lameziaenondolo febbraio2019 giovanni martello

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Lamezia e non solo

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Lameziaenonsolo incontra

-Nella Fragale-

Giovanni Martello

Incontrare i dirigenti scolastici è una cosa che abbiamo sempre fatto perchè la scuola ci sta a cuore poichè “è” la fucina del futuro della società, come non interessarcene? Questo mese incontriamo Giovanni Martello, dirigente del Liceo T. Campanella, un Istituto che è un fiore all’occhiello per la nostra cittadina. Ovviamente abbiamo parlato di istruzione e dei problemi ad essa legati. Il risultato è una chiacchierata piacevole, ricca di spunti, costruttiva ed istruttiva per saperne un poco di più del mondo della scuola.

Buongiorno preside e grazie per avere accettato di dedicarci un po’ del suo tempo facendosi intervistare! Cominciamo subito con le domande. Perché ha scelto di diventare insegnante? Una premessa: mi fa piacere che lei parli d’insegnante e non di docente. Perché insegnante è colui che mette il segno, in-signum, nella formazione di ogni allievo. Credo di aver scelto l’insegnamento per missione. Sono sempre stato convinto dell’importanza fondamentale della scuola specialmente per migliorare le classi più umili e il destino delle persone. Fin da giovane, anzi da adolescente, mi sono convinto che il compito della scuola fosse proprio quello di emancipare le persone, ovvero di renderle libere, di dar loro la possibilità di salire nella scala sociale per far bene a se stesse e agli altri. Dopo la fine della scuola media ho incontrato il pensiero di don Lorenzo Milani, o meglio la sua opera Lettera a una professoressa. Questo grazie al mio mentore, don Pasquale Luzzo, sacerdote e persona eccezionale, dal grosso spessore umano, culturale e religioso, che si è preso cura di me e di tanti giovani e adolescenti della mia stessa età. Don Lorenzo Milani era solito ripetere che non si possono fare parti uguali fra diseguali; per dire che per una questione di equità, di giustizia sociale, bisogna dare di più a chi ha più bisogno. E quindi non si possono ripartire allo stesso modo i beni per sopperire a quel bisogno. Lettera a una professoressa è a livello sociale e pedagogico il manifesto di una nuova rilettura dei principi di uguaglianza e di equità. Lo si è inteso in tanti modi a seconda della propria formazione culturale, umana e religiosa, ma alla fine significa che dobbiamo dare a tutte le persone le migliori occasioni per riuscire nella vita, al di là della classe sociale d’appartenenza. Da questo punto di vista la scuola ci consegna un messaggio rivoluzionario, specie in questo periodo

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di individualismo esagerato che ha rimosso il principio di solidarietà per arroccarsi nella difesa delle proprie prerogative e interessi. Cosa insegnava? Ho iniziato a insegnare giovanissimo. Sono stato uno studente lavoratore. Rimanevo all’università fin quando mia madre non mi comunicava l’offerta di qualche supplenza in una delle scuole del nostro circondario. A quel punto scendevo da Salerno e diventavo docente. La maggior parte del mio insegnamento l’ho svolto nei licei, classici e scientifici e, prima della Dirigenza, ho insegnato per 20 anni

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al liceo scientifico di Lamezia Terme al quale sono rimasto sempre legato. Anche perché, assieme agli alunni e ad altri colleghi illuminati e combattenti ho portato avanti diverse battaglie per migliorarne la didattica e per ottenere spazi più adatti ai suoi utenti. L’ampliamento dell’ala nuova di quella scuola è il frutto di lotte affrontate con determinazione assieme alle famiglie. Come dicevamo è stato insegnante ed ora è dirigente scolastico, come cambia il rapporto con gli alunni cambiando il titolo? Credo che il rapporto con le persone dipenda

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da come e da cosa si è, e non dalla funzione ricoperta. Da ciò scaturisce l’interazione con le altre persone, siano esse amici o studenti. Credo di essere stato sempre autorevole e mai autoritario e forse per questo sono rimasto nel cuore e nella mente di molti miei studenti. Ancora oggi, mi telefonano, vengono a trovarmi, mi scrivono, si confrontano con me. Ho formato ottimi ragazzi che non sono stati mai i miei amici, ma i miei studenti. Nel senso che c’era molta vicinanza fra me e loro, ma c’era anche la giusta distanza per capire che io ero una persona che si prendeva cura della loro vita e del loro futuro per aiutarli a vivere meglio. Non dobbiamo dimenticare che ci sono tanti momenti in cui lo studente si smarrisce, perde l’autostima, va in crisi. È in quel momento che il docente assieme alla famiglia e al gruppo dei pari deve dimostrare di valere, per evitare di perderlo. Ogni qual volta la scuola perde un suo studente, l’abbandono si trasforma in una cocente sconfitta per tutta la società, anche perché nessuno di noi conosce le potenzialità dell’altro. Rischiamo di privare la società di una possibile grande risorsa capace di migliorarla; chissà, proprio a quel ragazzo, che noi abbiamo respinto, togliamo la possibilità di una piena realizzazione, ovvero della sua felicità. La dirigenza scolastica nella mia vita è arrivata quasi per caso. A un certo punto mi sono accorto che non potevo incidere molto sulla formazione degli studenti oltre che con la didattica e la pedagogia. Come si sa, la politica di un istituto è in mano al dirigente e allora ho capito che se volevo contare di più per un maggior numero di ragazzi, avrei dovuto avere in mano quella leva politica. Invogliato da qualche mio collega, che poi non è nemmeno diventato dirigente, ho intrapreso questo nuovo progetto di vita. Ho concorso per la scuola superiore e in Calabria sono arrivato ottavo su 21 vincitori. Essere dirigente scolastico ha i suoi lati positivi ma anche quelli negativi, quali sono gli uni e quali gli altri secondo lei? Oggi le scuole sono state trasformate in veri e propri ministeri che però non hanno la stessa attrezzatura professionale e gli stessi fondi. Devono agire ed interagire a 360° con una pluralità di persone, gli stakeholders, i portatori d’interesse. Credo di aver già descritto il lato positivo della funzione dirigenziale che vede nella leadership condivisa con i propri collaboratori più stretti uno dei suoi punti di forza. I lati negativi sono tanti. Oggi si arriva a scuola con una lista di azioni da compiere e quella lista non si riesce mai a terminarla perché sopragpag. 4

giungono nuovi bisogni ai quali far fronte e ai quali bisogna dare risposte immediate e precise. Purtroppo la norma ha caricato sulle spalle dei dirigenti scolastici impegni e responsabilità che nessun altro dirigente della pubblica amministrazione possiede, per fare un solo esempio mi soffermo sulle responsabilità riguardanti la sicurezza. Siamo un po’ come i sindaci che si assumono tutte le responsabilità sulla protezione e l’incolumità dei propri cittadini. Un modo strano per risolvere problemi complessi e strutturali, un subdolo modo per scaricare su alcune persone numerosi oneri, pur sapendo che nessuno mai riuscirà a farvi fronte in modo esaustivo. Nessuna scuola possiede somme adeguate a garantire l’assoluta sicurezza. Parliamo un po’ di tutte queste innovazioni che riguardano la scuola, iniziamo con il RAV, Rapporto di Autovalutazione di Istituto, di cosa si tratta? Nel suo istituto è attiva questa sorta di monitoraggio? Crede sia utile? Da qualche anno la norma ha messo a regime quello che in passato era un’esigenza sentita dalle scuole più avanzate: uscire dall’autoreferenzialità, da quel parlare addosso a se stesse a cui molte scuole si auto relegavano. Ci sono stati molti progetti ai quali noi come scuola abbiamo partecipato volontariamente negli ultimi dieci anni, prima che diventasse norma da rispettare. Abbiamo fatto parte di quel piccolo campione che ha cercato di sperimentare l’autovalutazione d’istituto e che cercava di confrontarsi con i bisogni del territorio, delle famiglie, degli studenti e di tutti i portatori d’interesse. Il Rav è obbligatorio e credo sia utile solo se non diventerà una norma ingessata, burocratica, ma uno strumento che aiuti le scuole a fare meno danni, a identificarne le criticità e a proporre soluzioni a breve e medio termine. Sempre per quanto riguarda la scuola e le innovazioni si parla anche di Governance unitaria e risorse mirate per evitare la dispersione scolastica, e cioè che gli studi vengano abbandonati in “corso d’opera”, ma sono state proposte valide soluzioni? se sì quali? e non possiamo non parlare della “Alternanza scuola-lavoro” che tante discussioni pro e contro, ha suscitato. A me sembra un’ottima idea ma molti non sono d’accordo, e lei? L’Alternanza risponde a un bisogno della società europea e cerca di dare allo studente una mentalità operativa, quella che si può acquistare solo lavorando o simulando il lavoro. SicuGrafichÉditore di A. Perri - & 0968.21844

ramente, non è stato facile riuscire a realizzare tali attività, in quanto il sud è povero di opportunità lavorative e di imprese. Per le scuole del Meridione, dunque, è stato più complesso realizzarle. Ma alla fine ci siamo riusciti e bene. Mentre per gli istituti professionali e tecnici l’alternanza sostituisce la cosiddetta terza area professionalizzante, nei licei è una novità. Il governo in carica, rispetto a quanto contemplato dalla legge 107/2015, ne ha ridimensionato il monte orario. Dicevo, siamo riusciti a realizzare ottimi percorsi di alternanza grazie al fatto, che come scuola siamo sempre stati antesignani, mi si perdoni l’immodestia, noi siamo da sempre il liceo che viene imitato da tutti, lo vediamo da quello che pubblicano i vari siti scolastici del circondario, dove spacciano per novità attività che noi abbiamo già svolto, digerito e ruminato da anni. Questo per significare che noi leggiamo i bisogni del territorio e spesso riusciamo a essere in anticipo anche sulla normativa. A proposito voglio ricordare, che alcuni anni fa anticipando la normativa, abbiamo svolto un progetto di alternanza a Madrid, grazie alla sinergia tra la camera di Commercio di Madrid e quella Catanzaro, un progetto culturale e didattico con ricadute umane e di apprendimento significative. L’Alternanza Scuola-Lavoro, può e deve essere un’opportunità di crescita per gli studenti e non una parentesi improduttiva. Noi siamo stati, come le dicevo, pionieri con il progetto Keramos, già una decina di anni fa, molto prima che l’alternanza scuola-lavoro divenisse obbligatoria con la legge 107, puntando sulla sinergia tra competenze manuali legate ai lavori tradizionali e la conoscenza della storia e della cultura del territorio, creando occasioni di autoimprenditorialità e lavoro per i nostri ragazzi. Inoltre, il 15 novembre 2017, in occasione della Giornata Nazionale Alternanza scuola-lavoro nei licei: Impresa possibile, il nostro liceo è stato premiato a Roma, presso la Sala della Comunicazione del Ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca, dal sottosegretario Gabriele Toccafondi, per il progetto Archè, musei, siti e botteghe, ritenuto una delle migliori buone prassi di alternanza scuola-lavoro delle scuole secondarie italiane, in quanto è riuscita a identificare per ogni indirizzo la giusta pratica di alternanza. Far innamorare gli studenti del territorio, essere scintilla che perpetua il genius locis, riappropriarsi di un’identità che spesso si smarrisce nell’esterofilia e nella fuga, è il motivo conduttore dell’attività di Alternanza del nostro Istituto, calibrate e specifiche per ogni indirizzo di studio, tra tradizione e innovazione. Lamezia e non solo


Gli studenti del Liceo Linguistico sono diventati docenti formatori degli alunni delle scuole medie, guidandoli nel conseguimento delle certificazioni in lingua inglese, francese e tedesca; quelli del Liceo delle Scienze Umane sono stati coinvolti in percorsi di alternanza afferenti il turismo culturale: operatori e guide nei musei cittadini ed attività laboratoriali presso le storiche botteghe artigiane di arte figulina del territorio con la costituzione di un’impresa di artigianato tradizionale e storico nel contesto del reale mondo lavorativo. Il Liceo Economico ha svolto apprendistato negli studi legali; il Liceo Musicale, invece, negli studi di registrazione e nella costituzione di un’orchestra in continuità con le scuole medie a indirizzo musicale. Si parla anche di didattica innovativa nelle scuole, anche su questa il suo parere? In pratica come è cambiato, nel tempo il modo di insegnare? Il prof di una volta, quello che spiegava e poi interrogava va ancora bene come modello pensando ai giovani di oggi che hanno approcci diversi con quanto li circonda? Anche se apparentemente tutto rimane fermo, in realtà si sono registrati notevoli cambiamenti sia nell’approccio didattico che nell’apprendimento degli studenti. Non dobbiamo dimenticare che abbiamo a che fare con ragazzi nativi digitali, che parlano una lingua diversa dalla nostra, ragionano in modo diverso da noi adulti, cosiddetti immigrati digitali. Da questo punto di vista, noi abbiamo forse molto più da imparare dai nostri figli e dai nostri studenti. Sicuramente la scuola attuale non ha più bisogno della lezione frontale dove il docente spiega e l’alunno ripete, dove tutto si conclude in questo piccolo circolo che spesso anziché virtuoso diventa vizioso. La scuola, da luogo in cui si acquistavano conoscenze, è diventata luogo in cui si acquistano abilità e competenze. Detta in altri termini, il saper fare e il saper essere, ovvero, avere abilità e competenze è più importante che avere conoscenze. Nessuno sa quali sono le conoscenze che ci serviranno nel futuro, tutto cambia in continuazione allora diventa più importante acquisire abilità e competenze. Tali finalità non si raggiungono con la lezione frontale, ma con un approccio centrato sugli interessi dello studente. Mai come oggi al centro di tutto dobbiamo mettere lo studente, è il vecchio paidocentrismo di cui la pedagogia e la didattica più illuminata si sono sempre fatte portavoci e mai come oggi deve essere attuato. Mentre le conoscenze possono essere infinite e molte, dopo pochi anni diventano inservibili,

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poco spendibili nella vita e nel mercato del lavoro, le competenze sono poche. Le competenze chiave di cittadinanza sono solo otto, per fare un esempio, anche se l’Agenda Europa 2020 e 2030 le ha ritoccate un po’. Oggi la società ha bisogno di persone che sappiano porre quesiti e risolverli, che sappiano ragionare, dotate di creatività e spirito d’intraprendenza, di persone che conoscano le lingue straniere per muoversi agevolmente nel mondo, che abbiano competenze informatiche, visto che ormai l’uso del digitale è diventato il nostro destino e lo sarà ancora di più nel futuro. Le competenze non scaturiscono dalla lezione frontale che può solo spiegare e non aiutare a ragionare, può illustrare un problema, ma non dare le competenze per risolverlo. Insomma, si passa da una scuola passiva fondata sulle conoscenze a una scuola attiva fondata sulle competenze: si impara facendo, learning by doing. Solo per fare un solo esempio, oggi si parla di flipped classroom, la cosiddetta classe rovesciata, in cui il ragazzo è spinto a svolgere le sue ricerche a casa e successivamente a confrontarsi con i suoi pari e con l’insegnante. La parte attiva avviene su input del docente, cui segue quella del confronto sul processo e sulla ricerca e infine la redazione del documento. Quest’attività è fondamentale perché non dobbiamo dimenticare che viviamo nell’epoca delle fake news, le mine vaganti del nostro sapere da monitore costantemente. Sembrerà strano, ma troppa informazione porta alla disinformazione. Per questo c’è bisogno di studenti che riescano a controllare ciò che viene propinato come vero. La scuola diventa ancora più importante perché deve educare uno studente a muoversi in una realtà molto liquida, nella quale non si riescono a fissare solidi punti di riferimento ma solo punti che bisogna creare e fissare all’istante. Questo per significare che spesso siamo soli e in questo cammino dobbiamo fidarci delle nostre gambe e fuor di metafora della nostra testa, come dire bisogna andare con le proprie gambe senza dimenticare che oggi viviamo in una società complessa e mai conoscibile nei suoi particolari. Sicuramente la scuola deve tentare di dare le giuste chiavi ermeneutiche, poche istruzioni per permettere a tutti di volare con le proprie forze e con le proprie capacità. Non dimentichiamo che molta formazione il ragazzo la ottiene da agenzie educative informali e non formali diverse dalla scuola. In tutto ciò la scuola deve inserirsi cercando di dare ai ragazzi un orizzonte di senso. I problemi dei giovani di oggi sono moltepli-

ci, non ultimo la droga, pensa che il suo Istituto sia al sicuro da questo pericolo? Credo non ci sia nessun istituto esente da tale pericolo. Il pericolo non proviene dalla scuola, ma dalla società che conosce bene questa piaga sociale, la debolezza dei ragazzi, che spesso abbandonati alle loro solitudini dai genitori sono costretti a seguire il gruppo dei pari anziché figure autentiche e autorevoli di riferimento. Già nelle scuole medie, molti ragazzi imparano a fumare le prime sigarette e, da queste, passare a qualcos’altro è facile. Tutto ciò significa che ben vengano i controlli, ma assieme a questi è più importante un’educazione, una formazione preventiva da attuare già nelle scuole medie. Alcuni vizi sono difficili da estirpare nelle scuole superiori e l’intervento tardivo diventa inefficace. Poi non dobbiamo dimenticare che viviamo in una zona ad alta densità mafiosa sotto il potere pervasivo di una criminalità che gestisce il mercato delle droghe. Credo molto nella prevenzione e nella cooperazione con le famiglie, con le Asl, le forze dell’ordine e con tutti i soggetti che possano prevenirne gli effetti devastanti. La mia scuola è una piccola città e credo che a nessun paese si debba negare un medico e uno psicologo a tempo pieno. La scuola non può fare tutto da sola, non ne ha i mezzi, ma deve lavorare in sinergia con altre istituzioni deputate, in primis le forze dell’ordine, le Asl con le loro équipe di medici e psicologi. E del telefonino, del quale si fa un enorme abuso, cosa ne pensa? Non crede che limiti i rapporti umani? Il telefonino in sé non è, né positivo, né negativo, dipende sempre dall’uso che se ne fa. Tendiamo a dimenticare che se i nostri figli hanno il telefonino siamo stati noi ad averglielo messo in mano, perché volevamo averli sempre sotto controllo. Con il passare degli anni tutto ci è sfuggito di mano e quindi adesso si grida al lupo… al lupo. Il problema è sempre lo stesso: la tecnologia è neutra, ma bisogna vedere che uso si fa di questa nostra protesi digitale. Senza contare che essendo nativi digitali, i nostri figli sono molto più esperti di noi nell’uso dei telefonini e dei socialnetwork. Non dimentichiamo che allorquando abbiamo un problema sul telefono o quando non riusciamo realizzare una certa operazione, ricorriamo alla loro competenza in un rovesciamento di ruoli. Se la tecnologia, come ogni altra, cosa fosse usata come un sussidio o ausilio didattico diventerebbe utilissima. Faccio un esempio: ho la fortuna di avere, nell’istituto che dirigo, di-

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versi professori i quali, nell’entrare in classe non dicono di spegnere il telefonino, ma di accenderlo e grazie ad esso, iniziano una lezione interattiva, senza contare che il professore può controllare tutta la classe in tempo reale. A quel punto il ragazzo può svolgere il compito con e sul telefonino. In ogni caso, se c’è un abuso, un’esposizione molto alta si incorre in problemi psicologici e di dipendenza e il telefonino si aggiunge alle altre droghe. Di per sé non è uno strumento infernale, ma bisogna cercare di valorizzarne gli aspetti formativi ed educativi. E’ chiaro che un uso eccessivo limita e penalizza i rapporti umani diretti a favore di quelli virtuali e indiretti. Oggi si parla di mode globali, di globalizzazione e di omogeneità culturale. Un ragazzo è molto più vicino al suo coetaneo di New York o di Melbourne che vive a 10.000 o 20.000 km di distanza che ai suoi genitori che stanno nel salotto accanto. Ha un modo di vestire, di pensare molto più vicino ai suoi coetanei planetari prendendo sempre più le distanze dagli adulti. Credo sia azzardato dare un giudizio definitivo sulla tecnologia. La scuola usa la tecnologia in genere come amo, come esca per attirare il ragazzo. L’uso di questi personal media cambia il nostro modo di essere e di ragionare, di acquistare prodotti e di fare la spesa, certo manca la riflessione proprio perché bisogna dare delle risposte così veloci, così istantanee nelle quali non ci può essere. La riflessione, lo spirito critico, la creatività, il ragionamento quello bisogna apprenderlo a scuola, non si può pretenderli dai telefonini e non possiamo delegarli alla tecnologia. Una volta il suo Istituto era il Magistrale Campanella, oggi è il Liceo Campanella, ma cambiando il nome cosa è cambiato nel “modus operandi” dell’istituto? Guardi spesso per sminuire il liceo Campanella lo si definisce il magistrale. In molti fino a qualche anno fa non hanno accettato il termine liceo per questa scuola. Non lo si accettava perché dopo alcuni anni questo liceo è diventato il punto di riferimento culturale e formativo di tutto il territorio lametino, grazie alla sua ricca offerta formativa oscurando scuole più blasonate, ma ormai in decadenza e in crisi d’identità. Forse lei non ci crederà ma da noi arrivano ragazzi di Catanzaro, Catanzaro Lido e Soverato. Abbiamo studenti che frequentano il liceo musicale e coreutico che affrontano questo viaggio quotidianamente pur di poter fruire della nostra offerta formativa. Abbiamo, in un certo senso invertito il trend che vedeva ragazzi lametini spostarsi verso Catanzaro e questo deve inorgoglire tutti. Per tornare alla questione magistrale, devo dire che in realtà quello che per gli altri era una diminuzione, cioè un tentare di sminuire il valore di questa scuola, per noi è diventato un vantaggio, quindi un valore aggiunto. Mi spiego meglio: noi ereditiamo dal vecchio istituto magistrale il suo approccio didattico fondato sulla psicologia, sulla pedagogia, sulle scienze umane; dunque abbiamo un background di didattica generale che le altre scuole non possiedono. Non si può tacere che buona parte dei docenti italiani non è formata a livello metodologico e relazionale, al contrario questo retaggio metopag. 6

dologico ci ha favoriti e colloca il nostro liceo in questa importante tradizione pedagogica, che per alcuni versi continua la tradizione del vecchio magistrale, ma l’arricchisce di nuovi saperi, portando acqua nuova e tenendolo al passo con i tempi, cercando di dare risposte significative e coerenti al nostro territorio e non solo. Se una scuola è avanti alle altre non può non essere la scuola del successo formativo, dove la dispersione scolastica ha valori bassissimi, ritorna don Lorenzo Milani, in quanto cerca di dare a tutti la possibilità di poter arrivare al diploma. Certo non è che il diploma lo si regala a nessuno, tutti devono conquistarlo, ma cambia solo l’approccio metodologico. Lo ripeto sempre: questa scuola è una grande scuola perché ha dei docenti veramente eccezionali, che si spendono giorno dopo giorno, mese dopo mese nel corso degli anni e che quindi intrattengono relazioni positive con alunni e con le loro famiglie. Per noi questo è già orientamento, al di là dei proclami ai quali spesso non segue nessun’azione incisiva, se non quella di predicare bene e di razzolare male. Spesso noi siamo chiamati come scuola a rimediare ai danni prodotti da altri. Nel corso dell’anno da noi arrivano diverse ragazze che non voglio più andare a scuola. A quel punto capiamo di essere per molti l’ultima spiaggia scolastica. Se vedo arrivare un genitore distrutto dall’insuccesso scolastico del figlio e quest’ultimo ha un grado di autostima prossima allo zero, che faccio? Lo accolgo e cerco di collocarlo in una classe che faccia risollevare quell’autostima e recuperare allo studio e alla società quel ragazzo. Voglio sottolineare che oltre a essere scuola del successo formativo, il Liceo Campanella è anche scuola dell’eccellenza. Voglio evidenziare che molti nostri studenti si laureano in medicina o in materie scientifiche senza problemi, perché pur essendo un liceo umanistico curiamo anche gli aspetti scientifici e matematici della preparazione liceale. Non c’è bisogno d’inventarci alcuna curvatura scientifica, giuridica, linguistica, ecc. I nostri indirizzi sono così completi e sono così al passo con i tempi, anzi spesso avanti, che non abbiamo bisogno di inventare nulla, anzi sono gli altri che si sforzano di imitarci. Per fare un esempio noi siamo l’unica scuola che possiede l’indirizzo Esabac, ovvero dà il doppio diploma, quello italiano e quello francese. Possiamo farlo perché abbiamo un liceo linguistico e abbiamo docenti titolari formati nel corso degli anni dagli specialisti dell’Alliance Francaise. Questi corsi non s’improvvisano, ma hanno bisogno di un lungo rodaggio e chi dice il contrario, afferma il falso. Questo per dire che non giochiamo

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sulla pelle degli studenti e non li illudiamo con promesse che poi non manteniamo. È nella nostra tradizione culturale e pedagogica cercare già dalle classi terze di capire cosa vogliono fare i ragazzi, quali studi universitari intraprendere e da lì attivare corsi per prepararli al meglio e colmare lacune di tipo scientifico, logico-matematico, linguistico ecc. Al di là dei proclami con i quali tutti possiamo riempirci la bocca, non dobbiamo dimenticare il duro lavoro degli insegnanti che sta dietro a tutto ciò. E certi traguardi li si raggiunge a patto che l’apprendimento sia un vestitino ritagliato su misura sulle capacità e sulle attitudini di ogni studente. Il suo istituto ha un sito web aggiornato dove si possono trovare sia informazioni utili che le attività che quotidianamente si svolgono, ha una pagina su FB, si può dire che è “al passo con i tempi”? Sì certo, da sempre. Il mio incontro con l’informatica è iniziato fin dal 1988, da quel momento mio malgrado sono diventato come buona parte dei miei coetanei un immigrato digitale. Per tornare alla domanda e alla risposta, quello che lei evidenzia è solo la punta di un iceberg informatico e organizzativo che appare, il resto rimane sommerso all’interno per far funzionare al meglio l’organizzazione. Oltre ai registri elettronici, albi pretori ecc. di cui ogni scuola per legge si è dovuta dotare, grazie al nostro animatore digitale, abbiamo creato una piattaforma digitale, free licence che ci aiuta tantissimo e aiuta anche la segretaria in quanto offre a tutti gli utenti interni servizi completamente gratuiti e continuamente aggiornati. Garantisce un sistema ad accesso limitato e protetto: non è consentita la libera registrazione. Docenti, studenti e personale della scuola devono essere registrati dagli amministratori del sistema e possono interagire e io a mio volta riesco a controllare e organizzare tutto al meglio. Questa modalità di partecipazione assicura un buon livello di controllo degli accessi e delle operazioni svolte dagli utenti sul cloud nonché un ottimo controllo della privacy. Tale identificazione assieme alla firma di avvenuta ricezione dell’account istituzionale serve a creare una relazione/connessione tra il documento e l’autore dello stesso che lo invia dalla casella di posta istituzionale agli atti della scuola. L’account istituzionale del dipendente è utilizzato come firma elettronica semplice per fornire validità giuridica al documento informatico. Grazie all’utilizzo di questa piattaforma possiamo ottimizzare la circolazione delle comunicazioni interne (es. circolari, avvisi,

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l’importanza delle competenze emotive. Potesse realizzare un suo desiderio per il suo istituto quale sarebbe? Che sia messo in sicurezza e ampliato nel minor tempo possibile per il benessere dei miei studenti e del personale tutto. Sottolineo che per una questione di capienza, noi dobbiamo rifiutare diversi studenti che vorrebbero iscriversi al Liceo Campanella, mi duole che questo rifiuto privi quei ragazzi di un’occasione unica di vita e di studio. ecc.), evitando l’aumento della confusione e la dispersione o perdita delle informazioni comunicando con tutti, tanto da poter condividere i documenti con gruppi selezionati di utenti (ad es. materiali didattici, modulistica per consigli di classe, programmazioni, condivisione di documenti, di progetti, di risorse, relazioni ecc.). Inoltre questa piattaforma ci aiuta a gestire gli impegni (ad es. attività didattiche, impegni extracurriculari, scadenze, ecc. attraverso l’uso di calendari condivisi) e ad innovare la didattica (tramite uso di applicazioni specifiche per la creazione di classi virtuali). Grazie alla piattaforma abbiamo costruito una comunità che può collaborare online con colleghi e studenti (attraverso email, chat, videoconferenze, documenti condivisi, ecc.). Inoltre, fatto non meno importante offre uno spazio di archiviazione online (sicuro) praticamente illimitato per la dematerializzazione di documenti. Forse uno degli aspetti più importanti di tale piattaforma è proprio la dematerializzazione grazie all’uso di strumenti pe la realizzazione di moduli online (monitoraggi, partecipazione a sondaggi, adesione ad assemblee sindacali ecc.) per finire a una serie di strumenti di pubblicazione sul web (come la pubblicazione in tempo reale del foglio per la sostituzione dei docenti assenti). Se, utilizzando i motori di ricerca, come oramai si fa quasi per tutto, si digita “liceo campanella lamezia terme” si aprono decine di pagine: “Open Day”, Corsi di arabo, cinese, primo istituto per numero di iscritti, tra i migliori in Calabria come Liceo Linguistico, se volessi citare tutte le attività ed i riconoscimenti del suo Istituto non basterebbe l’intero giornale, quale è la chiave del successo del Liceo che dirige? Lo dicevo prima, il successo di quest’istituto sta nella bravura, nella preparazione metodologica e relazionale dei docenti. È questa la carta vincente ed è in questo che siamo un modello da imitare per le altre scuole. Non basta aver studiato per essere un buon insegnante, non basta conoscere il greco, il latino, la matematica e le lingue per essere un buon insegnante, ma possedere, in primis ottime capacità metodologiche, riuscendo a capire la strada per attirare lo studente allo studio. Oggi la competenza più importante sia dei docenti che dei dirigenti, ma anche di chiunque svolga un lavoro, è quella relazionale. Stiamo lavorando da alcuni anni, con un gruppo di docenti, allo sviluppo delle competenze relazionali, con una formazione specifica sull’intelligenza emotiva, una branca molto recente che, finalmente, tiene in debito conto Lamezia e non solo

Il suo sogno di felicità? Il sogno di tutti i grandi: che l’umanità possa raggiungere un mondo di pace e di benessere che dia a tutti la possibilità della felicità, perché purtroppo ognuno di noi ha una sola opportunità di vita e non molteplici. Autori preferiti? Tantissimi, dai tragici greci ai grandi autori di ogni tempo. Fra gli autori contemporanei: Grass, Marquez, Saramago.

Secondo lei quali modifiche lo Stato dovrebbe attuare per migliorare il sistema scolastico? Quest’anno la legge sull’autonomia scolastica, l’unica legge rivoluzionaria della scuola italiana, compie venti anni, bisognerebbe solo cercare di attuarla veramente. Di colpo se ne gioverebbe tutto il sistema scolastico. Il problema è che è stata sempre un’autonomia monca, ingessata, mai la scuola è stata veramente autonoma e dunque maggiorenne, anche se l’autonomia scolastica ha valenza e rango costituzionali. Purtroppo questa autonomia ha sempre dovuto scontrarsi con il centralismo burocratico e con il neo centralismo delle periferie che di fatto l’hanno sempre bloccata. Il DPR 275 del 1999, quello sull’autonomia, ha avuto lo stesso destino della nostra Costituzione, troppo bella per essere veramente attuata e la sua bellezza ha fatto paura. In questi venti anni, abbiamo solo potuto ammirarne la bellezza, ma non usarne la forza rivoluzionaria.

So che ama leggere, ma quando apre un nuovo libro ha delle aspettative? Che venga rispettato l’implicito patto che lo scrittore ha stipulato con il lettore, che ha speso dei soldi per comprarlo.

Se potesse cambiare lavoro quale sceglierebbe? Ritornerei a fare l’insegnante, potrei dedicarmi di più a leggere e a scrivere. Anche se spesso riunisco molti studenti e faccio loro delle lezioni, il lavoro che svolgo mi assorbe e mi permette di ripetere tali occasioni con molta difficoltà. Sono entrato a scuola all’età di sei anni e come vede ancora non ne sono uscito, sono stato catturato e tenuto in ostaggio dalla scuola, prima come studente, poi come docente, infine come dirigente.

A prima vista, quando ancora non lo si conosce, sembra un signore che sta un po’ sulle sue, forse retaggio legato alla sua professione di insegnante che fa immaginare gli insegnanti così, un po’ distanti; conoscendolo si scopre che, in realtà, è molto cortese e simpatico e che è un uomo di grande cultura. Ovviamente non è stato solo lo spazio dedicato all’intervista che mi ha fatto scoprire le doti di Giovanni Martello. Ho avuto più volte modo di parlare con lui e di ascoltarlo alla presentazione di diversi libri, non tutti sullo stesso tema, sui quali era stato invitato a dissertare e ciò che mi ha sempre colpito è stata la profonda conoscenza dell’argomento di cui parlava, mai lo stesso, che affrontava nei minimi dettagli, finemente, sottilmente, incredibilmente senza dilungarsi troppo, come si è soliti fare quando si conosce quello di cui si parla, riuscendo così ad interessare senza annoiare. Non ha voluto parlarne perchè, fondamentalmente non ama mettersi in mostra, ma è anche uno scrittore, ha pubblicato due libri, Francesco Fiorentino. La prima formazione e gli scritti giovanili. Interpretazioni storiografiche e L’Urlo Atavico, un romanzo che è stato anche premiato. La frase che ho scelto per chiudere l’intervista, sperando vi si riconosca è del Conte di Chesterfield e così recita: “Non sembrare mai più istruito delle persone che stai frequentando. Indossa la tua cultura come un orologio da tasca, e tienila nascosta. Non tirarlo fuori per vedere l’ora, ma dai l’orario quando ti viene chiesto”. Forse sta proprio in questo il successo di Giovanni Martello come dirigente e come uomo: essere più che apparire.

Riesce ad elencare tre qualità irrinunciabili che un buon dirigente non può non avere? Sono le stesse che ogni operatore della scuola deve possedere: qualità empatiche e relazionali, spessore culturale, qualità organizzative. Come dirigente trascorre molte ore a scuola. Riesce a praticare degli hobby? Tante. Amo passeggiare, ma lo faccio anche per una questione di salute. I miei hobby sono la lettura e la scrittura. Anche se sono più orgoglioso dei libri che leggo che di quelli che scrivo. Questa frase non è mia, ma l’ho presa in prestito da Borges. Quali sono i suoi interessi? Tutto ciò che ha a che fare con la cultura, dalla scienza alla letteratura, in special modo: arte, filosofia e storia, musica. Ha un motto che ama citare spesso? Nessuno da solo è più intelligente di tutti gli altri messi assieme.

Da bambino era bravo a scuola? Me la cavavo. Il mio maestro in famiglia parlava sempre di me. Capiva che partivo svantaggiato economicamente rispetto a molti miei compagni di classe, ma riuscivo a raggiungerli pur avendo a casa a disposizione solo i libri scolastici e un vocabolario. Per concludere, la domanda che facciamo a tutti, alla Marzullo: la domanda che non le ho fatto e avrebbe voluto le facessi. No, credo che non rimanga molto da dire. Le sue domande sono state molto circostanziate, anzi la ringrazio per avermi permesso di spaziare in tanti aspetti della cultura.

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amici della terra

PATRIMONIO GEOAMBIENTALE E STORICO-ARCHEOLOGICO E NEGLIGENZA DELLE CLASSI DIRIGENTI

di Mario Pileggi

Le gravi inefficienze nella gestione e amministrazione della cosa pubblica e del territorio locale non rappresentano una novità. Come non è una novità il Commissariamento del Comune. Sono tanti i dati, anche del passato remoto, che documentano sia l’elevato numero di commissariamenti che l’incapacità delle classi dirigenti locali di valorizzare il prezioso patrimonio di risorse naturali e ambientali del territorio attualmente denominato lametino. Come accade in genere in ogni realtà territoriale, molto ricca di risorse naturali e ambientali ma debole e frammentata socialmente e politicamente, dove a prevalere non è il benessere delle popolazioni locali ma gli interessi esterni. Sui danni antropici, e in particolare sulla distruzione della memoria storica da parte della classi dirigenti del passato, è significativo quanto evidenziato dall’Avv. Giuseppe Antonio Scaramuzzino nelle “Memorie Istoriche riguardanti la Città di Nicastro” del 1898 dove scrive: “Quantunque gli eruditi tentato avessero di ristorare ogni sorte di letteratura, non vi potè essere chi per Nicastro s’interessasse, vedendola molto decaduta dal lei primiero vigore, ad essere di poco gusto de’ potentissimi Baroni, che il dominio volean conservarne, mettere in veduta l’anteriore lustro della città, che potea pretendere la reintegra in quelli privilegi, dai quali era stata coll’infeudazione privata; ciocche anco sarà stata cagione di disperdersi molti monumenti, che negli archivi esistevano.” Ai rilevanti danni di origine antropica, lo stesso Scaramuzzino, aggiunge quelli degli eventi naturali legati agli assetti geologici del Territorio, e sottolinea: “Non mancaron dippiù delle altre catastrofi, che allo stesso

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conferirono, come fu quella che si rapporta dal P. Fiore, ed avvenne nell’anno 1562 o 1665 a’ 15 gennaio, quando l’inondazione del Fiume, che le scorre accanto, rovino 300 case, ed apportò la perdita di 18 uomini: né sono mancate a’ tempi nostri delle altre inondazioni, e specialmente quella foriera de’ tremuoti nel 1783, che un quartiere intero della città tutto sovverse coll’eccidio di più di cento abitanti, come non mancarono prima gli orrendi tremuoti di distruggerla diverse volte, uno de’ quali, che fu il più ferale, avvenne nell’anno 1638, e pochi degli edifici lasciò all’impiedi. Simili occasioni, e disgrazie accadute in Nicastro han potuto far disperdere i monumenti antichi, che in altri luoghi, in altre circostanze sono si felicemente conservati; ma, da quanto si è detto” Della rilevanza di questi eventi naturali, nello stesso periodo, scrive anche l’Ing. E. Cortese in varie pubblicazioni sulle specificità del territorio regionale e, in particolare, come la più importante e completa opera scientifica sulla Geologia della Calabria. Altri dati e testimonianze storiche sono contenuti in vari testi scritti da vari autori contemporanei e dei secoli scorsi come P. Giuliani . E, in particolare, in alcuni libri dell’Arch. Giovanni Iuffrida come “CittàPaese e Realismo Urbanistico – Nicastro 1782-1962”. Le specificità delle ricche risorse naturali e ambientali della zona, secondo il noto e prestigioso accademico tedesco Prof. A. Wolf, sono in parte evidenziate nel testo più antico sulla geografia del BelPaese nell’Odissea di Omero quando riferisce del territorio dei Feaci. Sulla specificità del nostro territorio, nel testo di Omero si sottolinea la “fiabesca

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ornamentazione” del paesaggio e la “incomparabile vegetazione” dove “crescono alberi alti, lussureggianti: peri e melograni e meli degli splendidi pomi e fichi dolci e ulivi rigogliosi. Mai il loro frutto muore o viene a mancare né d’inverno né d’estate, per tutto l’anno: ma sempre il soffio di Zefiro spirando fa nascere gli uni e maturare gli altri. La pera invecchia sopra la pera, la mela sopra la mela, grappolo sopra grappolo e fico sopra fico. E là è piantata una vigna dai molti frutti. E di essa una aprica in luogo piano si cuoce al sole; e intanto vendemmiano altre uve, e altre ancora ne pigiano. Sul davanti i grappoli sono acerbi e perdono il fiore, e altri incominciano ad annerire.” Per richiamare alla memoria quanto scrive Omero sui Feaci e sulle specificità del loro territorio si può utilizzare una videolezione scolastica come ad esempio questa: https://www.youtube.com/ watch?v=SRykKE4osmI di Luigi Gaudio sul libro VII, 78-132 dell’ Odissea. In pratica, per lo storico di fama internazionale Wolf, la Feacia di Omero, entro cui è compreso il nostro territorio con le sue preziose acque termali, sembra un “paradiso terrestre”. E non a caso nella Guida del Touring Club Italia sulla Calabria è scritto: “Le immagini, già presenti nell’antichità e nell’alto medioevo, della Calabria come Eden, terra fortunata e meravigliosa, ricca di ogni ben di Dio…ricorrono nelle ‘descrizioni’ cinque-seicentesche e nella successiva letteratura da viaggio.” Come non a caso Germanus Adlerhold, nel 1702, chiama “paradiso terrestre” la Calabria e Friedrich Munter la definisce “il paradiso d’Italia” e “ una delle regioni più felici e paradisiache del mondo”. Il Con-

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Il titolo “A passo di capre” elogia la lentezza come cammino di massima consapevolezza per essere pienamente presente nei territori della vita. Mentre, il sottotitolo “Liriche per la contemplazione filosofica” pone questo volume nell’ottica di un servizio di crescita interiore, sia di natura intellettuale che spirituale, giacché viene proposto il linguaggio poetico come cibo sapienziale nel crocevia della pluralità culturale. La maggiore parte delle poesie riportano le date di composizione e ciò svela l’itinerario estetico e spirituale, ma anche quello letterario. La poesia, dunque, parola estetica su cui praticare la contemplazione filosofica, è colta meditazione profonda di senso, ricerca di paesaggi ulteriori, scavo nei significati intimi dell’anima, viaggio nei luoghi nascosti del pensare.

e icol e d e e ri nell e libre e ll in e ne e on-l h anc

ti locali. Non si rilevano segnali di attività e programmi per la valorizzazione e tutela del prezioso patrimonio di risorse naturali e ambientali disponibili. Se qualcosa incomincerà a cambiare in meglio non sarà prima dell’inizio del terzo decennio del terzo millennio. E molto dipenderà dai tanti giovani capaci di recuperare la memoria storica come, ad esempio, chi ha realizzato questo video https://www. youtube.com/watch?v=FnKjrKPePQg su “Quando fu il giorno della Calabria” di Leonida Repaci.

Geologo Mario Pileggi del Consiglio Nazionale di “Amici della Terra”

Filippo D’Andrea Filippo D’Andrea • A Passo di Capre • Liriche per la contemplazione filosofica

te Stolberg nel 1794 scriveva: “la Calabria assomma quanto di bello e di grande possiedono separatamente le altre regioni del mondo”. E nel 1880 Wolfang Sartorius von Waltershausen annota: “La Calabria è uno dei più bei paesi d’Europa, benedetta da un suolo fertile e da un ottimo clima, ricca di bellezze naturali, in particolare anche grazie ai suoi folti bodchi, dei quali si sente molto la mancanza nel resto d’Italia.” E sulle nostre fasce costiere G. Vom Rath ha scritto: “un vero paradiso di bellezza e fertilità”. E hanno lodato in modo particolare la straordinaria fertilità della nostra terra antichi viaggiatori come H. Swinburne (1783) e R. Keppel (1821). Riguardo i “bagni caldi” amati da Feaci e le acque termali onorate già dall’epoca neolitica vanno ricordate le acque calde a temperatura di 39 gradi centigradi delle Terme di Caronte e gli insediamenti neolitici già noti nel nostro territorio. In altri studi, libri e documenti cartografici di alto valore scientifico è documentato l’intreccio tra dinamica degli assetti geoambientali e principali vicende ed evolu-

zione degli insediamenti umani a partire dal neolitico. Dagli stessi, tra l’altro, emerge la rilevanza degli effetti della sismicità e degli assetti idrogeomorfologici del Territorio sulla qualità della vita delle popolazioni e sull’evoluzione morfologica del paesaggio. In particolare, di come nei periodi di buon governo e di razionale utilizzo delle risorse del territorio, come ad esempio al tempo dei Feaci, durante la civiltà della Magna Grecia e nel periodo caldo medievale, la grande disponibilità d’acqua e di suoli fertili, ha prodotto ricchezza e benessere. Significative in proposito le rilevanti quantità e preziosità delle produzioni agricole del periodo e le preziose monete di Terina raffiguranti l’acqua delle Terme di Caronte. Invece, nei periodi in cui il territorio e l’acqua sono stati mal gestiti e,o non governati con il saccheggio di minerali, come ad esempio il ferro, il rame e il legname dai boschi come avvenuto ad esempio in tarda epoca romana, alluvioni e frane hanno provocato miseria e morti. Ma nella nostra regione ed in particolare nella classe di governo e politica locale non c’è ancora adeguata consapevolezza del fatto di vivere in uno dei pochi i luoghi al mondo che godono di particolarità geologiche con siti archeologici in grado di testimoniare civiltà antichissime e presenze antropiche fin dall’età della pietra. Attualmente non emergono elementi che inducono a ritenere che si ponga fine alle incapacità e negligenze delle classi dirigen-

A Passo di Capre Liriche per la contemplazione filosofica

ISBN 978-88-943714-8-2

788894 371482 €912,00

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Spettacolo

Un fantastico “Quartet” di artisti per un teatro senza tempo

di Giovanna Villella

Catanzaro, 22 gennaio 2019. Quattro grandi nomi della scena teatrale italiana ospiti per il quinto appuntamento con la rassegna Vacantiandu al Teatro Comunale. La rassegna, con la direzione artistica di Diego Ruiz e Nico Morelli e la direzione amministrativa di Walter Vasta, fa parte dell’omonimo progetto regionale con validità triennale finanziato con fondi PAC. Ed eccoli lì, insieme, 4attori4, quattro magnifiche e magnetiche presenze Giuseppe Pambieri, Paola Quattrini, Cochi Ponzoni ed Erica Blanc per una reunion di artisti senza tempo, protagonisti di Quartet di Ronald Harwood per la regia di Patrick Rossi Gastaldi. La commedia è un gioco di specchi: quattro grandi attori per quattro ex gloriosi cantanti d’opera ospitati in una casa di riposo per musicisti lirici. Tuttavia, al di là della leggerezza che, per dirla con Calvino, non è superficialità, l’autore vuole ricreare sulla scena quattro vite giunte ormai in quella fase dell’esistenza che Lidia Ravera ama chiamare “il terzo tempo” realizzando così una comunicazione di valori su quelli che sono i temi dell’amicizia e della vecchiaia. Quattro vite – quelle di Rudy, Cecy, Titta e Giulia - che, tra battute, vecchi rancori e scaramucce ricordano come la condizione umana sia complessa e piena di contraddizioni e paradossi. Quattro persone che per vivere con se stesse e con gli altri devono ridare senso alla propria vita. Incastonati nella solenne scenografia di Fabiana Di Marco che allestisce un grande terrazzo delimitato da alte sbarre bianche, quasi a voler dare l’idea di una confortevole gabbia dorata da cui tuttavia non si può fuggire, i quattro personaggi trascorrono le loro giornate tra lievi ricordi e grevi espressioni di consapevolezza senile. Fatti squisitamente privati si configurano in un struttura drammaturgica che coniuga emozioni e sentimenti, tenerezza e commozione ma senza manierismi e artifizi retorici. Il Rudy di Giuseppe Pambieri è l’intellettuale tormentato e un po’ schizoide che trova conforto nella poesia e nell’arte cercando la parola “giusta” che sfugge e concedendosi qualche simpatica invettiva linguistica trivial-popolare contro una infermiera che a colazione non gli serve la cotognata. Il suo equilibrio vacilla con l’arrivo (inaspettato) della ex moglie Giulia le cui feroci battute egli somatizza e incassa con aria di superiorità rispondendo, ogni tanto, con signorile perfidia. La Cecy di Paola Quattrini, che ricorda per la sua grazia e la sua verve una illustrazione femminile di Gino Boccasile, impone tutta la sua carica vitale e la sua ironia inconsapevole perché frutto di un candore quasi primitivo provocato dall’Alzheimer. Un lettore CD la segue ovunque, come pag. 10

la coperta di Linus mentre le sue dolorose memorie, impalpabili e lontane, sono caricate di gesti infantili e ingenui che suscitano ilarità e tenerezza. Felicemente ondivago il Titta di Cochi Ponzoni che bene alterna euforia e depressione con personalissime sfumature di humor. I sui audaci corteggiamenti a Cecy sono solo un gioco per nascondere un buco nel cuore. Di gran temperamento la Giulia di Erica Blanc che incede sulla scena elegante e algida come una diva, appoggiandosi a un bastone. E diva lo è ancora, nei gesti che sottolineano la perenne rappresentazione di se stessa e nelle parole che ripetono, come un disco incantato, brani della sua gloria passata. Una carriera di successo, quattro mariti, due figli e un segreto… E così due uomini e due donne, un tempo brillanti e pieni di talento, si ritrovano qui a percorrere insieme il terzo cammin di loro vita limitati, fragili, deboli, soli. Ciascuno con la propria infermità, diversamente causata, ma profondamente incisa come uno stigma. Ed è questo il momento in cui la loro amicizia non è solo consolazione e ricatto ma riacquista la sua forza creatrice e progettuale. I quattro diventano enfants terribles morbosamente legati l’uno all’altro per cercare - tra le pieghe di un dolore mascherato da ironia, cinismo, falsa sicurezza, cedimenti e confessioni, - di dare ancora senso alla loro vita. Perché se è vero che esiste il dolore, la colpa, l’irrimediabilità degli atti, la fragilità di ogni essere umano e la morte, è vero che esiste anche l’Amore. Amore nella sua accezione più ampia che qui si declina, in special modo, in Amore per la Musica. Quella di Verdi. “Bella figlia dell’amore” recita il quartetto del terzo atto del Rigoletto di Verdi, e i nostri fantastici quattro, felici e soddisfatti, lo offrono al pubblico gettando un ponte tra palcoscenico e platea laddove lo spazio scenico diventa sintesi metafisica di passato e di futuro, tempo ed eternità, speranza e volontà perché la vita può essere stata dura e faticosa ma anche imprevedibile e pronta a donare, ancora, gratificazioni e piccole gioie. La traduzione italiana e l’adattamento di Antonia Brancati, la cifra registica di Patrick Rossi Gastaldi, il buon gusto dei costumi di Teresa Acone e l’evocativo disegno luci di Mirko Oteri ci regalano un’opera corale vivacemente scandita nei ritmi da quattro grandi interpreti di raffinata sensibilità e intensità espressiva che sanno divertire e commuovere con ironia ed eleganza. Chapeau! Al termine dello spettacolo, l’omaggio della tradizionale maschera in ceramica simbolo della rassegna consegnata agli artisti da Nico Morelli e da Walter Vasta, rispettivamente direttore artistico e direttore amministrativo di Vacantiandu.

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Spettacolo

Italiani spreconi? Ridiamoci su di Giovanna Villella Catanzaro, 19 gennaio 2019. Quarto appuntamento al Teatro Comunale con la rassegna teatrale Vacantiandu con la direzione artistica di Diego Ruiz e Nico Morelli e la direzione amministrativa di Walter Vasta. La rassegna è inserita nell’omonimo progetto regionale con validità triennale finanziato con fondi PAC. In scena, dopo i successi sul piccolo schermo come protagonista di fiction e di film TV, l’attore, autore e regista Marco Falaguasta con lo spettacolo Non si butta via niente di cui è anche coautore insieme a Giulia Ricciardi e Alessandro Mancini per la regia di Tiziana Foschi. C’è una comicità raffinata, scevra da volgarità, che ride della sua epoca attraverso l’osservazione minuta, attenta, pungente di uomini e donne con i loro vizi e le loro manie. E Non si butta via niente, che è diventato anche un libro pubblicato da Orizzonte degli Eventi, è un lavoro di scrittura drammaturgica contemporanea a sei mani affidato all’intelligenza e alla garbata impertinenza di un attore, Marco Falaguasta, che sa creare con il pubblico la giusta empatia come nella migliore tradizione delle stand-up comedy. Il grande e il piccolo schermo ci hanno abituati ad una tipologia dell’attore comico come personaggio goffo, preferibilmente di aspetto non gradevole, lento e pasticcione. Marco Falaguasta è invece attore elegante e bello che, come un ginnasta, volteggia tra finzione e verità, usando in maniera disinvolta il registro alto e

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quello basso della comicità. Con levità, restituisce al pubblico il piacere di leggere in maniera trasversale, divertita e allegra gli stereotipi di quel grande rotocalco che è la contemporanea società dei consumi. Un incipit secco: la definizione di “persuasione subliminale” per delineare una fotografia impietosa e divertita dell’uomo di oggi sempre più consumatore e meno cittadino, ormai deprivato di pensiero critico e manovrato da un sistema che genera bisogni e induce all’acquisto inconsapevole e veloce in un mondo dove tutto sembra non bastare più, dove le voragini interiori vengono colmate da oggetti inutili, sostituiti alla velocità di un click non appena si rompono o non funzionano più. Così, in aperta antitesi con il titolo, “si butta via troppo”. E alla teoria dell’accelerazionismo che esorta noi, esseri senza tempo, a vivere in una sorta di presente eternizzato si contrappone il tempo dell’attesa che è tempo sospeso, tempo del desiderio, del racconto, dell’ascolto. Non è un caso che il filosofo greco Zenone di Cizio, dicesse “Abbiamo due orecchie ed una sola bocca, proprio perché dobbiamo ascoltare di più e parlare di meno” prefigurando uno dei tanti allarmi dei nostri tempi così allarmanti. La narrazione scivola via, fresca, viva, pulsante di energia. Sono divertimenti, ansie e riflessioni, pensieri fluttuanti nello spazio mentale che si concre-

tizzano in una pletora di personaggi che prendono forma avendo come unico mezzo la fisicità dell’attore il quale, esibendo una vasta gamma di modulazioni vocali, fa vivere sulla scena un mefistofelico rappresentante della Folletto, un azzimato dipendente della Nespresso Point, un solerte commesso di Trony, un compiacente e ben addestrato centralinista di Amazon per approdare ad una memoria personale che diventa memoria collettiva. Con eleganza e signorile distacco ci fa credere di essere lui il bersaglio delle battute più impreviste, pungenti, profonde ma dopo poco ci si accorge che l’oggetto comico non sta sul palcoscenico ma in platea, disseminato qua è là tra le poltrone del teatro. E lui, scende tra il pubblico pronto a prendere di mira gli inconsapevoli spettatori che ridono… ridono… ridono di se stessi. Tanti applausi, moltissime risate. E al termine dello spettacolo, il consueto omaggio della tradizionale maschera, simbolo della rassegna Vacantiandu ideata dal graphic designer Alessandro Cavaliere e realizzata dal maestro Raffaele Fresca, che il direttore artistico Nico Morelli e il direttore amministrativo Walter Vasta hanno consegnato a Marco Falaguasta.

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Il nostro territorio

Una efficiente politica culturale per la tutela, la conservazione e la salvaguardia del Patrimonio culturale di Lamezia Terme di Giuseppe Sestito Lamezia Terme ha in dotazione un notevole patrimonio culturale che testimonia la straordinaria e pluri-secolare vicenda storica della città e del suo territorio. Il contesto geografico di cui Lamezia è il centro, il Lametino, tra preistoria, protostoria e storia è caratterizzato da una “sostanziale unità geografica, culturale e, spesso, anche amministrativa nel corso degli ultimi tre millenni”. E’ una città, la nostra, con un clima dolce e mite; inverni non eccessivamente freddi ed estati nemmeno troppo calde ed afose. Situata nel cuore dell’Istmo lametino/scilletino, è adagiata sulla omonima pianura, davanti allo splendido golfo di S. Eufemia Lamezia, che Aristotele indicava come il “Sinus Lameticus”. Le sue acque sono trasparenti e tranquille quanto l’aria è tersa, luminosa, pulita. Nelle giornate di maggiore visibilità si intravede, sullo sfondo, il vulcano Stromboli attorniato dalle altre isole dell’arcipelago eoliano. Da alcuni punti più alti delle colline che la circondano, ad anfiteatro naturale, quando l’etra è particolarmente limpido, è possibile cogliere ed osservare, contemporaneamente, le immagini dei due vulcani siciliani, il già citato Stromboli e l’Etna, che si ergono imponenti verso l’alto ed entrambi, placidamente, se la fumano... Naturalmente, non bisogna immaginare che le bellezze di Lamezia e del Lametino siano costituite solo dal mare, le colline, le montagne, il sole, l’aria, la luna, le stelle e, per ultima, la “Riviera dei tramonti”... tutte cose molto belle, intendiamoci, di cui il Padreterno è stato prodigo ed ha elargito, in abbondanza, a tutta la Calabria. Al contrario, lo sconsiderato intervento dell’uomo, soprattutto nel corso degli ultimi decenni, ne ha piuttosto stravolto e semi-distrutto diverse (di cose). Per fare alcuni soli esempi, che sono sotto gli occhi di tutti, mi limiterò a ricordare i disboscamenti delle colline, l’abbandono delle montagne, la cementificazione delle coste, l’inquinamento delle acque marine. Con le disastrose conseguenze, in termini di impoverimento e maggiore fragilità dei territori, di cui tutti siamo a conoscenza e, a volte, testimoni durante i ricorrenti eventi scatenati dalla natura. Oltre che di bellezze naturali, Lamezia e il Lametino, sono provvisti di tante opere bellissime e dense di significato, storico, artistico, culturale, create dal lavoro e dalla ingegnosità dell’uomo, risalenti ad epoche recenti, alcune; a secoli o, addirittura, a millenni, altre. Molti suoi cittadini spesso ignorano che queste opere esistano e pensano che gli unici reperti storico/ archeologici da apprezzare e visitare siano solamente i ruderi del Castello normanno-svevo, quelli dell’Abbazia Benedettina, il Bastione di Malta, le sopravvenienze archeologiche dell’antica città di Terina. Così non è, invece! Nel 2008, al terzo anno della prima amministrazione Speranza, allorchè l’Assessorato alla cultura ed ai beni ed alle attività culturali del comune era diretto da Giovanna De Sensi Sestito, l’Università della Calabria, attraverso il Centro Herakles per il Turismo culturale, elaborò una guida di un numero considerevole di beni culturali della città. “Lamezia Terme tra Arte e Storia” ha per titolo, quella guida, e costituisce un catalogo, denso ed aggiornato, delle aree archeologiche, dei centri e periferie storici, dei palazzi, delle chiese, delle opere d’arte esistenti nei tre ex comuni lametini. Furono censiti e “raccontati” da un gruppo di professionisti volontari, raccolti attorno alla professoressa De Sensi Sestito, che del Progetto fu la responsabile scientifica e la curatrice; mentre la prof. Stefania Mancuso né curò l’ideazione e l’editing. Il tutto, è bene ricordarlo e sottolinearlo, avvenne gratuitamente. Il Comune non sborsò un euro di compenso a nessuno del gruppo dei collaboratori della De Sensi Sestito, ma si limitò a sostenere le spese di stampa. Un’altra opera che bisogna tenere presente e, possibilmente tenere a portata di mano nella propria biblioteca pronta per la consultazione, se si abbia voglia di conoscere le bellezze della Calabria nonchè del territorio lametino, è costituito dal pregevole volume del prof. Fabrizio Mollo, archeologo dell’Unipag. 12

versità di Massina, di recente pubblicazione per i tipi della Rubbettino. Il suo titolo è: <<Guida archeologica della Calabria antica>>. “Si tratta – come è scritto sulla quarta del medesimo volume - di un agevole, ma completo strumento, corredato da un ricco apparato grafico e fotografico [………] indirizzato ai turisti che vogliono scoprire le bellezze della Calabria, ai cultori dell’antico, agli archeologi ed ai giovani studenti universitari, ma soprattutto rivolto ai calabresi, che tutti dovrebbero leggere per riappropriarsi consapevolmente del loro importante passato”. Tra l’altro la Guida contiene tredici itinerari […….] che “offrono una descrizione puntuale e aggiornata…di tutte le aree visitabili…..” Il secondo itinerario riguarda proprio Lamezia e il Lametino, secondo il seguente tracciato: 1.Nocera Terinese – Parco Archeologico di Piano della Tirena; 2.Lamezia Terme – Museo Archeologico Nazionale Lametino; 3.Lamezia Terme - Parco Archeologico di Terina; 4-Curinga – Parco Archeologico delle Terme di Curinga. Se vogliamo, dunque, che il patrimonio culturale della nostra città, che costituisce l’insieme dei segni visibili della storia del nostro territorio, svolga la funzione di indurre i cittadini a “scoprire l’identità della comunità, a ripercorrerne le millenarie vicende, a rintracciarne e rivitalizzarne le tradizioni più radicate” e, oltre a questo aspetto di natura storico/culturale, ad attirare i turisti a visitarlo con ricadute anche sullo sviluppo economico del territorio, è necessario che esso venga conservato, protetto, restaurato, quando le condizioni dei singoli beni lo richiedano, valorizzato ed infine reso fruibile dalla collettività. Una politica efficiente, seria ed efficace che voglia puntare sul ruolo non secondario dello sviluppo integrale del comune e del territorio ad esso circostante, non può che affrontare con questi criteri il capitolo beni culturali a Lamezia. E metterne i beni in rete. Ha dichiarato l’archeologa dell’Università della Calabria, Stefania Mancuso, nell’agosto del 2017, in un ‘intervista resa alla Gazzetta del Sud. <<Bisogna pensare ad un piano che metta insieme tutti i beni presenti sul territorio, diversamente non si farà mai niente. L’unica soluzione è pensare – continuava la Mancuso – come gestire i beni che sono di proprietà del Comune. L’Amministrazione si dovrebbe autodeterminare, istituendo un ufficio ad hoc per gestire questi beni con orari di apertura e visite guidate; oppure effettuare un bando per affidare ad associazioni culturali od imprese la gestione, come sta avvenendo in molte zone della Calabria, dove sono nate le imprese culturali. A Lamezia non si è potuto procedere in questa direzione perché la passata amministrazione non ha firmato l’Accordo di programma con la regione, quindi è rimasta fuori, ma in molte città, come Cosenza, il Parco di Caulonia o quello di Monasterace o il Parco di Scolacium, sono nate dalle imprese culturali che hanno preso in gestione i beni. E’ una nuova forma dinamica di collaborazione tra pubblico e privato: si interagisce e si programmano interventi condivisi>> Questo discorso, che non fa una piega in relazione ad una gestione razionale, programmata ed efficiente, dei beni costituenti il Patrimonio culturale di una qualsiasi città, per Lamezia era valido per le passate amministrazioni comunali, resta valido ancora oggi, in regime di amministrazione commissariale, e lo sarà ancora più, per quella prossima quando, dopo essere stata eletta, stabilirà le priorità del programma di governo della città. Sarà proprio in relazione alla lista di priorità – ad al posto che in essa occuperà il paragrafo relativo alla tutela, conservazione, valorizzazione e possibilità di fruizione pubblica dei beni della città - che si potrà capire di quale caratura culturale e sensibilità verso la storia e l’identità della città saranno dotati coloro che ne faranno parte.

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l’angolo di tommaso

Vuoti a perdere

di Tommaso Cozzitorto

Ricordate i vuoti a rendere? Tanti anni fa si restituivano le bottiglie di vetro dopo averne consumato il contenuto. Ricordo le casse tintinnanti in procinto del viaggio di ritorno al venditore, ricordo anche l’ingresso in casa delle bottiglie nuove e piene, come una festa e una nuova certezza. Era un movimento continuo di in entrata e in uscita. Lo stesso processo avveniva con quelle bellissime bottiglie del latte con il coperchio di latta meravigliosamente imperfetto, mi pareva di sentirne il sapore attraverso il vetro. I vuoti non erano vuoti, erano brevi pause per nuovi ritorni, rendevi e ricevevi, si trattava di un appagamento costante, vuoti a rendere colmi come cesti colmi di frutti freschi. I vuoti a rendere rappresentavano una speranza che accarezzavano l’anima, attesa del ritorno del domani, attesa su un giorno nuovo in cui eri certo dell’abbraccio e l’acqua e il latte diventavano simbolo di affettività. Sono passati gli anni e i vuoti resi non sono più ritornati pieni, sono diventati vuoti e basta; vuoti colmati come meglio si può dai ricordi, vuoti di vita che la vita ti mette in condizione di accettare, consapevoli che nulla ritorna. Vuoti a rendere senza ricambio, vuoto per vuoto. Vuoti a perdere. STOP.

Dati biografici:

io sono ancora di quelli che credono, con Croce, che di un autore contano solo le opere. (Quando contano, naturalmente.) Perciò dati biografici non ne do, o li do falsi, o comunque cerco sempre di cambiarli da una volta all’altra. Mi chieda pure quello che vuol sapere e Glielo dirò. Ma non Le dirò mai la verità, di questo può star sicura.» (Italo Calvino nella lettera a Germana Pescio Bottino, 9 giugno 1964) Rileggendo Calvino mi sono soffermato a riflettere sulla genialità di questo scrittore dalla grande forza comunicativa. Attraverso opere apparentemente leggere e permeate di ironia ha saputo trasmettere una molteplicità di messaggi riguardanti

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le problematiche sociali più urgenti della società oltre alla condizione intrinseca dell’uomo del novecento. Per esempio l’esteriorità della persona che nasconde il vuoto interiore e le voragini dell’anima, le città di cemento ove la presenza di un albero arriva ad essere un sogno irraggiungibile. Calvino utilizza la fiaba per captare il respiro recondito della società in cui si è trovato a vivere al fine di sottolineare i valori fondamentali su cui dovrebbe fondarsi una società più giusta e armonica. Ed è proprio il carattere dell’armonia che non manca mai nei suoi romanzi e racconti, quale segnale di speranza e fiducia nella fase di ricostruzione del futuro. Oltre alla fiaba, madre di tutti i generi letterari, in Calvino ritroviamo altre tipologie di scrittura narrativa rielaborate con estrema originalità. Su tutto prevale il “marchio”

dello scrittore, la sua scrittura in continuo divenire, il suo modo di farti entrare nella realtà attraverso la fantasia: un Ariosto del ‘900 mi viene da dire. Interessantissimo, il suo sperimentalismo con lo stile combinatorio. «L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.» (Italo Calvino, Le città invisibili, 1972)

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storia

Convegno sui 100 anni dell’Appello di Don Luigi Sturzo “Ai Liberi & Forti” e la fondazione del Partito Popolare. Nella sala del Seminario Vescovile, gremita ed attenta, si è svolto un convegno per ricordare il centenario dell’ appello che Don Luigi Sturzo, il 18 Gennaio del 1919, dall’ albergo Santa Chiara in Roma, lanciò “ai Liberi & Forti” e fondò il Partito Popolare Italiano. Nell’ occasione si è trattato il tema: “ VAI Mezzogiorno: VisioneAzione- Innovazione “ con gli interventi del moderatore Silvestro Giacoppo : Presidente Provinciale la Nuova Frontiera dei Liberi & Forti di Catanzaro, della Signora Rachele Via di Crotone, di Salvatore Panetta, Vice Presidente Regionale della Nuova Frontiera dei Liberi & Forti; di Nicola Maierà di Cosenza, del Presidente Regionale dei Liberi & Forti Pino Campisi. Ha introdotto i lavori Felice Iannazzo Presidente della Sezione di Lamezia Terme del Movimento sturziano “ Servire l’ Italia”. Questi ha rivolto un deferente saluto al S.E. Mons. Luigi Cantafora, Vescovo della Diocesi di Lamezia Terme, e a tutti i responsabili dei Movimenti dei “ Liberi & Forti” , i quali hanno relazionato sul tema del Mezzogiorno, inoltre un saluto di benvenuto al Dr. Giovanni Palladino, Segretario Nazionale del Movimento Sturziano “ Servire l’ Italia”. Palladino da anni è il più grande studioso del pensiero di Don Luigi Sturzo, perché è figlio del Prof. Giuseppe Palladino, nominato da Sturzo suo erede testamentario. Successivamente Iannazzo ha tenuto la relazione sul centenario della fondazione del Partito Popolare e dell’ appello rivolto da Don Luigi Sturzo agli uomini “ Liberi & Forti “. Il 18 gennaio del 1919, dopo la fine della prima guerra mondiale , quando ancora erano aperte le ferite provocate dai disastri di quel conflitto , Don Sturzo fonda il P.P.I., del quale divenne Segretario fino al 1923, con l’ obiettivo di portare l’ Italia sulla via della modernizzazione e dello sviluppo. Ha ricordato quel momento storico e quindi la figura, il pensiero del Sacerdote, dello Statista, dell’ Uomo Politico, che condusse una vita difficile e combattuta, a causa dell’ esilio, durato 20 anni, prima a Londra e poi a New York L’ appello era rivolto non soltanto al mondo cattolico , ma a tutti i cittadini e alla società civile, per una riforma moderna e democratica dello Stato, che potesse coinvolgere tutti quelli che avessero a cuore le sorti del paese. Don Sturzo considerava la politica come una attività laica e volle un partito di massa., aconfessionale, di cattolici e non dei cattolici , aperto a tutti , credenti e non credenti , un partito che praticasse la politica come servizio e non come potere , con l’ obiettivo di moralizzare il mondo della politica stessa e della economia. La vicenda di Sturzo e del PPI si intreccerà con la drammatica situazione dell’ avvento del fascismo . Sturzo era contrario alla partecipazione dei popolari al governo Mussolini, e pur avendo 100 parlamentari riuscì a portare il P:P.I. nell’ aprile del 1923 all’ opposizione e poco tempo dopo fu costretto a dimettersi della carica di segretario Nel 1924 fu indotto dal Cardinale Gasparri a lasciare l’ pag. 14

di Felice Iannazzo

Italia ed andare in esilio . Dopo 20 anni , nel 1946 rientra in Italia e riprende l’ attività politica, non aderisce ufficialmente alla DC. Il Presidente della Repubblica Luigi Einaudi nel 1952 lo nomina Senatore a Vita. Sturzo è contro lo statalismo e conduce una battaglia particolarmente dura contro l’ intervento statale nell’ economia. Con la sua voluminosa opera OMNIA ( 54 volumi) ha dimostrato di essere l’ uomo del fare , come promotore sociale, consigliere comunale , pro-sindaco, facendo buona politica per 15 anni. Fu una grande sostenitore dell’ autonomia dei Comuni, i quali non dovrebbero essere soffocati dallo Stato. Vede il Comune come momento di elevazione della comunità. “Si fa politica facendo buona amministrazione e, per ottenere successo, bisogna essere molto competenti ed avere una buona cultura”. Don Sturzo fu un grande sostenitore degli stati europei che, se uniti su basi solide, possono portare pace e benessere per tutti gli stati della comunità ed eliminare le differenze sociali , politiche ed economiche. Era un europeista convinto, amico di altri grandi europeisti: Alcide De Gasperi, Konrad Adenauer e Robert Schuman. Don Sturzo affrontò il problema del Mezzogiorno, riconosce le difficoltà del meridione rispetto alle altre regioni del paese,. Riteneva che tra il nord e il sud della penisola esistesse una grande sproporzione nel campo delle attività umane, una profonda diversità tra le consuetudini , le tradizioni il mondo intellettuale, però era convinto che i veri protagonisti del cambiamento sono gli stessi meridionali. Quell’ appello lanciato nel 1919 oggi ha una straordinaria validità, perché basato su principi e valori di carattere universale. L’ economista Marco Vitale sostiene che oggi è interessante “ il recupero ampio del pensiero di Don Sturzo, perché vi si trovano solidi punti di orientamento e validi spunti di riflessione”. Oggi l’ Italia ha bisogno di una profonda rigenerazione politica e morale . E’ giunto il momento di fare l’ appello alle migliori energie di questo paese. Soprattutto per quelli che credono nei valori della giustizia e della libertà. Bisogna riprendere con determinazione e coraggio l’ appello di Sturzo ai “ Liberi & Forti” con il richiamo all’ ispirazione dei valori cristiani e dei principi della dottrina sociale della Chiesa.

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scuola e società

bullismo e cyberbullismo di Tommaso Cozzitorto In occasione della terza Giornata Nazionale contro il bullismo e cyberbullismo, l ‘Udicon - Unione per la difesa dei consumatori guidata in Calabria dal Presidente regionale Peppino Ruberto, è scesa in campo fra i giovani allievi dell’Istituto Comprensivo Ardito Don Bosco di Lamezia Terme. Con il coordinamento del Prof. Tommaso Cozzitorto, referente del medesimo progetto per la Scuola Secondaria di primo grado dell’Istituto, si è articolata una grandiosa mattinata all’insegna della difesa dei diritti dei cittadini . Il Dirigente Scolastico Dott Lorenzo Benincasa ha dato l’avvio alla giornata evidenziando l’orgoglio di essere stati, per la Provincia di Catanzaro, sede unica fra gli istituti di ogni ordine e grado e di aver potuto affrontare tematiche di grande rilievo e indiscutibile attualità fra le giovani generazioni. L’ ottima riuscita dell’evento con conseguente positiva ricaduta sul vivere quotidiano dei ragazzi va anche ricondotta indiscutibilmente al contributo degli esperti professionisti che, ciascuno nel proprio campo di pertinenza,ha offerto occasione di riflessione agli alunni presenti : per la sede Udicon di Catanzaro il presidente Provinciale Angelo Toscano, per la sede regionale U.di.con Calabria il Vicepresidente Domenico

Iamundo, l’avvocato Niccolò Montuoro dottore di ricerca presso l’Università Magna Grecia di CZ, il dottor Matteo Aloi assegnista di ricerca in Psicologia Clinica presso l’Università Magna Grecia di CZ, il Sovrintendente Capo Polizia di Stato Giuseppe Maurizi e l’ assistente capo coordinatore Polizia di Stato Saverio Salerno. La giornata, animata dalla simpaticissima mascotte di”Capitan Udicon”,si è conclusa con un impegno :” Tutti contro il bullismo “ ed è stato con questo slogan che il DS ha rinnovato la sua disponibilità dando appuntamento al prossimo anno.

Il nostro paese potrà riprendere la strada dello sviluppo morale , sociale , politico ed economico solo se il patrimonio della dottrina sociale della chiesa e del popolarismo sturziano verrà fatto conoscere e messo finalmente a frutto. E’ questo quello che Il movimento sturziano “ Servire l’ Italia” vorrebbe realizzare sia a , livello territoriale che nazionale, attraverso l’ impegno costante di uomini che credono ai valori del cristianesimo , per realizzare il concetto del servire attraverso il coinvolgimento di tutte le persone presenti nella vita pubblica, che si ispirano al concetto del bene comune, al fine di formare in Italia una classe politica competente, organizzando convegni , corsi su proposte relative a temi politici e sociali. Anche qui a Lamezia Terme occorre una presa di coscienza , uno slancio degli uomini e delle donne liberi per creare una svolta , per dare un futuro a questa comunità. E’ necessaria una rilettura dell’ appello ai liberi e forti, aperta a tutti, senza pregiudizio ideologico o di appartenenza, che dia una valutazione sui segni dei tempi , prendendo in considerazione le istanze sociali , culturali del popolo italiano , che è sempre più indignato per i grandi scandali e le inadempienze della classe politica. Il Dr. Giovanni Palladino, da profondo conoscitore e da studioso

del pensiero di don Luigi Sturzo, ha relazionato facendo conoscere molti aspetti della vita dello statista e delle battaglie, che portò avanti nel lungo periodo della sua vita da sacerdote , da prosindaco di Caltagirone e da senatore a vira. Infine ha concluso i lavori Pino Campisi, Presidente Regionale del Movimento “ La nuova Frontiera dei Liberi & Forti “ ed ha relazionato su un documento di impegno pubblico, basato su 10 punti strategici relativi alla famiglia, al patrimonio produttivo, che miri soprattutto alla formazione dei giovani, allo sviluppo dell’ impresa, per produrre lavoro, con il coordinamento degli interventi.

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Associazionismo Interventi di

Francesco Calimeri, Paola Nanci, Filippo Silva

“La creatività femminile, la cultura dell’innovazione, motori di diverso sviluppo socio-economico”

di Franca Spagnulo Facendo seguito all’articolo: “La creatività femminile, la cultura dell’innovazione, motori di diverso sviluppo socio-economico”, tema trattato dalla FIDAPA, sezione di Lamezia Terme, il 10 novembre 2018 e da me introdotto su “Lamezia e non solo” di novembre n°48, dove avevo già annunciato la pubblicazione delle relazioni integrali di ciascun relatore, presento l’intervento di: FRANCESCO CALIMERI, Ingegnere, Professore associato presso l’Università della Calabria. Durante le sue attività di ricercatore è stato coinvolto in diversi progetti di ricerca internazionale e le sue attività di ricerca spaziano su diversi ambiti per lo più legati alla logica e intelligenza artificiale bioinformatica, mentre le sue opere sono apparse in riviste e conferenze di alto livello. Ha ricevuto il premio “test of time” dell’ICLP. E’ membro del team che ha progettato il DLV, uno dei maggiori sistemi di intelligenza artificiali basato sulla logica, usato in tutto il mondo. Detiene diversi brevetti ed è co-fondatore e CEO di DVL system Itd. Di seguito sono intervenuti per il laboratorio di Roma di Konica Minolta Paola Nanci e Filippo Silva: PAOLA NANCI, ingegnere, è Application Architect per Konica Minolta dove è arrivata dopo aver lavorato per Leonardo, Thales ed IBA maturando esperienza in progetti internazionali per la raccolta e l’analisi di dati macchina in ambito trasporto(metropolitana di Londra e Dubai) e medicale ( protonterapia per la cura dei tumori ) prima a Trento e poi in Belgio. Responsabile della soluzione tecnica del Worplace hub per l’healthcare, oggi lavora presso la Konica Minolta di Roma, una delle sedi europee dell’azienda, incentrata sull’innovazione; FILIPPO SILVA, ingegnere, strategy and technology manager,è responsabile del team di innovazione di Roma all’interno della ricerca e sviluppo di Konica Minolta. E’ arrivato

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a Konica Minolta dopo alcune esperienze in Nokia,Alcatel-lucent e Siemens. Focus primario odierno è la formazione di un team per la generazione di idee e prototipi per il supporto al businessdel futuro tramite algoritmi di intelligenza artificiale; Nei loro interventi Paola e Filippo hanno sottolineato l’importanza di un’azienda giapponese come Konica Minolta che crede ed investe nei talenti e nella creatività italiana. Al centro di questo processo di innovazione c’è la cultura del Management 4.0, basato su processi orizzontali che favoriscano la generazione e lo scambio di idee, valorizzando il talento, la creatività e lo spirito di iniziativa delle persone. Intervento i Francesco Calimeri: Il ruolo della donna nella società, negli anni, è cambiato, sta cambiando… e deve ancora cambiare molto. E deve farlo per chiari motivi di utilità universale. Proviamo a discutere brevemente perché. Il progresso si concretizza attraverso processi molto complessi; ci sono tuttavia alcuni aspetti chiave che non è poi così difficile individuare. Certamente lo sviluppo è componente cruciale per il progresso; e questo è funzione molto sensibile di qualcosa che è spesso citata, ma in modo piuttosto astratto: l’innovazione. Questa, nel contesto che stiamo affrontando, è preziosissima quando interessa prodotti, processi, tecnologie… in ultima analisi, idee. L’innovazione produce sviluppo attraverso innumerevoli canali e lungo molteplici dimensioni: ottimizzazione dei processi industriali e sociali, aumento della produttività, incremento della ricchezza diffusa, stimolo alle relazioni sociali ed interculturali, semplificazione della “vita” nel senso più ampio, e ben altro. Ed essa produce i suoi effetti quando, pur partendo dal “piccolo”, si allarga su vasta scala. Pur semplificando molto, è relativamente facile intravedere gli effetti dell’innovazione; e, in fondo, è altrettanto semplice concordare sul fatto che il motore dell’innovazione sono le idee. Sfortunatamente, è necessario capire come distinguere le buone idee da quelle

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cattive (certo, sarebbe necessario capire anche come definire cosa è una “buona idea”…). Una idea può considerarsi nuova quando rompe le regole, gli schemi (almeno, alcuni); ma perché sia creativa, questa deve anche in qualche modo generare nuove regole e nuovi schemi. In prima battuta, potremmo pensare che sia facile creare un ambiente per la generazione di queste idee “utili”: dato che le persone sono come sono, perché non prendiamo i più bravi e non li mettiamo al lavoro? Il resto verrà da sé. Sfortunatamente, non è affatto vero che le persone sono come sono: le persone diventano come sono, durante la loro esistenza, e attraverso molti processi, quali, a titolo di esempio, l’educazione in scuole più o meno buone o la frequentazione di ambienti più o meno accoglienti, stimolanti, fertili. Non è possibile non pensare, quindi, di programmare ed impegnarsi nella produzione di individui creativi, educandoli a premiare il merito e riconoscere il valore di cose quali eccellenza, creatività, collaborazione, rispetto – per iniziare. E nel chiederci su cosa, e come, puntare maggiormente, dobbiamo fare attenzione a non cadere in false dicotomie; ad esempio, è piuttosto diffusa la convinzione che si sia razionali oppure creativi: l’uno, o l’altro. Ma realtà ed esseri umani sono molto più complessi; se ci chiediamo davvero cosa sia la creatività, scopriamo come musicisti, pittori, sviluppatori software, scienziati, etc., si assomiglino moltissimo. Oggi sappiamo che le aree del cervello attivate svolgendo le attività tipiche delle figure che abbiamo citato poco sopra sono esattamente le stesse, ed aiutano ad esser bravi nel notare cose che non tutti vedono, figurarsi la realtà in modo diverso da quelli più comuni, mettere in discussione l’esistente, creare. Tutti possono avere idee, e, in fondo, le hanno; ma è importante, oltre ad avere idee “buone”, come discusso, anche essere capaci di metterle in pratica. Come passare dal blocco di marmo ad una statua come quelle che ci ha lasciato Michelangelo? Come scrivere un racconto, comporre della musica, riuscire a mandare l’uomo sulla luna, produrre qualcosa di qualità migliore spendendo meno tempo

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la scuola

Quasi cento studenti dalla Calabria alla prima kermesse d’inverno promossa da Liceo Campanella e Animula

Salvatore D’Elia

Circa cento studenti partecipanti, dieci istituti scolastici da varie parti della provincia di Catanzaro e della Calabria, protagoniste le scuole ad indirizzo musicale lametine. Questi i numeri della prima kermesse d’inverno delle specialità strumentali che si è svolta nei giorni scorsi a Lamezia Terme, promossa dal liceo Campanella diretto da Giovanni Martello in collaborazione con l’associazione culturale “Animula” e il coinvolgimento degli istituti comprensivi lametini Perri-Pitagora, Manzoni-Augruso, Nicotera-Costabile, S. Eufemia. La ricchezza e la varietà delle esibizioni degli studenti, dato ancor più rafforzato alla luce della giovane età ed esperienza dei partecipanti, ha contrassegnato la rassegna aperta a tutte le scuole d’Italia, per i solisti e i piccoli gruppi. Una manifestazione – sottolinea il presidente di “Animula” Claudio Fittante – “che ha dato la possibilità a tanti giovani studenti di esibirsi di fronte a studenti e docenti di diverse scuole, di mettere alla prova le competenze acquisite, di confrontarsi e arricchirsi attraverso lo scambio reciproco di pratiche ed esperienze. Una “polifonia”, in tutti i sensi, non solo musicale, che conferma quanto sia indispensabile fare rete tra scuole e territorio per promuovere la cultura musicale. Un evento reso possibile grazie alla fattiva collaborazione dei dirigenti degli istituti scolastici lametini, Teresa Bevilacqua, Anna Primavera, Maria Angela Bilotti e Fiorella Careri, e ai docenti referenti delle scuole ospitanti Giuseppe Rotella, Fabio Sirianni e Vittorio Viscomi, che oltre ad aver seguito le diverse fasi organizzative della rassegna, si sono occupati dell’accoglienza degli studenti e dell’allestimento delle sale dove si sono svolte le esibizio-

e meno denaro, e così via? La risposta sta, in gran parte, nella tecnica; dal greco τέχνη: arte, perizia, saper fare, saper operare. E servono quindi competenze. Il punto è che il mondo, nei secoli, è cambiato moltissimo: le competenze necessarie per vivere “da protagonisti” crescono esponenzialmente col tempo, ed oggi come non mai sono necessarie competenze avanzate, che richiedono prerequisiti non banali e non acquisibili facilmente nell’età adulta, o almeno senza altri prerequisiti. È quindi evidente come, oggi, competenze di base di carattere tecnico/scientifico siano imprescindibili per tutti, qualunque sia il ruolo che si è chiamati a svolgere nella società. Per favorire meccanismi virtuosi che incentivino il progresso, lo sviluppo, il benessere personale e sociale, serve lo sforzo di ogni parte della società. Sfortunatamente, non è così: non oggi, non ancora. Alcuni dati a livello globale (fonte OCSE 2017): • Una percentuale maggiore di donne consegue un titolo di istruzione terziaria, rispetto agli uomini. • Nonostante il divario diminuisca con il livello d’istruzione raggiunto, le donne sono comunque più inattive. Lamezia e non solo

ni, attrezzate nei minimi dettagli per consentire una buona performance ai partecipanti”. Dal dirigente del Campanella Giovanni Martello e da Claudio Fittante un particolare ringraziamento alle scuole provenienti da fuori Lamezia, che hanno sfidato anche il maltempo per consentire ai loro studenti di partecipare alla rassegna: il liceo scientifico “Satriani” di Petilia Policastro, l’istituto comprensivo “Moro – Lamanna” di Mesoraca, l’istituto comprensivo “Pascoli – Aldisio”, l’istituto comprensivo “Casalinuovo”, l’istituto comprensivo “Giovanni Battista Moscato” di San Lucido, l’istituto comprensivo di Maida, l’istituto comprensivo “Sabatini” di Borgia diretti dai rispettivi dirigenti Elio Talarico, Lidia Elia, Concetta Carrozza, Anna Osso, Antonio Carioti e Maria Luisa Lagani con gli studenti accompagnati dai docenti di discipline musicali di ciascuna realtà scolastica. “Un evento musicale che ha messo in moto una sinergia tra le scuole musicali di ogni ordine e grado di Lamezia e dell’hinterland – spiega ancora Claudio Fittante – che proseguirà in futuro con nuovi progetti. Sono già tre gli istituti comprensivi lametini insieme al liceo Campanella ad avere aderito al coordinamento degli istituti primari e secondari di primo e secondo grado ad indirizzo musicale e altre scuole dell’hinterland hanno chiesto di aderire. Intanto si è già messa in moto la macchina organizzativa per la terza rassegna di primavera che vedrà come protagonisti i cori, le orchestre e gli ensemble oltre i dieci componenti. La rassegna musicale primaverile si svolgerà il 20 e il 21 marzo ed è possibile iscriversi fino al 28 febbraio per gli studenti di tutte le scuole musicali d’Italia”.

• Le retribuzioni medie delle donne sono inferiori rispetto a quelle degli uomini – il divario aumenta per le donne laureate. • Le donne iscritte e laureate in settori che garantiscono salari elevati sono molto meno degli uomini (Es.: completano percorsi di informatica/ingegneria il 25% degli uomini, ma solo il 6% delle donne). Norme culturali e preconcetti assorbiti durante l’infanzia influenzano scelte di vita cruciali, e spesso in modo automatico, inconsapevole, o, peggio, passivamente accettato. È come se l’umanità avesse deciso volontariamente di

azzopparsi. Non sarebbe, forse, ora di alzarsi e mettersi a correre? Amate, rispettate la donna. Non cercate in essa solamente un conforto, ma una forza, una ispirazione, un raddoppiamento delle vostre facoltà intellettuali e morali. Cancellate dalla vostra mente ogni idea di superiorità: non ne avete alcuna. Un lungo pregiudizio ha creato, con una educazione disuguale e una perenne oppressione di leggi, quell’apparente inferiorità intellettuale, dalla quale oggi argomentano per mantenere l’oppressione. (Giuseppe Mazzini)

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Associazionismo

Il Club del libro di Andrea Parisi a partecipare tutti coloro che, nell’area della provincia di Catanzaro, amano la lettura e la condivisione delle proprie esperienze letterarie e culturali in genere – occorre però premettere che il Book Club costituisce un movimento culturale spontaneo, dedicato alla critica letteraria ed al piacere del confronto sociale e civile, perseguendo altresì l’obiettivo di diffondere l’interesse e la fruizione delle opere letterarie sui territori lametino e catanzarese, oltre alla divulgazione culturale connessa all’intrattenimento ed alla promozione dei giovani talenti del territorio. Su questi assunti, il club del libro ha deciso di dar vita ad un evento che si terrà presso l’agriturismo “Torre dei Cavalieri”, a Gizzeria. In questa occasione, sarà ospite del Bookclub Claudio Grattacaso, nuovo protagonista della scena letteraria italiana già segnalatosi al premio “Italo Calvino”, che terrà un incontro dedicato alla scrittura creativa; la giornata costituirà una importante occasione di incontro e di apertura al territorio, insieme all’autore Claudio Grattacaso, recentemente ospite del sodalizio letterario lametino in occasione della presentazione del romanzo “La notte che ci viene incontro”, che ha visto la partecipazione di appassionati provenienti da tutto il territorio catanzarese. Concludiamo con il “libro del mese”, la cui scelta è caduta su “Via dall’Aspromonte” di Pietro Criaco: vi aspettiamo al Qmè di Lamezia Terme il 10 marzo.

Scrive Umberto Veronesi: “…Uno degli elementi più importanti per mantenersi in forma è l’attività fisica. Probabilmente l’esercizio fisico non è condizione necessaria e fondamentale per raggiungere la longevità, ma può aiutare a mantenere il tono dei muscoli, la funzione delle articolazioni e la respirazione. Uno degli esercizi migliori è camminare. L’andatura costante e regolare per almeno venti minuti ogni giorno, ovvero una passeggiata normale, protegge il cuore e riduce il rischio di sviluppare alcuni tumori. E i polmoni? Anche loro stanno meglio, perché la respirazione resta ampia e efficace”. E il cervello? Bisogna mantenerlo sempre allenato. Il prof. Giancarlo Comi, Direttore del Dipartimento Neurologico dell’Istituto di Neurologia Sperimentale (INSPE) presso l’Istituto Scientifico San Raffaele, di Milano, ha dichiarato: “più la nostra vita è ricca di relazioni, emozioni, contatti, migliore e l’efficienza del nostro cervello”. Per questo, spiega, “dobbiamo prendercene cura, conducendo una vita attiva e ricca di stimoli, adottando un’adeguata alimentazione e facendo dell’attività fisica. Ogni volta che facciamo attività fisica è come se spalmassimo un balsamo di giovinezza sul cervello”. Dunque, camminare fa bene al corpo e alla mente, ma c’è un esercizio fisico ancora più salutare del semplice camminare: la danza. Qualunque sia il genere, la danza è un esercizio fisico adatto a qualsiasi età, ma i ricercatori della Washington University School of Medicine hanno scoperto che la danza più benefica è il tango argentino. La particolare modalità tecnica di esecuzione dei passi di tango obbliga il ballerino a migliorare la consapevolezza e il controllo della propria corporeità. Inoltre, la forte connessione tra l’intenzionalità di compiere un preciso movimento e la sua esecuzione con il corpo fanno si che vi sia un progressivo e costante miglioramento della postura e della qualità del movimento. “Adatto a tutti, va ad agire positivamente sulla sfera fisica, psicologica e relazionale” – dicono all’ospedale San Giuseppe di Milano, che l’ha introdotto come terapia nella riabilitazione di diverse patologie. La sua specifica componente musicale, caratterizzata da percussioni mediobasse, è in grado di attivare contemporaneamente le aree cerebrali deputate alla coordinazione, all’equilibrio e alla memoria”.

e icol e d e e ri nell e libre e ll in e ne e on-l h anc

Antonio Cittadino • Il Tango e i suoi Labirinti

Luca Francesco Giacobbe • Rêverie - Tratto da una storia falsa

Il BookClub “LectorInFabula” è un gruppo di lettura e critica letteraria attivo da due anni, con l’obiettivo di realizzare la propria principale ragione d’essere, e cioè diffondere l’interesse e la fruizione delle opere letterarie sui territori lametino e catanzarese. Tra le tante attività in cantiere per celebrare il proprio secondo compleanno, ha dato vita ad una importante ed innovativa iniziativa, denominata “Il libro sospeso”. Il progetto trae ispirazione da un’usanza sociale della tradizione napoletana, quella del “caffè sospeso”, per la quale un qualsiasi avventore di un bar paga un caffè espresso a beneficio di uno sconosciuto, che potrà usufruirne a piacimento e ad insaputa di chi lo ha offerto, nel corso della giornata. Il Book Club ha, quindi, dato vita ad un’iniziativa simile nello spirito, per valenza sociale e sforzo culturale e divulgativo, concretizzato mediante l’acquisto di un libro a cura di ogni socio del club – scelto tra quelli letti e discussi durante i vari incontri tenutisi presso il Qmè di Lamezia Terme – per farne dono ad un potenziale lettore che, lasciando i propri dati presso la libreria Mondadori di corso Giovanni Nicotera a Lamezia Terme, potrà ritirarlo gratuitamente presso detta libreria. L’iniziativa vuol rappresentare un’occasione per diffondere la cultura letteraria ed ampliare la partecipazione alle iniziative di “LectorInFabula”, recentemente protagonista di gemellaggi con altri gruppo di lettura calabresi e con in serbo altre iniziative volte alla realizzazione della propria “mission” costitutiva. I testi a disposizione di coloro i quali vorranno fruire (liberamente e senza assumere alcun obbligo) del “libro sospeso” a partire da giorno 1 febbraio sono: “Vinpeel degli Orizzonti” di Peppe Millanta, “La resistenza del maschio” di Elisabetta Bucciarelli, “Giallo banana” di Giovanni Di Giamberardino e Costanza Durante, “La notte che ci viene incontro” di Claudio Grattacaso, “Un romanzo inglese” di Stephanie Hochet” ed “Il conto delle minne” di Giuseppina Torregrossa”. Continuando nella descrizione delle attività in serbo per i festeggiamenti del secondo anno di attività - cui sono invitati

€ 10,00 Via del Progresso - Lamezia Terme • 0968.21844

€ 10,00

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LA CALABRIA, UNA TERRA DA AMARE

SIMPOSIO ALLA CALAB R E S E Ginevra dell’Orso

LA SACRALITÀ DEL CIBO Uno tra gli aspetti che maggiormente si nota quando arrivi in Calabria è il rapporto che le persone hanno con il cibo. È impossibile non farci caso, specialmente se si viene da una città come la mia, Milano, in cui i pasti vengono consumati spesso in piedi, e ciò che si valuta maggiormente è che siano leggeri, veloci da mangiare e preferibilmente anche belli da vedere. Appena invece entri a contatto con certi luoghi, che in Calabria sono praticamente sparsi in ogni angolo della regione, ci si addentra in una specie di misticismo, di devozione, non solo al cibo in sé, ma anche e soprattutto alla preparazione, al convivio, e al significato che questo rappresenta. Il cibo è ancora visto come un elemento sacro della quotidianità, e non come una prerogativa alla sopravvivenza. C’è la scelta degli ingredienti, meglio se raccolti con le proprie mani, o che arrivano dall’orto della nonna. C’è la cultura delle stagioni, consolidata dall’attesa, dalla pazienza e dalla certezza che ogni mese la terrà offrirà qualcosa di nuovo, di spontaneo, e di sicuramente buono. Arrivano i mesi delle erbette, poi quelli dei funghi, delle olive, dei cedri o del finocchietto selvatico. Ogni scusa è buona per mettersi a tavola e dare inizio a un vero e proprio simposio contemporaneo. LA TAVOLA È SEMPRE RICCA Certamente questo modo di fare ha radici lontane, millenarie, quando ancora la ritualità del mangiare era riservato a pochi, e per questo assumeva ancora più importanza. Oggi, nonostante il benessere, il

ritrovarsi attorno a un tavolo addobbato a festa, è ancora uno tra i momenti più importanti, e felici, della giornata. Mi è capitato tantissime volte di andare a trovare alcuni amici, molto spesso conoscenti, e senza preavviso: e ogni volta mi sono imbattuta in situazioni grottesche, in cui andarsene senza aver accettato qualcosa da bere o da mangiare, sarebbe equivalso a un affronto senza eguali! Ed è proprio nel momento dell’accettazione, che inizia la festa: non solo per l’invitato, ma anche per il padrone di casa. E’ sufficiente accettare qualche oliva schiacciata appena preparata, o un bicchiere di vino novello, e all’improvviso la tavola diventa un brulicare di pietanze di ogni genere. Carciofini selvatici, pomodoro secchi, melanzane sottolio, capicollo, formaggi di ogni tipo e stagionatura. E siamo solo all’antipasto! Non è improbabile che mentre lo si degusta, in religiosa estasi, i padroni di

casa improvvisino un primo, o un dolce, o chissà cos’altro, come se quello che già stai mangiando non fosse sufficiente. Perchè per i calabresi non è mai abbastanza, non tanto per la quantità, quanto per il poterti offrire tutto ciò che hanno. Certo, si potrebbe obbiettare che il risultato di questa generosità è poi visibile sulla bilancia: ma quelli sono i chili della serenità, del convivio, del piacere, e come tali vengono legittimati da tutti! NUTRIRE È AMARE Alla fine, è sempre intorno alla tavola che si rafforzano i rapporti, che si creano legami spesso eterni e fatti di profonda fiducia; del resto, nutrire una persona è un grande atto di amore, è un modo primordiale per dimostrare un sincero interesse verso l’altro, e verso se stessi. In questa terra così selvaggia, ma così ricca e generosa, è impossibile non sentirsi profondamente amati. E amare diventa così facile...


Rubrica di Antonio Saffioti totosaff@gmail.com

L’uccisione del Maiale (U Puarcu) di Antonio Saffioti Alcune settimane fa ho visto il film d’animazione “La fattoria degli animali” (Animal Farm) del 1954, basato sull’omonimo romanzo di George Orwell. Orwell, riflette sugli eventi che portarono alla Rivoluzione russa e successivamente all’era staliniana dell’Unione sovietica. L’autore, un socialista democratico, fu critico nei confronti di Stalin e ostile allo stalinismo, riteneva che l’Unione sovietica fosse divenuta una dittatura brutale, edificata sul culto della personalità e retta da un regno del terrore (Posizione che anch’io condivido). Il romanzo è ambientato in una fattoria dove gli animali, stanchi dello sfruttamento dell’uomo, si ribellano. Dopo aver cacciato il padrone, decidono di dividere il risultato del loro lavoro seguendo il principio «da ognuno secondo le proprie capacità, a ognuno secondo i propri bisogni». Il loro sogno fallisce perché i maiali, gli ideatori della “rivoluzione”, prendono il controllo della fattoria, diventando sempre più simili all’uomo. Gli animali così rovesciano il regime e Napoleone, il capo dei maiali, viene ucciso con gli altri maiali nell’attacco dopo una lapidaria citazione: “Padroni maiali, domani prosciutti”. Ho fatto questa deviazione cinematografico/letteraria perché a mio avviso l’uccisione del maiale è tradizione, è storia, è cultura popolare a 360 gradi e non solo, oltre ad essere un vero e proprio rito liberatorio. La sua uccisione costituiva sempre un giorno di festa (Come per gli animali di George Orwell) poiché intorno ad esso si riunivano tantissimi amici e parenti, perché uccidere un maiale significava preparare la provvista di un anno intero. Del maiale veniva utilizzato tutto: carne, intestini, e persino i suoi peli (setole) impiegati per fare pennelli. Il tipico detto popolare “Du puarcu un si jètta nènti (“del maiale non si butta via nulla”) sta a indicare che durante tutta la fase dell’uccisione e della macellazione si trae qualcosa di utile da ogni parte dell’animale. Il maiale veniva acquistato nelle fiere del circondario dove si radunavano molti commercianti di animali che vendevano gli animali soprattutto a gente di campagna che aveva la possibilità di allevare il maiale nel porcile; il piccolo maialino ( rivuatu ) veniva allevato sino a quando raggiungeva un peso tale da poter essere ucciso. Per lo più gli veniva dato da mangiare le rimanenze del pranzo dei contadini (“brodaglia”) e con castagne e ghianda. Si cominciava ad ucciderlo nei mesi più freddi e si andava avanti fino a tutto il mese di febbraio a secondo il peso che il maiale aveva raggiunto, doveva superare il quintale e trenta chili altrimenti se era di peso inferiore non si otteneva molto grasso, cioè strutto allora molto usato per condimento quindi più il maiale era grasso e meglio era.

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I preparativi per l’uccisione del maiale avvenivano due giorni prima avvicinando per prima la legna macinando oppure pestando il sale che allora veniva comprato in grosse pietre macinandolo con due piccole mole chiamate “mulinìallu” oppure pestato dentro un mortaio “murtàru” con una pietra oppure con un pistello di ferro “pistùni”. Si provvedeva ad affilare i coltelli, preparare la corda col cappio “u gambìallu `ccu Ila corda” un arco di legno dove veniva appeso il maiale per poterlo sezionare. La mattina dopo già verso le quattro del mattino davanti al portone si provvedeva ad accendere il fuoco con sopra “`a quadàra” la caldaia per far bollire l’acqua per la pelatura delle setole del maiale. Quando questa era in ebollizione si prendeva una balla di paglia ponendola nelle vicinanze del fuoco e con la corda preparata con il cappio si andava a prelevare il maiale che vedendo quella massa di persone spesso si impauriva rendendo più difficoltosa tale operazione che consisteva infilargli quel cappio in bocca da far presa “alli scaglìuni” grossi denti come i canini e quando la corda avrebbe fatto presa al posto giusto colui che l’aveva infilato tirava e altri di dietro spingevano così da portarlo dove era collocata la balia di paglia e rovesciarvelo sopra una volta che era posto lì sopra quattro o cinque persone dopo aver legato le zampe a mazzo provvedevano a tenerlo affinché si potesse uccidere. Una donna della famiglia in una “limba” o altro recipiente dove aveva messo un pugno di sale dentro era pronta a raccogliere il sangue dell’animale da cui in parte veniva ricavato “u sangìari” cioè sanguinaccio e così tutto era pronto per incominciare, nel frattempo tra il vociare e tra il chiarore del fuoco acceso diversi ragazzi delle vicinanze erano accorsi e assistevano ammutoliti quando il coltello affondava nella gola dell’animale e incominciava ad urlare e strepitare. Tutti quei ragazzi presenti quasi tifavano per il maiale affinché non morisse e succedeva allora che qualcuna delle donne li invitava ad allontanarsi dicendo che finché era presente qualcuno che gli dispiaceva l’animale non moriva e allora i ragazzi malinconicamente si allontanavano sentendo le urla da una certa distanza. Quando il maiale aveva esalato l’ultimo respiro veniva mollato dalle prese delle corde e sistemato più comodo sulla balla di paglia veniva coperto da un sacco impregnato di acqua bollente e sul quale con i “pignatìalli” recipienti di terracotta con manici ne veniva versata dell’altra “a ffilìari” cioè uniformemente e quando le setole erano ammorbidite a dovere con i coltelli affilati si provvedeva allu “pilàri” cioè a rasarlo e quando quest’operazione era ultimata da una metà si girava dall’altra terminata questa fase si provvedeva a mettere “u gambìallu” alle gambe di dietro e veniva

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appeso “allu passàmuru” lavato ben bene con acqua fresca sale e limone si provvedeva a sventrarlo e spaccarlo in due dopo averlo decapitato dopodiché si portava in casa si tagliavano dei pezzi di carne intorno alla scannatura quelli cioè “insanguin’ati”5 qualche pezzetto di carne grassa e un pò di sangue mettendola a cuocere mentre si tagliavano pure delle fettine di fegato da friggere in padella così da preparare da mangiare per tutti coloro che avevano aiutato all’uccisione stessa. Alcune donne si recavano a lavare gli intestini che poi servivano come involucro esterno per le salsicce e i salami. Gli uomini nel frattempo, dopo aver selezionato le varie parti del maiale, iniziavano con i coltelli a tagliuzzare la carne che non era destinata al grasso e ai capicolli, a piccoli pezzettini e la deponevano nella “majilla”, grosso contenitore in legno fatto quasi sempre artigianalmente dove la carne veniva impastata per bene a mano e veniva mescolata con conserve caserecce e con una quantità ben definita di sale. Dopo aver lasciato riposare il tutto per qualche ora, dopo aver predisposto gli intestini del maiale ed aver pranzato, fino al tardo pomeriggio, in un clima di allegria e di festa si passava all’operazione più delicata: riempire gli intestini e fare così le salsicce e i salami. Una persona aveva il compito di riempire la “macchinetta per le salsicce” con la carne, un altro era addetto a girare la manovella della macchinetta, un altro ancora a riempire le salsicce e le soppressate mentre alle donne solitamente veniva affidato il compito di legarle a collana con lo spago e pungerli, in modo che tra uno spazio e l’altro non rimanesse aria. In serata veniva messa sul fuoco la “quadara”. Durante la laboriosa fase di preparazione la pentola veniva letteralmente foderata di grasso macinato. In tal modo esso si scioglieva con aggiunta di poca acqua leggermente salata. Quando il grasso era parzialmente sciolto si disponevano, con particolari accorgimenti in relazione alle dimensioni ed al tipo di carne, le costine e le parti meno nobili del maiale (collo, guancia, lingua, muso, orecchie, gamboni, pancia, rognoni, cotenna “frittule” (la pelle), le “ossa” del maiale e tutte quelle parti che non possono essere consumate in altro modo) e si lasciavano bollire a fuoco lentissimo nel grasso per tutta la notte, aggiungendo solo sale e rimescolando frequentemente. Con questo procedimento la carne si impregna del sapore del grasso e diventa molto tenera, rendendo edibili anche le parti cartilaginee. Infine si ricavavano pure “i risìmogli” rimasugli, tutto quello che rimaneva sul fondo del pentolone, come piccoli pezzi di carne, cotenna e sugna. Grazie alla conservazione sotto lo strato di sugna, “i risìmogli” potevano essere successivamente consumate in diversi modi. Alcune preparazioni tipiche sono: “a pulenta ccu brocculi e risimogli” (che si consuma durante l’inverno), “a pitta ccu lli risimogli” e “a pitta china ccu ricotta, ova e risimogli” una sorta di pizza chiusa in crosta che costituisce anche il piatto tipico della scampagnata del Lunedì dell’Angelo. Poi si “criscia u grassu” cioè si ricavava “a sugna” lo strutto, prodotto alimentare animale ottenuto per fusione dei grassi presenti nel tessuto adiposo del maiale, comunemente utilizzato per la frittura di pietanze, per l’apporto di grassi negli impasti e nella panificazione oppure come condimento. Dopo avere rimosso la cotenna dal grasso era sufficiente tagliarlo a pezzetti insieme alla sugna e agli altri ritagli di grasso di recupero dal maiale. I pezzettini di grasso venivano poi messi a cuocere a fuoco lento così da fondere il grasso e consentire l’evaporazione della poca acqua contenuta. Durante la cottura, per effetto della temperaLamezia e non solo

tura, i pezzetti di grasso rilasciavano “u grassu”, che veniva progressivamente rimosso e deposto ancora caldo nei contenitori “buccacci” che servivano per la sua conservazione. La mattina seguente, si preparava “U suzu”, cioè la gelatina di maiale che si otteneva, utilizzando le parti meno pregiate del maiale, che venivano disossate e bollite, e seguendo una particolare procedura, rimesse a bollire con l’aggiunta di coppini del brodo rilasciato dalla carne stessa e aceto di vino bianco. La gelatina di maiale alla calabrese si ottiene utilizzando le parti meno pregiate del maiale, che vengono disossate e bollite, e seguendo una particolare procedura, rimesse a bollire con l’aggiunta di coppini del brodo rilasciato dalla carne stessa e aceto di vino bianco e deposto ancora caldo nei contenitori “buccacci” che servivano per la sua conservazione. Quando s’ammazzava `”llu puarcu” ai parenti ed agli amici più intimi era in uso “mu si cci mandàva Ila partènza” cioè una porzione di carne sia cruda che cotta che consisteva: cruda era così composta un pezzo di filetto o logna una fetta di fegato e un pezzo di carne un pò grassa con tutta la cotica, mentre dopo cotta: una frittola “i `nsinghi” cioè un misto un pezzo di trippa un pezzo di polmone un osso con qualche pezzetto di magro e un pezzo di frittola `ntacchi `ntacchi” ossia dalla parte della pancetta dove era mista grasso e magra. Dopo aver tolto tutto ciò il resto veniva lavorato in tanti modi diversi e conservati nei vari modi in uso allora e per tutto un anno quando le salsicce quando le sopressate quando le pancette e i prosciutti chiamati “vufhjjulàra” quando “a carni d’u salaturu” consumata in genere con le verdure e con le fave e i piselli come pure i garrùni e Ili fhrittùli `ntacchi `ntacchi quandu u suzu e infine i capicolli e suprissàti d’u culàrinu cioè quelle più grosse ottenute dall’intestino retto, questi ultimi salami venivano consumati per lo più nelle occasioni speciali nelle tavolate di inviti e in occasione di fidanzamenti. Si andava a costituire, in pratica, una vera e propria riserva di carne che bastava per tutto l’anno. L’uccisione del maiale, in Calabria, era un vero e proprio avvenimento collettivo e allo stesso tempo propiziatorio, durante il quale il pericolo delle forze della natura veniva imprigionato in un rito simbolico e culturale. In passato, infatti, il maiale calabrese era detto il nero, appellativo che sta a rappresentare non solo il colore, ma, al pari del cinghiale, anche lo stato selvaggio nei boschi. Il giorno della macellazione del maiale, risorsa di lusso per molte famiglie, ancora oggi nei paesi di montagna sopravvive un’antica usanza di fare la serenata, festeggiando con amici e parenti l’assaggio delle rinomate “frittuli”. Si lasciano le parti più nobili per la conservazione nei vasi con la sugna. In queste occasioni anticamente il padrone di casa faceva assaggiare diversi pezzi di carne agli ospiti ed ogni pezzo aveva un significato differente, ad esempio la coda del maiale si dava alle donne incinte per propiziare la nascita di un figlio maschio. Ancora oggi è molto diffuso un antico proverbio calabrese sul maiale: “Cu si marita è cuntentu nu jornu, cu ammazza u porceju è cuntentu n’annu” (Chi si sposa è contento un solo giorno, chi ammazza il maiale è contento un anno intero). Le attuali leggi purtroppo hanno vietato l’uso dell’uccisione del maiale in prossimità dei centri abitati e questa tradizione si è quasi persa e anche la carne, come dicono le persone più anziane, non ha lo stesso sapore di un tempo. Questo è dovuto all’alimentazione del maiale e a come si alleva ora, a differenza di come lo si faceva nei tempi passati. Prima era una esigenza, ora non lo è più.

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Cultura

“La voce della speranza” di Pino Caimi di Filippo D’Andrea Quando Pino Caimi mi ha chiamato per presentare il suo libro “La voce della speranza. Raccolta di poesie dal sapore antico” (Gigliotti Grafiche, Lamezia Terme 2018), sapendo che era appena uscito da un brutto periodo di malattia, mi sono rallegrato ed emozionato nello stesso tempo. Rallegrato per sapere che il peggio è passato, ed emozionato perché coglievo in questo invito un significato di affetto e di stima, confermati nel tempo. Ci conosciamo da quasi quarant’anni, ed oltre ad esserci una lontana parentela acquisita attraverso mia sorella Antonella e suo fratello Ennio (cognati in quanto sposati ad un fratello ed una sorella), vi sono anni di docenza nello stesso istituto superiore. Pino ha voluto prima incontrarmi per raccontarmi tante cose, sia in merito al libro che alla sua vita. Da qui ho deciso di avere uno sguardo antropologico per dare una lettura interiore ai due convegni di presentazione. Come metodologia di approccio ho scelto quella di raccogliere, come i “zirangùli” che restano dolci e solitari nella vigna autunnale dopo la vendemmia, le liriche o addirittura i singoli versi che le compongono che mi colpivano profondamente, sia nel significato che nello stile e nella forma estetica. Ne libro vi sono anche delle poesie in dialetto che evidenziano una vicinanza, un calore, una familiarità culturale piuttosto marcati. E di queste, “’U cicatu” è particolarmente acuta. Un vecchio che “camminava come se vedesse” e che indica “le luci del cuore” per cogliere “la verità che sta tutta intorno”. Ma anche “E s’appizzzanu cumu do lampàri”, alludendo agli occhi del figlio appena vedono il padre che lo attende, col profumo della dolcezza e dell’ulteriorità, all’uscita della scuola, e riesce ad afferrare, come una saetta, il meraviglioso mistero della paternità. Colgo un’intuizione profonda che svela nella poesia “’E pparole che non tengo”, riferendosi al limite a volte struggente della parole per comunipag. 22

care l’amore infinito tra uomo e donna. La copertina disegnata da Maurizio Carnevale, che ha anche aggiunto la sua chiave di lettura, offre l’evidente rapporto tra letteratura ed etica di cui è impastata la vita del poeta della solidarietà, Pino Caimi. Un uomo tra la sensibilità lirica e l’impegno nell’AVIS, che ha rifondato nella sua città e coordinato per diversi lustri. “Quale piacevole malattia: vedere una pagina vuota prendere vita al tocco del mio pensare” esclama l’autore all’inizio del libro. E un’apertura di spontanea semplicità, valore che gli calza perfettamente. Un uomo fine, garbato, modesto, acuto, signorile. Un poeta che ha avuto l’ardire di rendere sapienti anche i numeri, di cui è professionista sia come docente che commercialista. La sua poesia “La ballata dei numeri finiti” è un manifesto di questa missione culturale originale. Sposalizio degli estremi, razionalità pura e liricità pura. Un incontro che Pino Caimi riesce a celebrare, rivelando che vi è una zona di coabitazione che rende relativa la dicotomia storico-intellettuale, anzi, focalizzando l’armonia dei numeri, la introduce nella sapienza dell’universalità, come essenza e sostanza. Egli, corregionale di Pitagora, il fondatore della matematica e della parola che la definisce, si rivela degno suo figlio non solo geografico ma anche scientifico e letterario. Leggendo con attenzione le poesie di Pino

Caimi ho chiosato alcune parole chiavi che tracciano una mappa di temi che rivelano la sua sensibilità e visione delle cose. Le mani amorose, sofferenti e tese verso l’altro, tornano spesso nella sua lirica e si offrono chiave ermeneutica della sua perseverante testimonianza di gratuito volontariato nel campo della raccolta e donazione del sangue. La natura che incanta: la luna, il sole, le stelle, il cielo, il parco ecc. costituiscono uno delle figure importanti del suo mondo. La dolcezza della femminilità si affaccia nella sua scrittura realizzandosi con le figure di donna: Rosa, Laura, Anna ma soprattutto Aurora, non esplicitata ma intuita con straordinario impeto. L’immagine del cavaliere, nella veste di crociato, narrato, o col nome Natale, esprime la preferenza dell’autore verso il valore della nobiltà d’animo e dei sentimenti, degli alti ideali come tratto che configura il livello alto della personalità umana. La categoria dell’Altrove, convincimento spirituale di Pino Caimi, si intuisce con le espressioni: “altro sentire”, “novella esistenza”, “dove principia la vita”, “per altre vie”. Dunque, affiora dalle sue poesie la sua scelta di fede, il credere nell’esistenza di una Vita oltre questa vita. E non è infondato il fatto che la sua azione solidale sia sollecitata da un motivo spirituale che la rende “sacra”: una sacra solidarietà. Cioè il convincimento, pur se magari non esplicito, di vivere questo suo impegno nell’AVIS come restituzione del bene e della bellezza che ha ricevuto nella sua densa esistenza, a cominciare da una bella famiglia, una affermata professione, una personalità stimata dalla comunità e stretta da tanta amicizia, senza dimenticare i genitori ed i numerosi fratelli di valore. In conclusione, diciamo che in queste poesie c’è tutto il mondo dell’autore: una finestra sull’affresco dei suoi sentimenti, una mappa morale, uno sguardo psico-

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Rubricando di… psicologia

Aspetti psicologici del cibo: tra Eros e Thanatos ultima parte

di Maria Teresa Di Benedetto Per descrivere tale processualità dinamica è necessario anche in questo caso chiarire che cosa sono le pulsioni secondo la Klein. In continuità con Freud, ma anche con accentuazioni intense, considera le pulsioni come l’espressione mentale della fantasia e questa, fin dalla nascita, è portatrice di vita e soprattutto di distruttività. Infatti il bambino nasce destrutturato, il conflitto intenso tra pulsioni di vita e pulsioni di morte ha un carattere per certi versi costituzionale e il bambino deve far conto con queste fantasie inconsce che, essendo laceranti, lo portano, sia pure in modo primitivo, a costruirsi un Io rudimentale, in grado di utilizzare meccanismi di difesa per far fronte alla distruttività da un lato e per proteggere, dall’altro, la sua spinta verso la vita . Le cure materne, come vedremo, sono fondamentali, ma altrettanto fondamentale è il modo in cui il bambino legge soggettivamente tali attenzioni sulla base dell’investimento pulsionale. Vedremo, perciò, un vero e proprio spostamento da un modello intrapsichico ad un modello interpsichico e oggettuale, perciò, se Freud considerava fondamentale la pulsione, nella teoria dell’autrice viene accentuata la relazione con l’oggetto, inteso come qualunque cosa, interna o esterna, animata o inanimata, possa portare al soddisfacimento delle pulsioni. L’oggetto per la Klein non è reale, cioè oggettivamente percepito, ma “fantasmatizzato”, e dunque soggettivamente percepito, e la mente diventa un “contenitore di oggetti”che, essendo investiti pulsionalmente, sono “vivi”, e quindi lo stesso mondo interno del bambino è dotato di vivacità ed è unico, in quanto auto-costruito dal soggetto stesso. Da qui l’importanza nella motivazione del comportamento verso l’oggetto , in quanto ciò che muove l’azione è la qualità dell’oggetto, la quale però dipende da come il soggetto si rapporta con esso. Scopo di uno sviluppo sano e normale, durante questo primo anno, è quello di passare da un oggetto fantasma, soggettivamente percepito, a un oggetto il più possibile reale, oggettivamente percepito, e dall’equazione simbolica alla formazione del simbolo. L’individuo alle prese con l’incontro con il primo oggetto, il seno, sulla base della suddetta equazione simbolica lo interiorizza e lo identifica come fonte delle cure materne: questo seno, però, non è minimamente simile al seno reale, ma è fantasmatizzato in quanto investito dalle pulsioni, sia libidiche che aggressive. Dal momento che il bambino non è ancora a tal punto sviluppato da poter reggere la presenza di un oggetto sia buono che cattivo, attraverso il meccanismo della scissione lo scinde in due oggetti, il seno buono, gratificante e fonte di nutrizione, e il seno cattivo, frustrante e fonte

di distruzione e di continui attacchi. Dal momento che, inoltre, essi sono stati introiettati all’interno del bambino, ne consegue che tramite il meccanismo dell’identificazione il bambino scinderà anche il Sé in Sé buono e Sé cattivo. Essendo questi oggetti percepiti dal soggetto come vivi ed essendo presenti nella sua mente, ne consegue la vivacità del mondo interno sopra accennata, vivacità che è data dall’interazione tra questi oggetti, da cui scaturiscono un insieme di dinamiche: l’oggetto cattivo diventa fonte di angoscia, in quanto può con la sua aggressività sferrare attacchi sia contro il seno buono che contro il Sé buono, e lo stesso vale per il Sé cattivo. Con lo svezzamento, che è il primo evento realmente traumatico, in quanto consiste nella prima separazione reale, fisica, dalla madre, il bambino passa da un oggetto parziale (buono o cattivo) ad un oggetto totale (buono e cattivo), cioè consapevolizza che il seno buono ed il seno cattivo sono in realtà lo stesso oggetto (integrazione). E’ qui che la Klein analizza la fase precoce della pulsione di vita e della pulsione di morte . Quando entra “in scena” la pulsione di morte, il seno diventa l’oggetto cattivo e quindi l’alimentazione, simbolicamente, assume le caratteristiche della distruttività; al contrario, il seno buono, assume una dimensione che equivale ad una spinta verso la vita. In realtà, sottolinea la Segal, commentatrice più autorevole del pensiero kleiniano, il bambino, brama di essere come l’oggetto, quindi lo desidera a tal punto che la bramosia, in quanto genera l’impossibilità di avere l’oggetto tutto per sè, provoca ogni sorta di distruttività. Simbolicamente il bambino attacca l’oggetto con tutta la sua fantasia e volendo essere come l’oggetto, sperimenta precocemente l’esperienza dell’invidia distruttiva. L’invidia nasce, a differenza della gelosia che riguarda più oggetti, dalla fantasia inconscia di sostituirsi al seno materno, cosi, la fonte di nutrimento, viene totalmente distrutta dall’invidia e in tal modo non ci può essere sviluppo, in quanto il bambino potrebbe restare relegato a questa fantasia inconscia in cui il nutrimento, nel suo significato più profondo, non è più sperimentato. É possibile che accada questo? Se Freud aveva tolto le ultime illusioni sull’innocenza del bambino, la Klein acuisce questa dimensione sostenendo che il bambino ha questa invidia precoce distruttiva che potrebbe annientarlo. L’invidia, cosi, si configura come ostacolo allo sviluppo, come forte ambivalenza verso il nutrimento o addirittura,potrebbe portare a considerare quest’ultimo come fonte di pericolo e di minaccia in quanto è il bambino stesso che proietta sull’oggetto questa emozione inconscia fantasmatica.

logico denso di segni, affacci, terrazze che disegnato una personalità dai molti colori, ma in una sintesi unitaria, e con una mente perfetta. La forza del dott. Pino Caimi, espressa nel voler presentare pubblicamente ed in più momenti questo suo libro, lo qualifica come persona di coraggio, ancor più evidente dopo aver appena superato un pericoloso valico carico di grave sofferenza. E’ un poeta che scrive come rifugio, nel desiderio di una dimensione “altra”, di un sogno. Cercatore di una dolce bellezza, dove ogni cosa trova il suo posto, e la vita si rivela perfetta sinfonia. Lamezia e non solo

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La parola alla Psicologa

Il disturbo borderline di personalità di Valeria Saladino Il disturbo borderline presenta delle caratteristiche specifiche piuttosto ben riconoscibili. E’ fondamentalmente un disturbo della relazione, che impedisce al soggetto di stabilire rapporti di amicizia, affetto o amore stabili nel tempo. Si tratta di persone che trascorrono delle vite in uno stato di estrema confusione ed i cui rapporti sono destinati a fallire o risultano emotivamente distruttivi per gli altri. Le persone affette da disturbo borderline di personalità trascinano gli altri, parenti, amici e partner, in un vortice di emotività, dal quale spesso è difficile uscire, se non con l’aiuto di un esperto. Questi soggetti, infatti, sperimentano emozioni devastanti e le manifestano in modo eclatante, drammatizzano ed esagerano molti aspetti della loro vita o i loro sentimenti, proiettano le loro inadempienze sugli altri, sembrano vittime degli altri quando ne sono spesso i carnefici e si comportano in modo diverso nel giro di qualche minuto o ora. L’aspetto più evidente e preoccupante del disturbo borderline è che presenta sintomi potenzialmente dannosi per il soggetto (abbuffate, uso e abuso di sostanze, guida spericolata, sessualità promiscua, condotte antisociali, tentativi di suicidio, ecc.) e si associa a scoppi improvvisi di rabbia intensi. La sintomatologia del disturbo è caratterizzata da: • La paura dell’abbandono. Le persone con disturbo borderline hanno il terrore di essere abbandonati o lasciati soli. Anche cose innocue come rientrare a casa tardi dal lavoro o andare via per il fine settimana può innescare in loro una paura intensa. Per questo compiono sforzi incredibili per tenere vicina l’altra persona. • Relazioni instabili. Le persone con disturbo borderline tendono ad avere relazioni intense e di breve durata. Si innamorano in fretta, investono nel rapporto e nell’altra persona, per poi essere rapidamente delusi. Le relazioni sono vissute come perfette o orribili, senza sfumature nel mezzo. • Immagine di sé poco chiara o instabile. Il senso di sé è tipicamente instabile. A volte ci si sente bene con se stessi, ma altre volte ci si odia, o si arriva a vedere se stessi come il male. Non si ha una chiara idea di chi si è o di quello che si vuole dalla vita. Di conseguenza, si cambia spesso lavoro, amici, amanti, religione, valori, obiettivi, e anche l’identità sessuale. • Comportamenti impulsivi autodistruttivi. Le persone con DBP mettono spesso in atto comportamenti dannosi, ricercando forti sensazioni, soprattutto quando sono sconvolte. Si possono fare spese folli, si può mangiare compulsivamente, guidare incautamente, rubare, avere rapporti sessuali a rischio, o esagerare con droghe o alcool. Questi comportamenti pericolosi aiutano a sentirsi meglio sul momento, ma a lungo termine possono rappresentare un problema. • Autolesionismo. Ideazione suicidaria, tentativi di suicidio e autolesionismo sono comune nelle persone con disturbo borderline. Chi soffre di DBP può pensare al suicidio, tentarlo, pag. 24

minacciare di farlo o concretizzare il tentativo di suicidio. Gli atti di autolesionismo includono tutti quei comportamenti che possono arrecare danno (tagli e bruciature) senza intento suicida. • Estremi sbalzi d’umore. Le persone con DBP sono emotivamente instabili e sperimentano frequenti sbalzi d’umore. Passano dall’essere felici al sentirsi scoraggiati in un “battito di ciglia”. Nonostante gli sbalzi d’umore siano intensi, si risolvono abbastanza rapidamente, di solito si tratta di pochi minuti o alcune ore. • Sentimenti cronici di vuoto. Le persone con disturbo borderline spesso parlano di un senso di “vuoto”, un senso di disagio, che si tenta di colmare attraverso le droghe, il cibo o il sesso. Ma nulla è davvero soddisfacente. • Scoppi d’ira. Chi soffre di disturbo borderline può avere scoppi d’ira. Nel momento in cui sperimentano rabbia intensa sono incapaci di controllarsi, urlano e lanciano oggetti. Tale rabbia però, non è sempre orientata all’esterno. Infatti, può essere autodiretta e si può trascorrere molto tempo arrabbiati con se stessi. • Paranoia e perdita di contatto con la realtà. Le persone con DBP sono spesso paranoiche, sospettose e dubitano delle motivazioni degli altri. Quando sono sotto stress, possono perdere contatto con la realtà, e quindi sentirsi annebbiati, distanziati, o fuori dal proprio corpo. Il disturbo borderline di personalità è una psicopatologia che comporta serie problematiche, visto il discontrollo degli impulsi che implica, l’instabilità relazionale, la tendenza a idealizzare e svalutare le altre persone (che sono “bianche o nere”). Spesso si associa a sentimenti di rabbia intensi ed esplosivi, desideri di vendetta, paranoia, depressione anche grave. L’instabilità del tono dell’umore associata comporta spesso la diagnosi (errata) di disturbo dell’umore bipolare, ma vi sono sostanziali differenze tra i due quadri clinici. Il trattamento di questo disturbo prevede necessariamente una psicoterapia strutturata, meglio se di orientamento cognitivo- comportamentale. La relazione terapeutica con il paziente borderline è comunque molto problematica, perché anche in tale contesto si attivano le dinamiche relazionali del paziente, che possono portarlo a idealizzazione del terapeuta (e anche innamoramento), ma anche a repentina svalutazione dello stesso e conseguente interruzione della terapia. Mantenere una continuità terapeutica è quindi molto difficile, sebbene sia necessario per ottenere dei risultati a medio-lungo termine.

Dr.ssa Valeria Saladino

Psicologa Referente per la Provincia di Catanzaro della Società Italiana di Promozione della Salute (S.I.P.S.)

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