Tonnare libro

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INTRODUZIONE

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a pesca del tonno con impianti fissi (comunemente chiamati “tonnare”), per la sua singolarità e spettacolarità, sin da epoca antichissima ha attirato l’attenzione di scrittori, storici e cronisti che ne hanno lasciato suggestivo ricordo nei loro scritti. In epoche più recenti, poi, l’argomento ha rivelato anche il proprio interesse sotto l’aspetto storico ed etnoantropologico, per cui è diventato oggetto di studio sotto molteplici profili, tutti alquanto interessanti e coinvolgenti, quasi sempre accentrati sulla descrizione della mitica “mattanza”, cioè la fase finale degli sforzi e delle ansie di attesa dei pescatori (in gergo “tonnaroti”). Va a questo punto precisato che quasi tutte le numerose pubblicazioni sull’argomento accentrano la propria attenzione principalmente sull’aspetto più suggestivo e spettacolare della “mattanza”, localizzata, generalmente, nelle grandi tonnare del trapanese o - al più - del palermitano, segnatamente in quelle di Favignana, di Bonagia, di Scopello o di Solanto. Poche opere andavano oltre questo schema, e, al più, si limitavano a qualche rapido cenno alle strutture delle tonnare, alle loro attrezzature tradizionali, alla vita ed allo stato dei pescatori, ai millenari natanti con le loro tipiche denominazioni e funzioni operative. Ancor meno esse si addentravano in ricerche storiche né parlavano della triste sorte che era riservata a questi secolari impianti una volta dismessi negli anni sessanta del Novecento; meno che mai i vari autori si ponevano il problema del salvataggio di ciò che di esse rimaneva prima della totale rovina delle relative strutture o della dispersione delle residue attrezzature. Accadde, infatti, che, dopo una lunga crisi di redditività negativa iniziata già nell’Ottocento, la recessione divenne irreversibile determinando la graduale chiusura di questi impianti, nonostante gli sforzi disperati degli imprenditori più tradizionalisti. Però, man mano che essi chiudevano, venivano inesorabilmente abbandonati andando incontro al degrado più incontrollato. Le tonnare più “fortunate” furono vendute dai proprietari e trasformate in strutture a carattere turistico-alberghiero che della loro origine conservavano soltanto il nome! L’abbandono o la vendita di queste strutture, nonostante la loro meravigliosa posizione in prossimità del mare, comportava anche la perdita senza rimpianti di tutto ciò che vi residuava: una miriade di utensili e attrezzi

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per il trattamento dei pesci; eventuali apparecchiature per la salagione o per la conservazione sott’olio del pescato; reti di ogni genere e pezzatura, cordami, carrettini per il trasporto delle grosse prede, recipienti vuoti già destinati alla preparazione in scatola del prodotto. Inoltre, nell’ansia di liberare il maggiore spazio possibile degli edifici in procinto di essere ristrutturati, molti locali (fra cui quelli destinati ad “arsenale”) vennero svuotati delle antiche “barche nere” che vi erano custodite, molte di esse di costruzione secolare, senza alcun rispetto per le glorie del loro passato: in tal caso non si trovò di meglio che abbandonarle in disordine sulle spiagge del litorale antistante, destinate a un’impietosa distruzione ad opera degli agenti atmosferici. Se ne salvarono pochissime: solo quelle riservate a fungere da suggestivo banco di mescita nei saloni e nei locali di ristoro dei futuri villaggi turistici. In tal modo andarono distrutte in Sicilia almeno trecento imbarcazioni, costituenti - già da sole - la base di molteplici “musei di tonnara” e singolare attrattiva turistica. Il calcolo non appare esagerato, ove si consideri che ogni impianto utilizzava annualmente fra le dieci e le quindici imbarcazioni, mentre quelli in funzione nell’Isola per ogni stagione di pesca sono stati (per quasi un millennio) una cinquantina fra tonnare vere e proprie e tonnarelle, di cui una trentina mediamente attive ogni anno, sino alla fine dell’Ottocento. Ma, nonostante questi caratteri, ben poche delle pubblicazioni sull’argomento si sono occupate delle attrezzature a disposizione dei tonnaroti; quasi nessuna delle imbarcazioni utilizzate, trascurando la loro essenzialità nel contesto peschereccio, al più limitandosi alla sommaria e imprecisa elencazione delle varie denominazioni e funzioni dei natanti; nessuna dedicando attenzione alle precarie condizioni delle barche dopo l’abbandono in spiaggia, al loro imminente disfacimento, al patrimonio storico ed etnologico che andava stupidamente perduto, alla possibilità di salvare un certo numero dei natanti in discorso con spesa relativamente modesta. La presente pubblicazione, invece, opera appassionata dello studioso Massimo Tricamo, appare di tutt’altro contenuto. Egli trascura l’aspetto folclorico con le facili suggestioni della pur mitica “mattanza”; rievoca, invece, il durissimo e pericoloso lavoro dei tonnaroti come un aspetto dell’atavica lotta dell’uomo per la sua sopravvivenza e non già come semplice mezzo per offrire a folle di curiosi un divertente “spettacolo”. La mattanza viene qui trattata marginalmente, e solo in maniera indiretta, come se l’Autore fosse “obbligato” a parlarne quando descrive uno dei tanti aspetti della vita di tonnara, come, ad esempio, la funzione e le caratteristiche di qualcuna delle barche che formavano il “quadrato” che circoscriveva la “culica”, o quando elenca i tipici attrezzi del tonnaroto, come il “crocco” (una sorta di uncino impiegato per agganciare la pesantissima preda), oppure le asce e le

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mannaie che, dopo la cattura, servivano a decapitare e sezionare le parti dell’animale destinate alla successiva lavorazione. Egli descrive minuziosamente ogni oggetto, anche il meno importante in apparenza, indicandone le funzioni e la denominazione dialettale, mai omettendo di documentarne l’aspetto mediante schizzi e immagini fotografiche che appaiono preziose per meglio chiarire i concetti già esposti discorsivamente in forma semplice e piana. Nel lavoro del Tricamo traspare evidente il timore che queste nozioni, un tempo patrimonio corrente di ogni pescatore, ma oggi rimasto in possesso soltanto di pochi componenti della gente di mare, possano andare perdute per sempre. Ed è proprio questo particolare stato d’animo a motivare il suo lavoro di ricerca e di acquisizione di una terminologia e di oggetti che, altrimenti, sarebbero perduti per sempre. Ma, oltre a svolgere una così difficile attività, l’Autore ha condotto anche un’opera di ricerca materiale per il recupero di attrezzi, oggetti tipici, immagini fotografiche d’epoca, oltre che di preziosi antichi documenti. Sotto tale profilo, solo la sua sagacia, unita a non comuni doti di perseveranza e forza persuasiva, condotta con intelligenza e garbo adeguato, gli hanno consentito di acquisire interi archivi o raccolte di oggetti tipici, come quello della famiglia Faranda, imparentata per via matrimoniale con quella dei marchesi d’Amico, nonché le raccolte della famiglia Providenti, cui sono appartenuti per un paio di secoli i più affermati costruttori di barche di Milazzo. Tali importanti acquisizioni, unite con altre di minori entità, hanno costituito per l’instancabile Tricamo la base per istituire il primo museo in Sicilia dedicato alla cantieristica navale tradizionale e alla classica pesca del tonno. D’altro canto la città di Milazzo meritava certamente questo privilegio, dal momento che lungo le coste del suo promontorio hanno operato annualmente, nei secoli passati, fino a quattro-cinque impianti contemporaneamente, fra tonnare e tonnarelle. Ma, per finire, si deve rilevare che il nostro Autore ha fatto ancora di più e non ha inteso per nulla relegare nel suo patrimonio culturale la miriade di nozioni acquisite, ma ha ritenuto di far conoscere al grande pubblico tutto ciò che apparteneva alla sfera delle proprie conoscenze personali, redigendo con il materiale acquisito la presente pubblicazione: si tratta certamente di un’opera originale e di elevato livello scientifico; un’autentica “miniera” di notizie, di informazioni, di nozioni tecniche, di eventi realmente accaduti, di denominazioni (per lo più di gergo) relative ad attrezzi, a natanti, a materiali di vario impiego, senza trascurare l’indotto, cioè tutte le attività che si svolgevano ai margini di una tonnara e che ne consentivano il regolare funzionamento: i calafati che riparavano le barche, i bottai che approntavano i contenitori per la conservazione del pescato, i fabbri ferrai che si occupavano dei cerchi di botte, i fonditori che fabbricavano le ancore, i forni-

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tori di prodotti alimentari per la numerosa “ciurma” al lavoro e tanti altri operatori nell’ambito di quel particolare settore peschereccio. La sua narrazione - fatto non comune - si accompagna ad un vastissimo apparato iconografico con immagini fotografiche per lo più inedite che integrano e completano la comprensione delle oltre 400 pagine di testo, rendendo chiara la materia trattata anche per lettori ben lontani dalle conoscenze attinenti a quel mondo suggestivo; impedendo in tal modo che i ricordi attinenti alla millenaria pesca del tonno svaniscano nelle nebbie del passato. A Massimo Tricamo, quindi, va tutta la nostra riconoscenza e il plauso più sincero, come stimolo per il compimento di imprese sempre più appassionanti. Messina, marzo 2015.

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ROCCO SISCI


Parte I

Storie di tonnara

«Mi tuccò!»: i ricordi di un tonnaroto.

Nino Maisano, «’u Negus», è un vecchio lupo di mare di Vaccarella, il pittoresco rione marinaro in cui dimoravano quasi tutti i tonnaròti di Milazzo. Durante la sua vita ha affiancato all’attività di portuale quella di pescatore, seguendo così le orme del padre Pasquale (1908-2006) e dell’omonimo nonno, entrambi esperti pescatori. Nino è inoltre uno degli ultimi marinari milazzesi, così a Vaccarella venivano chiamati i tonnaroti, dunque una preziosa fonte d’informazioni per comprendere le dinamiche ed il funzionamento della pesca del tonno, che a Milazzo venne esercitata sino al 1966, anno in cui la Tonnara del Tono venne calata per l’ultima volta. Iniziò a lavorare in tonnara a 24 anni, nel 1956, raccogliendo l’eredità del padre, il quale prestò la propria attività lavorativa anche presso una tonnara di Pizzo Calabro. Durante il suo racconto, il vulcanico Nino sciorina diversi ricordi della Tonnara del Tono, dal colloquio col marchese D’Amico – quando chiese di essere assunto – al compenso che gli veniva corrisposto dai proprietari-datori di lavoro, Maurizio Bonaccorsi e lo stesso marchese D’Amico, compenso che da mezza parte lievitò con gli anni a tre quarti di parte, per poi tramutarsi in un’intera parte. Ricordi piuttosto intensi, come quando, appena assunto, venne destinato ad una delle barche di guardia, la gabanella, a bordo della quale, quando i tonni urtavano contro le lenze, era lui a gridare il consueto «mi tuccòòòò!» che preludeva alla mattanza. Dai ricordi di Nino emergono i nominativi di alcuni suoi colleghi, tonnaroti e vaccariddòti come lui, da Salvatore Cambria a Francesco Cutugno, da Stefano Salmeri «’u pennèddu» ad Angelo Cusumano Nasìttu ed ancora Pietro Di Flavia «’u calamàru», col quale in coppia issava col cròccu (uncino)

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– sotto lo sguardo vigile di rasi Stefano Salmeri – i pesanti tonni dalla cùlica o camera della morte, eseguendo così la fase culminante della pesca del tonno, che – come ricorda lo stesso Nino – non mancò di procurare qualche guaio al collega tonnaroto Nino La Verga, finito in ospedale per un colpo di coda di un tonno intrappolato nella culica, che comunque non procurò al La Verga un’emorragia interna – come sostenuto dal Negus e da altri pescatori di Vaccarella – bensì alcune fratture piuttosto antipatiche che lo sfortunato tonnaroto riuscì comunque a superare, anche se poi sarebbe scomparso prematuramente per altre cause. La mente di Nino viaggia indietro nel tempo e ricorda gli altri tonnaròti di Vaccarella che in gruppo tornavano a casa tutte le sere percorrendo a piedi il lungo tragitto che attraversava la Porticella. Lui invece andava e tornava in bicicletta, passando per piazza Roma. Non mancavano le gelosie e le invidie: evidenti le critiche che rivolge ancor oggi al defunto collega Nino La Verga, del quale tuttavia il Negus ha ricordato allo scrivente anche una lunga serie di pregi, accompagnati dal rimpianto per aver perduto un compagno d’avventure. E non mancavano le sere in cui si rimaneva in tonnara per osservare il turno di notte: «quando facevamo la notte ovviamente non si tornava a casa e si dormiva nei casòtti ubicati in prossimità del pozzo, vicino la chiesetta del Tono». Nino li ricorda ancora bene quei casotti: «casotta n. 1, casotta n. 2, casotta Rasi e Suttaràsi...». Così come ricorda bene la dura giornata di lavoro: «ci imbarcavamo alle sei del mattino per poi tornare a terra la sera. Un’altra ora per sistemare il tutto ed eravamo pronti per incamminarci verso casa».

Turni di guardia, “toccate” e vita in tonnara.

Spettava alla coda o pedale, una lunghissima rete di sbarramento posizionata tra la costa e la complessa successione di camere della tonnara, il compito d’interrompere il corso dei tonni, che venivano così convogliati verso la bocca della medesima tonnara, quella milazzese del Tono. Una volta attraversata la bocca, i tonni sarebbero stati guidati dai tonnaròti verso l’ultima camera, quella della morte (la cosiddetta culica), dove si sarebbe svolto il cruento rituale della mattanza. In particolare, procedendo dalla bocca verso la culica i tonni avrebbero incontrato ben tre camere: ingiarràto di ponente, bordonaro e picciolo. Tra una camera e l’altra era collocata una rete mobile - la porta - azionata dall’alto da un’imbarcazione di tonnaroti, i quali subito dopo il passaggio dei tonni avrebbero issato di volta in volta le singole porte per impedire ai grossi pesci di tornare indietro.

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Nino Maisano «’u Negus» (1932) col fratello Ciccio «da rutta» (1943) di fronte alla propria abitazione nel rione Vaccarella a Milazzo. La foto, scattata il 24 settembre 2011, raffigura i due fratelli durante una pausa di lavoro del Negus, intento a cucire con certosina pazienza la fascia di una rizza. Ben visibili, ai suoi piedi, le cucèdde ed i gomitoli di nailon impiegati per la cucitura.

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Da sinistra, Antonino Maisano ed il figlio Pasquale (1908-2006), rispettivamente nonno e padre del Negus. Pasquale prestò la propria attività lavorativa anche presso una tonnara di Pizzo Calabro (gentile concessione sig. Ciccio Maisano).

In alto, il Negus qualche decennio fa durante la cucitura di una rete sulla spiaggia di Vaccarella e, a destra, Pietro Di Flavia «’u Calamaru» (1922-1977): entrambi, unitamente ad altri due tonnaroti (uno di essi era «’u zù Stefanu scammalòcchiu»), si trovavano di guardia a bordo della gabanella, quando ad un tratto il Negus, avvertita la toccata, urlò il fatidico «Mi tuccòòòò». Grazie a quella segnalazione furono catturati cinque grossi tonni: Maurizio Bonaccorsi, comproprietario della Tonnara del Tono di Milazzo, ricompensò i suddetti quattro membri dell’equipaggio della gabanella con un cuore di tonno ciascuno (la foto di Pietro Di Flavia è stata gentilmente concessa dal figlio Stefano).

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Il lavoro dei tonnaroti sopracitati, quelli di guardia, viene descritto minuziosamente da Nino Maisano, il «Negus», e soprattutto dal compianto Masi Salmeri (1930-2014), figlio dell’ultimo rais della Tonnara del Tono, ràsi Stefano. Lo stesso Masi, prima di lavorare alle dipendenze della locale “Compagnia Portuale”, lavorò in tonnara (1948-1963) con la qualifica di suttaràsi, in vista della promozione alla carica di rais, promozione che tuttavia non sarebbe mai maturata, visto che Masi, consapevole dell’ormai imminente tramonto della pesca del tonno a Milazzo, preferì optare per il più sicuro posto di lavoro nel porto. «Su ciascuna delle tre porte - racconta Masi Salmeri - era posizionata un’imbarcazione con quattro tonnaroti di guardia, ciascuno dei quali teneva in mano una lenza». Così, mentre sulla porta ubicata tra le camere ingiarrato di ponente e bordonaro era posizionato «’u buddunàru» con quattro uomini (buddunàrisi) a bordo, su quella situata tra bordonaro e picciolo si trovava la portachiara, altra barca destinata ad ospitare quattro tonnaroti di guardia (pottachiarìsi). Tra le camere picciolo e culica, infine, era posizionato, anche in questo caso sulla porta di comunicazione, un palischermo (di norma il S. Andrea), a bordo del quale - galleggiando in direzione del “mosartio bastardo” tale palischermo veniva denominato anche bastardo - ai quattro uomini di guardia (bastaddèri) si affiancava il resto della ciurma, i tonnaroti “di franco”, che riposavano in attesa di operare nel successivo turno di lavoro. Alle tre imbarcazioni sin qui citate (bordonaro, portachiara e bastardo) se ne affiancavano altre due, entrambe collocate entro il perimetro della camera della morte: la gabanèlla, destinata ad accogliere quattro tonnaroti di guardia (gabaneddàri), e la muciàra, a bordo della quale, oltre ai quattro uomini di guardia (muciàri), vigilavano continuamente il rais ed il suo vice (suttarasi). Un’ulteriore imbarcazione, il caporais, rimaneva vuota (dunque senza nessun marinaio a bordo) dirimpetto al palischermo, con la funzione di tenere stabilmente sollevata una delle quattro estremità superiori della culica, che veniva appunto agganciata al caporais, barca di tonnara pontata. Ma in cosa consisteva questa guardia, ossia vigilanza che avrebbero dovuto eseguire i 22 tonnaroti, rais e vicerais inclusi, a bordo delle suddette cinque imbarcazioni? «Ciascuno di essi teneva in mano una lenza - ricorda Masi Salmeri - all’estremità della quale, dunque in prossimità del fondale, era fissata una pietra ovale che avrebbe consentito alla stessa lenza di tendersi: i tonnaroti a bordo delle cinque imbarcazioni avvertivano il passaggio dei tonni da una camera all’altra - o entro la culica - non appena i pesci sfioravano le singole lenze». Ecco allora che il tonnaroto, la cui lenza era stata sfiorata da uno o più tonni, urlava immediatamente ed energicamente il fatidico «Mi tuccòòòò», comunicando dunque a tutta la ciurma e soprattutto al rais la toccata che aveva appena avvertito.

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Se la toccata era stata avvertita dai tonnaroti a bordo di una delle imbarcazioni ubicate sulle porte, si sarebbe provveduto alla chiusura della porta sottostante, in modo tale da evitare che i tonni potessero tornare indietro. Qualora la toccata fosse stata avvertita da uno dei tonnaroti a bordo della muciara, dove anche il rais stava di guardia con la lenza in mano, o della gabanella ci si apprestava invece al salpamento della culica, avviato con l’energico ordine, quasi una cantilena, dello stesso rais: «Lèèèèva, lèva, lèva, lèva, lèva!» Non sempre tuttavia alla comunicazione della toccata seguiva la chiusura della porta di una delle camere: «non bastava una semplice toccata isolata, avvertita ad esempio da un solo tonnaroto che dichiarava di essersi sentito sfiorare da un pesce, a provocare la chiusura della porta», spiega Masi Salmeri, secondo il quale «la toccata avvertita doveva essere di notevole consistenza. Si chiudeva la porta della camera “bordonaro” quando ad esempio a bordo dell’omonima imbarcazione si registrava una “toccata a tre mani”, avvertita cioè contemporaneamente da tre dei quattro tonnaroti di guardia a bordo. In tal caso valeva certamente la pena di procedere alla chiusura della porta, che si alzava dal basso verso l’alto. Inoltre, poiché la porta del bordonaro da issare era a maglie strette e dunque abbastanza pesante, intervenivano in aiuto dei quattro “buddunàrisi” altri tonnaroti, sino a quel momento “di franco”, di riposo, sul palischermo, dove si trovavano in attesa di operare nel successivo turno di guardia: per raggiungere la barca bordonaro questi aiutanti si sarebbero serviti di un’imbarcazione posta accanto al palischermo - di norma la Provvidenza - che veniva utilizzata solo in caso di necessità. Al contrario quando ci si apprestava ad issare la porta sottostante l’imbarcazione portachiara non era necessario intervenire in aiuto dei quattro marinai di guardia, in quanto tale porta presentava maglie talmente larghe da consentirvi il passaggio indisturbato di un uomo, caratteristica questa che la rendeva poco pesante». Così dunque - con questo sistema di porte chiuse a poco a poco - i tonnaroti guidavano gradualmente i tonni dalla bocca verso la culica, facendo loro attraversare le singole camere sino al definitivo intrappolamento entro quella denominata “della morte”. Il passaggio da una camera all’altra non sempre era agevole, visto che a volte i tonni impiegavano diverse ore prima di trasferirsi da una camera a quella successiva. E lunga e usurante era spesso l’attesa della sospirata toccata: a volte il tempo a bordo non passava mai ed il continuo fissare il fondo del mare appesantiva non poco la vista dei singoli tonnaroti di guardia, il cui turno durava dalle quattro ore e mezza alle cinque ore. Il primo turno di guardia sulle suddette imbarcazioni aveva inizio all’alba, precisamente alla 6,00, per poi terminare alle 10,30. I tonnaroti che avevano

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Tre belle tavole tratte dalla «Monografia Marittima della Sicilia Nord Orientale» di Etrurio Gamberini (G. Principato, Messina 1918). Le tavole illustrano efficacemente il racconto di Masi Salmeri, che così ha ricordato: «su ciascuna delle tre porte era posizionata un’imbarcazione con quattro tonnaroti di guardia, ciascuno dei quali teneva in mano una lenza». Nel suo racconto non si fa tuttavia menzione all’imbarcazione denominata cantone, raffigurata qui a fianco accanto al bastardo e presente nella Tonnara del Tono nel 1897.

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eseguito questo turno venivano rimpiazzati da quelli “di franco”, che nel frattempo si erano riposati sul palischermo. I ruoli quindi s’invertivano: chi aveva lavorato andava a riposarsi sul palischermo e chi si era riposato si apprestava ad eseguire il proprio turno di lavoro. Il secondo turno di guardia durava invece sino alle 15,30, quando ancora una volta si sarebbero invertiti i ruoli: i tonnaroti del primo turno tornavano al lavoro, mentre quelli del secondo turno tornavano a riposarsi sul palischermo. In tutto dunque si susseguivano tre turni di guardia, sino alle 21,00 circa: chi operava tanto al primo quanto al terzo turno doveva inoltre restare a disposizione a terra l’intera notte, trovando ospitalità nei confortevoli “casotti” della Tonnara. «La fine del terzo turno coincideva col ritocco della campana, “à pìgula”, che comunicava l’Ave Maria della sera (mezz’ora dopo il tramonto, nda): allora in assenza di orologi ci regolavamo così», precisa Masi Salmeri, che ricorda come spesso i tonnaroti del terzo turno si coprivano per non sentire freddo. Ovviamente chi dormiva nei casotti il giorno successivo avrebbe eseguito un unico turno di guardia (il secondo), potendo tornare a casa la sera dalla propria famiglia, a Vaccarella. Quasi tutti i tonnaroti in servizio presso la Tonnara del Tono risiedevano infatti presso questo popoloso quartiere marinaro di Milazzo, da dove ancora in piena notte s’incamminavano in gruppo verso il Tono. «Salivano dalla salita dei Cappuccini, passavano di fronte al Cimitero ed imboccavano il sentiero della Porticella, lungo il costone roccioso del Castello», ricorda Felice Cambria, figlio del tonnaroto Peppinu ’i Filici (1910-2003), d’ora in avanti Peppino Felice. Giunti al Tono, percorrevano l’odierna via Nettuno, «’u strittu Tonu», facendosi apprezzare dagli abitanti del luogo per la “compostezza” che manifestavano quando si recavano al lavoro: «quando passavano in prossimità di casa mia sembrava che stesse passando un elefante, facevano un gran baccano, erano chiassosi e scherzosi: quando passavano insomma non si dormiva più», ricorda col sorriso e con un pizzico di nostalgia il sig. Testa, figlio di Giovanni (1905-1963), tonnaroto residente al Tono ma originario di Vaccarella. U

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Sopra e nella pagina seguente, foto di mattanza un tempo custodite negli uffici della Tonnara del Tono ed oggi esposte tra i reperti tonnaroti dell’esposizione museale allestita presso l’ex Carcere Femminile di Milazzo. Le foto sono state “salvate” dal sig. Vittorio Lopes che recentemente le ha consegnate al museo milazzese.

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Tonnare di corsa e tonnare di ritorno. La Tonnara del Tono, così come le altre tonnare e tonnarelle di Milazzo, rientrava nella categoria delle tonnare di corsa, quelle cioè che catturavano i tonni alla vigilia della loro riproduzione. Le tonnare di ritorno li catturavano, invece, al termine di quest’ultima, quando i pesci presentavano la carne più scura, colma di sangue. Tonnare di corsa erano quelle della Sicilia nord-orientale e delle coste tirreniche della Calabria. Tipiche tonnare di ritorno erano quelle della Sicilia sud-orientale. Un’eccezione era rappresentata dalla Tonnarella di Vaccarella che a Milazzo faceva sia il corso che il ritorno.

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INDICE Introduzione Premessa Parte I Storie di tonnara «Mi tuccò!»: i ricordi di un tonnaroto Turni di guardia, “toccate” e vita in tonnara I ricordi del muciaro: quando si calava con la rema di Praia Tecnicismi e gergo di tonnara Il gergo dei tonnaroti: rema di Praia e di Capo «La colpa non fu mia, ma della rema» Sul codardo della Tonnara del Tono: sua riduzione e divisione in due porzioni Tonnara del Tono, considerazioni del marchese Tommaso D’amico sul codardo (anni Cinquanta) Tonnara del Tono: una scrittura privata del 28 agosto 1892 Gli esperimenti del Malpighi e le tonnare di Milazzo L’album dei tonnaroti della Tonnara del Tono di Milazzo Forniture di tonnara a metà Ottocento Fornitori e forniture a fine Ottocento La vendita del pesce fresco: le obbligazioni delle tonnare Le uova di tonno (bottarga) La macellazione del tonno e la salatura: le varie tipologie di salato La tunnìna, alimento tipico di Milazzo Il lattume ... e la bottarga Come si prepara la ventre di tonno Le ricette della ventre di tonno Dalla salagione alla conservazione sott’olio: Milazzo e il tonno in scatola L’altro stabilimento di Milazzo annesso alla Tonnara di S. Lucia Lo stabilimento del Tono di Milazzo nei ricordi di un maestro d’ascia Le retribuzioni tonnarote La lunga storia della Tonnara del Tono di Milazzo La Tonnara Grande del Porto di Milazzo Tra le meraviglie paesaggistiche di Capo Milazzo: la Tonnarella di S. Antonino

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La Tonnarella di S. Antonio nei ricordi dei tonnaroti La Tonnara di Vaccarella Modifica concessione del mare Tonnarella Pepe e Capobianco Le imbarcazioni delle Tonnarelle di Vaccarella e del Pepe La Tonnara della Gabbia o Malpetitto Lo sfortunato calo della Tonnara di Calderà (1902) La Tonnara di Calderà: preparativi per la stagione di pesca 1925 La cronachetta della stagione di pesca 1925 della Tonnara di Calderà Tonnara del Tono: i diari del razionale Antonino Vicari (1872-1938)

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APPENDICE I Ancore ed ormeggi Ancore ed ormeggi della Tonnara del Tono di Milazzo

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APPENDICE II Inventario apparato Inventario apparato della Tonnara del Tono (c. 1960)

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APPENDICE III Concessione anno 1503 Concessione anno 1503 della Tonnarella del Pepe di Milazzo

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APPENDICE IV Concessione anno 1460 Concessione anno 1460 della Tonnara del Silipo o Cattafi (poi Vaccarella) » 345 Parte II Tonnare e maestri d’ascia

Tonnare e maestri d’ascia Canti e immagini della Tonnara Angitola di Vibo Valentia Marina Tonnara angitola: le foto della Benedizione del 1957 Documenti d’archivio: i palischermi di mastro Gioacchino Vitali § 1 - Palischermo S. Andrea Tonnara del Tono (1847) § 2 - Palischermo S. Giovanni Tonnara del Tono (1852) § 3 - Palischermo Tonnara del Porto di Milazzo (1856) § 4 - Manutenzione straordinaria di un mistico (1858) § 5 - Palischermo S. Andrea Tonnara del Tono (1916) Nascita di un palischermo (1933): il S. Rita della Tonnara di S. Giorgio Cantiere Vitale: il palischermo S. Tommaso della Tonnara del Tono

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