#self issue#02 ISBN 978-88-98285-17-4 Copertina: Francesco De Carli
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issue#02 È trascorso un anno dal primo numero di #self, rivista digitale la cui intenzione è quella di sondare l'universo delle scritture “non ufficiali”, degli autori che non sono ancora arrivati alla pubblicazione in maniera tradizionale. In realtà, il confine fra questi due universi (pubblicati/non pubblicati) diventa di continuo sempre più labile. Ora che tutti possono rivolgersi al self-publishing, il vero problema non è più quello di rendere disponibile il proprio libro, ma quello di essere letti. Mettere un romanzo su Amazon, e poter così dire a colleghi, amici e parenti “Io sono in vendita, io sono lì” può anche essere gratificante, ma quando dopo un anno si sono vendute sette copie (ad amici e parenti, appunto), è facile che subentri la frustrazione. Perché scrivere – scrivere per pubblicare e quindi per farsi leggere – è un’attività di comunicazione, un punto d’incontro fra due diverse componenti, un rapporto. Altrimenti diventa semplice onanismo. È vero, si dirà, che si scrive anche per sé, ma allora bisognerebbe tenere le proprie cose nel cassetto; se lo scopo è puramente personale, terapeutico, non bisognerebbe ricercare niente di più. Invece così non è. Perché con la scrittura, alla fine, si va sempre in cerca di qualcosa: del prestigio, del riconoscimento, di una sorta di imprimatur, un bollino di “scrittore” - la cui legittimità, a essere sinceri, non si capisce più quale sia (né, eventualmente, chi dovrebbe concederla). Perché sembra proprio che anche in un mondo dominato dal digitale, dai blog, da 4chan e da Buzzfeed – un mondo, in sostanza, che dà a tutti la possibilità di scrivere e di essere letti, in molti casi con riscontri notevolmente più sensibili di quelli relativi a un libro – l’urgenza di poter dire “Ho pubblicato” sia più viva che mai. Due parole sui criteri della selezione dei testi. Nel primo numero, a fronte di una quarantina di invii, erano stati scelti sette racconti. Nel secondo numero ne vengono presentati cinque. E gli invii sono stati circa sessanta.
Metà dei testi è stata scartata dopo una prima lettura perché era evidente che l’autore non aveva un’idea precisa di quello che stava facendo. E questo include il fatto di inviare poesie o fiabe quando vengono chiesti dei racconti. Dei testi che hanno passato la prima selezione, una ulteriore metà è stata scartata dopo una lettura più approfondita: qui erano presenti scritture di livello magari non proprio basso ma comunque non mature, spesso con pesanti echi scolastici o una fastidiosa letterarietà. I dieci/dodici testi rimasti erano scritti oggettivamente bene e mettevano in mostra spunti curiosi e buone, se non ottime, capacità di gestire la materia. Tuttavia, tra scrivere bene e scrivere cose interessanti – magari anche un po’ originali (fermo restando che, a questo punto, il gusto personale entra decisamente in gioco) – c’è una grossa differenza. Si è arrivati quindi a una selezione finale. E dal momento che all’inizio di questo progetto mi sono imposto di pubblicare solo cose di cui fossi pienamente convinto, ho scelto di includere nel secondo numero di #self solo quei racconti che mi sembravano pieni, finiti, convincenti, maturi. Sono cinque. Sono molto diversi tra loro. Ve li presento. Vittoria Baruffaldi - Le mamme del mare di giugno Leggere Le mamme del mare di giugno è stata una specie di illuminazione: di questo brano, rinvenuto casualmente sul blog di Vittoria Baruffaldi, me ne sono innamorato subito. Così, quando alcuni mesi dopo ho chiesto a Vittoria di poterlo inserire nel nuovo numero della rivista, e lei mi ha risposto no, ci sono rimasto male, quasi mi avessero portato via una cosa a cui ero affezionato. In realtà, Vittoria stava valutando i materiali per la realizzazione di un progetto editoriale. Poco dopo, però, me ne ha concesso l’utilizzo. E io, ovviamente, ne sono stato felicissimo. Le mamme del mare di giugno è un ritratto delizioso, con un incipit fenomenale, che riesce a restituire in poche parole tutto il sapore di un momento e di una situazione particolari.
Francesca Rimondi - Mamma, ma quindi tu sei una milf! In mezzo alle tante cose che passano su Facebook – gattini, selfie, battute, invettive e via dicendo – compaiono anche materiali che possono essere considerati “narrativi” o comunque molto affini. È il caso di Francesca Rimondi che racconta le sue storie quotidiane alle prese con un “fidanzato”, due figli (l’adolescente Numero Uno e il piccolo Numero Due), due genitori propri e una serie di altri genitori, ansiosi e asfissianti, di compagni di scuola. Adoro la scrittura di Francesca e per questo le ho chiesto di lasciarmi fare un esperimento, cioè di prendere alcuni brani e metterli in sequenza cercando di creare una piccola storia. Per scelta, ho deciso di non intervenire in alcun modo sul testo, che rimane così com’è, con la sua punteggiatura frettolosa e le sue minuscole – solo apparentemente casuali – con la sua urgenza e le piccole illuminazioni disseminate con nonchalance. Francesca dirà che il brano non la convince, ma anche questo fa parte del suo understatement. Se volete leggere le cose che scrive, chiedetele l’amicizia su Facebook. Non so se ve la concederà, ma vale sempre la pena di tentare.
Maria Cristina Comparato - Gujermo, 'r divo Di Maria Cristina Comparato non so nulla di più di quello che dicono che le scarne note biografiche. Mi ha mandato questo racconto scritto in romanesco circa un anno fa, a ridosso della pubblicazione del primo numero. Mi è piaciuto, ma non era il momento giusto, così l’ho messo da parte. Quando ho iniziato a selezionare il nuovo materiale, l’ho riletto e ho trovato che avesse delle qualità. Apprezzo chi cerca di fare cose diverse, che escono un po’ dai canoni dei tradizionali raccontini scolastici, magari puliti ma senz’anima, e anche se il dialetto non è esattamente una novità assoluta, non è poi così semplice riprodurlo sulla pagina con il giusto ritmo. Apprezzabile è anche l’ambientazione, una suburbanità che ricorda un po’ i Racconti romani di Moravia, aggiornata ovviamente al tempo degli smartphone.
Daniele Gabrieli - Legno Daniele Gabrieli l’ho scoperto nel mondo del self-publishing con il romanzo Le avventure del Nibbio Nebbioso e della Gatta di Ghisa, che è stato pubblicato su Amazon e ha sollevato un certo interesse. In realtà, qualche anno fa, avevamo anche condiviso per qualche mese una fallimentare avventura professionale. Quando l’ho rincontrato, e ho avuto modo di vedere quello che faceva, ho subito capito che era uno che sapeva scrivere. Non tutto quello che fa è affine ai miei gusti, ma non è importante. Purtroppo Daniele scrive solo racconti di una certa lunghezza e quello che mi ha mandato superava di gran lunga il limite stabilito. Siccome però avevo la convinzione che in questo numero dovesse essere presente anche lui, ho deciso di prendere l’inizio di uno di questi racconti, Legno, e di provare a farlo stare in piedi da solo. Non fatevi ingannare dal tono comico del brano, Daniele sa fare molto bene, ed è in grado di spingere la sua vena surreale molto in là. Io non sempre lo capisco, ma so che dipende da me.
Milo Busanelli - Quando la vasca era piena Il racconto di Milo Busanelli, arrivato tra gli invii “spontanei”, mi ha subito conquistato. La scrittura, fin dalle prime righe, si è rivelata ipnotica e mi ha trascinato dentro al gorgo di questo strano racconto, sospeso a cavallo del tempo in una quotidianità dai toni lievemente inquietanti. Si sente che qualcosa è fuori posto, ma non si capisce bene cosa. Il tutto calato in una provincia un po’ lynchiana, alla Twin Peaks. La scrittura di Milo scorre veloce e precisa, come in un piccolo miracolo spontaneo che è invece frutto – e lo si capisce – di un lavoro di cesello. C’è grazia. C’è equilibrio. C’è ordine. Niente è fuori posto. Niente è casuale. So che Milo sta scrivendo altri racconti e io, in tutta sincerità, non vedo l’ora di leggerli.
INDICE
Vittoria Baruffaldi - Le mamme del mare di giugno Francesca Rimondi - Mamma ma quindi tu sei una milf! Maria Cristina Comparato - Gujermo,'r divo Daniele Gabrieli - Legno Milo Busanelli - Quando la vasca era piena
Biografie
Vittoria Baruffaldi Le mamme del mare di giugno
Le mamme del mare di giugno arrivano ai primi del mese con le berline color prugna dei mariti. Stringono il volante con entrambe le mani e sfrecciano oltre i limiti di velocità, per allontanare la città, l'ufficio, il pallore dei loro volti. Arrivano tutte insieme e una volta scaricate le auto, e i figli, si affacciano, coraggiose, al loro destino. Il mare di giugno è liscio come l'olio, con una miriade di meduse che galleggiano in superficie, simili a piccole orecchie trasparenti. Il cielo è grigio: grigio topo, grigio piombo, grigio polvere. Le mamme del mare di giugno affittano due sdraio, un ombrellone e una cabina. Si siedono sulla battigia e parlano tra loro, senza perdere di vista i bambini e i deboli raggi del sole. Parlano di quando non avevano tutta quella pelle che pendeva dalla pancia, e di quando il sole macchiava la loro pelle di lentiggini. Hanno memoria di ogni anno che passa, di ogni ruga e di ogni chilo in più delle altre mamme del mare di giugno. Hanno una pila di libri accanto a sé, e Viver sani e belli tra le mani. Chiudono la rivista e prendono il telefonino: le mamme del mare di giugno non occhieggiano più il bagnino, ma l'iPhone. A volte si spingono fino al mare: non si tuffano, e stanno per ore, come piantate nel fondale, con l'acqua a mezza coscia. Le mamme del mare di giugno dicono sì, sì al gelato al fior di latte, sì alla pistola ad acqua, sì al tuffo carpiato dalla boa in mezzo al mare, e poi compensano con altrettanti no, no al secchiello di Hello Kitty, no alla pesca di ricci, no alla gita in pattino. Pronunciano quei sì e quei no come gli oracoli della Pizia, in uno schema alogico sempre uguale: dopo tre sì, almeno tre no, e così via. Le mamme del mare di giugno vanno alla ricerca dell'esotico, la sera, fasciandosi con leggins di palme, liane e tucani. Spingono passeggini o
stringono piccole mani, e vagano per il lungomare tra spettacoli di burattini e venditori di mandorle caramellate. Con l'imbrunire la nostalgia del passato, o del futuro, si fa più forte, e allora si siedono ai tavolini di plastica di un bar e immaginano di essere in un chiringuito a Formentera, proprio là dove persero l'innocenza avviticchiandosi a sconosciuti coi foulard colorati attorno al collo e un lieve odore di divanetto da discoteca. Quando non escono, mettono a dormire presto i bambini, per ritagliarsi uno spazio tutto per sé, sul balconcino incastonato tra i palazzoni degli anni sessanta. Si perdono a guardare la luna abnorme comparsa in cielo: trasognate, si domandano perché non ci sia campo. Un anno, il 2011 - lo ricordano ancora il bagnino, una mamma del mare di giugno e il macellaio - una delle mamme non si presentò all'appello. Secondo il bagnino, un evento traumatico l'aveva trasformata in una mamma della montagna di giugno. Secondo una mamma del mare di giugno, quella col trikini e l'abbronzatura a spicchi, era colpa del marito che si era ingelosito – a torto – perché lei si arrampicava spesso sul trespolo del bagnino per verificare se lassù il cellulare prendesse. Secondo il macellaio, quello che fa gli hamburger a forma di topolino apposta per le mamme del mare di giugno, era colpa dello iodio, che l'aveva portata alla follia. Di lei rimase solo un autoscatto nella cabina 43, con i laccetti del bikini legati sulla schiena e gli occhi come brodo bollente, che il proprietario dei bagni Serenella attaccò con una puntina da disegno nella bacheca, tra i prezzi degli ombrelloni e gli avvisi ai bagnanti.
Francesca Rimondi Mamma ma quindi tu sei una milf!
“Cara Francesca, sono la mamma di G. Ti scrivo perché volevo sapere se hai notizie sulla Festa Di Tutte Le Terze Medie Della Scuola di sabato. Voglio dire, ci saranno i genitori? C’è qualche adulto a sorvegliare sti ragazzi? Sono ragazzi, e si sa che in quanto tali, beh. Comunque, perché ci hanno chiesto questi quattro euro di contributo? Tu cosa fai? Indagheresti sull’entità di questo contributo? Lo mandi tuo figlio pur non sapendo nulla dell’organizzazione? Sarà una festa tranquilla? Mi posso fidare? Al limite possiamo andarci anche noi genitori? Se ci andiamo anche noi genitori dobbiamo pagare i quattro euro anche noi? Grazie e ciao p.s.: ti prego indaga!!!” “Cara mamma di G. ho già indagato: i quattro euro servono per procurarsi la metilammina. Così poi durante la festa sintetizzano cristalli come dei matti. Abbracci F.” * “Cara Francesca, sono la mamma di L. e ti scrivo in merito alla gita dei nostri ragazzi. IO DUE GIORNI SENZA CELLULARE A MIO FIGLIO NON CE LO LASCIO. Mio figlio è molto più maturo di quelli della sua età e sono sicura che lo userà con discrezione. Non capisco perché voialtri con i docenti abbiate stabilito una cosa così punitiva, una gita senza cellulare, ma andiamo, su, state scherzando. Per questo ho deciso di NON attenermi alla direttiva e L. avrà il suo bel telefonino. E guarda, lui è talmente maturo che non chiamerà per bisogno o urgenza, ma solo perché avrà tanta tanta voglia di parlare con la sua mamma. Grazie”
“Cara mamma di L. tra due anni tuo figlio sarà un maturo punkabbestia. Con cellulare per il cane. È tutto ciò che ti auguro. Un caro saluto F.” * Alla fine, dopo tutto lo stress e lo psicodramma post-orale e la prof. di arte (“puttana”, ricordiamola sempre così nei nostri cuori) e le ipotesi di medie matematiche e i decimali sottratti in via del tutto ipotetica dalla prova scritta di tedesco (che lo sappiamo tutti, Numero Uno con le lingue non se la cava affatto bene), alla fine, dicevamo, il ragazzo ha salutato i peggiori anni della sua vita con un voto della madonna, insomma all’esame di terza media ho, ehm volevo dire HA preso nove. (Per i suoi fan più stretti e gli amanti delle statistiche: su 26, tutti promossi, c’è un solo dieci - ma con lode-, cinque nove - tra cui quello di Numero Uno - e il resto chissene. Lui è l’unico su tutta la classe che ha migliorato il voto di ammissione. Sono ingrassata dieci chili, sì.) * E arriviamo così all’iscrizione al liceo. “Tesoro, qua c’è scritto che puoi indicare tre compagni o amici con cui vorresti andare in classe l’anno prossimo.” “Non ci sono gli spreferiti?” “I che?” “Gli spreferiti. Quelli con cui NON VOGLIO andare in classe l’anno prossimo.”
“Tesoro. La scuola sarebbe una comunità. Ti insegnano prima di tutto i fondamenti della socializzazione, dell’amicizia, del...” “Io non voglio andare in classe con NESSUNO che conosco. Nessuno. Tabula. Rasa. Comprendi?” “Gli spreferiti, dunque. Cosa faccio, segno gli spreferiti?” “Non capisco. Sti megadirigenti della scuola che fanno i moduli. Dovrebbero pensare che per ogni amica squinzia piccipocci che vuol fare tutto insieme all’amica squinzia piccipocci, dalla comunione alla pisciatina in bagno, dal nido alla damigella della sposa, c’è un ragazzo sgrunf, uno di noi, che non vuole fare una minchia con gli altri, che sta bene solo e soprattutto lasciatemi in pace, lasciami in pace anche tu mamma, non torneranno mai più le merendine di una volta.” “...” “Nei moduli che TU compili tutto il giorno, sta gente dovrebbe pensarci, di metterci gli spreferiti, diosanto. La mia vita si basa sulle spreferenze. Comunque non voglio andare al liceo con nessuno.” * Il problema di quando si fanno queste cene in famiglia, con mio padre e mia madre intendo, a casa mia che festeggiamo e tutto, quando sulla tavola ci sono comunque più di due bottiglie di vino buono è che mio padre fa il finto modesto finto cieco finto chemio ma in realtà sta da dio, si versa il nebbiolo e attacca con discorsi sulla nostalgia, sulla fatalità, sulla vita e la morte, sul chi siamo noi, e poi chiede a tutti gli astanti, a turno per non offender nessuno, chiede “Ma tu, sei felice tu?” e aspetta pure che qualcuno degli astanti cui è stata ragionevolmente e consapevolmente posta la domanda risponda con criterio, mentre gli astanti ragionevolmente e consapevolmente lo manderebbero a fanculo, invece nessuno degli astanti lo manda ragionevolmente e
consapevolmente a fanculo anzi, tutti sembrerebbero quasi uhm felici che gli sia stata posta la domanda sulla propria uhm felicità e quindi gli rispondiamo tutti a turno, uno per uno, se siam felici oppure no - mia madre, che tra un aneddoto e l’altro di quanto ha pagato il pesce dal pescarolo di piazza aldrovandi e quante uova ha tirato per le tagliatelle, parte con comizi sul Sessantotto e su Come Uscire Dal Sessantotto e su Come Lei È Uscita Dal Sessantotto e su Come Si Senta Una Donna Fighissima In Tuta e via così, i Ruoli Della Donna Nel Mondo Del Lavoro Oggi e il valore della Carità e della Solidarietà e quanto dobbiamo oggi essere tutti Comunisti e il Comunismo è una parola buona quasi cristologica, per concludere sul pezzo forte: “Quanto Sono Intelligenti I Miei Nipoti, Ma Proprio Superiori Alla Media Dei Nipoti Nazionali” - Numero Uno, che va e torna, fa la spola dal divano al tavolo della cena, dall’iPod al comizio della nonna, da whatsapp alle domande del nonno, non sa, sta di là ma poi è attratto da qua, quindi vaga, una povera anima senza cameretta propria, poi pone domande lui stesso che i nonni a quel punto tacciono e non sanno che diamine rispondergli, poi ascolta, poi si rompe il cazzo di ascoltare e quindi lo vedi, vedi l’occhio vitreo del Non Ti Sto Ascoltando Più, lo vedi che finge ma sta facendosi bellamente i cazzi suoi, poi torna col cervello, si ricollega, coglie qualche frase, qualche roba detta al volo, poi guarda i cadaveri delle bottiglie sul tavolo, scuote la testa, bacchettone annuncia: Vado a letto, che domani mi devi svegliare, mà, e va di là a lavarsi i denti - Numero Due che anche lui vaga per tutta la casa, cavalca una macchinina giocattolo che secondo lui è una mongolfiera rosa oppure una farfallina-mostro che lo fa volare oh-ooohhh cantare oh-oh-ohhhh, poi va dal nonno a tirargli le recchie per la decima volta, il nonno non lo vede e gli inciampa sopra mentre tenta di andare in terrazzo a fumarsi una paglia, allora Numero Due si incazza, pretende il tiramento di recchie, il nonno si china, si fa tirare le recchie, Numero Due è felice, chiede Perché l’acqua lava? e mia madre dice: Oddio, è trooooppo
intelligente, guardatelo, poi Numero Due vola via sulla sua macchinina, o mongolfiera rosa o farfallina-mostro, cantando l’amico è, perché all’asilo lo rintronano con l’amico è la cosa che più ce n’è meglio è - il mio uomo che in tutto questo è allibito, nonostante gli anni di frequentazione - io, che li amo tutti ma sono stanca, tanto stanca ma tanto proprio * Torna da basket, sparge calzetti, abbraccia un fratello. Mangia due (2) etti di tortellini, spazzola mezzo (1/2) chilo di insalata, chiede il bis di tortellini, acchiappa con le mani otto (8) pomodorini ciliegini, finisce l’avanzo di prosciutto, Mà mi passi un (1) pezzo di pane?, chiede il bis di insalata, beve dieci (10) bicchieri d’acqua, apre il congelatore e tira fuori due (2) mottarelli. “Non credevo di essere così schiappa” dice poi, pulendosi la bocca con la manica della maglietta. “I capitani che dovevan scegliere le squadre mi han lasciato lì un sacco. Quintultimo, mi han scelto. Quintultimo” dice. Quintultimo su diciannove. * Incontro la mamma di Gianqualcosa in piscina. Gianqualcosa era un compagno delle medie di Numero Uno, ma attenzione: non un compagno qualsiasi. Gianqualcosa: ottantachili di ciccia rosa per un metro e quaranta, devoto al dio della playstation, invitava ogni tanto i compagni a ehm studiare e poi finiva irrimediabilmente in un partitone a GTA che durava tutto il pomeriggio, Numero Uno mi tornava a casa con l’occhio a palla, i compiti non fatti, ettolitri di aggressività sublimata, mangiava le gambe del tavolo, dopo la pasta e fagioli (MAI mangiata la pasta e fagioli, se non dopo micidiali sedute di
GTA, diciamolo) e poi andava a letto, borbottando dei fottetevi a caso. Questi erano i suoi pomeriggi a casa di Gianqualcosa. Gianqualcosa a sorpresa è uscito dalle medie con un sei rosicato all’esame. La mamma di Gianqualcosa, sempre molto attiva negli anni delle medie, dopo l’esame nessuno l’ha più sentita. Io la incontro oggi in piscina. Che culo, eh. “Ehilà, mamma di Gianqualcosa” le dico. “Ciao. Gianqualcosa ha preso trentotto virgola cinque su quaranta alla prova di ingresso di italiano al liceo scientifico di scienze applicate che ora sta frequentando con immenso piacere, perché sai, le medie gli stavano, come dire, strette, e ora è bravissimo” ci tiene a sciorinarmi appena mi vede, “anche in matematica, vedessi le verifiche che ha fatto, altroché gli anni passati”. Io sto scolando l’acqua putrida della vaschetta lavapiedi della piscina dalle mie ciavatte. “Diciamocelo: Gianqualcosa non ne poteva più delle medie” mi dice sottovoce, la mano sulla bocca a rivelarmi il quarto segreto di fatima. L’inserviente ucraina della piscina mi guarda male perché scolo acqua da tutte le ciavatte. Ma Numero Due è biondo e bello e quando usciamo la saluta sempre, l’inserviente ucraina, quindi alla fine l’inserviente ucraina passa lo spazzolone sulla mia acqua scolata, senza dire beo, perché Numero Due le piace ed è l’unico bambino della piscina che la saluta. “E Numero Uno?” mi chiede distratta la mamma di Gianqualcosa. “Dove si è iscritto poi, alla fine?” chiede. “Sai, Gianqualcosa non è in classe con nessun vecchio compagno” mi dice poi, “non ne poteva più delle medie, dei compagni, di quell’aria lì, come si dice vero” non aspetta risposte, le mie risposte, non mi fa aprir bocca, solo le ciavatte in mano, le mie ciavatte, che colano acqua, mio figlio si è iscritto al minghettti, ma mi rimane lì, tra una ciavatta e un singulto. Ora, io ho le ciavatte verdi in mano, colano acqua, mi vergogno, la mamma di Gianqualcosa mi sta evidentemente rovesciando addosso tutta la sua Insicurezza
Di Madre Che In Quanto Madre Ha Sicuramente Sbagliato Qualcosa Nella Vita, e a me mi viene una tristezza che voi non potete capire, di quelle che neanche il mio uomo che ora sta guardando la fine di top gun su raiquattro, quando tom cruise fa su la scatola delle robe dell’amico morto e la porta a meg ryan e fa delle facce che non si possono guardare da quanto è cane, ecco, io lo sguardo da Madre Che Ha Sicuramente Sbagliato Qualcosa Nella Vita Ma Non Sa Cosa non ce la faccio a reggerla, ciavatte o no e vi giuro che top gun è meglio, ve lo giuro, sì. * Alle 14.10 varca la soglia di casa, in t-shirt. Lancia scarpe zaino e inutili felpe, lancia un po’ ovunque. È in ritardo. “Sei in ritardo” gli dico. “Aggiorna whatsapp, cristo. Così vedo se leggi” mi dice. Telefono telefono telefono (Brad Pitt, Seven) dove cazzo sei telefono, teleeefonooo. Poi quando lo trovo, il telefono in effetti mi dice che è in ritardo. “Non sarai tornato da scuola così” gli dico. Non risponde. In tre bocconi ha già sterminato gli gnocchi alla romana preparati da Sampuqueldo. “Non hai ehm freddo” gli dico. Sampuqueldo mi guarda con lo Sguardo Transfert. Lo Sguardo Transfert è quando Sampuqueldo mi guarda con quegli occhi che mi stanno dicendo: Stai dicendo le cose pallose che le nostre madri dicevano a noi, accorgitene, per favore. “Accorgitene” mi dice Sampuqueldo. Non sono sicura che il significato di “transfert” sia proprio questo. “Non sono sicura che il transfert sia...”
“Buoni gli gnocchi, Sampu” dice a Sampuqueldo. Si alza, si sistema otto quadratini di ritter sport nel palmo della mano e via, tutti in bocca. “C’era l’insalata, tra il primo e il dolce” dico. Secondo Sguardo Transfert. “Huo mfpresho sfhetteemesso n shgreco” mi dice, la bocca piena di ritter sport. “…” “Gnel comspitho n classhe” continua. Altri otto quadratini. “Il pfomerizzio pfrima nng shtudiatho n casso” dice. “…” “Huo la medhia del sfhette virgholha schettanthanofhe” dice. Apre un’altra confezione. “Ghli althri huan mfpresho thutthi qutthro, qutthroemesso” dice. “…” “Pensha sche schtudiavho” dice. * Cena. “Dov’è Sampuqueldo?” chiede Numero Uno. “Al corso riparazione bici” dico io. “Io sono Zon Lennon” dice Numero Due. “Togliti quegli occhialini” dico io. “Quella roba non la mangio” dice Numero Uno. “Quella roba anche io non la manzo” dice Numero Due. “Quella roba sarebbero melanzane grigliate. Buonissime” dico io. “Io sono Supem” dice Numero Due. “Si dice Superman” dice Numero Uno. “Tu adesso sei un bimbo bravobravo che mangia tuttotutto” dico io.
“Non parlare da idiota. Non è scemo” dice Numero Uno. “Non voglio manziare” dice Numero Due. “Non parlo come un’idiota” dico io. “Buonobuono, tuttotutto. Ti sembra normale?” dice Numero Uno. “Buonobuonotuttotutto” ripete Numero Due. “Non ho detto buonobuono tuttotutto” dico io. “I bambini sono scemi. Mio fratello non è scemo” dice Numero Uno. “Io adesso sono Zon Lennon di nuovo” dice Numero Due. “Tu adesso ti togli quegli occhialini” dico io. “Io lo odio Walter Junior” dice Numero Uno. “Mamma ma chi è Zon Lennon?” dice Numero Due. “Io non parlo da idiota” dico io. “Gnuagnuagnua, è sempre così lamentoso” dice Numero Uno. “È, tipo, spastico” dico io. “Ha una paralisi cerebrale” dice Numero Uno. “Io adesso faccio un bellissimo suono di leone” dice Numero Due. “Spastico, eh, cos’ho detto” dico io. “Comunque io condivido tutto ma proprio tutto quello che fa Walter White” dice Numero Uno. “Mi compri la puzzilità, mamma” dice Numero Due. “Si dice pubblicità” dice Numero Uno. “L’hai guardato con lui in camera?” dico io. “Anche il mugello. Gliel’avrei dato anch’io il mugello al bambino di Jesse” dice Numero Uno. “Si dice mughetto” dico io. “Comunque ho anche studiato” dice Numero Uno. “Anche io ho studiato” dice Numero Due. “Mughetto, non mugello” dico io. “Mi dai gli occhialini di Zon?” dice Numero Due.
“Poi sono io che parlo come un’idiota” dico io. “Mi riempi la Brita” dice Numero Uno. “Alzati e riempila tu, per favore” dico io. “Voglio i mandarini” dice Numero Due. “Ehi, guardami, si dice Gion. Gg, gg” dice Numero Uno. “Eccoti gli occhialini” dico io. “Mi passi un mandarino” dice Numero Uno. “Io adesso esco ragazzi” dico io. “Comunque so già che muore” dice Numero Uno. “Esco, vado fuori, pensavo di tornare tra un sedici anni” dico io. “Io sono Zon Lennon” dice Numero Due. “Davide di merda. Mi ha spoilerato la fine” dice Numero Uno. “In frigo c’è tutto il necessario” dico io. “Mamma, tu sei la mamma di Zon Lennon” dice Numero Due. “I vostri pigiami sono sotto i cuscini” dico io. “Ascoltami: ggg, ggg. Come gggelato” dice Numero Uno. “Ciao eh. Lavatevi i denti prima di andare a letto” dico io. “Ciao mamma di Zon” dicono loro, insieme. * E allora niente, sono lì che aspetto quella di scienze, mi rigiro la foto di Numero Uno tra le mani, perché mi han detto che alle superiori bisogna andare ai ricevimenti con le foto dei figli, che sennò le prof non si ricordano e magari ti parlano di un figlio che non è il tuo, devo far passare un altro quarto d’ora perché quella di scienze vien dalla succursale ed è sotto psicofarmaci quindi chissà se arriva e poi se arriva comunque arriva lenta per colpa degli psico, intanto guardo la foto, cazzo che figo che sei, dico alla foto, proprio figo ti ho fatto, poi suona la campanella ed è subito intervallo.
Mi si para davanti, così, figo. Intorno a lui una corte di fronti brufolose e di nike sfigate. Lui invece è figo e ha le nike nuove, che dio lo benedica, cazzo. “Lui è G.O.” mi dice indicando il più alto di tutti – due metri di orrore testosteronico. “Ciao G.O.” dico io. G.O. mi guarda il ciuffo e comincia a ridacchiare, ridacchia con tutti quegli sputacchi da apparecchio mobile in bocca, mi guarda e ridacchia, cazzo ridacchi Suordentone, alla tua età ancora l’apparecchio. “Perché ride?” chiedo a Numero Uno. “Hai girato i capelli” mi dice Numero Uno. “Voglio dire, la riga” dice. “Forse ride per quello” aggiunge. “Comunque loro sono i due Raj Koothrappali” mi dice poi. Guardo dietro alle sue spalle i due nani che stanno sgomitando da qualche minuto. Raj 1 e Raj 2 mi sorridono e si sgomitano. “Non parlano con le donne” mi spiega Numero Uno. Stanno tutti e quattro lì intorno a me. Suordentone, mio figlio, i due Raj che sgomitano. “Anche voi interessati alle mie acconciature?” chiedo. “Ti ho detto che non parlano con le donne” mi dice Numero Uno. “Comunque mi ha detto che sei bravo” faccio io. Giù un’altra sputacchiata sorridente di Suordentone. “Quella di latino e greco” faccio. “Bravo è bravo, mi ha detto. Poi non sapeva più come andare avanti. Che male alla gamba che ho, mi ha detto quindi. Sembrava una vecchia stronza degli autobus. Sai di quelle che cominciano a parlare a voce alta del male alla gamba o del male ai piedi o di quanto cazzo gli pesa la borsa della spesa perché così tu sentendole parlare sull’autobus a voce alta dei loro mali e delle loro spese ti alzi e le lasci il cazzo di posto? Ecco. A
volte poi ste vecchie stronze cominciano già alla fermata a lamentarsi del male alla gamba e delle borse della spesa, perché così ti intimoriscono e tu dopo quando sali sull’autobus non ci pensi neanche per il cazzo a sederti, di fronte a tutti quei dolori di gambe e borse della spesa. Ecco. Una vecchia stronza sull’autobus con la faccia, però, di Silvio Orlando. Cazzo ma sei proprio sputata a Silvio, dicevo tra me e me mentre lei continuava a dire ho male alla gamba. È bravo. Punto. Ho male alla gamba. Punto. Marca Budavari. Punto.” I quattro si guardano un tantino preoccupati. “O-oook, mamma” dice Numero Uno, “noi adesso andiamo.” “Uh, sì sì, scusate, andate pure a pascolare, eheh.” Suordentone non ride più. I due Raj sono immobili. Numero Uno ha la faccia di quello che si vergogna tantissimo. “Comunque adesso vado da quella di scienze sotto psico” gli urlo dietro, ma loro sono già su per le scale. * Alle otto e ventiquattro scaraventa la borsa del basket a terra. Alle otto e ventisei fa un po’ di solletico da rientro al fratello. Alle otto e ventinove è sotto la doccia. Alle otto e trentanove è ancora sotto la doccia. Alle otto e quarantacinque si fa il terzo shampoo. Alle otto e cinquanta rumore di phon. Alle otto e cinquantuno rumore di rubinetto. Alle otto e cinquantadue rumore di phon. Alle otto e cinquantatré rumore di rubinetto. Alle otto e cinquantaquattro bestemmia contro i capelli che non stanno su. Alle otto e cinquantacinque metà del tubetto di gel finisce sullo specchio. Alle otto e cinquantasei rumore di phon. Alle nove fa pace con la forza di gravità. Alle nove e un minuto si impalca i capelli tutti in alto con il mastice. Alle nove e due minuti si infila la maglietta dei baustelle. Alle nove e tre minuti si toglie la maglietta dei baustelle e si mette la maglietta di breaking bad. Alle nove e quattro si toglie la maglietta di
breaking bad e si mette la maglietta dei baustelle. Alle nove e cinque rumore di phon. Alle nove e sei ravana nel gel spalmato sullo specchio e se ne mette un po’. Alle nove e sette si rinfila in doccia per togliersi il gel. Alle nove e otto rumore di phon. Alle nove e dieci secca una confezione intera di deodorante. Alle nove e nove si toglie la maglietta dei baustelle e si mette la maglietta con lo smiley. Alle nove e dieci apre un deodorante nuovo. Alle nove e undici si dà il deodorante per due volte sotto la stessa ascella. Alle nove e dodici addenta la cotoletta in piedi davanti allo specchio del bagno. Alle nove e tredici dice a G.O. che è in ritardassimo. Alle nove e quattordici rumore di deodorante. Alle nove e quindici si toglie la maglietta con lo smiley e si mette la maglietta dei baustelle. Alle nove e sedici risponde alla P. che è in ritardissimo. Alle nove e diciassette fa un attacco su clash of clans. Alle nove e diciotto rumore di phon. Alle nove e diciannove si incazza con Sampuqueldo che ancora non è arrivato con la macchina. Alle nove e venti si siede sul divano. Alle nove e ventotto è ancora sul divano che decide come allacciarsi le nike. Alle nove e trentacinque trova l’allacciatura perfetta. Alle nove e quaranta urla. Alle nove e quarantuno si fa un selfie con me sul divano. Alle nove e quarantadue torna in bagno a fonarsi. Alle nove e quarantatré torna Sampuqueldo e lo accompagna alla cazzo di festa del liceo. Di lunedì, sì, perché domani c’è assemblea. * “Ciao, scusami se ti disturbo via mail, sono la mamma di F. e tu sei anche la MIA rappresentante. Mi avevano garantito che a inizio pentamestre ci sarebbe stata una settimana di recupero per gli insufficienti del primo trimestre. Ti risulta? Mi avevano garantito che i prof. si sarebbero fermati con il programma per far recuperare gli insufficienti. Ti risulta? Mi avevano garantito che questa scuola si sarebbe comportata come tutte le altre scuole, cioè indulgente verso gli insufficienti e quindi li avrebbero fatti recuperare fermandosi con il programma.
Ti risulta? Mi avevano garantito che non ci sarebbero state troppe insufficienze e invece ci sono state. Ti risulta? Mi avevano garantito che erano buoni. Ti risulta? E se sono buoni, perché non si fermano con il programma una settimana e fanno recuperare i nostri figli. Ti risulta?” “Cara mamma di F. a me non risulta un cazzo e forse ti avevano garantito male. Se tuo figlio ci ha le insufficienze sono cazzi suoi. Mio figlio non deve recuperare proprio un cazzo. Mi ha portato a casa una pagella da paura, sinceramente non so come ha fatto a prender tutti quegli otto dato che studia un’oretta scarsa al giorno. Eppur ci sono. Sarà intelligente come sua madre, cosa vuoi che ti dica. Ciao eh.”
Maria Cristina Comparato Gujermo, 'r divo
Roma. Roma ‘a maggica, Roma ‘a lercia. Roma te divide l’anima, nun sai mai si la ami o si la odi. Quarcuno ce viene ppe’ trovà ‘a svorta, ner cinema, ne la musica, ner ber monno insomma; po’ ce stanno quelli che ce vengono ppe’ trovà ‘n lavoro, perché si manco ‘a capitale te da ‘r pane, stamo messi proprio male. E però lo sgobbo nun c’è manco qui, e ‘nfatti me chiedo che ce vengono a ffà, che stamo peggio dell’Africa nera! Poi ce semo noi: li romani de Roma, noi che qui ce semo nati, che nun ce frega gnente de la dorce vita, delli divi, e che ‘r pane ‘o rimediamo in quarche modo, e de sta a Roma o a Milano ‘nfonno è uguale. Però nun è proprio così, dicheno che si nasci in un posto come questo quarcosa te fa, nun te lascia indifferente. ‘A bellezza. E’ bella Roma, è poesia. ‘N po’ te fa male, te dispiace de vederla morire, de vedè quant’è sozza, d’incontrà certi burini... E’ come ‘na femmina, de quelle bbone proprio, ma che a un certo punto se perdono, perché nun la sanno gestì a bellezza loro; e allora le altre femmine je danno contro: è mignotta, è ‘na carogna, c’ha li fiji bastardi... ‘Nvece li maschi la amano, proprio perché nun è una femmina come l’ antre, perché è complicata, te fa sta male. E quarcosa t’ ‘a lascia, sì, te prenne ‘r core. A me pure m’ha preso, mica ‘o nego. Ce litigo colla Roma mia, me fa ‘ncazzà, me fa tirà certe Madonne... E però subbito se torna amici, ogne vorta, me reconquista sempre. A dorce vita o sai cos’è? Uno penza ar filme, a quello co’ Mastroianni, de la fontana, e se crede che quer monno nun esiste. E forse mò ‘n po’ è vero, forse nun ce ne stanno più de Mastroianni, forse Roma è stanca... Ma prima le dive le vedevi, camminavano ppe’ le vie come gli dei della Grecia, ch’erano umani, ma erano puro dei; e quante vorte a noi romani c’hanno fatto sognà d’unirce a loro, ai loro banchetti!
Mò nun so si ce stanno ancora, gli attori de adesso nun ce li vedo a brindare cor nettare, nun me paiono diversi da me. Quanno ch’ero pischello ce credevo pur’io all’Olimpo. Nun volevo fa l’attore, lavoravo all’officina de’ mi nonno e der cinema c’avevo solo ‘r cognome, Proietti, che nun è parente mio, ma se metteva così mi nonno, mi madre e io pure, che ‘r padre nun ce l’avevo. C’avevo delli amichi però, e per nun fa i burini quarcosa ‘a leggevamo, annavamo ar cinema e cose così. Quarcuno la strada l’aveva provata anche, me ricordo de uno der quartiere mio, uno bassetto, grassoccio, che già quanno avevamo 12 anni ‘o sapevamo ch’era frocio perché je piacevano ‘e sfilate, ‘a moda; e voleva diventà stilista, era puro fijo de sarti, ma nun ne poteva più de confezionà vestiti ppe’ matrimoni e funerali: lui voleva vestì le attrici! Eh, era frocio t’ho detto. E così un giorno se n'è partito tutto acchittato per Parigi, a fa 'a scola de sartoria, ma so diec’anni ch’è tornato e continua a vestì morti e sposi, però frocio lo è ancora, più de prima! ‘R sogno der successo ce l’ho avuto anch’io per un periodo, nun è ‘r solo ch’è tornato colla coda fra le gambe. C’avevo 15 anni e quanno nun sgobbavo me n’annavo a spià gli attori sui set oppure ‘n centro, mentre passeggiavano per negozi o per i caffè. Mi piaceva Cinecittà, ‘na vorta ho avuto addirittura una particina, ‘na comparsa, e come me sentivo gajardo! Poi me piaceva scrive, niente di che, robetta che recitavo coi compagni nell’officina o ppe’ strada ppe’ racimolà du‘ spicci. Ce divertivamo, ‘r prete c’aveva dato puro i costumi e ogne tanto usciva ‘no spettacoletto ppe’ lla parrocchia o ppe’ lli anziani. Un giorno però m’avevano messo ‘na purce nell’orecchio: era arrivato un regista, uno der nord ma che voleva raccontà de Roma, e nun quella dei divi, ma quella nostra, quella vera. Me l’aveva detto Pietro, uno der gruppo mio, che mò
nun so che fine ha fatto. Se n’era venuto all’officina conn’articolo de giornale, ‘r Corriere forse, che diceva che sto regista cercava talenti ne le borgate. - Ahò, noi semo de le borgate epperò semo acculturati! Faje legge le cose tue, vedrai che nun te mollerà più! - E indò le manno le cose mie? Ma poi che je frega a quello delle recite nostre, quella è robba ppe’ vecchi e preti! - E daje! Tu mannajele, che te costa! Ar massimo nun te se fila, ma mica mori, ‘r lavoro ce ll’hai! Tò, questo è l’indirizzo, me l’ha dato ‘n amico mio che me doveva ‘n favore. Nun c’aveva torto, ‘n fonno nun ce perdevo gnente, e poi un po’ me credevo pur’io d’avè talento. Passammo quattro giorni a corregge’, a ricopià; m’ero fatto prestare 'na macchina per scrivere da mio zio, ma nun te dico ‘a fatica! Quell’aggeggio infernale s’enceppava, me sporcava li foji, amo dovuto batte e ribatte come matti! Alla fine però ‘r manoscritto, o come se dice, era pronto, dovevo solo imbucarlo e aspettà. Ner frattempo però quell’infame di Pietro aveva spifferato a tutti de sta cosa, che stavo a diventà sceneggiatore, che stavo a diventà famoso. - Amo trovato ‘a svorta, ahò! Gujermo ce fa svortà a tutti! Puro mi madre j’annava dietro! Faceva ‘a strana, me parlava de pellicce, me diceva de nun annà a lavorare, che gli artisti nun se sporcano le mani. Nun vedeva manco più le amiche sue, ‘e trattava male, come zoticone. Solo mi nonno era uguale, nun me chiedeva gnente e me teneva all’officina come prima, a lavorà come ‘n negro, che poi lui ar cinema nun c’annava dietro, je piacevano solo Ardo Fabrizi e Totò, e quarcosa co’ Gino Cervi, ma delli divi nun je fregava. ‘Na cosa da ride però me capitò, è l’unica cosa che me fa dì grazie a quello stronzo de Pietro.
All’epoca nun ero ferrato colle femmine, nun ero brutto, ma manco me veniva dietro nessuna, ‘nsomma, ero ancora vergine. Mi piaceva una, però, Lucia, ‘na regazzina tutta boccolosa , una de quelle che te se fila solo si c’hai la motocicletta e le pastarelle dd’ ‘a domenica. Je correvo appresso da ‘n po’ e quella gnente, manco ‘na parola, e poi d’un tratto, mentre facevo pausa, me se presenta tutta in ghingheri, conn’o sguardo da lince. - A Gujè, stai a diventà ‘mportante, dicheno! Aaah, pensai, anvedi sta mignotta che se fa li calcoli sua! - Così dicheno! Volevo fà l’indifferente, ma puro me la volevo portà! - E, che dici, nun posso dinventà ‘mportante pur’io? me faceva girandosi e rigirandosi, colla gonnelletta che svolazzava e ch’era più quello che mostrava de quello che nasconneva. - Viè qquà che te vedo mejo. ‘R visetto ce ll’hai, ma nun lo so si ‘r resto è a posto! - E com’ ‘o scopri? - ‘Nnamo a ffà du’ passi, ch’er modo ‘o troviamo! Ahò, m’ero fatto la prima botta aggratis e puro senza move ‘n dito! E mica solo co’ quella avrei potuto, ogne giorno me se presentava una nuova, ma alla fine volevo solo Lucia, l’antre le facevo sospirà. Me la godevo, c’avevo ‘a donna, mi madre era contenta, i compagni me cercavano sempre, me tenevano in conto. Ma passa ‘n giorno, passa ‘n mese, quarcuno aveva cominciato a domandà: a furia de gridà ar divo, ‘r divo ‘o volevano vedè. Soprattutto Lucia, nun passava ora che nun me chiedesse si m’avevano risposto, che lei nun poteva perde tempo, che stava a sprecà ‘r talento suo... ‘R talento de Messalina, j’avrei voluto risponne! E nun era manco la peggio! La peggio era mi madre: - Gujè, ma quanno te fanno sapè? Com’è che nun è arrivato gnente? Era
giusto l’indirizzo, nun è che l’hai scritto male? - A mà, quelle so persone serie, ‘o sai quanta robba c’hanno da legge prima de legge ‘a mia? Daje ‘r tempo, ma quelli me rispondono! La dovevo tenè bbona, che quella nun c’aveva più amiche, aveva cambiato parrucchiera ché dalla sua solita nun ce poteva annà più, perché, ‘n po’ curiosi, ‘n po’ maligni, je chiedevano der divo der cinema. E carma a mi madre, e carma a Lucia, a me chi me carmava? - A Piè, questi nun me dicono gnente, nun se fanno vivi! - Ahò, e si vede che nun je vai bene! - Ma tu m’avevi detto che era impossibile che nun me rispondevano, ch’ero ‘r fenomeno de le borgate! - Ahò, e so cose che se dicheno, mica faccio ‘r cinema io, che ne so de quello che vojono! Ma poi che te frega, mica te vengono a menà. Te continua ‘a vita tua, nun cambia gnente! - Nun cambia gnente, eh? ‘A vita solita! C’aveva ragione su ‘nna cosa però, quelli der cinema nun te menano ppe’ ‘n copione scritto male... Io però ero de le borgate, menavo per molto meno... - A Piè, c’hai ragione! Quella è gente seria, nun come noi! L’avevo mannato all’ospedale che quasi nun respirava, quell’infame! E così s’è spento ‘r sogno mio, colle speranze der ber monno, con mi madre che frignava... Lucia poi m’ha mollato, s’era messa co’n pappone e puro lei ha fatto ‘a fine che se meritava. Solo mi nonno era sempre ‘o stesso, lui e ‘r cognome suo che cor cinema nun c’entrava gnente, e che fino alla fine m’ha fatto sgobbà all’officina come ‘na bestia, nun chiedendomi gnente, né der regista, né de Lucia. L’officina mò la gestisco io, c’ho quattro operai, me so sistemato. ‘Na vorta, ora che me ricordo, quer regista, quello der nord, è venuto a farsi rimette l’olio; era ‘n piccoletto, colli occhiali più grandi de la faccia sua; nun so come m’è venuto, ma ci ho chiesto si le aveva lette le cose che j’avevo
mannato. Nun ricordava, diceva che forse nun j’era arrivato ‘r manoscritto, però m’aveva detto che je lo potevo dare, che sarebbe passato ‘r giorno dopo. Doveva annà a Ostia, diceva. Nun è mai tornato.
Daniele Gabrieli Legno
Si chiamava Ciottoli Amedeo, per gli amici Amos, classe 1961, residente a Cesenatico, frazione Bagnarola. Non è che fosse proprio un bel ragazzo, di faccia somigliava a uno di quei maiali sorridenti che ci sono sulle insegne di certe osterie. Però c’aveva un fisico che lèvati, due spalle così e un sacco di capelli. Ora, sarà stata la chioma selvaggia, saranno stati gli addominali, sarà che in fondo anche il ghigno da porco aveva il suo fascino: fatto sta che Ciottoli Amedeo detto Amos era sempre pieno di donne. Sul sellino della sua Ducati passavano i miglior tocchi di femmina della tratta Cattolica – Milano Marittima, nostrani e d’importazione. Nel giugno del 1989 arrivò al residence Cherie di Rimini una turista olandese di ventun anni, tale Annika, Miss Paesi Bassi in carica. Una ragazza bella come il sole ma fredda come un ghiacciolo al limone: non sorrideva mai e andava sempre in giro col moroso, un certo Uther, terzino del PSV Eindhoven che la marcava stretta e mostrava i denti a chi si avvicinava troppo. Due settimane dopo, quando finì la vacanza e Uther e Annika se ne tornarono in Olanda, lui era ancora ringhioso come il giorno che era arrivato, ma lei sembrava un’altra persona: c’aveva il sorriso allegro dei maiali sulle insegne delle osterie, che a quanto pare era un po’ contagioso. Per il resto dell’estate Ciottoli Amedeo portò i capelli tirati su in una coda di cavallo, legata non con un banale elastico ma con un paio di mutandine da donna di fabbricazione olandese. E fu così che diventò ufficialmente il Re della Riviera. E poi? E poi basta. Nella vita, quando c’è un lieto fine, non è mica una buona idea chiedere cos’è successo dopo. Perché il lieto fine è il momento in cui le cose vanno bene che meglio non si può, e da quel momento lì possono solo andare peggio. E infatti, cazzarola.
Oggi, agosto del 2013, sono un panzone in bermuda e camicia hawaiana che beve cedrata e legge la Gazza al bar dei bagni Anemone di Cesenatico. Somiglio a un maiale come e più di prima, ma non c’ho più tanti motivi per ridere. Non c’ho più il fisico, sembro un silos granario con le braccia. Non c’ho più la Ducati, l’ho venduta per comprarmi una Punto. Ho ancora la coda di cavallo, quella sì, anche se ormai è quasi tutta grigia. Solo che non è più legata con un paio di mutande da donna: la tengo su con l’elastico recuperato da un paio di mutande da uomo, mie. Sulla mia carta d’identità c’è sempre scritto Ciottoli Amedeo, ma nessuno mi chiama più Amos da un sacco di tempo, e non sono più il Re di un bel niente. Anche la Riviera è invecchiata male, di questi tempi ci trovi più pensionati che turiste tedesche, però ti sa ancora offrire qualche bel panorama. Adesso, per esempio, sbirciando da sopra il bordo della Gazzetta vedo passare un culo di un certo pregio. Tondo, fiero, scoperto per un buon tre quarti, roba che chi s’inventa ‘sti costumi da bagno gli darei il premio Nobel. Davanti a uno spettacolo così, un uomo sensibile non può mica rimanere in silenzio. Sarebbe maleducato lasciar correre, sarebbe contronatura non commentare. «Bella fica», dico, «che Dio ti benedica». Mi sa che la proprietaria del culo mi ha sentito, perché si volta e mi dice: «Ma, papà!». Mi viene un mezzo colpo quando il culo mi mostra la faccia ed è la faccia di Iole, Iole è mia figlia, ma come si permette? Esce di casa così, con le chiappe al vento, una ragazza di neanche diciott’anni, ma io la chiudo a chiave fino a quaranta. «Iole, porca vacca! Come sei vestita?» «Perché, come sono vestita?» «Poco, sei vestita! È una roba indecente! Chi se li inventa, ‘sti costumi? La pena di morte, gli darei!» «Papà, te non ci capisci niente di stile. Questo qui…»
Si gira per farmi vedere il didietro del costume e io, sapete com’è, la forza dell’abitudine, mi blocco un attimo a chiedermi di chi è quel popò di fondoschiena. Poi mi ricordo che è di mia figlia e torno serio e severo e sdegnato. «…questo qui è un pezzo della collezione Parah primavera – estate duemilaetredici. Una roba di classe!» Proprio mentre Iole mi dice questa cosa qua, che mi fa venir voglia di ribaltarla con uno sberlone, davanti al bar dei bagni Anemone passa un altro culo infilato in un costume uguale al suo. Solo che è un culo totalmente diverso, un culone da ippopotamo sformato dalla cellulite, tipo che andrebbe nascosto, mica mostrato. «Guardala lì, la tua roba di classe» dico. «Va’ se ti sembra ancora di classe, addosso a una vecchia culona come quella là!» Mi sa che la vecchia culona mi ha sentito, perché smette di parlare al cellulare e si volta. «Che cazzo dici, coglione» mi fa mia moglie. Mi viene un altro mezzo colpo quando anche questo culo mi mostra la faccia, ma stavolta non c’è tutta questa differenza tra i due, e la faccia è quella di Katiuscia. Il problema è che nel 1994 ho sposato una discreta gnocca, e il mio cervello fa un po’ di fatica ad accettare quant’è cambiata. È una specie di rifiuto psicologico. Farfuglio qualcosa, un’insalata russa di scuse e di spiegazioni. «Chiudi quella cazzo di bocca e ascoltami» ordina Katiuscia. «Ha chiamato mia madre. Dice che mio padre è finito in ospedale, ce l’ha mandato lei, hanno avuto una discussione, e adesso la mamma ha bisogno di qualcun altro per fare coppia al torneo di burraco. Devo essere a Cervia entro l’una, prendo la Golf.» In famiglia abbiamo due macchine. La prima è una Golf del 2008. «Ma», rispondo, «ma», ripeto, «ma», ribadisco, «ma oggi io devo andare in Toscana, è una cosa di lavoro, la Golf mi serve a me!».
«Cazzi tuoi. Con questo caldo, io non mi muovo senza l’aria condizionata. In Toscana ci vai con la Punto.» La seconda macchina di famiglia è una Fiat Punto, quella che ho comprato coi soldi della Ducati. Un modello del 1993 che ormai sta insieme con lo sputo. «E Iole?» chiedo. «Non è che possiamo lasciarla qui da sola!» «Sì che potete» dice Iole, con uno sguardo che mi fa capire che no, non possiamo. «Ti piacerebbe», le dico, e la indico col dito, «ti piacerebbe rimanere qua senza nessuno che ti controlla, per fare quello che ti pare con quei balordi che ti girano intorno! Specie quello là… Il negro!». «A parte che non si dice negro», mi risponde lei, «va’ che il Fede non è un balordo, è il ragazzo più bravo del mondo. E comunque non posso mica farmi suora per farti contento a te!». «E invece non sarebbe mica male, così…» «Iole viene con te» taglia corto Katiuscia. «No» dico io. «No» dice Iole. «Sì» dice Katiuscia. «Almeno vede da vicino il lavoro del cazzo che fai, e magari s’impegna per non diventare una sfigata come suo padre». «Ma…» «Ma…» «Niente ma. Così è deciso», Katiuscia guarda sempre Forum, «l’udienza è tolta». Iole sbuffa. «Vabbè. Però che palle.» Le due facce mi mostrano di nuovo il culo e io, è più forte di me, un riflesso istintivo, per un attimo mi blocco a chiedermi di chi sono quel culetto di pesca e quel culaccio di palta. Poi mi ricordo che sono di mia figlia e di mia moglie e sto a guardarli che se ne vanno in direzioni diverse. Questa, grosso modo, è la mia vita.
Mollo un sospirone col vibrato, ripiego la Gazzetta e faccio per pagare la cedrata. Dentro il portafogli ho dieci euro, la patente, un profilattico scaduto nel 2000 e una foto piegata a metà. La tiro fuori e la apro. È una Polaroid, una volta era a colori, adesso è solo di varie sfumature del giallo, però si riconosce ancora Annika che mi sorride. Gliel’ho fatta una di quelle sere che ce la siamo spassata dietro le cabine dei bagni Corallo, sdraiati sopra un gommone dei Puffi, mentre Uther ronfava pieno di birra e di piada in una stanza del residence Cherie. Dopo quell’estate lì non lo so che fine ha fatto Annika, e se devo essere sincero non me ne frega niente. Cosa credete, era una bella figa ma era una tra le tante, io non c’ho mica nostalgia di lei. C’ho nostalgia del 1989. Dicono che non si può vivere nel passato. Ma a me mi basterebbe andarci in vacanza, cazzarola.
Milo Busanelli Quando la vasca era piena
Piove fitto, piove da una settimana e nel mezzo arrivano loro. Negli ultimi anni il turismo è andato alla malora, le attività hanno chiuso, i cartelli vendesi sono apparsi dappertutto e nessuno compra. Poi arrivano questi due, chiedono quanto costa e tirano fuori l’assegno, una firma ed è fatta. I vecchi rimasti in paese raccontano i lavori di manutenzione, i mobili che arrivano, le grandi pulizie, con la macchina che hanno potrebbero pagare qualcuno, invece fanno da soli. Amore, abbiamo finito gli stracci. Amore, passami il secchio. Amore, amore, amore. Si chiedono perché hanno scelto una casa così, senza giardino, senza piscina, la porta d’ingresso che si butta sulla strada. Dicono che lei è sempre seria, che qua ce l’ha portata il marito, sì, perché hanno le fedi. Dicono che lui ha fatto i soldi chissà come e vive di rendita. Potrebbero essere in vacanza, ma i giorni passano e loro restano. Lei esce giusto il tempo per fare la spesa, qualcuno prova ad attaccare bottone, lei è cortese ma non si sbilancia. Una così, dicono le altre, possibile che non abbia figli. Gira voce che sia sterile, lei o lui, forse entrambi. Gira anche voce che non ne vogliano. Poi smette, la pioggia smette, ma l’umidità resta. Eccoli, seduti a cena, cosa darebbero in paese per vederli nella loro intimità, invece sono seduti composti e mangiano come tutti. Alla fine sparecchiano insieme. Quando è tutto a posto, le posate sparite, le sedie in ordine, le briciole raccolte, lei si copre la faccia con le mani, si trattiene, ma non può farci niente se nel silenzio della casa si sente tutto. Poi, come ha iniziato, si ferma. Dice che ci sono ancora molti lavori da fare e inizia a elencarli, li esamina uno a uno, propone delle soluzioni, valuta i pro e i contro, valuta la possibilità di lasciare le cose come stanno, ma subito dice che è meglio cambiare, che è meglio sostituire. Come vuoi, amore. Quando lei è stanca di parlare s’interrompe nel mezzo di una frase. Andiamo a letto che sei stanca, fa lui. Il letto è grande, il più grande che hanno trovato, ma anche la stanza è grande.
Da una parte c’è la cabina armadio di lui e dall’altra quella di lei. Sono piene di vestiti, ma lei mette sempre gli stessi e le voci girano. Eppure si lava tre volte al giorno. La lavatrice non sta mai ferma. E tutto il giorno pulisce, cerca la minima traccia di sporco e la elimina. C’è sempre dello sporco in casa, puoi pulire finché vuoi, c’è sempre un angolo che non hai considerato. Per questo le sembra di non fare abbastanza, ma arriva la sera, la polvere si accumula e la mattina è costretta a ricominciare. Ora che il grosso è stato fatto non c’è più bisogno di lui, allora va in un’altra stanza, legge, guarda la televisione, pensa o almeno ha un’aria meditabonda. Ogni tanto si alza e controlla quello che sta accadendo di là. Tutto bene, amore, chiede. Tutto bene. Anche stavolta lo chiede, qui, nel letto, lui da una parte, lei rannicchiata nell’altra, lo spazio in mezzo tanto grande, ma ormai è fatta, il letto è questo. Tutto bene, risponde lei. Si addormentano, vorrebbero dormire, ma la verità è che vanno a letto presto e restano svegli per ore. Solo quando è tardi chiudono gli occhi. Ma stavolta si svegliano insieme. Prima una, poi le altre, no, non è un sogno, sono proprio rane. Si fermano, lui o lei si riaddormenta, poi riprendono. Stanno zitte, sembra che abbiano smesso, poi riprendono. La notte passa così e al sorgere del sole, finalmente, il silenzio. Ma è ora di alzarsi. Dopo la colazione lui fa una passeggiata intorno alla casa, ma vede solo l’insegna di un vecchio albergo, uno dei tanti che ha chiuso i battenti, vede il giardino incolto, le imposte penzolanti, i muri sgretolati. Lei va dal fornaio e ascolta le chiacchiere dei paesani, ma sono le solite. Quel giorno arriva la scrivania, la portano smontata e chiedono dove. Nello studio, dice lui, e lo studio è una stanza bianca, verniciata di fresco, ma vuota. Ancora per poco: la scrivania è già pronta e il conto saldato. No, niente a che vedere con quella di prima. Prendila come vuoi, ma non prenderla di legno, aveva detto lei. Tutto nuovo, tutto diverso. E a lui non interessa che sia o no di
legno, solo non sa cosa farsene di una scrivania. In fondo può buttarla e ribattezzare la stanza, oppure lasciarla vuota, una stanza in più, una stanza che non usa nessuno. E fa proprio così, smonta la scrivania, quando è alle strette la rompe, poi getta via tutto. Alla fine chiama sua moglie, che però non ne vuole sapere e dice di chiuderla, di lasciarla chiusa, chiudila e butta via le chiavi, dice. In fondo ha ragione: è una stanza in più da pulire. Poi suonano alla porta, lei chiede se aspetta qualcuno, lui dice di no, lei nemmeno e intanto suonano. Alla fine va ad aprire, è il parroco, lo fanno entrare, in fondo sono credenti, lo dicono anche a lui, siamo credenti. Benedice in giro e quando ha finito lei è pronta ad accompagnarlo, ma quello chiede da quanto sono sposati e loro rispondono. Da così tanti anni, fa, e lei non capisce dove vuole arrivare. Poi dice di fargli visita, se si sentono soli, allora lei si chiede come fanno a essere soli se sono in due. Finito di mangiare fanno le prove, lei dentro e lui fuori, viceversa, provano diversi volumi, alla fine lei chiede se si può spegnere, in fondo un campanello non serve. La notte si sdraiano al solito posto; ora è diventato il solito posto. Lui dice che è stanco, spera di dormire e lo spera anche lei. Ma le ore passano; non serve svuotarsi la testa, non pensare a niente, non serve e non è possibile. Poi arrivano le rane. Oggi sembrano più vicine; lui si affaccia dalla finestra, ma non le vede. Provano a dormire, ma non ci riescono. Come se fossero lì, nella stanza, sotto il letto, saltellanti sopra le coperte. Provano a dormire tutta la notte, ma solo poche ore prima dell’alba ce la fanno. E solo per poche ore. Si svegliano che le rane sono scomparse. Ma il pensiero no, quello gracida nella loro testa. Lui non aspetta nemmeno la colazione, esce fuori e controlla per strada, i cortili delle case, tra le siepi, alla fine capisce che c’è un solo posto dove si possono nascondere. Cerca il punto migliore, sbircia tra i rampicanti, ma dietro la rete dell’albergo non vede nulla.
Torna indietro che lei è già uscita, è andata in paese, dal fruttivendolo, dal macellaio, anche dalla sarta, ma non sente lamentarsi nessuno. Alla fine lascia perdere ogni remora e lo chiede. Tutti dicono che c’è qualche cane che abbaia, i gatti in calore, per chi vive un po’ fuori gli animali d’allevamento, ma rane non ce ne sono mai state. Ecco, ora penseranno che è un po’ tocca, ora daranno ragione al marito, dalla vergogna è venuto a nascondersi fin qui. Solo un ragazzino la insegue e dice che anche lui sente dei rumori, a volte non riesce a dormire, ma sono topi. Lei lo ringrazia, poi gli raccomanda di fare attenzione. Lui non capisce, i topi non mordono, fanno solo rumore. Lo accarezza con la punta delle dita, poi se ne va. A casa continua le pulizie e il marito va a sedersi da qualche parte, si sono dimenticati della colazione, ma si ritrovano a pranzo. E a pranzo lei progetta di riempire le stanze, vede cose che non ci sono ancora, un vaso qui, un soprammobile là, una cornice lassù, lui chiede se non sia troppa roba e lei risponde che c’è tanto spazio. Ma ci vorrà una vita per pulire tutto. Ho tempo, risponde lei. Nel pomeriggio suona il telefono, ma nessuno risponde. Prima della partenza tutte quelle chiamate, sempre le stesse frasi, no, non vogliono rispondere. Ma il telefono continua e lui alza la cornetta, dice pronto, dopo un po’ lo ripete. Sta per rinunciare che le sente, da lontano, tutte assieme. Chi è, chiede lei. Poi arriva l’aspirapolvere nuovo. L’hai appena cambiato, dice lui. Ma lei lo sente tra le mani, lo sporco che se ne va, allora continua a spingere e tirare, si sintonizza sul suono dell’aspirazione, pensa a quel suono, è parte di quel suono, finché non le fanno male le braccia, allora continua lo stesso, ripassa dov’è già stata, finché lui domanda se è andata in farmacia. In farmacia per cosa, chiede, ma lui dice che non è importante, allora riprende a pulire, ma il marito è ancora lì. Ho pensato di comprare dei tappi per le orecchie. A lei va bene, già che c’è può prenderli per tutti e due. Lui esce di casa e si rende conto di non sapere dov’è la farmacia, potrebbe chiedere, ma pensa
che a forza di girare la troverà per forza, infatti la trova. Tornato a casa vede che la moglie sta aspirando i muri. La polvere cade sul pavimento, ma qualcosa potrebbe impigliarsi anche lì. Lui guarda il tubo dell’aspirapolvere, guarda il soffitto, fa le sue valutazioni, poi se ne va in un’altra stanza. Non hanno finito di mangiare che le sentono di nuovo. Lui dice che non ha più fame. A letto aggiunge qualcosa, ma lei vede la bocca muoversi e basta. Lui toglie i tappi e ne prova degli altri, poi si rimette quelli di prima mentre lei infila la testa sotto il cuscino, respira male, ma le rane si sentono lo stesso. Lui si alza ed esce, fa il solito giro e torna. Lei chiede se ha visto qualcosa, lo grida per farsi sentire, ma lui risponde che c’è buio. Allora perché sei andato fuori, fa lei. Alla fine escono insieme, si ritrovano davanti all’albergo e lui chiede se lo sapeva che c’era, lei risponde di no ma le sembra di averlo già visto. Camminano lungo la rete e trovano un buco, non è tanto grande, ma ci possono passare, potrebbero già essere di là, ma cosa accadrebbe se li vedessero, pensano. Poi lui fa la prima mossa, ecco, sono dall’altra parte. Nell’erba alta prendono un sentiero che non è più un sentiero e intanto si guardano attorno. Vedono cose che venivano usate da altre persone. Vedono cose che non si possono più usare. Dappertutto si sentono le rane, ma rimangono nascoste. E alla fine la trovano, si avvicinano, la guardano meglio: una piscina, piena d’acqua stagnante. Più si avvicinano, più le sentono. Poi si rendono conto che le dimensioni sono le stesse, anche il rivestimento è dello stesso colore, e quella scaletta, poi, è come quella che avevano loro. Si fermano sul bordo e guardano dentro: nell’angolo in fondo c’è qualcosa. Costeggiano la piscina, si tengono per mano, stanno attenti a non scivolare e quando sono vicini riconoscono le gambe. Hanno già visto anche la bambina. Poi lei dice qualcosa e mentre lo dice nemmeno si accorge che le rane stanno zitte. Dice: se solo avessimo svuotato la vasca.
Vittoria Baruffaldi. Professoressa di filosofia e storia al liceo, scrive su La Filosofia secondo babyP, esercizi di meraviglia per tutti e per nessuno. Nel 2015 uscirà il suo primo libro. Francesca Rimondi è nata a Bologna. Di lavoro corregge libri di scuola e traduce dal francese. Ha scritto quattro racconti. Vive con tre uomini. Maria Cristina Comparato, nata a San Giovanni Rotondo nel 1987, è appassionata di letteratura e filosofia. Ha pubblicato il racconto Benito Cenci sul numero 29 della rivista Tina. Daniele Gabrieli è nato nel 1975 a Milano e vive a Segrate (MI). È laureato in Lettere con il minimo dei voti. Ha lavorato come operaio in una catena di montaggio, censore di materiale pornografico, inserviente in una clinica per malattie mentali e in seguito autore di sitcom, soap opera, documentari e cartoni animati. Oggi è impiegato presso BookAbook, la prima piattaforma di crowdfunding letterario dell’Europa continentale. Il suo romanzo autopubblicato Le avventure del Nibbio Nebbioso e della Gatta di Ghisa, in vendita su Amazon, si è qualificato finalista al premio Urania 2013 ed è stato recensito positivamente dal Sole 24 Ore. Milo Busanelli nasce nel 1981 nella montagna reggiana, si laurea in Scienze della comunicazione e finisce addetto stampa per un ente locale. Per anni ha guardato molti film e letto pochi libri. In quegli anni ha realizzato alcuni cortometraggi e scritto sceneggiature per lungometraggio, ricevendo diversi riconoscimenti che non gli hanno cambiato la vita. Ora guarda meno film e legge di più. Sta lavorando a una raccolta di racconti.