Psicologia contemporanea 08 2015

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Set.-Ott. 2015 n. 251

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n.251 n.251

© 1974, 2015 – Giunti Editore s.p.a. Firenze – Milano Periodico bimestrale. Registrazione del Tribunale di Firenze n. 2317 del 28.11.1973. www.giunti.it – www.psicologiacontemporanea.it redazionepsi@psicologiacontemporanea.it issn: 0390-346X – anno xli - settembre-ottobre 2015 – n. 251 fondatore: Giuseppe Martinelli direzione scientifica: Anna Oliverio Ferraris (Università di Roma) direzione, redazione, amministrazione e pubblicità: giunti editore,

via Bolognese, 165 – 50139 Firenze. Tel.: 055 50621. Fax: 055 5062298. in redazione: Glauco Renda (caporedattore), Maria Chiara Sarti (redattrice e segretaria di redazione). progetto grafico e impaginazione: Enrico Albisetti. collaborazione redazionale: Paola A. Sacchetti. pubblicità e marketing: Antonella Rapaccini, Cecilia Torrini. pubblicità interna: Angelica Dionisio, Edoardo Frascino e Giampaolo Semboloni (grafici). concessionaria esclusiva di pubblicità: Progetto srl: Milano, Corso Italia 10, tel. 02 8526800, fax 02 8526840; Roma, viale del Monte Oppio 30, tel. 06 4875522, fax 06 4875534; Trento via Grazioli, 67, tel. 0461 231056, fax 0461 231984; e-mail: info@progettosrl.it www.progettosrl.it prezzi per l’italia

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comitato scientifico Luciano Arcuri (Università di Padova), Silvia Bonino (Università di Torino), Cesare Cornoldi (Università di Padova), Franco Di Maria (Università di Palermo), Santo Di Nuovo (Università di Catania), Mauro Fornaro (Università di Chieti Pescara), Tilde Giani Gallino (Università di Torino), Fabio Lucidi (Università di Roma), Mauro Maldonato (Università della Basilicata), Massimiliano Oliveri (Università di Palermo), Alberto Oliverio (Università di Roma), Pio E. Ricci Bitti (Università di Bologna), Guido Sarchielli (Università di Bologna), Alessandro Zennaro (Università di Torino).

Psicologia contemporanea si avvale di uno speciale rapporto di collaborazione con Psychologie Heute (Germania) e sciences Humaines (Francia).

Stampata presso Giunti Industrie Grafiche S.p.A. – Stabilimento di Prato Attribuzioni e diritti: 7 e 10: Sergiy Bykhunenko/Fotolia; 12-13: Gianni Fiorito/Medusa Film/ Webphoto; 13 in alto: Medusa Film/Webphoto; 14-15: Full2Spectrum/Shutterstock; 16: Bojan Fatur/Getty Images; 17: Francis Pellier MI DICOM/Ministère de l’Intérieur/Getty Images; 19: Brostock/Shutterstock; 21 in alto: Atrik Stollar/AFP/Getty Images; 21 in basso: Patrick Aventurier/ Getty Images; 23: MachineHeadz/Getty Images; 24: Andrew Fox/Corbis; 27 e 28: RealyEasyStar; 30: Don Bayley/Getty Images; 33: famveldman/Fotolia; 34: Boeri Studio/Barcroft Media/ Getty Images; 36: Andrey Kuzmin/Fotolia; 37: Olesia Bilkei/Fotolia; 38: Ljupco Smokovski/Fotolia; 40: iStockphoto/Getty Images; 42: The Power of Forever Photography/Getty Images; 44: Pgiam/Getty Images; 47, 48 e 50: Digital Vision Vectors/Getty Images; 53: Elvira Giannattasio; 54-55: Patrick Strattner/Brand X/Getty Images; 57: PM Images/Getty Images; 59: Nick Ballon/ Getty Images; 60-61: Tara Moore/Getty Images; 63: Steve Proehl/Proehl Studios/Corbis; 64-65, 67 e 68: Elvira Giannattasio; 70: vladimirfloyd/Fotolia; 72-73: michaeljung/Fotolia; 75: Matthias Stolt/Fotolia; 76: JPC-PROD/Fotolia; 79: Valerio Muscella/NurPhoto/Corbis. Dove altrimenti non indicato le immagini appartengono all’Archivio Giunti. L’editore si dichiara disponibile a regolare eventuali spettanze per quelle immagini di cui non sia stato possibile reperire la fonte.


Cari lettori, si sente spesso parlare di “buona scuola”, ma poi capita di vedere edifci fatiscenti dove i bambini e i ragazzi si trovano a trascorrere le lunghe ore scolastiche in spazi angusti senza neppure la possibilità di fare la normale ricreazione a metà mattina perché o mancano gli spazi all’aperto o il personale scolastico preferisce tenere i ragazzi in classe per timore delle denunce dei genitori. «Mia fglia al primo anno di primaria il tempo della ricreazione lo passa in classe» mi ha spiegato una madre «e quando capita che la ricreazione sia negata per punizione i bambini fanno solo merenda e poi tutti seduti!». «La dirigente scolastica ci ha comunicato che il cortile non è a norma, per cui in caso di incidente siamo noi insegnanti i responsabili» ha precisato un’insegnante. Si è creato, dunque, un cortocircuito tra genitori, insegnanti e dirigenti che priva i bambini di un loro fondamentale diritto, quello di muoversi, quando invece sappiamo, anche dai risultati di studi scientifci, che c’è un rapporto virtuoso tra attività aerobica (correre, ecc.) e rendimento scolastico: si formano nuovi contatti sinaptici tra le cellule nervose, la concentrazione aumenta, l’umore migliora, gli alunni si divertono e socializzano. Eppure esistono altri mondi possibili, altri spazi vivibili e progetti percorribili, come emerge dal bell’articolo di Gianluca Mora, «La buona scuola verde» in cui si racconta di scuole anche italiane dove i bambini non soltanto possono fare la ricreazione all’aperto senza incorrere in pericoli, ma dove all’aperto possono svolgere delle attività curricolari in un rapporto diretto con erba, fori, piante, animali, ossia immersi in un ambiente naturale composito che, come sappiamo, è stimolante e rigenerante e in più consente quei giochi spontanei che fanno crescere, che alimentano un senso interiore di autonomia e di libertà e che hanno anche il pregio di “curare”, attraverso un processo del tutto naturale, piccole ferite e stress quotidiani.

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La naturalizzazione degli spazi all’aperto delle scuole richiede certamente un impegno economico, ma richiede anche che gli educatori comprendano quanto sia importante crescere a contatto della natura, il che non è per nulla scontato in chi tende a sopravvalutare il ruolo del mondo digitale fn dalla più tenera età. Le nuove generazioni devono avviarsi a “ibridare” i vantaggi delle tecnologie con quelli che derivano dal mondo naturale da cui continuiamo a dipendere: sarebbe errato ritenere che la nostra mente possa svilupparsi soltanto in una dimensione astratta separata da un corpo che ha le sue necessità e che continua a dipendere dallo stato di salute dell’ambiente naturale e più in generale da quello del pianeta. A distanza di quasi mezzo secolo dal fortunato libro di Gregory Bateson sull’ecologia della mente, dobbiamo ora impegnarci concretamente a promuovere un “pensiero verde” capace di cogliere la complessità del mondo attuale in tutte le sue sfaccettature e una flosofa di vita rispettosa dell’ambiente e quindi anche della nostra dimensione naturale. Anna Oliverio Ferraris


ALIMENTAZIONE

una corretta 6 Per educazione alimentare

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Alberto Pellai

PsIcOLOgIA AErONAuTIcA

sono valutati 14 come i piloti dell’aviazione civile? Andrea Castiello d’Antonio

14

Ecologia

buona 24 Lascuola “verde” Gianluca Mora

30 L’importanza del “pensiero verde” 24

Albertina Oliverio

VIOLENZA

40 La tortura “bianca” Marialuisa Menegatto Adriano Zamperini

40

FOrMAZIONE

46 I fatti di genova

La preparazione delle Forze dell’Ordine Massimo Montebove

PsIcOLOgIA DELLA sALuTE

54

54 una vita più semplice Di cosa abbiamo davvero bisogno? Eva Tenzer


sommario Discussioni

64 La famiglia

Chiesa e psicologia a confronto Fabrizio Mastrofni

64 72

Assistenza

72 Soli, ma non da soli 78 Vulnerabilità Antonella Reffeuna

Catherine Halpern

36 36

rubriche

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52 12 22

Cinema e letteratura Youth - La giovinezza Roberto Escobar

Cattivi Pensieri

62

Contro i bambini (e le loro mamme) Silvia Bonino

Notizie Flash Il cellulare: un’estensione di sé AoF Lettura e attività cerebrale AoF Anche i bambini prodigio devono esercitarsi Frank Luerweg

Il caso Passare all’atto senza sapere il perché Anna oliverio Ferraris

Asterischi Storici Il caso H. M. Alberto oliverio

Psicoscopio

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A cura di Guido Sarchielli «Vuoi sempre aver ragione!» Quanto è diffcile lavorare con gli arroganti


A L I M E N TA Z I O N E

Per una corretta educazione alimentare Alberto PellAi

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settembre-ottobre 2015

Noi siamo ciò che mangiamo». Il celebre aforisma di Feuerbach è quanto mai attuale di questi tempi in cui di cibo si parla moltissimo. In particolare in Italia, che quest’anno è la capitale mondiale dell’alimentazione grazie ad Expo 2015, evento mondiale che nella presente edizione è interamente focalizzato su questo tema e che è diventato anche un’occasione per riflettere sull’uso e sul consumo che le società moderne fanno del cibo. Un uso altamente problematico, considerato che intorno al cibo la modernità

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L’educazione alimentare è oggi una vera priorità. Il cibo infatti è un bisogno primario, una risorsa ma anche un problema. L’approccio ideale dovrebbe essere globale e basato su differenti strategie


mondo occidentale e con una diffusione epidemica sempre più intensa anche in età infantile, tanto che l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ne parla in termini di “epidemia globale”. In Italia, il sistema di sorveglianza per i bambini delle scuole primarie nato nel 2007 nell’ambito del Ministero della Salute, “Okkio alla Salute” (www.epicentro.iss.it/okkioallasalute/pdf2015/ SINTESI_16gen.pdf), ha evidenziato che nel 2014 nel nostro paese i bambini in sovrappeso sono risultati il 20.9% e i bambini obesi il 9.8%, compresi quelli severamente obesi che da soli costituivano il 2.2% del campione totale. Tra l’altro, un bambino su quattro non

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ha generato problemi e aspetti disfunzionali che erano sconosciuti alle generazioni passate. Per esempio, la nostra epoca è quella in cui ogni giorno milioni di persone rischiano di morire di fame, ma in cui al tempo stesso lo spreco alimentare è una questione che riguarda l’intero mondo occidentale. Il Rapporto 2014 sullo spreco alimentare domestico realizzato da Waste Watchers (www. lastminutemarket.it/media_news/wpcontent/uploads/2014/07/RAPPORTOW-W-2014_comunicato.pdf) ha dimostrato che ogni famiglia italiana butta in media 630 grammi di alimenti ogni settimana e che ogni anno lo spreco domestico costa agli italiani 8.1 miliardi di euro, circa 6.5 euro settimanali a famiglia. Così come quello sprecato, anche il cibo consumato è spesso fonte di problemi nel mondo occidentale. Ciò che mettiamo nel piatto e connota il nostro stile alimentare può essere in realtà fattore di rischio per la salute e causa di enormi problemi di sanità pubblica. Sovrappeso, obesità, diabete di tipo due, patologie di natura cardiovascolare su base nutrizionale sono tutti aspetti con incidenza e prevalenza in crescita nel

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consuma frutta e verdura tutti i giorni e gli stessi genitori sembrano avere poca consapevolezza dell’eccesso di peso e delle conseguenze che da esso derivano per la salute dei propri figli: infatti, tra le madri di bambini in sovrappeso od obesi, il 38% ritiene che il proprio figlio sia sottopeso-normopeso e solo il 29% pensa che la quantità di cibo da lui assunta sia eccessiva.

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LINEE gUIdA PER UNA CORRETTA ALIMENTAZIONE

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Figura 1 – La piramide alimentare ideata dal Dipartimento statunitense dell’Agricoltura (USDA) nel 1992 che ha ispirato tante altre piramidi simili a livello internazionale. È strutturata a fasce orizzontali e in basso si trovano i gruppi di alimenti da consumarsi in maggior quantità e con più frequenza. Dalla base verso l’alto,

da destra a sinistra si trova: • 6-11 porzioni: pane, cereali, riso e pasta; • 2-4 porzioni: frutta fresca; • 3-5 porzioni: vegetali; • 2-3 porzioni: carne, pollame, pesce, uova, legumi secchi e frutta a guscio; • 2-3 porzioni: latte, yogurt e formaggi;

• usare con parsimonia: zuccheri e grassi. In alto a destra nel riquadro: pallini = grassi (in natura e aggiunti); triangolini = zuccheri (aggiunti). Questi simboli mostrano i grassi e gli zuccheri aggiunti negli alimenti. (Fonte: USA - Dipartimento dell’Agricoltura/Dipartimento della Salute e dei Servizi Umani).

Figura 2 – Nel 2005 il Dipartimento statunitense dell’Agricoltura modificò la piramide della Figura 1. Nella nuova piramide furono conservati i sei gruppi di alimenti, ma le fasce orizzontali furono sostitu-

ite con sei strisce verticali colorate. Da sinistra a destra: • arancione: cereali e derivati, preferibilmente integrali; • verde: verdura fresca; • rosso: frutta fresca;

• gialla: olio e grassi; • blu: latticini; • viola: carne, pesce e legumi freschi. (Fonte: USA - Dipartimento dell’Agricoltura/Dipartimento della Salute e dei Servizi Umani).

ducare al cibo, all’alimentazione sana, al consumo sostenibile, alla scelta di comportamenti che ci permettano di avere uno stile di vita orientato al benessere è oggigiorno una priorità soprattutto per chi vive e lavora a contatto con i bambini. Per questo moltissime nazioni e numerose Istituzioni pubbliche e organismi scientifici hanno redatto, negli ultimi decenni, standard e linee guida per aiutare le popolazioni ad adottare uno stile alimentare adeguato. Quasi tutte si ispirano al modello proposto nella piramide alimentare (Fig.1), un grafico concepito per indicare con praticità ed immediatezza il modo corretto di alimentarsi e i criteri da adottare in una dieta “ideale”. Introdotta dal dipartimento statunitense dell’Agricoltura (USdA) nel 1992, la piramide risulta di facile interpretazione perché insegna come alimentarsi basandosi su un principio visivo-spaziale: gli alimenti da consumare in maggiore quantità, infatti, sono quelli posti alla sua base. Ai livelli successivi sono invece rappresentati alimenti il cui consumo è da limitare, con andamento decrescente. Il modello originale del 1992 è stato modificato nel 2005: le fasce orizzontali sono state rimpiazzate con sei strisce verticali integrate in una grafica che sottolinea l’importanza dell’attività fisica quotidiana, ritenuta elemento indispensabile per il raggiun-

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LA SCUOLA a scuola è un ambito ideale per promuovere l’educazione alimentare: lì si trovano tutti i soggetti in età evolutiva che stanno mettendo a punto lo stile alimentare che li accompagnerà per l’intera esistenza. Una buona educazione alimentare oggi necessita di un approccio olistico al tema del cibo. Proprio perché l’alimentazione è una dimensione della nostra vita che incrocia le tre dimensioni che connotano la salute secondo la definizione dell’OMS (salute come equilibrio tra corpo, mente e relazioni dell’individuo), propongo tre direzioni di educazione ad un corretto stile alimentare che partono da tre differenti approcci, tutti utili in età evolutiva e tutti da integrare in un progetto di prevenzione che si rivolge ai minori.

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L’approccio nutrizionale A scuola gli studenti consumano numerosi pasti. Tutti infatti fanno la merenda di metà mattina, mentre una percentuale considerevole usufruisce del servizio di mensa scolastica per il pranzo. I docenti possono perciò osservare gli

Coinvolgere gli alunni in progetti educativi alimentari si rivela di fondamentale importanza stili alimentari dei propri alunni, fare attenzione ad eventuali abitudini scorrette e promuovere interventi educativi finalizzati alla loro modifica. Coinvolgere gli alunni in progetti educativi che li aiutino a seguire delle linee guide per una sana alimentazione e ad applicarle al loro stile di vita si rivela di fondamentale importanza. In questo senso l’approccio più popolare a livello internazionale è quello rappresentato dalla campagna educativa “Five a day” (“Cinque al giorno”), che ha cercato di favorire il consumo di almeno cinque porzioni quotidiane di frutta e verdura sulla base di un’indicazione fornita dall’OMS che raccomanda il consumo individuale di «un minimo di 400 g di frutta e verdura al giorno (con l’esclusione di patate e altri tuberi)». L’approccio basato sull’educazione ai media Sono numerosissime le ricerche che dimostrano come TV e nuovi media abbiano un impatto enorme sulla salute

linee guida per una sana alimentazione italiana 1. Controlla il peso e mantieniti sempre attivo. 2. Più cereali, legumi, ortaggi e frutta. 3. grassi: scegli la qualità e limita la quantità. 4. Zuccheri, dolci e bevande zuccherate: nei giusti limiti. 5. Bevi ogni giorno acqua in abbondanza. 6. Il sale? Meglio poco. 7. Bevande alcoliche: se sì, solo in quantità controllata. 8. Varia spesso le tue scelte a tavola. (INRAN, 2003)

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gimento e il mantenimento del benessere psicofisico (Fig. 2). Anche in Italia, in continuità con quanto presentato nella piramide alimentare, nel 2003 sono state pubblicate dall’INRAN (Istituto Nazionale di Ricerca per gli Alimenti e la Nutrizione, afferente al Ministero delle Politiche Agricole e Forestali) alcune “Linee guida per una sana alimentazione italiana”. Tali Linee sono riassumibili in 8 semplici regole generali (si veda il Box) completate da alcune indicazioni specifiche dedicate alle “persone speciali” e al controllo dei cibi, secondo un approccio globale che a fianco degli aspetti puramente nutrizionali tiene conto dei principi fondamentali sulla sicurezza alimentare e sulle diversità individuali.

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Ogni nostro comportamento, anche alimentare, è oggi il risultato di scelte individuali potentemente influenzate dalle strategie di marketing dei soggetti in età evolutiva. Il tempo trascorso davanti allo schermo, infatti, influenza la salute nutrizionale dei minori in più modi: • determinando uno squilibrio tra apporto calorico e dispendio energetico, dovuto all’inattività fisica e al cosiddetto fenomeno del “multisnacking”, ovvero l’abitudine di consumare spuntini, mentre si rimane concentrati su quello che viene trasmesso; • generando bisogni e desideri alimentari attraverso un martellamento pubblicitario continuo, che ha proprio negli snack e in cibo dallo scarso valore nutrizionale e dall’alto potere calorico alcuni tra gli alimenti più rappresentati.

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Ogni nostro comportamento è oggi il risultato di scelte individuali potentemente influenzate dalle strategie di

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marketing di multinazionali e di aziende locali al fine di favorire il consumo dei propri prodotti. I consumi alimentari non si sottraggono a questa regola. Il potere di suggestione degli spot può e deve essere ridimensionato, anche promuovendo nei più piccoli un’analisi critica dei molti messaggi pubblicitari che ogni giorno compaiono, direttamente e indirettamente, nei loro programmi televisivi preferiti o nei siti web che frequentano. Negli Stati Uniti questa emergenza è stata affrontata attraverso curricola educativi a diffusione nazionale, come il “Media SmartYouth: Eat, Think and BeActive” (Mangia, Pensa e Stai attivo), sviluppato nel 2005 dal National Institute of Child Health and Human development, un programma rivolto agli studenti delle scuole primarie e secondarie. Il focus di questo progetto, completamente basato sui principi dell’educazione ai media, consiste nell’aiutare i giovanissimi a diventare consapevoli del ruolo che questi ultimi hanno nell’influenzare le loro scelte alimentari e motorie, a pensare criticamente rispetto ai messaggi che ricevono, così da appren-


L’approccio basato sull’immagine corporea In età evolutiva, in particolare in preadolescenza e adolescenza, i comportamenti alimentari dei giovanissimi vengono potentemente condizionati dal loro desiderio di avere un corpo bello e che piaccia agli altri, condizione considerata un pre-requisito per il successo personale e sociale. Quella in cui viviamo, tra l’altro, è una società ossessionata dal valore della bellezza, che sempre più spesso viene declinata, soprattutto per le ragazze, in magrezza. Ovvero, il corpo bello, secondo i canoni imposti dal contesto socioculturale attuale, non è un corpo sano, bensì un corpo magro, per ottenere il quale molti soggetti in età evolutiva sono disposti anche a mal-nutrirsi, se non addirittura a de-nutrirsi. In questo senso, educare a una sana alimentazione – soprattutto in preadolescenza e adolescenza – presuppone ri-fondare e ridefinire insieme agli alunni i pre-requisiti su cui ciascuno basa le caratteristiche della propria autostima corporea e stabilizza a livello intrapsichico la propria immagine corporea ideale. Aiutare chi sta crescendo a non interiorizzare – per sé – un’immagine corporea ideale troppo lontana da quella reale e non eccessivamente ispirata allo stereotipo corporeo proposto dai media agli adolescenti si rivela un pre-requisito che permette poi di po-

Un corpo bello, secondo i canoni imposti dal contesto socioculturale attuale, non è un corpo sano, bensì un corpo magro ter educare ad una sana alimentazione, sulla base del principio che un corpo è bello in quanto sano e non in quanto magro. Molti dei progetti di educazione alimentare rivolti oggi agli adolescenti si muovono proprio in questa prospettiva che privilegia alcuni aspetti psicologici e socioculturali rispetto ad altri puramente nutrizionali.

CONCLUSIONI educazione alimentare in età evolutiva oggi si presenta come una disciplina alquanto variegata che deriva i propri strumenti e i propri obiettivi educativi da molte differenti strategie educative, quali l’educazione ai media, l’educazione emotiva e l’educazione alla salute. Educare a mangiare sano implica sostenere i soggetti in età evolutiva non solo a scegliere il cibo migliore per il proprio benessere, ma anche ad orientare il proprio stile di vita verso valori etici e verso la consapevolezza che l’alimentazione è anche una strategia di consumo etico e responsabile nel rispetto di sé, degli altri e dell’ambiente.

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Riferimenti bibliografici Goris J. M., Petersen s., staMatakis e., VeerMan J. L. (2010), «Television food advertising and the prevalence of childhood overweight and obesity: A multicountry comparison», Public Health Nutrition, 13 (7), 1003-1012. inran (2003), Linee guida per una sana alimentazione italiana, www.nut.entecra.it sPurlock M. (2005), Super size me, DVD con libro, Feltrinelli, Milano. Wiecha J. l., Peterson k. e., ludWiG d. s., kiM J., sobol a., GortMaker s. L. (2006), «When children eat what they watch. Impact of television viewing on dietary in-

take in youth», Archieves of Pediatric & Adolescent Medicine,160, 436-442. Alberto Pellai, medico, psicoterapeuta dell’età evolutiva, ricercatore presso il Dipartimento di Scienze biomediche dell’Università di Milano, si occupa di prevenzione in età evolutiva e tutela della salute materno-infantile. È stato postdoctoral fellow al National Committee for Prevention of Child Abuse degli Stati Uniti. Recentemente ha pubblicato Baciare. Fare. Dire. Cose che ai maschi nessuno dice (Feltrinelli).

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dere competenze che permettano loro di fare scelte informate rispetto ai comportamenti specifici del proprio stile di vita che impattano sullo stato di salute. In questa prospettiva, uno strumento di grande utilità – disponibile anche nel nostro paese – è il documentario Super size me, diretto da Morgan Spurlock, che denuncia il modo in cui la cultura alimentare, imposta dal marketing delle catene di fast food presenti in tutto il mondo, induce comportamenti nutrizionali alquanto squilibrati nella popolazione e soprattutto nelle nuove generazioni.

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cinema e letteratura

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Youth - La giovinezza

c i n e m a e l e t t e r at u r a

Ciò che viene dopo la morte è futile, e per chi sa di essere vivo, la sequela dei giorni è tanto lunga». Così Albert Camus scrive a proposito di Don Giovanni in L’uomo in rivolta. A quel tempo, nel 1951, il più mediterraneo dei filosofi ha 38 anni. La vecchiaia per lui è lontana (e non la raggiungerà, morendo nel 1960). Sa però che l’anima di pietra del fu Don Gonzalo de Ulloa questo rimprovera al burlador: che non tema il sopraggiungere nefasto della vecchiaia, annuncio della morte, a sua volta fondamento di ogni fede in Dio e di ogni moralità impaurita. E sa che solo liberandosi dal peso del Convitato gli esseri umani possono trovare la felicità leggera d’essere vivi. A questa stessa felicità sembra alludere il recente film di Paolo Sorrentino Youth - La giovinezza (2015).

utti abbiamo ceduto alla tentazione della leggerezza, fa dire il regista a Jimmy. Il trentenne divo hollywoodiano si rivolge all’ormai ottantenne Fred, direttore d’orchestra e compositore in pensione. La sua tentazione, così sostiene Jimmy, sono state le Simple songs che, trenta o quarant’anni prima, gli sono valse un successo troppo facile, mai di nuovo raggiunto con opere ben più complesse. E ora Fred non vuole tornare a dirigerle, quelle canzoni troppo semplici e leggere, nemmeno su richiesta di sua maestà britannica. I due sono in vacanza tra le montagne svizzere, in un albergo di lusso che si prende cura dei suoi ospiti, molti dei quali onerati dagli anni, fardello greve almeno quanto il marmo di cui è fatta la statua del Commen-

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Da sinistra a destra: feroce, la macchina da datore. Tra questi c’è presa mostra corpi sfatti Mick, da sempre amico e sguardi senza luce; di Fred. Sceneggiatospiando una felicità lontana; re di talento e di fama, fuori dalla gabbia, una Mick cerca di termileggerezza nuova? nare la scrittura di un In alto a destra: testo che immagina la locandina del film. sarà il suo testamento professionale. Questa sorta di monumento a se stesso dovrà concludersi con le parole pronunciate dal protagonista – in sostanza, da lui – in punto di morte. O magari con il suo silenzio, suggello (artistico) ancora più tragico e ancora più compiaciuto di una biografia.

ono il precipitare del tempo e il declinare della vita il cuore del film di Sorrentino. Feroce, la macchina da presa mostra l’uno e l’altro nei corpi sfatti di uomini e donne persi tra i vapori densi delle saune, abbandonati nell’acqua delle piscine terapeutiche, consunti nei primi piani e nei troppi sguardi senza luce. Feroce, ancora, indugia sul corpo gonfio, irriconoscibile di un non

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figli avrebbero voluto, o di non essere riusciti a far sentire ai loro figli quanto essi valessero per loro. E poi, certo, si difendono dalla brevità crudele del tempo, del loro tempo. Per un giovane, dice Mick ai suoi giovani cosceneggiatori, il tempo è come un cannocchiale che veda il futuro come una promessa vicina. Per un vecchio, invece, quel cannocchiale si rovescia, mostrando solo il passato, lontanissimo. Per quel che lo riguarda, Mick progetta di trasformare questa “visione” in un’opera d’arte, che del suo finire fissi e mostri un senso. Ma a chi potrà interessare, gli obietta brenda, l’amica di una vita che dovrebbe interpretare il film? E forse intende: a chi potrà interessare il ripiegarsi su se stesso di un vecchio, il suo raccontare la propria morte come un evento degno di esser celebrato?

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er paradosso, aggiungiamo, del declinare d’una vita può raccontare non un vecchio, ma un giovane. Forse un divo trentenne come Jimmy, in un personaggio ipotetico di un ipotetico film. O un regista quarantacinquenne come Sorrentino, all’i-

nizio della sua maturità d’autore, a metà cammino tra una promessa di futuro e un passato che inizia a delinearsi sullo sfondo. Questa sua “posizione” gli consente di guardare al compiersi della brevità del tempo, senza pagare il prezzo dell’autocommiserazione.

Che cosa vede nel suo cannocchiale rovesciato l’autore di Youth - La giovinezza? A noi pare veda quello che, con la sua splendida leggerezza, vedeva sessantaquattro anni fa Albert Camus. Questo, alla fine, scopre Fred: oltre la porta dell’albergo, lontano dalla sua patetica messa in scena “terapeutica”, lo aspetta la giovinezza, almeno finché sarà capace di sentirsi vivo. È la leggerezza che glielo può di nuovo rammemorare. La stessa leggerezza con cui l’ex campione si fa padrone del suo corpo gonfio e dei suoi piedi appesantiti, facendo danzare nell’aria il giallo solare di una pallina da tennis. La stessa leggerezza, ancora, da cui Fred ha fatto nascere trenta o quarant’anni prima le sue “semplici canzoni”, che ora non esiterà a riportare in vita. L’anima di pietra del fu Don Gonzalo de Ulloa può attendere.

RObERTO ESCObAR Università di Milano

c i n e m a e l e t t e r at u r a

più giovane ex campione (Diego Maradona, nella parte di se stesso). Poi, addirittura più crudele e diretta, la sceneggiatura racconta quel precipitare e quel declinare attraverso i dialoghi di Fred e Mick: parole ed espressioni percorsi da sarcasmi che hanno l’aria di nascere da un’indifferenza coraggiosa di fronte all’avvicinarsi della fine, e che valgono invece come una paradossale ultima difesa. Da che cosa si difendono, il vecchio musicista e il vecchio uomo di cinema? Forse dal rimpianto di non essere stati i padri che i loro

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Psicologia aeronautica

Come sono valutati i piloti dell’aviazione civile? settembre-ottobre 2015

AndreA CAstiello d’Antonio

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Il 24 marzo 2015, il volo 9525 della compagnia tedesca Germanwings si schianta sulle Alpi francesi. Il ventottenne copilota, Andreas Lubitz, lasciato solo ai comandi per un breve lasso di tempo, deliberatamente avvia un’inesorabile discesa verso le vette delle Alpi e lascia che l’aereo con 144 passeggeri e 6 membri dell’equipaggio si sfracelli sulle rocce. Nessun superstite dell’equipaggio di condotta e di cabina e delle comunicazioni aria-terra e terraaria. sostanzialmente, si possono individuare studi, ricerche e interventi indirizzati, di volta in volta, verso l’uno o l’altro dei macrosettori costituiti dall’aviazione civile e da quella militare (tralasciando l’aspetto del volo al di fuori dell’atmosfera terrestre) e dalle situazioni specifiche che fanno riferimento ad aeromobili ad ala fissa e ad ala rotante (elicotteri).

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ell’ambito delle applicazioni della psicologia ai contesti lavorativi è emersa, da tempo, una branca specifica denominata inizialmente Aviation Psychology e successivamente Space & Aviation Psychology, che pone al centro lo studio dell’essere umano nelle condizioni di volo, ma non soltanto. È l’intero “mondo del volo” ad essere preso in considerazione: comandanti e piloti, assistenti di volo e tecnici, ma anche altre fondamentali figure professionali come i controllori del traffico aereo, che potremmo definire gli “occhi dei cieli”, dato che il loro ruolo consiste nel monitorare le traiettorie e gestire il traffico aereo. la psicologia dell’aeronautica (e la sua stretta parente, la medicina aeronautica) si è sviluppata soprattutto per offrire risposte operative al tema della scelta e della selezione dei piloti, ma ha ben presto ampliato il suo raggio di azione e oggi copre un campo esteso: dallo studio degli stress psicofisici durante il volo, all’analisi del cosiddetto fattore dell’errore umano nei casi di disastri aerei o delle più frequenti quasi-collisioni, dall’ergonomia degli spazi interni dei velivoli alla gestione della sicurezza, dalla formazione degli equipaggi ai modelli di leadership incarnati dai comandanti e dai primi ufficiali, fino ai temi del management

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ulteriori aspetti indagati nell’ambito dell’aviazione civile sono il comportamento dei passeggeri nelle situazioni di emergenza o di dirottamento e l’impatto psicologico dei disastri aerei. naturalmente, al centro di numerose questioni rimangono le delicate fasi della scelta e selezione dei piloti (civili e militari), della loro formazione nel contesto dei programmi di training psicologico e tecnico-operativo, e della valutazione periodica cui sono sottoposti nel quadro dell’avanzamento di carriera.

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le origini

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storicamente, la psicologia dell’aviazione risale allo sviluppo di test di selezione per i piloti nel corso della prima guerra mondiale» (Jensen, 1991) e un secondo, forte impulso all’evoluzione della disciplina si è avuto in occasione del secondo conflitto mondiale. tali radici danno conto del maggiore interesse dedicato, finora, all’aviazione militare, da un lato, e al personale di condotta (piloti e comandanti), dall’altro. nel contesto italiano non si può dimenticare il fondamentale contributo del francescano agostino gemelli (1878-1959), psicologo e psichiatra, il quale, nel corso della grande guerra, fu chiamato dal comando supremo del regio esercito come consulente per la selezione psicologica dei piloti dell’aeronautica militare. nel 1916 gemelli assunse l’incarico in collaborazione con il professor amedeo Herlitzka (successore di angelo Mosso nella cattedra di Fisiologia all’università di torino) e con l’asso dei cieli Francesco Baracca. Dopo aver studiato il ruolo professionale, intervistato i piloti al ritorno dalle missioni e sperimentato personalmente la condizione del pilotaggio (negli anni trenta conseguì egli stesso il brevetto di volo), comprendendo l’importanza dell’esame psicologico e non solo me-

dico dei candidati istituì vari centri per le ricerche di psicofisiologia dell’aviazione e a Milano il laboratorio di psicologia (diretto da Herlitzka fino al 1924). gemelli è considerato il fondatore della Psicologia dell’aviazione e della Medicina aeronautica in europa in quanto è stato tra i primi a considerare non solo gli aspetti fisiologici di idoneità al volo (età, peso, altezza), ma anche quelli psicologici e attitudinali, dando spazio alle pionieristiche indagini sulle motivazioni, le aspettative e l’equilibrio emotivo dei candidati (compreso ciò che egli definì il possesso di “chiare qualità positive” necessarie per adempiere al ruolo di pilota). si deve infatti ricordare che in quei tempi gli unici requisiti richiesti al candidato pilota erano così declinati: «salute, vista, udito, ottimi. Peso non superiore a kg 75». nel 1942, gemelli pubblicò La psicologia del pilota di velivolo, nel quale fornì l’impostazione metodologica alla materia e ne definì gli aspetti de-

ontologici; per primo parlò di sicurezza del volo e dell’importanza del rapporto uomo-macchina. È trascorso un secolo da allora, ma non sembra che il suo insegnamento sia stato pienamente raccolto.


ggi disponiamo di tre grandi metodologie di valutazione psicologica che dovrebbero essere utilizzate soprattutto per i ruoli di maggiore responsabilità, compresi quelli di pilota e di comandante nell’aviazione civile: il colloquio individuale clinicoorganizzativo, gli assessment di gruppo e il testing psicologico. Per valutare il candidato pilota sarebbe necessario che fossero applicati tutti e tre questi metodi, da parte di esaminatori psicologi diversi, al fine di integrare le informazioni e costruire una rappresentazione completa, globale, dinamica e quindi sufficientemente affidabile del candidato. nell’ottica dell’assessment clinico-organizzativo occorrerebbe svolgere colloqui di psicodiagnosi approfondita, ampliare la gamma dei questionari e dei test psicologici utilizzando anche

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le tecniche proiettive e semiproiettive, e inserire le sessioni sociodinamiche di assessment in gruppo che, uniche, possono offrire informazioni su un’ampia gamma di capacità soggettive. ciò che si dovrebbe evitare – e, dalle informazioni diffuse dalle istituzioni competenti dopo il drammatico caso del volo 9525 della germanwings, è ciò che invece oggi costituisce il nucleo delle operazioni selettive – è affidarsi a valutazioni monodimensionali e a poche tecniche di diagnosi psicologica. in italia l’iter per conseguire le diverse tipologie di “licenze aeronautiche” e

si dovrebbe evitare di affidarsi a valutazioni monodimensionali e a poche tecniche di diagnosi psicologica

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la selezione Dei Piloti

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Da più parti viene criticata la tendenza ad assegnare priorità e preminenza alla selezione psichiatrica rispetto a quella psicologica di “abilitazione” è di competenza degli iMl, i due istituti Medico-legali (ora iMas – istituti di Medicina aerospaziale) dell’aeronautica Militare, angelo Mosso di Milano e aldo di loreto di roma, o di un ambulatorio della sanità Marittima del Ministero della salute (tali istituti si occupano anche del controllo periodico di piloti, navigatori, equipaggi e assistenti di volo). le fasi delle procedure selettive e addestrative sono illustrate nei siti di enac e di alitalia, ma ciò che qui interessa ruota intorno all’accertamento della cosiddetta idoneità psicofisica, segnatamente nella dimensione psicologica. se è del tutto ragionevole concordare con gli obiettivi di tali accertamenti – per esempio, accertare la tendenza all’uso di sostanze

stupefacenti o psicotrope, il rischio di suicidio, la presenza di segnali di depressione, l’abuso di alcol – la questione riguarda le modalità con le quali si realizza la valutazione, e la regolarità con la quale tale assessment è riproposto al soggetto nel corso della sua carriera di pilota. Da più parti (anche a livello internazionale) viene criticata la tendenza ad assegnare priorità e preminenza alla selezione psichiatrica rispetto a quella psicologica. nello specifico, la prassi di affidarsi sostanzialmente ad un unico test di personalità (il Minnesota Multiphasic Personality inventory-MMPi), inviare il candidato a colloquio psicologico solo in casi di “sospetto”, e su indicazione del medico/psichiatra, e ignorare del tutto la valutazione in gruppo, non appaiono procedure al passo con i tempi e con le attuali conoscenze elaborate nel contesto dell’assessment psicologico nei ruoli di responsabilità. inoltre, anche nella documentazione europea, si fa specifico riferimento all’accertamen-

Germanwings: un caso non isolato nche se può sembrare assurdo, vi sono stati diversi altri episodi di suicidio compiuti da piloti al comando sia di ultraleggeri, sia di aerei di linea, nel contesto dell’aviazione civile. il 9 febbraio del 1982 un Dc-8 della Japan airlines precipitò in mare poco prima di atterrare a tokyo: la commissione d’inchiesta accertò che il comandante (che aveva già manifestato “disturbi nervosi”) aveva manovrato al fine di far precipitare l’aereo in mare, causando la morte di 24 persone mentre 150 rimasero ferite. nel novembre del

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2013, il jet Mozambique airlines e-190 con 33 persone si schiantò in namibia: uno dei due piloti si era chiuso nel cockpit e aveva deliberatamente modificato le impostazioni di volo. altri episodi sono invece rimasti incerti. È il caso, per esempio, del Boeing 777 della Malaysia airlines in servizio fra Kuala lumpur e Pechino, dato per disperso l’8 marzo 2014 nell’oceano indiano dopo aver trasmesso una serie di dati in modalità automatica, che non è stato mai ritrovato. cosa è possibile apprendere dal tragico evento dell’airbus

a320-200 della germanwings e da casi simili? sicuramente molto, e l’occasione non dovrebbe essere trascurata né persa. nella gestione di piloti e comandanti il primo passo fondamentale è certamente scegliere le persone adatte, ma ciò non è sufficiente. una volta superata la fase di selezione iniziale il pilota, come evidenziamo anche nel paragrafo “oltre la selezione”, dovrebbe essere monitorato ciclicamente dal punto di vista psicologico e non solo medico, osservandone la condotta durante l’aggiornamento professionale, facendogli


to dell’idoneità psicofisica realizzata per mezzo del rapporto, o certificato, “medico”, come se la dimensione psicologica fosse automaticamente compresa nella dimensione medica.

oltre la selezione ome già accennato all’inizio, l’ambito della psicologia dell’aviazione va ben oltre la selezione e la valutazione dei piloti. Per esempio, uno dei suoi maggiori contributi ha riguardato l’area della formazione: il crew resource Management (crM) è stato sviluppato, infatti, a fine anni settanta in ambito nasa sulla base delle indagini che avevano messo in rilievo importanti fonti di errore umano nella catena di cause che portano agli incidenti aerei. nello specifico, furono individuate delle “falle” nel processo di decision making, nella comunicazione e nell’esercizio del comando. Fu così organizzato un team di psicologi al fine di ideare un nuovo ti-

ripetere regolarmente test e colloqui psicologici, offrendo il supporto del counseling psicologico nei casi appropriati. al fine di rendere davvero sicuro il traffico aereo commerciale si dovrebbe predisporre, infatti, una rete professionale di psicologi e psichiatri, in veste di counselor, da poter interpellare nei momenti in cui il pilota vive situazioni di difficoltà personale, relazionale ed esistenziale. Questa rete dovrebbe essere messa a disposizione non soltanto di piloti e comandanti, ma anche degli assistenti di volo (senza considerare una terza categoria, che sembra essere del tutto trascurata nell’attuale dibatti-

to, che è quella dei controllori del traffico aereo). infine, il caso germanwings testimonia in modo eclatante una realtà che è ben nota agli addetti ai lavori. infatti, pressoché nessuno, sia tra i piloti che tra il personale di cabina (assistenti di volo), comunica spontaneamente di avere problemi psicologici alla propria struttura di appartenenza, pur se normativamente sarebbe obbligato a farlo, dato che la risposta che tende ad attivarsi in tali situazioni è di impedire immediatamente al soggetto di esercitare la propria professione (ritiro temporaneo del permesso di volo, e/o messa a terra). Vi è quindi un aspetto di carattere normativo-puni-

tivo che induce a evitare il possibile intervento di recupero e cura della situazione di sofferenza soggettiva manifestata, con la conseguenza che la persona tace sulla propria condizione, adotta vari sistemi di autocura, oppure si rivolge privatamente a professionisti esterni. Dunque, la situazione paradossale che si evidenzia è la seguente: da un lato, il pilota in difficoltà non comunica (o nasconde) il proprio disagio psicologico alla compagnia (compresa l’eventuale angoscia per il volo, o aerofobia), dall’altro, gli enti preposti non attivano monitoraggi psicologico-psichiatrici regolari nel corso della sua carriera.

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Aviation Psychology a psicologia dell’aeronautica è oggi internazionalmente rappresentata da diverse associazioni scientifico-professionali in cui sono presenti psicologi, medici, ingegneri, piloti e altre figure professionali. in europa l’associazione di riferimento è la eaaP – european association for aviation Psychology (www. eaap.net/).

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Diverse riviste internazionali si occupano di una moltitudine di aree come l’ergonomia, l’interazione uomo-macchina, le tematiche di gestione e comunicazione, la gestione dello stress dei controllori del traffico aereo, e di aspetti ancora più specifici come i problemi psicologici dei piloti militari abbattuti in combattimento e fatti prigionieri, la situatio-

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nei controlli medici periodici, l’aspetto psicologico, esistenziale e di vita organizzativa non è preso in considerazione

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po di training psicologico, da affiancare all’addestramento tecnico. Da quando è nata ad oggi, questa tipologia di Human Factor training si è sviluppata ed evoluta rapidamente, tanto che generalmente ci si riferisce alla storia del crM in termini di cinque “generazioni”. Dal punto di vista del monitoraggio delle condizioni psicologiche dei piloti, il tema scottante che è emerso sull’onda del caso germanwings è rappresentato dalla completa assenza di un ciclico controllo psicologico (non medico) nel corso della vita professionale, e dall’assenza di una precisa valutazione psicodiagnostica nel momento in cui il pilota assurge al ruolo di comandante. ciò che caratterizza la vita del pilota è il controllo medico cadenzato ogni anno – successivamente ogni sei mesi – effettuato dalle stesse strutture medicolegali che si sono occupate della selezione iniziale e che hanno il compito di rilasciare l’idoneità al volo. Dunque, con l’inizio della carriera di pilota di linea prendono il via i controlli medici

nal awareness, e l’influenza sui passeggeri delle catastrofi aeree civili. tra le riviste più significative ricordiamo: International Civil Aviation Organisation Journal, Aviation, Space and Environmental Medicine; Journal of Travel Medicine; Human Factors; The International Journal of Aviation Psychology; Aviation Psychology and Applied Human Factors.

annuali, ma si tratta di controlli medici nei quali l’aspetto psicologico, esistenziale e di vita organizzativa (poiché le compagnie aeree sono a tutti gli effetti organizzazioni di lavoro) non è preso in considerazione. Perché i normali sistemi di gestione, valutazione e sviluppo delle risorse umane utilizzati nel mondo aziendale non sono applicati ai piloti e al personale di volo? Perché per diventare comandante non è prevista una valutazione psicologica approfondita sulle qualità di base della persona e sulle sue capacità di leadership? le domande che sorgono sono pertanto numerose, nonostante diversi vertici istituzionali – all’indomani del crash dell’airbus a320-200 della germanwings – si siano affrettati a dichiarare che “il sistema funziona” e che l’obbligo del doppio pilota in cabina di comando “sicuramente” impedirà il verificarsi di fatti come quello accaduto nel marzo del 2015. in realtà, per appurare che un sistema funzioni veramente, si dovrebbe innanzitutto esplicitare con trasparenza i suoi meccanismi, e successivamente permettere a soggetti indipendenti di verificarne il funzionamento (passato e attuale). Vi sono dunque numerosi spunti che potrebbero oggi essere presi in considerazione al fine di migliorare il mondo del


occorrerebbe superare la dicotomia tra medici/psichiatri e psicologi, assegnando la medesima dignità professionale allo psicologo clinico

Riferimenti bibliografici Bor r., HuBBard T. (2006), Aviation mental health, Ashgate, Aldershot. CasTiello d’anTonio a. (2010), «Aerofobia», Psicologia contemporanea, 222, 40-44. Gemelli a. (1942), «La psicologia del pilota di velivolo». In A. Monaco, A. Gemelli, R. Margaria (a cura di), Trattato di medicina aeronautica (vol. II), Ufficio Editoriale Aeronautico, Roma. Jensen r. s. (1991), «Editorial», The International Journal of Aviation Psychology, 1 (1), 1-3.

lauBer J. K. (1984), «Resource management in the cockpit», Air Line Pilot, 53, 20-23. rosCoe s. n. (1980), Aviation Psychology, Iowa State University Press, Iowa City. Andrea Castiello d’Antonio, psicologo clinico e psicoterapeuta, professore straordinario presso l’Università Europea di Roma. Ha pubblicato numerosi volumi e articoli principalmente sulle applicazioni sociali, cliniche e lavorative della psicologia.

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volo e rendere l’aviazione civile più sicura. in primo luogo occorrerebbe superare la dicotomia – e spesso l’incomprensione – tra medici/psichiatri e psicologi, assegnando la medesima dignità professionale al lavoro dello psicologo clinicoorganizzativo rispetto a quelli del medico e dello psichiatra, e realizzando dei team multi-professionali in cui gli operatori possano davvero integrare le loro conoscenze scientifiche professionali, evitando le lotte di potere per chi deve avere l’ultima parola sull’idoneità di un candidato al ruolo di pilota. in altri contesti culturali, diversi dal nostro, psichiatri e psicologi collaborano allo scopo di studiare e intervenire su ogni aspetto del volo che abbia un collegamento con il cosiddetto “fattore uma-

no”. sarebbe utile e intelligente se nel nostro paese la psicologia dell’aviazione venisse almeno presa in qualche considerazione da coloro che hanno l’autorità di decidere come impostare i programmi di selezione, formazione e valutazione del personale dell’aria. se si vuole seriamente cercare di prevenire altri episodi come quello del volo 9525 della germanwings è necessario ripensare completamente la gestione del personale di volo, dalle prime fasi di selezione fino agli stadi conclusivi della carriera.

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cattivi pensieri

Contro i bambini (e le loro mamme) el nostro paese l’offerta di servizi per la primissima infanzia, per quanto migliorata negli ultimi vent’anni, è fortemente carente e disomogenea, con vistose differenze regionali. Nel 2010 le statistiche indicavano che in media solo il 10% dei bambini italiani frequentava il nido, con punte intorno al 30% nelle zone maggiormente servite, situate perlopiù al Nord o nelle grandi città. Oggi queste percentuali rischiano di ridursi ulteriormente, poiché sono numerosi i comuni che stanno chiudendo o accorpando i nidi. Non solo quindi diminuisce il numero dei posti disponibili, ma questi rischiano di essere di difficile accesso, vista l’età dei bambini, le loro particolari esigenze e le difficoltà di trasporto. La giustificazione che viene data per la riduzione del numero dei nidi è economica: la progressiva riduzione dei finanziamenti renderebbe impossibile la continuazione del servizio. Sulla motivazione unicamente economica di queste decisioni è lecito avere dei dubbi. Esse sottendono infatti una concezione dello sviluppo infantile e del ruolo delle madri – e più in generale degli adulti – che fa ritenere il nido superfluo quando non addirittura nocivo. Per quanto sia ormai chiaro da decenni agli studiosi e operatori della prima infanzia che il nido è un servizio non solo sociale e assistenziale ma soprattutto educativo, questa consapevolezza non si è ancora sufficientemente diffusa né tra le famiglie né tra gli enti pubblici. Ne sono la prova sia la scarsa diffusione del servizio sul territorio nazionale, con zone in cui esso è di fatto inesistente, sia lo scarso interesse per tutte le forme alternative o integrative al nido, come micronidi o tate

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familiari. Sono forme che potrebbero venire incontro alle esigenze sociali ed educative dei bambini e delle famiglie, offrendo maggiore flessibilità e minori costi di gestione. Solo poche regioni italiane si sono attivate in questi anni per offrire questi servizi e la loro possibilità non viene nemmeno presa in considerazione da chi pensa oggi solo a chiudere i nidi. erdura la radicata convinzione che sia preferibile per i bambini essere accuditi solo dalle mamme o da altri adulti della famiglia. Di conseguenza, il ricorso ai nonni non è soltanto il frutto di una valutazione economica, ma anche di una mentalità che considera superflua, quando non nociva, la presenza dei coetanei nei primi anni di vita. Si dimentica che molte competenze sociali si sviluppano non nella relazione diretta con l’adulto, bensì con i coetanei. Almeno a partire dall’anno e mezzo, il rapporto con i soli adulti, per quanto necessario, non è sufficiente per lo sviluppo di capacità emotive e sociali che saranno poi cruciali nelle età seguenti. Ne è un chiaro esempio la cooperazione. Essa non si può sviluppare nel solo rapporto con l’adulto, a causa della condizione asimmetrica di relazione educativa e di sviluppo psicologico che esiste tra questi e il bambino. Solo dall’incontro, e anche dall’inevitabile scontro, con chi ha le stesse capacità cognitive e sociali, possono evolvere nel bambino le competenze indispensabili per un buon sviluppo della capacità cooperativa. Per esempio, il fatto che un bambino rifiuti di condividere un giocattolo con un compagno non è in sé un’esperienza negativa e in ogni modo da evi-

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a possibilità di vivere al nido esperienze sociali con i coetanei è oggi determinante e unica per molti bambini. Fino a tempi non molto lontani i piccoli crescevano con fratelli, cugini, vicini di casa, in una prossimità che nulla toglieva alla profondità e ricchezza della relazione con la madre, ma che non isolava il bambino in un rapporto con soli adulti.

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Oggi non è più così. Già da alcuni anni in Italia la maggior parte dei bambini (circa il 47%) rientra nella categoria dei figli unici, mentre il 43% ha un fratello e solo il 10% ne ha due o più. In concreto, questo significa che molti piccoli rischiano di avere come unico riferimento, fino all’ingresso nella scuola dell’infanzia a tre anni, soltanto i genitori e i nonni. Ne risulta un rapporto numerico del tutto sbilanciato, con sei adulti che si occupano di un solo bambino, in assenza di continuative relazioni sociali con altri coetanei. Se si considerano questi aspetti, risulta chiaro che l’esperienza con i coetanei nel nido, o in altri servizi di qualità, non rappresenta un doloroso ripiego per i bisogni assistenziali delle donne che lavorano, anche se questo aspetto non va certo trascurato, in un paese in cui l’occupazione fuori casa riguarda meno della metà delle donne. Ancor più, essa è una possibilità di crescita per tutti i bambini, che rischiano oggi di trascorrere i primi anni della loro vita, in particolare il secondo e il terzo, in una condizione di preoccupante deprivazione sociale con i pari.

SILvIA bONINO

Dipartimento Di psicologia Università Di torino

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tare, come molti adulti ritengono. Al contrario, in un contesto educativo adeguato essa è un’esperienza positiva, che stimola la ricerca di nuove soluzioni più creative, ben differenti da quelle che potrebbero essere proposte dagli adulti. Sono soluzioni piene di inventiva, diverse sia dall’aggressione sia dalla rinuncia, in cui entrambi i piccoli possono divertirsi condividendo il medesimo giocattolo. Il confronto, anche conflittuale, con i coetanei abitua quindi a tenere conto degli altri e delle loro esigenze, ma nello stesso tempo a non rinunciare alle proprie. Per quanto in genere gli adulti siano poco disposti ad ammetterlo, lo sviluppo sociale e l’educazione morale passano, fin dalla primissima infanzia, attraverso la relazione non solo con l’adulto ma anche con il coetaneo. Il ruolo dell’adulto rimane importante, ma è indiretto, poiché è sempre sua la responsabilità di organizzare un contesto educativo valido.

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Birmingham: bambini di scuola dell’infanzia intenti alla cura di un grande girasole.


ecologia ecologia

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Il tema del “verde” nelle scuole, in particolare nelle scuole primarie e dell’infanzia, è ormai riconosciuto come fondamentale e seguito con grande interesse per tutta una serie di motivazioni che includono aspetti legati alla didattica e al rispetto della natura ma non solo

Se è pur vero che in primo luogo la scuola è fatta di contenuti, è altrettanto vero che essa è fatta di spazi e di strutture e quindi di edifici. Purtroppo siamo tutti consapevoli che è necessario provvedere ad un adeguamento degli spazi scolastici alle esigenze della didattica moderna e gli spazi esterni possono risultare ambiti importanti di didattica ambientale e botanica. Occorre dunque favorire gli interventi di riqualificazione naturalistica ricercando una maggiore integrazione e relazione con i cittadini del quartiere e con le altre istituzioni del territorio. La riqualificazione naturalistica, mediante il rinverdimento nell’ambito degli edifici scolastici, può essere ottenuta e attuata ogni qualvolta vi siano interventi rivolti a nuove edificazioni, a ristrutturazioni, messa in sicurezza o anche mediante interventi mirati. Attualmente la normativa in materia non impone particolari soluzioni al riguardo. Tuttavia le Linee guida di edilizia scolastica, elaborate dal MIUR nel 2013 e già in corso di revisione, indicano ai progettisti che «lo spazio esterno

La buona scuola “verde” GianLuca mora

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nche in Italia, che pure sull’argomento non primeggia in Europa, si stanno moltiplicando le esperienze e i casi, qualcuno veramente innovativo, in cui il tema del “verde” nelle scuole viene affrontato con serietà e impegno, grazie soprattutto ad un lavoro svolto da differenti ma complementari capacità professionali (insegnanti, progettisti, pedagogisti, ecc.). Sono ormai diverse le proposte progettuali che hanno rivisto il senso dell’abitare lo spazio educativo e in grado di far acquisire maggiore consapevolezza agli alunni, alle famiglie e alla stessa comunità.

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costituisce parte integrante del progetto e deve essere altrettanto curato ed attrezzato con formazione di prati, piantumazioni, orti didattici… una occasione per sfruttare meglio l’area esterna e gli elementi naturali… i cortili possono diventare giardini d’inverno… ed essere utilizzati come serre e fornire un guadagno termico nelle stagioni fredde». Recentemente, con il sostegno della Lipu – Lega Italiana Protezione Uccelli – è stato presentato al Senato un disegno di legge rivolto proprio a inserire, nelle scuole primarie, interventi di naturalizzazione. Ma cosa intendiamo per “naturalizzazione degli spazi verdi” all’interno delle nostre scuole?

LA “nATURALIzzAzIOnE” li interventi rivolti alla naturalizzazione, cioè al rinverdimento, consistono principalmente nei tetti verdi e nei giardini pensili, negli orti all’interno di cortili e terrazzi, nei birdgarden (giardini per uccelli e non solo), nei giardini verticali e nei giardini sensoriali. Altri interventi possono riguardare la realizzazione di piccoli specchi d’acqua con ninfee e papiri, la casa sull’albero, le vasche di sabbia, ecc. I tetti verdi, sia di tipo estensivo (spessori contenuti, ridotta manutenzione) che intensivo (comunemente definito giardino pensile, con spessori di terreno maggiore e che richiede una maggiore manutenzione), sono ormai soluzioni tecnologiche sempre più utilizzate nelle coperture degli edifici di nuova costruzione a destinazione prevalentemente residenziale e direzionale.

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il miglioramento bioclimatico, l’impatto ambientale, il risparmio energetico sono solo alcuni dei molteplici vantaggi degli interventi di naturalizzazione

L’orto scolastico, realizzato il più delle volte grazie alla volontà e all’impegno di alcuni insegnanti e genitori, soprattutto nell’ambito della scuola dell’infanzia e della scuola primaria, aiuta a far comprendere ai bambini la provenienza del cibo che trovano sulla tavola, a riscoprire il senso e la misura del tempo e dell’attesa, favorisce l’apprendimento tramite l’esperienza e quindi la consapevolezza, e infine risulta un bene collettivo che deve essere rispettato da tutti. Il birdgarden è uno spazio all’aperto pensato per attrarre e accogliere gli uccelli e altri animali selvatici. Aiuta a comprendere l’ambiente naturale attraverso l’osservazione, in ogni sua accezione, valorizza l’educazione ambientale e il rispetto della bio-diversità. I giardini verticali, oggi sempre più in voga, anche di piccole dimensioni, hanno un’utilità indubbiamente di carattere estetico, ma anche di regolazione termica (la traspirazione delle piante raffresca l’aria), di depurazione dell’aria e di abbattimento acustico e riduzione del riverbero (la massa vegetale assorbe le onde sonore e luminose). Anche i giardini sensoriali rientrano tra gli interventi qualificanti. Il giardino assume un ruolo ludico, sociale e didattico, favorisce l’apprendimento, in particolare degli alunni con disabilità, promuove lo sviluppo sensoriale (esperienze visive, tattili, olfattive) e la conoscenza del sé corporeo in relazione all’ambiente circostante, stimola la conoscenza e il rispetto della natura con i suoi ritmi e i suoi spazi. Quali sono i vantaggi cosiddetti ambientali di questi interventi? Citiamone solo alcuni: il miglioramento bioclimatico, l’impatto ambientale, l’isolamento acustico, il trattenimento delle polveri, l’isolamento termico e il risparmio energetico. Evidentemente i vantaggi possono essere molteplici anche per altri aspetti. Per esempio circondare gli edifici scolastici di spazi verdi, in un dialogo “interno”-“esterno”, crea una con-


ecologia ecologia

QUALChE bUOn ESEMPIO a scuola primaria di Piobesi Torinese, realizzata dallo studio Archiloco nel 2010, ha nel proprio giardino un piccolo stagno alimentato da acqua piovana proveniente dal tetto della scuola e filtrata attraverso un sistema di fitodepurazione. I bambini si affacciano sul laghetto da una terrazza in legno che simula la prua di una nave dal cui albero maestro, al posto delle vele, svettano luccicanti pannelli fotovoltaici. Il polo scolastico per l’infanzia, a Lama Sud (Ravenna), dello studio MTA Giancarlo De Carlo e Associati, è stato inaugurato nel 2008 ed è inserito in un parco di oltre due ettari. Rappresenta un esempio riconosciuto di architettura partecipata e integrata, oltre che di modernità pedagogica nell’intendere il rapporto fra il bambino e lo spazio che lo circonda.

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Piobesi Torinese, Scuola primaria “Unità d’Italia” (Scuola Green).

un giardino, oltre a diventare un luogo di gioco, può offrire un forte contributo al complesso e appassionante compito dell’educare

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taminazione che aiuta la stimolazione percettiva dei bambini, così come il loro sguardo che non viene vincolato alla sola dimensione dell’aula ma rivolto allo spazio aperto, verso l’orizzonte verde circostante. Per questo non occorre immaginare grandi superfici da naturalizzare a verde, può essere sufficiente uno spazio magari già esistente, che si sviluppi tra le rientranze dei corpi edilizi e nei cortili, di forme e dimensione varia, anche semplici frammenti integrati con l’edificio e attorno ad esso. Oltre a questi aspetti di carattere percettivo, il giardino, come già accennato, può diventare un luogo di gioco, di attività fisica all’aperto, ma soprattutto diventa uno spazio in cui fare esperienza e condividerla con gli altri. In sostanza, potrebbe essere un forte contributo al complesso e appassionante compito dell’educare. L’osservazione della natura e la scoperta dell’alterità di specie, i tempi di ambientamento e la gradualità nella cura di un orto o di un giardino, la collegialità e la scoperta dell’identità di uno spazio e la sua capacità di orientare gli scambi sociali, sono solo alcune delle tante opportunità che uno spazio verde può offrire.

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Un’altra immagine del giardino della scuola “Unità d’Italia” di Piobesi Torinese.

Il giardino è un luogo di gioco e di attività fisica all’aperto, progettato come spazio di esperienze ludiche ma anche legate al fare (coltivare, costruire, allevare, manutenere...). La scuola vi si inserisce in modo da farlo penetrare nelle rientranze dei corpi edilizi e nei patii: di forme e dimensioni eterogenee, questi frammenti di giardino si compongono a mosaico in un’unica configurazione organicamente integrata con l’architettura.

occidentale di Parigi, nel 2014 è stata costruita una grande scuola “green” dallo studio Architects Chartier-Dalix in cui, oltre all’impiego del verde sulle coperture, è stata realizzata una parete “vivente” ricca di fessure, interstizi e fori che possono ospitare vegetazione e piccoli uccelli, per favorire la protezione della biodiversità animale e vegetale anche in ambiente urbano.

PARTIRE DALLE SCUOLE

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sempre di più oggi nelle scuole di nuova ESISTEnTI costruzione vengono adottati criteri empre di più oggi nelle scuole di nuova costruzione vengono adotdi progettazione sostenibile

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In Francia, a Rillieux-la-Pape, nei pressi di Lione, è stata recentemente realizzata una scuola elementare che si armonizza con lo spazio esterno mettendo in relazione il verde del terreno con il verde delle coperture. I tetti verdi accolgono passeggiate educative, transennate e sicure, che diventano veri e propri luoghi panoramici, mentre a terra si sviluppano sentieri pedagogici lungo il tragitto percorso giornalmente dagli alunni per raggiungere la mensa e l’orto. Sempre in Francia, nella periferia

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tati criteri di progettazione sostenibile, integrati con una dotazione impiantistica rivolta al minor consumo di energia e quindi al risparmio energetico. L’impiego di materiali da costruzione adeguati, abbinato alla ricerca del massimo comfort, alla scelta dei colori, all’orientamento dell’edificio, al rapporto tra gli spazi ed alla relazione tra essi, e a tutta una lunga serie di fattori di valutazione, rendono generalmente necessaria nella progettazione la compresenza e la partecipazione di diversi esperti nei vari ambiti coinvolti.


caratteristiche. Un modo di vivere insieme la dimensione narrativa dello spazio come luogo di vita, di incontri, di relazioni ed apprendimenti. La coscienza collettiva, in merito a questo tema, sta rapidamente cambiando in positivo, anche grazie allo sforzo che gli “addetti ai lavori” hanno fatto e stanno facendo, soprattutto all’interno del mondo della scuola. Gli strumenti per poter creare spazi adeguati ci sono e vediamo che la sensibilità e l’attenzione dei progettisti è spesso più che adeguata. Il problema sono le risorse, che non bastano mai e spesso non sono sufficienti per la manutenzione ordinaria, anche se nella maggior parte dei casi basterebbe poco. Pensiamo, per esempio, alla sostituzione della pavimentazione di un’area cortilizia all’interno di una scuola, anche solo parzialmente, con un prato erboso e delle essenze arbustive adeguate, oppure alla realizzazione di un orto didattico o un piccolo giardino sensoriale all’interno di cassoni in legno riempiti di terra. Evidentemente non avremmo utilizzato grandi risorse, ma avremmo però fornito un contributo alla cura e al rispetto dei bisogni di esplorazione spaziale-cognitiva-emotiva dei bambini e offerto loro la possibilità di molteplici esperienze percettive e motorie mediante la suggestione e la bellezza che l’ambiente naturale sa creare. Riferimenti bibliografici AA.VV. (2009), Atti del Seminario “Dialoghi tra pedagogia e architettura”, Ravenna, www.istruzioneinfanzia.ra.it CostA M. (2009), Psicologia ambientale e architettonica. Come l’ambiente e l’architettura influenzano la mente e il comportamento, Franco Angeli, Milano. DuDek M. (2011), Schools and Kindergartens – A Design Manual, 2a edizione, Birkhauser, Basel. LegAmbiente (2013), XIV Rapporto di Legambiente sulla qualità dell’edilizia scolastica, delle strutture e dei servizi, www.legambiente.it/ecosistema-scuola-2013 PorPorAto L., bAnDoLin S. M. (a cura di,

2010), Un percorso partecipato verso la sostenibilità. La scuola elementare di Piobesi Torinese, Alinea Editrice, Firenze. Gianluca Mora è architetto libero professionista, esperto in tecnologie edilizie innovative rivolte al risparmio energetico e alla sostenibilità ambientale. Ha redatto progetti di edilizia scolastica di diverso ordine e grado. È intervenuto con un proprio contributo alla presentazione in Senato del disegno di legge sulla “Riqualificazione naturalistica dell’edilizia scolastica”. Collabora inoltre con associazioni no-profit.

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Questo tipo di attenzione rivolta ai nuovi edifici scolastici riguarda anche lo spazio “esterno”, che a tutti gli effetti, come negli esempi richiamati, partecipa in maniera integrata insieme agli spazi “interni” agli obiettivi di una visione contemporanea della didattica e della scuola moderna. Purtroppo siamo consapevoli che il patrimonio edilizio scolastico in generale risulta obsoleto e più del 60% delle scuole italiane è stato costruito da oltre 40 anni, il 37.6% necessita di interventi di manutenzione urgente, il 40% è privo del certificato di agibilità, mentre il 60% non ha il certificato di prevenzione incendi (Legambiente, 2013). Il piano per l’edilizia scolastica lanciato recentemente dal Governo e gli investimenti messi a disposizione per la messa in sicurezza, il ripristino funzionale e il risparmio energetico speriamo possano recuperare il ritardo ingiustificabile e l’indifferenza degli anni passati. Tuttavia, anche negli edifici esistenti, in particolare nelle scuole dell’infanzia e primarie, occorrerebbe individuare le risorse per “naturalizzare” lo spazio esterno laddove esiste ed è potenzialmente usufruibile. Anzi, risulterebbe forse prioritario partire proprio dalle scuole esistenti, dando per scontato che, per quanto riguarda le scuole nuove, spesso è più facile ottenere gli obiettivi prefissati una volta stanziate le risorse necessarie. buona parte delle risorse economiche occorrenti potrebbero provenire proprio dal risparmio energetico derivante dai contributi e dagli effetti degli “interventi a verde” sull’esistente. Sarebbe necessario, per quanto possibile, superare la dicotomia tra il “dentro” e il “fuori” degli spazi scolastici, aula e cortile per intenderci, considerando a pieno titolo lo spazio esterno a verde, in funzione ovviamente delle stagioni e delle condizioni meteorologiche, uno spazio utile all’apprendimento e al miglioramento ambientale in piena sintonia con lo spazio interno e le sue

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n un’epoca come la nostra, l’intelligenza naturalistica (Gardner, 1987) assume un’importanza particolare. D’altra parte è una forma di intelligenza che, per potersi esprimere al meglio, deve trovare un terreno favorevole ed essere coltivata nel corso della crescita dell’individuo. È stato, infatti, messo in luce come il sentimento di continuità con la natura generi risposte fisiologiche e psicologiche positive negli esseri umani, inclusa la riduzione dello stress e una corroborante sensazione di benessere (Lewis, 1996). Inoltre, sono ormai decine e decine gli studi che mostrano come i giochi e le attività nell’ambiente naturale siano molto amati dai bambini e ne stimolino lo sviluppo.

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Per una “sensIbILItà verDe” nche se l’intelligenza naturalistica e la sensibilità nei confronti della natura si sviluppano sin da bambini, tuttavia, spesso e volentieri, il tipo di vita e di ambiente in cui sia adulti che bambini sono inseriti contrasta e rende difficile il realizzarsi di questo rapporto con il mondo naturale circostante. Già alcuni decenni fa, proprio in riferimento ai bambini, il celebre architetto, urbanista, e pensatore anarchico britannico Colin Ward scriveva che nella società contemporanea ai bambini viene sempre più spesso impedito di uscire di casa, di giocare liberamente

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in strada e nel verde come avveniva un tempo, di usare la bicicletta o di camminare da soli magari per raggiungere la propria scuola, in breve di fare quelle importanti esperienze che consentono anche di raggiungere indipendenza e autonomia nel movimento. Ward riteneva che gli adulti dovessero essere considerati responsabili di aver realizzato dei centri urbani invasi dal traffico, progettati per rispondere prevalentemente ai bisogni degli automobilisti e, in quanto tali, fonte di rischio per i bambini che sarebbero sempre più indirizzati verso un modello di società consumistico, tipico degli adulti, che li tiene in casa davanti a televisori e videogiochi invece che all’aria aperta e nella natura.

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Quanto sia importante nella vita e nella crescita dei bambini il rapporto con la natura emerge chiaramente da tutta una serie di esperienze reali che originariamente hanno riguardato soprattutto il nord europa (culturalmente più attento di noi al benessere ecologico degli individui). In norvegia, per esempio, la vita all’aria aperta, a stretto contatto con la natura, fa parte dell’educazione e delle politiche pubbliche. basti pensare al caso dello skårungen kindergarten, uno dei primi asili nido “outdoor” in norvegia, attivo sino dal 1996. Questo si trova sull’isola di bragdøya e viene raggiunto ogni giorno dai bambini e dalle loro maestre in barca. L’asilo è in una piccola

L’importanza del “pensiero verde” Tra le varie forme di intelligenza messe in evidenza dallo studioso della mente Howard Gardner, ne troviamo una che spesso viene sottovalutata: l’intelligenza “naturalistica”

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ALbertinA oLiverio

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vallata delimitata da barriere naturali, cosa che facilita sia il controllo dei limiti entro i quali si svolge il gioco dei bambini, che una serie di attività come l’arrampicarsi sulle rocce o lo scivolare sulla neve nei periodi invernali. In questo asilo i bambini giocano anche molto arrampicandosi sugli alberi, pescando nei periodi primaverili ed estivi e con dei coniglietti che vengono tenuti lì in alcune gabbiette. Oggi l’importanza del rapporto con la natura nella crescita del bambino, nella sua educazione e nella progettazione dell’edilizia scolastica è, per fortuna, ormai oggetto di attenzione e studio anche in Italia (si veda l’articolo di Gianluca Mora «La buona scuola “verde”» in questo numero). È il caso degli “agrinidi” e “agriasili” che negli ultimi anni si sono diffusi soprattutto in veneto, Piemonte, trentino e Friuli. sono asili ideati nell’ambito di fattorie e aziende agricole in cui poter lasciare i propri bimbi sapendo che passeranno le loro giornate giocando all’aria aperta, a contatto con le piante e con gli animali, consumando prodotti dell’orto che essi stessi magari hanno seminato e visto crescere, sviluppando nuove sensibilità e spirito di avventura. L’agriasilo è generalmente un luogo con poco muro, poco soffitto e tanta natura.

La rIFLessIOne eCOLOGIsta ra, se da un lato questa crescente sensibilità “verde” poggia sulle importanti considerazioni di pensatori quali Jean-Jacques rousseau, Friedrich Froebel e Maria Montessori, che hanno attribuito un posto

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L’aumento dell’attenzione nei confronti della natura, e dell’ambiente in generale, è collegato ad un ampio spettro di “riflessioni ecologiste”

centrale al rapporto con la natura nell’educazione del bambino, dall’altro lato, l’aumento dell’attenzione nei confronti della natura, e dell’ambiente più in generale, è collegato ad un ampio spettro di “riflessioni ecologiste”. Queste spaziano dalla politica all’etica, dall’economia alla psicologia, dall’architettura all’educazione, appunto, e, a partire dall’inizio del ventunesimo secolo, si sono tramutate in una vera e propria ideologia molto influente nell’ambito delle società occidentali. Come è avvenuto che la riflessione ecologista sia divenuta una delle maggiori preoccupazioni del nostro secolo? Per rispondere a tale quesito si possono brevemente ricordare alcuni tra i nomi più significativi del pensiero ecologista che hanno dato impulso al suo sviluppo e alla sua diffusione. In tal senso, centrale è stato senza dubbio il contributo di alcuni precursori, come per esempio quello del filosofo americano Henry D. thoreau che in Walden, ovvero Vita nei boschi (1854) ha esplicitato tutto il suo impegno per la promozione dei parchi nazionali americani e ha posto l’accento sull’importanza del rapporto dell’uomo con la natura. Ma è negli anni sessanta del secolo scorso che un ecologismo vero e proprio è diventato elemento centrale di una riflessione transdisciplinare la quale spesso e volentieri si è tradotta in critica radicale della società. tra i fautori di questa svolta si può ricordare innanzitutto la biologa americana rachel Carson, che in Primavera silenziosa (1962) sostenne che i pesticidi erano nocivi per l’uomo e per la natura. La sua opera, tradotta in tutto il mondo, è stata spesso ritenuta l’origine del movimento ecologista allora nascente e, all’epoca, sensibilizzò a tal punto l’opinione pubblica americana che gli stati uniti si videro successivamente costretti a vietare alcuni pesticidi come il DDt e a creare l’agenzia per la Protezione ambientale.


ecologia ecologia

È necessario fronteggiare gli obblighi verso la natura e pensare alla nostra responsabilità nei confronti del futuro lebre Il principio responsabilità (1979) egli ha cercato di fondare una nuova etica per proteggere il futuro dell’umanità dalle minacce che possono scaturire da uno sviluppo scientifico e tecnologico sfrenato capace di mettere in pericolo sia la natura che lo stesso uomo. Secondo il filosofo tedesco, l’etica tradizionale centrata sui rapporti tra gli uomini e il presente non è in grado di far fronte a questo pericolo. È necessario fronteggiare gli obblighi verso la natura e pensare alla nostra responsabilità nei confronti del futuro cercando di allontanare i pericoli della tecnica e garantire una vita autenticamente umana. Questo ci aiuta a comprendere l’imperativo categorico secondo cui bisogna agire in modo tale che gli effetti delle nostre azioni non distruggano la possibilità futura della vita.

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Centrale per i sostenitori di un “pensiero verde” è poi la critica radicale alla società industriale dei consumi e, più in generale, alle istituzioni del mondo moderno, sviluppata dall’austriaco Ivan Illich che, a coloro che ripongono grande fiducia nelle promesse dello sviluppo tecnologico e scientifico, contrappone i suoi effetti deleteri sia sul piano materiale che su quello morale. Secondo Illich, esiste un limite oltre il quale una produzione di beni e servizi illimitata si trasforma in oggetto di alienazione: il modello produttivo moderno diviene cioè controproduttivo e distrugge il legame sociale. L’industrializzazione in qualsiasi ambito finisce per allontanare i propri utilizzatori dai fini per i quali essa è stata concepita. L’esempio dei trasporti è esemplare: Illich sostiene che l’americano medio passi 4 ore al giorno nella sua auto e 1600 ore ogni anno percorrendo 10 000 chilometri, cosa che rappresenta una media di sei chilometri all’ora. Pilastro della riflessione ecologista è stata inoltre l’opera di Hans Jonas, allievo di Husserl e Heidegger. Nel ce-

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La “decrescita” è l’idea di una società fondata sulla qualità piuttosto che sulla quantità, sulla cooperazione piuttosto che sulla competizione

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Foto in alto: elaborazione grafica di come si presenterà tra qualche anno il “Bosco verticale”, realizzato sulla base del progetto degli architetti Stefano Boeri, Gianandrea Barreca e Giovanni La Varra. L’opera è stata inaugurata a Milano nell’ottobre del 2014.

anche il pensiero del filosofo francese edgar Morin si articola in costante dialogo con l’ecologia, sia sul piano scientifico che su quello politico, in base ad una critica del capitalismo e dello sviluppo industriale, così come avveniva in modo simile nel caso del norvegese arne naess che passando da baruch spinoza a Mohandas Gandhi ha proposto una visione radicale dell’ecologia che pone al centro la natura e non l’uomo e che non dà alcuna priorità all’essere umano nella difesa dei diritti delle specie viventi. tra i pionieri mondiali dell’etica ambientale vi è poi il filosofo americano John baird Callicott. Le sue ricerche vertono sullo sviluppo di un’“etica della terra”. Il suo progetto sarebbe quello di sottomettere la potenza della coscienza umana al mondo naturale inteso nel sen-

so della diversità del vivente e dei paesaggi. Mentre, tra coloro che pongono l’accento sulla critica all’ortodossia economica e all’utilitarismo, troviamo ancora serge Latouche (2007), teorico della “decrescita”, ossia di una società fondata sulla qualità piuttosto che sulla quantità, sulla cooperazione piuttosto che sulla competizione, su un’umanità libera dall’economizzazione della vita e che si dà come obiettivo la giustizia sociale.

InIzIatIve MenO IDeOLOGICHe interesse per simili tematiche non ha smesso di coinvolgere un numero sempre crescente di cittadini nella causa ecologista. Questo anche grazie a nuove voci che contribuiscono ad alimentare la preoccupazione ambientale. basti pensare a un al Gore (ex vice-presidente degli usa) che con il suo documentario Una scomoda verità (2006) ha mostrato in modo nitido gli effetti deleteri del surriscaldamen-

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to globale, o a un barack Obama che, al momento del suo insediamento alla Casa bianca, ha voluto lanciare un forte messaggio ecologista circondandosi della “Green Dream team” formata da celebri scienziati e investita del compito di affrontare le più spinose questioni energetiche e ambientali. Le filosofie e i movimenti ecologisti propongono oggi un’agenda sempre meno ideologica, ma sempre più fondata sul convincimento della necessità di un ripensamento radicale di alcuni principi ancora alla base di molte scelte economiche e politiche tra cui quelle orientate ad una modernizzazione forzata non accompagnata da una adeguata valutazione di tutte le sue conseguenze. Questa evoluzione del pensiero ecologista si accompagna ad una sorta di rivoluzione silenziosa: da bilbao a Oslo, da vancouver a Magdeburgo, moltissime città hanno anticipato le sfide dello sviluppo sostenibile con tale efficacia che nei quartieri sperimentali ci si avvicina per esempio agli obiettivi di riduzione dei gas serra che gli stati si sono prefissati per il 2050. Queste città sono partite dai problemi tecnici per risalire ai sistemi sociali. Piuttosto che applicare una teoria generale del benessere sociale a tutti i campi della vita, questa via innovativa consiste nell’appoggiarsi su tante leve assieme: dall’inserimento di tasse (sulle automobili) e di sovvenzioni (per i trasporti collettivi), al rinnovamento dei piani di urbanizzazione,

ecologia ecologia

Anche nel nostro paese ci sono delle iniziative interessanti che ci auguriamo possano ricevere la massima attenzione dai politici dal finanziamento di tecnologie sperimentali, alla ripartizione dello spazio in funzione dei diversi usi, dal concepimento di forme di risparmio energetico nell’edilizia pubblica (come per esempio i tetti verdi, si veda ancora l’articolo di Gianluca Mora), al potenziamento degli orti cittadini e all’ampliamento dell’edilizia scolastica verde. anche nel nostro paese ci sono delle iniziative interessanti che ci auguriamo possano ricevere la massima attenzione da parte di amministratori locali e politici e che, se debitamente sviluppate e potenziate, non potranno che giovare all’intelligenza naturalistica di grandi e piccini. Riferimenti bibliografici Carson r. (1962), Primavera silenziosa (trad. it.), Feltrinelli, Milano, 1999. Gardner H. (1987), Formae mentis (trad. it.), Feltrinelli, Milano. Jonas H. (1979), Il principio responsabilità (trad. it.), Einaudi, Torino, 1990. LatouCHe S. (2007), La scommessa della decrescita (trad. it.), Feltrinelli, Milano. Lewis C. A. (1996), Green Nature, Human Nature. The Meaning of Plants in Our Lives, University of Illinois Press, Chicago. oLiverio a., oLiverio Ferraris a. (2011), A piedi nudi nel verde. Giocare per imparare a vivere, Giunti, Firenze.

tHoreau H. D. (1954), Walden ovvero Vita nei boschi (trad. it.), BUR, Milano, 2013. ward C. (1999), Il bambino e la città. Crescere in ambiente urbano (trad. it.), L’Ancora del Mediterraneo, Napoli.

Albertina Oliverio, professore di Filosofia delle Scienze Sociali all’Università G. D’Annunzio di Chieti-Pescara, è autrice di articoli e saggi tra cui Strategie della scelta (Laterza, 2007), Dall’imitazione alla cooperazione (Bollati Boringhieri, 2012).

a piedi nudi nel verde Giocare per imparare a vivere

pag. 224 - e 10,00

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Albertina Oliverio Anna Oliverio Ferraris

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IL CELLULARE: UN’ESTENSIONE DI Sé el giro di pochi anni è comparso un nuovo tipo di fobia: il timore di separarsi dal proprio cellulare (in inglese no mobile phobia). Uno studio sull’impatto che la separazione dal proprio cellulare ha sull’emotività e la fisiologia, pubblicato nel gennaio del 2015, è stato condotto su 208 studenti di giornalismo. Un’équipe di psicologi delle Università della Florida, dell’Oklahoma e dell’Indiana ha misurato la pressione sanguigna e la tensione arteriosa degli studenti mentre stavano scrivendo una lista dei 50 Stati americani. A metà percorso, con una scusa, i ricercatori hanno annunciato agli studenti che dovevano separarsi dal loro cellulare e li hanno invitati a ricominciare il test da zero. Ogni volta che i partecipanti venivano sconnessi si verificava un aumento significativo dell’ansia, del ritmo cardiaco, del livello della pressione arteriosa e una diminuzione significativa del rendimento al test. Ecco le conclusioni a cui sono giunti i ricercatori: 1) il telefono è diventato “un’estensio-

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ne di se stessi”, al punto che è possibile parlare di un “sé connesso” o “iSelf”; 2) le persone che soffrono di no mobile phobia hanno l’impressione di aver perso una parte di sé, il che «può avere un impatto negativo sulle loro performance mentali». R. Clayton, G. leshneR, a. almond (2015), «The extended iSelf. The impact of iphone separation on cognition, emotion and physiology», Journal of Computer-Mediated Communication, 20 (2), 119-135.

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LETTURA E ATTIVITà CEREBRALE el guardare un video o un filmato i bambini di età prescolare seguono il flusso delle immagini che il regista e i suoi collaboratori hanno ideato, selezionato e confezionato per il pubblico. Diverso è invece il lavoro che fa il loro cervello quando, ascoltando una storia raccontata o letta da qualcuno ad alta voce, devono immaginarsela. Non potendo appoggiarsi a immagini esterne, devono costruirsi un proprio film interiore, che è diverso da un ascoltatore all’altro perché in questa costruzione di immagini mentali ognuno ci mette qualcosa di sé: sentimenti, emozioni, esperienze personali. Chi è attento, conosce i bambini ed è solito leggere loro delle storie, ha esperienza di questa realtà. Ma ora c’è anche un esperi-

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J. s. hutton, t. hoRowitz-KRaus, t. dewitt, S. holland (2015), «Parentchild reading increases activation of brain networks supporting emergent literacy in 3-5 year-old children: An fMRI study», Abstracts Pediatric Academic Societies’ Annual Meeting.

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ANCHE I BAMBINI pRODIgIO DEVONO ESERCITARSI a violinista Anne-Sophie Mutter, il calciatore Toni Kroos, lo scacchista Magnus Carlsen: come fanno a essere così bravi nel loro mestiere? È solo questione di esercizio, afferma da una ventina d’anni lo psicologo Anders Ericsson della Florida State University. Le prestazioni di eccellenza non sarebbero una questione di talento, ma solo il risultato di un duro lavoro. più esattamente, 10 000 ore di lavoro. Tanto è il tempo che un grande musicista dedica a esercitarsi nei primi venti anni di vita, spiegava Ericsson in un’analisi del fenomeno che ha ottenuto grande risonanza internazionale. Nel 2009, intervistato da Focus, ha enunciato una sorta di regola empirica, che dovrebbe valere nello sport come negli scacchi o nel gioco delle freccette: «Ci vogliono 10 000 ore di applicazione e circa dieci anni per conseguire prestazioni fuori dell’ordinario». E aggiungeva: «Il tentativo di spiegare capacità eccezionali con un talento innato si è rivelato finora talmente vano che si deve concludere che il talento è un fattore estremamente secondario». peraltro, lo stesso Ericsson ha sottolineato ripetutamente che forse la capacità di auto-motivazione può avere un fondamento genetico: non sarebbe quindi innato il talento, ma la tendenza a impegnarsi allo spasimo in qualcosa. La regola delle 10 000 ore ha goduto fino ad oggi di un’enorme popolarità. In fondo lascia intendere che chiunque è in grado di arrivare a tutto, purché ci lavori abbastanza

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mento che la supporta. Nell’ospedale pediatrico di Cincinnati (Ohio, Usa) un ricercatore, John Hutton, e i suoi collaboratori hanno studiato 19 bambini fra i tre e i cinque anni avvalendosi della risonanza magnetica funzionale. Hanno così trovato che nel cervello dei bambini che ascoltano una storia si registra un’attivazione marcata di quelle aree cerebrali che supportano le immagini mentali, quelle che aiutano il bambino a “vedere la storia al di là delle figure”. In altre parole, nel cervello di bambini di età prescolare a cui viene letta o raccontata una storia si accendono le aree preposte alla comprensione e alla fantasia. I risultati di Hutton non si fermano qui, l’esperimento ha anche dimostrato che i bambini che a casa avevano maggiori opportunità di ascoltare storie lette dagli adulti, attivavano in modo molto più significativo specifiche aree cerebrali che supportano l’elaborazione semantica (l’estrazione di significato dal linguaggio), aree fondamentali per la lingua orale e in seguito per la lettura. «Ci auguriamo che questo lavoro induca ulteriori ricerche sulla lettura condivisa e il cervello in via di sviluppo, così che si possano migliorare gli interventi in questo campo e identificare i bambini a rischio di difficoltà il più presto possibile, aumentando le loro probabilità di avere un buon rapporto con il meraviglioso mondo dei libri», hanno concluso gli autori dell’esperimento.

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notizie flash

ua te a l cos st n dav e sì Nel m it scientifi s acces nel attem una feroce lem ca sull’ gom nto. La ausa fr l’altr è un lavoro pubblicato sulla ivista sychological Science. In quelle pagine gli psicologi americani Brooke Macnamara, David Hambrick e Frederick Oswald analizzano un insieme di 88 ricerche su scala mondiale, fra cui anche il lavoro originale di Anders Ericsson, tutte relative al rapporto fra esercizio e prestazioni. In effetti anche da questa meta-analisi emerge una forte correlazione: quanto più ci si esercita, tanto migliori sono i risultati. Tuttavia il duro lavoro non basta a creare un campione. Mediamente il numero di ore di esercizio spiega solo il 12% della varianza nel livello delle prestazioni, mentre il restante 88% si basa su altri fattori. gli autori citano a sostegno di questa tesi, per esempio, uno studio sugli scacchi: ad alcuni degli scacchisti esaminati erano bastate 3 000 ore di pratica per ottenere il rango di maestro nazionale, mentre altri non ci erano arrivati nemmeno dopo 25 000 ore passate davanti alla scacchiera. «Che esercizio e prestazioni siano correlati è fuori discussione», sottolineano Macnamara, Hambrick e Oswald, «ma l’esercizio non è così determinante» come affermano Ericsson e i suoi collaboratori. D’altra parte l’influenza dell’esercizio è maggiore in certi campi che in altri: per esempio nella musica arriva a spiegare il 21% della varianza. Questi dati tuttavia sono contestati da altri colleghi: «L’esito di una meta-analisi dipende dalla selezione delle fonti primarie che vengono analizzate», spiega non senza ironia Reinhard Kopiez, della scuola superiore di musica, teatro e comunicazione di Hannover. A suo avviso i lavori analizzati da

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so molt Ma nam ra Hamb ick Osw p co omogenei e n p e m t o camente discu ibili. C me profe ore musicol ia Kopiez sa bene di cos parla Di recent ha in gni caso pubblicato a sua olta una meta-analisi, circoscritta però al ambito musicale, dal quale risulta una correlazione molto più chiara. Anche ricalcolando i suoi risultati con il metodo adottato dai ricercatori americani, il livello delle prestazioni di un musicista dipende per un 37% dall’applicazione nella pratica dello strumento. L’accusa di Kopiez agli avversari di Ericsson è di sottovalutare sistematicamente l’importanza di un esercizio regolare, anche mediante artifici retorici. Basta allora l’esercizio a fare un maestro? O piuttosto il talento innato? «Quello che al momento manca del tutto sono studi longitudinali a lungo termine», lamenta Kopiez. «Dovremmo seguire i bambini per anni fin dalla prima ora di musica e documentare sia il numero di ore dedicate allo strumento, sia i progressi nell’apprendimento». Un’impresa tanto noiosa quanto inconcepibile. «per quanto ne so», conclude Kopiez, «non c’è nessuno che abbia in mente un progetto del genere». B. maCnamaRa, d. hamBRiCK, F. oswald (2014), «Deliberate practice and performance in music, games, sports, education, end profession: A meta-analysis», Psychological Science, DOI: 10.1177/0956797614535810. F. Platz, R. KoPiez, a. lehmann, a. wolF (2014), «The influence of deliberate practice on musical achievement: A meta-analysis», Frontiers in Psychology, DOI: 10.3389/fpsyg.2014.00646.

FRANK LUERwEg TiTolo originale: «auch Wubderkinder müssen üben», Psychologie heute, dic. 2014, 2.


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el passato la tortura era praticata principalmente sui non-cittadini: schiavi, nemici, membri di gruppi outsider. La tortura inflitta ai cittadini riguardava casi di reato, tradimento o eresia. L’epoca attuale è indubbiamente caratterizzata da un’attenzione globale sui diritti umani. La tortura è infatti disciplinata a livello internazionale da convenzioni, trattati e leggi che definiscono l’uso della forza legittima da parte dello Stato e il tassativo divieto di tortura. Ne sono un esempio le organizzazioni sovranazionali come le Nazioni Unite e altri organismi non governativi deputati a verificare il rispetto da parte degli Stati di tali trattati e leggi; così come all’interno di alcuni singoli paesi vi sono strutture amministrative di vigilanza. Inoltre, i mass media hanno adottato il principio dei diritti umani come un metro per valutare gli Stati e stilare classifiche etiche. In ogni caso, nonostante l’ascesa della cultura dei diritti umani, la tortura non è scomparsa, nemmeno in quei paesi che si professano democratici (Rejali, 2007). Secondo Amnesty International, nel 2014, data di ricorrenza dei trent’anni dall’adozione della Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura, l’82% dei paesi monitorati (131 su 160) ha torturato o maltrattato persone. Dalla Siria allo Sri Lanka, i leader politici hanno giustificato la tortura in nome della sicurezza. Lo stesso è accaduto negli Stati Uniti: dopo gli attacchi dell’11 settembre 2001, la tortura è stata teorizzata e praticata contro i “nemici” terroristi.

La tortura “bianca” MariaLuisa Menegatto adriano ZaMperini


e la tortura continua a essere praticata anche in democrazia, ha comunque subito profondi cambiamenti. La tortura moderna si distingue da quella classica per alcuni aspetti essenziali. Le forme classiche erano eseguite in pubblico ed erano comunque sempre ben note alla popolazione, quelle moderne sono sottratte alla visione dei cittadini. Le torture classiche “scrivevano” il corpo del torturato, per esempio lasciando vistose cicatrici; quelle moderne, pur agendo attraverso il corpo, non mirano a lasciare tracce somatiche, bensì aggrediscono sistematicamente la mente e la personalità del torturato. Infine, se le prime erano guidate dalla tradizione e dalla religione, le seconde attingono alla conoscenza clinica (medica, psichiatrica e psicologica) e, grazie allo sviluppo di particolari tecniche, sono difficili da documentare perché raramente sanguinarie. Le tecniche che non lasciano tracce fisiche sulla vittima costituiscono la cosiddetta “tortura bianca”, nota anche come “tortura senza contatto”. Il suo obiettivo primario è aggredire i sensi, la percezione della realtà, gli schemi relazionali, fino a causare stati psicotici (Nickerson et al., 2014). Infatti, gli esseri umani riescono a muoversi nel mondo non solamente perché possono contare sulle proprie gambe, ma anche perché nel corso del ciclo di vita hanno sviluppato una certa padronanza sociale. Un capitale di abilità che viene annientato da tecniche destabilizzanti, capaci di confondere la segnaletica dei comuni rapporti umani. Come se, d’improvviso, per un automobilista il semaforo verde non significasse più via libera e quello rosso obbligo di fermarsi. Non essendoci più alcun codice della strada condiviso (analogo al patto sociale che governa le interazioni quotidiane), la circolazione diventerebbe caotica, imprevedibile, rischiosa e sempre gravida di angoscia.

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Per esempio, il metodo del “disorientamento sensoriale” (mcCoy, 2006) è costituito da pratiche di tortura a distanza che compromettono gravemente le capacità sensoriali della vittima, violentandone l’udito, la vista, il senso spazio-temporale. Le vittime sono tenute per lunghe ore isolate in piccole celle, talvolta al buio, in silenzio, al freddo e senza indumenti. La reclusione può essere soggetta a rotazione in vari luoghi, per impedire al prigioniero di sviluppare una certa familiarità ambientale. Proprio l’ambiente è sottoposto a sistematiche manipolazioni: arbitraria alternanza di silenzio/rumore, con urla improvvise oppure musica ad alto volume; controllo della luce, anche facendo ricorso all’incappucciamento. L’equilibrio psicofisico viene aggredito alterando il ritmo sonno/veglia: il prigioniero viene tenuto perennemente sveglio oppure ridestato improvvisamente alle soglie della fase REm, con musica o rumori improvvisi. La “stress position” (essere costretti ad assumere per lungo tempo determinate posture) provoca dolore acuto a muscoli e articolazioni. Anche le emozioni sono manipolate con l’uso controllato della paura, come quando si annunciano esecuzioni sommarie. Note a tutti sono le vicende di Abu Ghraib in Iraq, luogo di detenzione dove i soldati nordamericani aizzavano cani senza museruola contro prigionieri anche adolescenti, scommettendo su chi per primo, dal terrore, avrebbe perso il controllo di vescica e

«Se un delitto è certo, inutili sono i tormenti, perché inutile è la confessione del reo; se è incerto, non devesi torturare un innocente perché tale è secondo le leggi un uomo i cui delitti non sono provati» (Cesare Beccaria)

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TORTURA E DEmOCRAZIA

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Per l’irruzione nella scuola Diaz a Genova nel 2001, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha sentenziato che si è trattato di tortura fisica

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sfinteri. La CIA, nel suo manuale del “buon torturatore”, parla della tecnica di “Alice nel paese delle meraviglie”, per descrivere le modalità con cui il torturatore può rendere il mondo del torturato il più imprevedibile e caotico possibile, così da gettarlo in una condizione psicologica analoga alla catastrofe psichica propria della patologia mentale. Anche il nostro paese è chiamato a fare i conti con pratiche che si vorrebbero lontane nello spazio e nel tempo. Nel linguaggio quotidiano, l’espressione “i fatti di Genova” è un ombrello semantico che copre le proteste di piazza contro il Summit del G8 di Genova del

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2001 e le violenze che si verificarono in varie zone della città, e in particolare gli scontri tra forze di polizia e manifestanti che culminarono con l’uccisione di Carlo Giuliani in piazza Alimonda. I fatti di Genova, insieme a espressioni come “zona rossa” o “black bloc” e a luoghi simbolo, come la scuola Diaz e la prigione di Bolzaneto, sono ormai lemmi di un lessico della violenza che è stato trasmesso infinite volte dai mass media. Ora, per uno di questi fatti, l’irruzione nel cuore della notte nella scuola Diaz (adibita a dormitorio) da parte di circa 300 agenti dei Reparti mobili della Polizia di Stato che infierirono brutalmente su persone inermi, riducendone alcune in fin di vita, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha sentenziato che si è trattato di tortura (nella fattispecie fisica). E ulteriori analoghi procedimenti sono in corso per altri fatti di Genova, come per la prigione di Bolzaneto.


olzaneto era una caserma adattata a luogo di transito per il riconoscimento dei fermati e il loro smistamento ai carceri di destinazione. In teoria il transito doveva durare qualche ora, il tempo delle operazioni di triage, identificazione e schedatura. A tutti gli effetti, divenne invece una prigione nella quale gli arrestati sperimentarono tempi di attesa fino e oltre le trenta ore, senza la possibilità di consultare un avvocato o un familiare, e in cui subirono trattamenti che possono essere definiti atti di tortura. Proprio su questa vicenda, abbiamo recentemente presentato una relazione tecnico-scientifica alla Corte di Strasburgo a seguito di un ricorso avanzato dalle parti lese. Pur non mancando episodi di violenza fisica, dentro la prigione di Bolzaneto è possibile evidenziare un sistematico ricorso alla tortura bianca. I principali trattamenti perpetrati furono: Stress position. I prigionieri erano obbligati a rimanere in piedi contro il muro (pratica detta anche wall standing) o al centro della cella senza potersi appoggiare ad alcunché, con braccia alzate, mani dietro la nuca, oppure obbligati a stare seduti o in ginocchio. Posture forzate che concentrano e fanno gravare il peso del corpo su pochi muscoli e articolazioni determinando prima dolore, poi cedimento muscolare e infine il blocco delle informazioni tattili e motorie al cervello. Interdizione visiva. L’obbligo di tenere costantemente la testa china, sia all’interno delle celle sia durante i vari spostamenti, impedendo qualsiasi contatto visivo, sia con gli agenti di custodia che tra i prigionieri (si pensi, per esempio, alla correlazione con la tecnica dell’incappucciamento praticata ad Abu Ghraib). Trattamento silenzioso. Il divieto assoluto di parlare, sia con gli agenti di cu-

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La tortura, sia fisica che “bianca”, è sempre un trauma per chi la subisce e comporta alcuni elementi tipici del Disturbo Post Traumatico da Stress stodia (se non per rispondere a domande), sia con i propri compagni di cella. Manipolazione ambientale. Le celle erano piccole, fredde durante la notte, sovraffollate, e in alcuni momenti senza distinzione di genere. Aggressioni acustiche intense e prolungate, rumori improvvisi, come porte che sbattevano, e ordini impartiti urlando producevano un senso psicologico di “stato d’assedio”. Violenze verbali, minacce di morte e sessuali, appellativi delegittimanti inducevano emozioni negative di paura, tensione, ansia. Infine, l’esposizione costante alla luce artificiale delle celle privava gli organi di senso delle informazioni adeguate sul ritmo giorno/notte, indebolendo la percezione temporale. Simili trattamenti puntano a modificare la percezione che le persone hanno di sé stesse e dell’ambiente circostante, così da indurre uno stato alterato di coscienza.

LE CONSEGUENZE PSICOLOGIChE a tortura, sia fisica che “bianca”, è sempre un trauma per chi la subisce. E come tutti i traumi, sul piano strettamente clinico il quadro delle conseguenze comporta alcuni elementi tipici che hanno assunto un’importanza centrale nella diagnosi psichiatrica di Disturbo Post Traumatico da Stress (PTSD): tendenza compulsiva a rivivere l’esperienza traumatica; evitamento difensivo di rappresentazioni interne o esterne che ricordano l’episodio della tortura; iperarousal e intorpidimento emotivo. ma la tortura è una pratica particolarmente complessa e le sue conseguenze

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LA TORTURA BIANCA A BOLZANETO

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La tortura è un evento catastrofico, ma non è solo il singolo individuo a soffrire. Ne pagano le conseguenze madri e padri, mogli e mariti, figli, parenti e amici

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non sono esauribili tramite una diagnosi di PTSD. Infatti, bisogna sempre tenere presente che il sopravvissuto alla tortura è una vittima molto diversa da chi, per fare solo un esempio, sperimenta un trauma a seguito di un disastro naturale, come un terremoto. Nel caso della tortura bianca a Bolzaneto, l’elemento centrale del “trauma” è aver subito una violenza collettiva di natura politica. D’altra parte, tali pratiche aumentano il loro impatto negativo sulla persona perché improvvise, e soprattutto impensabili per un cittadino di un paese democratico inserito nella Comunità Europea che dovrebbe tutelare i diritti inviolabili della persona. Per comprendere appieno le conseguenze della tortura bianca di Bolzaneto serve allargare la prospettiva d’analisi, considerando, insieme alle componenti personali, anche quelle socio-politiche. Le persone sono indubbiamente torturate per uno scopo e subito si pensa alla necessità di carpire informazioni o confessioni. In realtà, in molte situazioni lo scopo è quello di punire o reprimere particolari gruppi umani; nel caso di Bolzaneto (e anche della Diaz), persone che parteggiavano per determinate

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idee politiche. Pertanto, un individuo percepito come membro di simili gruppi, diventa un candidato a trattamenti disumani e degradanti (Zamperini e menegatto, 2015). Il tema della perdita, multiforme e ricorrente nei torturati, qui diventa soprattutto perdita di cittadinanza, che ha lasciato forti emozioni di panico e impotenza davanti alle diverse autorità, dal poliziotto al controllore dei treni, così che per molti la libertà di movimento ha subito limitazioni (per esempio, rinuncia a usare mezzi pubblici di trasporto; astensione dal frequentare luoghi di aggregazione politica). Senza contare il fatto che, per essere state fortemente delegittimate, alcune vittime hanno perso il lavoro, i legami affettivi e talvolta la propria reputazione. Come sempre, la tortura subita innesca nelle biografie innumerevoli e indesiderati punti di svolta e frequenti sono le reazioni depressive. La tortura è sicuramente un evento esistenziale catastrofico, ma non è solo il singolo individuo a soffrire. Analogamente ad altri eventi traumatici, per ogni persona torturata ci sono madri e padri, mogli e mariti, figli, parenti e amici che attendono nell’incertezza di avere notizie e sono costretti a convivere prima con la paura e poi con il trauma. Sicché, la tortura espande i suoi effetti negativi sulla comunità e sull’intera società.


a tortura moderna persegue molti scopi: può essere usata per raccogliere informazioni così come per intimidire e annichilire particolari gruppi umani. Come nel passato, continua a essere un “marcatore civico”. La vicenda della prigione di Bolzaneto ne è un esempio paradigmatico: essere etichettati come sovversivi è la precondizione per subire un trattamento degradante, il quale, a sua volta, nel momento stesso in cui viene praticato, segnala che la persona che lo riceve in qualche modo “se lo merita” perché si pone al di fuori dei confini della tutela legale propria della cittadinanza (Zamperini e menegatto, 2011). Diversamente dal passato, oggi la tortura è sempre più “bianca”: uno sviluppo tecnico che richiede un attento monitoraggio sociale per impedire la proliferazione di (impercettibili) trattamenti disumani. Per esempio, certe pratiche, perché viste al di fuori dell’ordinario (come la deprivazione sensoriale), sono maggiormente assimilate alla tortura, mentre altre, più intrecciate

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Oggi, la tortura è sempre più “bianca”: uno sviluppo tecnico che richiede un attento monitoraggio sociale per impedire la proliferazione di trattamenti disumani con la vita quotidiana (pensiamo allo sviluppo delle tecniche di stordimento elettrico nell’ordine pubblico), appaiono viceversa, ed erroneamente, più accettabili. Di fronte alla tortura, compito degli psicologi è offrire le proprie competenze professionali, prestando particolare attenzione all’articolazione della sofferenza individuale con il contesto sociale di riferimento. Inoltre, come ricercatori, gli psicologi sono chiamati a testimoniare il dramma della tortura, invitando il nostro paese a dotarsi il più rapidamente possibile di un’adeguata normativa per realizzare il triplice compito di prevenirla, condannare i torturatori e riabilitare i torturati.

Riferimenti bibliografici Mccoy A. W. (2006), A Question of Torture, Metropolitan, New York. NickersoN A., BryANt r. A., roseBrock L., Brett T. L. (2014), «The mechanisms of psychosocial injury following human rights violations, mass trauma, and torture», Clinical Psychology: Science and Practice, 21 (2), 172-191. rejALi D. (2007), Torture and democracy, Princeton University Press, Princeton. ZAMperiNi A., MeNegAtto M. (2011), Cittadinanza ferita e trauma psicopolitico, Liguori, Napoli. ZAMperiNi A., MeNegAtto M. (2014), Relations technique-scientifique: Les conséquences de la violence collective du sommet du G8 à Gênes, Requêtes Azzolina et autres/Italie n. 28623/2011, Cour européenne des droits de l’homme, Strasbourg. ZAMperiNi A., MeNegAtto M. (2015), «Giving voice to silence: A study of state violence in Bolzaneto prison during the Genoa G8 Summit». In F. D’Errico, A. Vinciarelli, I. Poggi, L. Vincze (Eds.), Conflict and multimodal communication, Springer, Cham/Heidelberg/New York/Dordrecht/ London.

Marialuisa Menegatto è psicologa clinica e di comunità, psicoterapeuta e dottoranda di ricerca all’Università di Verona, si occupa di violenza e trauma, vittimologia, esclusione e disagio sociale, conflitti sociali e pratiche di riconciliazione, diritti umani e giustizia sociale. Fra i suoi scritti ricordiamo: La società degli indifferenti (con A. Zamperini; Carocci, 2011) e Memoria viva (con A. Zamperini; Florence University Press, 2015). Adriano Zamperini è professore di Psicologia della violenza, di Psicologia del disagio sociale e di Relazioni interpersonali all’Università di Padova. Fra i suoi scritti: Prigioni della mente (Einaudi, 2004), L’indifferenza (Einaudi, 2007), L’ostracismo (Einaudi, 2010), La bestia dentro di noi. Smascherare l’aggressività (Il Mulino, 2014). È tra i curatori e autori dell’opera Psiche. Dizionario storico di psicologia, psichiatria, psicoanalisi, neuroscienze (2 voll., Einaudi, 2006-2007). È Direttore del CIRSIM (Centro Interdipartimentale di Studi Interculturali e sulle Migrazioni) presso l’Ateneo di Padova.

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CONCLUSIONI

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FORMAZIONE lcune premesse di ordine generale, anche socio-psicologico, sono necessarie. Innanzitutto, rispetto alle drammatiche giornate del G8 a Genova nel 2001, la preparazione degli operatori delle Forze dell’Ordine italiane è molto migliorata, anche per quel che riguarda discipline in passato poco o nulla curate nell’ambito dei corsi di formazione. Penso, in particolare, al Centro di formazione per funzionari di polizia istituito da una decina d’anni a Nettuno dove, in collaborazione con importanti atenei italiani, il personale in divisa che ha il compito di comandare e dirigere i servizi di ordine pubblico viene preparato, con seminari, workshop e real

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experience, ad affrontarne i disagi e i vari fattori di stressor. Si lavora, in particolare, sulle problematiche inerenti al job context che vanno dagli orari di lavoro fino al rapporto con i colleghi, passando per situazioni di mobbing, scarsa comunicazione e assenza di riconoscimento professionale. Si analizzano, inoltre, anche altri aspetti come quello del job content, cioè le situazioni stressogene che il personale in divisa vive e sopporta ogni giorno: oltre all’ordine pubblico, si pensi al continuo confronto con abusi, violenze e situazioni pericolose per quel che concerne gli uffici investigativi e operativi, fino ai rilievi di incidenti che interessano, per esempio, la polizia stradale, senza con-

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La recente sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, che ha condannato l’Italia per i reati di tortura consumatisi a Genova nel 2001, ha riaperto la discussione massImo su alcune questioni come la montebove preparazione delle nostre Forze di Polizia e la necessità di avere donne e uomini in divisa “pronti” anche dal punto di vista psicologico

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I fatti

di Genova

La preparazione delle Forze dell’Ordine


tentativi di falsificazione e le omissioni che hanno caratterizzato in particolare l’irruzione alla scuola Diaz e che, a mio avviso, attengono a condotte personali, pur gravi e inqualificabili: da poliziotto non posso, infatti, accettare l’idea di un “sistema marcio” nella Polizia, come pure è stato ingenerosamente sostenuto. Anche per quel che riguarda i gravi fatti che si sono verificati all’interno della caserma di Bolzaneto, molte responsabilità personali sono state accertate, mentre in tanti altri casi, a causa della prescrizione, la verità processuale non si è potuta scrivere. Errori individuali e funzionali, mancanza di adeguata preparazione professionale e soprattutto psicologica, elementi stressogeni e un contesto unico nella storia della Repubblica del dopoguerra hanno determinato una delle pagine più buie per la democrazia italiana (anche se non bisogna dimenticare che le responsabilità processualmente accertate hanno coinvolto poche persone).

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tare la comunicazione di un decesso ai familiari (Montebove, 2011). Tornando ai “fatti di Genova”, occorre dire che Polizia e Forze dell’Ordine hanno riflettuto ampiamente su quel che è accaduto, condannando eccessi e abusi intollerabili e ingiustificabili. Va da sé, ad ogni buon conto, che i fatti e le storie di quei terribili giorni debbano essere inquadrati in un contesto di guerriglia urbana e violenze di piazza che non si verificavano nel nostro paese dagli “anni di piombo”; un contesto dove poche migliaia di persone, agguerrite ed armate, hanno saputo tenere in scacco manifestanti pacifici e tutori dell’ordine, causando devastazioni, incidenti e feriti, fino ad arrivare alla morte di un ragazzo. A distanza di 14 anni da quegli avvenimenti, in ogni caso, non è possibile sottacere le responsabilità, gli errori, i

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Il primo aspetto su cui in questi anni si è lavorato molto nell’ambito del Dipartimento della pubblica sicurezza è quello della formazione della decisione

LA FORMAZIONE DELLA DECISIONE ntrando più dettagliatamente nel merito dei comportamenti che gli operatori delle Forze di Polizia assumono in determinati contesti critici e operativi, direi che il primo aspetto su cui in questi anni si è lavorato molto nell’ambito del Dipartimento della pubblica sicurezza è quello della formazione della decisione. Da tempo ci si sta adoperando per distinguere tra eventi “ordinari”, dove il poliziotto può e deve essere in grado di assumere primariamente decisioni personali, ed eventi cosiddetti “straordinari”, cioè ad alto rischio, nei quali il manifestarsi di situazioni critiche richiede – per evitare che la sfera emotiva prevalga su quella razionale – quasi esclusivamente l’adozione di disposizioni prese in una sala operativa dove funzionari preparati possono raccogliere tutti i dati provenienti dal contesto operativo (di cui parleremo più avanti), per farne poi una lucida valutazione. Qui insorge un altro fattore, che è consustanziale al processo di formazione della decisione: la comunicazione della decisione. Il poliziotto, il carabiniere e il militare che agiscono nello scenario operativo ad alto rischio devono ricevere ordini chiari e rapidi e, soprattutto, devono essere dotati di tutti i moderni strumenti che la tecnologia

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IL CONTESTO OPERATIVO nche per questo, nell’ambito dell’innovativo percorso di formazione che i poliziotti italiani hanno intrapreso dopo il G8 di Genova, hanno avuto e hanno ancora rilievo le analisi e gli studi relativi al contesto operativo, a cui si è fatto cenno. Si tratta, in buona sostanza, dello scenario nel quale si verificano gli eventi critici. Nei servizi di ordine pubblico le cose possono mutare rapidamente: un corteo pacifico con un percorso concordato tra Questura e organizzatori può facilmente trasformarsi in un inferno se poche de-

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cine di persone decidono all’improvviso – e in maniera preordinata – di travisare il proprio volto, armarsi di bastoni e scudi, proteggersi con caschi e magari deviare dal percorso concordato. Il contesto operativo (che comprende per esempio le vie di fuga, il punto in cui c’è maggiore possibilità di infiltrazioni nel corteo, la zona dove poter incanalare nel modo migliore i manifestanti) deve essere conosciuto bene da chi è destinato a operare in quello scenario. Oggi è possibile farlo anche attraverso la realtà virtuale, con l’utilizzo di telecamere per analizzare precedenti eventi, con briefing specifici che permettano, soprattutto a chi ha la responsabilità di impartire ordini, di “vivere nella mente” e per certi versi concretamente (soprattutto preventivamente) il contesto operativo nel quale si svolgerà la propria mission. Si tratta di un percorso di lavoro che nei prossimi anni andrà implementato.

LA FORMAZIONE PSICOLOGICA a formazione in ambito psicologico del personale in divisa resta comunque, a mio avviso, il tema dei temi. Proprio lo scorso anno si è svolto un interessante convegno a Roma (“21 anni di Psicologia di Polizia”) che ha fornito numerosi spunti di riflessione, sottolineando primariamente l’esigenza di promuovere la formazione in ambito psicologico non solo per i ruoli dei direttivi e dirigenti, ma anche per tutti gli altri operatori della Polizia di Stato: una formazione finalizzata – è stato detto – sempre più anche alle conoscenze di tecniche specifiche come la capaci-

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Occorre promuovere la formazione in ambito psicologico non solo per i ruoli di direttivi e dirigenti, ma per tutti gli operatori della Polizia di Stato

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può offrire. A Genova, nel 2001, questo non si è sempre verificato. Al di là di comportamenti singoli che hanno assunto rilevanza penale, talvolta si è registrato un duplice difetto di decisione e di comunicazione che, in un contesto ad alto livello critico, ha prodotto conseguenze devastanti per l’attività di chi allora era preposto a garantire l’ordine e la sicurezza pubblica. La mia convinzione, dunque, è che nel 2001 nel capoluogo ligure ci siano stati anche alcuni errori di comunicazione: le violenze alla scuola Diaz si sarebbero potute forse evitare se fossero state corrette le informazioni relative a chi davvero era presente all’interno dell’edificio (non pericolosi sovversivi, ma studenti e manifestanti), se i funzionari preposti al comando e al coordinamento degli agenti che sono entrati avessero comunicato ordini e disposizioni con maggiore cautela e attenzione, con la conseguenza che alcuni operatori – in un contesto di dinamiche di gruppo e di “cultura del nemico” ben noti nell’ambito della psicologia – hanno poi ecceduto rispetto al da farsi. Ripeto: nessuna giustificazione può essere addotta, ma certamente quei fatti hanno influito non poco sulle Forze dell’Ordine e sulla Polizia di Stato in particolare.

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Lo psicologo in polizia mportanti collaborazioni tra gli psicologi della Polizia e il personale che svolge attività operative sono state avviate a Roma e a Foggia. Proprio dalla città pugliese arrivano alcuni dati interessanti relativi alle situazioni di disagio del personale in divisa: il 34.2% di coloro che hanno chiesto sostegno psicologico ha manifestato problematiche coniugali (50 casi trattati); il 26% situazioni di difficoltà relative ai figli (38 casi); il 24.6% problematiche lavorative o legate alla gerarchia (36 casi); il 6.1% situazioni connesse ad eventi luttuosi

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(9 casi, per i quali, quando la morte riguardava il coniuge, sono stati aiutati anche i figli dei poliziotti); il 5.4% problematiche relative a preoccupazioni riguardanti malattie personali di rilievo (8 casi); infine, il 3.4% situazioni legate alla lontananza da casa e a disagi dei figli minori (5 casi). In questi casi il lavoro dello psicologo ha permesso di non lasciare solo il poliziotto durante tutto il delicato iter sanitario che ne consegue e che – pur finalizzato al “ripristino” dello stato di benessere psicoemotivo – comporta necessari processi di “ospedalizzazione”

tà di ascolto, i processi comunicativi, la gestione delle emozioni. La Polizia di Stato è certamente un’eccellenza tra le Forze dell’Ordine italiane da questo punto di vista, considerato che negli ultimi anni si è lavorato per cercare di garantire la presenza degli psicologi nelle Questure, anche se il loro numero è ancora esiguo (si veda il Box).

LA FuNZIONE DEL POLIZIOTTO redo che occorra interrogarsi seriamente sul ruolo e sulla funzione del poliziotto nella società attuale. È stato detto e scritto che una della evoluzioni rispetto al passato è costituita dal passaggio concettuale tra una sicurezza intesa essenzialmente come repressione e prevenzione di reati a un nuovo modello cosiddetto “di prossimità”, dove l’approccio tra operatore in divisa e cittadino finisce al centro della scena. Questo pone una nuova sfida: quella di uscire da una visione del

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e “medicalizzazione” che possono portare al temporaneo ritiro del tesserino e della pistola di servizio. Da notare che l’esperienza di Foggia – e non solo – ci consegna un quadro in cui circa il 50% dei casi di disagio psicologico scaturisce da problematiche coniugali. Per questo, laddove è stato possibile, considerando l’esiguo numero di psicologi e la mole di lavoro affrontata per il personale in divisa, si è cercato e si cerca tutt’oggi di offrire sostegno non solo ai poliziotti, ma, quando necessario, anche al loro nucleo familiare.


Un nUOvO mODeLLO? on dimentichiamo, infine, quello che molti paventano come un rischio opposto rispetto alle esperienze certamente non positive del G8 di Genova. Basti pensare agli scontri in val di Susa del 2011 dove 200 poliziotti e carabinieri rimasero feriti o alle recenti devastazioni milanesi avvenute il primo

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Formazione, preparazione, consapevolezza: questi tre sostantivi devono essere e diventare il nuovo paradigma delle Forze di Polizia maggio di quest’anno all’inaugurazione di expo. In questi casi la catena di “comando” è stata in qualche modo impostata su una sorta di “laissez-faire”, su una gestione della piazza che prevede una risposta minima delle Forze dell’Ordine, sulla necessità di evitare il più possibile il contatto fisico, sulla facoltà di lasciare sostanzialmente “sfogare” i manifestanti più facinorosi, limitandosi a contenere le azioni maggiormente violente. Può essere una strada, anche se tortuosa e piena di rischi. Personalmente sono convinto che servano soprattutto regole condivise per tutti, sia per chi porta una divisa, sia per chi manifesta. Regole semplici e chiare. Regole che, se trasgredite, portino a conseguenze. Per ciascuno dei soggetti in campo. Rimango convinto che soltanto la crescita professionale e psicologica possa cambiare davvero le cose tra le donne e gli uomini in divisa. Formazione, preparazione, consapevolezza: questi tre sostantivi devono essere e diventare il nuovo paradigma delle Forze di Polizia italiane che oggi operano già con maggiore professionalità e competenza, avendo certamente appreso da alcuni errori del passato. ma la strada intrapresa non può fermarsi qui. Riferimenti bibliografici AA.VV. (2014), Atti del Convegno “21 anni di Psicologia di Polizia” (Roma 3 giugno), Polizia moderna, giugno. Andreoli V. (2010), «Psicologicamente sempre pronti», Polizia Moderna, 10. lori G. (2014), «Quale formazione per la sicurezza urbana?», www.associazioneitalianaformatori.it MonteboVe M. (2009), «Uomini in divisa», Psicologia contemporanea, 216, 30-36.

MonteboVe M. (2010), «Per una cultura dell’ordine pubblico», Psicologia contemporanea, 220, 20-25. MonteboVe M. (2011), «Le notizie che non vorremmo mai dare», Psicologia contemporanea, 224, 76-80. Massimo Montebove, giornalista pubblicista, cultore di psicologia, è dirigente nazionale del Sap, Sindacato autonomo di polizia.

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poliziotto, del carabiniere o dell’agente della municipale condizionata solo dagli aspetti tecnico-giuridico-operativi, che interessano ancora oggi in larga parte anche la formazione e l’aggiornamento. Occorre investire e porre l’attenzione, invece, sull’identità professionale e sulle competenze trasversali, per spostare l’asse, come ha sostenuto Graziano Lori (presidente del “Cerchio Blu”, un’associazione che si dedica al supporto psicologico e alla formazione degli operatori di polizia, dell’emergenza e del soccorso), dalle abilità giuridiche a quelle comunicative e preventive. D’altra parte, una maggiore preparazione inter e multidisciplinare, soprattutto una formazione continua, sono il presupposto basilare per una maggiore consapevolezza di sé che potrebbe portare, in determinati contesti e situazioni, a mettere in discussione anche un eventuale ordine illegittimo. Da questo punto di vista, è fondamentale una sentenza della Corte Costituzionale del 2008 che, in ordine alla responsabilità di un autista della Polizia a cui era stato ordinato di tenere un’andatura elevata (che divenne causa di un incidente), ha sancito e ribadito un principio importante: esiste un campo di autonomia decisionale del “sottoposto” che deve privilegiare, rispetto ad un ordine palesemente illegittimo, i principi generali dell’ordinamento giuridico, proprio in funzione delle possibili conseguenze dannose che ne potrebbero derivare e che il soggetto può e deve rappresentarsi.

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Passare all’atto senza sapere il perché rima di riabbracciare suo padre, finito in carcere anni prima per rapina a mano armata, Luigi era vissuto alternativamente con una madre tossicodipendente e con i nonni depressi. All’età di dieci anni, dopo aver saputo per caso della clamorosa rapina compiuta da suo padre in una nota gioielleria del centro (per lui un mito come altri delinquenti famosi la cui storia viene raccontata nei telefilm), era andato alla ricerca di tutti gli articoli di giornale che avevano parlato di quell’evento e aveva atteso l’uscita dal carcere del padre come una rinascita, come l’inizio di una filiazione. Una volta tornato in libertà il padre aveva preso con sé Luigi, che ora, a quattordici anni, era un ragazzone alto e robusto ma ancora molto ingenuo e dipendente. Insieme avrebbero incominciato una nuova vita. Questo era stato il messaggio di speranza che il padre aveva inviato al figlio. Dopo qualche tempo però, insofferente del ruolo paterno e delle responsabilità e restrizioni che esso comportava, il padre aveva cominciato a mostrare irritazione nei confronti di tutto ciò che Luigi faceva o diceva. Oltre a insultarlo e umiliarlo era arrivato anche a picchiarlo, finché un giorno, in preda all’ira, lo aveva cacciato di casa a calci.

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spite in una casa famiglia a seguito di questo drammatico evento, Luigi si comportava a volte come un bimbo docile e bisognoso d’affetto, a volte in maniera scostante e violenta. E quando il padre aveva confermato il suo rifiuto di riprenderlo di nuovo con sé, Luigi, invece di rientrare nella

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casa famiglia, aveva assaltato una piccola gioielleria del quartiere periferico in cui viveva, aveva minacciato all’arma bianca l’anziano proprietario ed era scappato con alcuni orologi e gioielli che era riuscito ad arraffare. Dopo avere vagato per ore, confuso e senza meta, all’una di notte si era presentato alla casa famiglia, aveva svegliato il direttore e gli aveva consegnato il bottino nella speranza di essere riaccolto. In seguito, nei colloqui con lo psicologo, Luigi scoprì che era stato spinto a quell’atto dalla convinzione che suo padre non lo volesse con sé e lo disprezzasse perché non era diventato un vero delinquente come lui. Quel bottino che aveva arraffato nella gioielleria avrebbe dovuto essere la prova, da offrire al padre, che anche lui era un delinquente, impavido e capace, di cui la gente parla e che segretamente ammira. Spostando questo “fantasma” dalla relazione con il padre a quella che Luigi aveva con il direttore della casa famiglia (da lui percepito come un genitore), era poi stato spinto a provargli il contrario, ossia che non era diventato un vero delinquente e poteva quindi essere riaccolto in casa. Invece di pensare e parlare, Luigi agisce, ossia passa all’atto, in quanto non è in grado di decriptare le proprie emozioni e tanto meno di gestirle e di comunicarle in maniera accettabile e condivisa. In realtà non pensa proprio di poterne parlare con qualcuno. Questo succede quando un bambino non si sente amato e quindi riconosciuto e valorizzato. L’azione diventa allora un modo per imporre la propria presenza, ma anche per


opo questo passaggio all’atto – dopo questo fallimento dettato dal bisogno di farsi accettare da suo padre e ristabilire con lui un legame – Luigi può ancora credere che qualcosa di benefico possa nascere da lui e dalle sue iniziative? Secondo una felice intuizione dello psicoanalista Harold Searles i bambini sono degli “psicoterapeuti precoci”, nel senso che cercano di riuscire a ottenere ciò di cui hanno bisogno per crescere, di farsi amare e di trovare i mezzi per alleviare le sofferenze proprie e altrui. Tra le forze innate più potenti che spingono l’uomo verso i propri simili – ha spiegato Searles nel suo volume Il controtransfert (2000) – c’è, dai primi anni di vita, la tendenza psicoterapeutica; ma se questa tendenza resta insoddisfatta, se non è riconosciuta e viene troppe volte frustrata, essa produce patologia e disadattamento. Dopo un passaggio all’atto di quel tipo, dopo aver tentato di stringere un legame con suo padre comportandosi come lui, Luigi non solo dubita fortemente del suo potere riparatore

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(o “terapeutico”), si vergogna del suo insuccesso e invidia coloro che, al contrario di lui, sono amati e accettati dai genitori; ma rischia anche di cadere nella compulsione della ripetizione e, prima o poi, di finire in galera. Come un bambino all’alba della vita, Luigi ha dunque bisogno di qualcuno che creda in lui, che lo sostenga e lo aiuti, in un percorso di crescita, a trovare modalità riparatrici nuove, diverse e più efficaci di quanto non sia stata l’emulazione del genitore rapinatore, tali cioè da consentirgli di inserirsi in un mondo e in una mentalità diverse da quelle di suo padre. Quel qualcuno Luigi lo ha già indicato, senza saperlo, nel momento in cui ha restituito il bottino della gioielleria al direttore della casa famiglia.

AnnA OLIvErIO fErrArIS

OrdinariO di PsicOlOgia dellO sviluPPO “saPienza” – università di rOma

il caso

inviare un messaggio d’aiuto sia pure confuso e paradossale. Il paradosso in questo caso sta nel fatto che, avendo ammirato suo padre che si era imposto mediaticamente per la sua carriera di delinquente, Luigi, per ottenerne l’attenzione, la stima ed essere accettato da lui, aveva cercato di piacergli emulandolo. Queste dinamiche emotive ci mostrano come al di là di una condotta manifesta, facilmente inquadrabile in una griglia di lettura puramente sociale, sia presente in realtà un mondo sotterraneo complesso e turbolento in cui si agitano affetti, bisogno di riconoscimento, un fisiologico narcisismo adolescenziale e anche una forte spinta ad affermare la propria individualità di fronte agli adulti per ottenere la loro stima, nei modi che il ragazzo conosce, nel caso specifico quelli della malavita.

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PSICOLOGIA DELLA SALUTE

Una vita più semplice eva tenzer

Di cosa abbiamo davvero bisogno? l gioco ideato dal blogger americano Dave Bruno, The 100 thing challenge, consiste nel ridurre a un totale di 100 oggetti l’insieme dei propri ave­ ri. Per Bruno, fra le cose irrinunciabili restano la chitarra e la tavola da surf. Questa forma di ascesi volontaria tro­ va molti seguaci, che nei loro blog pro­ pongono ognuno la propria lista ridotta all’osso. Il minimalismo è un culto e i suoi seguaci l’hanno battezzato LOVOS:

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La domanda se una riduzione dei consumi e del possesso di beni possa aumentare il benessere personale e dare più senso alla vita comincia a interessare terapeuti, ricercatori e psicologi del lavoro

Lifestyle Of VOluntary Simplicity. Qua­ le che sia l’etichetta – minimalisti, downsizer, semplificatori, lifehacker, organizzatori – l’idea è sempre quella di limitarsi volontariamente, in mezzo a una sovrabbondanza crescente, allo strettamente necessario, per praticare uno stile di vita più semplice. Un mae­ stro riconosciuto di questa disciplina, molto prima che inventassero i blog, è stato il Mahatma Gandhi, che oltre alla veste possedeva solo cinque cose: gli occhiali, un orologio da tasca, i sanda­ li, una ciotola e un piatto. Né accettare né possedere ciò che non serve davvero per vivere, era il suo motto. Ma quante sono esattamente queste cose, cento, cinquanta, o ne bastano cinque? E se uno si sente bene in mez­ zo a una sontuosa raccolta di migliaia di oggetti, e solo il pensiero di rinun­ ciarvi lo mette in crisi? E soprattutto, come si capisce quando basta e quando invece gli oggetti, i desideri, gli status


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Impossibile aumentare la felicitˆ oltre un certo limite l cosiddetto “paradosso di Easterlin”, che prende il nome da una ricerca dello studioso americano Richard Easterlin, dice che l’aumen­ to di reddito produce aumen­ to del benessere solo entro un certo limite: una volta soddi­ sfatti i bisogni fondamentali, la curva del benessere si stabiliz­ za e poi, malgrado l’aumento ulteriore della ricchezza, ha addirittura un lieve calo. Così sappiamo, per esempio, che in Giappone negli ultimi 60 anni il reddito medio si è quadrupli­ cato, ma il vissuto soggettivo di soddisfazione personale è rima­ sto invariato. Anche uno studio recente del GESIS, il Leibnitz Institute of Social Sciences, mette in evidenza i chiari limiti della ricchezza come fattore di felicità: la soddisfazione lega­ ta ai consumi non aumenta in maniera lineare, ma si riduce tendenzialmente con il cresce­ re del potenziale di spesa. Una spiegazione di questo paradosso la danno i ricercatori guidati da Eugenio Proto all’U­ niversità di Warwick, nel Regno Unito. Secondo lo studio pub­ blicato nel 2013, la causa di questo ristagno è nelle aspet­ tative create dall’aumento del reddito: «Con un reddito più alto crescono le aspettative di un benessere ancora mag­ giore. E una discrepanza fra quelle aspettative e l’effettiva capacità di spesa è percepi­ ta negativamente. Ciò riduce la soddisfazione per la propria

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situazione di vita e impedisce l’ulteriore crescita del livello soggettivo di benessere», spie­ ga Proto. È impossibile aumentare a piacere soddisfazione e felicità mediante un aumento di ricchezza e consumi sempre maggiori. A partire dal punto in cui si ha tutto quanto serve per vivere, l’aspettativa si ribalta in fastidio e frustrazione. Proto descrive questo meccanismo come «una rincorsa fra aspet­ tative crescenti e loro realizza­ zione», per cui si perdono gli effetti psicologici positivi di una maggiore affluenza. Un in­ teressante risultato collaterale dello studio del GESIS, inoltre, è che una riduzione dei consu­ mi, non causata dalla neces­ sità ma basata sulla rinuncia volontaria, non influisce nega­ tivamente sulla soddisfazione nella vita. Gli psicologi Elizabeth Dunn e Jordi Quoidbach si sono oc­ cupati degli effetti di una di­ sponibilità illimitata di generi voluttuari. Hanno sottoposto per una settimana due gruppi di studenti a regimi alimen­ tari opposti: gli uni potevano consumare cioccolata ad libi­ tum, gli altri erano obbligati a un’astinenza totale. Al termine della settimana, quando hanno ricevuto un pezzo di cioccolata, i soggetti sottoposti al regime di astinenza l’hanno gustata con molta più gioia, mentre gli altri non erano più capaci di apprezzarla: è l’effetto di “as­

suefazione edonistica” ad atte­ nuare il piacere. Una rinuncia almeno temporanea è quindi proprio la strada per aumentare la capacità di godimento. Neppure una grande dispo­ nibilità di tempo libero serve a farci davvero felici, ci dico­ no le ricerche. Gli psicologi Chris Manolis e James Roberts hanno esaminato di recente un campione di 1300 giovani adulti, per accertare in che mi­ sura un atteggiamento mate­ rialistico e consumistico molto spiccato, unito a una gran­ de quantità di tempo libero, contribuisca alla soddisfazio­ ne e al benessere generale. È risultato che ciò tende semmai a peggiorare le cose. Interes­ sante in particolare è che, per quanto riguarda il tempo libe­ ro, non solo averne poco ma anche averne troppo danneggia la qualità della vita: ottimale, a parere dei ricercatori, è una misura intermedia di tempo li­ bero da impegni di lavoro. Mathias Binswanger, profes­ sore di economia alla Scuo­ la Superiore della Svizzera nordoccidentale, ha condotto ricerche in tema di benesse­ re e sostenibilità, da cui viene fuori chiara la correlazione fra sovrabbondanza e disgusto: «L’uomo contemporaneo eco­ nomizza tempo, e questo tem­ po risparmiato lo spreca nel percorrere distanze sempre più lunghe, o per orientarsi a fatica in un assortimento eccessivo di prodotti di consumo. Imprigio­ nato com’è negli ingranaggi del sistema economico, che lo in­ duce a sopravvalutare sistema­ ticamente il piacere del con­ sumo materiale, non si rende


symbol diventano troppi? E come fare, in questa situazione, non solo a frena­ re, ma a inserire la retromarcia e ridur­ re la sovrabbondanza? Per il benessere mentale il tentativo è vantaggioso. Alcu­ ne ricerche dimostrano infatti che per la nostra psiche il crescente benessere materiale e la scelta sempre più ampia di prodotti di consumo sono contropro­ ducenti: anziché arricchirla rischiano di sovraccaricarla (si veda il Box).

arcel Hunecke insegna psico­ logia generale e dell’ambiente all’Università di scienze e arti applicate di Dortmund e nelle sue ricer­ che si occupa soprattutto di sostenibi­ lità: «Lo stress da consumo si aggiunge alle altre cause di stress», osserva, «nel lavoro, in famiglia e nel tempo libero. Siamo costretti di continuo a prendere decisioni, padroneggiare sviluppi nuo­ vi, affrontare il confronto sociale: chi ha più successo, chi possiede di più, chi è più attraente? Questo continuo insegui­ mento di valutazioni e di ranghi socia­ li somiglia alla giostra di un topino in gabbia. E il numero di coloro che non lo reggono più è in grande crescita».

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conto del fatto che il benessere soggettivo è strettamente lega­ to a un comportamento misu­ rato e sostenibile». Un numero sempre crescente di prodotti non potrà certo dar luogo a una soddisfazione crescente, per­ ché da tempo l’enorme scelta del mercato si è tradotta in una forma di tirannia. Non da ultimo, a causa dell’effetto di assuefazione è impossibile un aumento di piacere. Anche per queste ragioni, ma soprattutto in vista dell’in­ quinamento ambientale e dell’esaurimento delle risor­ se, negli ultimi tempi il tema della sostenibilità è in primo piano nella discussione fra gli economisti: com’è pensabile un’economia senza l’obbligo di una crescita continua, e com’è possibile, nelle condizioni attuali, conseguire la sosteni­ bilità come obiettivo generale delle società moderne? Sono domande difficili, ammette Binswanger: «Finché l’econo­ mia è organizzata solo in fun­ zione della crescita, e senza crescita va in crisi, la giostra si potrà rallentare, ma scendere sarà impossibile».

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Sempre più diffuso, specie negli stra­ ti intermedi della società, è il desiderio di sfuggire a questa ruota malsana. Ciò avviene spesso drammaticamente, sot­ to forma di una sindrome da stress, di burnout o di esaurimento totale. Cresce però il numero di coloro che tracciano una linea netta, prima di arrivare alla crisi: «Sono soprattutto le persone più portate a riflettere quelle che si accor­ gono per tempo di dover scendere dal­ la giostra consumistica all’insegna del “sempre di più”, e rinunciano volonta­ riamente, con la sensazione piacevole di potere infine, almeno in questo cam­ po, decidere liberamente», dice Hunec­ ke. Sgombrano la vita quotidiana di tut­ to il superfluo e riducono drasticamente i consumi. Non sono pochi tuttavia quelli che hanno bisogno di un sostegno specifi­ co. Sta crescendo negli ultimi anni la richiesta di vere e proprie figure pro­ fessionali che assistano nell’impresa di sgombero e riordino, i life-coach, specialisti che aiutano a riorganizzare e semplificare la vita quotidiana. Una di loro è, per esempio, Anja Ehlers, psi­ cologa che da anni lavora con le perso­ ne che non riescono a rimettere ordine nel loro contesto quotidiano. A questa scelta professionale è arrivata dopo es­ sersi occupata dei cosiddetti “messie” (da “mess”, “disordine”), pazienti che soffrono di una sindrome di accumulo di oggetti, una forma particolare di di­ sturbo ossessivo­compulsivo. Ma non solo, in questi casi patologici è richie­ sto un sostegno pratico e psicologico per lo sgombero: «Sono sempre di più le persone che hanno perso il controllo della massa di cose che hanno raccol­ to in casa», osserva Ehlers, «ma sen­

Sta crescendo negli ultimi anni la richiesta di vere e proprie figure professionali che assistano nell’impresa di sgombero e riordino, i life-coach

tono il bisogno di ridurne il numero e di ricostituire un ordine sensato». La sua clientela è variegata, per età, li­ vello d’istruzione e condizioni sociali. Dopo anni di consumo intensivo, molti sono sopraffatti dalla quantità degli og­ getti acquistati: «Non sono veri e propri messie, ma hanno capitolato di fronte all’impresa di mettere in ordine le loro cose. Alcuni hanno perso totalmente il controllo e non hanno la minima idea di dove andare a cercare questa o quella cosa, ma non se ne separano per paura di doversene pentire in seguito». Che questo eccesso di oggetti sia cau­ sa di stress è evidente, osserva Ehlers, in particolare per il ripetersi quotidiano di piccoli fastidi, rabbie, incidenti: «In mezzo a quel caos non si riesce a tro­ vare documenti importanti, si perdono di continuo le chiavi, si deve rinunciare a intere stanze perché sono totalmen­ te ingombre». Una volta terminato lo sgombero, per lo più i soggetti provano un grande sollievo: «Il processo di rior­ dino educa alla consapevolezza di ciò che è davvero utile. Motiva a guardare con maggiore chiarezza la vita quotidia­ na, e la maggior parte delle persone si rallegra alla prospettiva di accumulare d’ora in poi meno cose e di potersi go­ dere l’armonia riconquistata». Il passo verso una riduzione consape­ vole di proprietà, pretese, aspettative e status symbol, per una migliore qualità della vita, presenta anche altri aspet­ ti. Un incoraggiamento in questo sen­ so lo troviamo nelle persone che hanno già avviato l’esperimento con successo. Nel mercato editoriale dell’ultimo an­ no troviamo ai primi posti in classifica autori che hanno dichiarato guerra alla sovrabbondanza quotidiana: Judith Le­ vine, che per un anno intero ha rinun­ ciato a ogni consumo, John Lane, che da anni conduce una vita semplicissi­ ma in campagna, lo stesso Dave Bruno, il blogger di The 100 thing challenge, mettono a parte il pubblico dei loro per­ sonali esperimenti.


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cosa di speciale, un’esperienza partico­ lare del gusto», racconta. Ai possibili imitatori Düringer raccomanda peral­ tro di riflettere attentamente su quello cui intendono rinunciare, come e per­ ché, possibilmente senza accettare idee precostituite: «Non si tratta di lasciarsi dettare regole da altri, ma di decidere ognuno per proprio conto come si usano o non si usano certe cose». Solo così è possibile scoprire cosa davvero è impor­ tante per noi.

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attore e scrittore austriaco Ro­ land Düringer si è proposto l’o­ biettivo di fare a meno di tutto ciò che non aveva durante la sua infan­ zia, negli anni Settanta: in altre parole, vivere senza cellulare, carta di credito, televisione, supermercati, computer. In questo modo reagisce alla sensazio­ ne di totale sovraffaticamento da con­ sumismo, cui era stato esposto finora, con la rincorsa ad auto sempre più co­ stose e potenti e altri prodotti di pre­ stigio: «Volere sempre di più mi faceva star male». L’accelerazione folle della vita quotidiana, il “sempre di più”, lo viveva come uno «sviluppo sganciato dal senso». Mette in guardia Düringer: «La quantità abolisce il valore. Ci sono innumerevoli cose belle che ci perdia­ mo, perché l’eccesso di consumi inge­ nera la noia». Questa nuova vita viene sentita non come una rinuncia, ma come un arric­ chimento. Non solo grazie alla liberazio­ ne da status symbol come la macchina o il cellulare, ma addirittura limitando drasticamente il consumo di normali prodotti voluttuari, come il caffè: «In questo modo il consumo diventa qual­

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Una serena riduzione dei bisogni passa attraverso tre strategie, utili al benessere psichico: un sano edonismo, la ricerca di significato e uno scopo personale na strada simile per una riduzio­ ne radicale è quella proposta dal giornalista Leo Babauta: «Il no­ stro corpo e la nostra psiche sono fatti per una vita più lenta. Viviamo senza limiti e non possiamo reggere la ten­ sione causata dal fatto di voler avere e fare tutto. Questo ci logora sotto molti aspetti». Babauta consiglia di porsi da sé dei limiti in ogni azione, di concen­ trarsi sull’essenziale, di usare consa­ pevolmente e con parsimonia le risor­ se sia mentali che materiali. Bisogna inoltre avere ben chiaro dove sono in agguato distrazione, stress e sprechi: una sola attività alla volta invece del multitasking, concentrarsi sul presente anziché sul passato o sul futuro, svuo­ tare la casella postale delle e­mail al massimo due volte al giorno, mangiare con attenzione, guidare più lentamen­ te, sono alcuni dei suoi consigli pratici. Nel suo blog “Zen Habits”, diventato nel frattempo uno dei più letti al mon­ do, presenta una serie di checklist utili

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per rallentare il ritmo, sgombrare il su­ perfluo e semplificarsi la vita. Quanto facili e anche divertenti pos­ sono sembrare questi esperimenti, al­ trettanto difficile è spesso mettere in pratica nella vita quotidiana le strategie di riduzione. Un ostacolo, per esempio, è nel fatto che attribuiamo alle nostre proprietà un grande valore, spesso su­ periore a quello reale. L’americano Da­ niel Kahneman, premio Nobel per l’eco­ nomia, ha documentato questo “effetto di possesso”, che ci fa tendere a so­ pravvalutare nettamente una cosa, se questa ci appartiene. Ciò, accanto ad altri fattori, rende più difficile separarsi dalle cose già acquisite. E tuttavia, ai fini di una durevole pre­ venzione dello stress, vale la pena di tentare: «Si può stimolare l’individuo a una maggiore indipendenza. Sappiamo quali sono le risorse psichiche neces­ sarie e ciascuno può svilupparle per vi­ vere meglio, sia da solo che con l’aiu­ to di un’esperienza di gruppo o di un trattamento individuale», afferma Mar­ cel Hunecke. La via per una serena ri­ duzione dei bisogni passa a suo avviso per tre strategie collaudate, tutte utili al benessere psichico: un sano edonismo, la ricerca di significato, l’impegno per uno scopo personale. Esse danno forza e attivano risorse importanti contro le lusinghe del consumismo.


Riuscire ad accettare le cose per quello che sono, saper cogliere le buone piccole cose di ogni giorno, accontentarsi di meno ficante protegge da quella perdita di senso che affligge la società dei consu­ mi. Ultimamente la stessa industria si sforza di vendere significati, attraverso la pubblicità e l’immagine dei prodotti. Ma qui un’importante funzione di cer­ niera spetta all’attenzione: riuscire ad accettare le cose per quello che sono, saper cogliere le buone piccole cose di ogni giorno, accontentarsi di meno, tut­ to serve. Imparare a lasciar perdere, ri­ portare il consumo a una misura saluta­ re, ricominciare a fare le cose da soli e proporsi obiettivi in proprio, sono aspet­ ti decisivi, sotto il profilo psicologico, per un vissuto di autoefficacia. Tutto ciò aumenta la capacità di resistenza alle seduzioni consumistiche. In questa ampia rete di risorse psi­ chiche ciascuno può cercare il punto d’accesso più adatto a lui, partendo da lì per un lavoro sistematico di revisione anche negli altri ambiti, così da sfuggi­ re alla routine e alla giostra senza fine dei consumi. TiTolo originale: «einfacher

leben: was brauchen wir wirklich?»,

Psychologie heute, dicembre 2014, 20-25. Traduzione di gabriele noferi.

Riferimenti bibliografici BaBauta L. (2009), The power of less. The fine art of limiting yourself to the essential in Business and in life, Hyperion, New York. Binswanger M. (2006), Die Tretmühlen des Glücks. Wir haben immer mehr und werden nicht glücklicher. Was können wir tun?, Herder, Freiburg. Bruno D. (2011), The 100 thing challenge. How I got rid of almost everything, remade my life and regained my soul, Harper, Collins, New York.

Düringer r., arvay C. G. (2013), Leb wohl, Schlaraffeland. Die Kunst des Weglassens, Edition a. Hunecke M. (2013), Psychologie der Nachhaltigkeit. Psychosche Ressourcen für Postwachstumgesellschaften, Oekom, München. Jay F. (2010), The joy of less. A minimalist living guide, Anja Press, www.anjapress. com. Lane J. (2012), Das einfache Leben. Vom Glück des Wenigen, Aurum, Herbst.

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Edonismo. Invece di voler acquistare e possedere sempre di più, quello che conta è ricavare dalle cose e dalle espe­ rienze un autentico godimento dei sen­ si. Possono servire allo scopo esperienze di educazione del gusto (per esempio, i seminari Slow Food), che affinano la sensibilità: «Questi training fanno sì che l’intensità dell’esperienza possa mettere in ombra la pura e semplice quantità dei consumi». Anche Tim Jackson, che in­ segna sviluppo sostenibile all’Universi­ tà del Surrey e da anni studia modelli di vita non consumistici, invita a questo tipo di edonismo alternativo, che mette in primo piano aspetti come significa­ to condiviso, relazioni interpersonali e qualità della vita, riducendo i consumi e i tempi di lavoro. Le sue ricerche dimo­ strano che, avendo possibilità di spen­ dere senza problemi, è meglio concen­ trarsi su cose immateriali, come teatro, concerti, hobby e buon cibo, cioè su tut­ to ciò che offre godimento e bei ricordi: un tipo di consumo capace di dare sod­ disfazioni durevoli. Scopi. Hunecke fa notare che «le per­ sone cambiano il loro comportamento quotidiano solo se possono ricavarne qualcosa». In questo senso è d’aiuto proporsi degli scopi, il cui consegui­ mento susciti emozioni positive, co­ me la fierezza di essere riusciti a cor­ rere una maratona o la soddisfazione di mangiare i prodotti del proprio or­ to: «Secondo la ricerca, realizzare tali progetti contribuisce al benessere psi­ cologico. Il senso di autoefficacia e la maggiore autostima danno la forza di sottrarsi al consumo fine a se stesso». Significato. Gli scopi orientati verso una comunità solidale aprono orizzon­ ti nuovi. Comunque sia, in un gruppo, sul piano spirituale o nella ricerca di un significato del tutto individuale, la concentrazione su un’esperienza signi­

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Il caso H. M. orse nessun campo della psicobiologia, come quello della memoria, ha portato in breve tempo a conoscenze così approfondite. Eppure, la storia della memoria passa attraverso alcuni casi clinici che hanno consentito di comprendere i rapporti tra struttura e funzione e, aspetto non meno importante, l’impatto che i ricordi hanno sulla nostra identità personale.

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l primo caso clinico è quello descritto nel 1973 da Alexander R. Lurija in Un mondo perduto e ritrovato. È il caso, quasi letterario nella sua coinvolgente narrazione, di una devastante, pressoché totale, perdita della memoria, il «racconto di un solo attimo che distrusse una vita intera. È il racconto di come una pallottola, perforato il cranio di un uomo, penetrò nel suo cervello e spezzò il suo mondo in migliaia di frammenti che egli non riuscì più a riunire. Questo è il libro di un uomo che ha dedicato tutte le sue forze per recuperare il suo passato e conquistare il suo futuro». Lurija scelse volutamente di raccontare il “caso clinico numero 3712”, il caso appunto del tenente Zasetskij, come se esso fosse un romanzo, la ricca cronaca di una vita individuale, la cronistoria di una «lotta cui non ha arriso la vittoria e della vittoria che non ha impedito la lotta». Colpito da una gravissima amnesia, non soltanto Zasetskij non ricordava nulla del proprio passato, cioè aveva perduto la memoria episodica, ma non poteva né leggere né ricordare ciò che aveva scritto: le parole scritte erano per lui prive di significato, così come gran parte delle informazioni che gli venivano fornite, con pazienza, dall’infer-

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miera. Egli poteva soltanto mettere insieme dei pensieri, così come avvenivano, a caso, veri brandelli della sua memoria che affioravano disordinatamente dagli abissi del suo cervello scompaginato. Eppure, nella tragedia che lo colpì, il tenente Zasetskij riuscì a comprendere che, anche se la sua vita non sarebbe mai stata normale, essa avrebbe potuto avere un significato se egli si fosse sforzato di ricordare, di concatenare ciò che affiorava dalle profondità della sua mente. Così, per oltre venti anni, egli scrisse ogni giorno frasi o pagine disorganizzate, nel disperato tentativo di riorganizzare la sua memoria, di dare continuità al suo passato, di comprendere attraverso quali tappe si fosse svolta la sua vita. Quando Lurija descrisse il caso di Zasetskij, le tecniche di brain imaging non esistevano, ma sulla base dei dati clinici e radiografici, è possibile attribuire i deficit della memoria e della lettura a danni a carico della corteccia temporale, parietale e delle aree associative parieto-occipitali-temporali. iverso è invece il caso ancor più noto di H. M. (Henry Gustave Molaison), forse l’acronimo più pervasivo di tutta la letteratura neuroscientifica. H. M. sin da piccolo cominciò a soffrire di gravi crisi epilettiche resistenti ai farmaci: quando ebbe 26 anni, nel 1952, il neurochirurgo William B. Scoville decise che l’unico modo per alleviare la condizione del giovane era un’operazione al cervello volta a rimuovere il focolaio epilettico, vale a dire la parte di corteccia da cui prendeva inizio l’attività convulsiva. L’intervento neurochirurgico, documentato dagli

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Il caso di H. M. è descritto in ogni testo di neuropsicologia e, a differenza di quello di Zasetskij, si basa su una massiccia documentazione di tipo neuropsicologico e strumentale: documentazione su cui è basato un bel libro di Suzanne Corkin, una neuroscienziata che per quasi mezzo secolo ha avuto una frequentazione professionale e umana con Henry Molaison. In Prigioniero del presente Corkin nota che «il cervello di Henry ha risposto a più domande sulla memoria di quanto abbiano fatto gli studi neuroscientifici dei cento anni precedenti», anche se, a mio parere, il caso di Zasetskij non è da sottovalutare. Ma la testimonianza della Corkin è importante anche perché è la testimonianza di una psicologa che si pone degli interrogativi sulla propria identità alla luce dell’identità del paziente. Un complesso e inquietante gioco di specchi sul ruolo della memoria.

ALBERtO OLIVERIO “SapIenza” – UnIverSItà dI roMa

Corkin S. (2015), Prigioniero del presente, Adelphi, Milano. Lurija A. R. (1973), Un mondo perduto e ritrovato, Editori Riuniti, Roma, 1991. SCoviLLe W. B., MiLner B. (1957), «Loss of recent memory after bilateral hippocampal lesions», Journal of Neurology, Neurosurgery & Psychiatry, 20, 11-21.

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schemi operatori tracciati dallo stesso Scoville, portò a una remissione delle gravissime crisi epilettiche, ma ben presto il giovane manifestò una severa amnesia anterograda, vale a dire l’incapacità di ricordare gli eventi della sua vita successivi all’operazione, al punto da non riconoscere le persone che lo circondavano, medici compresi. Venne chiamata una grande esperta delle funzioni del lobo temporale, Brenda Milner, che si trattenne per tre giorni insieme ad H. M. e si rese conto che il giovane era, per esempio, in grado di imparare a eseguire nuovi compiti (come il disegnare una stella agendo attraverso uno specchio), ma non conservava traccia mnemonica di quanto si era verificato in quei tre giorni, compresi i test cui era stato sottoposto. Milner arrivò alla conclusione che nel caso di H. M., come in tutti i casi di lesioni bilaterali del lobo temporale mediale, si verificava una perdita delle memorie recenti se la lesione interessava anche parti dell’ippocampo anteriore e del giro ippocampale. Le ipotesi di Milner furono confermate quando H. M. fu sottoposto a studi di neuroimaging. Oggi sappiamo con certezza che è proprio questa struttura, insieme alla corteccia temporale inferiore, che consente le trasformazioni delle memorie a breve termine in memorie durature.

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Fabrizio mastroFini

La famiglia Chiesa e psicologia a confronto

l matrimonio per la Chiesa cattolica è un sacramento, è indissolubile, e la rottura di questo ordine fondato sul Vangelo non è riparabile. Se viene viola­ to l’uno o l’altro dei comandamenti (per esempio il «non uccidere» oppure «ono­ ra il padre e la madre»), tramite la pe­ nitenza è possibile riaccostarsi ai sacra­ menti. Nel caso del matrimonio no. In effetti all’interno della posizione mono­ litica di questi ultimi cinquant’anni, a partire dall’enciclica Humanae Vitae di Paolo VI (1968), qualche voce difforme si è fatta sentire. Alcuni – pochi – bibli­ sti e storici della Chiesa notano che nel­ la prassi del Primo millennio e nel mon­ do ortodosso orientale (Cereti, 2014), si danno dei percorsi penitenziali per riammettere divorziati e risposati. Per la Chiesa cattolica, finora, è prevalsa in­ vece una posizione rigorista. In passato esistevano posizioni ancora più rigori­ ste. Sant’Agostino, per esempio, pensa­ va che le seconde nozze erano lecite nel caso della morte di un coniuge anche se la vedovanza casta veniva conside­ rata migliore; Tertulliano, d’altra parte, proibiva le seconde nozze perché a suo parere l’indissolubilità superava la fine della vita.

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La Chiesa si interroga sulla realtà della famiglia. Forse si arriverà ad una revisione della legge canonica che prevede l’esclusione dalla comunione per i divorziati. Si tratta di un tema che interessa tante persone ed entra nelle dinamiche della vita matrimoniale

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Discussioni

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L’impostazione fortemente ideologica della visione familiare non consente di considerare le dinamiche proprie della relazione fra le persone LA reLAzIoNALITà l percorso immaginato da Papa Fran­ cesco attraverso il Sinodo dei Vesco­ vi (si veda il Box) dovrebbe portare ad una normativa più aperta e realisti­ ca. Tuttavia la modifica delle posizio­ ni dogmatiche si rivelerà opera lenta e complessa. La famiglia è definita come l’istituzione sociale derivante dal matri­ monio tra un uomo e una donna, dove la sessualità è esercitata per dare vita a dei figli e sarebbe inscritta nell’«ordine

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il sinodo sulla famiglia 2014-2015 ttobre 2014 è stato il mese del Sinodo dei ve­ scovi dedicato alla famiglia. Il Sinodo è lo stru­ mento ideato da Papa Paolo VI per aumentare la “collegialità” gestionale della Chiesa. Si è trattato di un Sinodo “straordinario” al quale hanno partecipato i presidenti delle conferenze episcopali di tutto il mondo, vescovi e cardinali della Curia, esperti di nomina papa­ le; in tutto 230 persone. L’assise è stata preceduta da una consultazione sulla base di un questionario, le cui risposte hanno portato al «Documento di lavoro» alla base dell’assemblea. Un Sinodo “straordinario” in ge­ nere serve a una “rapida definizione” dei problemi. In realtà, vista la posta in gioco e la rigidità dottrinale da modificare, Papa Francesco ha ritenuto opportuno un percorso in due tappe. La prossima imminente tappa di ottobre vedrà una nuova riunione del Sinodo dei ve­ scovi, questa volta un’assemblea “ordinaria” alla qua­ le, oltre agli esperti di nomina papale, parteciperanno vescovi eletti dalle diverse conferenze episcopali. Con i due Sinodi si è voluta garantire la più ampia rappre­ sentatività e al termine della seconda assemblea si può immaginare che arriveranno decisioni concrete.

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naturale» voluto da Dio. Gesù interviene contro il ripudio della donna da parte dell’uomo anche nel caso di “porneia” (“concubinato”), previsto dalla legge ebraica come unica eccezione ammes­ sa. Un ulteriore inciso del Vangelo di Matteo rende lecito il ripudio nel caso di concubinato, ma forse si riferisce a relazioni tra ebrei e non ebrei. Grande assente in Vaticano è il tema della “relazionalità” e del problematico costruirsi dei rapporti umani, come ben sa chi si occupa di psicologia relaziona­ le e come insegnano le scuole di terapia della famiglia. Nel Sinodo straordina­ rio dell’ottobre 2014 troviamo soltan­ to due brevi passaggi in questo senso. Nell’intervento introduttivo il cardinale ungherese Peter erdo ha notato che le relazioni «che si stabiliscono in famiglia sono punto di incrocio tra la dimensione privata e quella sociale». Tuttavia «attra­ verso i coniugi, il loro concreto aprirsi alla generazione della vita, si fa l’espe­ rienza di un mistero che ci trascende. L’amore che unisce i due coniugi e che diventa principio di nuova vita, è l’amo­ re di Dio». Nel documento conclusivo si parla di «rilevanza della vita affettiva», evidenziando che «la sfida per la Chiesa è di aiutare le coppie nella maturazione della dimensione emozionale e nello svi­ luppo affettivo attraverso la promozione del dialogo, della virtù e della fiducia nell’amore misericordioso di Dio».

UNA VISIoNe PLUrIDIMeNSIoNALe impostazione fortemente “ideo­ logica” della visione familiare non consente di considerare le dina­ miche proprie della relazione fra le per­ sone. Tra i partecipanti al Sinodo non erano presenti psicoterapeuti impegna­ ti nella terapia della famiglia, dunque i problemi specifici delle relazioni inter­ personali sono risultati assenti oppure stereotipizzati. Del resto l’enciclica Hu-

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Discussioni Promettenti sono gli sviluppi che considerano le diverse dimensioni della famiglia, integrando punti di vista e approcci teorici diversi tro. Nei fallimenti della relazione emer­ ge la rottura, spesso inconsapevole, del “patto” operata perlopiù da uno ai dan­ ni dell’altro e che si scopre essere spes­ so nascosto, mai esplicitato e verifica­ to. La dimensione intergenerazionale è molto importante: ogni nuova famiglia incrocia a sua volta le rispettive famiglie di origine, la nuova che viene costituita, quella ancora diversa che si realizza nel tempo quando nascono dei figli (Framo,

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manae Vitae al paragrafo 8 recita: «Il matrimonio […] è stato sapientemente e provvidenzialmente istituito da Dio creatore per realizzare nell’umanità il suo disegno di amore» (Paolo VI, 1968). La relazione interpersonale analizza­ ta secondo le coordinate della Scuola di Palo Alto, dei terapisti della famiglia (anche in prospettiva trigenerazionale) e integrata da una visione umanistica, in dialogo con la teoria dell’attaccamen­ to, consente una visione pluridimensio­ nale dei rapporti familiari (Mastrofini, 2014). Promettenti sono, infatti, gli svi­ luppi che considerano le diverse dimen­ sioni della famiglia, integrando punti di vista e approcci teorici diversi. Per esempio, si parla sempre più spesso del “patto” che è all’origine di ogni nuova famiglia e si tratta di portare alla luce ciò che davvero ognuno dei due com­ ponenti della coppia desidera dall’al­

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Spesso la maturità è solo anagrafica e andando a vedere meglio ci troviamo di fronte individui profondamente immaturi dal punto di vista relazionale

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1996). Qui si innestano delle conside­ razioni sul “ciclo di vita” della famiglia, in verità tema poco considerato (Minu­ chin, 1978). Negli anni i due genitori cambiano, invecchiano, intercettano le dinamiche proprie del loro specifico ci­ clo di vita le quali si riflettono sull’insie­ me dei rapporti familiari; lo stesso acca­ de per i figli nel passaggio dall’infanzia all’adolescenza, alla giovinezza che per i genitori rappresenta il passaggio ver­ so la maturità e la vecchiaia. Un altro aspetto di grande interesse riguarda la separazione dalla famiglia di origine e

la verifica dell’esistenza di una maturità affettiva ed emotiva (Whitaker e Napier, 1981). Spesso si ha una maturità solo anagrafica e andando a vedere meglio ci troviamo di fronte individui profonda­ mente immaturi dal punto di vista psi­ cologico e relazionale, a tal punto di­ pendenti dalla famiglia di origine, che il nuovo nucleo non riesce a darsi una consistenza autonoma, intaccando la tenuta della coppia (Andolfi, 1999). Un altro aspetto ancora è di natura socia­ le, con il grande impatto delle difficol­ tà economiche e lavorative sulla fami­ glia, e riguarda la caratteristica italiana di tenersi in casa i figli anche quando sono oramai in età adulta, prolungando il ciclo di vita di un nucleo in maniera anomala e non sana per l’autonomia e lo sviluppo psichico delle persone che ne fanno parte.


Discussioni onsiderata in questo modo la fa­ miglia non è più un’entità astrat­ ta, bensì un “sistema” che in­ teragisce con i singoli elementi al suo interno e con gli altri “sistemi” che im­ pattano sulla sua esistenza. e un’analisi di questo tipo non può prescindere da una visione psicodinamica che registri le influenze di ogni elemento sugli altri, prendendo in considerazione l’evolversi del legame nei diversi cicli di vita della coppia. Dal canto suo la Chiesa, anche se a parole sostiene di avere a cuore la famiglia, nucleo fondante della società, tuttavia si sofferma soltanto sugli aspet­ ti “formali” del legame e tanto meno parla di “coppia”. Portiamo un esempio che deriva da una consultazione. Nel colloquio, ma­ rito e moglie (entrambi cinquantenni e sposati da venti anni) fanno emergere la loro situazione altamente conflittuale e problematica. È il marito in partico­ lare a dire espressamente di «non po­ terne più». «Non posso andare avanti in una situazione di scontro e conflitto continuo, molto spesso con esiti violen­ ti». Una confessione drammatica, resa con una forte connotazione emotiva. Di fronte a tanto la moglie con estrema calma risponde: «Credo nell’indissolu­ bilità del matrimonio», chiudendo così ogni ulteriore dialogo. Il confronto tra i coniugi in quel momento riguardava

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il loro rapporto; la risposta evidenzia­ va un elemento estrinseco e ideologico, coprendo ogni responsabilità individua­ le per impedire la presa di coscienza del ruolo che tutti svolgono nella riuscita o nel venir meno del rapporto stesso. Torniamo alla Chiesa. Stando ai docu­ menti in campo – le relazioni preparato­ rie, le relazioni e gli interventi durante le tre settimane di Sinodo in Vaticano – la Chiesa sembra distante dal conside­ rare la famiglia dal punto di vista delle relazioni. esistono i “corsi prematrimo­ niali”, ma nessun aiuto per le difficoltà relazionali successive, lasciate ai con­ fessionali nel migliore dei casi. Il vero salto di qualità consisterebbe nell’ab­ bandonare gli aspetti teologico­formali – basati su una visione idealizzata della famiglia di Nazareth, di cui peraltro nul­ la si conosce – e prendere sul serio la prospettiva sistemica.

Riferimenti bibliografici Agostino, La dignità dello stato vedovile, Città Nuova, Roma, 1993. Andolfi M. (a cura di, 1999), La crisi della coppia, Cortina, Milano. Cereti G. (2014), Matrimonio e indissolubilità, Edb, Bologna. Crouzel H. (1971), L’Eglise primitive face au divorce, Editions Beauchesne, Parigi. frAMo J. L. (1996), Terapia intergenerazionale, Cortina, Milano. MAstrofini f. (2014), Né castello né prigione. Come affrontare i problemi della vita in famiglia, Edb, Bologna.

Marina Balbo

EMDR E DISTURBI DELL’ALIMENTAZIONE Tra Passato, Presente e Futuro

pp. 224 - € 22,00

MinuChin S. (1978), Famiglie e terapia della famiglia, Astrolabio, Roma. PAolo Vi (1968), Lettera enciclica Humanae Vitae, Lev, Città del Vaticano. tertulliAno, Esortazione alla castità, La vita felice, Milano, 1995. WhitAker C., nAPier A. (1981), Il crogiolo della famiglia, Astrolabio, Roma. Fabrizio Mastrofini, psicologo, giornalista, lavora con le famiglie in difficoltà ed è specializzato nell’analisi organizzativa delle strutture complesse.

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SI rIChIeDe UN SALTo DI QUALITà

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a cura di guido sarchielli dipartimento di psicologia , università di bologna

«vuoi sempre aver ragione!» Quanto è difficile lavorare con gli arroganti

« psicoscopio

Lavoro in una squadra di 6 ragazze oltre ai due proprietari in un grande negozio di articoli sportivi. Tutti noi dipendenti siamo alla pari, ma Laura si comporta come se fosse la padrona. Secondo lei nessuno la supera in intelligenza e nel record di vendite. Quando sei in turno con lei ti fa sembrare un’incapace per fare bella figura con i proprietari e magari ricevere qualche gratifica personale. Quando può cerca di screditarti o anche di sgridarti ad alta voce per qualche piccolo errore. Si sente l’unica brava venditrice, la più brillante. Parla sempre di sé, si vanta di continuo dei suoi meriti e non dà spazio alle colleghe. Non ascolta nessuno e spesso risulta sgarbata e poco rispettosa degli sforzi degli altri. Mi è difficile parlare con lei anche di questioni di lavoro perché vuole sempre aver ragione. Non ammette mai di sbagliare o che si poteva fare qualcosa diversamente. Non si scusa mai e non è capace di riconoscere il merito delle colleghe, né di dire loro un grazie. Per un po’ ho cer-

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cato di farla ragionare e di farmela amica, ma ormai il clima di lavoro è diventato indisponente, mi costa troppo far finta di niente e sto pensando di andarmene». un esempio di vita lavorativa che rende evidente l’arroganza che spesso connota le relazioni di lavoro rendendole sgradevoli. Si tratta di un esagerato senso di superiorità, una tracotanza esplicitata nelle parole spesso sarcastiche o offensive e nelle condotte di tendenziale svalutazione delle colleghe. Tali comportamenti non sono rari anche se risultano più eclatanti e biasimati quando la persona arrogante riveste posizioni di responsabilità (tanto è vero che l’arroganza è un tratto ormai riconosciuto

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a ricerca psicologica ha fatto emergere due tipi di evidenze: a) gli arroganti, nonostante gli sforzi di apparire migliori, spesso mostrano livelli di intelligenza (soprattutto emotiva) non elevati e capacità di prestazione non superiori a quelle degli altri. Dunque, l’arroganza anche sui luoghi di lavoro sembra mascherare, in realtà, una bassa fiducia in sé stessi, un’insicurezza nelle relazioni interpersonali e prestazioni modeste, compensate appunto con l’esagerazione del proprio modo di presentarsi come più competenti. È considerata una strategia auto-difensiva, più o meno consapevole, che prevede: la mancanza di rispetto per le idee altrui, la pretesa di essere sempre meglio informati e più capaci, il prendersela con gli altri e incolparli se le cose non vanno, l’essere insensibili ai punti di vista e ai commenti altrui; b) si è visto che quanto più elevata è l’arroganza, anche nelle relazioni lavorative tra colleghi, tanto più si riducono la qualità delle prestazioni lavorative e dei risultati del lavoro, i comportamenti di “cittadinanza organizzativa” (cioè l’aiuto tra colleghi o il sostegno ai più giovani o agli apprendisti, ecc.) e quelli in favore dell’organizzazione in generale (per esempio, cala l’attenzione per gli obiettivi organizzativi di fondo o per la preservazione degli strumenti e ambienti di lavoro; prevale l’attenzione ai propri interessi rispetto a quelli collettivi); infine tende a crearsi un clima sociale irritante e velenoso.

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on fare nulla di fronte all’arroganza lavorativa rischia di stabilizzare un circolo vizioso dagli effetti organizzativi preoccupanti: l’iniziale paura della propria inadeguatezza stimola l’adozione di condotte arroganti. Esse richiamano risposte negative da parte dei colleghi (non sempre disposti a sopportare o lasciar perdere) che via via accentuano nell’arrogante la percezione di doversi battere per confermare la propria presunta superiorità, sviluppando ulteriori risposte di prevaricazione. Per contrastare l’arroganza lavorativa le organizzazioni intelligenti devono operare in modo che le situazioni interpersonali difficili rientrino nel loro normale sistema di gestione delle risorse umane. Esso dovrebbe prevedere espliciti piani di prevenzione con “tolleranza zero” per i comportamenti arroganti, aggressivi e di prevaricazione nonché la riduzione di una eccessiva competitività tra i lavoratori. Sul piano pratico non vale la pena assumere una condotta di opposizione a tutto campo verso il collega arrogante (poiché si rinfocola un’escalation aggressiva). Ciò non significa però “fare da zerbino” che sopporta tutto. Occorre chiarire e ben circoscrivere – sin dai primi incontri – le relazioni con la persona arrogante concentrandosi sugli obiettivi di lavoro comuni e senza concedere di mettere in crisi sé stessi e il proprio valore. Andrebbe inoltre incoraggiata la capacità delle persone di discriminare le singole situazioni per rendersi conto di quando le condotte arroganti derivino da insicurezza e bassa stima di sé del collega arrogante e, in tal caso, creare l’opportunità di ascoltare e di far intravedere i vantaggi reciproci dell’essere più tolleranti.

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di una cattiva leadership). Qui si manifesta un’“arroganza tra pari grado” che minaccia la cooperazione sul lavoro e che risulta talvolta giustificata dall’eccessiva competizione stimolata dalle stesse imprese per ottenere una più elevata produttività. L’arrogante vuole apparire “invincibile” in ogni situazione, “tutto deve girare intorno a lui”, si sente sempre il migliore e si aspetta un trattamento speciale e privilegi; non si cura di leggere i segnali concreti della situazione particolare di lavoro, di diagnosticarla bene per adattare le proprie risposte e renderle appropriate.

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Nonostante la diffusione dei social network, la solitudine oggi è una delle condizioni che maggiormente sembrano affliggere le persone. Particolarmente significativa è la solitudine delle persone che assistono parenti malati e cause della solitudine sono molteplici. Una di queste, però, non è ancora sufficientemente indagata, anche perché riferita a situazioni che solo da alcuni decenni sono venute accentuandosi. È la solitudine delle persone sole (cioè senza una propria famiglia e spesso anche senza parenti stretti) costrette a vivere quotidianamente con an-

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ziani affetti da Alzheimer o da demenza senile (Beeson et al., 2000), con i quali risultano impossibili le forme di comunicazione che normalmente si mettono in atto nel rapporto con altri esseri umani. Si tratta, infatti, di anziani perseguitati da allucinazioni che non sempre i medicinali riescono a eliminare; che hanno perduto del tutto la propria identità o che conservano un’identità riferita però esclusivamente agli anni della propria infanzia; incapaci di empatia, se non per pochi secondi, in quanto la comprensione della condizione dell’altro viene quasi immediatamente neutralizzata dall’assenza di memoria; non più in grado di esercitare il benché minimo supporto nei confronti di chi vive con loro; non in grado di chiedere aiuto neppure attraverso i sistemi di telesoccorso dall’uso estremamente semplificato.


nche nel Manifesto per i familiari caregiver (elaborato su iniziativa dell’ASL di Brescia, presentato a Milano l’8 novembre 2013 e sottoscritto da molti soggetti istituzionali e assistenziali) si sottolinea come oggi ci si trovi in presenza di una progressiva difficoltà nell’espletamento delle funzioni di cura, perché è aumentata la gravità clinicoassistenziale delle persone bisognose e perché è cambiata la struttura della famiglia: da una pluralità di attori dell’assistenza alla sostanziale solitudine della diade curante-curato. Di conseguenza, si afferma nel Manifesto, i vissuti più frequenti del caregiver, «ingravescenti con il protrarsi dell’assistenza nel tempo, sono la solitudine, l’incertezza sul futuro, le conseguenze emotive del contatto costante con una sofferenza prolungata e spesso molto grave». Non a caso si definisce tutto ciò come “caregiver burden”, condizione che comprende sofferenza, oneri, carichi, pressioni, responsabilità, fardelli, gravi preoccupazioni, stress (essandor, 2012). Ne costituisce una conferma il fatto che la quasi totalità dei caregiver finisce con l’assumere psicofarmaci. È vero che esistono gruppi di sostegno per i familiari dei malati di demenza. Ma tutto ciò non risolve il problema. D’altra parte, amici e parenti affermano con faciloneria che è sufficiente “assumere una badante” oppure “inserire il malato in una struttura

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assistenziale”. Purtroppo queste soluzioni non sempre sono possibili o comunque semplici da attuare. Da qui il senso soggettivo di solitudine provato dal caregiver, che risulta essere profondamente distruttivo (Cacioppo et al., 2011). Nel nostro paese le strutture assistenziali sono numericamente molto ridotte e per le persone non autosufficienti prevedono rette elevate, a cui è impossibile far fronte, tant’è vero che molte famiglie sono costrette a indebitarsi o addirittura a vendere la propria abitazione. Tenere in casa un anziano malato di demenza non è quindi una scelta: è una necessità. Anche l’assunzione di una badante non è priva di problemi: a parte i costi, che anche in questo caso sono piuttosto elevati, qualora l’anziano non disponga di una propria abitazione il caregiver si trova costretto a condividere totalmente la propria vita con una persona scelta non sulla base di bisogni emotivi o relazionali personali, ma unicamente sulla base dei bisogni di cura dell’anziano. I dati disponibili nell’ultimo rapporto Censis segnalano come nel 33% dei casi la cura della persona anziana oggi ricada su una persona a propria volta anziana, in quanto una persona su tre di circa 60 anni ha un genitore di età compresa tra gli 80 e i 90 anni. Inoltre, aspetto ancora più grave, il 36% degli anziani non autosufficienti vive con un figlio adulto che generalmente è una figlia (fattore “di genere” non sufficientemente indagato finora).

soli, ma non da soli AntonellA reffieunA

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CAregIver BUrDeN

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CoMe UN vIrUS l caregiver (ma forse sarebbe meglio dire la caregiver), pertanto, è costretto a ristrutturare la propria vita in senso totalizzante poiché non dispone quasi più né di tempi né di spazi propri. Non a caso oltre il 50% dei familiari che assistono un anziano non autosufficiente va incontro a sindromi da disadattamento. La tendenza all’isolamento che contraddistingue la situazione di solitudine di un caregiver è pertanto un’imposizione che deriva dal contesto, non una scelta personale. Non ci risulta che finora queste situazioni siano state analizzate secondo i principi della psicologia ecologica di Bronfenbrenner. La ragione è facilmente comprensibile: l’anziano demente è esattamente il contrario di una persona in sviluppo, in quanto tutte le sue funzioni vanno deteriorandosi e perdendosi e non si verifica alcun incremento di capacità, ma anzi il progressivo scivolamento verso uno stato di vita pressoché vegetativo. Nonostante ciò, rifarsi all’ecologia dello sviluppo umano potrebbe forse far meglio comprendere la situazione di questa categoria di caregiver. Apparentemente non sembrerebbe possibile constatare l’esistenza di una diade primaria: l’anziano non ha per nulla presente nella propria mente la persona che si prende cura di lui, neppure quando è fisicamente presente. Ma l’anziano è invece continuamente presente nella mente del caregiver figlio o figlia, anzi, possiamo dire che la occupa quasi totalmente: anche nel mezzo di un’attività lavorativa, di una situazione ricreativa quale un film o un concerto, della spesa al supermercato,

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l’anziano è continuamente presente nella mente del caregiver figlio o figlia, anzi, possiamo dire che la occupa quasi totalmente

si presenta improvvisamente la necessità di ricordarsi di chiamare il medico piuttosto che di acquistare un medicinale oppure la riflessione su come sarebbe più opportuno modificare il modo di trattare l’anziano. Senza sembrare offensivi o poco sensibili, non si può non pensare all’analogia con uno di quei virus informatici che si installano nelle parti più profonde di un computer e che si manifestano all’improvviso.

BeNeSSere e qUALITà DI vITA DeL CAregIver utto ciò influenza negativamente il benessere e la qualità di vita del caregiver. Analizzare il benessere di un caregiver, che affronta da solo la cura di un anziano demente, significa in primo luogo richiamarsi al concetto di benessere soggettivo, considerato universalmente tra gli indicatori di qualità della vita. Il benessere soggettivo è frutto di percezioni personali ed è il risultato di valutazioni delle proprie condizioni di vita che si rifanno a tutte le dimensioni più importanti dell’esistenza di una persona (cognitiva, emotiva, sociale, biologica). In un interessante lavoro svolto nel 2011 da una commissione formata da Joseph Stiglitz, dal premio Nobel Amartya Sen e da Jean-Paul Fitoussi, volto a evidenziare la necessità di trovare indicatori del progresso sociale e delle performance economiche che andassero oltre le leggi di mercato, si evidenzia come la dimensione soggettiva della qualità di vita comprenda diversi aspetti. Il primo di essi è rappresentato dalla valutazione che la persona fa della propria vita sulla base di ragionamenti di carattere cognitivo riferiti alla famiglia, al lavoro e alle condizioni finanziarie. Il secondo aspetto è rappresentato dai sentimenti provati, come il dolore, la preoccupazione e la rabbia, oppure il piacere, l’orgoglio, il rispetto. Se per quanto riguarda il primo aspetto il care-

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giver in genere valuta la propria situazione come decisamente negativa, priva di sicurezze sia in termini di supporti sociali sia in termini economici, la pressione sociale fa sì che i sentimenti negativi siano decisamente negati o tenuti in secondo piano: la rabbia, in particolare, viene scarsamente riferita come sentimento primario oppure viene indirizzata apparentemente solo verso le carenze delle istituzioni sanitarie e assistenziali. In realtà, il caregiver può attraversare una fase (che in genere è quella iniziale) in cui la rabbia si indirizza anche verso lo stesso anziano, come se quest’ultimo fosse ritenuto in qualche modo personalmente responsabile delle limitazioni conseguenti alla sua malattia. Comunque, la quasi totalità dei caregiver, specie se “soli”, vive quotidianamente il conflitto tra la volontà di non lasciare l’anziano che dipende da loro e il bisogno di espressione personale, di sviluppo e di socializzazione presente in ogni essere umano. questo conflitto è fonte di stress, se non di vero e proprio burnout, ed è spesso causa nel caregiver di problemi di salute (Mcrae et al., 2009). È vero che molti caregiver si dichiarano felici di poter assistere totalmente

e per lunghi periodi di tempo il proprio genitore. Ciò non toglie che per altri il sacrificio personale, prolungato nel tempo, possa pesare perché impedisce ogni possibilità di condurre la propria vita secondo altri parametri, a cui essi attribuiscono valore. L’elemento che influenza i diversi atteggiamenti e comportamenti è il tipo di legame preesistente in famiglia. In particolare, legami forti possono diventare ancora più forti, mentre legami deboli possono richiamare alla memoria del caregiver precedenti torti, favoritismi, emozioni negative, dando così origine a sentimenti di ambivalenza verso il genitore anziano. Molte associazioni americane di supporto ai caregiver di anziani mettono in evidenza come in numerose situazioni si possa addirittura configurare un abuso da parte dell’anziano, il quale mette in atto comportamenti violenti o sottilmente ricattatori per impedire che il caregiver si allontani da lui anche soltanto per brevi periodi di tempo. Ma mentre non vi è alcun dubbio che alcuni anziani subiscano abusi in molti modi, si è in genere meno propensi a credere che a volte l’aggressore possa essere l’anziano malato cronico.

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MANCANzA DI SUPPorTo eD evITAMeNTo e scelte dei caregiver non sono pertanto frutto di opzioni autonome e quindi non possono essere considerate positive in termini di sviluppo umano e di diritti della persona, come avverrebbe se fossero operate in contesti di pari opportunità e di sostegno equo (Deneulin e Shahani, 2009). Alla diade anziano-caregiver viene spesso a mancare anche il supporto costituito da terze persone. Seguendo sempre la teoria di Bronfenbrenner, la presenza di altri con cui il caregiver potesse avere relazioni positive dovrebbe rendere più adeguate le sue interazioni con l’anziano. Il problema sta nel fatto che, al di là delle dichiarazioni retoriche di buone intenzioni, gli “altri” hanno difficoltà a rapportarsi con chi non

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dispone più della lucidità mentale. Nel libro di Lisa genova dal titolo Still Alice. Perdersi, ciò viene detto molto bene in riferimento alla protagonista, malata di Alzheimer: «Chi era malato di cancro poteva contare sul sostegno della comunità. […] Persino le persone più istruite e meglio intenzionate tendevano a tenersi a timorosa distanza dai malati mentali. [… gli altri] si dileguavano il più velocemente possibile. […] affrontare lei significava affrontare la sua fragilità mentale e l’inevitabile riflessione che, in un batter d’occhio, sarebbe potuto succedere anche a loro. Affrontarla era inquietante. Perciò fin che potevano […] la evitavano». Il rapporto diadico, pur se monodirezionale, che si viene a creare tra malato e caregiver influenza in qualche modo tutte le situazioni sociali e determina per il secondo una sorta di “contagio”, per cui anche a lui spesso si estende l’evitamento. Non si tratta di un evitamento dovuto alle sue caratteristiche intrinseche di personalità né ai suoi comportamenti, ma al fatto che non può mai presentarsi da solo: anche se l’anziano demente non è presente fisicamente, influenza e condiziona comunque profondamente il comportamento del caregiver e ciò viene percepito dalle altre persone.

L’INTegrITà DeL CAregIver l problema della demenza senile non può pertanto essere affrontato focalizzandosi unicamente sulla perdita dell’integrità del malato. richiede che ci si focalizzi anche sulla perdita inevitabile di almeno una parte di integrità del caregiver. Anch’egli perde in parte quello che è stato e non può più essere; può perdere addirittura alcuni dei suoi ruoli perché gli altri non nutrono più nei suoi confronti le aspettative precedenti.

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vissute con la preoccupazione di rimanere entro tempi prestabiliti; fatta di attività finalizzate non soltanto a “distrarsi” o a impedire stress e burnout, ma tali da consentire lo sviluppo ulteriore della personalità. occuparsi del caregiver dovrebbe significare occuparsi del suo ulteriore sviluppo come persona, indipendentemente dall’anziano assistito. Le carenze strutturali e sanitarie, sempre più accentuate, non depongono certo a favore di questa possibilità. Ancora una volta, si dovrebbe fare riferimento a Bronfenbrenner e adattare all’anziano quanto egli affermava a proposito dello studio del bambino, da effettuarsi con riferimento all’ambiente ecologico e non soltanto al soggetto isolato, posto in situazioni artificiose e per brevi periodi di tempo. Predisporre, infatti, condizioni di cura adeguate per l’anziano non può non comportare la necessità di prendere contemporaneamente in considerazione anche chi di lui si occupa quotidianamente e che non può essere inteso come un semplice esecutore di prescrizioni terapeutiche.

il problema della demenza senile non può essere affrontato focalizzandosi unicamente sulla perdita dell’integrità del malato Riferimenti bibliografici ASL (2013), Manifesto per i familiari caregiver, Brescia. Beeson R., HoRton-DeutscH s.,FaRRaH c., neunDoRFeR M. (2000), «Loneliness and depression in caregivers of persons with Alzheimer’s disease or related disorders», Issues in Mental health Nursing, 8, 779-806. BRonFenBRenneR u. (1979), The ecology of human development. Experiments by nature and design, Harvard University Press, Cambridge (trad. it. Ecologia dello sviluppo umano, Il Mulino, Bologna, 1986). cacioppo J., Hawkley l. c., noRMan G. J., BeRntson G. G. (2011), «Social isolation», Annals of the New York Academy of Sciences, 1, 17-22. Deneulin s., sHaHani L. (2009), An Introduction to the Human Development and Capability Approach, Earthscan, London. essanDoR N. Y. (2012), Loneliness in the elderly family caregiver. Degree thesis dissertation,

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Antonella Reffieuna è attualmente formatore in corsi per insegnanti e dirigenti scolastici. È stata dirigente scolastico e docente a contratto presso la Facoltà di Psicologia di Torino. Ha pubblicato numerosi articoli su riviste italiane e straniere e i seguenti volumi: Il bambino a scuola (2002), Le relazioni sociali in classe (2004), Psicologia dello sviluppo e scuola primaria (con S. Bonino, 2007), Come funziona l’apprendimento (2012).

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Anche per il caregiver, quindi, e non solo per l’anziano demente, valgono le parole finali del libro di Lisa genova: «Sento la mancanza di me stessa». Ci si può allora chiedere se per rispondere a tale mancanza siano sufficienti le misure consigliate da associazioni, ASL e reti di cura. In genere, infatti, viene consigliato di far parte di gruppi di sostegno, di chiedere aiuto a parenti e amici, di prendersi pause di una certa lunghezza, di ricorrere a un terapista. Alcune di queste misure risultano di fatto difficili da realizzare per un caregiver che già non dispone di una rete sociale adeguata e che non può permettersi il costo di strutture di accoglienza per l’anziano, anche se indubbiamente esplicitare i propri stati d’animo, poter condividere i propri sentimenti con persone che vivono situazioni analoghe, concedersi anche soltanto delle brevi pause durante la giornata può essere di aiuto. Ci si deve però chiedere se sono comunque sufficienti, se davvero modificano l’assolutismo della particolare relazione tra anziano malato cronico e caregiver solo e, soprattutto, se consentono a quest’ultimo di ritrovare se stesso. È significativo, comunque, che le varie proposte abbiano spesso come scopo dichiarato e non secondario quello di consentire al caregiver di riprendere le sue mansioni di cura in modo più efficiente, confermando così la non centralità dei suoi bisogni e della sua vita. Nessuna di queste misure, in ogni caso, permette al caregiver di recuperare il benessere soggettivo necessario per una buona qualità di vita. occorrerebbe invece che il caregiver potesse recuperare la sua rete di relazioni sociali “gratuite”, fatta di amici sinceramente preoccupati della sua integrità fisica e psicologica, disponibili a contatti, anche solo telefonici, in ogni momento della giornata; fatta di occasioni di incontro non necessariamente programmate con largo anticipo e non

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isoccupati, immigrati senza permesso di soggiorno, giovani cresciuti nei ghetti urbani, lavoratori precari, disabili, senzatetto: la vulnerabilità nel nostro mondo sociale ha molte facce. Ognuna di esse costituisce un’esperienza particolare della fragilità, della dipendenza, della sopraffazione, in una società individualista che scarica sul singolo la responsabilità della sua vita e del suo destino. Nel corso dell’ultimo decennio quello della vulnerabilità è diventato un tema centrale della riflessione politica e sociale. Essere vulnerabile vuol dire essere esposto al rischio di ferite: fisiche, morali, psichiche, o la ferita sociale dell’emarginazione. In questa nuova attenzione per la vulnerabilità umana, le teorie della cura hanno avuto un ruolo molto importante, portando alla luce quello che la nostra società tende a occultare, cioè la presa in carico delle persone dipendenti e vul-

ziché farne una condizione permanente», spiega Joan Tronto, una delle figure più in vista in questo orizzonte teorico. È una prospettiva condivisa dalla filosofa Martha Nussbaum, che per una sana concezione della giustizia ritiene indispensabile combinare autonomia e vulnerabilità. A questo scopo pensa sia necessario valorizzare l’agency delle persone, cioè la loro potenzialità di farsi soggetti attivi, agenti delle proprie scelte e della propria liberazione. È molto critica verso la teoria della giustizia di John Rawls, che vede l’uomo astrattamente, come essere autonomo e razionale. Nussbaum sostiene, sulla scia di Amartya Sen, che si debba ragionare partendo dalle capacità reali d’azione dell’individuo, cioè dalle possibilità che effettivamente gli sono offerte. Si devono dare a tutti i mezzi per essere liberi e attivi, il che implica la necessità di tener conto delle condizioni d’esistenza reali di ciascuno.

nerabili, anziani, bambini, disabili, malati. Il lavoro di cura, gratuito quando è all’interno della famiglia, mal retribuito quando è svolto da altri, per lo più da badanti immigrate, è spesso invisibile o deprezzato. I teorici del lavoro di cura invocano una società capace di riconoscere e valorizzare non solo la figura del caregiver, ma anche quella di chi le cure le riceve. Qual è l’ottica giusta? Si tratta certo di persone fragili, in difficoltà, bisognose di aiuto. Dobbiamo forse parlare a loro nome? Ma come evitare il paternalismo e una visione puramente assistenziale? «Una delle sfide che deve affrontare l’etica della cura è infatti quella di porre fine alla dipendenza, an-

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ulla stessa linea si pone l’uso sempre più esteso e pregnante del concetto di empowerment. Come ci spiegano Marie-Hélène bacqué e Carole biewener (2013), «nell’empowerment si articolano due dimensioni distinte, quella del potere, che è la radice stessa della parola, e quella del processo di apprendimento che permette di accedervi». valorizzare l’empowerment significa pensare il processo che permette, a soggetti fragili, precari, emarginati e dominati, di arrivare a essere parte attiva nelle decisioni che li riguardano, fino ad agi-


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tare gli altri e a prendercene cura. Poiché siamo talvolta autonomi e talvolta dipendenti, il modo migliore di descrivere gli esseri umani è sottolineare la loro condizione di interdipendenza». Anche per il filosofo Axel Honneth la vulnerabilità è costitutiva della condizione umana, a causa del nostro bisogno fondamentale di riconoscimento da parte dell’altro.

In alto: giugno 2015, Ventimiglia. Migranti accampati al confine tra Italia e Francia.

Il tema della vulnerabilità è in primo piano nella produzione filosofica recente. La posta in gioco è ripensare l’interdipendenza umana in una società che emargina i più fragili Catherine halpern

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re in proprio. Resta comunque il fatto che il concetto di empowerment, attivato nei campi più diversi, dal lavoro sociale allo sviluppo internazionale, dal femminismo alle politiche pubbliche, può andare incontro a derive inattese. Nella prospettiva del neoliberismo, per esempio, per empowerment si tende a pensare lo smantellamento dello stato sociale, così da responsabilizzare individualmente i soggetti più vulnerabili in nome della libertà individuale. Peraltro bisogna stare attenti a non imprigionare certe persone particolari nella categoria della vulnerabilità. vulnerabili lo siamo tutti, come ci ricorda con forza Joan Tronto (2009): «Se è vero che non abbiamo bisogno dell’aiuto altrui in tutte le circostanze, sta di fatto però che la nostra autonomia l’acquistiamo solo dopo un lungo periodo di dipendenza e, a ben guardare, restiamo dipendenti dall’altro per tutta la vita. Ciò fa parte della condizione umana. Allo stesso tempo, siamo spesso chiamati ad aiu-

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Cinque teorici della vulnerabilità Axel Honneth Filosofo tedesco, erede della scuola di Francoforte, Honneth ripensa il concetto di giustizia partendo da quello di riconoscimento, che si articola in tre principi: amore, eguaglianza e solidarietà. In una società giusta ognuno deve poter ottenere affetto e avere accesso paritario ai diritti e alla stima sociale. È autore di varie opere, fra cui Reificazione. Uno studio in chiave di teoria del riconoscimento (Meltemi, 2007). Judith Butler Docente di letteratura comparata all’Università di berkeley, femminista impegnata nel movimento gay e lesbico e conosciuta soprattutto per i suoi lavori sul genere e sulla sessualità, si occupa anche della precarietà fonda-

mentale dell’esistenza umana. Su questo tema ha pubblicato fra l’altro A chi spetta una buona vita? (Nottetempo, 2013). Martha Nussbaum Filosofa all’Università di Chicago, ha posto al centro delle sue riflessioni il problema della vulnerabilità. I temi sono quelli della povertà, dei diritti delle donne, della dignità delle persone che versano in una condizione di dipendenza. Nussbaum pone l’accento soprattutto sui diritti reali e le autentiche risorse d’azione, cioè sulle “capabilities”, concetto ripreso da Amartya Sen, Nobel per l’economia, cui è molto vicina. Ha pubblicato, fra gli altri titoli, Creare capacità. Liberarsi dalla dittatura del Pil (Il Mulino, 2013).

la vulnerabilità umana suggerisce un’altra concezione della giustizia e della stato l’ESClUSIONE COMUNE utti siamo vulnerabili perché ognuno di noi si costituisce nel rapporto con l’altro. Questa interdipendenza è sottolineata anche da Judith butler, che insiste sulla grande precarietà, anche fisica, della nostra vita. Intesa sotto queste varie prospettive, la vulnerabilità umana suggerisce un’altra concezione della giustizia e dello stato, dove la solidarietà e l’aiuto sociale sono elementi costitutivi e centrali di una società giusta, non un’azione marginale a favore delle “vittime della vita”. Ripren-

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Joan Tronto Docente di scienze politiche all’Università del Minnesota, rifiuta l’idea che il lavoro di cura sia espressione di una “voce morale delle donne”, benché finora siano state soprattutto le donne a fornirlo. Al di là dell’etica, Tronto mira a elaborare una politica della cura. È autrice di Confini morali. Un argomento politico per l’etica della cura (Diabasis, 2006). Guillaume Le Blanc Professore di filosofia all’Università di bordeaux-III, sviluppa una filosofia sociale che mette in questione la società e le sue norme attraverso le posizioni marginali: lo straniero, il precario, l’escluso. È autore, fra l’altro, di Que faire de notre vulnérabilité? (bayard, 2011).

dendo le parole di Guillaume le blanc, possiamo concludere che «riconoscendoci vulnerabili, ognuno a suo modo, in quanto esposti a tutte le forme di violenza, fisica, sociale e psicologica, cominciamo a comprendere l’esclusione come problema comune e generale, che non riguarda solo gli emarginati». © ScienceS HumaineS. TiTolo originale: «la vulnérabiliTé en force», 270, mag. 2015, 38-39. Traduzione di gabriele noferi. Riferimenti bibliografici Bacqué M.-H., Biewener c. (2013), L’Empowerment, une pratique émancipatrice, La Découverte. TronTo J. (2009), Un monde vulnérable. Pour une politique du care, La Découverte.


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