Lameziaenonsolo gennaio2019 Filippo D'andrea

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Lameziaenonsolo incontra

Filippo D’Andrea

-Nella Fragale-

Al “microfono” del nostro giornale questo mese Filippo D’Andrea. Un uomo eclettico, dalle mille sfaccettature, un uomo di “chiesa” ma che non ha nulla del bigottismo che, a volte, caratterizza le persone, donne o uomini, che hanno la Religione come ottica di vita. Come per ogni intervista, anche questa, è stata un’avventura, non è stato difficile fargli le domande, non è stato difficile avere delle risposte. Avremmo potuto continuare all’infinito, affrontando qualunque argomento ma avremmo poi dovuto stampare un libro e non un giornale perchè 48 pagine non sarebbero bastate! Filosofo e teologo, parliamo inizialmente di questi due “titoli” che possono essere attribuiti a lei, vi sono scuole di pensiero diverse che portano i filosofi a tentare di dare una risposta razionale ritenendola quasi nata dalle macerie della filosofia, là dove la filosofia non riesce a dare una risposta subentra la fede mentre altri trovano perfetta armonia fra fede e ragione. Lei cosa ne pensa? Non le chiedo a quale dottrina appartiene perché lo so! Penso che la filosofia e la teologia possano dialogare in quanto fede e ragione sono polmoni dello stesso respiro, occhi dello stesso sguardo, battiti dello stesso cuore. L’uomo vive di intelligenza/ragione e di fede/spiritualità e la ricerca dell’armonia nella reciprocità è un sentiero che porta alla pienezza della consapevolezza e dell’illuminazione. Testa e cuore, in sintonia complementare, scoprono senso e costruiscono senso. Condivido totalmente l’incipit dell’enciclica “Fides et Ratio” di Giovanni Paolo II: “La Fede e la Ragione sono come le due ali con le quali lo spirito umano s’innalza verso la contemplazione della verità”, l’estasi della bellezza, la gioia della bontà. Tanti anni fa, quando ho fatto ingresso nell’Associazione Teologica Italiana presieduta dal grande teologo Piero Coda, a seguito di valutazione approfondita dei miei libri e studi, ero consapevole di essere entrato nella comunità teologica dove si cerca di fare sintesi tra fede e ragione. Ed anche quando sono stato accettato nella Società Filosofica Italiana ho colto un respiro di equilibrio intellettuale ed un rispetto del principio di pluralità ideale e culturale. Quindi, i filosofi ed i teologi seri e di valore, sanno che la ricerca è perenne dialogo, ascolto, confronto, non assolutizzazione dei propri convincimenti e

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del proprio orizzonte di comprensione della vita e del mondo.

caldo, la luce senza il buio, non sarebbero realtà.

Sempre restando in tema … l’anima, cosa è l’anima per lei? La concezione dell’anima, da quando l’uomo ha imparato a pensare, ha occupato tutte le religioni e le filosofie. L’anima nel suo significato fondamentale è il principio vitale, il soffio interiore del pensare, l’essenza del sentimento, della volontà e della coscienza umana. E’ il più profondo “respiro” dell’essere che si lega alla sua fonte che è la Trascendenza. L’anima, lo spirito, la mente, la psiche, l’intelligenza, la coscienza sono i territori più profondi della persona, ed è bene concepirli come una unità plurale. L’anima è il luogo di dialogo con se stessi, e se stessi e Dio. E’ di natura eterna perché viene dall’Eterno e torna all’Eterno. L’anima configura l’identità del suo corpo ed il corpo si offre come casa dell’anima.

La nostra vita è già decisa o noi ne siamo gli artefici? La domanda, posta in questo modo, nasce in un contesto di pensiero cristiano, ed ha deciso diversi tornanti della storia del cristianesimo. I padri della chiesa (Ignazio d’Antiochia, Agostino, Ambrogio), i filosofi scolastici (Anselmo, Tommaso), i teologi protestanti (Lutero, Calvino), ma anche alcuni grandi concili, ultimo il Concilio Ecumenico Vaticano II, si sono soffermati ad approfondire il rapporto tra progetto di Dio e progetto dell’uomo, vocazione come dono e libertà umana. L’uomo si determina o è predestinato? La questione, dall’ottocento, si è ampliata sul piano biologico (positivismo evoluzionistico), e nel novecento è confluita nel neuro-biologismo, ecc. Io penso, semplicemente, che l’uomo, dentro il contesto ambientale e nel percorso storico, ha una scrittura biologica, è impastato culturalmente, si è forgiato storicamente, e nel suo essere vi è una intelligenza di libertà che lo rende consapevole di orientarsi, scegliendo ciò che lo possa rendere più uomo, avvalendosi di tutto ciò di cui è fatto: carne, mente, spirito, coscienza, relazione, comunità. In definitiva, l’uomo costruisce ciò che vuole essere con ciò che è e con cui è. E, da pensatore credente, credo che il tempo dell’uomo, territorio del relativo, è dentro l’eternità di Dio, territorio del Tutto.

… e cosa è la vita? La vita è un cammino di bellezza, di bontà e di verità, ma ferita dalla sofferenza e dal dolore, marcata dalla fatica e forgiata dalle responsabilità. La vita è un tempo di costruzione: di se stessi, con gli altri ed il mondo. Parlare di vita fa pensare al nostro corpo, a ciò che siamo, che relazione c’è fra il corpo e l’anima e quest’ultimo, così materiale, solido, può essere una gabbia per qualcosa di così etereo ed impalpabile come l’anima? In parte ho già risposto. Non vi è antinomia tra corpo e anima, anzi vi è reciprocità in un cammino di unione e perfezione. L’anima dà vita al corpo ed il corpo dà esistenza all’anima. Il cielo e la terra non esisterebbero da soli. Il freddo senza il

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Lei è filosofo e teologo abbiamo detto, e quindi voglio farle una domanda sull’eutanasia e penso ad Eluana Englaro per la quale i genitori hanno chiesto, dopo 18 anni, il distacco dalle macchine che la tenevano in vita. La sua opinione in merito? Si ha il diritto di scegliere di

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porre fine ad una vita non per sè ma per altri? Non possiamo, ovviamente, non parlare del “suicidio assistito” e penso a Fabo. In questo caso si ha il diritto ad una vita dignitosa priva di sofferenze? lei cosa ne pensa? Un uomo che decide volontariamente di mettere fine alla propria vita smette di essere un uomo di Dio? Il “testamento biologico” secondo lei pone fine alle diatribe? Questo gruppo di domande apre sull’etica della vita, la bioetica. La vita umana è il valore più grande, fondamento di tutti i valori e tenerlo presente come principio assoluto di discernimento di ogni situazione concreta, aiuta a scegliere la via più giusta tra la sofferenza e la dignità della persona malata. Il concetto di sacralità della vita si consideri nella situazione concreta: ogni scelta sia il frutto di profonda meditazione sui terreni della coscienza responsabile che desidera essere illuminata. Poi si decide in un modo o in un altro, tenendo presente un antico saggio dialettale: “i guai d’a pignàta i canùsci lla cucchjàra!”. Nessuno faccia il maestro di verità giudicando, con senso di condanna, la vicenda umana altrui. E, di converso, nessuno si senta padrone della vita altrui, anche un familiare stretto. Il testamento biologico o biotestamento, in quanto documento legale sul consenso informato e sulle disposizioni anticipate di trattamento, rende inequivocabili, certe, esplicite le volontà del malato incapace di autodeterminarsi. Resta aperta la riflessione sulla figura del fiduciario e dei limiti delle decisioni prese in anticipo e lontane dalla situazione concreta in cui le stesse si attiveranno. In definitiva, il biotestamento per alcuni aspetti è uno strumento necessario, per altri invece costituisce un rischio non indifferente sull’ intoccabilità della vita umana. “Conoscere se stessi”, dicono non sia possibile, il suo pensiero a proposito? E’ un’aspirazione che nasce con l’uomo pensante e si approfondisce con l’uomo credente. E’ un invito rivolto a chi entrava nel tempio apollineo di Delfi, ripreso da poeti greci come Pindaro, dal filosofo Eraclito, ma è stato Socrate a farla esordire pienamente in campo filosofico, come narra il suo discepolo Platone. L’esortazione è stata ripresa anche dai padri della Chiesa come Clemente, Origene, Gregorio Nazianzeno, Ambrogio, Agostino, ma pag. 4

anche dagli scolastici Ugo di san Vittore e Bernardo, fino a noi. In tempi più recenti, la psicanalisi e la sociologia, ma anche la biologia e le neuroscienze, hanno dato un aiuto importante alla comprensione di se stessi. La conoscenza compiuta di sé, però, è impensabile. Ciò che è possibile è essere sempre presenti a se stessi in una ricerca continua, sapendo che si è esseri in perenne divenire. L’uomo sapiente è colui che sa di non sapere, tornando alle origini socratiche, ovvero che conosce i propri limiti: una consapevolezza che è divenuta virtù urgentissima in questa supponenza sfrenata alimentata da vuotezza culturale, basata su un analfabetismo di ritorno o analfabetismo funzionale, drammatica conseguenza del mondo digitale. La contraddizione storica sta nell’enorme potenziale culturale del web che non è riuscito ad elevarsi in cultura globale, anzi sembra abbia provocato una presunzione psicologica diffusa che impedisce la crescita generale della conoscenza. Quindi, il “conosci te stesso” è un consiglio attualissimo, coscienti che è un percorso che si completerà nella visione spirituale dell’apostolo più piccolo, che riferendosi a Dio scrive: “lo vedremo così come egli è” (1Gv 3,21). E vedendo Dio l’uomo vedrà compiutamente e definitivamente se stesso. Ha mai pensato di farsi prete? Nel periodo giovanile tenevo in considerazione questa scelta, pensando soprattutto alla vita monastica, ma sempre in un percorso personale di ricerca spirituale ed intellettuale dentro il dato testimoniale. Avevo nel contempo una decisa vocazione per la vita coniugale e familiare. Certo, il sacerdozio cattolico di rito latino, per principio giuridico, ha l’obbligo del celibato, ma percepivo, frequentando la comunità cristiana, l’ineludibilità del voto di obbedienza presbiterale pur se crescevo nel respiro teologico postconciliare. Lo stato laicale mi ha assicurato libertà nelle scelte, dimensione che mi è stata indispensabile in diversi momenti di dubbio su questioni, decisioni e comportamenti di ecclesiastici più che del magistero della chiesa. Infatti, come docente di materie teologiche negli istituti di scienze religiose e come membro dell’Associazione Teologica Italiana, come titolare di incarichi importanti ai livelli diocesani, regionali e nazionali, il mio itinerario teologico ed esistenziale è stato GrafichÉditore di A. Perri - & 0968.21844

sempre in piena e convinta sintonia, con atteggiamento di ricerca e di intelligenza critica, con lo sviluppo dell’insegnamento della chiesa. Dopo sposato diversi amici vescovi mi hanno offerto l’ordinazione diaconale permanente, ma non rientrava nel mio orizzonte di vita. Molti sono stati i diaconi miei allievi nei tre anni obbligatori all’Istituto di Scienze Religiose. Dopo la scomparsa di mia moglie, non pochi pastori mi hanno invitato a riflettere su un’eventuale scelta sacerdotale, primo fra tutti l’arcivescovo di Trento mons. Giampaolo Crepaldi, fraterno amico da quando ero membro della consulta nazionale della CEI per la pastorale sociale e lui direttore, ed autore delle prefazioni a due miei libri, ma ho preferito confermarmi nella mia laicità, sul principio di libertà evangelica, che considero la mia vocazione cristiana. Non vogliamo affrontare un tema così complesso e delicato, anche perché l’argomento è come le ciliegie ed una domanda ne tira un’altra, quindi passiamo a parlare del professore Filippo D’Andrea, le piace insegnare? Che cosa le dà l’insegnamento? Da quanti anni insegna e cosa insegna? Quali sono le caratteristiche per essere un buon insegnante? La situazione nelle scuole è cambiata radicalmente in questi anni, meglio prima oppure oggi? Qualcuno ha suggerito di reintrodurre l’obbligo per gli studenti di alzarsi in piedi quando entra il professore. Favorevole o contrario? Qualcuno ha detto, forse parafrasando una frase famosa sulla mamma, che fare l’insegnante è il mestiere più bello del mondo, sarà vero? Se uno studente le chiedesse il titolo di un libri da usare come riferimento che cosa consiglierebbe? Mi scusi se le faccio domande a raffica ma, conoscendola, credo preferisca così, visto che l’argomento è uno solo In effetti è così. Sono domande che rivestono per me un significato rilevante. Mi piace insegnare ed il mio lavoro mi ha segnato come persona, in quanto dai miei alunni ho ricevuto molto. Certo, per essere un buon docente bisogna avere una vocazione speciale fondata su una coscienza educativa, profumata da una spiccata sensibilità umana e nutrita da un profondo amore per la cultura. L’involuzione aziendalistica (da presidi a dirigenti, da segretari a direttori, da docenti a burocrati, da primato dell’alunnoLamezia e non solo


persona a primato dei numeri fino alle classi-pollaio, dal primato della fatica didattico-pedagogica al primato dei progetti remunerati, ecc.) in questi ultimi decenni ha svuotato di contenuti valoriali il vivere scolastico, con conseguente indebolimento della forza educativa a favore di un funzionalismo quantitativo e legalistico, con il ribaltamento della gerarchia dei fini. Trovo utile portare un esempio a proposito dell’alzarsi in piedi all’ingresso del professore in aula: un comportamento che ho invitato a mantenere non solo come gesto formale, ma espressione del dovuto rispetto, della stima e dell’affetto da parte dei discenti. E deve essere sentito più che obbligato. Realisticamente – come diceva san Francesco di Paola – nell’azione educativa bisogna usare con equilibrio la manna e la verga: una frase che può suonare stonata rispetto alla moda pedagogica attuale, strascicante superstiti e anacronistici, oltre che irrealistici, convincimenti sessantottini, per altri versi stupendi. Intendo, precisamente, la manna della benevolenza e la verga dell’autorevolezza. Sono tantissimi i libri da suggerire agli alunni dell’età adolescenziale-giovanile. Tante volte, oltre a consigliare dei classici o testi di autori calabresi, agli allievi più interessati e sensibili, regalo un mio libro e lo faccio anche per aprire nuovi orizzonti o per proporre una lettura di sostegno o di conforto. Cambiamo ancora, parliamo di una sua passione: scrivere … Lei ha all’attivo oltre trenta libri. Quando e come ha deciso per la prima volta di scrivere? Mi ha acceso il desiderio di scrivere guardando il telefilm statunitense “La famiglia americana” con John “Boy” Walton che scriveva quello che succedeva nella sua famiglia. Mi sono ricordato di episodi che mi ha raccontato mia madre di quando era piccola nel periodo della seconda guerra mondiale, e poi mia nonna Rosina e mio nonno Gaspare. Già negli anni ’70-’80, man mano che mia madre mi raccontava, io scrivevo. Questi aneddoti li ho poi scritti dopo molti anni su facebook e sono diventati, nel 2018, “D’a cista d’u ciucciu. Semi di memoria di una famiglia del sud delle terre e dell’emigrazione”: il libro è stato presentato al Salone internazionale del libro di Torino, assieme al volume sul poeta Franco Costabile. Nei primi anni ’80 ho scritto dei saggi per

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la rivista diocesana “Quaderni Lametini”: fu don Guido Mazzotta, allora direttore, poi professore e preside in atenei pontifici romani, che mi spinse a mettere per iscritto una relazione sulla spiritualità del lavoro che tenni ai tre circoli ACLI di Lamezia Terme e che ebbe un notevole apprezzamento. Da allora ho scritto diversi articoli culturali sulla rivista voluta dal vescovo Rimedio, ma anche alcuni saggi sul periodico culturale diretta da Vincenzo Villella dal titolo “Quaderni Calabresi”. E ancora, ho collaborato con l’Istituto Teologico Calabro con il quadrimestrale “Vivarium” diretto da mons. Antonio Staglianò, oggi vescovo di Noto; e la rivista “Itinerarium” dell’Istituto Teologico “San Tommaso” di Messina, che pubblicò il mio primo libro “Chiesa e questione meridionale”, itinerario formativo sul documento dei Vescovi Italiani “Chiesa italiana e Mezzogiorno. Sviluppo nella società” del 1989, curato editorialmente da don Calogero La Piana, allora preside di facoltà, attuale arcivescovo metropolita emerito di Messina-Lipari. Dopo il primo libro ne ha scritti tanti altri, non si può dire che lei abbia il blocco dello scrittore, cosa la spinge, di volta in volta, a scrivere e pubblicare quello che scrive? Dopo che un suo libro è stato pubblicato, lo rilegge? In genere sono spinto a scrivere un libro perché attratto dal desiderio di approfondire una tematica inedita e di attualità; mi capita spesso anche di essere sollecitato a pubblicare le relazioni tenute in specifiche conferenze. C’è un libro che si è pentito di avere pubblicato? No. Amo tutti i miei libri, che considero parte di me. Di cosa predilige scrivere? I miei ambiti culturali sono filosofia, teologia, poesia e identità meridionale. La saggistica e la letteratura sono stili linguistici diversi ma hanno lo stesso fine di comunicare ciò che si è, cosa si pensa, cosa si vive, cosa si sente dentro, quali speranze e a quali ideali tendere. Gli scrittori si possono dividere in diverse categorie, quelli ordinati, quelli metodici, quelli che preparano scalette che rileggono mille volte, quelli spontanei

che raccolgono appunti scritti magari disordinatamente, quelli passionali che scrivono frasi su frasi fino a comporre uno scritto, lei a quale categoria appartiene? Credo a tutte le categorie. Su alcuni saperi sono ordinato e sistematico, come richiedono la filosofia e la teologia, ossia la saggistica. Invece gli aforismi, gli aneddoti, trovano concretezza guardandomi intorno, all’improvviso, e li scrivo di getto su un quadernino che tengo permanentemente in tasca. Le poesie le scrivo con l’inchiostro delle emozioni e delle intuizioni, sempre su quei fogli tascabili. La scrittura che vedo e rivedo, leggo e rileggo, sistemo e risistemo, scompongo e ricompongo è quella razionale, logica cioè la filosofia e la teologia che necessitano stretta scientificità. Nasce prima il titolo del libro o viceversa? Non c’è una regola. A volte un titolo è l’ipotesi, e rimane titolo fino alla stampa del libro. Altre volte il titolo è l’ultimo passo prima della pubblicazione. Qualche volta succede che il titolo lo decido dopo aver ascoltato l’editore che desidera condividerlo. Di passione in passione: la musica, lei trova il tempo anche di suonare e cantare, spesso accompagnato da sua figlia Chiara, ce ne vuole parlare? Cosa è per lei cantare? Come è cominciata questa sua passione/hobby? Lei si è anche esibito insieme a colei che poi sarebbe diventata sua moglie, anzi, galeotta fu la musica, è vero? Ho iniziato a suonare da piccolissimo. Mio padre, in Australia, mi comprò a 5/6 anni la fisarmonica di 120 bassi, ma essendo uno strumento troppo grande e pesante non riuscivo a maneggiarlo e così tornò al negozio per acquistare un banjo australiano, che ancora conservo. Bob Dylan ed i Beatles furono i miei primi artisti preferiti e cantavo i loro testi suonando il banjo. Arrivato in Italia, sono passato alla chitarra: ricordo che per 10 mila e 500 lire i miei genitori la comprarono durante la festa di sant’Antonio, a Lamezia. I miei primi amici italiani mi venivano spesso a prendere a casa e mi portavano sulle scale del vecchio convento di san Francesco, accanto all’ex-municipio di Sambiase, per eseguire il mio ormai vasto repertorio non solo del cantautore americano e del gruppo inglese, ma anche dei Bee Gees, Simon and Garfunkel, Rolling Stones, ed altri.

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Quando ho iniziato a comprendere e parlare l’italiano, ho amato Fabrizio De Andrè, e poi Francesco Guccini, i Nomadi, la PFM, Claudio Lolli. Poi ho iniziato a scrivere mie canzoni, all’inizio in italiano e qualcuna in inglese. Negli anni ’80, ormai con la conoscenza del dialetto, ho anche composto in “lingua madre”. Da giovane ho suonato nei primi complessi musicali, come una volta si chiamavano le band. Ricordo, avevo 15 anni, “I Vinicoli” con Luigi Cosentino, e poi il gruppetto di amici a cui avevo insegnato qualche accordo in parrocchia, giacché coordinavo il coro parrocchiale giovanile. Erano le prime volte che a Lamezia, durante la messa, venivano suonati i canti moderni, soprattutto di Marcello Giombini; alcuni monaci non erano d’accordo ma non mi ostacolavano consentendomi di suonare per le messe celebrate dai frati più giovani ed aperti alle novità. Ricordo padre Franco Carbonara, capellone e blue jeans, un motore di rinnovamento ecclesiale dal basso. Ho iniziato a scrivere anche canti liturgici che vennero inseriti in diverse libretti per la messa. Riuscì a portare nella liturgia cantata qualche brano laico come: “Spiritual” di De Andrè, “Dio è morto”, “Auschwitz” di Guccini, “Irish” dei New Trolls, “L’amicizia” di Herbert Pagani, “Blowing in the wind” di Dylan nella versione italiana “Risposta”. I frati minimi, padre Giovanni Vercillo e padre Giuseppe Morosini, erano molto accoglienti e davano molto spazio pastorale avendo l’idea di una chiesa conciliare, ovvero in rinnovamento secondo la profezia teologica ed ecclesiale del Concilio Ecumenico Vaticano II; loro erano molto vicini al movimento “Un mondo migliore”. Questa linea venne continuata e rafforzata, con sottolineature diverse, da padre Giovanni Cozzolino. Mia moglie aveva una voce stupenda, oltre ad essere attrice per diletto nella compagnia teatrale della famiglia napoletana Coppola. L’ho conosciuta mentre recitava “Filomena Marturano” di Eduardo De Filippo: un monologo di un’enorme commozione. Eravamo a Napoli per studiare, e lei aveva appena vinto il concorso nel Ministero di Grazia e Giustizia. Quando tornavamo a Lamezia, prima da fidanzati e poi sposi, con il gruppo musicale che fondai insieme ad amici musicisti dal titolo “Uomo Nuovo” (nome suggerito da don Armando

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Augello, che ci seguiva con affetto e paternità spirituale), era la voce femminile e suonavamo anche in tante serata estive con il nome “Lamezia Centrale”. Lei cantava meravigliosamente Mina, Mia Martini, Rita Pavoni, Fiorella Mannoia e le canzoni classiche napoletane. Facevano anche duetti come ne “Il pescatore” di Pierangelo Bertoli. Mia figlia Chiara ha ereditato la voce dalla sua mamma, anche se l’ha perfezionato tecnicamente. Canta, compone, insegna in Toscana dove ha frequentato l’università ed ha seguito autorevoli maestri di canto e di interpretazione vocale. Quando viene in Calabria o vado in Toscana mi chiede di accompagnarla con la chitarra o cantare insieme le nostre canzoni. Vedendo insieme padre e figlia i consensi non sono solo artistici, ma anche di affetto. Anche mio figlio Giuseppe (in arte Giuxx), studente universitario, ha maturato la via artistica e musicale (tromba, batteria, DeeJay e vocalist) unita a capacità di promozione e coordinamento di eventi artistico-culturale tra i giovani: Giornate studentesche dell’Arte, Meetings di Deejay, Giornata mondiale del libro e del diritto d’autore di Lamezia Terme e, recentemente, “Officina Giovani”, associazione composta da un gruppo di valenti ragazzi che ha promosso la prima rassegna “Behind the artists” col fine di valorizzare artisti e letterati (musicisti, scrittori, pittori, disegnatori, fotografi, ecc.). Sua moglie non è più fra di noi, un brutto male l’ha strappata all’affetto dei suoi cari da tempo, lei non si è più risposato, è perché si può amare una sola volta nella vita? Dopo la morte di sua moglie si è ritrovato a dover crescere da solo due figli, Chiara e Giuseppe. E’ stato difficile? Lei ha un rapporto splendido con ambedue, quindi direi che è stato, che è, un buon babbo/mammo, ora che sono adulti ed indipendenti, cambierebbe qualcosa in questo suo iter nell’averli educati? Qualunque genitore che si trovi da solo a dover crescere i figli si carica di un impegno molto gravoso. Chiara, si era laureata a Firenze e lavorava lì quando è venuta a mancare la mamma, mentre Giuseppe era appena adolescente e viveva con me. Ognuno ha vissuto il tragico evento con infinito dolore, e si è trasformato in una forza aggiunta per la vita. La madre si è dedicata ai figli in modo smisurato e, mi

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piace pensarlo, ciò non si è fermato con la sua scomparsa fisica, ma continua a esserci spiritualmente nel dare loro forza per proseguire sulla strada della vita. In merito all’unione con mia moglie Elvy, la considero fonte di fecondità interiore. Lei, romana di nascita e potentina di crescita, con un mondo interiore ed una intelligenza ricchissima, mi ha dato due figli ed una vita colma di significati e bellezza. Della nostra storia ha fatto parte anche, in uno sguardo spirituale, la sofferenza della sua salute, iniziata da piccola fino al viaggio della salvezza in America dove è stata operata a cuore aperto da Ugo Filippo Tesler, un cardiochirurgo italo-russo-statunitense di fama mondiale della leggendaria équipe di Houston, che poi l’ha ri-operata a Potenza e l’ha seguita per tutta la vita, anche durante la gravidanza, da amico affettuoso e premuroso, verso cui conservo un profondissimo sentimento di gratitudine e di ammirazione. I figli sono cresciuti fin dalla loro nascita in un clima di sofferenza e credo che sia stata, nella drammaticità quotidiana, una scuola di maturazione e di discernimento unica. Direi che più che un’intervista le sto facendo un interrogatorio! Cambiamo ancora, qualche altra domanda su di lei prima di passare alla conclusione. Lei da bambino, con la sua famiglia, ha vissuto in Australia, è tornato qua in età scolastica e, se possiamo osare, direi che lei, come scrive nel suo libro “d’a cista du ciucciu” potrebbe rappresentare uno dei primi esempi di “bullismo scolastico” forse, più da parte dei professore che dai compagni di scuola. Ritiene sia stato questo che la ha spinta a diventare un personaggio così eclettico? Ha trasformato in rivalsa i torti subiti per dimostrare quello che era? Cosa pensa del bullismo oggi? Delle vittime, spesso giovanissime, che causa? Grazie per questa interpretazione che risponde al vero. E ringrazio pure la professoressa Luciana Parlati che ha colto ed ha scritto questa lettura nella prefazione del volume che ha citato e che lei con la sua famiglia avete pubblicato come casa editrice nel corso del 2018. Sì, da questo disagio, a volte anche sofferenza, di essere stati trapiantati da una cultura ad un’altra, con differenza di lingua, mentalità, comportamenti, società, valori, mondi lontani come quella anglosassone e neolatina, mi sono

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convinto sia scaturita una molla di riscatto personale, ma anche familiare. Vedevo i miei genitori rivolgersi con timidezza ad insegnanti, medici, farmacisti, incarnando il disagio di relazione tra il ceto popolare ed il ceto medio; sapevano però difendere i figli e la famiglia da ingiustizie e soprusi, diventavano leoni. Queste esperienze mi hanno forgiato e caricato di una ferrea volontà di riscatto personale e familiare. Sono stato contentissimo quando, al Salone Internazionale del Libro di Torino, ho avuto l’opportunità di parlare di mio padre, bracciante agricolo migrato dal profondo sud per lavorare nelle vigne dello Spumante di Asti e Canelli. Mi è parso, dopo 60 anni, di riscattare mio padre, tornando in quelle terre per presentare i miei libri, lui che era invece “salito” con la sua zappa. Cosa ne pensa di Papa Francesco? Verso papa Francesco ho un’opinione storica di assoluta positività, pur nella complessità diversificata della sua personalità che sintetizza la doppia sorgente della sua formazione teologica gesuitica e della sua formazione spirituale francescana. Mi convinco che proprio questa varietà intorno alla sua figura stia rappresentando una ricchezza di cambiamento verso l’essenzializzazione della vita della chiesa e nella sua presenza significativa nel mondo contemporaneo. Sta tentando con grande coraggio e difficoltà enorme, a causa di tanta ruggine all’interno del mondo religioso, sia sul piano materiale che mentale, di portare la comunità cristiana davanti al Vangelo nudo e puro. E questo con un dialogo fecondo e complicato con la cultura, la pseudocultura e la mentalità globalizzata, ma anche nel rapporto interconfessionale ed interreligioso, nonché con un confronto con l’ateismo pratico e ideologico. Il suo magistero rappresenta un passo profetico nella storia del pensiero ecclesiale e con una capacità comunicativa e mediatica sorprendente. Bellissima, tra intimità e socialità, è stata, per esempio, l’intervista di natale scorso, sull’emittente televisiva cattolica “Tv2000”. Ho avuto la grazia di incontrare per ben due volte papa Giovanni Paolo II assieme alla mia famiglia in momenti istituzionali a motivo di incarichi ecclesiastici che rivestivo. A lui ho dedicato anche il mio studio “Giovanni Paolo II alla Calabria” uscito pochi giorni dopo la sua morte ed insignito del Premio Cassiodoro. Spero di poter incontrare, anche questo Lamezia e non solo

uomo di Dio, profetico e coraggioso, papa Francesco. E degli attuali politici? C’è ne è uno che ammira ed uno che … non ha la sua stima? Conservo una grande ammirazione per alcuni politici, figure altissime del passato come Giorgio La Pira, Giuseppe Lazzati, Giuseppe Dossetti, Aldo Moro, Alcide De Gasperi, ma anche Sandro Pertini, Giuseppe Saragat, Enrico Berlinguer, Luigi Einaudi, ed altri. Ed a livello locale Gianni Renda, Basilio Sposato, Antonio Guarasci, Rosarino Chiriano, Giannetto De Sensi. Ma preferisco esonerarmi dal pronunciare preferenze tra i politici attuali verso cui non nutro la stessa considerazione, anche se colgo in alcuni, una tensione di una certa sincerità intenzionale. Mi onoro di essere stato in varie tornate elettorali invitato a candidarmi ma senza accettazione da parte mia. In particolare rammento l’invito di Antonio Di Pietro a candidarmi al Consiglio Regionale: dissentivo sulla rosa dei candidati nella sua lista e sul debole respiro etico nell’ambiente calabrese, cosa che mi sorprese tenendo presente la storia del magistrato di “Mani Pulite”. Ricordo con affetto anche la conversazione con il discepolo di Giuseppe Lazzati e collaboratore di Giorgio La Pira e Giuseppe Dossetti, l’on. Franco Monaco, fraterno amico e collega quale direttore della Scuola di formazione sociale e politica della Diocesi di Milano, mentre io lo ero di quella lametina, in cui emerse un’eventuale mia candidatura alla Camera, ma non accettai per la posizione proposta nella lista, ben oltre la possibilità di essere eletto in base alla legge elettorale del tempo. Sarei stato candidato senza possibilità reali di essere eletto. Mi sembrava di ingannare a priori gli elettori. Cinema o teatro? musica classica o musica leggera, le sue preferenze vanno a ...? Amo il cinema, soprattutto italiano dal neorealismo ad oggi, ed anglo-americano degli anni ’50-70, ma anche determinati autori francesi da Jean Gabin ad oggi. Ha un rimpianto? Nessun rimpianto perché la vita va colta nella sua essenza quotidiana, senza mai guardare indietro se non per ritrovare semi da far germogliare nel presente. Se dovesse descriversi con il titolo di un

libro famoso, quale sceglierebbe? Non uno solo ma tre: “Il Gabbiano Jonathan Livingston” di Richard Bach, “Il Profeta” di Gibran Khalil Gibran e “Siddharta” di Hermann Hess. In ognuno mi sono ritrovato come aspirazione. Ed ora la domanda, alla Marzullo, con la quale concludiamo tutte le interviste: la domanda che non le ho fatto e avrebbe voluto le facessi, si faccia la domanda, ci dia la risposta. La mia vita ha avuto un senso? Penso di sì, pur nei limiti di una vita e della vita. Ma ancora non è finita, finché il Dio della vita me la concederà ancora. La vita. Ed eccoci qua a trarre le conclusioni, a tirare le somme, come ad ogni fine intervista. Con Filippo, visto la domanda che si è fatto, voglio sovvertire la consuetudine e dedicargli una frase brevissima di Mark Twain, subito e non a chiusura: “I due giorni più importanti della vita sono quello in cui sei nato e quello in cui capisci perché”. E, credo, Filippo lo abbia capito presto il motivo per cui è nato ... Una vita non certo facile, non solo rose e fiori, ma anche sofferenza, lavoro, sacrifici e, forse, proprio da questa vita non tacile, da questa via tortuosa che ha percorso, egli ha saputo trarre, ogni volta, la forza per andare avanti, per sè stesso, per i figli che ama teneramente e che lo amano con la stessa tenerezza, dolcezza. Chiara e Giuseppe, due figli stupendi, tanto diversi ma legati a questa figura di “padre/ madre” dallo stesso affetto, dallo stesso amore. Chiara, bella, solare, artista a tutto tondo, che musica quel che il padre scrive e canta e si esibisce con il padre ogni volta che ne ha l’occasione. Giuseppe un po’ meno aperto forse ma con la stessa voglia del padre di mettersi in gioco, di coinvolgere e coinvolgersi. Filippo ha un entusiasmo contagioso e in quello che fa riesce a mettere una carica vitale che lascia stupiti. Ha un dono raro, riesce sempre a vedere il lato positivo della vita! Non so se qualche volta si arrabbi, io non l’ho mai visto irato, secondo me, in situazioni delicate applica la buona regola del fermarsi a contare prima di parlare e quando riprende lo fa con un sorriso. Spero, come con tutti, che si riconosca nel mio pensiero e ... al prossimo libro!

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Arte

Antonio Saladino: identità e territorio nella scultura contemporanea

di Alice Traforti

Con l’intervista allo scultore Antonio Saladino andiamo alla scoperta di un pezzo della nostra tradizione attraverso i “Reperti contemporanei” in mostra al Museo MARCA di Catanzaro. Quello con Antonio Saladino è un incontro recente. Nato nel 1950 a Lamezia Terme, lo scultore archeologo lavora principalmente con la ceramica, senza trascurare però né la pittura, né la sua formazione in architettura. Quando mi è stato chiesto di scrivere un testo critico per la mostra “Reperti contemporanei” non conoscevo a fondo la sua storia né il suo percorso e ho volutamente deciso di scrivere basandomi su queste poche informazioni, cercando di spremere il massimo dalle opere, cercando di scoprirle in un percorso che fosse quanto più possibile autentico per me. Ora, a distanza di qualche tempo, sento la necessità di mettere a fuoco e di aggiungere qualche tassello al quadro generale che avevo lasciato in secondo piano. Andiamo perciò a recuperare un dialogo diretto con l’artista, attraverso qualche domanda mirata e complementare. Alice Traforti: Leggo su Antonio Saladino: “Ceramista, scultore e pittore, vive a Lamezia Terme, dove nasce nel 1950.” (estratto da “Antonio Saladino. Reperti Contemporanei”, collana Quaderni del Marca, Silvana editoriale, novembre 2018). Perché hai scelto la

ceramica? Antonio Saladino: L’Argilla è la materia prima per la ceramica; è un materiale che ha come principale caratteristica la plasticità, cioè quella capacità di lasciarsi modellare a piacimento e conservare la forma che gli si è data. Quindi, la facilità nella manipolazione e il fascino di un materiale per certi versi povero, riconducibile al suo essere elemento naturale originario – la terra -, sono state le leve della mia scelta. Ma la passione vera e propria è arrivata quando, facendo parte di una Associazione Archeologica, mi sono venuto a trovare a contatto diretto con il mondo della cultura Magno-Greca partecipando a scavi, attività espositive, visite a Musei e siti archeologici sparsi in tutta la regione. Inoltre, molto importante, è stata l’esperienza di collaborazione, in qualità di disegnatore, con la sovrintendenza della Calabria. Posso dire, quindi, che sono cresciuto in mezzo alla ceramica antica e che, per conseguenza di queste esperienze, è cresciuta l’idea di dedicarmi come attività stabile alla produzione di ceramiche artistiche, pur continuando a dipingere, poiché sono nato pittore. L’amore per la ceramica si è sviluppato gradualmente fino ad arrivare agli anni Novanta, quando l’interesse per la scultura ha preso prepotentemente il primo posto nelle mie attività creative. Alice Traforti: Mi sembra interessante capire subito cosa pensi del rapporto tra arte e decorazione. Come si declina all’interno della tua indagine? Antonio Saladino: Le superfici delle mie opere sono come una pelle che accoglie, in modo timido e discreto, segni e quant’altro si consideri elemento decorativo. Non rinuncio mai al segno, che esso sia funzionale o fine a se stesso. Il senso del decoro me lo porto dentro per gli studi compiuti all’istituto d’Arte ed è costantemente presente nel mio fare arte, ma, comunque, esso rappresenta sempre

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un fattore marginale nella mia produzione artistica. Alice Traforti: La ricerca artistica non è quasi mai autoreferenziale, non indaga solo la bellezza, l’estetica, l’equilibrio, la forma…Con che cosa ha a che fare la tua? Antonio Saladino: Credo che sia sempre presente nel mio creare arte: è uno stato d’animo che ha a che fare con la mia sfera spirituale; è in parte inconscia e, per un certo verso, anche un po’ consapevole. Durante le sedute di lavoro, nel mio studio, ascolto sempre musica classica o comunque rilassante. In questa atmosfera, il corpo e la mente si rilassano e mi lascio trasportare in luoghi sconosciuti, sentieri nuovi da esplorare e quasi sempre ho nuove visioni. Come dire: è bello perdersi perché perdendosi si ritrova se stessi, cioè il proprio essere artista. Alice Traforti: Raccontaci ora com’è nata l’idea della mostra “Reperti contemporanei”, curata da Teodolinda Coltellaro e visitabile al Museo MARCA di Catanzaro (fino al 19 gennaio). Antonio Saladino: Questa mostra è un progetto maturato in questi ultimi anni,

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interrogarmi sul significato escatologico della vita: il fine ultimo delle cose, chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo.

quando mi si è prospettata la possibilità di esporre il mio lavoro di scultura al Museo Marca. In fondo questa idea del reperto simulato è nata negli anni Novanta e si è gradualmente sviluppata e perfezionata fino ad oggi, con le opere esposte. La definizione “Reperti Contemporanei” è stata coniata dalla curatrice della mostra, Teodolinda Coltellaro, proprio in occasione di questo evento al Museo Marca. Essa intende sottolineare come la mia opera esprima un concetto e un pensiero contemporaneo attraverso un reperto simulato che richiama palesemente il passato, ma per superarlo e proiettarlo nel futuro. Alice Traforti: Non solo come archeologo, ma soprattutto come artista: in quanti modi e in quali direzioni è possibile scavare nella vita di oggi? Antonio Saladino: Ritengo che ognuno di noi, credente o non , dovrebbe fare uno scavo dentro la propria interiorità, interrogarsi sul significato della propria esistenza. Per quanto mi riguarda, il mio è uno scavo unidirezionale: io ho una visione cristiana della vita. Tendo, infatti, a studiare e capire le sacre scritture e

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Alice Traforti: Sempre a proposito di scavi e di scoperta, troviamo in mostra una serie di opere che fonda proprio sulla sorpresa che deriva da queste operazioni metodologiche. Vuoi parlarci dei “contenitori”? Antonio Saladino: I “contenitori”, per me, rappresentano la madre terra: nella loro essenzialità e bellezza formale, simulano la bellezza della natura e hanno la funzione di custodirla e proteggerla. In questo caso, la mia opera, come un tesoro, va svelata con il semplice gesto dell’alzare un coperchio, così come fa l’archeologo quando smuove l’humus per portare alla luce quello che vi è nascosto. Alice Traforti: I diversi “portatori”, invece, richiamano l’attenzione sul concetto del dono, proprio in tempi in cui sembra essere passato un po’ di moda, tacciato e dato per scontato, soppiantato dal senso del possesso e da valori altri. Così vediamo in dono la luce, le nuvole, gli scarti, l’urna, i gioielli, gli angeli… e poi c’è il “Custode di tavolette”: l’artista con la sua arte. Anche l’arte è un dono per l’umanità. Di che tipo di dono si tratta? Antonio Saladino: L’Arte e l’artista hanno un grande e nobile compito da adempiere e offrire all’umanità: attraverso la bellezza, arrivare all’animo dell’uomo per riscattarlo dalla banalità del quotidiano, per dargli la possibilità di elevarsi a vette più alte e sostanziali del pensiero e dell’anima e per raggiungere la consapevolezza di essere parte di un progetto divino. Alice Traforti: Parliamo ora del corpo umano, dello spazio del corpo e di architettura. Le sculture che crei hanno la

forma di un busto umano, ma sembrano essere piuttosto architetture per accogliere le tante anime del mondo. Quindi, per te, che cos’è il corpo? Antonio Saladino: Per me, il corpo è uno scrigno, un luogo sacro, così come, per chi è credente, è il tabernacolo dello spirito divino. Il corpo come custodia di qualcosa di prezioso si ripropone sempre nel mio lavoro. Alice Traforti: Come vivi quel legame tra identità e territorio che ben emerge da tutte le tue creazioni? Oppure, se preferisci, che cosa significa fare arte in Calabria? Antonio Saladino: Mi hanno definito “l’artista dell’originario”. La mia esigenza principale è la ricerca e l’espressione di un’identità in dialogo con la storia, con il mio territorio, con le mie radici culturali. Il territorio offre molti spunti e ispirazioni: i siti archeologici sono un pozzo di idee per me, ma il passato, il mito, non condizionano il mio essere artista contemporaneo, poiché non mi lascio assorbire da esso. Guardo al mio passato non per evocarlo né tanto meno per proporne una sterile imitazione, ma per riattualizzarlo e dargli una nuova vita, farlo rivivere in una nuova identità, utilizzando connotati stilistici che appartengono al linguaggio dell’arte contemporanea.

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Spettacolo

Gli Arangara in concerto al Teatro Comunale di Catanzaro Giovedì 13 dicembre il Teatro Comunale di Catanzaro ha ospitato il concerto degli Arangara, gruppo calabrese di musica d’autore che ha presentato anche il suo l’ultimo album Andrea e la montagna. Lo spettacolo è stato organizzato da Ruggero Pegna come appendice al Festival Fatti di Musica in collaborazione con la rassegna Vacantiandu con la direzione artistica di Diego Ruiz, Nico Morelli e la direzione amministrativa di Walter Vasta e La Calabria è talento di “Art-Music&Co”, Assessorato al Turismo e Spettacolo del Comune di Catanzaro. Arangara, albero d’arance in calabrese, ma ne “Il Milione” di Marco Polo si racconta che per spronare gli elefanti gli uomini tenevano in mano una arancia di cui i pachidermi sono ghiotti gridando “arangara” che in realtà significa “vieni via con me”… E sono una arancia e un elefante i simboli di questa band fondata nel 2005 a Bologna da Gianfranco Riccelli, autore e frontman del gruppo, e composta da valenti musicisti, tutti calabresi, accomunati dalla passione per i canti popolari del Sud. Un concerto denso di emozioni e carico di ritmo, con brani di tradizione orale alternati a testi in lingua italiana di forte impronta cantautorale ben lontani dalla vacuità imperante che scorrono come rivoli di un racconto ininterrotto, immersi in un universo sonoro che fonde gli echi delle corde della chitarra, del basso e del violino con i ritmi cadenzati del tamburello e della batteria e i suoni legnosi e cupi delle nacchere a cui rispondono le note grevi e lievi del pianoforte e della tastiera. Sul palco: Gianfranco Riccelli, voce, chitarra acustica, mandolino e armonica, Filippo Scicchitano, basso e contrabbasso, Celeste Iritano, voce, percussioni e danza, Valeria Piccirillo, violino, Salvatore Servino, batteria, Maurizio De Paola, pianoforte e tastiere, Donatella Dovico, voce lirica. “Cinque sette nove diciassette diciannove” è questa la canzone che dà il la al concerto. Un testo scritto da Pierangelo Bertoli e donato a Gianfranco Riccelli molti anni fa a Laureana di Borrello, a seguire un omaggio a Claudio Lolli, scomparso quest’estate, con il bellissimo brano “Torquato”, poi una canzone di grande forza propulsiva ed energia vitale “La voce del motore” mentre Celeste Iritano intona una ballata dedicata alla luna. Ancora “Da giovane avevo un sogno”, con testo Andrea Buffa, che ha ispirato Lucarelli per la scrittura del libro “Il sogno di volare” in cui Gianfranco Riccelli figura come personaggio, e poi “C’era la luna a Portopalo” contro i signori della guerra su testo di un medico calabrese e la canzone di G. Riccelli/M. Barillà “E

Parlami d’amore” che tanto ricorda nella malinconia e nella tessitura musicale la grande tradizione degli chansonnier francesi. Al vecchio repertorio seguono i brani del nuovo album, Andrea e la montagna prodotto da Elca Sound e da Buena Suerte Record con prefazione di Gioacchino Criaco. L’album è dedicato ad Andrea Zanella, alpinista e grande amante della montagna, morto durante una arrampicata nel 2016. Per Andrea, invisibile ma non assente, la cui foto in silhouette appare sulla copertina del CD realizzata dall’architetto Gioacchino Miriello da Pentone, Riccelli scrive la canzone che dà il titolo all’album unitamente ad altri tre brani “Dominica passata” su testo del professore catanzarese Franco Cimino, “Pari bruttu” che riprende un vecchio modo di dire calabrese usato generalmente in famiglia per prevenire il rischio di una brutta figura in caso di un evento inaspettato e “Ma che notte è”. Poi le cover “Ho visto anche degli zingari felici”, in omaggio a Claudio Lolli, e “Smommulando” dall’album Petipitugna del salentino Mino De Santis. Ancora “Un servu e un Cristu” restituita, nella sua potenza espressiva e sonora, alla versione originale che è una antichissima canzone siciliana di Leonardo Vigo, dal titolo “Lamento di un servo ad un Santo crocifisso”, pubblicata nel 1857 in una raccolta di canti siciliani e a cui Domenico Modugno si ispirò per la celeberrima “Malarazza” , e due brani su testi dello scrittore e umorista Stefano Benni: “Cometa” e “Ingorgo d’amore”. Il concerto è stato arricchito dalle incursioni teatrali di Salvatore Conforto e Romina Mazza che si sono cimentati nel reading di alcuni brani letterari intorno ai temi dell’immigrazione tratti da “La vita ti sia lieve” di Alessandra Ballerini mentre sulle note dell’amor cantato si innestava la prosa poetica de “L’amore è sempre nuovo” di Paulo Coelho e “Questo amore” di Roberto Lerici. L’amicizia è stata affidata alle parole di Simone Weil nel brano “Il miracolo dell’amicizia” e a quelle del sommo Jorge Luis Borges con “Amicizia”. “Quando fu il giorno della Calabria” di Leonida Répaci ha chiuso la performance. Al termine dello spettacolo sul palco il promoter Ruggero Pegna, il direttore artistico di Vacantiandu Nico Morelli e l’assessore Alessandra Lobello che hanno ringraziato gli artisti, generosi nel regalare altre canzoni tra cui la famosa “Riturnella”, e il numeroso e caloroso pubblico presente in sala. Con un pensiero alla tragedia della discoteca di Corinaldo per ribadire che la musica deve essere sempre e comunque fonte di gioia e di vita e non dispensatrice di dolore e di morte.


Spettacolo

“Colpo di scena” tra risate e polvere da sparo

Catanzaro, 10 gennaio 2019. Terzo appuntamento al Teatro Comunale con la rassegna teatrale Vacantiandu con la direzione artistica di Diego Ruiz e Nico Morelli e la direzione amministrativa di Walter Vasta e inserita nell’omonimo progetto regionale con validità triennale finanziato con fondi PAC. In cartellone Colpo di scena, il nuovo spettacolo scritto, diretto e interpretato da Carlo Buccirosso e prodotto da Ente Teatro Cronaca Vesuvioteatro. Una scenografia imponente e mutante, firmata da G. Cerullo e R. Lori, anche se montata in versione ridotta per problemi di spazio scenico, a rappresentare fedelmente due ambienti completamente diversi e resi ancor più realistici dal rigoroso disegno luci di Francesco Adinolfi: uno pubblico, il commissariato di polizia, e uno privato, una baita di montagna. Due dimensioni spaziali solo apparentemente distanti ma che nel corso della storia risulteranno intimamente legate e interdipendenti accompagnando i trapassi interiori del protagonista. Qui, si muovono e interagiscono i 10 personaggi di questo thriller dalle tinte nere con risvolti da revenge play e picchi di sana comicità. Un mistero vi aleggia vago, riservando un finale a sorpresa che spiazza lo spettatore. Criminalità, senso della giustizia, certezza della pena, tutela per chi subisce violenze e soprusi sono i cardini attorno a cui ruota lo spettacolo percorso anche da tematiche trasversali: la malattia, la famiglia come bene-rifugio e il ruolo “sociale”, ormai necessario, delle badanti straniere in questa società indaffarata e indifferente che non ha più il tempo di prendersi cura degli anziani. Un grande Carlo Buccirosso veste i panni di Eduardo Piscitelli, vice questore di provincia integerrimo, con un alto senso del dovere e una fedeltà indiscussa alla divisa che rappresenta. Ma anche uomo intimamente tormentato con dentro un segreto che pesa come un macigno. Ecco allora che il suo alacre impegno a ripulire la società da criminali, ladri, sfruttatori, stupratori, corrotti, mafiosi – che rientrano tutti nella categoria degli “uomini di merda” – diventa la proiezione di un suo malessere profondo che fa scattare una feroce caccia all’uomo. La sua tonante severità è levigata da una girandola di battute pungenti e amabilmente irriverenti che riserva agli uomini della sua squadra: il “lecchino” ispettore Murolo (Peppe Miale) che cerca in ogni modo di accaparrarsi la sua benevolenza; la sovrintendente Signorelli (Monica Assante di Tatisso) sfacciatamente servizievole e innamorata di lui; gli agenti Varriale (Giordano Bassetti) e Di Lauro (Roberta Gesuè) sempre scattanti e pronti ad eseguire gli ordini e l’agente Farina (Matteo Tugnoli), un romagnolo

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trasferito al Sud che ha qualche difficoltà iniziale ad entrare nel meccanismo del “pensiero meridiano”. Michele Donnarumma, magistralmente interpretato da Gennaro Silvestro, a dispetto dei suoi nobili natali, è il cattivo, l’eroe negativo, innamorato del suo destino canagliesco e fatale, pervaso da sterilità morale e affettiva stemperata, solo in qualche occasione, dal ricordo dei due figli che deve mantenere. Attraversato da un ingannevole attimo di redenzione, lo usa ancora una volta per far male, tradire, colpire, sordo a qualsiasi richiamo del cuore e degli affetti. Trepida e dolcemente ambigua la dottoressa Cuccurullo di Fiorella Zullo che ci restituisce l’immagine di una donna vittima di violenza, intimamente devastata. Bravissima Elvira Zingone nel ruolo di Gina, la badante rumena, che si muove con realismo lungo la traccia del suo personaggio ostentando leggerezza di farfalla e il piglio autoritario di una signorina Rottermeier soprattutto nell’arginare la spericolata esuberanza di Marcello, ex colonnello in pensione e padre di Eduardo. Gino Monteleone, ne fa un ritratto tenero e dolente, caricando il personaggio di tutte quelle arie di stupore, desideri primordiali, capricci e vaghezze che il morbo di Alzheimer genera in chi ne è affetto riservandogli, tuttavia, un ultimo momento di lucidità che gli restituisce la sua dignità di padre e di uomo generoso, prodigo e buono. Tutti gli attori si vedono drammaticamente tesi a dare verosimiglianza ai personaggi anche attraverso concitate scene d’azione che imprimono allo spettacolo un ritmo cinematografico. Buccirosso ancora una volta, mostra di aver bene avvertito, da fine osservatore della realtà, i problemi del nostro tempo, cui si è sempre accostato con brio e fine leggerezza proseguendo con successo un filone drammaturgico più maturo con storie molto strutturate in cui si intrecciano sapientemente il registro comico e quello drammatico, personaggi a tutto tondo e tematiche sociali attinte dalla vita reale ma sempre proposte con intelligente ironia. Un teatro “popolare”, il suo, che sa parlare al cuore del pubblico e il pubblica ricambia con calorosi, lunghissimi applausi. Al termine dello spettacolo l’omaggio della tradizionale maschera, simbolo della rassegna Vacantiandu ideata dal graphic designer Alessandro Cavaliere e realizzata dal maestro Raffaele Fresca, che il direttore artistico Nico Morelli e il direttore amministrativo Walter Vasta hanno consegnato a Carlo Buccirosso.

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Spettacolo

Quella ingannevole “Aria del Continente”

Catanzaro, 5 gennaio 2019. Secondo appuntamento al Teatro Comunale con la rassegna teatrale Vacantiandu con la direzione artistica di Diego Ruiz e Nico Morelli e la direzione amministrativa di Walter Vasta e inserita nell’omonimo progetto regionale con validità triennale finanziato con fondi PAC. Valori individuali e affiatamento collettivo. Questi i tratti salienti del Teatro dei Saitta che da Catania, ospiti per la prima in Calabria, hanno portato in scena L’Aria del Continente di Nino Martoglio. Una famiglia nella vita e una famiglia sulla scena Salvo, Katy ed Eduardo Saitta che, da oltre 50 anni, vivono e fanno vivere il teatro con un repertorio vastissimo che va dai classici (Goldoni, Pirandello, Martoglio, De Roberto, Molière) a testi contemporanei scritti e interpretati dal più giovane dei Saitta, Eduardo. L’Aria del Continente è uno spettacolo dove i meccanismi della comicità e certe invenzioni registiche di gesti e pose sollecitano risate senza soluzione di continuità e applausi a scena aperta. La trama è nota: Don Cola Duscio è un ricco possidente che, reduce dal Continente dove è stato operato di appendicite, ostenta modi liberi ed una amante “forestiera”, Milla Milord, canzonettista d’alto bordo, che si rivelerà poi essere una piccola meretrice dell’interno dell’isola. La figura di Cola Duscio attraverso l’arte vibrante di Salvo Saitta è mirabile

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dall’inizio alla fine. La nonchalance con cui ostenta lo spirito continentale disprezzando e commiserando il modus vivendi dei suoi familiari. La gelosia incollata al cuore ma ben dissimulata da sorrisi e atteggiamenti magnanimi. L’assoluta padronanza del gesto nella scena che mima l’operazione di appendicite. I calembour linguistici che, in un dialetto di acqua e di fuoco, come quello siciliano acquistano sonorità materiche da farfuglio musicale. La scena del balletto sul tavolo che diventa furibonda vis comica richiamando in alcuni tratti il Ciampa di Pirandello fino all’agnizione finale e alla sua ricerca di rifugio e sicurezza tra le braccia della sorella-madre. E gli apporti pirandelliani al personaggio sono ancora visibili in quel sottile gioco dell’Essere e dell’Apparire, in quel “farsi” continentale con la rabbiosa consapevolezza di “essere” siciliano di nascita, di carattere, di abitudini e di pensiero. Magnifica presenza Katy Saitta nei panni Maristella, sorella di Cola. Alta, altera e spigolosa è la vera “domina” della casa e della scena. Moglie e madre inflessibile, tocca a lei difendere l’onore della famiglia e lo fa con veemenza e veggenza e con un gusto per la bagarre, non solo linguistica, padroneggiando lo spazio scenico. Suo contraltare è Orazio Torrisi la cui sapienza comica ci regala un Licino deliziosamente infoiato. Eclettico Eduardo Saitta nel doppio ruo-

lo di Michelino e Fifo. Tanto inane e grigio, con punte di esilarante goffaggine il primo quanto squillante e irriverente, con punte di femminea isteria il secondo. Ma anche regista attento e rigoroso che ha saputo imprimere nuova vitalità al testo consegnandoci un meccanismo scenico perfetto che scorre godibilissimo e che va oltre la comicità delle battute per rifondarsi sulla mobilità espressiva degli interpreti e sulla grande vivacità di ritmi e di colori. E grande cura è riservata, infatti, a tutti i personaggi: l’umanissimo delegato, puro paladino della legge (Aldo Mangiù); la disinvolta e maliziosa Milla Milord (Annalise Fazzina) che si destreggia tra inganno e strategie seduttive; Cecè (Massimo Procopio), carezzevole lusingatore; la schietta e verace serva di casa Duscio (Eleonora Musumeci); l’intrepida Clementina (Federica Gambino) che, in un monologo da manuale, sa imporsi con l’autorevolezza di una piccola donna. Successo pieno, applausi scrocianti e pubblico molto molto divertito. Al termine della commedia l’omaggio della tradizionale maschera, simbolo della rassegna Vacantiandu ideata dal graphic designer Alessandro Cavaliere e realizzata dal maestro Raffaele Fresca, che il direttore artistico Nico Morelli e il direttore amministrativo Walter Vasta hanno consegnato alla Compagnia Teatro dei Saitta.

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Accade a Lamezia

SUCCESSO DI “BEHIND THE ARTISTS”

RASSEGNA PROMOSSA DA “OFFICINA GIOVANI” DI LAMEZIA TERME Si è conclusa la rassegna di arte, cultura e musica “Behind the Artists” promossa da “Officina Giovani” una squadra di cinque giovani, Francesco Ielapi, Chiara Scalise, Andrea Mangione, Roccoluca Zaffina e Giuseppe D’Andrea, ospitati dalla location “Ai tre bicchieri” di Lamezia Terme. “Un mese - ha affermato Giuseppe D’Andrea, presidente dell’associazione- nel suo discorso di chiusura- di eventi ricchi di belle sorprese. Tanti giovani si sono espressi con libri, musica, fotografie, pittura, disegni, sculture che hanno rivelato quanti talenti vi siano nelle giovani generazioni lametine e calabresi, quante potenzialità interessantissime che debbano essere messe in grado di divenire una forza di crescita culturale e sociale”. La Rassegna artisticoculturale si è svolta in 7 appuntamenti con 22 giovani artisti emergenti e non in 28 giorni dal 9 dicembre 2018 al 6 gennaio 2019 di permanente mostra d’arte nella galleria della bella struttura di via Garibaldi. Il 9 gennaio il giovane presidente del Sodalizio ha presentato ufficialmente il programma consegnando la serata ai “Non Pervenuta e Lanzo Gennaro soldarte”. Il 13 dicembre si è presentato il libro “Il primo uomo ad aver scritto sulla luna” del giovane scrittore Eugenio Campana intervistato da Federico Falvo. Il 16 dicembre “Peppe e Gianluca Harlequin Talarico” ed una conversazione con Luigi Strangis. Il 23 dicembre l’incontro con l’arte di Silvia Vescio, Luigi Fusto e N.E. Illustrator mentre i musicisti di Officnia Giovani eseguivano la loro musica.

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Il 30 dicembre è toccato agli artisti Caso in Bozze, Nathalie Pandolfo e Silvia Mazzocca mentre si esibivano gli ISSTERICA e le loro canzoni inedite. Il 3 gennaio 2019 è stato il turno degli LDM “LegameDiMassacrew” con Percorsi di conoscenza della Crew, e di seguito la Jam Session Rap/HipHop. La Rassegna si è conclusa il 6 gennaio 2019, giorno dell’Epifania, con Francesco Bean (Cs), Andrea Mangione, Andrea Raffaele e Francesco Ranger Longo e canti e balli in allegria insieme Ai 3 Bicchieri. Si sono stimati complessivamente più di 2000 giovani che hanno seguito tutto il programma, affollando anche il marciapiede e la strada di fronte alla location. I ragazzi di “Officina Giovani” hanno dichiarato che la risposta pubblica è stata ben oltre qualunque aspettativa, caricandoli di entusiasmo al punto da mettere in progetto per la primavera un altro evento mirato a scoprire altri talenti ed animare con la cultura, l’arte e la musica il mondo giovanile lametino ed oltre. Dai giovani si costruisce una società migliore e, come affermano questi

v a l e n t i ragazzi di “Officina Giovani”: “il nostro scopo è precisamente la valorizzazione della bellezza, del bene, dei sogni, della concreta volontà per la storia dell’avvenire della Calabria e del Sud”. In elaborazione vi sono, come detto, altri progetti sulla spinta di questa prima riuscitissima esperienza. L’invito che noi vogliamo lanciare da questo nostro mensile è che siano sostenuti anche sul piano materiale ed operativo, giacché questa splendida gioventù di “Officina Giovani” si è sorretta solo con una ferrea volontà ed una gratuità esemplare di impegno. L’appello alle Istituzioni pubbliche e non è di non far spegnere, la storia insegna, questo entusiasmo che nasce dall’animo dei nostri giovani, e nutrirlo con disponibilità e incoraggiamento concreti. Noi di “Lamezia e non solo” li stiamo ospitando e li continueremo ad ospitare nella nostra rivista e vogliamo che siano accolti dalla città governante, socioculturale ed educante, sapendo che il loro impegno ha lo scopo di dare fiducia e motivazione alla realtà giovanile col metodo a partire dalla realtà viva del mondo dei giovani.

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Associazionismo

Intervento di Michela Manfredini “La creatività femminile, la cultura dell’innovazione, motori di diverso sviluppo socio-economico”

Facendo seguito all’articolo: “La creatività femminile, la cultura dell’innovazione, motori di diverso sviluppo socio-economico”, tema trattato dalla FIDAPA, sezione di Lamezia Terme, il 10 novembre 2018 e da me introdotto su “Lamezia e non solo” di novembre n°48, dove avevo già annunciato la pubblicazione delle relazioni integrali di ciascun relatore, presento gli interventi di: MICHELA MANFREDINI, architetto, consulente prima per IKEA come interior designer e poi, tresferitasi a Londra, è diventata Technical Design Manager per l’azienda Smallbone of Devizes, che si occupa di produrre arredamento per il mercato del lusso e opera in tutto il mondo. Nel convegno di oggi vorrei condividere con voi le mie riflessioni sul tema di quest’anno concentrandomi sulle parole chiave: creatività femminile, innovazione e sviluppo. Volendo dare una definizione molto semplice di creatività, basandomi sulla mia esperienza professionale come designer, potrei dire che é il risultato della combinazione di due fattori, ugualmente importanti; l’intelletto e la fantasia. Il primo, dalla sua etimologia (dal latino intelligere) è il comprendere la situazione in cui ci troviamo ad operare. Per me ad esempio, nel momento in cui mi trovo ad affrontare un progetto, si tratta di prendere atto e studiare gli spazi su cui devo intervenire, l’architettura e lo stile dell’edificio, le richieste e le esigenze specifiche del mio cliente. Come avviene? Attraverso la conoscenza della materia, lo studio e l’esperienza accademica e professionale che mi ha consentito di vedere e conoscere situazioni simili e che mi forniscono le chiavi di lettura necessarie. Il secondo è la fantasia, che potrei definire come la capacità di elaborare tutti gli elementi raccolti nell’analisi dell’intelletto per dare una soluzione al ‘problema’. Per cercare di descrivere questo processo con un esempio immaginate di avere un puzzle con un mezzo mancante; l’intelletto è il processo di preparazione in cui prendete carta, forbici, matite e quanto occorre per costruire il pezzo mancante, la fantasia è il momento in cui, magari provando metodi diversi, cercate di modellare il pezzo per completare il puzzle. La creatività nell’ambito dell’economia e dello sviluppo non è mai un’espressione libera dell’individuo o di un gruppo, ma diventa uno strumento importante per rispondere a un bisogno a cui non è ancora stata trovata una soluzione. In particolare oggi ci troviamo qui a parlare di creatività

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femminile; le donne, rispetto agli uomini, devono purtroppo ancora colmare un divario di genere nel campo delle professioni creative e per riuscire a farlo devono combinare alla creatività alcuni importanti elementi. Il primo è il costante impegno e tenacia nella preparazione, per fronteggiare gli ostacoli creati da un clima culturale a volte non sempre aperto alla parità di genere. Il secondo è l’opportunità e la fortuna di avere le occasioni per mettere a frutto le proprie competenze e dimostrare i propri talenti, migliorando ed arricchendo la propria esperienza. Il terzo è la possibilità di avere una mentore che possa guidare non solo nel migliorare le proprie conoscenze ma soprattutto incoraggiare specificatamente nel ruolo di donna professionista e testimoniare una storia di successo. A questo pro- “1 posito ho voluto portarvi l’esempio del gruppo Rebel Architette, un gruppo di donne architette per lo più under 30 che hanno cercato di vincere la disparità di genere nel settore dell’architettura richiedendo il riconoscimento del titolo di ‘architetta’ e creando una rete di networking per promuovere i progetti e le figure che fanno parte del gruppo e sottolineare il contributo importante che le donne danno all’architettura. Le donne che applicano la creatività per produrre sviluppo lo fanno attraverso l’innovazione. Oggi ho voluto portarvi l’esempio di Zaha Hadid, architetto donna che ha fatto innovazione nel mondo dell’architettura, rompendo il binomio forma-funzione per passare a una visione dell’edificio più fluida, non solo rispetto alle forme ma soprattutto al concetto di architettura come luogo che deve promuovere il benessere di coloro che la usufruiscono, assolvendo non solo alla funzione di riparo ma anche di piacere nel

vivere gli spazi. Zaha Hadid è stata anche grande promotrice e ispirazione per le donne nell’architettura, testimoniando un esempio di eccellenza e distinguendosi tanto da essere la prima donna a vincere il Premio Pritzker. Lo sviluppo, nella mia esperienza, avviene quando applichiamo la creatività e l’innovazione ai processi e alle applicazioni in ambito professionale. Vi ho portato come esempio il risultato ottenuto in un progetto recente, in cui potete vedere applicati materiali insoliti e tecnologie sperimentali in questo settore. Lo studio di materiali e tecniche in altri ambiti ci ha permesso di individuare come sarebbe stato possibile integrarle nel design creando effetti nuovi e risultati innovativi. La capacità nel campo professionale di promuovere creatività e innovazione per produrre sviluppo non solo va a vantaggio dei processi produttivi e operativi ma diventa un importante fattore nella creazione delle risorse umane e nella ritenzione dei talenti, generando un importante e difficilmente raggiungibile vantaggio competitivo. Per concludere e riassumere questi concetti vorrei condividere con voi le parole di Pablo Picasso, che sosteneva ‘Impara le regole come un esperto, così potrai infrangerle come un artista’. La creatività è utile e diventa indispensabile quando porta innovazione e sviluppo. Il primo passo importante è la conoscenza, lo studio e l’osservazione dell’esistente per comprendere le regole che lo governano e poterle rompere, per creare un nuovo sistema che dia risposte e soluzioni ai bisogni della società e che esalti, non discrimini, le differenze di genere in cui le donne meritano e necessitano di dare il loro prezioso contributo.

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Associazionismo

La fiaba di “Ingrid e Gerlando” di Polopoli, Carnevali e Prestia al centro culturale “Samarcanda” Una serata all’insegna dell’incontro tra le arti e le persone, tra la storia e il presente, tra i sentimenti del passato e quelli di oggi. Si riassume così l’evento promosso dal centro culturale “Samarcanda” con la presentazione della fiaba tutta lametina “Ingrid e Gerlando”, un progetto nato dalla sinergia tra l’artista Maurizio Carnevali, il docente e scrittore Francesco Polopoli e la cantastorie Francesca Prestia . Un impegno comune per il bene comune città della Piana, riproponendo e riattualizzando la fiaba già presente negli scritti di Monsignor Pietro Bonacci e dello storico Vincenzo Villella. Tre protagonisti calabresi della cultura a livello nazionale e internazionale hanno fatto rivivere la storia d’amore tra la figliastra del re Federico II, Ingrid, e il paggetto Gerlando, un amore contro cui si scagliò con prepotenza l’imperatore di Svevia costringendo Gerlando a fuggire dal castello e rinchiudendo Ingrid nella stessa stanza dove nel 1240 aveva tenuto prigioniero il figlio ribelle Enrico, re di Germania. Il tutto ambientato tra i ruderi di quel castello di Neocastrum che domina la città della Piana, tra la suggestione di leggende del passato e il triste abbandono e l’incuria che

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segna quel luogo ai nostri giorni. Polopoli, Carnevali e Prestia hanno avuto occasione di condividere con il pubblico la genesi del loro progetto, un incontro tra persone e tra espressioni artistiche diverse, accomunate dalla volontà di recuperare il passato e la tradizione non per una sindrome “da torcicollo”, ma per farne ricchezza per il presente e per il futuro. Ad incantare il pubblico, l’esibizione di Francesca Prestia, con una ballata scritta per la fiaba di Ingrid e Gerlando, in cui la voce inconfondibile della cantastorie calabrese ha musicalizzato amore e sofferenza, sentimenti di ogni tempo e connotati di ogni anima. La presidente del centro culturale Manuelita Iacopetta, che nell’occasione ha presentato la sua corona di Federico II realizzata a mano con filo d’oro lavorato a crochet, ha messo in parallelo la sinergia tra i tre autori e la ricerca di condivisione che da sempre caratterizza il centro culturale Samarcanda, “con l’intenzione di mettere insieme energie e competenze di quanti vogliono attingere al passato di questa nostra bellissima e amara terra per costruire una speranza per il presente”. “Una memoria che sta diventando lievito per tanti altri artisti ed esperienze culturali”, definisce la docente Michela Cimmino la fiaba di Ingrid e Gerlando “che ci mostra ancora oggi come l’eros, l’amore, sia la forza più potente capace di muovere il mondo, fino a mettere in discussione i potenti e i prepotenti di ogni tempo”. Un’iniziativa organizzato dal centro in collaborazione con le associazioni culturali lametine Rotary Club, Lions Club e Convegno di cultura Maria Cristina di Savoia che, attraverso i rispettivi presidenti Domenico Galati, Rosina Manfredi e Filomena Cervadoro, hanno evidenziato la sinergia con Samarcanda nel nome della cultura e della solidarietà. Con il ricavato di ogni cinquanta copie del libro, infatti, le associazioni porteranno avanti un progetto di vicinanza e aiuto a un bambino sfortunato.

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Carissimi lettori, durante le feste ho letto le poesie di Fernando Antonio Pessoa. In un nutrito e bel volume della Newton Compton Editori. Un libro prezioso. Non ho mai amato molto i versi troppo conosciuti di questo poeta, perché mi sembravano troppo tristi e… scontati. Ma, come spesso mi succede, non mi rassegno alle mie idiosincrasie letterarie e approfondisco gli argomenti. A volte mi va male e resto della mia idea, ma altre, cambio totalmente la prospettiva: l’approfondimento è sempre un bene.Come nel caso di Pessoa. Ho scoperto versi del genere, che definirei palpitanti: DEI PASSI NELL’ERBA Dei passi sull’erba… Sono gnomi nella selva… S’odono a distanza Pur se d’appresso. E’ come la fragranza Giunta dal deserto. Dei passi… Li udii Passare, non passare. Sono gnomi: li sentii. Sono gnomi: aria. All’udirli li vidi… Perché odo sognando? Dei passi… vanno., senza conoscersi… Vanno o vengono? Non voglio saperlo. Voglio solo non essere, sognando e sorridendo. (20 ottobre 1933)

UN SOLO MOMENTO Un solo momento Senz’aver niente… Un mio pensiero Senza saperlo… Poco… Casualità Di non pensare, come un ritardo del quietare… Niente… La leggera Indecisione che resta intera dentro il cuore. (10 ottobre 1934) Oltre che palpitanti, versi impalpabili, che trasportano in un mondo altro, che ci restituisce il senso delle cose, attraverso il ricco mondo interiore del poeta. La poesia, oggi trascurata in un mondo

di analfabetismo emotivo, è, al contrario, l’unico modo per non cedere al ricatto di una realtà che corre e che ci fagocita. Riscoprire un poeta, conoscerlo a fondo, è amare una parte di se stessi, che, a volte, trascuriamo. Il clima caldo e intimo delle feste natalizie favorisce la poesia. Mi sono ritrovata, a notte inoltrata, dopo la festosità delle giornate, a ritrovarmi con me stessa, con i versi da leggere e l’atmosfera del cuore. Mi piacerebbe, e sogno, che la poesia ritrovi il suo spazio, dentro e fuori di noi, per farci ancora sentire veramente umani, nel senso più profondo del termine. BUON ANNO e BUONA LETTURA.

Satirellando

Ultimamente, guardandomi intorno, mi sento un pesce fuor d’acqua nell’osservare una bella fetta di miei coetanei. Sperduti, nostalgici, assittati, come diceva mia mare, ovvero seduti su se stessi… Non so perché: come se avessero perso vitalità e sogni. Identificano questi ultimi, sempre nel desiderio di realizzare qualcosa, mentre il sogno non è che quella qualità che serve per astrarsi dalla realtà quel anto che serve per apprezzare la vita.mE, come al solito, osservando, esce fuori il mio pungiglione scorpionico, che mi porta, inevitabilmente, a… satirellare! (E qui ci starebbe una bella faccina da emoticon, di quelle con la linguaccia…)

LA CANZONE DEL VECCHIUME Scorre triste, come un fiume, la canzone del vecchiume! Non dà scampo, né via d’uscita: devi essere della partita, di chi non parla che di malanni, di tristezze, disgrazie ed affanni! Qui il climaterio, di là la prostata: per carità, sono “apostata”, fra questo popolo così invasato, un po’ inutile e invertebrato, che si nutre di nostalgie, come pietose avemarie! Han male alla schiena, usano il pile, si veston col “vedovella style”, dai colori nero bitume, pag. 16

mamma mia quanto pattume! mi bardo con bijoux e vivaci capSi lagnano sempre, son sempre pelli: “incagnati”, non cado, di certo, nei tranelli son compiaciuti, pur se costernati, orribili e fatui della canizie della vecchiaia anzitempo vissuta: o di altre false mestizie; si senton saggi, ma è solo cicuta, non voglio perder la mia forza quella di volersi presto attempare, e far la fine della scamorza! per non doversi rivalutare! Col fumo denso che dentro Mi guardo intorno, ognuno mi strozza, è dimesso: volo via dall’ingiusta pozza, ostentano occhi da pesce lesso, via dalla melma e dalla palude: e, senza alcuna gentilezza, via da tutto ciò che illude, ti fanno sentire “una pezza”! voglio fare come papà Allora, per non invecchiare, e alla faccia di chi creperà, e potermi prontamente salvare, viver felice, con cuorcontento, GrafichÉditore di A. Perri - & 0968.21844

mentre il tempo scorre lento e apprezzar ogni giorno il sole, perché invecchia solo chi vuole e per coloro a cui questo non cale, che non hanno “vita sociale” dico:” Stateci voi, nel vostro grigiume, io volo in alto, con tutte le piume!”!

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l’angolo di tommaso

Maurizio Costanzo Maurizio, conosciuto in prima media, intelligente, brillante, oggi è per me un nipote, un lungo bellissimo percorso fatto insieme, un cammino a volte difficoltoso come la vita ci impone forse fortunatamente, un cammino ricco di soddisfazioni e scommesse vinte. Ora Maurizio ha raggiunto un traguardo importante, la laurea in Economia conseguita alla Università Bocconi di Milano. In momenti come questi scorrono le immagini degli anni trascorsi come se tutto si fosse svolto in un secondo, un attimo pieno come un atomo: l’alunno dal quale pretendevo sempre di più, i confronti, l’amicizia, l’affetto filiale, la piena fiducia ormai talmente consolidata che ci appare un fatto così naturale da non essere oggetto della benché minima riflessione, un fattore totalmente acquisito. Ed eccomi alla sua festa con la sua splendida famiglia a pensare a tutto questo, pieno di gioia ed emozione. Maurizio è una dimostrazione dei falsi luoghi comuni che sempre più spesso si dicono sui giovani, i quali nella stragrande maggioranza

dei casi valgono tanto, contro ogni arbitraria generalizzazione. Auguri Maurizio Costanzo.

Riflettendo ... Diciamoci la verità, non vogliamo rinunciare al rituale del Buon Anno, non ci riusciremmo mai, a costo di sentirci colpevoli della nostra consapevole bugia; facciamo finta di mettere da parte il disincanto ormai cronico nelle nostre cervici e ancora una volta ci buttiamo nella folle folla degli auguri. Ognuno in cuor suo vive la “tragedia” della paura di un altro anno uguale a quello precedente, ci si chiede con non gradita oggettività e lucidità perché l’anno che sta per iniziare dovrebbe essere diverso, con quali presupposti dovrebbe Lamezia e non solo

accadere una cosa del genere, proprio in questo momento di Verità accorre in aiuto l’illusione, la voglia di prendersi in giro cercando di non farsi troppo del male, il desiderio che la notte di San Silvestro possa durare il più a lungo possibile, la favola di un primo di gennaio capace di cambiare gli avversi destini. Vorresti una certezza che non esiste, un calendario non scandito dai giorni, un oroscopo in cui credere per davvero. Invece il primo dell’anno saremo soltanto un po’ più storditi del solito, niente di nuovo sul fronte occidentale e neanche su

quello orientale...

Noi più consapevoli Noi più saggi Noi più vissuti. Noi colmi di esperienza Noi più affaticati, Forse più affascinanti. Noi meno felici...

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Rubrica di Antonio Saffioti totosaff@gmail.com 27 GENNAIO - GIORNO DELLA MEMORIA, IN COMMEMORAZIONE DELLE VITTIME DEL NAZISMO, L’AKTION T4, LO STERMINIO NAZISTA DELLE PERSONE CON DISABILITÀ In questo giorno, sono diverse le possibilità e le occasioni di riflessioni sul tema dell’olocausto, tra le tante ho scelto di ricordare le vittime dell’Aktion T4, che fu il nome dato dopo la seconda guerra mondiale, al Programma nazista di eutanasia, per lo sterminio delle persone con disabilità fisiche e mentali, affette da malattie genetiche, inguaribili o da più o meno gravi malformazioni fisiche. T4 è l’abbreviazione dell’indirizzo del quartiere Tiergarten di Berlino dove era situato il quartier generale dell’ente pubblico per la salute e l’assistenza sociale. All’inizio del XX secolo in molte nazioni - tra le quali spiccavano Stati Uniti, Germania e Regno Unito - si discuteva di eugenetica, una disciplina del darwinismo sociale, volta a migliorare la specie umana attraverso la selezione dei caratteri genetici ritenuti positivi e l’eliminazione di quelli negativi. In Germania la discussione si appoggiava su concetti di «razzismo scientifico» ed «igiene razziale». Hitler provò per tutta la vita una violenta repulsione per la disabilità mentale e la deformità fisica, attratto com’era dai canoni di bellezza e purezza e dal dibattito in corso in Germania ad opera del movimento eugenetico. Nelle sue discussioni, Hitler definiva i disabili come coloro «che si insudiciano di continuo» e che «mettono i loro stessi escrementi in bocca». Più in generale Hitler utilizzò metafore mediche per paragonare coloro che aveva intenzione di eliminare dalla «comunità razziale» tedesca - si riferì in più occasioni agli ebrei come ad un virus che doveva essere curato oppure ad un cancro che doveva essere asportato. Allo stesso modo egli vedeva i disabili come un «elemento estraneo» al corpus razziale germanico: nella mente di Hitler e degli altri dirigenti nazisti la necessità di «ripulire» la razza tedesca dai sub-umani era fondamentale. L’idea di implementare una politica del genere rappresentò un elemento centrale dell’ideologia hitleriana. In sintonia con questa visione di Stato il regime nazista implementò subito dopo l’ascesa al potere le prime politiche di igiene razziale. Nel 1933 venne stabilita la sterilizzazione forzata di persone affette da una serie di malattie ereditarie - o supposte tali. Nonostante le numerose proteste popolari ed i ricorsi fatti dai parenti dei pazienti si stima che tra il 1933 ed il 1939 siano state sterilizzate 200.000 - 350.000 persone. Subito dopo il varo del programma di sterilizzazione coatta

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Hitler espresse il proprio favore all’uccisione dei malati incurabili. Lo scoppio della guerra permise ad Hitler di realizzare il progetto che accarezzava già da lungo tempo. Tra le operazioni compiute nel periodo prebellico in preparazione all’operazione di eugenetica vennero progressivamente chiuse le istituzioni medico-religiose. I pazienti vennero quindi trasferiti negli istituti medici statali andando a peggiorare le già precarie condizioni di sovraffollamento e aumentando le possibilità propagandistiche delle campagne a favore dell’eugenetica. Il Regime preparò l’opinione pubblica attraverso un oculato e mirato programma propagandistico. Le organizzazioni naziste prepararono opuscoli, poster e film dove si mostrava il costo di mantenimento degli istituti medici preposti alla cura dei malati incurabili e si affermava che il denaro risparmiato poteva essere speso con più profitto per il «progresso» del popolo tedesco «sano». Un ulteriore campo di intervento a favore dell’eugenetica fu rappresentato dalle scuole dove gli studenti si trovarono a risolvere problemi di aritmetica di questo tipo: «Un malato di mente costa circa 4 marchi al giorno, un invalido 5,5 marchi, un delinquente 3,5 marchi. In molti casi un funzionario pubblico guadagna al giorno 4 marchi, un impiegato appena 3,5 marchi, un operaio [...] a) rappresenta graficamente queste cifre [...]». Verso la fine del 1938 la Cancelleria del Führer ricevette una richiesta da parte della famiglia di un bambino di nome Knauer affetto da gravi malformazioni fisiche e definito «idiota» affinché Hitler desse il suo assenso per un’«uccisione pietosa». Hitler inviò il suo medico personale Brandt per verificare con i medici che avevano in cura il bambino se realmente egli fosse un caso disperato e, in tal caso, autorizzarne l’uccisione che alla fine avvenne. In seguito al «caso Knauer» Hitler autorizzò la creazione del Comitato del Reich per il rilevamento scientifico di malattie ereditarie e congenite gravi») e ne pose a capo Brandt. Hitler, ordinò che i dottori e le ostetriche che lavoravano negli ospedali tedeschi riferissero tutti i casi di bambini nati con gravi malformazioni, ufficialmente per creare un «archivio scientifico», ma con il chiaro intento di operare le necessarie «uccisioni pietose». Nello svolgimento del programma Aktion T4 si utilizzarono numerosi metodi di dissimulazione; molti genitori, soprattutto dell’area cattolica, erano, per ovvi motivi, contrari.

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I genitori venivano informati che i loro figli sarebbero stati portati in «sezioni speciali» di centri pediatrici dove avrebbero potuto ricevere migliori ed innovative cure. I bambini inviati presso questi centri venivano tenuti «in osservazione» per alcune settimane e poi uccisi con iniezioni letali; i certificati di morte riportavano come causa del decesso «polmonite». Quando l’intero Programma T4 venne sospeso nel 1941 a seguito delle numerose proteste, erano stati uccisi un totale di circa 5.000 bambini. Ufficialmente il programma di uccisione di adulti con disabilità mentali e fisiche prese avvio con una lettera che Hitler indirizzò a Bouhler e Brandt nell’ottobre 1939, la lettera, rappresentò l’unica base legale del programma, non fu un «decreto del Führer» che avrebbe avuto a tutti gli effetti il valore di legge. All’inizio dell’ottobre 1939 tutti gli ospedali, case d’infanzia, case di riposo per anziani e sanatori ebbero l’obbligo di riportare su di un apposito modulo tutti i pazienti istituzionalizzati da cinque o più anni, i «pazzi criminali», i «nonariani» e coloro ai quali era stata diagnosticata una qualsiasi malattia riportata in un’apposita lista. Inizialmente i pazienti vennero uccisi, come già accadeva nel programma per i bambini, con iniezioni letali. Il metodo era però lento ed inefficace e con il prosieguo divenne chiaro che sarebbe stato necessario trovare un nuovo metodo. Hitler stesso, basandosi sul consiglio del professor Heyde, propose a Brandt l’utilizzo di monossido di carbonio. L’uccisione mediante monossido di carbonio puro - veniva cioè prodotto industrialmente a differenza di quello che accadde successivamente in alcuni campi di sterminio dove era invece prodotto dai fumi di scarico di grossi motori - in apposite camere a gas venne presto estesa a tutti i sei centri dell’Aktion T4, quasi tutti ex ospedali o case di cura convertite. I pazienti selezionati venivano prelevati dagli istituti di cura da appositi autobus ed in seguito trasferiti presso uno dei centri del Programma T4. Molti dei pazienti, d’altronde, venivano uccisi nel giro di 24 ore dall’arrivo ed i loro corpi immediatamente cremati. Grande cura veniva posta per produrre un certificato di morte per ogni vittima, dove la causa di morte fosse verosimile, da inviare insieme alle ceneri ai parenti. Una volta avviato il T4 fu impossibile mantenere il segreto a causa delle centinaia di medici, infermiere e coordinatori coinvolti; d’altra parte la maggioranza dei pazienti destinati alla morte aveva parenti attivamente interessati circa il loro benessere. Nel corso del 1940 si sparsero le voci di ciò che stava succedendo e molti tedeschi dimisero i loro parenti dagli istituti. . Un giudice distrettuale, Lothar Kreyssig scrisse al ministro della Giustizia Gürtner protestando che il Programma T4 era giuridicamente illegale visto che nessuna legge o decreto formale di Hitler lo autorizzava. Gürtner rispose «se lei non può riconoscere la volontà del Führer come origine di legge allora non può rimanere giudice» e lo licenziò. Nel corso del 1940 e del 1941 alcuni pastori protestanti presero Lamezia e non solo

posizione, seppur non pubblicamente, contro il Programma. In generale, però, la chiesa Protestante, in larga parte coinvolta con il Regime, non era troppo disposta a criticare le scelte dei nazisti. La Chiesa cattolica, che fin dal 1933 aveva cercato di evitare confronti diretti con il Partito nella speranza di preservare le sue istituzioni principali, divenne sempre più ostile mentre aumentavano le prove dell’uccisione di pazienti disabili nelle cliniche. Il cardinale di Monaco di Baviera Michael von Faulhaber scrisse una lettera privata al governo protestando contro l’applicazione del Programma T4. Il 26 giugno 1941 la Chiesa ruppe il silenzio preparando una lettera pastorale ad opera dei vescovi tedeschi che venne letta in tutte le chiese il 6 luglio 1941 e che incoraggiò i cattolici ad aumentare la protesta contro il programma. Il 24 agosto 1941 Hitler ordinò la sospensione del Programma T4 e diede inoltre precisi ordini di evitare ulteriori provocazioni a danno del clero per tutta la durata del conflitto. Il personale impiegato per realizzare il programma, grazie alle «esperienze» accumulate nell’uccisione tramite gas, venne dopo poco utilizzato per attuare la «soluzione finale della questione ebraica»; molti di loro raggiunsero posizioni di comando all’interno dei campi di concentramento e di sterminio. Ma l’Aktion T4 non si fermò mai completamente; nonostante la sospensione ufficiale l’uccisione dei disabili (adulti e bambini) proseguì, seppur in maniera meno sistematica, fino al termine del conflitto. Le uccisioni proseguirono su iniziativa dei singoli medici e delle autorità locali, attraverso iniezioni letali e morte sopraggiunta per fame e sete. Il programma T4 causò 75.000 - 100.000 vittime entro il dicembre 1941. Molte altre persone giudicate incapaci di lavorare e disabili vennero uccise in Germania tra il 1942 ed il 1945. A ogni modo le uccisioni proseguirono, portando quindi il totale delle vittime a una cifra che si stima intorno ai 200.000 individui. L’Aktion T4 fu uno dei genocidi più vili e brutali attuato dai nazisti, il regime come detto in precedenza si giustificò convincendo l’opinione pubblica tedesca che ciò avrebbe consentito un ingente risparmio economico, tagliando dunque quelli che erano considerati dei rami secchi. La crisi economica in atto e con essa la crisi della società attuale sempre più indifferente e diffidente verso il diverso, ci suggeriscono di mettere i piedi per terra e di rimanere vigili, affinché la storia non si ripeta.

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Sport

“Famiglia e Sport, punti cardine per la crescita dell’uomo-arbitro” Nei giorni scorsi, in un noto locale cittadino, gli Associati della Sezione AIA di Lamezia Terme si sono ritrovati, numerosissimi, per partecipare al convegno "Sport e Famiglia, punti cardine per la crescita dell'uomo-arbitro". Per il secondo anno consecutivo, la Sezione ha inteso organizzare questo evento, a ridosso del Santo Natale, proprio per mettere al centro la Famiglia come "Istituzione", cercando, quanto più possibile, di coinvolgere non solo gli associati, concentrati per quasi tutta la stagione sull'attività tecnica, quanto anche i loro familiari che vivono la passione arbitrale dei propri cari in pura simbiosi. Numerosi ed importanti i relatori, presentati, tra gli applausi, dal Presidente di Sezione Gianfranco Pujia: Don Giuseppe Angotti, parroco della Parrocchia di Santa Maria Goretti; Francesco Milardi, Vice Responsabile Settore Tecnico Arbitrale -Area Sud; Francesco Longo, Presidente del Comitato Regionale Arbitri Calabria; Giuseppe Gualtieri, Prefetto della

Provincia di Vibo Valentia, associato della Sezione di Locri; Saverio Mirarchi, Presidente del Comitato Regionale della LND; Stefano Archinà, Componente del Comitato Nazionale AIA. Tema della serata è stato il rapporto tra Sport e Famiglia, definita dal Presidente Pujia, nel suo discorso introduttivo, come "la prima istituzione sociale", sempre pronta a sostenere e confortare ogni suo componente nei momenti avversi, paragonabile, per molti aspetti, alla famiglia dell'AIA. Il primo a prendere la parola è stato Don Pino Angotti che, partendo dal tema della Lamezia e non solo

famiglia, ha allargato il suo discorso fino a toccare argomenti più profondi, come il ruolo giocato dagli arbitri nel processo formativo che lo sport in generale, e il calcio in particolare, offre ai ragazzi. "L'arbitro - ha infatti detto non è solo un giudice ma anche un educatore, che aiuta nella comprensione dell'errore, ed educa a quei valori che i ragazzi respirano in famiglia". La parola è passata a Francesco Milardi, che ha sottolineato come la Sezione "sia una seconda famiglia, all'interno della quale si creano ottime e splendide relazioni. Ma non bisogna dimenticare che l'arbitraggio è solo una fase temporale della vita. Ciò per rimarcare la centralità della famiglia nella vita degli sportivi. E'proprio la famiglia a sostenerci negli inevitabili alti e bassi della nostra carriera arbitrale, che deve essere vissuta con puro divertimento da parte degli associati". Significativo l'intervento dell'ex arbitro, oggi Prefetto di Vibo Valentia, Giuseppe Gualtieri, il quale ha parlato dell'AIA come di "un'agenzia di formazione, perché educa a rispettare il prossimo", spaziando poi su argomenti come gli investimenti di denaro nel calcio, l'uso intelligente dei social network da parte degli arbitri e l'importanza del rapporto di gara in materia di giustizia sportiva. Franco Longo, attuale CRA

Calabria ed ex presidente della sezione di Paola, dopo aver speso parole di elogio per la Sezione di Lamezia Terme, visti pure gl'importanti risultati raggiunti in questi ultimi anni, ha evidenziato come la vita sezionale sia fondamentale per i più giovani, rappresentando uno "spaccato della società". La convivenza di persone di ogni età ed estrazione sociale fornisce un'interazione che costituisce un ottimo percorso formativo per i tesserati AIA. Aiuto fondamentale e reciproco deve essere dato anche dagli arbitri delle categorie superiori, che possono mettere a disposizione la loro esperienza. E' stato poi il turno di Saverio Mirarchi. Il presidente della LND Calabria si è ricollegato al tema del divertimento in campo. "Il nostro è un mondo nel quale si gioca, e noi arbitri dobbiamo far divertire facendo giocare a calcio, anche se a volte si verificano episodi in cui il valore della famiglia latita". Per quanto riguarda la carriera calcistica, Mirarchi ha ribadito la difficoltà odierna nel riuscire a diventare giocatori professionisti, anche

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Sport se non bisogna mai privare i ragazzi di inseguire il proprio sogno. Parlando poi di maturità, Mirarchi ha riaffermato il valore dell'errore, la cui ammissione è segnale di forza e carattere. A chiusura degli interventi, Stefano Archinà ha condiviso in pieno quanto detto da chi lo aveva preceduto, manifestando la propria ammirazione per tutti coloro che s'impegnano nella cooperazione tra le diverse sezioni a livello locale, affermando, infine, come "con il trattato tema della famiglia sia stato dato un senso concreto alla cena di Natale". La riunione si è conclusa con la premiazione degli associati che, nell'anno che si appresta ormai a cedere il testimone, hanno conseguito la promozione nella categoria superiore: Pierfrancesco Ruberto in Prima Categoria, Alessandro Petrosino in Promozione, Luigi Molinaro alla CAI, Pietro Agapito e Martina Molinaro alla CAN D. Per aver raggiunto il prestigioso traguardo dei trent'anni di tessera, un riconoscimento è stato inoltre consegnato all'Osservatore Arbitrale Giovanni Arena. La serata è proseguita con la cena, consumata e conclusa all'insegna del sorriso e della spensieratezza.

LAMEZIA FISIODINAMIC SI DISTINGUE PER LA BRAVURA DEI SUOI ATLETI E PER I SUCCESSI SPORTIVI La Palestra ASD Fisiodinamic, sita in via trento svolge attività di grandi atleti molto noti. La Palestra è guidata dagli insegnanti Luigi Nicotera e Ferraro Lina, ha avuto il merito di allargarsi con l’arrivo dei vari maestri, istruttori e personal trainer. Il maestro Antonio Ciliberto che ha scoperto il grande atleta dell’ucraina Yuri e altri atleti che presto diventeranno molto famosi, tipo Talarico Ettore atleta Fisiodinamic, la personal trainer Torchia

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Francesca che segue per bene gli allievi esperta e personal trainer di 1° Livello e l’istruttore Pino La Scala molto esperto nel settore e infine l’arbitro AIA Barresi Gennaro della palestra Fisiodinamic. Ricordiamo che Yuri e Ettore Talarico sono seguiti dal maestro Antonio Ciliberto e dalla personal trainer Torchia Francesca con la visione dell’arbitro nazionale AIA Barresi Gennaro

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IL VOLTO SPIRITUALE DELLA CALABRIA

CATERINA BARTOLOTTA M I STI CA CALAB R E S E

di Fernando Conidi

LA PRIMA APPARIZIONE E LA MISSIONE Caterina Bartolotta è una mistica cattolica. Nata a Settingiano nel 1963, all’età di quasi dieci anni si ammalò di epilessia. La malattia la costrinse a vari ricoveri, ma senza alcun risultato. Dopo alcuni mesi di grande sofferenza, una mattina, dopo una forte crisi convulsiva, le apparve la Madonna che le predisse la sua prossima guarigione miracolosa. A distanza di circa di venti giorni, con l’apparizione della Santissima Vergine Maria, la malattia da cui era afflitta scomparve definitivamente; la Madonna le aveva concesso la grazia, così come promesso. Le apparizioni continuarono, e la Madonna affidò a Caterina la missione di aiutare gli altri a salvare la propria anima. Man mano che il tempo passava, la piccola veggente, comprendeva che non era solo attraverso la preghiera e le apparizioni della Madonna che avrebbe dovuto aiutare gli altri, ma anche con la sua stessa sofferenza fisica e morale. LE STIMMATE E LA SOFFERENZA Dopo alcuni mesi, Caterina iniziò a vedere anche Gesù, che le apparve sanguinante e sofferente; Egli le chiese aiuto toccandole la mano e subito le comparve una stimmata, che iniziò immediatamente a sanguinare. Da quel giorno, le stimmate, sotto forma di emografie, continueranno periodicamente a manifestarsi, soprattutto durante Settimana Santa. Le sofferenze di Caterina iniziate poco dopo le apparizioni, a causa dell’iniziale incredulità del padre, continueranno a crescere; saranno molte, infatti, le patologie che la affliggeranno, oltre a delusioni e mortificazioni morali. Nel corso degli anni, con le apparizioni, si verificheranno molti episodi prodigiosi, con guarigioni fisiche e spirituali. UNA STORIA CHE CONTINUA Oggi Caterina è moglie, madre di quattro figli, e abita con la sua fapag. 22

Caterina durante l’apparizione della Madonna, a Santa Maria di Catanzaro

miglia a Santa Maria di Catanzaro. La sua missione continua con le apparizioni settimanali della Madonna. Anche le stimmate, da quel lontano 1974, ancora oggi, continuano a manifestarsi. Nel 2008, Caterina, assieme ad alcuni fedeli, ha fondato un gruppo di preghiera denominato “Madonna della Purificazione”, dall’epiteto con cui la Vergine Maria le si è presentata la prima volta.

LA SALVEZZA DELLE ANIME Dopo quarantacinque anni di apparizioni, Caterina continua a sacrificarsi per aiutare gli altri ad avere fede nel Signore, a non abbandonare la strada che porta alla salvezza; in questo viene guidata direttamente dalla Madre Celeste, che non smette mai di raccomandarle di sacrificarsi per la salvezza delle anime e per la Chiesa fondata da Cristo. Il gruppo di preghiera, già da qualche anno, viene guidato da due sacerdoti, don Franco Cittadino e mons. Giuseppe Silvestre, quest’ultimo, in qualità di direttore spirituale, è stato delegato direttamente dall’Arcivescovo di Catanzaro, S. E. Mons. Vincenzo Bertolone, che, su richiesta di Caterina, ha voluto concedere una guida spirituale sapiente e nello stesso tempo umile. L’umiltà, la carità e la sofferenza di Caterina Bartolotta, unite a una grande abnegazione, sono sempre state, assieme ad altre, espressioni della veridicità dei fatti soprannaturali che avvengono dal 12 luglio 1973, giorno in cui le è apparsa la prima volta la Madonna. Caterina, per i suoi sacrifici, non ha mai chiesto nulla in cambio, riprendendo con i fatti ciò che Gesù disse agli Apostoli: “Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date” (Mt 10,8). CONTINUA SUL PROSSIMO NUMERO

Via Carolina Canale Franco, Settingiano (CZ): in primo piano, sulla destra, casa Bartolotta dove sono iniziate le apparizioni della Madonna

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L’angolo di Ines

La Giraffa

C’era una volta una giraffa molto elegante con la sua pelle maculata,il collo lungo e sottile, dei piccoli cornetti sul capo che si chiamano ossiconi,le orecchie piccoline e delle bellissime gambe,no scusate,volevo dire zampe estremamente lunghe. Viveva nel sud dell’ Africa, nella savana. Era una signorina che pesava più di 800kg. Aveva un’ altezza di sei metri e quando girovagava nell’ erba fresca e odorosa della savana tutti i maschi la corteggiavano e lei ne era molto lusingata. Il suo cibo preferito erano le foglie d’acacia, che non faceva nessuna fatica a raccogliere perchè bastava allungare un pò il collo ed ecco fatto, le foglie erano a portata di...bocca. Molto spesso i maschi lottavano fra di lororo, facevano neeching utilizzando come arma di offesa il loro collo così chi era più forte poteva aspirare a diventare lo sposo della bella giraffa. Ma lei purtroppo non si era innamorata di nessuno per questo era sempre molto triste; per la verità desiderava tanto un cucciolo tutto suo, la sera gli avrebbe cantato la ninna nanna e il giorno per nutrirlo avrebbe cercato per lui le foglie d’ acacia più tenere. Ma niente,il piccolo non arrivava mai. Anzi per dire la verità quando era giovanissima aveva avuto una storia d’amore dalla quale era nato un giraffino che pesava già 50 kg ed era alto 2 metri, ma appena nato fu sbranato da un leone. Cari bambini dovete sapere che i giraffini appena nati, dopo appena mezz’ora cominciano a camminare però non sanno niente ancora della vita e dei pericoliche possono incontrare e fu per questo che il giraffino ignaro del pericolo che correva ando’ incontro al leone e quello in un batter d’occhio se lo sbranò. Perciò mi raccomando, quando siete fuori per le strade, non fidatevi di chi non conoscete!.. La povera madre giraffa intanto fu presa dalla disperazione e non uscì più nella savana, nè parlò più con nessuno. Intanto il tempo passava, lei pensava sempre alsuo piccolo perduto, ogni tanto le pareva di vedere spuntare gli ossiconi del suo cucciolo da mezzo all’erba ondeggiante, ma erano soltanto fantasie perchè il suo giraffino non poterva tornare più per davvero. Comunque nella vita non bisogna mai disperare, una mattina infatti ebbe una bella sorpresa: Si trovava sotto un albero d’acacia, i fiori a grappoli bianchi emanavano un dolce Testata Giornalistica Di tutto un po’ - lamezia e non solo anno 27°- n. 50 - gennaio 2019 Iscrizione al Tribunale di Lamezia Terme dal 1993 n. 609/09 Rug. - 4/09 Reg. Stampa Direttore Responsabile: Antonio Perri Edito da: GRAFICHÈditore Perri Lamezia Terme - Via del Progresso, 200 Tel. 0968.21844 - e.mail. perri16@gmail.com Stampa: Michele Domenicano Allestimento: Peppino Serratore Redazione: Giuseppe Perri - Nella Fragale - Antonio Perri Progetto grafico&impaginazione: Grafiché Perri-0968.21844

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profumo che inebriava, l’erba ondeggiava al vento e la savana s’era trasformata in un mare verde. Gli uccelli saltellavano cinguettando da un ramo all’altro uno si posò sul suo collo, si avvicinò al suo orecchio e le sussurrò dolcissime parole. Le diceva : -Stai tranquilla fra poco anche tu avrai un bel figlioletto tutto tuo e sarai di nuovo felice. La giraffa rimase sbalordita e turbata. <Come poteva avere un bambino se non aveva neanche un marito?>. Ma una sera, mentre il sole tingeva di rosso il cielo, ecco spuntare da dietro un albero un bellissimo giraffa maschio. La giraffa rimase incantata, non aveva visto mai un giraffa così bello, era alto quasi sette metri e pesava più di mille kilogrammi. <..Come vorrei diventare la sua sposa!> pensò. Dal canto suo anche il <Giraffo> rimase senza fiato nel vederla e fu così che si innamorarono e in breve tempo si sposarono. Quel giorno fecero una bellissima festa, invitarono tuttigli animali loro amici eccetto i leoni. I giorni passarono felicemente e alla svelta e finalmente dopo quindici mesi nacque un bel figlioletto. (Tanti sono i mesi che mamma giraffa tiene nella sua pancia il figlio che deve nascere ). Dovete sapere bembini che appena i giraffini nascono subito si alzano in piedi e vanno a succhiare il latte materno. Il nostro fu allattato dalla madre per nove mesi così crebbe sano e bello. Figuratevi che in breve raggiunse l’altezza di sei metri e il peso di mille cento novantadue kg. Vi dico la verità tutti lo ammiravano e lo rispettavano tranne la iena, il leone e il leopardo che erano suoi nemici dichiarati.. Lui però, da intelligente, quando li incontrava cambiava strada per evitare litigi, così poteva vivere in tranquillità insieme ai suoi genitori che andavano invecchiando e avevano sempre più bisogno di lui. Infatti non lasciava mai la sua mamma da sola, era sempre disponibile proprio come devono fare tutti i figli perbene con i loro genitori vivendo insieme tutti i giorni della loro vita. LARGA LA STRADA STRETTA LA VIA DITE LA VOSTRA CHE HO DETTO LA MIA.

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La parola alla Psicologa

L’arte di invecchiare Invecchiare può conferire sostanza e valore, esperienza e qualità a quanto si è pensato e vissuto. Anche in età avanzata è possibile imparare, accrescere la curiosità e le conoscenze. Da anziani il pensiero è in grado di raggiungere livelli più elevati di organizzazione e di contenuti. Certamente non tutti gli individui invecchiano allo stesso modo, si procede infatti negli anni in rapporto alle esperienze vissute, a quanto si è appreso, alle condizioni economiche e di salute, al contesto familiare, sociale e istituzionale cui si è inseriti. L’ambiente nel quale l’anziano è inserito può favorire o inibire le potenzialità espressive del pensiero; i pregiudizi connotano persone e situazioni e rischiano di condizionare negativamente le capacità creative dell’anziano che diventa esattamente come il contesto lo vuole. Si può soffrire di vecchiaia, ma si può vivere creativamente l’età senile come ogni altro periodo della vita. Si può invecchiare, aggiungere anni e continuare a crescere, a sviluppare l’esperienza, la creatività, la scoperta, la conoscenza di se stessi e della vita. Il cervello che invecchia non perde le sue capacità, ma cambia solo il modo di funzionare e questo a volte può aprire la strada a soluzioni innovative. Con l’avanzare dell’età la quantità di informazioni accumulate diventa sempre maggiore e un cervello che invecchia deve imparare a gestire molti dati come non gli capitava da giovane. A questo si aggiunge che un cervello più anziano ha maggiori difficoltà a concentrarsi su dati singoli, come un nome o un numero di telefono. Ne deriva che per mantenere un sufficiente grado di efficienza il cervello si adatta alle nuovi condizioni rivolgendosi alla visione di insieme e dedicandosi prevalentemente a confrontare le informazioni nuove con l’enorme mole di dati già a disposizione, frutto delle conoscenze precedenti. Le varie dimenticanze e sbadataggini dell’anziano sono dovute a disfunzioni dell’ippocampo e della corteccia pre-frontale, entro certi limiti ancora fisiologiche nell’invecchiamento, ma che non solo non comproLamezia e non solo

mettono altre capacità cerebrali, ma addirittura consentirebbero agli anziani di essere più creativi dei giovani. L’essere creativi, curiosi, imparare e scoprire non si esauriscono con l’età, ma si qualificano e si definiscono attraverso ogni età; non vi è un termine anticipato alla conoscenza, alla realizzazione completa di sé e della propria vita. Da qualche anno la ricerca psicogerontologica ha superato la visione riduttiva dell’anziano e ha operato una revisione delle concezioni sull’invecchiamento psichico. In particolare, è stato scoperto che le funzioni psichiche, in assenza di patologie invalidanti come ad esempio le demenze, continuano a svolgere la loro funzione fino ad età molto avanzate. Per molti anni si è pensato che la creatività fosse una prerogativa dell’infanzia, una modalità di pensiero relativa ai primi anni di vita, destinata a venir soppiantata, una volta divenuti adulti, dalla razionalità, a parte in casi eccezionali in cui è presente una vera e propria “vena artistica”. Numerose ricerche hanno dimostrato come nell’anziano siano presenti alcuni indicatori che rendono possibile il pensiero creativo: in particolare Williams fa riferimento alla fluidità, alla flessibilità, all’originalità e all’elaborazione. L’anziano ha infatti ancora la possibilità di produrre idee nuove e originali, di passare da una categoria di idee ad un’altra, di elaborare le informazioni con ricchezza di particolari e dettagli. Le nuove scoperte, dunque, restituiscono all’anziano il potere creativo, ma non solo, sottolineano anche come l’età senile sia il momento migliore per riappropriarsi o creare tout court spazi da dedicare alla creatività che durante l’età adulta sono stati occupati dal lavoro e dall’accudimento dei figli e dei propri genitori anziani. La creatività quando può esercitarsi consente spesso di invecchiare con maggiore serenità.

Dr.ssa Valeria Saladino

Psicologa Referente per la Provincia di Catanzaro della Società Italiana di Promozione della Salute (S.I.P.S.)

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