della spiaggia. I Baccarini mantennero i “relitti” formatisi nel territorio di Momtemarciano. La loro intenzione, come quella del Trionfi, era di sfruttarli dal punto di vista agricolo, confidando sul miglioramento progressivo delle caratteristiche del terreno, anche attraverso opere di bonifica (68).

Nuovi edifici sulla spiaggia (ancora presenti)

L’elegante “Casino Baccarini”, a ponente del Rubiano, nella sua edizione originale, il corpo centrale con doppio scalone e i due laterali (uno chiesa) collegati con arco. A destra il grosso casamento appena in territorio d’Ancona. 63 LA CASA BRUCIATA


Pianta delle concessioni Baccarini. Quelle del 1743( una in territorio di Ancona, poi finita al Trionfi e quella la foce del Rubiano) e quelle del 1754, tra il Fosso di Case Bruciate e il Rubiano (69). Sotto il “Casino Baccarini-Honorati” nella configurazione odierna, con sopraelevazione del corpo centrale, tamponatura degli archi, etc. La foto mostra come si doveva presentare la spiaggia fino a gran parte del XIX secolo. Esempio di una delle primissime residenze al mare, dai Baccarini passava agli Honorati di Ancona, che continuarono lo sfruttamento agricolo sull’intera spiaggia.

Il complesso è di rara eleganza, con tracce di decori interni e giardino a mare cintato da muro. Era spesso un’alternativa “aristocratica” all’osteria di posta. Nel 1749, ad es., ospitava la nipote di papa Lambertini, di ritorno dai bagni di Lucca. In laterizio il corpo centrale, in laterizio e pietra i laterali gemelli, di cui uno con chiesa pubblica.

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Pietro Marotti agrimensore per conto della Reverenda Camera Apostolica, XVIII secolo. Curiosa la raffigurazione della osteria, con i due torricini a mare e le prime abitazioni, a ponente sulla strada postale. Questo primo nucleo di case è tutt’ora presente, identificabile con la parte destra del fotomontaggio. Tra ‘700 e ‘800 altre case si aggiunsero sulla strada per Montemarciano (odierna via Roma). Alcune (foto in basso) conservano la facciata originale (70).

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Via Roma: due delle facciate ben conservate di questo nucleo storico di Case Bruciate. Purtroppo quella a destra (foto anni ’80 del secolo scorso) ha subito un “restauro” un po’ radicale. Ancor peggio per le case rurali accoste al Casino Bacarni-Honorati (sotto e pagina seguente), un complesso unico nel quadro delle tenute agricole storiche sulla costa.

Archivio st. Comunale di Montemarciano, stralcio del “Catasto napoleonico-gregoriano” (1813-31): il litorale tra Case Bruciate e il Casino Baccarini-Honorati. Di estremo interesse la rettifica della strada postale, resa possibile dall’ampliamento della spiaggia. Si nota ancora il vecchio percorso; sulla sinistra l’attuale via Honorati; a destra la strada al “caricatore de’ grani” della Camera, che ormai si perde tra le dune. Sintomatici i tragitti curvilinei del tratto di foce dei corsi d’acqua. Assai chiara la situazione urbanistica di Case Bruciate; qualche modifica si nota nella porzione a monte dell’osteria di posta, dove è presente una discontinuità nella struttura, successivamente colmata. 66 LA CASA BRUCIATA


Le case rurali del Casino Baccarini-Honorati (cfr. carta precedente). Si trattava di un complesso caratteristico in blocchi di pietra e laterizio. Molto del materiale era di recupero e, in parte, di provenienza dai resti archeologici della zona. Purtroppo oggi è stato completamente snaturato da interventi di “ristrutturazione” e d’urbanizzazione.

Contadini alla marina in una foto dei primi decenni del ‘900. Lo sfruttamento agricolo dei “Relitti di mare” entrò ben presto in urto con le esigenze dei pescatori. Nei primi dell’Ottocento, il marchese Honorati, subentrato ai Baccarini, chiese ed ottenne dal cardinal Ruffo la privativa del diritto di pesca con la sciabica (“la tratta”, foto sotto), per impedirla a suo piacere agli abitanti di Case Bruciate. Non solo multe, ma anche galera e “tratti di corda” ai trasgressori. Un sopruso di retaggio medievale ( del resto anche i vari “Affittuarji” di Montemarciano avevano sempre imbrigliato lo sviluppo di una marineria locale ), che pretendeva di giustificarsi con le opere di consolidamento dei “relitti” (piantumazione di vegetazione resistente, etc.). Nella pratica, per pescare, occorreva il suo permesso. L’ ultima immagine (un “trabaccolo” che carica ghiaia), mostra come doveva funzionare il “caricatore camerale del grano”. Bastava sollevare il timone dell’imbarcazione, gettare un lungo e solido asse tra barca e riva e l’imbarco (o lo sbarco) poteva cominciare. Durante la Restaurazione, con la crisi dei prezzi, l’arrivo di grano russo, etc., il commercio via mare per piccolo cabotaggio dei cereali locali entrava definitivamente in crisi (71).

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SCHEDA XIV

Problema d’ allora, problema di oggi…

Mappa del litorale tra la foce dei fossi di Case Bruciate ( 1793, Vincenzo Storoni geometra- agrimensore). E’ sottolineata la qualità dei vari settori del “relitto” tra l’antico corso del Rubiano, a sinistra, e il nuovo, a destra. A= qualità arativa;B=prativo, poca terra e molta ghiaia; C=quasi tutta ghiaia; D= tutta ghiaia o “breccia”. Si notano:F= l’osteria di posta(con i due accessi); H= il vicino casamento di civile abitazione; I= la chiesa antistante l’osteria;L=la strada al caricatore; E= l’area del caricatore. Alla foce dei fossi, con la lettera R, è chiaramente evidenziato ciò che accade a seguito di burrasca, specie da levante: l’accumulo di ghiaia con formazione di un vero tappo, che impedisce il deflusso dell’acqua portata dai fossi. Se poi le piogge intense ne aumentano la portata, l’esondazione è quasi assicurata, con danno alla strada, ai campi e alla stessa osteria. La deviazione del Rubiano non era bastata a risolvere il problema, né lo erano le occasionali pulizie dell’alveo (ordinate dalla Camera ai possidenti adiacenti). Gli argini (oggi inesistenti) venivano giudicati insufficienti e un po’ tutta la regimazione delle acque dei campi era stata aspramente criticata già nel 1723 dall’architetto camerale Sebastiano Cipriani e dal suo capomastro Francesco Antonio Pucciarini: “… a me pare che a quel tempo non operassero a dovere…(72)”

Il Rubiano esonda tra Molinello e Fornaci in una livida e piovosa sera del novembre 1991. 68 LA CASA BRUCIATA


Fine di una storia e inizio di un’altra. poveracci?” Lungi dall’incavolarsi, il nobiluomo rispondeva sorridendo: “Vedi, ragazzo mio, mi hanno ridotto così il gioco e le donne!” Crudelmente si rimestava il dito nella piaga. “Ma lei, signor conte, se potesse tornare indietro cosa farebbe?” Mai una volta che li deludesse: “Se potessi tornare indietro, rifarei tutto quello che ho fatto. Anzi, probabilmente anche di più!” E tutti rimanevano a bocca aperta, sentendolo raccontare di cavalli, casinò, ville e palazzi, nobildonne, mariti cornuti e sciantose. Al ricordo, almeno a quello, non volle mai rinunciare. E quando un ricco possidente di Montemarciano ebbe l’impudenza di offrirgli una grossa somma in cambio del titolo nobiliare (allora si poteva…), si beccò quello che meritava. “Se lo tolga dalla testa! Io sono nato conte e morirò conte!” Tenne fede alla parola, lanciandosi, qualche anno dopo, dall’ultimo piano dell’Ospedale Carradori-Trusiani, dove era ricoverato. Il “Mandracchio” è stato più fortunato. E’ sopravvissuto a tutto: ai Turchi, alle soldataglie, alle piene del Rubiano, ai terremoti, alla Montedison, alla scomparsa della marineria locale e della spiaggia, all’incuria del secolo scorso. Ed è una fortuna per i Montemarcianesi, che così manterranno una quota importante della loro storia. Solo in parte raccontata e con molto da scoprire…

Con l’arrivo della ferrovia Rimini-Ancona (1861), e quindi della tratta Falconara-Roma (1866), il destino della Casa Bruciata, osteria di Posta-cavalli, era definitivamente concluso. Addirittura lo snodo ferroviario per la ferrovia interna avrebbe dovuto essere approntato tra Case Bruciate e Gabella, come pareva logico (tanto che oggi, quando forse nessuno lo vorrebbe, la questione si ripropone). Allora si preferì Falconara, per una direttiva del Ministero della Guerra del Regno, che tenne in considerazione il ruolo d’Ancona come porto e piazza d’armi. Iniziava intanto la storia, del tutto diversa, ma egualmente interessante del “Mandracchio”. L’anedottica sarebbe veramente abbondante, tenuto conto che una metà buona dei Casbrugiatesi viveva tra quelle mura, sempre più decrepite, nei primi del secolo scorso. Dentro c’era di tutto, un campionario di umanità quale sarebbe difficile trovare in altro contesto. Dal pescatore proprietario di una sola “batana” con cui sbarcava il lunario, al nobile decaduto, che vi aveva trovato rifugio per sfuggire ai creditori e sopravvivere alla miseria. Decaduto, ma orgogliosamente, al pari del “Mandracchio”, che l’ospitava. Qualche insensibile sciagurato, spalleggiato dal gruppo, non si tratteneva dallo stuzzicarlo con la solita domanda irriverente. “Ma lei, signor conte, come mai è finito qui, in mezzo a noi

Tornasse, per ipotesi, frate Leandro Alberti e facesse il cammino al contrario, dall’osteria “di mura ben fortificata” alla rocca di Fiumesino, e non “presso al lito del mare” (cosa praticamente impossibile), ma lungo il marciapiedi che costeggia i ruderi in via di scomparsa delle “case operaie” della Montedison (vero monumento d’archeologia industriale, destinato alla “damnatio memoriae” per motivi di salute ambientale), si troverebbe, ad un certo punto, di fronte a una curiosa croce, incassata in una rientranza del muro di cinta. Niente a che vedere col solito incidente stradale. Lì, “…o non guari discosto da perfido scherano a reiterati colpi trafitto…”, cadde, mortalmente ferito, il sacerdote scozzese, nonché cavaliere di Malta, Thomas Stuart. Alloggiava all’osteria di Case Bruciate da qualche giorno. In attesa del proprio valletto, che s’era recato in Ancona a trovare dei parenti, il distinto reverendo avrebbe dovuto, in verità, sostare a Senigallia, visto che voleva visitare la famosa fiera franca. Vuoi perché le locande erano stracolme, vuoi perché, da buon scozzese, reputava conveniente il prezzo dell’osteria di Posta, decise di fermarsi a Case Bruciate. E pure, già che c’era, di prendere qualche bagno di mare. Cosa al più riservata all’eccentricità dei signori Baccarini e loro ospiti, ma quanto mai bizzarra per locali. A reggergli l’ombrello per il solleone, Stuart assunse un giovanotto sfaccendato, soprannominato “Liòn”, con chioma arruffata bionda e vesti “… alla marinara”. “Liòn” dovette perdere la testa per la fornita scarsella, che il sacerdote ebbe l’imprudenza di esibire quando pagò la prima volta i suoi servizi. Al secondo bagno non si presentò. Stuart, stanco d’aspettare, s’avviò da solo. Purtroppo tirava quel violentissimo vento di terra più noto come “garbino”. Credendo di ripararsi meglio dalle fastidiose raffiche, il sacerdote si fece una bella camminata sull’arenile verso Fiumesino. Aveva notato una casa colonica che, a suo giudizio, pareva frenare il vento. Cominciò a togliersi i vestiti per entrare in acqua. Fu lì che “Liòn” gli piombò alle spalle, pugnalandolo come una furia. Stuart morì parecchie ore dopo proprio in un letto di quella casa. “Liòn”, troppo giovane per la ghigliottina, s’ebbe l’ergastolo.”Ho fatto una fregna grossa!” fu il suo commento prima d’essere catturato. 69 LA CASA BRUCIATA


70 LA CASA BRUCIATA


Note, bibliografia e fonti 1) Il problema del salvataggio e recupero del Mandracchio fu posto con forza e continuità dall’Archeoclub d’Italia, a partire dal 1980, anno di costituzione della sede di Montemarciano. Per circa un lustro si promossero incontri, mostre, convegni e petizioni per sensibilizzare autorità e cittadinanza, fino all’acquisizione del manufatto (di proprietà privata: sorelle Moscatelli Egle, Maria, Dina e Lea / Busilacchi Teresa) da parte del Comune di Montemarciano (Cfr. DANILO RIPANTI, Case Bruciate e il Mandracchio, alcune testimonianze in cinquecento anni, a cura dell’Archeoclub d’Italia e della Biblioteca comunale di Montemarciano, Montemarciano 1581; ARCHEOCLUB D’ITALIA-sede di Montemarciano, Dossier Mandracchio Ottantasei). 2) LEANDRO ALBERTI, Descrittione di tutta l’Italia di f. Leandro Alberti bolognese, ed. Anselmo Ceccarelli, Bologna 1550. A questa prima edizione ne seguirono numerose altre, soprattutto venete, con l’aggiunta della parte riguardante le isole (…Isole pertinenti), ma senza variazioni, morendo l’Alberti nel 1552. Lo stralcio riguardante Casa Bruciata in quella del 1551 è a c. 234v. Frate domenicano ed inquisitore, l’Alberti raccolse le sue informazioni in gran parte di persona, essenzialmente nel viaggio presso i conventi dell’ordine, durato due anni, nel 1525 e 1526. E’ a questo periodo, probabilmente, che possiamo riferire le osservazioni su Casa Bruciata. Sulla definizione di fortilizio cfr. LUCIANO SERRA, Elenco degli edifici, degli affreschi, delle grandi sculture, dei ruderi monumentali delle Marche, Pesaro 1926, p. 170; ALVISE CHERUBINI, Arte medievale nella Vallesina, Ancona 1977, p.135; AAVV, Architettura fortificata nelle Marche, a cura Regione Marche, Centro regionale per i Beni Culturali, Cinisello Balsamo (Milano) 1985, p. 130; MAURIZIO MAURO, “Fortilizio di Marina di Montemarciano (Casa Brugiata)”, in M. MAURO, Castelli, rocche, torri, cinte fortificate delle Marche, a cura Istituto Italiano dei Castelli, Ancona 1988, vol. II, pp. 22-26. 3) DANILO RIPANTI, “Un antico “capolinea” della Vallesina: la posta-osteria di Case Bruciate”, in AAVV Esino mare-Materiali ed immagini per la conoscenza di un territorio, a cura dell’Associazione Coordinamento Progetto bassa Vallesina per l’Associazione Intercomunale n.9 Marche, Castelferretti (Ancona) 1990, vol. I, pp. 114-129; DANILO RIPANTI, “ Il “Mandracchio” di Marina di Montemarciano (Osteria fortificata di Case Brugiate) / Montemarciano”, in MAURO, Castelli, rocche…cit., vol. II / II edizione, Piediripa di Macerata 1998, pp. 68-74. 4) Nel nostro caso la soluzione più logica rimane, infatti, quella avanzata dall’Alberti (cfr. nota 2), che dovrebbe averla raccolta in loco. 5) Il cambio di denominazione da Case Bruciate a Marina di Montemarciano avvenne su richiesta delle autorità locali nel 1938 (podestà Giuseppe Magnini, proprietario dello stabilimento di riciclaggio, lavorazione-deposito stracci, nei pressi della foce del torrente Rubiano), con motivazioni d’immagine turistica, cancellando così il richiamo al supposto, tragico accadimento. 6) In area di mare, la parte interna del porto che accoglie il naviglio minuto, ma egualmente valido, anzi anteriore, il significato di recinto, stazzo, stallaggio per animali, come pure il termine riferito a ricetto, ricettacolo di gente. In latino anche “Mandraculum”, diminutivo sempre da “mandra”. Interessante quanto riportato dal Pianigiani ( O. PIANIGIANI, Vocabolario etimologico della lingua italiana, Trento 1989) con il significato, come metafora, di “ Schiera, congregazione; ma ora non si userebbe che nel senso di turba di gente vile..”, con chiaro valore dispregiativo (evidente, ad es. nel caso di “mandracchia”, da “mandracula”, che sta per donna di malaffare…), o per sottolineare comunque un assembramento popolare, tanto che lo si riscontra come nome di contrada (vicino al mare o a ridosso del porto) di città come Napoli e Livorno. 7) LAZZARO BERNABEI, “Croniche anconitane”, in CARISIO CIAVARINI (a cura di), Collezione di documenti storici antichi inediti ed editi rari delle città e terre marchigiane, vol. I, Ancona 1870, p. 170. 8) Sull’insediamento romano nell’area di Marina di Montemarciano (e più in generale nel territorio comunale) la situazione è ancora ben lontana dall’essere definita, considerate anche le problematiche derivate dalla forte urbanizzazione. A più riprese, tuttavia, si è da più parti sottolineata la possibile identificazione con la “statio” o “mutatio” di “Ad Sestias”, andata in decadenza probabilmente al tempo dell’occupazione longobarda dell’Esarcato di Ravenna (con ultima citazione nell’itinerario del cosiddetto “Anonimo ravennate” (VII sec. d. C). Per un approfondimento sulla questione cfr. DANILO RIPANTI, Montemarciano –Territorio e comunità tra alto Medioevo e XIX secolo, a cura del Comune di Montemarciano, Castelferretti (Ancona) 1996, pp. 31-56; RIPANTI, Un antico “capolinea”…cit., p. 114 9) Ancora sul finire del Settecento i resti archeologici di superficie risultavano abbondanti su vasta area, al punto da far avanzare l’ipotesi di una “città” estesa sul crinale costiero da Marina a Montignano di Senigallia, per altro in assenza di qualsiasi fonte storico- letteraria credibile. Probabilmente strutture sparse di qualche “villa rustica”. Sull’origine del toponimo Casa Bruciata, piuttosto, non è da escludere un qualche collegamento col carattere di alcuni rinvenimenti, di cui ci è rimasta generica testimonianza (“… quantità grande di carboni, e cenere ritrovata negli ultimi scavi fatti in un predio appartenente alla Casa Marcolini, fra le macerie ed intere muraglie rovesciate, dal che ne derivò la denominazione alle Case Bruciate…”, cfr. RIPANTI, Montemarciano…cit., p.52). 10) RIPANTI, Montemarciano…cit., pp. 61, 73. 11) RIPANTI, Montemarciano…cit., pp. 60-82. Sull’insediamento monastico cfr. anche: VIRGINIO VILLANI, “ La proprietà monastica nel basso Esino dall’XI a XIII secolo”, in Proposte e Ricerche, Urbino n.13/1984, pp. 18-33 (dove però l’ubicazione delle grance è errata) ; SANDRA CAPPELLETTI, Dall’abbazia alla manifattura-Le origini di Chiaravalle, II ediz. Chiaravalle 2004, p. 63. 12) Jesi ebbe effettivamente il possesso e controllo di Montemarciano (compresa la costa) e di Cassiano, dopo la confisca pontificia 71 LA CASA BRUCIATA


dei due castelli a Tano Baligani e Guido di Feltranuccio di Guido, ribelli alla Chiesa, nel 1307. Su questa e le vicende seguenti ( tenendo anche presente che, dopo la sconfitta di Galeotto III Malatesti a Paterno nel 1355, Montemarciano e Cassiano finirono nell’orbita dei da Varano, signori di Camerino, per un periodo imprecisato, sicuramente fino al 1380) cfr. RIPANTI, Montemarciano…cit., pp. 87-91.; PIETRO FERRANTI, Memorie storiche della città di Amandola, ristampa Colonella (Teramo) 2001, vol. I, pp. 149-150, vol. II, p. 274 (“… et Montis Martiani. Item Cassianus prope Montem Marsianum et Robianus…”). 13) RIPANTI, Montemarciano…cit., pp. 91-97. Tra i carichi di grano all’altezza della torre di Rubiano, ad es., quello del 20 giugno 1404, di 417 “some” ( c.a 830 quintali) del “merciaro da Fano” Tonello di Polo “…nel navilio di ser Piero Salomone per portare a Bologna…che carchò sucto la torre de Rubiano..”, p.97. 14) Ibidem (sulle vicende malatestiane), pp. 97-103. 15) Ibidem, p. 103. L’investitura dei castelli di Montemarciano e Cassiano per Sigismondo Pandolfo Malatesti è del 9 novembre 1453, dopo la morte di Galeazzo. 16) Ibidem, pp. 103-148. La maggior parte delle notizie si ricava dai registri del fattore di Montemarciano, presso l’Archivio di Stato di Fano, Codici malatestiani, n.111 (“ A- Malatesta, 1454 conti del fattore di Monte Marciano”) e n.112 (“ B- Malatesta, 1455, entrata e spesa di Monte Marciano per donna Isotta ”). Il riferimento a Isotta degli Atti, prima amante e poi moglie di Sigismondo, fa supporre che il signore di Rimini donasse a costei le entrate delle “fattoria” di Montemarciano (cfr. SERGIO ANSELMI, “Organizzazione aziendale, culture, rese nelle fattorie malatestiane, 1398-1456”, in Azienda agraria e microstoria, Urbino 1978, pp. 807-827). 17) RIPANTI, Un antico “capolinea”…cit., pp. 114-118. Sulla “fattoria d’ Isotta” e sulle vicende di Sigismondo cfr. anche RIPANTI, Montemarciano…cit., pp.103-113, 113-115, 136-148; DANILO RIPANTI, “Montemarciano e i Malatesti”, in Atti Giornata di Studi Malatestiani a Montemarciano (11), Centro Studi Malatestiani, Le Signorie dei Malatesti, Rimini 1990, pp. 5-24. 18) RIPANTI, Montemarciano…cit., pp. 135, 151-153. Il passaggio di Montemarciano e Cassiano ai figli della sorella di Pio II rispondeva certamente alle esigenze nepotistiche del pontefice (che, del resto, doveva circondarsi di persone fidate), ma era anche una soluzione alle continue diatribe territoriali tra Jesi ed Ancona, specie per il transito delle merci e degli uomini verso la costa. Ad onta di accordo sottoscritto tra le due comunità per il passaggio a Casa Bruciata e a Fiumesino già nel 1454, che avrebbe dovuto avere durata ventennale ( Archivio St. Comunale di Jesi, Miscellanea, n. 14, 29 ottobre 1454, copia). 19) Le attività che ruotavano attorno alla Casa Bruciata appaiono ben delineate negli “Statuti antichi” (“…facti et exequiti parte per li Illustrissimi Signori Malatesti et parte per lo illustrissimo Signor Jacomo Picco’homini…”): divieto di estrazione di grano senza permesso/obbligo di usare il recipiente di misura regolamentare ( “ coppa o quarto della corte signata con la luna”)/pagamento della gabella per ogni tipo di merce e bestiame in transito/ pagamento di 1“soldo” per “soma” di grano in deposito nei magazzini dell’osteria per un mese, oltre sovraprezzo di 1 “bolognino” al mese (4 marzo 1499)/ affitto di 10 “fiorini” annui per la “salara della Marca”/ 2 “ moggia” di sale per ogni barca carica del suddetto, se non destinato a Montemarciano/ obbligo di osservare i locali “Capitoli per li bastagi”, cioè le disposizioni per il facchinaggio portuale ( gli uomini erano riuniti in apposita “compagnia”, con privilegi e doveri). Le norme non variarono di molto con gli “Statuti nuovi” di Giacomo II, redatti dal giureconsulto Giovanni Francesco Onori da Staffolo probabilmente negli anni ’50 del XVI secolo. Cfr. DANTE CECCHI, Gli Statuti di Monte Marciano ed il codice 36 del “Fondo Colocci”, Jesi 1985, pp. 96, 103, 115-119, 161, 163, 173-175; RIPANTI, Montemarciano…cit., pp. 160-161, 173-176. 20) SERGIO ANSELMI, RENZO PACI, Cose occorse ne’ li anni 1450-1486 trascritte da me Francesco Andreano 6-7 ottobre 1534 copiate da vecchio manoscritto di ser Bastiano Passeri, Senigallia 1972, p. 37. Cfr. RIPANTI, Montemarciano …cit., p.181. La scorreria notturna interessò anche la contrada del Morignano di Senigallia, dove vennero catturati due pescatori, e le possessioni di messer Agostino Fregoso sulla collina di Montignano (dove poi sorgerà appunto di guardia la “torre Fregoso”). Qui si saccheggiarono le case (gli abitanti fuggirono in tempo) e, per portar via il bottino, i pirati svuotarono persino i sacchi della farina. Da Senigallia non partì alcuna reazione armata (pare ci fosse un’epidemia in corso), ma ci si limitò a colpi di bombarda e suono di campane. Uscirono dalle mura solo dieci uomini a cavallo, che accompagnarono il “trombetta” del comune fino a un “torresino” vicino, in cima a quale costui suonò disperatamente tutta la notte, mentre i compagni galoppavano attorno cercando di fare il maggior baccano possibile. Ma i turchi, evidentemente, non avevano né gli uomini, né l’intenzione d’assalire Senigallia… 21) Cfr. nota 2 di questo lavoro. Occorre intendersi sul significato di fortificazione. Anche la “casa-torre”, individuabile nella struttura complessiva del Mandracchio come la porzione più antica del manufatto, poteva apparire (per il genere d’utilizzo) come una discreta costruzione difensiva. Alla torre (quella “vecchia”, verso Falconara) dotata di scarpatura inferiore, ingresso rialzato, con una caditoia soprastante, si univa verso monte un casamento più basso, anch’esso con un lato (quello verso ponente) irrobustito da scarpa (quello opposto non ne aveva bisogno, risultando protetto dal corso del Rubiano, che, in pratica, fungeva da fossato difensivo). Anche se ciò poteva risultare scomodo, la logica difensiva avrebbe dovuto escludere ogni apertura inferiore. Pertanto l’unica possibilità d’accesso alle persone sarebbe stata offerta dall’ingresso della torre, tramite una scala rimovibile; per il grano e le merci, da far entrare o uscire, si sarebbero utilizzate aperture al piano rialzato, magari con l’aiuto di qualche paranco. Esigenze di maggior spazio avrebbero portato a un prolungamento verso monte del casamento. Che l’Alberti abbia visto la Casa Bruciata nella fase di semplice casa-torre rimante comunque solo un ipotesi. 22) La demolizione sistematica della rocca del castello di Montemarciano e di altre strutture difensive, quali i due forti torrioni (nel dicembre del 1578), fu preceduta dal saccheggio e dalla devastazione del palazzo d’ Alfonso Piccolomini e moltissimi documenti andarono così bruciati o dispersi. Naturalmente nessun danno ricevette la Casa Bruciata. 23) Archivio di Stato di Roma, Camerale, III, b. 1412, n. 32 ( beni di Alfonso Piccolomini, tratti dal Catasto di Montemarciano del 1588). La Camera Apostolica si premurò d’ inventariare i beni immobili allodiali e l’entrate del vicario ribelle, al momento della devoluzione del feudo a Santa Sede (1591). Cfr. CARLO MARIA MARTI, Tramonto della signoria Piccolomini a Montemarciano, in “La Lucerna”, Pubblicazione del Santuario dei Lumi, Montemarciano, a IX, 1969, n.1-2, p. 4. 24) RIPANTI, Montemarciano …cit., p. 177. In precedenza beneficiaria dei proventi dell’osteria di Casa Bruciata era stata anche la nonna di Piccolomo, Cristofora Colonna, moglie di Giacomo I e madre di Silvio (RIPANTI, Un antico “capolinea”…cit., p. 120). La seconda metà del Cinquecento nelle Marche appare improntata ad un commercio di grano senza precedenti(cfr. SERGIO ANSELMI, Una storia dell’agricoltura marchigiana, Ancona 1985, pp. 64-77 ), e ovunque si aumenta, a scapito della selva, l’arativo. Montemarciano compreso, con diffusione di poderi enfiteutici, gestiti a mezzadria. La principale entrata dei Piccolomini a Montemarciano 72 LA CASA BRUCIATA


sul finire del XVI secolo derivava appunto dal grano (in gran parte riscosso di “quarto”, essendo dovuta alla corte la quarta parte del raccolto dei sudditi). 1200-1500 “some” (2400-3000 quintali, anzi qualcuno di più) annue, che rendevano, ai prezzi correnti (7-8 scudi la “soma”), sui 10.000 scudi (su un’entrata complessiva di 12.500 scudi l’anno). Tale cifra poteva anche raddoppiare, o quasi, nel caso di esportazione, per privilegio esentasse concesso al signore, trattandosi di “…grano franco de tratta, commodo per la Montagna e la Marina…” Tratta che però pagavano gli altri ai Piccolomini, apportando altri 100 scudi. Le rimanenti entrate, al confronto, erano quisquiglie. La seconda voce degli introiti annui per i signori di Montemarciano ascendeva a “soli” 700 scudi, derivanti dall’affitto delle osterie (compresa quella di Casa Bruciata per un centinaio di scudi minimo), delle gabelle, forno e macello. Quando Alfonso Piccolomini era attivamente ricercato per banditismo e Montemarciano posto sotto sequestro, una delle principali preoccupazioni del governo pontificio stava nell’evitare che danneggiasse (non potendo usufruirne) i raccolti. Nel settembre del 1590, il governatore della Marca ordinava non solo il presidio armato di Montemarciano, ma pure quello della osteria di Casa Bruciata, onde evitare colpi di mano. 25) RIPANTI, Montemarciano…cit., p. 178, pp. 255-256. La differenza sostanziale tra gli “Affittuarji” dei vicari laici e quelli della Camera Apostolica stava nel fatto che i primi dovevano rispondere dell’operato ai Piccolomini, che non avevano alcuna intenzione di farsi spolpare il feudo. Per i secondi il controllo camerale risultava assai meno efficace. I Montemarcianesi tirarono infatti un sospiro di sollievo, quando alla Camera apostolica, che aveva dato esecuzione al mandato d’associazione del castello (decaduto Alfonso Piccolomini), l’8 gennaio 1591, si sostituì, nominato duca a bella posta, il nipote di papa Gregorio XIV, Ercole Sfondrati, nel maggio dello stesso anno. Il duca, ad es., graziò molti “banditi” e condannati per reati vari, con la scusa di arruolar gente per la guerra in Francia. Ma, morto Gregorio, l’investitura venne annullata e così, il 27 marzo 1593, si ritornò, stavolta definitivamente, alla Camera apostolica. 26) Ibidem, pp.337-340. Il documento, un notarile del 18 giugno 1591 (Archivio di Stato d’Ancona, Notarile di Montemarciano, n. 6, cc. 16 r e ss.), è, al momento, l’unico disponibile in grado di illuminarci parzialmente sugli ambienti interni dell’osteria. 27) Ibidem, p. 107. 28) Sull’Alberti si rimanda alla n. 2 di questo lavoro. Michel de Montaigne, scrittore e filosofo francese, celebre anche

per i suoi aforismi, lasciò del suo viaggio in Italia nel 1581 una viva descrizione del tragitto marchigiano. Parte da Roma il 19 aprile, direzione il celebre santuario di Loreto, prendendo la “Via Boncompagna” (in pratica la “Flaminia lauretana”), fatta sistemare tre anni prima da Gregorio XIII (Buoncompagni), in modo che fosse agibile anche ai mezzi ruotati. Via Otrricoli-Narni-TerniSpoleto-Foligno, il 21 è ai confini della Marca, superando il 22 l’Appennino (“…con le sue creste inaccessibili e austere”), al passo di Colfiorito, per pranzare a Muccia e pernottare a Valcimarra. Entusiasta del paesaggio (fortunatamente era primavera), nota “…meravigliose vallate, infiniti ruscelli, case, villaggi di qua e di là…”, ma “…nessuna casa o palazzo importante…”, e, per contro, che “…in queste colline non c’è angolo di terra inutile…”, con le aie pavimentate sempre di mattoni. Trova, invece, da ridire, non tanto sugli alberghi (che “…sono paragonabili a quelli francesi…”), quanto sul cibo: pesce marinato, fave, mandorle, piselli serviti crudi, carciofi poco cotti (“…in tutta Italia…”), vino, al contrario, sempre cotto per renderlo decente . Maggiori problemi li ha però col vetturino che l’accompagna e lo pianta a Muccia. E’ anche vero che (non dice il motivo), da nobile qual’è, s’è permesso di schiaffeggiarlo (“…grande affronto qui, secondo l’uso locale…”), correndo qualche rischio di reazione violenta (“…ne è esempio il vetturino che uccise il principe di Tresignano…”). Montaigne viaggia soprattutto a sella (come tutti quelli che se lo possono permettere) e ciò perché i mezzi ruotati sono scarsi e terribilmente scomodi. Malgrado vari acciacchi sta a cavallo anche otto-dieci ore. Ne noleggia diversi, di volta in volta, col vetturino che poi li riporta indietro. Coi cosiddetti “vetturini” privati si pattuisce, in genere, il viaggio “tutto compreso”, col risultato che questi cercano di risparmiare su alloggio e vitto, stallaggio compreso (solo fieno per le bestie). In più hanno fretta, costringendo i malcapitati a tappe molto lunghe, e, gran cruccio per Montaigne, spesso non danno neanche il tempo di gustare il panorama, o di sostare in qualche sito interessante. Alle locande di posta, invece, il francese si stupisce che possano affidare, se disponibile, il cavallo da sella o il mulo da carico ( “…qui di qualità superiore…”) a dei perfetti sconosciuti, solo dietro il pagamento anticipato del nolo e il patto a parola di lasciare la bestia alla successiva locanda pattuita. Qui l’oste se ne prenderà cura e, prima o poi, lo rimanderà. Però, coi privati, può capitare di non trovare cavalcatura, a meno di pagarla a caro prezzo, soprattutto se si è stranieri, perché “… siete in mano di gente senza regola e senza fede verso i forestieri…” Sulla via di Loreto, al momento, di briganti non se ne vedono, ma lui viene da Roma, e un tedesco, assalito e derubato nel ducato di Spoleto, in precedenza, gli aveva sconsigliato il tragitto Imola-Ancona-Loreto, per cui, per arrivare a Roma, aveva preferito passare per Firenze. Il 23 è ormai a Recanati, passando per Tolentino, con “…il paese che diveniva sempre più verdeggiante...”, senza alcun “…castello o casa di nobili, ma parecchi villaggi o città sulle colline…” La strada lungo il Chienti “…era bellissima e verso la fine pavimentata di mattoni…” fino a Macerata, sede del Legato. La sera è a Loreto, percorrendo un’ area “…molto fertile 73 LA CASA BRUCIATA


e la strada pavimentata di quadrelli messi a punta…” E’ il risultato dell’attenzione pontificia al grandioso afflusso di pellegrini per il santuario, e Montaigne se ne accorge dal gran numero di gente che va e viene lungo la via. Quasi tutti sono a piedi, per penitenza, con la tipica tenuta dei pellegrini (rozzo saio con cappuccio, o cappellaccio, e “bordone” in mano, crocifissi appesi al collo, e via dicendo). Non solo “…gente da poco…”, ma anche comitive di “…persone ricche…”, che viaggiano a piedi come gli altri in veste da pellegrino, o con la livrea confraternitale, con insegna e Crocifisso in testa. Numerosi i frati che vendono acqua benedetta ai bordi della via. Il viaggio da Roma è durato quattro giorni e mezzo, “…e spesi sei scudi, che sono 50 soldi per cavallo. Il noleggiatore dei cavalli manteneva loro e noi. Questo genere di contratto non è dei più graziosi…ed inoltre vi trattano con la maggior economia possibile…” A Loreto, “…villaggetto chiuso da mura e fortificato contro le invasioni dei Turchi…”, quasi tutti i residenti sono addetti al santuario oppure albergatori; “…le locande però lasciano molto a desiderare…”, a differenza delle numerosissime botteghe, fornitissime di ceri e articoli religiosi. La visita entro la Santa Casa,”…molto vecchia e misera…”, nella basilica ormai quasi completata (la facciata viene ultimata nel 1587) e nella ricca teca marmorea che l’avvolge, lascia stupefatto il francese per l’enorme quantità di ex –voto d’argento e oro, che tappezzano le pareti. A stento riesce a far appendere il suo. Sosta fino al 25. Il 26 visita il porto di Recanati, dove apprende, che, volendo, può andare da Loreto a Napoli in otto giorni, passando a Chieti, dove parte il “procaccio” (inteso come diligenza), che trasporta anche viaggiatori. Ma la sua tappa è Ancona, che ammira per la scenografica disposizione sul mare, S. Ciriaco, l’Arco di Traiano, la popolazione cosmopolita con Schiavoni, Greci e Turchi, che girano in gran numero, “…gli uomini simpatici e lavoratori…” e… le belle donne. La notte del 26 viene svegliato da un sordo colpo di cannone, che proviene da sud, forse dall’Abruzzo. Pare sia il sistema di allarme per avvisare della presenza di navi turche da guerra. Di colpo in colpo, in poche ore si riesce ad avvertire tutta la costa adriatica. Altrimenti, tramite le torri di guardia, si usano segnali luminosi o suono di campana. Si ferma fino al 27 dopo pranzo, ingozzandosi di quaglie, che per sua fortuna sono molto magre. Pare sia il momento del loro arrivo dalla Schiavonia, a grandi stormi, cosicché sono molti quelli che mettono reti ovunque, attirandovi i volatili con i richiami e, dunque, a parte il pesce, (fino a settembre quando i volatili riattraversano l’Adriatico) finiscono invariabilmente sul menù. Fa un po’ di conti: un pasto costa 10 soldi. Gli dicono che, volendo, potrebbe noleggiare una barca per Venezia con 6 scudi e arrivarci in 8-12 ore. Preferisce proseguire via terra, destinazione Lucca in 8 giorni. Al vetturino dà 33 monete d’oro per il nolo di 8 cavalli, loro razioni di fieno comprese. Parte il pomeriggio del 27 per Senigallia e, dunque, passa per forza davanti l’osteria di Casa Bruciata, ma non la cita. E’ colpito, piuttosto, dal paesaggio costiero del tutto addomesticato: “…seguimmo la riva del mare, che è più dolce e praticabile del nostro Oceano e che è coltivata fin là dove arriva il mare…” Pernotta a Senigallia, che trova “graziosa”, in una bella pianura sul mare. E giudica bello anche il porto, cioè il fiume Misa usato “…come canale, munito e rivestito, sia da una parte che dall’altra di grossi pali…” Ripartito per Fano, passa il Metauro sopra un ponte di legno, all’ora di pranzo del 28. Trova la città, anch’essa in una bella e fertile pianura, “…abbastanza mal costruita e tutta chiusa…” tra le mura (cosa del resto usuale). Anche l’albergo non gli pare buono, ma mangia benissimo “…ottimo pane, vino e buon pesce…” e, cosa rara, a differenza di Senigallia, Pesaro e città adriatiche in genere, lì l’acqua dolce è abbondante e buona, con fontane e pozzi in quantità. Sarà per questo che a Fano l’allegria non fa difetto. “In ogni locanda si trovano rimatori che improvvisano versi e canti. Gli strumenti per accompagnare il canto si trovano in tutte le botteghe…” Risale il Metauro per Fossombrone, arrivandovi di buon ora, il 29, poiché “…le nostre giornate non erano che di 7-8 ore a cavallo…” Vuole vedere il Furlo e la galleria romana della Flaminia, passando il Candigliano, poi ritorna e va verso Urbino, trattenendovisi fino al mattino del 30 aprile. La città, capitale del Rinascimento, non l’affascina affatto, neanche il palazzo ducale lo colpisce (a parte lo scalone praticabile a cavallo), “…tutto ciò non ha nulla di bello, né internamente, né esternamente…” Vorrebbe vedere la ricca biblioteca, ma non si trovano le chiavi. Probabilmente è indispettito dal fatto che qua si propende per gli Spagnoli, di cui si espongono le insegne. Raccoglie pettegolezzi su Francesco Maria della Rovere. Il duca non ha eredi e lì sono tutti angustiati, perché Urbino finirà per decadere alla Santa Sede. Colpa della moglie (la sorella del duca di Ferrara), più vecchia di 10 anni, prossima alla menopausa, e per di più affetta da gelosia nei confronti del marito (che per inciso è uno dei protettori di Alfonso Piccolomini, il signore di Montemarciano e, ormai, celebre bandito dello Stato pontificio).Si consola, dopo pranzo, andando a visitare il cosiddetto “Sepolcro d’ Asdrubale” a Monte d’ Elce. Altra delusione: una costruzione in grossi mattoni, vuota, tra quattro casupole. Il 30, ripreso il viaggio per la Toscana, passa a Castel Durante (Urbania), dove se la prende coi vetturini, che sciolgono i cavalli e li fanno abbeverare tutti sudati. Si rimette di buonumore a Sant’ Angelo in Vado, dove le strade sono buone e, per giunta, rallegrate da belle ragazze locali, agghindate da “…reginette di mezza quaresima…”, per festeggiare l’arrivo di maggio. Ma deve proseguire presto per Mercatello e quindi, “…per un sentiero che comincia già a sentire l’Appennino…”, in direzione di Borgo Pace. Appunto un borgo, e, dopo il pranzo in una modesta osteria, su per una stradella “accidentata e noiosa” fino alla sorgente del Metauro, dove termina il ducato d’Urbino e inizia lo Stato del papa, a sinistra, e quello del duca Medici, a destra. Alla discesa della montagna “…una bella e grande spianata nella quale correva il Tevere che qui è a sole otto miglia dalla sorgente…” Marca alle spalle, Montaigne cenava a Borgo S. Sepolcro. “ Le journal du vojage en Italie par la Suisse et l’Allemagne” era pubblicato solo nel 1774, cfr. Ancona e la Marche nel Cinquecento, (a cura di SERGIO ANSELMI e altri), Recanati 1972, pp. 89-103. Su Alfonso Piccolomini cfr. RIPANTI, Montemarciano…cit., pp. 207224. 29) Si rimanda alle note n. 8, 30 e 31 di questo lavoro. Aggiungiamo solo, che, pur in assenza di prove inoppugnabili (quale, ad es. una qualche iscrizione di conferma e un’ analisi completa della situazione archeologica), gli studi odierni propendono, più o meno tutti, a ritenere la zona alla sinistra della foce dell’Esino come quella di più logica e probabile ubicazione ( cfr. Archeologia delle valli marchigiane, a cura di Pierluigi Dall’Aglio, Sandro De Maria, Amelia Marotti, Venezia 1991, p. 17; MARIO LUNI, Archeologia delle Marche, Prato 2003, p.131). D’altro canto la situazione della viabilità storica e il dato archeologico indicano Marina di Montemarciano ( es., L. MERCANDO, L.BRECCIAROLI, G. PACI, “Forme d’insediamento nel territorio d’in età romana”, in AAVV, L’Italia: insediamenti e forme economiche, Bari 1981, pp. 311 e ss. 30) Archivio Storico Comunale di Jesi, senza collocazione, Mappa in pergamena della Vallesina (da Jesi al mare e aree circostanti, tra Senigallia e Ancona). Sulla datazione di questo documento, dipinto con vari colori, all’apparenza anonimo, alcuni studi iniziali propendevano per una collocazione nel XV sec., ritenendo un’ altra mappa jesina su carta, di più grezza fattura, (cfr. nota 31 di questo lavoro) praticamente coeva, anzi forse lavoro preparatorio alla prima. Cfr. FRANCESCO BONASERA, “Un’ antica carta geografica conservata nella Biblioteca Civica di Jesi”, in “Rendiconti Istituto Marchigiano Scienze, Lettere e Arti”, n. 21, 1962, pp. 37-44; ALBERTO POLVERARI, Senigallia nella storia, vol. II, Urbino 1981, tav. 11-12; FRANCESCO BONASERA, “ Cartografia storica delle Marche”, in Atti 1° Convegno sui beni culturali ed ambientali delle Marche-Numana 1981, Roma 1982, p.276; FRANCESCO 74 LA CASA BRUCIATA


BONASERA, “ Due antiche, preziosissime carte geografiche”, in “L’Esagono”, a. V, n.20, Jesi 1983, pp. 28-30; SERGIO ANSELMI, EDOARDO BIONDI, RENZO PACI, “Foreste e boschi nella bassa Vallesina del ‘400: fonti cartografiche e resti sub-fossili ”, in “Quaderni storici”, n.49, Ancona-Roma, 1982, pp. 158-162. Successivamente si avanzava l’ipotesi che le due mappe dovevano avere avuto la loro stesura in periodi diversi, sulla base di evidenti difformità di alcuni particolari (corsi d’acqua e strade), con la conclusione che la mappa in pergamena fosse anteriore, tra la seconda metà del XV sec. e il primo ventennio del XVI, mentre quella su carta, più tarda, doveva collocarsi tra pieno XVI sec. o nel XVII. Cfr. RIPANTI, Un “antico” capolinea”… cit., pp. 116-118. La mappa in pergamena ha comunque ricevuto una datazione assai precisa, essendosi anche individuati committente ed autori: cfr. SANDRA CAPPELLETTI, “Un fiume marchigiano tra medioevo ed età moderna: il basso Esino”, in “Proposte e ricerche”, n. 18/1987, p. 54: …opera eseguita nel 1510 dall’agrimensore e pittore jesino Pieramore di Bartolomeo di Pierlone e dal su maestro Pier Paolo Agapiti, i quali portarono a termine la mappa su richiesta del cardinale Alessandro Cesarini…” 31) Archivio Storico Comunale di Jesi, Miscellanea n.21, Mappa cartacea della Vallesina, senza datazione e anonima, acclusa alla memoria delle controversie territoriali tra Jesi ed Ancona. La mappa, quasi monocromatica, tranne il blu di mare e corsi d’acqua e il verde delle selve, illustra unicamente la situazione della valle tra Jesi e il mare, senza riportare i termini della questione territoriale (come quella in pergamena). Con ragionevole approssimazione può collocarsi tra la seconda metà e la fine del ‘500 o, al limite i primi del successivo. Che sia di stesura posteriore alla pergamena è dimostrabile sulla scorta di alcuni particolari. Anzitutto la scomparsa del tratto terminale dell’antica via dei Catastri, che dal Ponte di S. Andrea sul Triponzio portava alla costa, passando sotto Alberici, affiancando il Rubiano sulla destra e terminando a levante della sua foce. Ora vicaria il tronco, che, scavalcando il Rubiano, ancora non deviato, all’altezza della località Molinello, termina a ponente dell’osteria di Casa Bruciata (come l’odierna via Roma). Poiché la deviazione del Rubiano, onde evitare allagamenti dei depositi dell’osteria, fu voluta dalla Camera Apostolica dopo la devoluzione alla S. Sede del castello di Montemarciano (1593), e ciò è ricordato in un documento del 1620, è chiaro che la mappa cartacea non può avere che una datazione anteriore (cfr. CECCHI, Statuti..cit., pp. 228-230, Scritture diverse, 15 febbraio-13 aprile 1620). Il resto appare un po’ più complicato. La presenza della chiesa di S. Maria d’Alberici, con tanto di torre campanaria sotto il castello di Cassiano, fa pensare al nuovo e più grande edificio del 1597 (che sostituì, inglobandone l’affresco, quello più piccolo del 1491 o ’95, quasi una semplice cappella, voluta da Giacomo I Piccolomini e dalla moglie Cristofora Colonna). Tuttavia l’iconografia del castello di Montemarciano (per quanto debole possa apparire un simile, simbolico, argomento) mostra ancora un centro murato e, accennati, persino i due torrioni di fiancheggiamento. Poiché la distruzione della rocca, dei torrioni e delle mura avvenne alla fine del 1578, ciò anticiperebbe la stesura della mappa. RIPANTI, Montemarciano…cit., pp. 287, 317 (nota 211). E a proposito di simbolismo iconografico, in entrambe le mappe, per la Casa Brugiata si evita qualsiasi richiamo al carattere di “fortilizio”, ben rimarcato per la rocca di Fiumesino. 32) L’uso delle “palanghe” o “palanche”, robuste palizzate in grossi tronchi d’albero, per la protezione dai marosi dei punti d’attracco delle imbarcazioni pescherecce o da carico di non grandi dimensioni sulla costa adriatica, era particolarmente diffuso nei piccoli “porti” allestiti alla foce di fiumi o torrenti ( “porto-canale”), fornendo anche una protezione agli argini. Il sistema rimase in uso a lungo fino ad essere documentato fotograficamente. Montaigne nel 1581 vide quello di Senigallia (cfr. nota 28). 33) Cfr. nota 23. La presenza di un “porto” di fronte alla Casa Bruciata comportava anche l’obbligo di sorveglianza in materia di “sanità della spiaggia”, ossia la responsabilità di segnalare la presenza di naviglio “sospetto di mal contagioso”, cioè proveniente da aree afflitte da epidemia (colera, peste, etc.), di prevenire gli sbarchi degli equipaggi e degli eventuali passeggeri, eventualmente provvedere al loro fermo e all’internamento nei luoghi di quarantena. Occorreva che tali imbarcazioni fossero fornite di un attestato di sanità, concesso dalle autorità competenti. Montemarciano, sotto il regime camerale, ebbe il suo “Deputato alla sanità della spiaggia”. Si trattava di un “priore”, o di un “consigliere comunale”, che assommava anche la carica di “Capitano del porto”, il quale doveva svolgere le pratiche di attestazione nel settore di costa locale. Per questo era pagato e anche profumatamente, onde la carica veniva concessa solo per sei mesi (RIPANTI, Un antico “capolinea”…cit., pp. ). Il più delle volte le segnalazioni venivano dalle autorità portuali d’ Ancona, dove venne edificato lo splendido lazzaretto del Vanvitelli. La trasmissione dei messaggi da un porto all’altro avveniva tramite il “pedone” o “battitore”, che a piedi si recava al porto vicino (Senigallia o Fiumesino). Dopo la devoluzione di Montemarciano alla S. Sede, si registrarono parecchie frizioni con Ancona, che pretendeva di avere competenza anche sulla spiaggia di Montemarciano, specie in materia di sanità e naufragi. Tipico il caso di alcuni marinai turchi, internati in Ancona e riusciti a fuggire a Montemarciano, appellandosi al fatto che erano costretti a cibarsi di alimenti vietati ai musulmani! 34) Cfr. nota 20 di questo lavoro. 35) Piri Reis ( Hadji Ahmed Muhiddin Piri, circa la metà del XV sec.-1555), famoso ammiraglio turco, navigatore oceanico e compilatore delle prime carte marittime o portolani veramente accurate del Mediterraneo, e non solo (sua una mappa del globo). 36) RIPANTI, Montemarciano…cit., p. 264. 37) Ibidem, p. 304. 38) GIOVANNI MONTI GUARNIERI, Annali di Senigallia, Ancona 1961, pp. 181, 220-222. 39) Il sistema stradale romano nella regione marchigiana era essenzialmente fondato su due direttrici fondamentali: la Flaminia a nord e la Salaria a sud. La via Flaminia (220 a.C.) congiungeva Roma con Ariminum (Rimini) toccando Fanum Fortunae (Fano) e Pisaurum (Pesaro) attraverso la galleria artificiale del Furlo. La Salaria, una delle più antiche strade commerciali, univa Roma all’Adriatico passando per Reate (Rieti) e, con percorso nella parte meridionale delle Marche lungo il Tronto, Asculun (Ascoli Piceno) fino a Castrum Truentum (Porto d’Ascoli). 40) “Le poste necessarie a corrieri per l’Italia, Francia, Spagna & Alemagna, aggiontovi anchora gli nomi di tutte le fiere che se fanno per tutto il mondo. Con la sua tavola novamente stampata. In Bressia appresso Damiano Turlino. Ad istantia de Ioanne Baptista Borzola. MDLXII”. Cfr. P. NEGRI, “Il servizio postale e le stazioni di posta”, in “Sestante”, XI/2, Ostra Vetere 1994, pp. 4-6. In genere la distanza da una posta all’altra dipendeva molto dalla natura del terreno (montagnoso, paludoso, etc.) e dallo stato delle strade. In linea generale si aggirava sulle 15miglia. 41) Cfr. CRISTINA BADON, “Il reticolo delle strade postali italiane in epoca moderna”, in “Perusia. Rivista del Dipartimento di Cultura Comparata dell’Università per Stranieri di Perugia”, n. 7, 2011, pp. 297-317 ;GIOVANNI ALBERTAZZI, Storia postale di Bologna, https:/ www. academia. Edu/ 4404803. 42) RIPANTI, Montemarciano…cit. pp. 209, 253-257 ( l’arme in pietra di forma rettangolare, posizionata ancora sopra l’ingresso della “torre vecchia”, reca ben visibili numerosissimi segni di scalpello): gli ordini al procuratore fiscale della, Massimiliano Nerotti 75 LA CASA BRUCIATA


da Montenovo (Ostra Vetere), per i pubblici edifici erano chiari: “…et si depinghino l’arma del Papa, …del sig.. Governatore della Marca, e si levi l’arme del feudatario remosso…” Da gennaio 1591 a maggio dello stesso anno dura il primo governo camerale. Il 10 maggio Montemarciano (eretto a ducato per l’occasione) va ad Ercole Sfondrati. Ma lo zio papa scompare già ad ottobre dello stesso anno, con la conseguenza che, invocando il “de non infeudando” di vari pontefici, da Pio V allo stesso Gregorio XIV (che poi non l’aveva applicato a favore del nipote), la Camera ritorna in possesso del luogo il 26 aprile 1593 (dopo sentenza del 27 marzo, che concede un risarcimento al duca Ercole e alla moglie Lucezia Cybo di 36.000 scudi d’oro e il diritto di fregiarsi a vita del titolo ducale). 43) Ibidem, pp. 255-265 ( sui torbidi di Montemarciano). 44) Ibidem, pp. 326-328 (Appendice 7, sui “Capitoli di M.te Marciano fatti tra la Reverenda Camera e li Sig.ri Affittuarj”). 45) Ibidem, p. 263. 46) Ibidem. 47) Ibidem, p. 285. 48) Ibidem. 49) Ibidem. 50) Ibidem. 51) Ibidem, pp. 270-271, 340. 52) Ibidem, cfr. nota 51. Questo edificio religioso venne sostituito verso la metà dell’Ottocento da un altro a monte dell’osteria, dedicato alla “Madonna della Neve” e eretto a parrocchiale nel 1848. 53) Ibidem. A parte questi transiti straordinari, che saturavano gli ambienti dell’osteria, alterandone la normale attività e, come abbiamo detto, a volte, anche le strutture, normalmente erano sempre presenti alcuni uomini di guardia (una mezza dozzina), alloggiati nelle torri, a volte assieme ad alcuni cavalieri, che controllavano la via postale. Anche questa limitata presenza poteva provocare problemi col personale della posta-osteria, al punto che si chiese un ingresso separato per i militi. Oltre alla caditoia della “torre vecchia” (inservibile dopo la trasformazione in ricetto chiuso), l’unico elemento che ricordava la possibilità di una reazione difensiva attiva era un “quadrotto” per archibugio o altra arma da fuoco, posizionato sulla facciata a mare della “ torre nuova”, in prossimità dello spigolo di ponente, di poco sopra il cordolo della scarpa. Una piccola “troniera” o feritoia parzialmente sbeccata, con il foro di mira superiore pure mancante, che è stata asportata poco prima o poco dopo l’inizio dei restauri, e che, purtroppo, non è più ritornata al suo posto (supposto che quello fosse proprio il suo, considerato che non risultava più accessibile dall’interno). E’ ritornata, invece, la Madonnina protetta da una teca di vetro e posizionata sullo spigolo verso gli anni ’20 del secolo scorso. 54) RIPANTI, Montemarciano…cit., pp. 390, 434. Sull’entità del danno, sia all’osteria che all’imprenditore Garulli per il legname destinato al nuovo ponte sul Rubiano, testimoniarono Francesco e Vincenzo Andreanelli. 55)Archivio Storico Comunale di Montemarciano, Carabinieri pontifici-Monte Marciano, a. 1860, 3 maggio; nota 62 di questo lavoro. 56) RIPANTI, Un antico “capolinea”…cit., p. 126. Purtroppo non esiste una cronologia storica delle alluvioni provocate dal Rubiano. Che fossero frequenti sembra confermato da vari episodi (Cfr. note 31 e 72 di questo lavoro). La strada di fondovalle importante, fino al XVIII secolo, rimase sempre la “strada che va da exi a la marina” (cfr. nota 30), da Case Bruciate al Ponte di S. Andrea sul Triponzio (fino al XIX sec. confine del territorio di Montemarciano). Oggi una porzione di questa via (dalla deviazione al Ronco per il cimitero di Chiaravalle, al Ponte di S. Andrea) non esiste più e anche il ponte non è più nella posizione originale (il nuovo è verso Monte San Vito, mentre prima era più a levante, verso Chiaravalle). Il tratto Case Bruciate-Ponte di S. Andrea perse importanza, quando fu allestita la nuova via di fondovalle, la “Clementina” (da papa Clemente XII), che dal 1730 offrì un collegamento diretto carrozzabile decente tra Rocca Priora- Chiaravalle-Jesi (attuale Statale 76 della Vallesina, del resto oggi vicariata dalla superstrada). Che prima, a ridosso del vallato e del fianco sinistro del basso Esino, non ci fosse che qualche percorso secondario è testimoniato dalla cartografia storica. E pure in seguito il nuovo asse manifestava frequentemente la sua fragilità, come testimoniato (ancora nel 1774) dalle continue “…corrosioni del Vallato che gli scorre a lato…”, etc.,etc. Da citare l’ avventura del poeta romano Giochino Belli, di ritorno da Milano via Ancona nel 1827. La domenica mattina del 14 ottobre, alle 6, partiva dalla posta di Senigallia. A quella di Case Bruciate si cambiarono i cavalli, con la speranza di passare l’ Esino senza troppi patemi. La stagione, infatti, era stata eccezionalmente piovosa, e quasi tutti i ponti apparivano danneggiati dalle piene (specie nella notte tra il 6 e il 7), ma, con qualche robusto palo a rinforzo, si erano evitate interruzioni. Tranne all’Esino: mezzo ponte spazzato via dalla corrente e il rimanente che minacciava la stessa fine. Assoldando uomini del posto, il Belli trovò il modo di proseguire. Una volta scaricato tutto il bagaglio, si sostituirono i cavalli con robusti e docili buoi, che, condotti dai locali, non ebbero troppe difficoltà, malgrado la forte corrente, a guadare in un punto poco profondo. L’ acqua bagnò appena il pavimento del legno. Per il bagaglio e lo stesso Belli si ricorse invece al vecchio sistema del traghetto. Una barca trainata lungo un grosso canapo teso tra le sponde. La barca non riusciva, tuttavia, ad accostare dalla parte della Rocca di Fiumesino. Cosicché, per salirvi sopra, sia il Belli che il bagaglio entrarono in acqua sulle spalle dei barcaroli. Al termine dell’elaborato passaggio, si riattaccarono i cavalli e il viaggio poté riprendere, per la via di Falconara (F. Alta) e del Barcaglione, con vista su Ancona, dove si arrivò alle 9 e ¼ (Cfr. MANLIO BALEANI, In viaggio nelle Marche con Giuseppe Gioachino Belli, Falconara Marittima–AN 2013, pp. 39-41). 57) Alcune delle antiche stazioni di posta-cavalli presentano una fronte porticata (ad es. Radicofani o Senigallia), del resto rispondente a motivi pratici, offrendo riparo dall’intemperie, etc. A volte si tratta di edifici sulla via senza nulla di particolare sul piano architettonico (es. Valcimarra). Il caso del Mandracchio è abbastanza particolare, e per la funzione diversificata e per i continui interventi sulla struttura. Per cui la soluzione “estetica” dell’osteria di Marzocca, che, per certo, non era una “mezza posta” (come avevo invece ipotizzato, sulla scorta del toponimo “Marzocca dei Cavalli”, in SANDRA CAPPELLETTI, DANILO RIPANTI, “Raccolta di toponimi nell’area della bassa Vallesina”, in AAVV, Esino mare…cit., vol. 2, p. 347; cfr. nota 40 di questo lavoro; NEGRI, Il servizio postale…cit., p.5, che giustamente esclude tale possibilità), non può che giustificarsi con il tentativo di somigliare alla Casa Bruciata, del resto a poca distanza. Che ciò contribuisse ad incrementare gli affari dell’osteria resta ipotesi da non trascurare. 58) I regolamenti sul servizio di posta-cavalli risultavano molto dettagliati: numero di cavalli, passeggeri, bagaglio, etc., non trascurando la “mancia al postiglione” e il costo del “beveraggio allo stalliere”, tutto era codificato, ma l’applicazione del “regolamento” da parte dei responsabili poteva risultare elastica o francamente fraudolenta. Coi vetturini privati (detti anche “i Sant’ Antonio”) la polemica appariva presso che continua, fino a coinvolgere con pacchi di corrispondenza i magistrati locali, compreso quello di 76 LA CASA BRUCIATA


Montemarciano. Cito un caso solo perché interessante circa la persistenza di un soprannome ancora piuttosto noto tra i Montemarcianesi doc., “Grottolo”, già di spettanza di un agricoltore, tale Bernacchia, con colonìa attiva fino agli anni ’70 del ‘900, e casa ex rurale ancora presente sulla parzialmente scomparsa via “Pozzo del Letto” (da intendersi del Letti, come un sovrastante vicolo urbano Letti). Nel 1773, abitante alla Marina, si segnala il vetturino Ubaldo “alias Grottolo” figlio di Vincenzo Bernacchia. 59) Cfr. AAVV, Architettura fortificata nelle Marche…cit., p. 195; più correttamente l’edificio (detto anche “caserma guelfa”) è oggi classificato nel novero delle strutture polifunzionali, commerciali e recettive (cfr. www.beniculturali.Marche.it). 60) Archivio di Stato di Roma, Camerale, Disegni e piante, Montemarciano, Case Bruciate, fine XVIII sec. La descrizione della qualità del terreno antistante l’osteria (“Banconi di ghiaia”, “Pratello”, “Ghiaia”, “Sterile”, “Arativo”, “Scanni”, etc.) sottolinea l’evoluzione della spiaggia, da qualche tempo in deciso aumento, con il conseguente allungamento della strada al caricatore camerale del grano o porto, visivamente indicato dall’imbarcazione dipinta. Su queste nuove “terre” (o “Relitti di mare”) si sono innescati interessi economici, altrimenti impensabili, poiché ormai l’intero territorio di Montemarciano è stato colonizzato, rendendo quindi appetibili anche aree marginali, instabili e decisamente poco produttive. Ma per qualche grande proprietario vale sempre la pena di sfruttarle, tentandone la miglioria (RIPANTI, Un antico “capolinea”…cit., pp. 122-124. 61) Questa spiaggia s’era formata a partire dalla fine del XVI secolo ed era rapidamente aumentata del giro di due secoli. Sulla situazione forestale di Montemarciano e disboscamenti cfr. DANILO RIPANTI, “ Montemarciano: selva e pascolo tra XV e XVII nella legislazione statutaria e in altri documenti coevi”, in Esino mare…cit., vol. 2, pp. 306-325. Quindi l’incremento, sia pure meno consistente, era proseguito fin verso la metà del XX secolo (IGM, 1892-1949), ad onta dei prelievi di materiale ghiaioso. Il collasso è risultato quasi improvviso a partire dalla fine degli anni ’70 del secolo scorso: blocco quasi assoluto dell’apporto solido dell’Esino (per varie cause: cave, traverse, lavori nell’alveo, superstrada, etc.), irrigidimento totale della linea di costa (spianamento della duna e eliminazione della vegetazione costiera residua, villaggio di Rocca Priora, raffineria, strada di lungomare, abitazioni lungo la stessa, protezione, o scogliera, inadeguata e a singhiozzo, con progressione esponenziale dell’erosione nei tratti non protetti, ripascimenti inconsistenti o semplicemente impossibili nell’entità necessaria… 62) E’ la descrizione lasciata sul finire del XVIII dal canonico e storico montemarcianese Vincenzo Trusiani (RIPANTI, Montemarciano…cit., p. 321. 63) Il fatto “curioso” è l’assenza anche di un solo nominativo per il periodo piccolomineo. Il che non significa che un’indagine estesa sul fondo notarile di Montemarciano non possa dare risultati. 64) Archivio Parrocchiale di Montemarciano, Stato delle Anime, passim; RIPANTI, Montemarciano…cit., p. 369. 65) RIPANTI, Un antico “capolinea”…cit. , p. 122-124. 66) BONASERA, Cartografia storica delle Marche…cit., pp. 233-270; PAOLO JACOBELLI, GIORGIO MANGANI, VALERIO PACI, Atlante storico del territorio marchigiano, Ancona 1983, vol. 1, pp. 7-49. 67) Cfr. nota 65 di questo lavoro. 68) Ricordiamo solo che il “relitto di mare” della tenuta delle Pojole di Rocca Priora, ancora alla soglia degli anni ’70 del ‘900, ospitava il campo di calcio di Marina di Montemarciano, nonché il poligono di tiro-percorso di guerra della caserma Saracini, del reggimento di fanteria Pavia. Oggi il mare è praticamente a ridosso della linea ferroviaria. Per avere un’ idea della progressione della nuova spiaggia, basta confrontare il “relitto di mare” alla foce del Rubiano del 1743 (“Tavola II”) con la situazione a distanza di circa 60 anni (Archivio Storico Comunale di Montemarciano, Catasto napoleonico-gregoriano, anni 1813-31, foglio Case Bruciate. Cfr. anche nota 69). 69) Questa tavola, circolante nel mercato antiquario (probabilmente la copia di un originale che, a rigore di logica o di legge, dovrebbe trovarsi al fondo Camerale dell’Archivio di Stato di Roma…), pur non datata, potrebbe collocarsi tra la seconda metà e la fine del XVIII sec.. Non è ancora stata “raddrizzata” la strada postale costiera, all’altezza del tratto di foce del Rubiano. Purtroppo non offre un’iconografia dell’osteria di posta, ma è interessantissima quella del “Casino Baccarini” (segnalato a catasto già nel 1749), come si presentava prima delle ulteriore ampliamento (forse col concorso degli Honorati, nuovi proprietari, anche dei “relitti di mare”, in pratica tutta la spiaggia di Montemarciano). Nel catasto di Montemarciano del 1778, il “casino ad uso di villeggiatura con chiesa” risulta ancora dei Baccarini; in quello del 1809 è “Casino Honorati”, ha già tre piani ed è affiancato da case rurali. E’ raffigurato anche un altro immobile, appena entro il territorio anconitano, ancora in piedi, costruito con lo stesso criterio degli annessi rurali del casino (pietra e mattoni). Si ringrazia il sig. Cesare Casavecchia, tramite il quale, sono riuscito a fotografare la mappa. 70) Le prime case che si aggiungono all’osteria di posta sono quelle lungo la Flaminia, tra le odierne via Roma e via Manzoni (seconda metà del ‘700). Successivamente ne compaiono altre lungo via Roma ( l’unica strada per l’interno) fino all’altezza della confluenza di via Manzoni (strada ancora non esistente, cfr. Catasto 1815-31). 71) Con circa 4 km e ½ di litorale e un “porto”, si sarebbe potuto supporre che la pesca fosse una risorsa economica importante per Montemarciano. In realtà la si praticava solo per sbarcare il lunario, da parte di chi era rimasto escluso dalla collocazione in ambito rurale. Tutto era in funzione del grano, dal “porto” ai depositi dell’osteria e, come s’è detto, si cercava di sfruttare sul piano agricolo anche la spiaggia. Questo almeno fino al XIX sec. avanzato. Una modesta imbarcazione adatta alla piccola pesca sotto costa era al di fuori della portata dei più. Occorreva rivolgersi a qualche proprietario in paese per denaro e permessi. Al massimo qualche capanna di frasche per ricoverare scafo e attrezzatura. Naturalmente il pesce aveva i suoi estimatori anche in collina, per cui qualche governatore camerale poteva trovare conveniente finanziare una barca con equipaggio, avere pesce fresco sulla mensa e anche un discreto guadagno. In diversi mangiavano con la “tratta” (la pesca con la sciabica, a strascico, sulla riva), ma c’era chi metteva sempre i bastoni tra le…reti. Il marchese Honorati, avendo la concessione dei relitti di mare, non gradiva “sciabiggotti” sul “suo” litorale ( spostavano troppa…ghiaia, danneggiando le sue bonifiche agricole), o meglio sopportava solo chi gli stava nelle grazie (e lo riforniva adeguatamente). Chiese ed ottenne soddisfazione dal noto cardinale Ruffo (quello che contro i Francesi aveva scatenato, nel Regno di Napoli, le bande legittimiste di “Fra’ Diavolo”). Ma il marchese aveva ben “meritato…una speciale attenzione del Principe…nel rendere fruttiferi que’ terreni che rimanevansi incolti per altrui negligenza, o che erano naturalmente selvaggi…” Cfr. RIPANTI, Montemarciano….cit, p. 286. 72) Il torrente Rubiano, che, proveniente dalle colline di S. Angelo di Senigallia, ha un percorso quasi parallelo alla costa, da cui è separato dal costone collinare, curvava naturalmente verso il mare all’altezza della località “Molinello”, dove forniva, al tempo dei Malatesti e Piccolomini, l’energia per il piccolo “molino da maltempo” (in grado di macinare solo quando c’era acqua a sufficienza). Poi, affiancato dalla terminazione della strada che portava alla marina, sfociava a levante dell’osteria. Con la colonizzazione del territorio scomparve la copertura vegetale sulle sue sponde, che formava un vero e proprio bosco, la “Selva di Rubiano ”, abbattuta 77 LA CASA BRUCIATA


in gran parte nel 1578, venendo il lavoro completato dagli Affittuari camerali. Rimangono i toponimi via “Selva” e “Porcareccia” ( il querceto veniva sfruttato per l’allevamento semibrado dei maiali). Forse per questo le piene del torrente divennero più tumultuose e pericolose, al punto che i frequenti straripamenti, ponendo a rischio i depositi dell’osteria, consigliarono una deviazione drastica dell’asta terminale. Venne spostato l’alveo, con una brusca curva a Molinello, cosicché la foce finì a ponente dell’osteria, diminuendo i rischi. L’intervento (cfr. nota 31 di questo lavoro) fu voluto dalla Camera, per cui, ogni qual volta occorreva procedere ai necessari lavori di “spurgo” dell’alveo del Rubiano, i possidenti enfiteutici dei terreni confinanti col torrente facevano resistenza, cercando di sottrarsi alle spese. La prima pulizia radicale del torrente fu eseguita verso il 1620. Da una perizia del 1724 sappiamo di un’altra fatta nel 1694 e, dovendosi ripetere, si procedeva, più o meno, a intervalli di 30 anni. Ora con spesa circa 3000 scudi, metà per gli adiacenti, metà per la Camera. Altre opere di contorno erano a carico della comunità con la tassazione. C’era stata alluvione, ma la comunità sosteneva che non aveva provocato gran danno, mentre la Camera ne lamentava ai depositi dell’osteria. Qui la perizia camerale consigliava il rialzo delle soglie al piano terra (per 12 porte), la pulizia e l’allargamento delle chiaviche nel cortile riceventi l’acqua dei tetti. Una “…che passa sotto la strada maestra e sbocca nel fosso aperto vicino alla chiesola…”, fosso che pure andava pulito e allargato fino al mare. Da ingrandire pure l’altra, “…dall’altro lato del cortile, che passa sotto la scala verso il pozzo, e sbocca di dietro all’ostaria, et ivi fare di nuovo un fosso aperto vicino il muro della casa, che con maggior facilità vada a sboccare a lo fosso detto delle Poliole…” Il che era uno scherzo, rispetto a quanto bisognava fare per il Rubiano, da ripulire e scavare dalla foce fino al confine con Senigallia. “Cominciando a ripolire il detto fosso dalla parte di sotto il ponte della strada maestra sino al mare…” dal terriccio franato dai campi allargandone il letto, soprattutto alla foce, e mantenendo la pendenza verso mare, con il letto ovviamente sopra il livello dello stesso. Proseguendo “…di sopra il ponte, cioè verso la fornace e Monte Marciano, si stima sufficiente per le acque ordinarie di escavare un fosso a forma di cunetta nel mezzo del letto medesimo…” Per i momenti di piena il resto del letto, allargato e sagomato come da disegno e con le misure adeguate per le varie sezioni, veniva calcolato sufficiente. Molta importanza era data agli argini nelle zone in piano, alzati con la terra di scavo ed assestati senza provocare restringimenti de “l’alveo antico ”.Non si ammettevano compromessi formali e dimensionali, con la raccomandazione di divieto assoluto di transito o stazionamento di bestiame sugli stessi. O peggio, farci piantagioni!

“Profilo del fosso da farsi”, a. 1724, con le misure in palmi romani (0.2234 ml), con il letto del fosso vecchio di circa 9 ml. Dalla foce al confine con Senigallia erano 1439 “canne di Monte Marciano”, con la “canna” locale di palmi romani 18 e 1/2, vale a dire km 5.8 circa. Interventi del genere richiedevano, di solito, due anni di tempo. Qualsiasi lavorazione del terreno, ad aratro o zappa, non poteva distare dagli argini meno di 10 “palmi romani”. Naturalmente “… che tutti li fossi delle possessioni siano rimondati e puliti…” e così quelli delle strade adiacenti, sollevate con la terra di scavo, e brecciate. Un’ altra disposizione da attuarsi comunque, o da parte degli adiacenti o da parte della Camera a spese sempre dei primi, era quella di “…mantenere del ripe del fosso con piantarvi alberi e spini…” Ultima raccomandazione ai “mastri di strada” locali: controllassero almeno una volta al mese che la situazione del letto e degli argini non si deteriorasse, avvisando per le riparazioni necessarie (cfr. RIPANTI, Montemarciano…cit., pp. 334-335).

78 LA CASA BRUCIATA


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A fianco: vista sul cortile dell’antica stazione di posta di Case Bruciate come probabilmente doveva apparire alla fine del 1600 (schizzo prospettico). Nella pagina seguente: ricostruzione grafica della Torre di Ponente parzialmente demolita nel 1930 (fotomontaggio).


Parte II

Placido Munafò, Enrico Mugianesi

Valorizzazione e riuso dell’antica stazione di posta di Marina di Montemarciano

81 LA CASA BRUCIATA



Sommario parte II

Premessa

85

Capitolo I L’edificio nei secoli

87

1.1 1.2 1.3 1.4

87 94 102 104

di Placido Munafò

di Enrico Mugianesi

Lo scalo e la Casa Bruciata L’osteria fortificata La posta cavalli Il Mandracchio dall’ottocento in poi

Capitolo II La costruzione oggi

113

2.1 Le parti originali e non 2.2 Per chi vuole approfondire Realizzazione e statica delle volte cinquecentesche 2.3 Cenni sullo stato di conservazione Principali degradi e dissesti delle murature storiche

113

Capitolo III Proposte per un riusco compatibile

141

3.1 Verifica di alcune destinazioni d’uso 3.2 La versatilità del manufatto

141 141

Capitolo IV La valorizzazione del manufatto

151

4.1 Le qualità prevalenti da tutelare 4.2 Spunti per un restauro rispettoso

151 154

Note, bibliografia e fonti

164

di Placido Munafò ed Enrico Mugianesi

124 134

di Placido Munafò ed Enrico Mugianesi

di Placido Munafò ed Enrico Mugianesi

83 LA CASA BRUCIATA


Contributo derivante dalle attività didattiche dei corsi di Restauro Architettonico - A.A. 2009/10 - e Architettura Tecnica II - A.A. 2010/11, 2011/12, 2012/13 - dell’Università Politecnica delle Marche tenuti dal prof. Placido Munafò. Gli autori ringraziano l’Amministrazione del Comune di Montemarciano ed in particolare il Sindaco che, mettendo a disposizione il Mandracchio, ci ha permesso di svolgere una utile e proficua attività didattica. Una particolare menzione va agli studenti dei corsi di cui sopra, citati nelle “Note, bibliografia e fonti”. Inoltre gli autori ringraziano, per la gentile concessione delle immagini e per il prezioso contributo fornito durante la ricerca del materiale informativo, lo storico Danilo Ripanti, L’Amministrazione del Comune di Montemarciano e la Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici delle Marche, un particolare ringraziamento a tutto il personale addetto agli archivi degli enti sopra citati per la collaborazione fornita. Si ringrazia infine, per la disponibilità e la professionalità dimostrata, il Gruppo Mansevigi di Monsano e il personale che ha collaborato all’impaginazione del testo e alla rielaborazione di molte immagini in esso contenute.

84 LA CASA BRUCIATA


Premessa

di Placido Munafò Lo studio che si presenta ha principalmente lo scopo di fornire un’adeguata conoscenza del Mandracchio di Case Bruciate – antica osteria fortificata delle nobili famiglie senigalliesi Malatesta e, successivamente, Piccolomini – attraverso la quale avviare l’iter per la definizione di un progetto di fattibilità per il restauro dell’edificio. L’accurato rilievo geometrico e materico ha consentito di ottenere delle dettagliate informazioni sui singoli elementi di fabbrica, necessarie anche per la loro datazione. Alla luce del lavoro svolto, si può affermare che quello che appariva come un edificio omogeneo e sovradimensionato, comunque singolare nel suo complesso, in realtà è il frutto di un articolato e costante processo di aggregazione e ricostruzione che, è stato studiato al fine del suo riutilizzo. Premesse le finalità del lavoro, si ritiene utile fare alcune considerazioni in merito alle problematiche relative al restauro e/o al recupero dei beni architettonici, non ponendo una distinzione tra i due ambiti almeno dal punto di vista formale. Per semplicità, quindi, non userò il termine “restauro” in modo restrittivo. In particolare, vorrei porre l’accento sul ruolo che la “conoscenza” ha nella rimessa in efficienza dei beni architettonici del passato essendo il restauro architettonico un’operazione che non può prescindere dalla rifunzionalizzazione dell’oggetto architettonico. Partendo dal significato di bene architettonico da restaurare, trovo corretto dire che il restauro non si debba genericamente occupare dell’architettura storica, ma dell’architettura che ha un passato. Con quest’ultimo termine intendendo sottolineare la necessità di svincolare la materia del restauro dalla datazione dell’oggetto edilizio in generale per riconsiderala all’interno dei “fatti umani” che fanno parte della memoria dell’edifico stesso o del complesso degli edifici di un tessuto urbano. Questi “fatti umani”, o “eventi” che dir si voglia, che hanno, più o meno ampiamente, modificato l’oggetto architettonico (e, di conseguenza, la sua memoria), rappresentano il vero tema con il quale il restauro si deve confrontare nell’esprimere il suo significato e il suo obiettivo. Le “modificazioni” rappresentano il testo su cui il restauratore evince il suo paradigma. Di fatto, accade spesso che il dibattito culturale sulle scelte interpretative del restauro (più o meno soggettive) non riguardi la conservazione dell’originalità della materia architettonica, ma le alterazioni che la materia ha subito o permesso. Di conseguenza, ritengo corretto rintracciare le motivazioni dell’intervento nel passato, o nelle storia che dir si voglia, dell’oggetto architettonico, ancorché nella generica conservazione e tutela dell’edificio. Infatti, il progetto di restauro apre il confronto e il dibattito con l’esterno proprio sulle modificazioni o alterazioni che la materia ha subito (o permesso) e non è tanto sulla conservazione dell’originalità dell’esistente, in quanto sintesi delle scelte interpretative, culturali e perché no anche soggettive

del progettista. Trovo, di conseguenza, più corretto guardare al passato dell’oggetto architettonico non solo come “fonte di conoscenza”, ma soprattutto come “fonte ispiratrice” dell’intervento, intendendo con questo che i suoi trascorsi temporali, giustificano e motivano l’intervento stesso di restauro. Ritengo quindi non del tutto corretto che la conservazione dell’edificio storico sia accettata in maniera scontata come la motivazione principale del restauro, perché in tale motivazione si considera a priori che la materia e la sua espressività sia riconducibile ad un arco di tempo ben preciso e individuabile. E’ anche da aggiungere che se la conservazione è il motivo principale del restauro, questo atteggiamento può anche far sottintendere che sia possibile e giusto individuare caratteristiche materiali e formali che abbiano qualità prevalenti da tutelare. Questo atteggiamento comporta la negazione parziale o totale del passato, e quindi del presente stesso dell’edificio, che diviene qualcosa quasi sempre da negare e con cui, nel progetto di restauro, non ci si confronta compiutamente e non si apre con esso un dialogo costruttivo. È poi da accettare il fatto che ci si trova oggi ad operare quasi esclusivamente su un patrimonio edilizio esistente che, nel bene e nel male, è stato modificato anche drasticamente, sia nel passato più remoto che in quello più recente. Quindi è con queste modificazioni che dobbiamo confrontarci, trasformazioni che spesso hanno a che fare con precedenti interventi di restauro. È quindi sul palinsesto del presente che il progetto di restauro deve ed è costretto ad esprimersi e credo debba farlo senza utilizzare “gerarchie temporali”. Non è quindi tanto la salvaguardia della “storia dell’edificio” che dovrebbe motivare il restauro, ma la comprensione dei “fatti” che lo hanno condotto, modificandolo nel tempo, al nostro presente e che potrebbe portare, come necessaria conseguenza, ad un intervento di restauro più realistico. Non voglio entrare in merito alla discussione sulla conservazione o meno delle modificazioni o superfetazioni che l’edificio del passato ha subito e permesso, voglio semplicemente in questa sede porre l’accento che proprio le modificazioni rappresentano sovente l’aspetto più significativo, non solo dal punto di vista materiale e formale, ma anche dei significati che oggi l’edificio stesso esprime, caratterizzandone la sua attuale identità. È su questa identità, o meglio nella sua lettura e comprensione, che il progetto di restauro dovrebbe tentare una interpretazione, che comunque è parziale e quasi mai completa. La conoscenza del patrimonio edilizio non è dunque da assumere come un dato assoluto ed esaustivo nelle cornice temporale del presente, perché è riconducibile a due aspetti o fattori che dir si voglia. Il primo, è che non può mai esserci la certezza della conoscenza completa dei fatti che hanno portato alla modificazione dell’oggetto architettonico. Il secondo, e non meno importante, risiede dell’assunto di base che sottintende la cosiddetta “trasformazione” o “modificazione” che l’edificio ha subito 85

LA CASA BRUCIATA


materia che i “fatti umani” trovano la loro esplicitazione ed è sulla materia che troviamo le tracce del passato e su di essa si realizza il presente. “Leggere” la materia è quindi l’atto conoscitivo che ci permette di operare le nostre scelte progettuali che comunque devono portare con se la consapevolezza delle modificazioni che andiamo ad effettuare. Consapevolezza che porta ad accettare di realizzare un altro “presente”. Quindi il restauro non è tanto un’operazione volta a riportare indietro l’orologio del tempo, o di fermarlo, bensì è un atto progettuale, che può anche prescindere dall’individualità del progettista, ma non può essere estraneo al tempo che lo ha motivato (il presente !). Ritengo quindi che il concetto di rimessa in efficienza di un oggetto architettonico del passato non può prescindere da tale considerazione, nel senso che l’edificio o i suoi componenti possono essere sì riconfermati, nel momento in cui la materia lo permette, ma questi possono subire modificazioni che sono la conseguenza di situazioni (condizioni), o esigenze del presente che motivano il restauro stesso e il tempo di riferimento non è certo quello passato, ma il presente stesso.

negli anni, in quanto con questi termini si suppone comunque l’esistenza di una sorta di originalità che forse mai è stata posseduta dall’edificio stesso. Tale presunta ricerca dell’originalità si rifà ad un dato temporale preciso come se il tempo dei “fatti umani” scorra linearmente su un unico binario temporale. A questo è da aggiungere che, ciò che si è definito per semplicità come “fatti umani”, spesso non sono riferibili a precise azioni collocabili spazialmente e temporalmente. Possono infatti riferirsi (più in generale) a situazioni, contingenze, bisogni, ecc. che si estrinsecano in una sintesi costruttiva e formale che trova riscontro in diversi ambiti, ad esempio: della cultura del costruire, della situazione sociale ed economica locale e della committenza, del “saper fare” delle maestranze, ecc.. Si potrebbe poi sostenere che la materia conserva testimonianza del passato e trasmette l’identità dell’edificio ed è ad essa che in fondo si rivolge principalmente il progetto di restauro, cercando di conservarla, o di modificarla, o adattarla alle nuove esigenze, o di riplasmarla, o addirittura di reinterpretarla anche con l’aggiunta di nuova materia. E’ poi da osservare che è proprio sulla

Museo di Castelvecchio, uno dei più importanti e interessanti interventi di restauro italiani che ha portato alla realizzazione di un museo all’interno della fortezza di Castelvecchio a Verona (Architetto Carlo Scarpa 1957-1975). 86 LA CASA BRUCIATA


Capitolo 1

L’Edificio nei secoli di Enrico Mugianesi

In questo contributo viene presentato lo studio dell’evoluzione costruttiva del Mandracchio, ovvero la sintesi architettonica di come il manufatto si sia originato e sviluppato nei secoli. Dobbiamo ovviamente osservare che in tutti gli edifici storici, che possono vantare vari secoli di vita, sia scontato aspettarsi di trovare diverse stratificazioni o modifiche di alcune loro parti. Questo aspetto, però, non è così evidente nel Mandracchio, il suo impianto semplice e simmetrico, la regolare distribuzione delle aperture possono, ad una prima osservazione, far sembrare l’edificio riconducibile ad una specifica epoca. Costruito, con un singolo gesto creativo, sin dall’inizio così come lo vediamo oggi. Se entriamo all’interno, però, scopriremo alcune difformità costruttive che sono il sintomo di una articolata e singolare genesi che ha portato un piccolo nucleo trecentesco a svilupparsi nell’edificio attuale. Abbiamo provato a ripercorrere la sua storia verificando, con dei rilievi in situ, tutte le informazioni storiche disponibili. A tal proposito un prezioso e indispensabile contributo è stato fornito da Danilo Ripanti, che occupandosi con dedizione allo studio della storia del territorio, rispolverando dagli archivi antiche mappe, disegni e scritti, ha ricostruito storie e fatti che erano stati dimenticati. Informazioni, queste, preziosissime per approfondire la conoscenza dei beni architettonici storici. Soprattutto per edifici del passato destinati a funzioni minori, come il Mandracchio, che a differenza di chiese, palazzi nobiliari o grandi fortificazioni non vengono facilmente menzionati nelle cronache storiche.

Nel 1463, subentrati i Piccolomini, la gestione di porto e osteria si consolida con servizio di alloggio per mercatanti e marinai, magazzini in affitto per cereali, merci varie e sale. Verso la fine del 1500 la costruzione si configurava come osteria con due torri una vecchia e l’altra nuova, con magazzini da grano, stalle, una loggia, sala, cortile, cantina e camere. Dopo il 1591 il feudo passa direttamente alla Camera Apostolica. La dissennata politica di disboscamento provocò vistose alterazioni di costa, costringendo anche alla deviazione del Rubiano a ponente della Casa Bruciata per attenuare i rischi di allagamento dei deposti. A partire dal 1500, si era regolarizzato il servizio di posta, con l’introduzione nello Stato Pontificio del regime di monopolo per la Posta Lettere. Già sotto i Piccolomini la stazione di casa bruciata era comunque segnalata in una delle prime guide a stampa edite in Italia (1562). Nei torrioni passarono guardie o sbirri del castello, la squadra delle fraudi che girava a cavallo per lì signori Thesorieri della Marca, Fanti Della Battaglia di Montemarciano, Compagnia Territoriale agli ordini del Capitano Della Banda, o truppa da Jesi. L’osteria di posta si prestava benissimo a trasformarsi in quartiere per le truppe in transito con le conseguenze immaginabili. 1 Nel 1625 un restauro radicale venne ordinato dal Cardinal Camerlengo che non trascurò il bene spirituale dei viaggiatori ordinando, anche, l’ampliamento della chiesa attigua.

1.1 Lo scalo e la Casa Bruciata Breve sintesi sulle note storiche Il Mandracchio risale agli inizi del ‘400 quando la signoria malatestiana di Fano e Senigallia fece del luogo il punto di imbarco del grano che veniva commerciato con le città dell’Italia settentrionale e della costa dalmata. Nelle cronache dell’epoca viene citata l’esistenza della “Torre de Rubiano”, forse il primo nucleo dell’edificio. Il ruolo di osteria della “Casa Bruciata” appare ben chiaro solo con la dominazione di Montemarciano da parte dei Malatesti di Pesaro. Tra il 1455 e 1456 sono approntati uno scalo portuale e un probabile ampliamento della Casa Bruciata.

L’edificio fu tappa dei soldati Austroungarici (1815), degli eserciti napoleonici. Nel 1810 a case bruciate arrivò il Casino del Telegrafo. Il declino dell’edificio inizia con la costruzione della ferrovia Rimini-Ancona (1861). Privato da tutte le sue funzioni il Mandracchio fu sfruttato come isolato abitativo (dai primi anni del 900 fino al terremoto del 1971).

87 LA CASA BRUCIATA


DOCUMENTATA_TAVOLA 01

Le fonti storiche - Ricostruzione storica documentata

1445

1445

TAVOLA 1.I

È presente una piccola torre fortificata

L’osteria ha completato il suo sviluppo costruttivo

fine

fine 1500

1500

Mappa jesina su pergamena, autore anonimo [1]

1700

1700

Cartografia risaliente al XVI secolo [2]

Riconosciuta ufficialmente come Stazione di Posta dello Stato Pontificio

Perizia sui relitti di mare, Camera apostolica, Archivi di Stato, Roma, sec. XVIII [3]

1800

1800

Diviene una delle più rinomate stazioni di posta del litorale

Cartografia risalente al XIX secolo [4]

Viene destinato a botteghe, abitazioni e ampliato sul fronte interno

1920

1920

In alto a sinistra: torre vecchia di Levante [5] In alto a destra: vista complessiva del Mandracchio [5]

Il Mandracchio conserva ancora le due torri sul fronte mare

1980

1980

Foto risalienti circa agli anni '20 [6]

L’edificio versa in forte stato di abbandono, le torri demolite di un piano nel 1930

1989

1989

In alto a sinistra: vista del loggiato interno sovrastante l'arco di ingresso [6] In alto a destra: vista del prospetto principale [6]

Interventi di restauro del nucleo seicentesco

Tavola di rilievo del restauro [7]

88 LA CASA BRUCIATA


TAVOLA 1.II

Evoluzione costruttiva dal ‘500 ad oggi 1

CRONOLOGIA 1_ Fine 1300 1400-1445

2 “Torre de Rubiano” “Torre di Casabrusiata”

2_1453-1456 “Casa-torre” 3_ 1500

Ampliamento “Casa Torre”

4,5_Inizio 1600

“Torre e Ala di Ponente” (fasi distinte, ma non determinabili)

6,7_1560-1570

“Cortile con ingressi carrabili e logge” (fasi distinte, con modifiche nel 1600)

8,9_1800

“Nuovi fabbricati sul fronte lato monte” (con aggiunta di un volume nel cortile)

10_1930

Demolizione di un piano delle due torri fronte mare

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10 89 LA CASA BRUCIATA


fortificato efficace. La torre divenne indispensabile anche per l’alloggio dei soldati di guardia, ogni zona costiera si dotò quindi di tale sistema difensivo realizzato secondo criteri costruttivi locali. Solitamente la base era a scarpa e l’ingresso, sul versante a monte, era soprelevato di qualche metro rispetto al piano di campagna (raggiungibile attraverso un piccolo ponte levatoio o una semplice scala rimovibile). Si diffusero torri piccole prevalentemente destinate alle segnalazioni e munite di armi per la difesa, torri intermedie destinate alla difesa e dotate di un armamento leggero, torri di grande mole che possedevano un armamento con pezzi di artiglieria. Tornando al nostro edificio, sappiamo per certo che alla fine del Trecento probabilmente venne costruita “la torre de Rubiano”, le motivazioni che ne portarono alla realizzazione erano principalmente legate alla necessità di garantire imbarchi e depositi temporanei di cereali, è ovvio che in questo conteso storico le architetture costiere, oggetto di razzie piratesche, debbano assumere una conformazione fortificata. Non a caso, nelle fasi successive di ampliamento e ricostruzione del Mandracchio, troviamo molte analogie con le “torri saracene” sopra citate. Di certo non è altrettanto casuale se, alla fine del ‘400, l’edificio inizierà ad ampliarsi fino ad assumere la conformazione di un fortilizio, pur mantenendo una funzione prevalentemente commerciale e ricettiva. Sono, infatti, questi gli anni in cui, in tutto il territorio circostante, vengono modificate e ricostruite gran parte delle architetture militari. Poiché il sistema difensivo si adeguava rapidamente ai mezzi di attacco ricordiamo che nell’epoca feudale le difese erano concepite in funzione degli attacchi della cavalleria. Ritorna la fanteria armata di archi e di balestre. È noto che i criteri di fortificazione variano al variare dei mezzi di offesa, l’architettura militare medioevale venne adattata come meglio si poteva per via della principale innovazione nel campo dell’attacco e della difesa: la polvere da sparo. L’attacco proveniva dalla fanteria o dalla cavalleria, fino alla metà del secolo XV lo sbarramento murario con merlatura era a protezione dalle frecce. I recinti murati fino a tutto il secolo XV hanno alte mura-

Le premesse alla realizzazione dell’edificio Nel Quattrocento Costantinopoli, le coste nord-africane e la penisola balcanica caddero in mano all’Islam, e i litorali italiani rimasero alla mercé degli Ottomani. Questa situazione fu ridimensionata dalla vittoria delle flotte cristiane a Lepanto nel 1571, ma le incursioni piratesche non cessarono fino all’Ottocento. Piccole imbarcazioni veloci provenienti dai Balcani continuarono i loro assalti rapidissimi e i saccheggi nelle coste adriatiche, gettando nel terrore gli abitanti. Le razzie saracene erano anche finalizzate alla cattura di persone che venivano ridotte in schiavitù o, nel migliore dei casi, potevano essere restituiti ai loro cari dietro il pagamento di riscatti. Come sempre, tale situazione determinava problemi anche economici, “i mercantili adottavano la navigazione costiera, anche a costo di dilatare tempi e costi, per restare sempre in vista della terra dove cercare rifugio in caso di arrembaggio: quest’esigenza dei naviganti portò in qualche caso all’imposizione di gabelle di transito da parte di signorotti locali, quasi che le acque costiere fossero canali privati interni”. 2 Come contromisura compaiono torri di vario tipo utilizzate per avvistamenti, per difesa e per le segnalazioni. Oggi, lungo le strade costiere italiane, è frequente avvistare torri isolate di dimensioni e forme diverse. Sono i resti di un sistema di allarme e difesa contro gli assalti dei pirati e dei Turchi che, con i loro vascelli, minacciavano l’Italia. Fin dal primo Cinquecento si capì di dover fare affidamento sul proprio potenziale difensivo piuttosto che su quello offensivo, confidando nella propria architettura militare. Nacque così una rete di avvistamento semplice ed efficiente e, quando un vascello sospetto si avvicinava, immediatamente dalle torri costiere partivano messaggeri a cavallo per avvisare gli abitanti del pericolo imminente. Queste torri, armate con artiglieria leggera, costituivano una efficace frontiera di fuoco contro le imbarcazioni, ma dovevano essere imprendibili anche in occasionale di attacco ravvicinato. Occorse tuttavia aspettare il 1500 affinché le comunità costiere si attrezzassero per la difesa con sistemi di avvistamento, di allerta alla popolazione e di difesa armata. Solo dopo la seconda metà del Cinquecento si decise di costruire una successione di torri per formare un sistema

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Tipiche imbarcazioni utilizzate per la pirateria. A sinistra, Saica turca del XV-XVI secolo e, a destra, Galeazza Turca del XVI secolo. 90 LA CASA BRUCIATA


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6 In alto, Carta nautica turca del litorale adriatico (1554), al cento Senigallia e a sinistra forse la Casabrusiata. Al centro, Nave e galea bireme utilizzate a difesa delle coste anconetane, 1482. In basso, Tipologie ricorrenti nelle torri costiere adottate nell’Adriatico alla fine del 1500. 91 LA CASA BRUCIATA


glie verticali, rafforzate da torri più alte e generalmente di pianta quadrata, munite di caditoie e di merlatura. Con la comparsa dell’artiglieria i criteri difensivi mutano decisamente. Le cortine si abbassano per offrire minore bersaglio alle artiglierie essendo ora queste le armi risolutive. Le mura difensive vengono dotate di “aperture” per i pezzi di artiglieria, mentre all’esterno vengono decisamente “scarpate” per il rimbalzo dei proiettili. Tra la parte scarpata e la parte verticale delle mura difensive si inserisce un robusto cordone, che serve da ostacolo alla eventuale scalata degli aggressori. “Le torri non si slanciano più nel cielo, ma si livellano invece con le mura che superano di poco: divengono inoltre poligonali o cilindriche per offrire una superficie sfuggente ai proiettili. Vengono anch’esse scarpate fino a metà della Ioro altezza, e dotate di cordone. Lo sporto non è più necessariamente merlato, ma presenta sempre aperture per armi da fuoco, che talvolta sono collocate un po’ più in basso e continua ad avere le caditoie che lo scafpamento, per l’accennato rimbalzo dei proiettili, rende ancora utili. La rocca ed il mastio acquistano analoghe caratteristiche e perdono le caratteristiche grevi di un inutile peso, acquistano modernità che si accentuerà in pieno Rinascimento”. 3

7 Torre costiera di Olevola della Marina Pontificia, Terracina 1617.

Questo avviene anche in tutte le fortificazioni della zona come ad esempio nella rocca di Castelferretti e Rocca Priora, di Camerata Picena, di Monsano, di S. Marcello e ovviamente anche nell’Osteria fortificata di Case Bruciate.

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La torre fortificata nel medioevo. In alto, Ingresso rialzato della torre con scala removibile in caso di pericolo. In basso, Ambienti interni della torre di una famiglia nobile.

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92 LA CASA BRUCIATA


Si faceva anche uso di barelle e altre innovazioni come argani, carrucole e ponteggi in legno. Nel corso dei sec. XV-XVI, il cantiere edile presenta una struttura piramidale fortemente gerarchizzata dove ogni categoria di lavoratori occupava un ruolo preciso. Il loro lavoro era regolato da rigide consuetudini che, in alcuni casi, erano anche riportate nei contratti. Al vertice di questa organizzazione vi erano i “mastri”, depositari della “regola dell’arte”. Indipendentemente dalla loro specializzazione, nell’ambito della “fabrica”, tutti i mastri erano sottoposti ad un “Capomastro” che, oltre ad essere responsabile del cantiere e ad esercitare il proprio lavoro, era anche chiamato a provvedere ai disegni esecutivi.

Il cantiere di lavoro nei sec. XV-XVI Da smentire è l’idea ricorrente che nel Medioevo gli edifici nascessero senza una progettazione dettagliata, in cantieri di medie dimensioni, come quello che nel 1600 ha interessato il Mandracchio, indispensabile era la presenza di un progettista che poteva dirigere anche i lavori. Il cantiere era organizzato in modo simile a quelli attuali, a fianco del progettista, troviamo i costruttori che erano gli operai specializzati dell’epoca a cui veniva demandata l’erezione dell’apparecchiatura muraria. Solitamente questi esperti artigiani avevano specifiche abilità e spesso si muovevano da un territorio all’altro alla ricerca di medi o grandi cantieri nei quali prestare la loro opera. Gli operari erano i manovali e, in genere, venivano reclutati tra le maestranze locali.

Il grosso dei lavoratori del cantiere era comunque costituito dai “operari” o anche “moratori”. Tra il personale specializzato coinvolto troviamo invece cordai, fabbri e carpentieri. Tempi lunghi erano necessari a quest’ultimi per la progettazione e realizzazione dei ponteggi. Per tali motivi non è pensabile che un cantiere di media grandezza e importanza potesse essere improvvisato, anche se molta forza lavoro sarà stata sicuramente reclutata in loco (manovali, apprendisti, carpentieri, fabbri, falegnami, cordai e, per le lavorazioni più semplici, anche donne e bambini). 4

Fino al XVII secolo la capacità di calcolare la resistenza alle sollecitazioni dei diversi materiali era empirica, basata sull’esperienza maturata in cantiere. Dobbiamo tenere presente che le principali difficoltà e incognite legate alla costruzione di un edificio si avevano nello scavare le fondazioni e nello spostare i carichi. Uno strumento indispensabile al lavoro dei muratori come la carriola, mossa da un solo uomo, sembra non sia entrato nei cantieri edili prima del XIII secolo. Comunque il movimento dei materiali era affidato a manovali che portavano sulle proprie spalle pesanti ceste e secchi.

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Scena di lavoro in un cantiere medioevale durante la costruzione delle mura di una città

Maestranze al lavoro durante la realizzazione di un edificio fortificato, in primo piano l’uso dell’argano per sollevare i carichi più pesanti. 93

LA CASA BRUCIATA


Alcuni magazzini sicuramente erano anche al piano primo e, molto probabilmente, posizionati verso il fronte sud dal quale era facile caricare le merci grazie alle due ampie aperture presenti, su questo lato, al piano primo. La loggia, sopra il portico di ingresso, collegava le due torri alla scala. Tali ambienti erano destinati ai “birri” (guardie armate) e alle “corrazze” (cavalleria). Un possibile ricostruzione degli ambienti è stata ipotizzata nelle tavole 1.V e 1.VI.

1.2 L’osteria fortificata Osti e osterie Le osterie, o taverne, erano omogeneamente distribuite nel territorio e in grado di offrire servizi di alloggio e ristorazione. All’oste spesso vengono affidati anche altre funzioni più o meno lecite. A volte l’oste assume i ruoli di prestatore di denaro, di mediatore, di informatore nei confronti delle autorità o di protettore nei confronti di contrabbandieri e faccendieri. Siamo abituati a collegare l’idea di osteria unicamente alla sala del ritrovo, della mescita. La sala principale è il luogo del focolare, è il luogo dove insieme si mangia, si beve e si discute. L’osteria è una struttura decisamente articolata, troviamo delle cantine e dispense che custodiscono il vero patrimonio dell’osteria: olio, vino, distillati e salumi. In genere sopra la sala della mescita e della ristorazione, si saliva alle camere, qualora l’osteria - come spesso acadeva - ricopriva pure il ruolo di locanda o di alloggio per il viandante, il commerciante, il carrettiere. La differenza tra osteria e locanda “si sviluppa verso la fine del Settecento per prendere corpo, ai primi del Novecento, specialmente per quanto riguarda la locanda che diventa albergo, mentre resta incerta la differenza, fino a non molto tempo fa, tra osteria, trattoria e ristorante”. 5 Osteria è anche spazio esterno all’edificio con cortili dove i carrettieri possono abbeverare e ristorare bestiame (asini e cavalli), pergolati che accolgono gli ospiti durante la bella stagione, rimesse per il ricovero degli attrezzi e degli animali da cortile. Alla fine del 1500 anche la locanda-osteria di Case Bruciate presentava una organizzazione simile degli spazi. L’edificio è costituito da quattro corpi di fabbrica su due piani i quali formano il complesso, ben raccordati a delimitare una corte rettangolare, con scarpatura e cordolatura in laterizio su quasi tutto il perimetro esterno. Due torrioni a pianta rettangolare sul fronte mare, simili ma non uguali, sopravanzano l’ingresso carrabile ad arco ribassato. Sul lato opposto un secondo ingresso carrabile per consentire l’attraversamento della corte a birocci, carri e carrozze.

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Nel torrione di ponente (direzione Senigallia), oltre che la scarpa, il cordolo e le pietre d’angolo, era presente una bombardiera in pietra per bocca da fuoco. Al piano terra numerosi depositi si affacciano sulla corte interna, dove due scale alla base delle torri portano al piano superiore. Al piano terra troviamo anche una ampia cantina e molto probabilmente stalle per cavalli o bestiame e degli spazi per le riparazioni e le sellature. Alla fine del 1500 l’Osteria al piano primo aveva una grande sala con camino dove si pranzava e si poteva trascorre il tempo, una ampia cucina, sicuramente vicina al salone e almeno otto camere. Possiamo ipotizzare che ci siano stati ulteriori ambienti di servizio come dispense e camere per la famiglia dell’oste.

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In alto, Mulino fortificato di Montefortino, sec. XV. In basso, Torre di Guardia di Jesi, metà sec. XIV. 94

LA CASA BRUCIATA


lato dell’edificio, che la proteggeva da eventuali attacchi da terra. La casa torre venne ulteriormente ampliata a distanza di pochi anni (purtroppo non sono note fonti che attestino lo sviluppo di questa parte). Malgrado ciò, dal rilievo effettuato, le murature di grande spessore affini a quelle adiacenti fanno ipotizzare che questa parte sia precedente alla costruzione della seconda torre di ponente.

Evoluzione costruttiva dal cinquecento ad oggi Il Mandracchio può essere considerato il risultato di progressivi ampliamenti che si sono susseguiti in circa quattro secoli, ma accomunati dalla stessa destinazione d’uso che si è mantenuta fino all’ottocento. Il punto di partenza fu la Torre di Levante, poi divenuta Casa-torre con la costruzione dell’ala adiacente, allungata ulteriormente negli anni successivi. Quindi, verso la fine del 1500, si procedette con la costruzione della Torre di Ponente e dell’ala ad essa corrispondente. La creazione di un unico aggregato, con cortile interno, si ebbe nel 1600 unificando il tutto con i corpi d’ingresso nord e sud. Infine, nel tardo 800, si accostò al lato meridionale un nuovo fronte edilizio, poco curato di affrettata realizzazione.

La Torre di Ponente e l’Ala Ovest (Tavola 1.V) La torre di Ponente è sicuramente postuma alla torre di levante, probabilmente completata all’inizio del XVI sec. Come la torre di levante è possibile che questa avesse tre livelli collegati con scale interne a pioli. Prima del restauro del 1980 era presente una bombardiera in pietra con un grosso foro al centro per la bocca da fuoco. Nono è facile invece datare la realizzazione dell’Ala Ovest che oggi appare come un ampliamento della torre di ponete. Dal rilievo in sito alcuni dettagli costruttivi della scarpa sul lato di ponente e alcune difformità sulle apparecchiature murarie farebbero supporre che in realtà questo corpo di due piani sia preesistente e probabilmente era destinato a stalle e magazzini.

La Torre di Levante (Tavola 1.III) Come già detto, la prima parte ad essere stata realizzata fu quella di levante. In origine la torre era costituita da tre piani, ma dalla documentazione cartografica non è possibile ipotizzare la sua conformazione architettonica originaria. Il terzo piano venne abbattuto dopo il terremoto del 1930. Dai rilievi in sito sono riscontrabili tre distinte stratificazioni costruttive. Il primo nucleo, individuabile nello stretto ambiente voltato del piano terra, potrebbe risalire alla fine del 1300, forse si trattava della Torre del Rubiano. Singolare è la presenza di un prospetto molto più ampio sulla parete est che descrive l’antica presenza di una torre successiva e più ampia a pianta quadrangolare. Altre modifiche, sicuramente postume anche alla costruzione dell’ala adiacente, hanno fatto assumere alla torre la conformazione che vediamo oggi con una parete sul lato sud che poggia sulla volta del secondo ambiente del piano terra.

Gli ingressi e il cortile (Tavola 1.VI) Dalla cartografia dell’epoca è possibile vedere che le due torri erano collegate da un ballatoio con un arco che fungeva da entrata. Pertanto questa parte è databile alla fine del XVI secolo e, originariamente, aveva due ingressi carrabili sul fronte mare e su quello opposto che permettevano l’attraversamento della corte a “birocci” e carrozze. L’Ampliamento dell’Ala Ovest (Tavola 1.X) Risale all’800 e si presenta come una superfetazione addossata alla struttura fortificata senza tuttavia una corretta ammorsatura e integrazione ad essa. Costruito in economia, il corpo risulta facilmente riconoscibile per le differenti murature perimetrali in cui manca la scansione della scarpa muraria e per la scarsa cura dei dettagli costruttivi.

La Casa Torre (Tavola 1.IV) La Casa Torre viene ottenuta con la costruzione dell’Ala Est ad ampliamento della torre antica. Realizzata in un arco di tempo che va dal 1456 al 1588, anno in cui risulta dal catasto la sua configurazione definitiva, che non si discosta di molto da quella vediamo oggi. Curiosamente nel prospetto esterno non è presente la “scarpatura” che si ha nel resto del perimetro. Come suppone D. Ripanti, questa anomalia è riconducibile alla presenza del fosso Rubiano, all’epoca su quel

95 LA CASA BRUCIATA


TAVOLA 1.III

La torre quattrocentesca

Schemi costruttivi della antica Torre di Levante. A sinistra, la prima porzione omogenea rintracciata nell’edificio e che forse potrebbe essere associata alla “Torre de Rubiano”, fine 1300. A destra, seconda fase evolutiva rilevata, forse si tratta della “Torre di Casabrusiata”, 1400-1445. Le due torri fortificate molto probabilmente avevano tre piani con l’ingresso, rivolto a ponente, posto al di sopra della parete scarpata. 96 LA CASA BRUCIATA


TAVOLA 1.IV

La casa torre

La “Casa-torre� era un edificio fortificato ottenuto dall’ampliamento della Torre di Levante, 1453-1456. Da una grande apertura posta al piano primo sul lato a monte, venivano caricate con un argano le merci e depositate negli ambienti adiacenti o in quelli voltati del piano terra. Una cucina, un salone con camino e delle camere probabilmente completavano il piano superiore. La torre era destinata alle guardie armate. Dalle fonti storiche risulta anche la presenza di una capanna in legno che forse era utilizzata come stalla. 97 LA CASA BRUCIATA


TAVOLA 1.V

L’osteria nel cinquecento

Tra la fine del 1500 e l’inizio del 1600 la “Casa Torre” viene ampliata e costruito un secondo corpo, con stalle al piano terra, al piano superiore magazzini e due aperture per caricare le merci. Probabilmente sostituisce le varie capanne in legno che dovevano essere presenti nelle vicinanze. A breve distanza di tempo verrà realizzata anche la seconda torre. 98 LA CASA BRUCIATA


TAVOLA 1.VI

L’osteria agli inizi del seicento

Tra il 1560-1570 l’edificio completa il suo sviluppo edilizio. Realizzata la nuova “Torre di Ponente” e successivamente gli ingressi carrabili con logge al piano superiore, ora è una costruzione fortificata con un cortile interno attraversabile da carrozze e birocci. All’interno della corte vengono aperte porte e viene realizzata una comoda scala per accedere al piano primo. Cucine e salone probabilmente vengono spostati nella nuova ala di ponente. 99 LA CASA BRUCIATA


14 Ecco come doveva apparire l’Osteria di Case Bruciate nel 1600. L’edifico aveva due accessi carrabili, uno sul fronte mare e l’altro sul fronte opposto. Al piano terra non vi erano aperture e, ai piani superiori, molto probabilmente inferriate o robusti scuretti in legno proteggevano le finestre. 100 LA CASA BRUCIATA


101 LA CASA BRUCIATA


1.3 La posta cavalli Tra le più antiche stazioni di posta, in cui abbiamo ancora l’impianto costruttivo originario ben conservato, possiamo annoverare La Posta di Pieve di Cento che risale al 1272. In questo piccolo manufatto già troviamo tutti i principali caratteri architettonici che accomuneranno le stazioni postali fino al 1700 (fig. 16). È un edificio di due piani nel quale, un ampio portico in legno al piano terra, aveva la funzione di “ingresso e scaricatoio”. In questo spazio venivano sostituiti i cavalli e caricate le cose da spedire. Dal portico si accedeva, inoltre, ai diversi ambienti di servizio nei quali venivano stoccate le merci e rifocillati gli animali. Altra stazione interessante è quella di Castelnuovo di Porto (Rm), posizionata presso l’incrocio tra la via Flaminia e l’antica Campana Vetus, era una antica statio romana poi adibita ad osteria della posta. In questo caso, oltre al portico del piano terra, troviamo, al piano superiore, una loggia che fungeva da spazio di collegamento tra la scala e gli ambienti, che in genere erano camere (fig. 17). Molto rinomata per il suo imponente edificio, era la Stazione Postale di Radicofani (Si), situata sulla via Cassia, era l’ultima stazione di posta cavalli nel territorio Toscano. Nello stesso edificio era ospitato anche l’ufficio della posta lettere, dove veniva effettuato lo scambio dei dispacci e la consegna delle lettere. L’ufficio postale era situato al piano terra, nell’ala destra dell’edificio, dove esistevano due finestre con inferriata per il ritiro e la consegna delle lettere (i regolamenti dell’epoca vietavano al pubblico l’ingresso nell’ufficio). Nel muro a sinistra della porta d’ingresso dell’ufficio postale vi è una nicchia che, probabilmente, conteneva la buca per le lettere. L’edificio, fatto costruire dai Medici nella seconda metà del XVI secolo, ha due eleganti ordini di loggiati sovrapposti

che costeggiano la strada (fig. 18 e tav 1.VII). Altri esempi di porticato al piano terreno sono rintracciabili nelle stazioni postali di Bevilacqua (sec. XV) e di Fonte alla Vena di Quirico D’Orcia (sec. XVII). Per non trascurare il benessere spirituale dei molti pellegrini che frequentavano questi luoghi, nello stato Pontificio era solito costruire anche una piccola chiesetta che, in genere, era posizionata di fronte alle stazioni principali. È il caso, ad esempio, delle chiesine di S.Pellegrino e Scala a Castiglione d’Orcia (SI) 1562 -1844. Anomala era invece la stazione postale di Poderina anch’essa a Castiglione d’Orcia (SI) 1760-1792, la quale è organizzata su due livelli con ambienti voltati al piano terra, magazzini e camere al piano secondo, ma non ha il tipico porticato di ingresso. In questo caso si accede da un ampio portone direttamente agli spazi interni. Interessante è la stazione postale del Passo del Giogo (FI) 1620-1752, della quale è nota la distribuzione interna degli spazi. Dalla pianta del piano terra è possibile individuare le diverse sottofunzioni di questi edifici (si veda la Tav. I.8). 6 Nel nostro territorio erano presenti la stazioni di posta di Torrette di Ancona e di Senigallia, le quali, in analogia con quanto sopra illustrato, avevano un porticato disposto lungo il fronte dell’edifico. La Posta Cavalli di Case Bruciate, invece, aveva il cortile interno che fungeva da spazio di accoglienza e di distribuzione. Durante i secoli XVIII-XIX raggiunse il suo massimo sviluppo come edificio postale, e al pianterreno poteva disporre di un portico, un forno, tre granai, cinque magazzini, una rimessa, stalle e cantine. Al primo piano ben dodici camere, due portici e una loggia, tre granari, uno stanziolino e due stanzoni per i soldati. Inoltre, come già descritto nella prima parte del volume, nel 1626 venne eretta anche la chiesetta dedicata a S. Carlo Borromeo, ovviamente posta sul fronte opposto della carreggiata.

15 Il salone di una taverna all’inizio del XVI secolo, affresco nel Chateau d’Issogne in Val d’Aosta. Nel Mandracchio un ambiente simile potevamo trovarlo nelle sale delle due torri riservate alle guardie armate. 102 LA CASA BRUCIATA


Una possibile ricostruzione di tali ambienti interni è stata ipotizzata nelle tavole 1.IX. Nelle fig. 26, 27,28 sono riportate alcune immagini della Dogana di Porto D’Ascoli, nota anche con il nome di “Caserma pontificia”. Questo edificio condivide con la Casa Bruciata la sua destinazione d’uso di “magazzino del porto”.

Realizzato nella metà del 1500 ha un impianto molto simile al Mandracchio sia nel fronte esterno che nel cortile interno, dove il tema del loggiato viene sviluppato su tre lati. Le analogie tra i due interventi non trova però riscontro in altri manufatti, ciò fa supporre che tali similitudini siano da ricercare, soprattutto, nelle motivazioni legate alla volontà di realizzare manufatti costieri fortificati.

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Immagini di alcune antiche stazioni di posta. Sono accomunate dalla presenza di un porticato al piano terra e, in alcuni casi, di un loggiato al piano primo. A volte il portico era sostituito da un ampio stanzone detto “scaricatoio”. 16. Pieve di Centro, 1272 – 17.Castelnuovo, metà 1400 – 18. Radicofani, 1697 – 19. Bevilacqua, XV secolo – 20,21 Chiesina S.Pellegrino e Posta di Fonte alla Vena, sec.XVII – 22,23 Chiesina di Castiglion D’Orcia e Posta alla Scala, 1562. 103 LA CASA BRUCIATA


24

25

Stazione Postale di Poderina (Castiglione d’Orcia, SI), costruita tra il 1760 e 1792 rappresenta uno dei tanti casi in cui le stazioni postali vengono ricavate adattando edifici esistenti, il portico è assente. Al piano terra cucine, stalle e cantine,mentre al piano primo, oltre alle camere, troviamo stanzoni a doppia altezza destinati a magazzino.

1.4 Il fabbricato dall’ottocento in poi I corpi di fabbrica, posti sul fronte interno del complesso edilizio, sono gli ultimi ampliamenti costruiti, tuttavia questa parte è la più deteriorata e molte zone sono inagibili o in parte crollate. All’interno del manufatto è facilmente leggibile, attraverso le diverse tipologie di muratura riscontrabili, la successione temporale della realizzazione. Dai rilievi materici effettuati emergono infatti tre fasi distinte di sviluppo (si veda la Tavola 1.X). Come attestano anche le mappe del “Catasto napoleonico-gregoriano”, dagli anni ’30 dell’ottocento era presente il corpo posto a prosecuzione dell’Ala Est.

Una seconda fase è individuabile nella realizzazione del fabbricato posto in adiacenza all’Ala Ovest, riconoscibile grazie al timpano di facciata e alla finestra, oggi interna al manufatto, che si affacciava verso la corte interna dove ora è posto il vano scala. Proprio quest’ultimo ambiente completa le aggregazioni realizzate nell’ottocento. Tale zona, distinguibile attraverso l’orditura dei solai ruotata di 90 gradi rispetto ai corpi adiacenti, chiude definitivamente l’accesso posteriore carrabile. Probabilmente i tramezzi interni del primo piano, che suddividono l’edificio in piccoli vani, risalgono al Novecento.

104 LA CASA BRUCIATA


TAVOLA 1.VII

La stazione di posta di Radicofani

La rinomata stazione di Radicofani (SI), 1697, al piano terra dell’edificio principale sono presenti tutti gli ambienti per la posta-lettere e la posta-cavalli con stalle e magazzini. 105 LA CASA BRUCIATA


TAVOLA 1.VIII

La stazione di posta di Giogo

Planimetria della Stazione Postale di Passo di Giogo, 1620-1752, un ampio salone con camino accoglieva i viaggiatori, tutti gli altri ambienti sono spazi di servizio (si notino le due camere ricavate in piccoli vani senza finestre). 106 LA CASA BRUCIATA


26

27

28

29

30

In alto tre immagini della Dogana di Porto d’Ascoli. Manufatto, destinato principalmente a “magazzino dello scalo portuale”, è per tipologia e dimensioni quasi gemello dell’Osteria di Case Bruciate. Qui il tema delle logge è sviluppato su tre lati del cortile interno e i due ordini di loggiato consentono un efficace e pratico accesso agli ambienti di servizio. Uno schema distributivo molto semplice realizzato ex-novo e nell’arco di pochi anni. Non siamo in presenza di un impianto costruttivo nato per aggregazioni successive come nel Mandracchio. In basso le antiche Stazioni di Posta di Torrette di Ancona e Senigallia, pur se di piccole dimensioni presentano il tipico porticato al piano terra. 107 LA CASA BRUCIATA


TAVOLA 1.IX

La posta cavalli di Case Bruciate nel settecento

Riconosciuta ufficialmente come Stazione di Posta dello Stato Pontificio, l’osteria agli inizi del secolo subisce restauri radicali. La Torre di Levante è lasciata ai “birri” (guardie armate) e quella di ponente alle “corazze” (cavalleria). Nel 1626 viene costruita, sul fronte opposto della strada, la Chiesetta dedicata a S. Carlo Borromeo. L’edificio conserverà questo impianto funzionale per tutto il secolo successivo. 108 LA CASA BRUCIATA


TAVOLA 1.X

Il Mandracchio alla fine dell’ottocento

Nei primi anni del 1800, sul fronte ”a monte” vengono aggiunti due corpi di fabbrica che vanno ad ampliare le ali laterali dell’edificio. Dopo il 1861, il Mandracchio è destinato prevalentemente all’uso abitativo con qualche bottega al piano terra. Probabilmente è in questo periodo che viene costruito il nuovo volume che unisce i due corpi ottocenteschi e, in parte, va ad occupare il cortile interno. 109 LA CASA BRUCIATA


TAVOLA 1.XI

Il Mandracchio nei secoli - Sintesi delle principali modifiche dell’edificio A'

C'

C B

B'

A

A'

C'

C B

B'

A

A

2.28

1.53

2.31

2.41

1.63

0.35

B

Il grave stato di abbandono in cui versava l’edificio negli anni ’80 ha portato ad effettuare importanti opere di consolidamento che, in alcuni casi, hanno modificato localmente la struttura portante. In questa tavola e nella seguente si sintetizzano le principali modifiche effettuate. 110 LA CASA BRUCIATA


TAVOLA 1.XII

Il Mandracchio nei secoli - Sintesi delle principali modifiche dell’edificio

2.49

B

2.73

C

2.28

1.53

2.31

D

2.41

1.63

0.35

3.20 m

A

0.00 m

C

B

A D

E F

Tra gli interventi più radicali troviamo l’introduzione di nuovi setti di controvento nell’Ala di Levante e la sostituzione dei solai lignei. 111 LA CASA BRUCIATA


TAVOLA 1.XIII

Il Mandracchio - Dopo i recenti restauri

In questa tavola possiamo osservare il confronto volumetrico tra l’edificio nel 1600 (in alto) e la porzione seicentesca del Mandracchio di oggi (in basso). Le principali differenze si riscontrano nella perdita del terzo piano delle due torri di facciata e del portico di ingresso sul fronte opposto ad esse. 112 LA CASA BRUCIATA


Capitolo 2

La costruzione oggi

di Placido Munafò ed Enrico Mugianesi Da diversi anni si è assistito ad un rinnovato interesse per le costruzioni storiche in muratura, motivato dalla necessità di conservare un patrimonio di grande importanza culturale e sociale. Negli edifici storici la conservazione implica l’affrontare alcune problematiche legate, in primo luogo, alle modifiche subite nel tempo dal manufatto che rendono non immediatamente decifrabile il comportamento statico della struttura. La grande eterogeneità delle costruzioni murarie, la ricchezza delle situazioni e delle problematiche che queste presentano, fanno diventare il problema della loro conoscenza estremamente vario e multiforme. L’obiettivo da perseguire è quello di riuscire a coniugare, con l’intervento di consolidamento, la sicurezza e la conservazione della materia. Gli interventi devono essere volti a restituire l’efficacia originaria della struttura attraverso la riparazione dei danni e, nel caso sia richiesto il raggiungimento di un livello di maggior sicurezza sismica, l’eventuale aggiunta di rinforzi. Essenziale diviene la conoscenza del valore storico-architettonico dell’elemento strutturale e, soprattutto, del suo comportamento statico e del contributo che fornisce alla stabilità complessiva dell’edificio. Aspetto da affrontare di primaria importanza diviene perciò l’analisi e la lettura della struttura portante, necessaria per poter individuare le modalità di intervento e sanare problemi o situazioni di criticità. Si dovranno, per quanto possibile, evitare tecniche invasive, irreversibili o che non diano garanzia di buon funzionamento nel tempo. L’individuazione del comportamento statico di manufatto permette, inoltre, di intervenire mantenendo il più possibile intatti i veicoli materiali portatori anche dei valori della tradizione costruttiva. 2.1 Le parti originali e non Come abbiamo già anticipato nel Capitolo 1, purtroppo buona parte della consistenza materica originaria dell’edificio è andata persa. È sufficiente osservare alcune fotografie degli anni ’80, precedenti ai lavori di consolidamento, per rendersi conto dell’avanzato stato di degrado, dei frequenti dissesti e delle precarie condizioni statiche generali in cui l’edificio versava. Erano presenti lacune nelle murature, crolli di alcuni setti e degli impalcati, un degrado avanzato delle strutture lignee che hanno portato l’edificio ad un totale e prolungato abbandono, rischiando di essere anche demolito per garantire la pubblica incolumità sulle vie adiacenti.

Grazie all’interessamento dell’Amministrazione Comunale dell’epoca, che acquisendo l’edificio e iniziando un percorso che speriamo porti a breve al suo riuso, lo ha salvato dal triste destino che lo aspettava. Gli interventi di restauro, che sono seguiti dalla fine degli anni ottanta e prolungatisi per stralci successivi fino al 2001, hanno interessato tutto il nucleo seicentesco lasciando ancora da consolidare la parte ottocentesca. Durante tali lavori si è intervenuto consolidando le opere murarie dalle fondazioni fino alla sommità dell’edificio, dove troviamo l’inserimento di cordoli in cemento armato, intervento tipico di quegli anni per migliorare il comportamento sismico della struttura. Sono state consolidate o ricostruite tutte quelle parti ritenute appartenenti all’impianto originario, rimuovendo le aggiunte e superfetazioni che si erano aggiunte negli anni. Purtroppo non è stato possibile fare altrettanto per gli impalcati lignei di interpiano e di copertura che, se pur nelle intenzioni iniziali si era deciso di conservarli, appaiono completamente rifatti (si veda la tavola 2.I). Il ripristino effettuato è abbastanza fedele all’originale nei solai di interpiano, non altrettanto però può dirsi per la copertura che, per migliorarne le prestazioni statiche, ha “subito” l’inversione dell’orditura portante nella parte cinquecentesca. Inoltre, nelle due torri di facciata, demolite parzialmente nel 1930 per ridurne la vulnerabilità sismica, sono stati inseriti solai analoghi a quelli del resto dell’edificio impedendo di continuare a leggere le stratificazioni storiche che l’edificio precedentemente mostrava. Per quanto detto, riteniamo di interesse approfondire in questa sede la lettura delle parti originali del manufatto, ovvero delle opere murarie ed in particolare delle strutture voltate del piano terra, integralmente conservate anche se presentano notevoli “acciacchi” dovuti ai loro cinque secoli di storia. Un’analisi dettagliata dell’edificio e delle questioni statiche sarà invece riportata in una pubblicazione del Dipartimento Dicea che, al momento, è in fase di stesura. 7 Eterogeneità dei corpi di fabbrica Un’osservazione attenta delle murature consente di individuare le variazioni materiche e, in generale, l’eterogeneità dell’edificio. Il rilievo di dettaglio (eseguito anche con l’ausilio di indagini endoscopiche) ha confermato quanto già si evinceva dalla analisi storica, portando alla luce difformità costruttive delle murature portanti che non erano visibili osservando il paramento esterno delle pareti. Volendo suddividere l’edificio in porzioni omogenee, secondo l’ordine cronologico del loro processo di aggregazione (sintetizzato nella tavola 2.V), possiamo con certez-

113 LA CASA BRUCIATA


TAVOLA 2.I I titolo Il Mandracchio

oggi - Parti originali e non

I SOLAI

Come si può osservare, la quasi totalità dei solai lignei originali (in colore verde) è andata persa.

114 LA CASA BRUCIATA


TAVOLA 2.II

Il rilievo dell’edificio

35,08

13,56

9,32

2,76

12,2

3,65

2,6

3,65

2,85

9,9

9,9

9,9

6,5

Zona non rilevabile

Zona non rilevabile

Zona non rilevabile

35,08

13,56

9,32

12,2

12,29

9,53

10,35

9,53

3,1

0,95

2,62

10,1

10,14

scala 1:200

TEMA 02_IL RILIEVO_TAVOLA 01

115 LA CASA BRUCIATA

scala 1:200


TAVOLA 2.III

Il rilievo dell’edificio

6,77

X

8,45

3,77

5,14

Y

2,65

X'

scala 1:100

2,4

3,83

7,78

8,06

4,01 2,87

3,56

4,01 2,87

4,49

4,19

SEZIONE X-X'

scala 1:100

7,93

3,44

4,47

SEZIONE Y-Y'

6,54

Y

3,05

X'

SEZIONE X-X'

scala 1:100

9,46

3,62

3,11

2,74

6,49

8,46

4,78

3,71

3,79

5,37

4,94

Y'

4,1

X

8,47

8,8

Y'

scala 1:100

SEZIONE Y-Y'

TEMA 02_IL RILIEVO_TAVOLA 02

116 LA CASA BRUCIATA


TAVOLA 2.IV

Il rilievo dell’edificio

Y

3.20 m

X

X' 0.00 m

Y'

scala 1:100

4,86

2,67

2,95

4,48

4,33

4,64

SEZIONE X-X'

1

1

2,8

2,65

2,79

5,51

6,3

8,68

0.20 m

0.00 m

scala 1:100

SEZIONE Y-Y'

Y

X

2,41

6,11

6,21

9

3,4

5,36

Y'

5,64

X'

scala 1:100

8,31

4,04

2,11

2,37

2,36

6,57

7,84

3,05

4,83

5,09

1,68

SEZIONE Y-Y'

scala 1:100

SEZIONE X-X'

TEMA 02_IL RILIEVO_TAVOLA 03

117 LA CASA BRUCIATA


za considerare la Torre di Levante come il primo corpo di fabbrica realizzato di cui si ha menzione già nel 1456. All’esterno abbiamo testimonianza di una fascia marcapiano non perfettamente orizzontale che denuncia un antico cedimento fondale ripristinato, e un piano superiore ricostruito con nuovi piani di posa orizzontali necessari per garantire la stabilità delle murature stesse molto probabilmente realizzata nel secolo successivo dopo la realizzazione delle apparecchiature voltate adiacenti. Con la ricostruzione, infatti, un nuovo setto del piano primo va a gravare sulla volta a botte sottostante le cui forti deformazioni dovute all’improprio sovraccarico sono tutt’ora visibili. Per risolvere tale incoerenza, nel restauro del 1988, sono stati inseriti quattro pali in acciaio che scaricano il peso della muratura direttamente a terra. Dalle discontinuità rilevate si conferma che la torre originaria era molto più stretta di quella attuale e, probabilmente, fu modificata ulteriormente anche prima della costruzione dell’adiacente Ala Est. La facciata della torre, rivolta a levante, mostra infatti un paramento molto ampio che si sviluppa su due livelli e che testimonia la possibile esistenza di una torre a pianta quadrangolare, poi crollata o parzialmente demolita. Solo in questo nucleo si riscontrano tre tipologie di parete che adottano apparecchiature costruttive diverse tra loro. Estendendo l’analisi, dei magisteri costruttivi adottati, a tutto l’edificio sono individuabili 16 modalità distinte di posa in opera (sintetizzate nelle tavole 2.VI e 2.VII).

2

1

4

L’Ala Est presenta, al piano inferiore, murature originarie di grande spessore e mai rimaneggiate, sulle quali poggiano le volte a botte. Al contrario, al piano primo il setto di spina sul quale poggiava la copertura lignea è stato sostituito da nuovi setti di controvento, posti in corrispondenza di quelli sottostanti i quali, irrigidiscono il corpo di fabbrica, ma ne vincolano la fruizione degli spazi. Nella Torre di Ponente, del XVI secolo, sono osservabili disomogeneità delle murature e, al piano terra, aperture successivamente chiuse molto simili a quelle della Torre di Levante. Al tempo stesso sono state riscontrate delle differenze sostanziali negli spessori dei setti perimetrali, sottili rispetto a quelli della torre vecchia, ma analoghi, nella tipologia e nello spessore, a quelli degli ambienti adiacenti. Ciò fa supporre che tale corpo venne realizzato assieme all’Ala Ovest o a breve distanza di tempo da essa. Questo corpo di fabbrica, che ha preservato tutte le murature dell’epoca, conserva il suo impianto originario a maglie chiuse e regolari. Tra le due torri si interpone il piccolo loggiato di ingresso, la cui costruzione è sicuramente successiva a quella dei corpi laterali. Ultima parte è quella dei fabbricati dell’ottocento, fisicamente “agganciati” alla fabbrica del Mandracchio già esistente. In questi corpi, non restaurati, sono per lo più assenti i setti trasversali interni. Le pareti perimetrali devono la loro precaria stabilità agli orizzontamenti lignei che ancorano le apparecchiature murarie alla parete fortificata posta sul fronte opposto.

3

5

6

Alcune immagini dell’edificio come si presentava prima dei restauri degli anni ’90. In alcune porzioni di muratura manca quasi totalmente il paramento di mattoni esterno. 118 LA CASA BRUCIATA


TAVOLA 2.V

Le opere murarie Datazione delle murature

Il restauro

Alcuni interventi specifici sulle murature

Mediante ripristini e iniezioni di malte a bassa pressione, gli interventi sulle murature hanno ridato monoliticità ai setti portanti. Il paramento in laterizio però è discontinuo e presenza disomogeneità cromatiche su tutto l’edificio. 119 LA CASA BRUCIATA


Principali apparecchiature murarie adottate

Prospetti Interni

Prospetti Esterni

TAVOLA 2.VI

Il rilievo in sito confrontato con le fonti storiche ha permesso la datazione delle singole parti.

120 LA CASA BRUCIATA


TAVOLA 2.VII

I Magisteri costruttivi adottati Abaco delle murature

Sono emerse ben sedici tipologie di muratura diverse. Dalle foto a destra si può osservare che l’edificio presenta un paramento esterno ad un testa non perfettamente ammorsato. Potrebbe trattarsi di un intervento di restauro del passato nel quale si è tentato di uniformare l’edificio rivestendolo ex-novo. 121 LA CASA BRUCIATA


È presente anche un grave degrado diffuso delle murature, dovuto all’umidità di risalita e accentuato dalla disomogeneità dei laterizi ed dall’impiego di malte di scarsa qualità. Il tetto, inoltre, è crollato e la sua stabilità complessiva è precaria anche per via delle fondazioni molto superficiali (40-60 cm di profondità). I sistemi voltati Nella zona Sud-Est dell’edificio, è presente un sistema voltato nel quale figurano quattro volte a botte a sesto ribassato e una a sesto acuto di buona fattura e che caratterizzano fortemente gli ambienti del piano terra. Dalle analisi dei documenti tecnici dei consolidamento degli anni ’90 è emerso che il riempimento sovrastante termina con una soletta di ripartizione in calcestruzzo, ammorsata ad un cordolo perimetrale in cemento armato. La muratura della apparecchiatura voltata presenta mattoni posti di lista dello spessore di una testa (circa 19 cm) con un rinfianco laterale in malta e laterizi. Per conoscere l’effettiva consistenza del riempimento estradossale abbiamo ritenuto estremamente utile effettuare delle indagini endoscopiche in alcuni ambienti che ci hanno permesso di individuare la stratigrafia reale della struttura portante. Sono presenti due diversi tipi di mattoni, rispettivamente a pasta rossa e gialla. Laterizi che hanno anche pesi specifici diversi dei quali abbiamo dovuto tener conto nelle verifiche statiche effettuate. Dalla forma dei resti di alcuni mattoni, ritrovati a terra, si può osservare che, per facilitare la posa dei conci secondo la curvatura della volta, essi venivano assottigliati nel lato più lungo posto all’intradosso. Dai rilievi effettuati possiamo affermare che le strutture sono state costruite nello stesso momento, con le stesse tecniche di posa e, presumibilmente, dalle stesse maestranze. La policromia riscontrabile nel paramento suggerisce la provenienza dei laterizi da differenti fornaci, si ha quindi una struttura mista che ha prodotto un diverso livello di degrado dei materiali. L’indagine endoscopica ha confermato ciò che avevamo ipotizzato in precedenza sul tipo di rinfianco, realizzato con un conglomerato di malta simile a quello dei giunti di allettamento e con pezzi di laterizio grossolanamente lavorati.

Alcune immagini degli ambienti voltati del piano terra. In basso i pilastri aggiunti per scaricare la volta dal peso del muro del piano superiore.

7

8

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122 LA CASA BRUCIATA


TAVOLA 2.VIII

Dettagli costruttivi delle volte a botte

Fasi evolutive del primo impalcato, con la datazione della probabile loro realizzazione.

123 LA CASA BRUCIATA


2.2 Per chi vuole approfondire Realizzazione e statica delle volte cinquecentesche Le notevoli deformazioni, accompagnate da un consistente quadro dei dissesti, non hanno comunque pregiudicato la stabilità complessiva dell’impianto voltato. Dopo un accurato rilievo e una prima analisi statica, ci siamo accorti che, secondo le normative attuali, la stabilità delle volte esistenti era garantita solo nel caso di sovraccarichi molto bassi, incompatibili con i forti carichi che nei secoli tali strutture hanno sicuramente subito per la presenza di magazzini al piano superiore. Abbiamo pertanto effettuato degli approfondimenti sui sistemi costruttivi dell’epoca e avviato una ricerca che ha portato alla realizzazione in laboratorio di un prototipo in scala (tre volte più piccolo) sul quale sono state effettuate delle prove di carico, necessarie per individuare il comportamento statico della struttura. Note sulla costruzione delle volte nel periodo Medievale Il cantiere medievale è, in genere, un cantiere povero, contraddistinto dalla difficoltà di trasporto dei materiali, dalla forte presenza di manodopera poco specializzata, dai tempi dilatati di costruzione. Solo alcune eccezioni, soprattutto costituite dalle grandi fabbriche monastiche e dai principali edifici religiosi e civili, presentano accorgimenti tecnici particolari, indicativi di sofisticati intenti estetici e costruttivi e della presenza di maestranze itineranti e specializzate. Da questo tipo di costruzione è quindi possibile delineare uno sviluppo dell’architettura medievale, in cui il passaggio dalla fase romanica al periodo gotico è segnato dall’applicazione di strutture voltate sempre più ardite. Per quanto riguarda le soluzioni tecniche utilizzate per le coperture voltate delle grandi navate delle basiliche, il principio costruttivo delle volte medievali è molto diverso rispetto a quello impiegato dai romani. Infatti le volte del primo periodo imperiale romano erano un blocco unico, rigidissimo, realizzato in “opus caementicium” con grande capacità legante e con inerti costituiti da materiali leggeri come tufi e pomici. Nell’architettura medievale, invece, i costruttori, pur guardando al repertorio di forme romane, non possedevano i mezzi tecnici per metterle perfettamente in pratica. I loro edifici non offrivano un insieme compatto, pilastri e muri, formati da paramenti in pietra con riempimento di malta spesso mediocre, subivano frequentemente assestamenti che causavano fessurazioni. Le murature a sostegno delle volte e delle cupole non erano tanto solide quanto quelle romane e perciò, a partire dall’XI secolo, le volte iniziarono ad essere realizzate in laterizio o con conci di pietra di dimensioni ridotte affiancati l’un l’altro. La volta medioevale diventava così un sistema meno rigido rispetto alle quelle romane in grado di assecondare eventuali movimenti delle murature perimetrali. Questa prima modifica nella realizzazione delle volte però non era sufficiente a garantire che la struttura non crollasse e quindi, a distanza regolare, in corrispondenza dei punti di appoggio più resistenti, si iniziarono ad inserire degli “archi doppi” in pietre squadrate, centinati sotto l’intradosso delle volte.

Secondo Viollet le Duc, che, nel suo Dictionnaire raisonnè de l’architecture francaise (1875) analizza estensivamente i materiali e le tecniche costruttive medievali e fornisce interessanti interpretazioni statiche sul comportamento delle strutture medievale, gli “archi doppi” erano una sorta di centine permanenti elastiche composte da conci che seguivano i movimenti dei piloni e che si prestavano al loro assestamento, al loro divaricamento e sostenevano, come avrebbe fatto una centina in legno, la muratura costruita sopra di esse. Il sistema statico elaborato dagli architetti medievali, quindi, si fonda essenzialmente sul concetto di affidare alla struttura portante, delle navate laterali, il compito di garantire la stabilità della navata maggiore. Le cattedrali gotiche sono perciò caratterizzate da volte a crociera costolonate con archi a sesto acuto, dallo svuotamento della massa muraria e dall’assottigliamento delle strutture, tanto da renderle solo uno scheletro. Le strutture che affiancano la navata centrale si affinano progressivamente e i cambiamenti che coinvolgono la copertura della navata centrale si ripercuotono sulle navate laterali, dove si nota, a partire dal XII secolo, l’introduzione degli archi rampanti, necessari per contrastare la spinta delle volte della navata centrale. Anche dal punto di vista formale, l’architettura medievale introduce alcune innovazioni importanti. A partire dalla fine dell’XI secolo le volte a crociera iniziarono ad essere costruite non più come intersezione di volte a botte, con archi diagonali ellittici, bensì con archi diagonali ad arco di cerchio, più semplici da realizzare e più stabili. L’arco a sesto acuto comincia ad essere utilizzato a partire dal 1120-1130 in Francia e, quasi contemporaneamente, si sviluppa anche in Inghilterra. L’introduzione degli archi a sesto acuto come archi trasversali e longitudinali, oltre al vantaggio di tipo statico perché meno spingenti, porta anche un vantaggio formale, in quanto consente di sollevare la chiave degli archi alle quote volute. La pianta non deve più necessariamente essere quadrata, ma può essere anche rettangolare. Sviluppo tecnico e formale a partire dal XV secolo A partire dal XV secolo, con l’avvio del Rinascimento, nell’architettura vi fu una riscoperta delle forme utilizzate negli edifici romani. Le volte a vela, le cupole, le volte a padiglione, per lungo tempo inutilizzate, ritornarono in auge e furono applicate in maniera estensiva, sia nell’architettura religiosa sia in quella civile. Le tecniche costruttive erano tuttavia definitivamente mutate e le volte venivano realizzate quasi esclusivamente in laterizio o in pietra. Nel Rinascimento veniva prestata grande attenzione ai collegamenti tra le volte e le murature. I mattoni venivano posizionati secondo apparecchiature differenti legate alla tipologia di volta da realizzare e uniti, gli uni agli altri, mediante l’utilizzo di gesso o di malte di calce con buone caratteristiche meccaniche. Al di sopra della volta veniva poi collocato il materiale di riempimento che poteva essere costituito da pietrisco grossolano o ghiaia e che si opponeva alle deformazioni flessionali della volta stessa, andando tuttavia ad incrementare il carico su di essa. In alternativa venivano

124 LA CASA BRUCIATA


utilizzati costoloni di rinforzo oppure venivano disposte delle lunette alle reni (30° dagli appoggi). Queste aperture avevano il doppio vantaggio di ridurre il volume del riempimento e di garantire maggiore illuminazione agli ambienti. I precedenti tipologici antichi rappresentavano un vasto repertorio di forme e tecniche costruttive a cui ispirarsi e tra il XV e il XVI secolo tali modelli influenzarono in maniera determinante le scelte formali degli architetti. 8 La centina e le armature di sostegno Sono quattro le fasi essenziali per la costruzione delle volte: la costruzione dell’armatura e delle centine; l’esecuzione della volta sull’armatura; il disarmo; i lavori complementari da eseguirsi dopo il disarmo. Per la costruzione di una volta era necessario realizzare una struttura lignea provvisoria, chiamata centina o armatura. La centina doveva innanzitutto essere in grado di sostenere la struttura prima che la volta fosse completata e che la malta avesse fatto presa e, inoltre, doveva creare una superficie curva avente la forma dell’intradosso, che avrebbe dovuto fungere da guida per la posa dei conci. Per volte e archi con luci fino a circa 1,5 m e con frecce limitate, veniva impiegato il cosiddetto tamburo, una struttura costituita da due o più tavolati, sorretti da ritti fiancheggianti le spalle, che presentavano il contorno superiore corrispondente alla curva dell’intradosso e che venivano collegati fra loro con listelli formanti il manto. A volte i tavoloni di legno potevano essere irrobustiti con altre tavole inchiodate, ottenendo così strutture ancor meno deformabili, ma con l’impiego di maggiore quantità di legname. Per volte con luci limitate (4-5 m) bastavano due puntoni e un monaco per sostenere le tavole formanti la curvatura e il manto, sistema molto probabilmente adottato per le volte del Mandracchio (figg. 11-13). Esecuzione della volta in muratura Fin dal XV secolo la trattatistica è concorde nel sostenere che la tecnica costruttiva che permette di realizzare le strutture voltate è la stessa usata per le murature. Nelle volte in laterizio assumeva un’importanza notevole la disposizione dei mattoni che, soprattutto nelle volte di piccola corda, poteva influenzare il comportamento della struttura stessa. Il metodo più semplice consisteva nell’impiegare l’apparecchiatura a filari longitudinali, ossia disponendo i corsi di mattoni paralleli alle linee d’imposta. Tale disposizione è stata utilizzata per realizzare sia le volte ribassate che quella a sesto acuto del Mandracchio (fig. 14). Nel caso di ambienti di notevoli dimensioni e frecce piuttosto ribassate, i giunti in chiave risultavano pressoché verticali e paralleli. In questi casi si preferiva quindi procedere disponendo i mattoni a 45° rispetto ai lati della pianta. I mattoni venivano disposti iniziando contemporaneamente dai quattro angoli e procedendo in maniera simmetrica verso il centro. I filari, che in pianta risultano rettilinei, sono in realtà archi zoppi ellittici che si incrociano lungo le due linee di mezzeria della volta e ciò richiedeva una maggiore abilità da parte degli esecutori,

11 Centinatura in legname realizzata con il tamburo, una struttura costituita da due tavolati, sorretti da ritti fiancheggianti le spalle. (Cattaneo L., tav 23, in Manuale della Città di Castello).

12 Centine per piccole aperture (4-5 m) composte da due puntoni (P), dalmonaco (M),dal tirante (T) e dalle forme (F) applicate direttamente sui puntoni (a) oppure, per archi con grande freccia, su colonnette poste fra i puntoni e le forme stesse (b). (Levi C., 1932, 421).

13 Centina per luci fino a 10-12m, con puntoni e monaco principali (P e M) e quattro puntoni perimetrali con due monaci. (Levi C., 1932, 421).

125 LA CASA BRUCIATA


che dovevano riuscire a far aderire i mattoni al manto e soprattutto a far collimare i mattoni lungo la mezzeria. Con questa disposizione dei filari si individua anche un tentativo da parte dei costruttori di far agire la spinta non solo sulla muratura longitudinale, ma in parte anche sui muri di testa. Molto spesso sopra la volta doveva essere realizzato un

piano di calpestio e ciò comportava la necessità di creare un piano orizzontale. L’estradosso della volta veniva perciò riempito con materiali di risulta disponibili in cantiere, fra cui calcinacci, sassi e pezzi di mattone. Questo tipo di riempimento poteva però generare un eccessivo aumento di peso e quindi influire negativamente sul comportamento della struttura

16 Rinforzo dei piedritti mediante contrafforti.

14 Apparecchiatura per volte a botte: apparecchiatura a filari longitudinali (a); apparecchiatura con mattoni a 45° rispetto ai lati della pianta (b). (Levi C., 932, 311).

17

15 Apparecchiatura per volte a botte con mattoni posti a 45°. Grazie alla regolarità della disposizione dei filari questa apparecchiatura era indicata per volte non intonacate. (Breymann G. A., 2003, 39). Apparecchiatura per volte a botte con filari trasversali. (Astrua G., 1996).

Sistemi di disarmo delle volte: cunei (a) e sacco riempito con sabbia (b). (Cattaneo L., 1889, tav 11). Sistemi di disarmo delle volte: scatole in legno o in ferro riempite di sabbia compressa.

126 LA CASA BRUCIATA


voltata causando eccessive spinte all’imposta. Tuttavia, il riempimento, pur aumentando il carico verticale, consente di limitare lo sviluppo di sforzi flessionali. In molti trattati, infatti, fin dalla metà del XV secolo viene consigliato, per le volte in mattoni, l’uso di riempimenti leggeri, che consentono di sgravare la volta dall’eccessivo carico verticale causato dal materiale incoerente e permettono di irrigidire la struttura. Il rilievo di dettaglio Indagine endoscopica e campionamento Il rilievo in sito ha permesso di: - catalogare alcuni campioni di laterizi e malta utili per analizzare il materiale con cui vennero costruite le volte; - effettuare indagini endoscopiche, necessarie per ricostruire la reale stratigrafia della struttura, - rilevare le misure esatte della volta a botte oggetto della nostra sperimentazione (volta n°3). I campioni sono stati raccolti a terra (all’interno dell’area del quadrato evidenziato nell’immagine in fig. 18), le foto che seguono testimoniano lo stato attuale della parete da dove probabilmente derivano i campioni raccolti. Endoscopia Le indagini endoscopiche permettono il rilievo stratigrafico della muratura e l’individuazione di eventuali vuoti o cavità all’interno dei corpi murari. L’endoscopia è stata eseguita attraverso le lesioni presenti nella volta e mediante l’impiego di un endoscopio flessibile a fibra ottica che consente di adattarsi al percorso della lesione. Le indagini endoscopiche sono state effettuate all’interno della volta n°4 dove era presente una fessura sufficiente-18 mente ampia per l’inserimento dello strumento. I dati rilevati, e di seguito analizzati li abbiamo considerati applicabili per analogia alla volta n°3, che fa parte dello stesso volume ed è stata costruita nello stesso momento.

18 Pianta dell’Ala Est, con in evidenza il punto a terra da cui sono stati prelevati i campioni di materiale dell’edificio.

L’indagine endoscopica ha rilevato quanto segue: - dall’imposta al terzo filare, per una profondità di circa 45 cm la presenza di malta di riempimento con frammenti di laterizio; - al quinto filare, fino alla profondità di circa 40 cm, la presenza di una muratura abbozzata di laterizi misto calce; - fra l’ottavo e il nono filare, fino a una profondità di circa 20 cm, sempre la presenza di laterizi e malta; - fra il tredicesimo e quattordicesimo filare (punto in cui inizia la grande fessura), fino alla profondità di circa 48 cm, la presenza di mattoni di cui non si riesce a capire se siano in frammenti o sani; - al sedicesimo filare la presenza di malta; - al ventunesimo filare la presenza di malta compatta. A seguito del rilevo in sito, il cui quadro riassuntivo è presentato nella TAV.1 e ai risultati ottenuti, è stato inoltre possibile ricostruire la stratigrafia tipo della volta del piano terra TAV.2. Nelle tavole successive, TAV.3 sono riportate le ipotesi delle fasi di realizzazione della struttura.

L’indagine ha confermato la presenza del tipo di rinfianco ipotizzato, composto da conglomerato di malta a base di calce e pezzi di laterizio.

19 Punti di prelievo e profondità delle ispezioni endoscopiche effettuate.

127 LA CASA BRUCIATA


Realizzazione di un prototipo in scala Per verificare l’effettiva capacità portante delle volte siamo ricorsi alla realizzazione di un modello in scala da testare in laboratorio, risultando impossibile eseguire prove in sito per la presenza di una soletta in cemento armato all’estradosso delle strutture voltate. Nel modello sono state riprodotte le condizioni di carico reali della volta n.3 del piano terra soggetta al peso proprio e controventata dalle strutture voltate contigue a quella analizzata. I risultati delle prove sperimentali, eseguite su un modello fisico di volta in muratura, permettono di affermare che, in condizioni di esercizio, il comportamento della struttura è di tipo elastico lineare. Per carichi superiori inizia ad instaurarsi un quadro fessurativo che evidenzia un comportamento ad arco a tre cerniere. Ogni configurazione di carico analizzata mostra, inoltre, una caratteristica molto importante delle murature, ossia la loro capacità di conservare la memoria dei carichi del passato. In ogni configurazione di carico si può sempre notare nella fase iniziale un comportamento di assestamento della struttura che la porta a ripristinare la sua geometria originaria variata dalle precedenti sollecitazioni. Solo dopo un certo valore di carico si nota una modifica del comportamento consono alla configurazione di carico applicata. Dal punto di vista del suo comportamento statico, la volta ha mostrato anche una risposta anomala all’applicazione del carico, in quanto la sua deformata non risulta sempre conforme alla geometria della struttura, sviluppando un andamento tipico dei materiali non omogenei. Tali anomalie di comportamento riscontrate nel modello di laboratorio sottolineano l’eterogeneità di questi manufatti che, essendo un prodotto artigianale, quando sono sottoposti a sollecitazioni mostrano alcuni difetti dovuti alla loro configurazione non perfettamente simmetrica (della disposizione dei conci e della struttura nel suo complesso). Questo aspetto, però, in presenza di un riempimento all’estradosso che riproduce quello presente nell’edificio, distribuisce i carichi sulla struttura voltata e, con il proprio peso, contiene parzialmente le deformazioni contribuendo sensibilmente ad aumentare la sua resistenza a rottura. Il prototipo infatti ha mostrato notevoli duttilità in fase plastica (dopo che ha iniziato a fessurarsi), ovvero ha assunto deformazioni reali ridotte rispetto a quelle teoriche, consentendogli di sopportare carichi notevolmente più alti di quelli preventivati. Tale situazione invece non si è verificata quando abbiamo applicato i carichi sulla struttura senza il riempimento estradossale.

20

21

22 128

LA CASA BRUCIATA


23 22. Posizionamento dei conci in chiave della volta. 23. Geometria del prototipo in scala realizzato nel Laboratorio di Edilizia del dipartimento DICEA. 129 LA CASA BRUCIATA


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24 24. Applicazione dei tiranti e di un carico di compressione sui muretti laterali per simulare le condizioni reali riscontrabili nella volta dell’edificio.

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25 25

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26 26

25-26. Prove di carico sul prototipo in scala. In alto, applicazione di un carico distribuito sulla struttura con riempimento estradossale. In basso, applicazione di un carico concentrato sull’arco “nudo” privato del riempimento estradossale. 130 LA CASA BRUCIATA


27 A sinistra: diagramma delle tensioni shell s22 che si sviluppano all’estradosso della volta. A destra: diagramma delle tensioni shell s22 che si sviluppano all’intradosso della volta. compressione (-); trazione (+).

28 Schemi riepilogativi dei carichi distribuiti e concentrati applicati sul prototipo. 131 LA CASA BRUCIATA


TAVOLA 2.IX

Schema di carpenteria dei solai lignei

Datazione degli antichi solai lignei in gran parte rimossi.

132 LA CASA BRUCIATA


TAVOLA 2.X

Dettagli costruttivi di alcuni solai

Dettagli costruttivi dei nuovi solai ripristinati. 133 LA CASA BRUCIATA


2.3 Cenni sullo stato di conservazione Principali degradi e dissesti delle murature storiche Facciata Principale e Ala Ovest Nel fronte su via Adriatica si riscontrano i maggiori dissesti nella zona più orientale, anche di considerevoli dimensioni, e deformazioni dei setti dovute al cedimento verticale del terreno oltreché agli interventi di rifacimento della maglia muraria e della modifica della stessa tramite la chiusura di bucature preesistenti. Si tratta però di cedimenti consolidati con gli interventi degli anni ’90. Il cedimento verticale, comunque, ha generato una vistosa deformazione e delle fessure oblique con andamento lineare che percorrono quasi per intero il prospetto (da cielo a terra). In un antico intervento di restauro (forse collocabile nel XVI secolo) si è tentato di ripristinare l’andamento orizzontale della tessitura muraria, ma il marcapiano rimase inclinato evidenziando ancora oggi la porzione di terreno direttamente interessato del cedimento. Si può notare, inoltre, che il macroelemento centrale di ingresso, prima recente del consolidamento, risultava non perfettamente vincolato alle due torri laterali. Questa discontinuità è tuttora leggibile anche Ciò può essere riscontrato anche nel fronte interno verso il cortile. Se si esclude il mancante ammorsamento, al nucleo seicentesco, delle murature aggiunte nell’800 su via Roma e che andrebbe ripristinata, nei restanti corpi di fabbrica non vi sono dissesti significativi in atto. Ala Est Nel prospetto Sud-Est non si rintracciano dissesti di nessun genere, eccezion fatta per la parte più meridionale, appartenente al blocco del fabbricato realizzato in epoca ottocentesca. Qui infatti troviamo numerose fessure dovute principalmente alle traslazioni causate dai cedimenti differenziali del piano di fondazione. Vi è poi un secondo problema, ma non meno importante, legato all’ampliamento realizzato in adiacenza al corpo principale che non risulta ancorato alla struttura adiacente. Ulteriori lesioni sono riconducibili al tamponamento, non correttamente eseguito, di diverse bucature preesistenti. Nella restante parte consolidata del fronte esterno e di quello interno sono visibili segni di interventi di rifacimento della muratura che hanno prodotto variazioni cromatiche e piccoli danneggiamenti nella maglia muraria riconducibili a fenomeni di degrado come croste e patine dovute all’umidità di risalita. Si può inoltre riscontrare il mancato rispetto degli allineamenti verticali di alcune bucature, sia all’esterno che all’interno del manufatto. Questa porzione di edificio presenta,, al piano terra copiose fessure sia alle volte che nelle murature interne. In particolare, le prime sono generate da meccanismi di traslazione orizzontale, mentre nell’attacco tra volte e pareti perimetrali sono presenti fessure dovute alla rotazione della facciata. Tali orizzontamenti sono poi caratterizzati da forti deformazioni. Il caso più evidente si ha nel locale più orientale, nel quale un muro in falso piano superiore, ora sostenuto da pilastri in acciaio, ha prodotto una forte deformazione asimmetrica. 134 LA CASA BRUCIATA

TEMA 07_LO STATO DI CONSERVAZIONE_TAVOLA 01


TAVOLA 2.XI

Degradi dei paramenti di facciata

Degradi rilevati nei paramenti di facciata. Nonostante il restauro, nelle murature vanno riviste molte sigillature dei giunti e rimosse le patine. 135 LA CASA BRUCIATA


Al piano superiore, infine, le chiusure verticali presentano frequenti eterogeneità dei materiali impiegati. Aggiunte ottocentesche La parte dell’edificio più recente, realizzata in epoca ottocentesca non coinvolta nel restauro del 1990, manifesta il maggior numero di lesioni sia all’esterno che all’interno dell’edificio. Alla formazione dei dissesti ha fortemente contribuito la scarsa qualità dei materiali impiegati; in particolare sono state utilizzate malte sabbiose e povere di legante soggette a dilavamento dovuto all’umidità di risalita e alle acque meteoriche nelle sigillature superficiali. Ciò comporta che i mattoni, anche essi di scarsa qualità, non più ben connessi tra loro fanno perdere alla parete l’originaria monoliticità. Viene così a mancare la peculiarità fondamentale dell’arte del costruire, aumentando significativamente la vulnerabilità della muratura. Numerose sono le fessure, ad andamento lineare verticale distribuite su tutto il fronte esterno, soprattutto in corrispondenza delle bucature che ne accentuano l’innesco. La continuità di tali fessure su entrambi i piani è sintomo anche di una non adeguata ammorsatura dei solai alle murature. Le cause di tali dissesti sono da ricondursi alla discontinuità della murature fra parti realizzate in epoche differenti scarsamente ammorsate tra loro, alla presenza di bucature successivamente tamponate in modo approssimativo e, in modo particolare, ai cedimenti differenziali del terreno argilloso. L’edificio presenta fondazioni superficiali (si può ipotizzare che i filari non scendano nel terreno per più di 40-60 cm) molto sensibili a questi fenomeni. I locali interni sono particolarmente lesionati e manifestano forti segni di degrado. Dal piano terra si può notare che il solaio ligneo del piano superiore è tessuto lungo la direzione di maggiore “luce”, le travi principali fungono allo stesso tempo anche da controventi-tiranti. Per ridurre la loro inflessione è stata inserita una trave rompitratta in un’anomala posizione decentrata.

136 LA CASA BRUCIATA

1 2 3 4

TEMA 07_LO STATO DI CONSERVAZIONE_TAVOLA 02


TAVOLA 2.XII

Degradi dei paramenti di facciata

1 1

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2

4

2

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2

Degradi rilevati nei paramenti di facciata. Nonostante il restauro, nelle murature vanno riviste molte sigillature dei giunti e rimosse le patine.

137 LA CASA BRUCIATA


TAVOLA 2.XIII

Deformazioni delle volte in muratura

Rilievo delle forti deformazioni presenti negli ambienti voltati.

138 LA CASA BRUCIATA


TAVOLA 2.XIV

Dissesti nelle volte in muratura

Rilievo dei diffusi dissesti presenti negli ambienti voltati.

139 LA CASA BRUCIATA


1

2

3

4

Verifica della compatibilità di alcune destinazioni d’uso all’interno del corpo cinquecentesco nel rispetto della conservazione meterica degli elementi strutturali originali. 140 LA CASA BRUCIATA


Capitolo 3

Proposte per un riuso compatibile di Placido Munafò ed Enrico Mugianesi

3.1 Verifica di alcune destinazioni d’uso La questione del riuso Nel corso del tempo un oggetto architettonico subisce diversi usi che concorrono a definire la sua forma. Ogni epoca trascorsa tende ad imprimervi le proprie esigenze e istanze culturali mediante modifiche formali e materiche. Per questo motivo un edificio che abbia perduto qualsiasi funzione, si presenta come un oggetto vuoto, privato di molti aspetti comunicativi. Dall’uso, che poi si traduce in forma, deriva la riconoscibilità del manufatto come oggetto di valore storico. Le istanze di conservazione, che nella prassi condivisa portano a mantenere ogni traccia delle modifiche passate, acquisiscono una importanza preponderante nel riuso del manufatto. A volte però, la necessità di mantenere evidenti anche le più piccole testimonianze del passato può portare alla musealizzazione dell’oggetto, estraniandolo da ogni possibilità di riuso. Questa eventualità lo escluderebbe dal dibattito culturale pregiudicando la comprensione del manufatto edilizio stesso. Ostacolare la conservazione di un bene, in rapporto all’uso che se ne deve fare, porta l’edificio storico ad una sorta di isolamento, riducendolo ad un mero “luogo anonimo”. Ecco quindi che il dibattito sull’uso di un edificio storico entra obbligatoriamente nel suo progetto di conservazione, ovviamente, nel rispetto delle istanze di mantenere le tracce del suo passato, di non creare falsi storici, di mantenere l’unità del bene e di garantire la trasmissibilità ai posteri. Pertanto il progetto di conservazione deve essere necessariamente un progetto di riuso che possa, allo stesso tempo, riproporre l’unitarietà del bene senza costruire falsi storici o perdere quantità eccessive di materia. Un aspetto particolarmente importante per il mantenimento dell’edificio storico è il suo inserimento in nel contesto urbano. Per valorizzare il manufatto come bene storico-culturale è necessario restaurare e conservare anche il suo intorno inteso come un “unicum”. Restaurare innanzitutto significa recuperare anche gli spazi che lo circondano. Il restauro e riuso Dal riuso deve partire la pratica della conservazione per evitare di creare contenitori indifferenziati (come spesso vengono definiti) non idonei ad un ruolo nel contesto urbano. Spesso si è anche assistito ad interventi in cui l’analisi storica, principalmente documentaria (ed astratta), è risultata più attenta al reperto che al destino della natura architettonica nel suo complesso.

In questo caso, l’immagine svincolata dai contenuti culturali, diviene così l’unico punto di partenza per il progetto di restauro. L’opera architettonica risultante deve, invece, evitare di confondere il passato con il presente e quest’ultimo con il futuro. Ricordando come anche le architetture abbiano un loro ciclo vitale, che il tempo sottopone a continue trasformazioni, sarebbe del tutto sbagliato tentare di arrestare questo processo attraverso operazioni ricostruttive, secondo un linguaggio ormai lontano dal nostro tempo. Il senso della storia in architettura è leggibile nelle sue stratificazioni successive, ognuna delle quali è autentica in quanto concorre all’immagine complessiva, pertanto ogni operazione di censura ed occultamento del dato storico è sconsigliabile. Il ruolo del progettista non è quindi quello di manipolare la storia a sua discrezione, ma di parteciparvi con una cultura ed un linguaggio adeguato, agendo nel presente per realizzare gli interventi sulle strutture del passato, che costituisce l’unico modo per trasmetterle alle generazioni future. 9 3.2 La versatilità del manufatto La rianimazione funzionale degli edifici storici costituisce il tema centrale per la loro salvaguardia. Soltanto l’uso di un edificio garantisce la sua manutenzione e conservazione. Non è facile però definire i limiti entro cui le scelte funzionali si debbono mantenere. Tra i fattori, che vanno tenuti in considerazione, possiamo riconoscere innanzitutto il valore storico, estetico e urbanistico del bene, che le operazioni di riuso devono evidenziare e casomai valorizzare ulteriormente. È, inoltre, una problematiche attuale anche il mantenimento del rapporto che il tempo ha stabilito tra l’edificio e il suo intorno. Trovare per un monumento del passato l’uso più opportuno è operazione delicata che dovrebbe derivare dal considerare i bisogni reali della comunità. Sovente le ipotesi di utilizzo dei contenitori storici come museo o centro culturale, troppo spesso proposte, è soluzione facile che, molte volte, denuncia la mancanza della reale conoscenza dei bisogni della collettività. Riutilizzare non significa necessariamente “salvaguardare” qualora non si faccia ricorso a tecniche appoppiate di conservazione e di mantenimento. La scelta della soluzione architettonica e dei mezzi tecnici da utilizzare deve inoltre conciliarsi con la creatività e la cultura espresse da chi l’ha costruito, a cui si aggiungono le stratificazioni successive.

141 LA CASA BRUCIATA


La rivitalizzazione dell’edificio storico poi deve soddisfare le aspirazioni del presente assolvendo, in maniera adeguata, i bisogni attuali e futuri del contesto urbano dove è inserito. Nelle esercitazioni progettuali, che si sono condotte sul Mandracchio nell’ambito dei corsi di Architettura Tecnica II e di Restauro Architettonico, la definizione di una sua possibile destinazione d’uso ha costituito il punto cruciale della progettazione che si è dovuta affrontare. Si è potuto appurare che il Mandracchio, con il suo impianto costruttivo, tutto sommato semplice, si presta ad accogliere con versatilità diverse funzioni d’uso. Tale aspetto, sicuramente positivo, rappresenta però un punto di debolezza per la sua tutela esponendo il bene anche a possibili destinazioni d’uso improprie, o poco rispettose della sua integrità materica. Si è quindi ritenuto utile e necessario utilizzare questa occasione per verificare l’impatto di alcuni possibili usi sul bene che potrebbero interessarlo nel suo futuro. Si è in sostanza tentato di comprendere la compatibilità delle possibili ipotesi di utilizzazione del manufatto con la sua conservazione (si veda la TAV. 3.I). La stratificazione storica presente che annovera il corpo cinquecentesco, le porzioni seicentesche e gli aggregati del 1800, conferiscono all’edificio una eterogeneità costruttiva che permette di allocare facilmente nuove funzioni d’uso senza comprometterne l’integrità materica. Agli ambienti “voltati” del piano terra, sono sufficientemente ampi per ospitare diverse funzioni (commerciali, espositive o similari), si alternano con ambienti “abitabili”, molto spaziosi che presentano solai lignei recentemente restaurati di capacità portanti compatibili con il pubblico utilizzo. Il grave stato di abbandono del manufatto che, nella parte seicentesca, ha portato alla integrale sostituzione dei solai lignei storici, agevola inoltre la possibilità di introdurre collegamenti verticali (ascensori, cavedi tecnici, ecc.)

rendendo l’edificio flessibile ad eventuali adeguamenti normativi che le nuove destinazioni d’uso comportano. Le aggregazioni ottocentesche, attualmente ancora non consolidate e contraddistinte da una “maglia” strutturale priva di controventi interni, consente di ospitare ambienti di servizio o l’introduzione di corpi scala necessari per migliorare i collegamenti verticali e per le vie di fuga nel caso si rendano necessarie. Inoltre, al piano primo dell’ala cinquecentesca, a seguito delle intenzioni, perfettamente riuscite, di adeguare il comportamento sismico del manufatto che hanno portato all’introduzione di nuovi setti di controvento in muratura (assenti nell’impianto originale) e un involucro di copertura difforme da quello rimosso, l’edificio potrebbe essere utilizzato per ricavare ambienti che richiedono superfici notevoli come sale convegni, spazi espositivi o ambienti per la ristorazione. La buona resistenza dei solai e delle volte a botte, consolidate all’estradosso, unita all’assenza di “pareti di spina” in tutto il manufatto, consentono la facile introduzione di percorsi e corridoi interni con la possibilità di scegliere la profondità degli ambienti adiacenti. Un cenno, infine, sull’impianto statico del manufatto che si è rilevato adeguato ad ospitare tutte le funzioni d’uso proposte (per un approfondimento tecnico si rimanda alla consultazione del testo “Il restauro consapevole” che a breve sarà pubblicato in edizione aggiornata). 10 Se si escludono le disomogeneità delle murature portanti e delle fondazioni (per buona parte consolidate, ma che richiedono una verifica ulteriore) grazie al suo impianto fortificato, caratterizzato da setti portanti di grande spessore, solai omogenei con “luci” e superfici simili tra loro, la struttura risulta facilmente riutilizzabile anche per attività commerciali o più in genere pubbliche, rendendosi necessari lievi interventi di miglioramento sismico per lo più localizzati.

142 LA CASA BRUCIATA


TAVOLA 3.I

Il riuso - Verifica di alcune destinazioni d’uso compatibili

TEMA 08_IIL RIUSO_TAVOLA 01 Sintesi delle destinazioni d’uso verificate nel Mandracchio.

143 LA CASA BRUCIATA


IL RIUSO

TAVOLA 3.II

proposte per attività ricettive Il riuso - Proposte per attività ricettive

ENOTECA e TIPICITÀ

ntina “Endrizi” San hele all’Adige (TN)

Dipartimento di Ingegneria Civile Edile e Architettura Università Politecnica delle Marche

RIFERIMENTI Cantina “Endrizi” San Michele all’Adige (TN)

a nel centro di Vicenza

Enoteca nel centro storico di Vicenza

iana”, Siena

“Enoteca Italiana”, Siena

H)

Enoteca “NON SOLO VINO” Ortona (CH)

PIANO TERRA

PIANO PRIMO

stelli e spazi propri. Per i progettisti nda che si ativa e che Comune di e funzionale Adriatica un più eminenti piano supeociale, dove non hanno oni espositirante hanno anta preesi-

COMPATIBILITÀ Il quinto ambito di destinazione d'uso riguarda gli Ostelli e spazi di ristorazione quali bar, enoteche e ristoranti veri e propri. Per quanto riguarda la destinazione d'uso dell'Enoteca i progettisti hanno pensato ad una Cantina Sociale, un'azienda che si occupa del settore vinicolo, gestita da una cooperativa e che opera nel complesso in quanto demandata dal Comune di Marina di Montemarciano. A tal fine la distribuzione funzionale del piano terra prevede, in corrispondenza di via Adriatica un nuovo ingresso, per dare maggior rilievo ai prospetti più eminenti ed agevolare la fruibilità dei locali ai clienti, mentre al piano superiore, si svolgono le attività principali della Cantina Sociale, dove la continuità degli spazi e le volumetrie preesistenti non hanno reso necessari interventi strutturali significativi: banconi espositivi, scaffali, servizio bar, sale lettura e un piccolo ristorante hanno infatti trovato la loro naturale collocazione nella pianta preesistente. Allo stesso modo per quanto riguarda la progettazione di un Ristorante, le sale d'attesa, il bancone del bar e i locali destinati ai servizi e alle sale da pranzo non hanno comportato modificazione dei setti murari, eccezion fatta per i locali cucina, i quali hanno richiesto una più dettagliata attenzione, soprattutto per alloggiare i particolari impianti che essa richiede dalle normative vigenti.

zione di un cali destinati to modificacina, i quali prattutto per e normative

per giovani”

PROGETTO di RECUPERO: “Ostello per giovani”

PIANO TERRA

PIANO PRIMO

PIANO PRIMO

PIANO PRIMO

PIANO TERRA

e ristorante,

PROGETTO di RECUPERO: “Ostello e ristorante, con annesso bar indipendente”

FRONTE SS16 Adriatica

PIANO PRIMO

PIANO TERRA

PIANO PRIMO

FRONTE via Roma

IL MANDRACCHIO DI CASE BRUCIATE Storia, Architettura e Riuso

TEMA 05_IL RIUSO_TAVOLA 02

Anche attività particolarmente impegnative come quelle legate alla ristorazione, possono essere proposte nel rispetto dell’istanza conservativa del bene. 144 LA CASA BRUCIATA


TAVOLA 3.III

Il riuso - Soluzione per la creazione di attivitĂ commerciali

8_IL RIUSO_TAVOLA 1 InTEMA questo caso la presenza dei corpi ottocenteschi ancora da ristrutturare, fornisce degli spazi molto utili per risolvere, senza dover intaccare il nucleo seicentesco, i diversi problemi impiantistici e funzionali che tali destinazioni normalmente hanno.

145 LA CASA BRUCIATA


IL RIUSO

SOLUZIONI PER LA CREAZIONE DI SPAZI PER IL IL “SOCIALE” RIUSO SOLUZIONI PER LA CREAZIONE PER di IL “SOCIALE” TAVOLA 3.IV Il riuso - Soluzioni perDIlaSPAZI creazione spazi per il

di realzzare za di infanti di realzzare a la compatidi infanti ozamodifiche sato di realzzare a la compatipreservare il infanti ario. Glidiinteroglienza modifiche igurda la compatiprattutto preservare il subito modifiche menti verticali ario. Gli inter- il de preservare ate realzzate riginario. Gli interprattutto erni, per o soprattutto menti verticali n destinazioegamenti verticali ate realzzate ano realizzaziostate realzzate erni, per ri interni, per ado di pern destinazioze con destinazioie stanze si è per la realizzazioamenti realizzaziosotto-

Progetto Asilo Nido e Centro Estivo Progetto Asilo NidoIL e Centro Estivo RIUSO

Il Centro Estivo e Asilo Nido annesso progettato prevede di ospitare 60 bambini: 12 latIl Centro Estivo e Asilo Nido annesso progetSOLUZIONI LA CREAZIONE DI tanti (0-2 anni) ospitatiPER nell'asilo nido, e 48 tato prevede di ospitare 60 bambini: 12 latbambini per il Centro Estivo. tanti (0-2 anni) ospitati nell'asilo nido, e 48 La nuova destinazione d'uso dell'edificio è bambini per il Centro Estivo. Progetto strettamente connessa al fattodell'edificio che l'accesso La nuova destinazione d'uso è al mare sia immediato, benche si sposa con strettamente connessa che al fatto l'accesso al sia immediato, si sposa la mare storica locazione del che Mandracchio tra lacon Il Centro Estivo e Asilo Nidoben annesso progettato di 60 bambini: la storica locazione del al Mandracchio tra la "via deiprevede catasti perospitare fino mare" e "la12 vialatche (0-2 anni) ospitati e 48che "via deiriviera catasti per fino alnell'asilo mare" enido, "la via va tanti per del mare".

sociale Riferimenti

SPAZI PER IL “SOCIALE”

Il Centro Estiv tato prevede d tanti (0-2 ann bambini per il La nuova des strettamente c al mare sia im la storica loca "via dei catas va per riviera

Asilo Nido e Centro Estivo

perdel il Centro Estivo. va bambini per riviera mare".

La nuova destinazione d'uso dell'edificio è strettamente connessa al fatto che l'accesso al mare sia immediato, che ben si sposa con la storica locazione del Mandracchio tra la "via dei catasti per fino al mare" e "la via che va per riviera del mare".

Planimetria dell’Asilo NIdo e sua interazione con le infrastrutture circostanti. Planimetria dell’Asilo NIdo e sua interazione con le infrastrutture circostanti.

SOLUZI

Porticato Martinitt e padiglione Rizzoli.

Planimetria dell’Asilo NIdo e sua interazione con le infrastrutture circostanti.

Polo per l’infanzia Lama Sud-Ravenna.

Compatibilità Distribuzione funzionale Piano Terra

Distribuzione funzionale Piano Terra Distribuzione funzionale Piano Terra

Distribuzione funzionale 1° Piano

Distribuzione funzionale 1° Piano Distribuzione funzionale 1° Piano

Ampiamento dell’ingresso

Ampiamento dell’ingresso Ampiamento dell’ingresso

in grado di perado di pere varie stanze si è ie stanze è mpliamentisisottoo.menti sotto-

In questi progetti è stato pensato di realzzare un edificio destinato all’accoglienza di infanti oppure anziani. Per quanto rigurda la compatibilità il Mandracchio non ha subito modifiche importanti, infatti si è cercato de preservare il più possibile il suo aspetto originario. Gli interventi effettuati si concentrano soprattutto sull’inserimento di nuovi collegamenti verticali e corpi ascensore. Inoltre sono state realzzate delle aperture, nei setti murari interni, per poter collegare le varie stanze con destinazione d’uso in comune. Mentre per la realizzazione di corridoi esterni coperti in grado di permettere il transito davanti alle varie stanze si è pensato di realizzare degli ampliamenti sottoforma di passerelle in acciaio.

Distribuzione

Progetto casa di riposo

oso

iposo

oso

èdove evideziata è evideziata . esterno.

è evideziata .

Ostratornskolan, Lund, White Arkitekter Ostratornskolan, Lund, White Arkitekter

Ostratornskolan, Lund, White Arkitekter

Prospetto interno dell’ingresso Prospetto internoalla allacorte corte dell’ampliamento dell’ampliamento dell’ingresso caratterizzato di una unasuperficie superficievetrata. vetrata. caratterizzatodalla dallapresenza presenza di

Sezione trasversale dell’ampliamento dell’ingresso dove viene evidenziato l’accostamento tra la falda moderna e la falda originaria

Sezione trasversale dell’ampliamento dell’ingresso dove viene evidenziato l’accostamento tra la falda moderna e la falda originaria

Sezione trasversale dell’ampliamento dell’ingresso dove viene evidenziato l’accostamento tra la falda moderna e la falda originaria

Render dell’ampliamento dell’ingresso. Render dell’ampliamento dell’ingresso.

Pianta Primo Piano della casa di riposo dove è evideziata la passerella in acciaio come corridoio esterno.

Tema 8 _ Il Riuso _ Tavola 03

Destinazioni d’uso di questo tipo sono facilmente adattabili all’edificio, in questo caso il cortile interno è un valore aggiunto per la vivibilità degli spazi. Prospetto interno alla corte dell’ampliamento dell’ingresso caratterizzato dalla presenza di una superficie vetrata.

Render dell’ampliamento dell’ingresso.

146 LA CASA BRUCIATA

P


TAVOLA 3.V

Il riuso - Soluzioni per la creazione di servizi per la comunitĂ

Tema 08_IL RIUSO_Tavola 05 Questa funzione solitamente richiede alcuni ambienti molto spaziosi che possono essere ricavati al piano primo, in corrispondenza delle nuove strutture di controvento recentemente aggiunte.

147 LA CASA BRUCIATA


TAVOLA 3.VI

Il riuso - soluzioni per la creazione di centri per servizi alla comunità

Posizionando gli ambienti che richiedono sovraccarichi elevati al piano terra, l’edificio si adatta senza troppi problemi a tali destinazioni d’uso. 148 LA CASA BRUCIATA


TAVOLA 3.VII

Il riuso - soluzioni per la creazione di spazi espositivi

Il museo del mare L’ intento è quello di rendere il Mandracchio un luogo di incontro, basandosi sulle ipotesi di intervento precedenti e studiando l’inserimento di alcuni servizi a disposizione dei visitatori e dei clienti, gestiti dall’amministrazione pubblica. L’ipotesi prevede quindi la realizzazione del museo e relativi servizi annessi, di una biblioteca e libreria, di un punto di ristoro e di attività commerciali private.

Riferimenti

Restauro Ex Carceri di Copparo - Mauro Crepaldi

S. Giovanni a Pesaro - Danilo Guerri

Restauro chiesa - fortezza San Pietro Cipressa lingueglietta, LDA Studio

Great Court British Museum Londra - Norman Foster

Il fascino degli spazi interni del Mandracchio, unito alla ampia superficie degli ambienti rendono l’edificio particolarmente adatto per la funzione espositiva. 149 LA CASA BRUCIATA


Architettura Tecnica 2 : "Il Mandracchio"

marciano)

G R U P P O

Monica Magi Silvia Sbarbati Michea Sciorra

8

E LE N C O T AV OLE TAV. 04 01-ricerca storica 05-rilievo critico della struttura in muratura 1041737 01 bis-ricerca storica 06-analisi del degrado e dei dissesti 1041225 02-evoluzione progettuale 07- cinematismi e vulnerabilità 1041758 03-fattibilità e destinazione d'uso 08-tecniche di intervento 04-SCELTE D'INTERVENTO E PROGETTO

ndipendente

mpostazione

amponature

zione il più alla costa e

alche modo, minimi da

point, caffè

in modo da

a modularità

aratteristica costruttiva

1

PROSPETTO EST

mo piano, non

elle finestre attraverso

2

PROSPETTO SUD Studio per l’inserimento di un nuovo percorso sul fronte di ponente. Riconoscibilità, reversibilità e conservazione materia sono le chiavi di lettura di questa proposta.

150 LA CASA BRUCIATA


Capitolo 4

La valorizzazione del manufatto di Placido Munafò ed Enrico Mugianesi

4.1 Le qualità prevalenti da tutelare Sono ormai trascorsi i tempi in cui il progetto di restauro era visto come parte di un progetto ex-novo, spesso calato a forza sul manufatto, attraverso il quale si attuavano le scelte dell’architetto (tipico atteggiamento culturale dell’Ottocento e del primo Novecento). Il restauro risentiva dell’approccio volto alla ricerca di una verità storica o estetica che andava messa in luce. In quel contesto il progetto del restauro non era un mezzo per la conoscenza del bene, ma la fase di passaggio tra la conoscenza sommaria e la realizzazione dell’opera. Il progetto di restauro è oggi considerato in primo luogo come la sede di elaborazione di una conoscenza da trasmettere. Con il progetto si instaura un dialogo continuo tra il progettista e l’oggetto da restaurare. Per questo motivo il restauro stesso ha bisogno di un ampio approfondimento conoscitivo, possibile solo con il ricorso ad una molteplicità di soggetti specializzati che trovano nel progettista il punto di contatto e di sintesi in vista dell’intervento sull’oggetto. Nei beni architettonici storici oggi, quasi sempre, prevale il valore storico del bene, ciò comporta scelte volte alla conservazione del manufatto che consentano di non perdere la riconoscibilità degli elementi originari. Gli interventi da effettuare non possono prescindere dalla esigenza di mantenere inalterato l’aspetto estetico del bene la dove è possibile. Gli interventi dovranno quindi essere attuati con il principio della riconoscibilità, mentre andranno assolutamente impediti lavori di riproposizione di copie dell’originale, anche se sufficientemente documentate. Tale concetto, però, si ritiene non assolutamente vincolante per i monumenti architettonici là dove, in presenza di esigenze legate alla stabilità del manufatto, si possono anche prevedere interventi che richiamano tecniche costruttive del passato (soprattutto nel caso queste dovessero risultare meno invasive e più reversibili delle attuali). Nel contempo, non si ritengono “scandalosi” interventi che, ispirandosi alla storia del manufatto, possano proporre soluzioni con linguaggio architettonico attuale e conferire un valore aggiunto al bene architettonico. Qualora sia in pericolo la sopravvivenza statica del manufatto non è possibile sottrarsi da un intervento sulla materia di cui esso è composto. La conservazione del “documento storico” in questo caso deve essere subordinata all’agire sulla materia che compone l’edificio stesso. La conservazione ed il restauro devono quindi tornare ad essere considerati come atto creativo. In Italia però si è ricorso alla adozione di criteri di intervento formalmente simili a quelli adottati per le opere pittoriche o scultoree.

Memoria e conoscenza Il recupero del patrimonio architettonico diventa fondamentale nei processi di rigenerazione e riqualificazione del tessuto urbano consentendo la trasmissione dei valori culturali alle generazioni future. Alcuni anni fa era frequente trovare edifici restaurati rettificando qualsiasi difformità, cancellando tracce del tempo lasciate dagli antichi costruttori. Successivamente le tecniche di indagine sulle murature e sulle strutture rimaste si sono affinate, consentendo di restaurare gli edifici storici con un’accuratezza maniacale. Non a caso identità e memoria, scelta e progetto sono ora delle parole chiave indi­spensabili per interpretare la nuova Carta del Restauro ratificata a Cracovia nel 2000. 11 Un nuovo documento di riferimento per le Soprintendenze, operatori, storici dell’arte, ma anche e soprattutto per sem­plici Cittadini interessati alla difesa del patrimonio culturale e, dunque, della propria memoria. Negli anni il concetto di restauro si è profondamente modificato valorizzando il concetto di memoria, che conferisce valore al passato e permette di identificare ciò che esse rappre­sentano. La memoria implica scelte, costringe a distinguere ciò che merita di essere conservato da ciò che invece può essere dimenticato. Va inoltre conservato anche ciò che noi oggi non comprendiamo del manufatto, perché potrà essere compreso in futuro da altri. Ma qual è il limite entro il quale un bene storico rimane se stesso? L’utilizzo del bene diventa la scelta fondamentale perché è attra­verso esso che il monumento architettonico mantiene parte delle sue funzioni primarie. A tal proposito la conoscenza del manufatto assume un carattere di “consapevolezza delle possibilità”, frutto di un nuovo approccio culturale. Per gli storici, i fatti che producevano le vicende del passato erano indissolubilmente legati ai grandi eventi compiuti dalle personalità dell’epoca, generalmente riconducibili alle classi dominanti di quel periodo. Oggi l’istanza storica si allarga ed abbraccia elementi fino a poco tempo fa considerati secondari. Il restauro diviene il momento del riconoscimento dell’opera nella sua consistenza, nella sua estetica e storia. L’intervento di restauro andrà compiuto sulla materia dell’opera architettonica e dovrà essere guidato dalla consapevolezza che andrà salvaguardato l’aspetto estetico, senza commettere un falso storico o cancellando il passaggio del tempo. Dovrà anche permettere, se vi sono le condizioni, di esprimere nuovi valori o linguaggi che caratterizzano il presente da intendersi come un “valore aggiunto” e non come “manomissione”.

151 LA CASA BRUCIATA


Tendenze attuali nella prassi del restauro In relazione all’atteggiamento adottato rispetto alla conservazione della materia originale, gli orientamenti teorici che stanno, al giorno di oggi, alla base della prassi del restauro. Schematicamente si possono così delineare le seguenti linee del pensiero ricorrenti. 12 Il restauro critico È un approccio metodologico al restauro formulato da Cesare Brandi, storico dell’arte e direttore, per un lungo periodo, dell’Istituto Centrale del Restauro. Il restauro critico propone il progetto di restauro come una “lettura” del monumento, da conservare nella sua stratificazione storica, tra immagine e materia, nella forma in cui ci è pervenuto. Questo è l’approccio che si avvicina di più a quanto definito nella normativa, poiché l’intervento tende a conservare il massimo di informazioni contenute nel bene, operando però una scelta per identificare i valori. Il restauro di ripristino Il restauro di ripristino è un approccio teorico che riprende alcune correnti di pensiero dell’Ottocento (quale per esempio il restauro stilistico). A livello molto schematico, si potrebbe dire che promuove il completamento di alcune parti mancanti di un monumento, o la trasformazione di alcuni elementi, allo scopo di ricostituire una forma ideale del monumento, esistita (o supposta di esser esistita) nel passato. Uno dei limiti di tale corrente di pensiero è l’arbitrarietà delle scelte progettuali: spesso le fonti iconografiche a cui si attinge sono relative e imprecise. Ad un altro livello interpretativo, si potrebbe dire che tale approccio

è un tentativo di abolire il tempo trascorso e l’evoluzione dell’opera. Il restauro di pura conservazione Il restauro prettamente conservativo richiede la rigorosa conservazione del manufatto nella completezza delle sue stratificazioni e la conservazione della patina, come segno della trasformazione della materia nel tempo. È comunque considerata lecita la rimozione motivata di alcune aggiunte che deturpano l’aspetto visivo del monumento, aspetto che avvicina tale linea concettuale al restauro critico. In realtà alcuni temi ricorrenti nel restauro critico costringono il progettista a confrontarsi con il bene storico a prescindere dalla posizione culturale adottata. Tra le questioni ricorrenti nel dibattito troviamo schematicamente i seguenti argomenti: - l’opera d’arte è da analizzare come una stratificazione di interventi, che si deve considerare nel suo valore estetico e storico; - l’intervento di restauro è un momento di presa di coscienza nei confronti dell’opera, deve prevedere un giudizio critico capace di offrire una lettura del bene. Il restauro non è un ritorno indietro nel tempo, ma un intervento che deve rendere leggibile l’opera nelle sue stratificazioni successive; - l’idea di conservare l’opera così come ci è pervenuta implica il fatto che la rimozione delle aggiunte debba essere un’eccezione, non una regola; - la patina, segno del passaggio del tempo, è una parte componente dell’opera e, per quanto possibile, va conservata come segno che caratterizza l’immagine.

152 LA CASA BRUCIATA


La tipologia

3

La facciata

0 DigitalGlobe, GeoEye, Cnes/Spot Image, Map data Š2010 Tele Atlas -

4

Il cortile

monemarciano 5

17/03/2010 Gli aggregati ottocenteschi

6

Caratteristiche architettoniche del Mandracchio che andrebbero preservate negli interventi di restauro.

153 LA CASA BRUCIATA


4.2 Spunti per un restauro rispettoso Se è vero che la tutela di un bene è il primo passo da effettuare per avviare quel processo che mira alla conservazione e al riuso di un edificio storico, per il Mandracchio si ritiene fondamentale la conservazione materica delle apparecchiature murarie, le quali rappresentano gli unici elementi pervenutici dopo il lungo stato di abbandono che ha provocato la perdita della gran parte degli impalcati lignei originari. È sufficiente, però, affacciarsi all’interno del manufatto per percepire che l’edificio presenta un impianto semplice, ma allo stesso tempo originale. È proprio nella originalità della costruzione, che non trova analogie nei manufatti della sua epoca nel territorio, che è da rintracciare il suo valore storico-culturale. Il Mandracchio, oltre a dare il toponimo di Casa Bruciata a questa zona (rimasto fino ai primi anni del Novecento), rappresenta la testimonianza storica di un crocevia, nel quale si sono intersecate gran parte delle vicende locali del passato. Il suo impianto, frutto di diverse modifiche e aggregazioni negli anni, presenta delle caratteristiche architettoniche che riteniamo vadano preservate, tra queste abbiamo ritenuto prioritario mantenere e valorizzare le seguenti peculiarità:

La ricostruzione dei volumi perduti

1. La tipologia L’impianto architettonico caratterizzato da ambienti che si affacciano sul cortile interno andrebbe mantenuto e rafforzato. Lo spazio centrale caratterizza l’edificio e rappresenta il fulcro funzionale che ha portato l’edificio ad aggregarsi con corpi successivi fino ad assumere l’attuale conformazione. 2. La facciata su via Adriatica Pur se compromessa dal parziale abbattimento delle due torri laterali, la facciata su via Adriatica è senza dubbio il fronte urbano più significativo, non a caso è la parte soggetta al vincolo ministeriale e non andrebbe intaccata. Interessante potrebbe essere il tentativo di consentire una rilettura dei volumi perduti. 3. Il cortile Il cortile interno è l’ambiente che presenta gli scorci più affascinanti dell’edificio, deve essere tutelata la percezione dei suoi spazi. Eventuali interventi architettonici al suo interno devono preservare l’unitarietà dell’ambiente. 4. Gli aggregati ottocenteschi Gli aggregati ottocenteschi, anche se celano il fronte a monte del corpo seicentesco, se confrontati con un contesto storico adiacente - fortemente compromesso -sono dei manufatti ormai storicizzati. Dal punto di vista funzionale rappresentano, inoltre, una grande opportunità, consentendo di ospitare eventuali ambienti tecnici che altrimenti andrebbero allocati all’interno del nucleo fortificato. Nel rispetto dei punti sopra elencati, sono state effettuate le esercitazioni didattiche che indagano alcune tematiche progettuali volte a valorizzare la sua integrità architettonica. 154 LA CASA BRUCIATA


TAVOLA 4.I

Il restauro architettonico - La facciata principale sulla via Adriatica

155 LA CASA BRUCIATA


7a

7b

Alcuni riferimenti progettuali esemplificativi degli atteggiamenti culturali adottati nell’affrontare il tema della riproposizione di nuovi volumi e ampliamenti: In alto, Restauro del Castello di Saliceto condotto dallo studio Armellino&Poggio Architetti Associati (REVERSIBILITÀ). Al centro, Completamento della Manica Lunga del Castello di Rivoli, Andrea Bruno (RICONOSCIBILITÀ). In basso, Ricostruzione di San Michele in Borgo - Pisa, Massimo Carmassi (RE-INTERPRETAZIONE delle tecniche storiche).

7c

156 LA CASA BRUCIATA


TAVOLA 4.II

Il restauro architettonico - La facciata ottocentesca

In alto, Studio per l’ampliamento di un volume nel cortile. Riconoscibilità e controllo dell’impatto visivo gli aspetti valutati prioritari. In basso, Proposta per la ricostruzione dei volumi ottocenteschi, nel nuovo prospetto si re-interpretano le forme del fronte seicentesco. 157 LA CASA BRUCIATA


A fronte di svariate soluzioni progettuali redatte dagli studenti, nelle quali si è cercato di garantire il rispetto dell’autenticità del manufatto attraverso la sua conservazione materica e la riconoscibilità delle eventuali aggiunte (per un approfondimento si veda il paragrafo seguente), si riportano delle tavole esemplificative dove vengono affrontati alcuni temi progettuali strettamente legati alle caratteristiche storico-architettoniche dell’edificio.

Alcuni riferimenti progettuali

La ricostruzione dei volumi perduti su via Adriatica (cfr. TAVOLA 4.I)

Viene indagato il tema della riproposizione degli antichi volumi delle due torri di facciata cercando di effettuare un ripristino riconoscibile, che non vada a ledere la lettura delle stratificazioni storiche (falso storico). La rilettura della facciata ottocentesca (cfr. TAVOLA 4.II) Il precario stato di conservazione di questa porzione, accompagnato dalla necessità di effettuare un importante intervento di miglioramento sismico, ha suggerito di verificare anche l’ipotesi di una sua ricostruzione e rilettura formale. Una copertura sul cortile interno (cfr. TAVOLA 4.III) Viene verificata la possibilità di introdurre un copertura che non vada a ledere la percezione degli spazi e, allo stesso tempo, sia reversibile e strutturalmente compatibile con l’edificio. Nuovi percorsi nell’ala cinquecentesca (cfr. TAVOLA 4.IV) In questo corpo di fabbrica la presenza degli ambienti voltati condiziona e limita la fruibilità degli spazi al piano terra. Vengono studiati percorsi distributivi mediante l’introduzione di nuovi volumi aggiunti. Nuovi percorsi e collegamenti verticali (cfr. TAVOLA 4.V) Vengono studiate soluzioni per migliorare l’accessibilità all’edificio mediante la realizzazione di percorsi interni al manufatto che non intacchino il contenuto materico originale. Tali collegamenti vengono ricavati in corrispondenza degli ambienti in cui sono stati rimossi i solai originali durante il recente restauro. 4.3 Appendice Linee guida e approccio culturale adottati nelle esercitazioni progettuali dei corsi di Architettura Tecnica II e di Restauro Si ritiene utile riportare sinteticamente gli assunti presi in esame durante le esercitazioni progettuali. Approccio culturale dei progetti redatti Di seguito riportiamo la descrizione di alcuni atteggiamenti culturali adottati nel progetti di restauro elaborati. 13 Tendenza al minimo intervento L’intervento deve essere strettamente necessario e sufficiente a raggiungere lo scopo a allo stesso tempo deve essere mirato e motivato.

Alcuni riferimenti la copertura vetrata del cortile

158 LA CASA BRUCIATA


TAVOLA 4.III

Il restauro architettonico - Il cortile interno

Studio per la realizzazione di due coperture vetrate con struttura portante indipendente.

159 LA CASA BRUCIATA


Ricerca della compatibilità strutturale La compatibilità meccanico-strutturale si verifica nel caso in cui l’intervento non muti la concezione strutturale dell’opera, ma cerchi di integrarla limitatamente alla capacita di risposta alle azioni rispetto alle quali l’edificio è vulnerabile.

Nuovi collegamenti verticali

La compatibilità fisico-chimica Serve per accertarsi che non si verifichino interazioni negative Ia materia di apporto e materiali già presenti nella fabbrica. La compatibilità costruttiva spinge alla ricerca di forme di affinità tra i materiali di apporto e i materiali della fabbrica. Reversibilità La reversibilità e intesa come possibilità di rimuovere senza danni eccessivi per l’opera l’intervento oggi effettuato. Rispetto dell’autenticità In particolare vengono rispettate l’autenticità della configurazione architettonica e l’autenticità della materia. Per autenticità della configurazione si intende mantenere inalterata la struttura da restaurare. Conservazione della materia La materia costitutiva dell’opera è considerata nel suo insieme portatrice di testimonianza e di cultura costruttiva. La sua sostituzione o la sua compromissione porterebbero a una perdita dl identità e pertanto sono escluse dall’ opera di restauro. Solo in casi di eccessivo degrado è possibile attuare interventi di modificazione della materia rispettando sempre il principio della tendenza al minimo intervento. Controllo dell’impatto visivo Per impatto visivo intendiamo le modifiche alla visibilità e alla percezione dell’opera conseguenti agli interventi proposti nel progetto. Prevale la tendenza ad effettuare interventi non invasivi iI cui impatto visivo sia accettabile rispetto ad interventi di radicale sostituzione e ricostruzione. Riconoscibilità degli interventi Requisito che la disciplina del restauro richiede a tutte Ie opere di apporto. Percorso operativo seguito per la conoscenza del manufatto A partire dal Decreto Ministeriale del 1882 era prescritto che preliminarmente ad ogni intervento fosse eseguito l’esame storico ed artistico del monumento in modo da poter definire quanto conservare, gli stessi concetti vengono ripresi nella Carta del Restauro del Ministero della Pubblica Istruzione nel 1972 e reiterati in quella della Conservazione e del Restauro degli Oggetto d’Arte e di Cultura del Consiglio Nazionale delle Ricerche nel 1987. 14 Tale percorso operativo, preliminare al progetto di restauro, comprende le seguenti indagini che sono state seguite dagli studenti durante le esercitazioni progettuali.

A fianco, alcuni esempi per la realizzazione di percorsi di collegamento tra i vani voltati del piano terra, nel pieno rispetto della loro conservazione materia. In alto, inserimento di nuove scale nella porzione dove sono presenti solai non originali.

160 LA CASA BRUCIATA


TAVOLA 4.IV

Il restauro architettonico - Percorsi e collegamenti nell’ala cinquecentesca

161 LA CASA BRUCIATA


Analisi storico critica È lo studio che permette di intendere le caratteristiche evolutive del Bene Culturale nel tempo e le sue stratificazioni al fine di definirne il valore. Questa indagine si basa sullo studio delle fonti bibliografiche passate e recenti, quello delle fonti manoscritte ed a stampa (resoconti, relazioni, cronache, estimi), delle fonti iconografiche (disegni, prospettive e panorami tanto facenti parte di opere grafiche o pittoriche). Le informazioni ottenute dalla ricerca storica sono state vanno verificate direttamente in sito attraverso i rilievi stratigrafici (ove possibile) e a mezzo di approfondita analisi fotografica. Rilievo del manufatto Al fine di definire le caratteristiche e la collocazione nel contesto urbano o ambientale dei manufatti è necessario ne vengano definiti i parametri dimensionali in modo da poter fornire il necessario supporto tanto alle successive analisi specialistiche quanto alla progettazione del restauro stesso. Analisi dei materiali e delle tecnologie impiegate Riguardano tanto l’impianto architettonico nel suo complesso da esaminarsi in pianta, sezione e prospetti, elementi funzionali e decorativi. Queste indagini, mirate alla conoscenza dei materiali e delle tecnologie, in alcuni punti sono state integrate con indagini endoscopie ed elettromagnetiche volte a definire la stratigrafia delle strutture in muratura. Analisi del degrado, dei dissesti e del comportamento strutturale È stato effettuato un rilievo critico delle strutture portanti verticali e orizzontali. Tale indagine è stata integrata con l’analisi dei dissesti (delle lesioni e deformazioni) e dei degradi. Per quanto riguarda i dissesti, premesso che essi sono legati a molteplici cause che vanno dalla consistenza dei suoli fino alla forma dei manufatti stessi.

L’impossibilità di effettuare i test di analisi previsti dalle norme sismiche non ha consentito di effettuare la valutazione delle caratteristiche statiche e dinamiche attraverso modelli tridimensionali di comportamento. Scomponendo l’edificio in porzioni elementari –macoelementi - sono state valutate le principali vulnerabilità sismiche dell’edificio e i possibili cinematismi da esse derivanti (per un approfondimento tecnico si rimanda alla consultazione del già citato testo “Il restauro consapevole”). Buone prassi adottate per la conservazione materica del bene Il progetto di restauro non conosce ricette, pur se va valutato caso per caso, è possibile comunque adottare delle linee di buona prassi, ormai condivise dalla gran parte degli operatori del settore, che di seguito vengono elencate. - Conservare per esteso il materiale originale evitando, per quanto possibile, demolizioni e ricostruzioni anche con lo stesso materiale; - conservare le aggiunte storicizzate, la loro rimozione va considerata un’eccezione e può essere proposta solo se queste sono lesive dell’estetica dell’opera o dannose dal punto di vista statico; - evitare il ripristino della forma originaria quando la lacuna è molto estesa (il completamento di una lacuna, con elementi sagomati secondo la forma originale, è un procedimento che entra nella prassi delle riparazioni, ma la sostituzione per esteso di elementi originali degradati, con elementi nuovi che riproducono la forma originale, è una prassi che va oltre il restauro); - preservare, nella maggior misura possibile, il sistema costruttivo e il comportamento statico originale; - evitare di aprire tracce nelle murature per inserire tubature e cablaggi; - evitare, per quanto possibile, di praticare nelle murature portanti nuove aperture (tale prassi può causare squilibri nella distribuzione delle tensioni nelle murature e variare le rigidezze della struttura).

9

8

10 162 LA CASA BRUCIATA


TAVOLA 4.V

Il restauro architettonico - Nuovi percorsi e collegamenti verticali

Esempi per l’introduzione di nuovi collegamenti verticali e l’eliminazione delle barriere architettoniche. A fianco, dettagli e verifica dell’impatto visivo di un volume aggiunto. 163 LA CASA BRUCIATA


Note 1 Citazione riportata da D. Ripanti nella prima parte del presente volume, per ulteriori approfondimenti si consultino anche: Ripanti D., Case Bruciate e il Mandracchio, alcune testimonianze in cinquecento anni, a cura dell’Archeoclub d’Italia e della Biblioteca comunale di Montemarciano, Montemarciano 1581; Archeoclub d’Italia-sede di Montemarciano, Dossier Mandracchio Ottantasei); Ripanti D., “Un antico “capolinea” della Vallesina: la posta-osteria di Case Bruciate”, in AAVV Esino mare-Materiali ed immagini per la conoscenza di un territorio, a cura dell’ Associazione Coordinamento Progetto bassa Vallesina per l’Associazione Intercomunale n.9 Marche, Castelferretti (Ancona) 1990, vol. I; Ripanti D., “ Il “Mandracchio” di Marina di Montemarciano (Osteria fortificata di Case Brugiate)/Montemarciano”, in Mauro, Castelli, rocche…cit., vol. II / II edizione, Piediripa di Macerata 1998.

2 Questo paragrafo è stato redatto rielaborando alcune parti della documentazione reperibile presso http://terrapontina.it - www. beniculturali.altaviadeimontiliguri.it

3 Cherubini A., Arte medievale nella Vallesina, Ancona 1977, per approfondimenti sull’architettura militare si vedano anche i

dettagliati testi curati da Mauro M., “Castelli, rocche, torri, cinte fortificate delle Marche”, a cura Istituto Italiano dei Castelli, Ancona, edito in 4 volumi.

4 Per approfondimenti consultare anche http://www.archiviostoricocrotone.it/chiese_castelli/uomini_mesoraca.html 5 Si vedano anche http://reddevive.ch - http://tretre.it 6 Un esteso studio sulle “poste cavalli” viene riportato nel sito http://viaggionelweb.issp.po.itm dal quale sono state attinte alcune informazioni utilizzate nel paragrafo, riguardo alla “Caserma Pontificia” si rimanda alla consultazione della scheda di catalogazione reperibile nel sito www.beniculturali.marche.it

7 Munafò P., Mugianesi E., “Il restauro consapevole. Storia, architettura e riuso di un edificio del quattrocento. Il Mandracchio di Case Bruciate”, Alinea Editrice, Roma (seconda edizione in corso di stampa).

8 Si vedano anche i seguenti testi: Carbonara G., Analisi degli edifici antichi in Trattato di Restauro Architettonico, Vol.II, Utet, 1996; AA.VV, Restauro Architettonico, (a cura di Luigi Marino), Alinea, 1996 Tomasoni E. “Le volte in muratura negli edifici storici: tecniche costruttive e comportamento strutturale”, Università degli studi di Trento, 2008.

Alcune informazioni riportate nel testo sono prese dalla trattatistica storica citata nelle didascalie delle immagini riportate.

9 Per approfondimenti in merito interessanti sono gli scritti di Giovanni Carbonara nel “Trattato di restauro architettonico” edito nel 1996.

10 “Il restauro consapevole” op. cit. 11 Si veda il sito http://www.triestecontemporanea.it/pag5.htm - http://www.triestecontemporanea.it/pag5.htm dove sono dibattute le questioni introdotte dalla Carta di Cracovia per la difesa del patrimonio culturale.

12 Si veda anche Doglioni F., Mazzotti P., “Codice di Pratica-per gli interventi di miglioramento sismico nel restauro del patrimonio architettonici”, testo di riferimento adottato nei laboratori didattici dei corsi citati per gli interventi di miglioramento sismico.

13 I contenuti seguenti sono condivisi dalla gran parte dei codici di pratica per la conservazione del patrimonio storico architettonico che in questi anni le pubbliche amministrazioni stanno redigendo.

14 I l percorso operativo citato è stato sviluppato in conformità alle linee guida proposte dal Ministero dei Beni Culturali per la valutazione e la riduzione del rischio sismico del patrimonio culturale italiano.

164 LA CASA BRUCIATA


Bibliografia AAVV, “Architettura fortificata nelle Marche”, a cura Regione Marche, Centro regionale per i Beni Culturali, Cinisello Balsamo (Milano) 1985; AA.VV., “Carta di Cracovia” http://www.triestecontemporanea.it/pag5.htm - http://www.triestecontemporanea.it/pag5.htm AA.VV., “Materiali ed immagini per la conoscenza di un territorio”, Associazione Intercomunale n.9 Marche, 1990. Angelillo M., Babilio E., Fortunato A. “Singular stress fields and the equilibrium of masonry walls and arches”, Department of Civil Engineering (DICIV), University of Salerno, Italy, 2012. Brencich A. “Tecniche diagnostiche e loro analisi critica”, Costruzioni di infrastrutture per i trasporti, DISEG – Dipartimento di Ingegneria Strutturale e Geotecnica, Università degli studi di Genova, 2005. Carbonara G., “Analisi degli edifici antichi in Trattato di Restauro Architettonico”, Vol.II, Utet, 1996; AA.VV, Restauro Architettonico, (a cura di Luigi Marino), Alinea, 1996 Cetrangolo E., “Breve storia della letteratura latina”, Edizioni Studio Tesi – Pordenone (1991); Editori Riuniti (1983) Cherubini A., “Arte medievale nella Vallesina”, Ancona 1977; De Nicolo B., Meloni D. “Modellazione FEM di archi e volte in muratura”, 2005. Doglioni F., Mazzotti P., “Codice di Pratica-per gli interventi di miglioramento sismico nel restauro del patrimonio architettonici”. Jurina L., Mazzoleni M. “Analisi parametrica del coefficiente di sicurezza a collasso di archi in muratura”, Politecnico di Milano, giornata di aggiornamento – CIAS Sassari, 2005. Lourenço P. “Computational strategies for masonry structures”, Faculdade de Engenharia da Universidade do Porto, Portugal, 1996. Marino L., “Il rilievo per il Restauro”, Hoepli, 1990; Mauro M., “Castelli, rocche, torri, cinte fortificate delle Marche”, a cura dell’Istituto Italiano dei Castelli, Ancona 1992, vol. I; Mauro M., “Castelli, rocche, torri, cinte fortificate delle Marche”, a cura dell’Istituto Italiano dei Castelli, Ancona 1988, vol. II; Munafò P., Grilli M. “Il rispetto del costruito salvaguardando i cinematismi originari di rottura (Codice Genetico di Rottura)”, Istituto di Architettura e Produzione Edilizia, Facoltà di Ingegneria, Università Politecnica delle Marche, Ancona, 2004. Munafò P., Mugianesi E., “Il restauro consapevole. Storia, architettura e riuso di un edificio del quattrocento. Il Mandracchio di Case Bruciate”, Alinea Editrice, Roma (seconda edizione in corso di stampa). Sala E. “Duttilità e confinamento delle murature storiche e caratterizzazione meccanica delle malte pozzolaniche riportate nella trattatistica d’architettura (I sec. A.C. – 1864)”, Università degli studi di Trento, Gennaio 2008. Ripanti D., “Case Bruciate e il Mandracchio, alcune testimonianze in cinquecento anni, a cura dell’Archeoclub d’Italia e della Biblioteca comunale di Montemarciano, Montemarciano 1581; Archeoclub d’Italia-sede di Montemarciano, Dossier Mandracchio Ottantasei); Ripanti D., “Un antico ‘capolinea’ della Vallesina: la posta-osteria di Case Bruciate”, in AAVV Esino mare-Materiali ed immagini per la conoscenza di un territorio, a cura dell’ Associazione Coordinamento Progetto bassa Vallesina per l’ Associazione Intercomunale n.9 Marche, Castelferretti (Ancona) 1990, vol. I; Ripanti D., “Il ‘Mandracchio’ di Marina di Montemarciano (Osteria fortificata di Case Brugiate)/Montemarciano”, in Mauro, Castelli, rocche…cit., vol. II / II edizione, Piediripa di Macerata 1998; Tomasoni E. “Le volte in muratura negli edifici storici: tecniche costruttive e comportamento strutturale”, Università degli studi di Trento, 2008. Torselli V, “La modernità, tramite tra passato e futuro in Storia e Critica”, 2004 - http://www.antithesi.info/testi/testo_2.asp?ID=325

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Fonti delle illustrazioni Copertina p.81 Enrico Mugianesi Copertina p.82 Elaborazione grafica Gruppo Manservigi Monsano Capitolo 1 da 1 a 6 Anselmi S., Pirati e corsari nell’Adriatico, Silvana Editore, Milano 1998. 7 http://terrapontina.it 8, 9 M. Mauro, Castelli, rocche, torri, cinte fortificate delle Marche, a cura Istituto Italiano dei Castelli, Ancona, vol. I e IV; 10, 11 http://www.archiviostoricocrotone.it/chiese_castelli/uomini_mesoraca.html 12, 13 http://reddevive.ch 15 http://tretre.it Da 16 a 25 http://viaggionelweb.issp.po.itm 26, 27, 28 www.beniculturali.marche.it Capitolo 2 Tutte le immagini del manufatto prima del restauro e le immagini da 1 a 10 sono state gentilmente fornite da Danilo Ripanti.

Ulteriore documentazione Tutti gli altri elaborati grafici, tavole e le immagini di progetto sono tratte dal materiale didattico redatto dagli studenti dei già citati corsi di Restauro Architettonico e Architettura tecnica II e rielaborate dagli autori. In particolare gli studenti dell’A.A 2009-2010 hanno redatto rilievi e progetti di restauro, nell’anno A.A. 2010-2011 si sono approfonditi dei progetti tematici di recupero e miglioramento sismico su alcune parti dell’edificio, nell’A.A. 2011-2012 sono stati studiati progetti di riuso e miglioramento sismico, nell’A.A. 2012-2013 sono state redatte tavole tematiche di sintesi sul lavoro effettuato nei precedenti anni. Il lavoro congiunto degli studenti rende pressoché impossibile definire, in questa pubblicazione, il contributo individuale dei singoli ragazzi. Riteniamo pertanto giusto riportare l’elenco completo dei nominativi degli studenti che hanno partecipato ai corsi, si rimanda alla visione del materiale didattico che sarà presentato alla mostra in occasione della presentazione di questo volume. Le tavole elaborate nell’Anno Accademico 2009/10 in parte afferiscono al Laboratorio di Restauro Architettonico sdopp. dell’Università Politecnica delle Marche tenuto dal prof. Stefano Santini. Tutte le immagini e gli elaborati grafici non citati sono degli autori. 166 LA CASA BRUCIATA


Elenco degli studenti Corso di Restauro Architettonico sdopp. A.A. 2009-2010 Progetti di restauro e miglioramento sismico Gruppo 1: Maccioni Vanessa, Pettinari Nicola, Salvucci Susanna, Simionetti Elisa Gruppo 2: Maggi Alessandra, Paoletti Lucia, Scortichini Gloria Gruppo 3: Pesaresi Chiara, Nunzi Maria Sole, Rodà Daniela Gruppo 4: Palmucci Federico, Ribilotta Elisa, Pieciballi Luigi Gruppo 5: Pesaresi Chiara, Pesaresi Serena, Morbidoni Federica, Miccini Eleonora Gruppo 6: Micucci Valentina, Ranieri Luana, Ortolani Cecilia Gruppo 7: Telloni Martina, Pergolini Marianna, Marconi Alessandro Gruppo 8: Pace Francesco, Ruggeri Luca, Rotondi Pierfrancesco, Palanca Davide Gruppo 9: Sordi Gianluca, Gagiottini Emilio, Mattioli Martina, Rossi Berluti Irene Corso di Architettura Tecnica 2 sdopp. A.A. 2010-2011 Progetti tematici di recupero e miglioramento sismico Gruppo 1: Teloni Chiara, Palmili Marco, Mariani Paolo, Urlietti Carolina Gruppo 2: Mota Rugel Carlos, Pelosi Matteo, Montecchiani Simone, Ruggeri Ludovico, Panzeri Gianluca Gruppo 3: Valentini Elisabetta, Nasini Arianna, Renzi Lorenzo, Menozzi Roberto Gruppo 4: Matteagi Giulia, Palmieri Sara, Piaccia Denise, Presciutti Silvia Gruppo 5: Paparelli Matteo, Pellegrini Michele, Maracci Diletta, Mosconi Stefania, Pepa Gino Gruppo 6: Raponi Claudia, Mascetti Silvia, Sampaolesi Elisa, Vecchiotti Serena Gruppo 7: Brunori Elisa, Hinna Giacomo, Vaccari Jacopo Gruppo 8: Moroni Cecilia, Manzotti Alessandro, Moroni Caterina, Pascucci Chiara Gruppo 9: Scortichini Silvia, Puppato Carolina, Tolve Lucia Cristina Gruppo 10: Testone Samuele, Capriotti Pierluigi, Scalabroni Stefano Gruppo 11: Raffaelli Elisa, Naspi Federica, Pierantozzi Sara, Silvestri Federica Corso di Architettura Tecnica 2 sdopp. A.A. 2011-2012 Progetti di riuso e miglioramento sismico Gruppo 1: Litargini Eleonora, Mazzuferi Alessandro, Pizzichini Giulia Gruppo 2: Pavoni Francesca, Pierpaoli Sara, Renzi Enrico Gruppo 3: Micozzi Elisa, Urbinati Clara, Zaccagnini Nunzia, Pascucci Alessandro Gruppo 4: Morchio Monica, Pambianco Lorenzo, Rombini Anna, Streppa Laura Gruppo 5: Biagiola Pierfrancesco, Pelliccia Aleksiey, Rosciani Marco, Tarsi Alessia Gruppo 6: Di Blasio Anna, Ficcadenti Marco, Maggi Jacopo, Merli Roberta, Paolini Sebastiano, Pecorari Giulia, Silla Martina Gruppo 7: Palmieri Giandomenico, Ruscitto Claudio, Sabatino Paolo, Sansano Paolo Gruppo 8: Magi Monica, Sbarbati Silvia, Sciorra Michea Corso di Architettura Tecnica 2 sdopp. A.A. 2012-2013 Redazione tavole tematiche di sintesi Gruppo 1: Montanari Damiano, Pallotta Andrea, Silvestroni Ambra, Troiani Michele Gruppo 2: Ottaviani Leonardo, Pilota Alessia, Tabocchini Andrea, Trentuno Lorenzo Maria Gruppo 3: Mustaka Dojna, Placentino Angelo, Scè Ida Martina, Shehj Orjena Gruppo 4: Biancucci Stefano, Iacopini Silvia, Mogetta Andrea, Speranzini Matteo Gruppo 5: Pierdicca Ilaria, Polzonetti Andrea, Rosettani Cecilia Gruppo 6: Mugianesi Chiara, Paoletti Silvia, Santilocchi Silvia Gruppo 7: Marchione Francesco, Pavone Alessia, Piangerelli Andrea, Pulsoni Gessica Gruppo 8: Menghini Francesco, Ortenzi Valentina, Santi Mirco, Serafini Luca Gruppo 9: Polsoni Francesca, Pomponio Caterina, Tontodonati Giulia Gruppo 10: Blasi Simone, Rizzo Serena, Rossi Francesco, Ruggeri Leonardo, Viozzi Dorotea Gruppo 11: Ciamarra Michela, Foglia Eleonara, Massacci Valentina, Ricci Claudia, Vitaletti Elisa Gruppo 12: Balestrini Davide, Mattioli Martina, Rotondi Pierfrancesco Tesi di laurea Studio del comportamento statico di una volta storica in muratura Silvi Danila, Travanti Alessia 167 LA CASA BRUCIATA


Da sinistra: Ing. Enrico Mugianesi, Danilo Ripanti, Il Sindaco Dott.ssa Liana Serrani, Prof. Placido Munafò, Dott. Sandro Gregorini coordinatore tecnico amministrativo.


Biografie

Enrico Mugianesi Ingegnere civile edile, tecnico presso il Dipartimento di Ingegneria Civile Edile e Architettura dell’Università Politecnica delle Marche, dove collabora alle attività di didattica e di ricerca nel campo del recupero e del restauro dell’edilizia storica e moderna. Ha tenuto numerosi seminari tecnici nei corsi di Restauro Architettonico, Recupero e Conservazione degli Edifici e Architettura Tecnica. Referente tecnico del Laboratorio di Edilizia del Dipartimento DICEA, svolge indagini in sito volte alla individuazione delle tecniche costruttive e dei materiali adottati, dello stato di conservazione e delle cause dei degradi e dei dissesti. Ha partecipato a diverse sperimentazioni sulle prestazioni e durabilità degli interventi di rinforzo strutturale in manufatti storici, a varie ricerche sulla salvaguardia degli edifici storici e dell’architettura moderna e maturato un discreta esperienza nell’ambito della progettazione di restauri e nuovi interventi di edilizia pubblica. Ha pubblicato numerosi lavori nel settore del recupero edilizio, del restauro architettonico e delle prestazioni acustiche ambientali. Tra le principali monografie sul patrimonio edilizio esistente: Architettura moderna nella Provincia di Macerata / Lo stabilimento termale “Santa Lucia” a Tolentino / La realizzazione del bugnato nell’edilizia storica / Il restauro consapevole. Storia, architettura e riuso di un edificio del Quattrocento. Ha svolto e svolge anche attività e ricerche nell’ambito della progettazione architettonica, dell’acustica in edilizia, dell’applicazione di materiali innovativi e della sicurezza negli ambienti di lavoro. Placido Munafò Ingegnere civile edile, professore ordinario di Architettura Tecnica svolge la sua attività didattica e di ricerca presso il Dipartimento di Ingegneria Civile Edile e Architettura dell’Università Politecnica delle Marche, dove tiene il corso di Architettura Tecnica II e ha tenuto cosi di Restauro Architettonico e Recupero e Conservazione degli Edifici. Per quanto attiene il patrimonio edilizio esistente svolge ricerche sui temi del recupero edilizio, delle tecniche costruttive storiche, della salvaguardia dell’architettura moderna. Ha svolto sperimentazioni sulla vulnerabilità sismica degli edifici storici, sugli intonaci tradizionali e sulla durabilità degli interventi di rinforzo strutturale, individuato modelli evolutivi per le capriate, solai lignei e bugnati. Si occupa della salvaguardia degli edifici dell’architettura moderna indagando, attraverso lo studio di edifici significativi, le tecniche costruttive, lo stato di conservazione, le prestazioni igrotermiche. Autore di svariate pubblicazioni nei settori del restauro architettonico, del recupero edilizio, dell’ottimizzazione delle prestazioni tecnologiche di elementi costruttivi e ambientali negli edifici. Tra le principali monografie nell’ambito dell’edilizia storica: Recupero dei solai in legno / Del coronamento dei palazzi rinascimentali / Le capriate lignee antiche per i tetti a bassa pendenza / La realizzazione del bugnato nell’edilizia storica / Il restauro consapevole. Storia, architettura e riuso di un edificio del Quattrocento. Nell’ambito dell’edilizia del primo novecento: Architettura moderna nella Provincia di Macerata / Lo stabilimento termale “Santa Lucia” a Tolentino / L’edificio ex G.I.L. di Macerata. Svolge anche ricerche sulle nuove tecnologie in edilizia, sull’applicazione di materiali innovativi, sulla verifica delle prestazioni di componenti edilizi, sulla qualità ambientale, ha brevettato un sistema di isolamento a cappotto e un serramento di solo vetro. Danilo Ripanti Si occupa di storia del territorio dagli anni ’80. Con l’Archeoclub d’Italia ha segnalato diversi siti d’interesse archeologico nel comune di Montemarciano e ha svolto opera di sensibilizzazione (dépliant, calendari tematici, articoli, conferenze, incontri con la scuola, etc.) per la conoscenza e tutela dei beni culturali e ambientali. Mostre fotografiche su Montemarciano nella cartolina d’epoca / Marine e Marinai per una storia della marineria locale / L’ingegnere e commendatore Giambattista Marotti / Il Cinquecento tra gentiluomini, banditi e contadini / Paesaggio marchigiano / Devozione, stregoneria e tradizione popolare / La 2° Guerra mondiale attraverso le fotografie e il ricordo dei Montemarcianesi / Chiese e confraternite a Montemarciano. Ha partecipato al censimento e rilievo delle “Grotte” di Montemarciano” e contribuisce da circa tre lustri a “Verde e oro l’altro rinascimento”, manifestazione culturale-folklorica a tema tra Rinascimento e Ottocento. Ha pubblicato svariati lavori su toponomastica, ambiente e storia, in particolare per l’area della bassa Vallesina. Tra gli altri: Un antico capolinea della Vallesina: la posta-osteria di Case Bruciate / Montemarciano: selva e pascolo tra XIV e XVII secolo nella legislazione statutaria e altri documenti coevi / Montemarciano e i Malatesti / Montemarciano territorio e comunità tra alto Medioevo e XIX secolo / L’Ottocento a Monte San Vito / Montemarciano oltre un secolo tra fotografia e storia.


Grafica Anteprima - Monsano Stampa Luciano Manservigi - Monsano finito di stampare nel mese di Marzo 2014



ISBN 978-88-909476-0-5


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