lameziaenonsolo novembre 2020 u calendariu lametinu

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to o, idea n i t e lam ri IL ialetto ografia Per d n i a all’A io p t i r t u a l a d o l v l n da ale à de rimo c e stampato so sar p s l a i c n a i t i dell’ endi lopol parte E’ in v ancesco Po a n O u i 5 €, TRAN da Fr d S è I o M t U O cos RSO N MISTRAN a! - Il t O a t C i A m NU AR ne li RMIN A CORSO MI E edizio E a C n u R O A C AR TERM iè I ’ v N A I N D e I t E a M A Z t ZZ ME DOM PPE CER Affret O PIA NALE LA SICO OLA N E C S A I F U D S I E LA G COLA STE DA TRIBU CEO CLA PERI O C I ED EDI GAS O LI A RO CO L A ROSARI E VIA DE I N E M C 44 AS LA DO LA MURA DI SAMBI 68.218 9 O 0 C I O O R ED ALL EDIC A BERNA ONE I Z L A O OT EDIC PREN R E P O, NAND O F E L O TE

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U calendariu lametinu e Francesco Polopoli di Nella Fragale Abbiamo pensato di aprire la rivista all’insegna della cittadinanza linguistica, perché crediamo, come Casa editrice, che il Calendario lametino, da un’idea del carissimo Francesco Polopoli, risponda al bisogno di rafforzare le radici della nostra Comunità.

Francesco, come è nato ’U calendariu lametinu? Vogliamo ricostruirne le tappe di questo progetto insieme ai nostri lettori? Ho sempre avuto un approccio linguistico col dialetto in generale. Col compianto direttore Sesto curai, a ventennio già trascorso, la prefazione dei Modi di dire lametini (1999), il cui metodo lessicografico, pioneristico, di quel periodo, ho poi traslato ad altre esperienze dialettologiche. Penso ai parallelismi che, sottoforma saggistica, feci rilevare tra l’idioma lametino e l’hinterland messinese (Galati Mamertino, Montalbano Elicona), uno dei quali editati su piattaforma on line da Christopher Costanzo in lingua inglese, grazie al nostro storico Vincenzo Villella. La rubrica dei proverbi vernacolari su lameziaterme.it, da me curata per più di cinque mesi, quest’anno, si è inserita su questo filone di idee e passioni: il vernacolo come chiave d’accesso alla comprensione dell’antico, tema su cui vorrei soffermarmi successivamente, dal momento che mi sta a cuore ricordare come persino nella bergamasca, da ex Membro Cultura Istruzione, nel biennio 2004-2005, non solo ho avuto modo di riportare in auge qualche loro fiaba in lingua originale ma mi sono interessato del vernacolo orobico con saggi etimologici su Giopì che, per chi non lo conoscesse, è il periodico del Ducato di Piazza Pontida. Se mi fermo al dicunt, pare che io sia stato il primo meridionale ad essermi cimentato in un lavoro di questo genere: ne sorrido di gioia, per il gusto di aver trapiantato l’anima dei miei studi, ovunque sia stato, compresa la cittadella silana, cui sono legato da amore infinito, dove il mio inserimento comunitario non si è slegato dalle espressioni volutamente apprese e mandate a memoria. Parlo della mia San Giovanni in Fiore, patria d’elezione. Detto questo, vorrei che anche tu facessi un po’ da filo di Arianna, per dire come ci siamo trovati a concordare l’idea di scrivere un calendario insieme, malgrado ci fosse parsa dall’inizio un’impresa labirintica. Beh, io ricordo una nostra conversazione estiva, in pieno caldo, cui sono seguite email tempestive da parte di entrambi per rivedersi su contenuti e grafie dei documenti allegati. Anch’io, Francesco, ho accolto con entusiasmo la possibilità di realizzare un lavoro che in altre aree calabresi è un habitué, come Gizzeria o Cortale, per fare degli esempi immediati. Non ti nascondo che il sudore versato è stato tanto: tuo, sicuramente, ma anche il nostro, nel seguire le rettifiche di volta in volta proposte: sai benissimo che il correttoLamezia e non solo

re automatico è spesso generatore di errori spontanei; se consideri la materia trattata, che è il dialetto, il conflitto, ahimè, si apre facilmente con il PC. Soprassiedo, poi, sulla trascrizione fonetica delle voci dialettali o sulle aferesi di parole troncate ad inizio di parola: diciamo che abbiamo sudato sette camicie in piena canicola agostana. Verissimo, Nella! I limiti del lavoro sono tanti e li abbiamo rilevati sin dall’inizio come punti di forza e di criticità: penso immediatamente al titolo a mo’ d’esemplificazione. In una città triuna come la nostra, perché composta da Nicastro, Sambiase e Sant’Eufemia, vale il principio di raccordo dentro la varietà lessicale (e non solo) del De Vulgari Eloquentia di Dante Alighieri. Non a caso Santo Sesto fa da magistero al riguardo: qualunque suo saggio linguistico, compreso il Dizionario, è accompagnato dall’aggettivo lametino. Ubi maior, minor cessat, allora, chiudendo immediatamente la questione! Il calendario doveva essere “lametino” nella sua destinazione d’impegno, punto e basta! Quanto a “calendariu”, scartando il sambiasino “calandariu” ed il nicastrese “calindariu”, ho bypassato il derby, ricorrendo al latino “calendariu(m)”, perché come radicale è comune ad entrambi. Francesco, una curiosità, prima di andare avanti. Come sei riuscito a confrontarti di volta in volta con un repertorio lessicale così complesso? Intanto, un’educazione familiare bilingue. I miei nonni erano dialettofoni ed i quartieri dove sono vissuti erano miniere esplorative dove tirar fuori facilmente usi, costumi, tradizioni insieme a tutte le loro colorite espressioni. Per non dire che, tuttora, c’è chi continua a porgerci generosamente lo spirito di tempi indimenticabili e mai dimenticati: penso a Salvatore De Biase, Franco Davoli, Francesco Antonio Longo, Luciana Parlati e a quanti Filippo D’Andrea ha antologizzato a presentazione di una ricca coralità pronta alla postmodernità, senza slegarla dalle memorie. “Memoria”, Francesco. Il vocabolo è passato nel linguaggio tecnologico a designare una funzione specifica del computer: per tanti di noi ha questa connotazione semantica. Alla luce dei tuoi studi etimologici, che ci diresti di essa? Ebbene sì, “memoria”, dal greco “mimnésco”, “ricordare”, cioè, indica un valore etico che, detto in sostanza, è quello di mantenere in vita i contenuti del passato; esiste, poi, nella tradizione classica Mnemosyne, nota come madre delle nove Muse, a rammentarci maternamente che le arti hanno il compito di perpetuare la bellezza nel tempo. “Bello da sogno”, allora, mi pare da capire. Ricordo che alla prima del nostro calendario, giorno 16 settembre, in presenza del Sindaco Paolo Mascaro e dell’assessore Luisa Vaccaro, tu abbia presen-

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tato il nostro dialetto con una frase di questo genere, vero!? “Il dialetto è come i nostri sogni, qualcosa di remoto e di rivelatore; è sia la testimonianza più viva della nostra storia che l’espressione della fantasia”: a dire il vero mi sono ripetuto con Federico Fellini. All’interno della cornice di quella sera non ti nascondo di aver seguitato a sognare ad occhi aperti, quando? Nel momento in cui ho avuto sotto mano la prima del Calendario lametino, te lo riferisco a distanza di tempo. Nel mezzo dei preziosi scorci paesaggistici, curati dal tuo garbatissimo staff editoriale, ho visto animare i mesi del futuro anno tra le notizie storiche e quelle riflessioni linguistiche, che ci hanno accompagnato durante tutte le nostre conversazioni estive. C’è un bisogno di raccontare le nostre radici – ci siamo lungamenti detti, ricordi? – e che abbiamo deciso di calendarizzare all’ordine del giorno attraverso la creazione di questo calendario che, altrove, c’è con la straordinaria funzione di animare il futuro della memoria. Quante volte è saltata, inter nos, la parola “cittadinanza linguistica”, come denominatore comune, cui ricondurre quanto abbiamo condiviso idealmente per darlo in seguito alle stampe: vuoi chiarircela meglio? L’educazione alla cittadinanza linguistica è una carta d’identità sociale cui, per anagrafe materna, siamo chiamati tutti per alimentarla. Un battesimo di cura e attenzione attraverso cui passa il seme di quanto può rendere sempre più bello il volto della nostra terra: non è permissibile la formula “in via d’estinzione”, perderemmo la stratificazione socio-culturale della nostra terra e non possiamo permettercelo. Allora, ci sacramenteremo, Francesco, mantenendo il piano “religioso” di questa piacevole chiacchierata. Una curiosità, Nella, come piccola chicca religiosa a margine del nostro scambio di idee. Umberto Zanotti Bianco, nel suo volume “Meridione e meridionalisti”, afferma che fra Salimbene da Parma, cronista del sec. XIII, attribuisce a Federico II di Svevia l’espressione, piuttosto paradossale, secondo cui “Il Signore Iddio non avrebbe menato tanto vanto della sua Terra Promessa, se avesse conosciuto la Sicilia, la Calabria, la Campania e la Puglia”. Nello stesso volume, poi, è riportato – a proposito di tale stereotipo di terra bellissima che il Mezzogiorno si è sempre portato dietro – un proverbio latino, ricorrente nel 1500, che dice: “Regnum Neapolitanum Paradisus est, sed a diabolis habitatus” (trad.: “Il Reame di Napoli è un Paradiso, ma è abitato da diavolacci”) e che connota, grosso modo, tutto il nostro Sud, dalla regione partenopea in giù, Terra bruzia, tutti noi compresi, cioè! Beh, “diavuluni” non siamo, ma “tantu duci ’i sali nemmenu”, mi va di aggiungere a nota, scherzandoci, un tantino! In ogni caso io tengo tanto al nostro idioma, perché lo trovo saporito, restando in tema culinario, e ridendomela sotto i baffi.

Ce lo siamo proprio gustato, per risponderti a tema, curiosa di volta in volta per come avresti costruito ognuna delle mensilità lametine. Il proverbio del mese, che hai avuto agio di menzionare di volta in volta, le brevi conversazioni in dialetto, le voci eurolametine per far cogliere le corrispondenze tra il nostro dialetto e i linguaggi comunitari, gli arabismi, le notizie storiche condensate in presentazioni alquanto accattivanti danno un taglio didattico a questo appetitoso menù: qui sta la differenza, lasciamelo dire! Quanto hai sviluppato non ha confronta a parità di prodotto: ricordo ancora, alla prima di presentazione, l’osservazione di chi riferiva che avrebbe in futuro riciclato le pagine del calendario per incorniciarle e appenderle sulle pareti di casa propria. Non ti nascondo che la cosa da me è stata salutata con simpatia e piacere: la confezione di un lavoro merita una veste grafica per farne un estetico ed etico in-vesti-mento, lo sappiamo tutti, come specialisti del settore! Concordo pienamente, Nella. Il gusto, poi, lo lego alle evocazioni del mio ambiente cittadino, rafforzandolo alla luce di altre esperienze, come quella di Marco Cavaliere (coautore di un bellissimo testo, scritto a quattro mani con TotoSaff), a me consonante per affinità. «Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti», aveva ben ragione di sottolineare Cesare Pavese ne La luna e i falò, anche alla luce dei nostri arcani linguaggi, mi permetto di aggiungere! Che dire, Francesco: ero sul punto di dirtelo, non era ancora stampato il nostro calendario che già raccoglievo richieste di persone curiose e desiderose di averlo per sé. La nostalgia impregna pure la pagina, quando l’amore per la propria terra fa da magnete di attrazione. È la forza del nostro dialetto. Sapessi quante volte l’ho utilizzato nella bergamasca a scopo liberatorio in presenza di colleghi i cui occhi sgranati, in contesti formali, ammiravano la mia personale determinazione nel far cogliere, senza filtri, il mio eros bruzio, ritagliato di scorci persino negli squarci, contro cui ho combattuto, non poche volte nella mia vita. Ricordo una telefonata, in particolare, mentre ero a Bergamo: dall’altra parte dell’utenza Sip (ora Telecom) stava mia nonna materna mentre, a rassicurarla che stesse procedendo tutto bene, me ne uscì con “Un ti priuccupari, ca staju stringìandu ppi mangiari”. Via Tasso, che per tutti è la Bergamo bene, sede del Teatro Donizetti, per intenderci: la mia parlata fece “eco” tra i passanti. Inutile dire, sorridendoci, che perpendicolare a quella strada è la sede della nota testata giornalistica: L’Eco di Bergamo. Al limite, avrei lasciato un’intervista, liquidai la cosa tra me e me: ’I ditti d’antichi, magari, questo titolo avrei suggerito di far scrivere, perché no!? “I detti degli antichi”, bella, questa! Secondo te perché dal calendario della nostra vita, ad un certo punto, c’è stata questa disattenzione? Oggi, con la sperimentazione di riproporli, come possiamo farli sentire pezzi di storia altrettanto

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viva quanto i monumenti che vediamo sotto la volta del cielo? Credo che dal fascismo agli anni ’70 per tanti dei nostri dialetti è accaduto, né più e né meno, che una sorta di genocidio culturale, semplicemente perché, di fronte ad un codice standardizzato, da spalmare su tutti, come osserverà poi un grande sociolinguista come Gaetano Berruto, «ci si vergognava della propria lingua madre». Ed intanto la TV, con la buona pace di Mike Bongiorno, unificava il Paese con un idioma omogeneo, accessibile a tutti ma intriso di una algidissima correttezza formale che agli occhi di Pierpaolo Pasolini suonava come una spaventosa ingiunzione dall’alto. «Il dialetto è la lingua della realtà: ne esprime difatti le molteplici facce. La lingua italiana è una lingua soprattutto letteraria, libresca – lo è stata fino al 1954, l’anno dell’avvento della televisione in Italia – e però appare ripetitiva, autofaga: ignora perlopiù la ricchezza e la complessità della realtà. Dobbiamo tuttavia coltivare e insegnare sia la lingua sia il dialetto: la prima è la lingua, insostituibile, della comunicazione» (Giuseppe Rando). Non solo. «Il dialetto nasce dentro, è la lingua dell’intimità, dell’habitat, “coscienza terrosa” di un popolo, sta all’individuo parlante come la radice all’albero; nasce nella zolla, si nutre dell’humus, si fonde nella pianta stessa. È, insomma, l’anima di un popolo» (Marcello D’Orta). Se penso allo spazio assunto dal nostro vernacolo dalla letteratura (Camilleri, Ferrante, Fois e tanti altri) alle esilaranti pagine Facebook, social conversazioni comprese, mi vien da dire che lo slang è un’Araba fenice. Se in tutto questo, poi, ci aggiungo le canzoni di Fabrizio De André, Pino Daniele, Gigi D’Alessio ed Edoardo Bennato me lo canto e me suono proprio bene, eh sì! Il bello è, per tirare le somme, che non è soltanto una connotazione coloristica regionale, ma una diacronica rilettura del mondo: memoria contemporanea in avanti, già! Per quanto riguarda il mio la(me)tino, dulcis in fundo, è un gran bella eredità culturale: chi volesse studiare Roma antica, può frequentare di più i propri nonni. Provare per crederci, partendo dai proverbi, per verificarlo. Ne ricordi, qualcuno, Francesco, cortesemente!? Francesco: Volentieri, Nella! “Si spagna ddi l’umbra sua” deriva da “Umbram suam metuit”, oppure “Parica ciampa ova” proviene da “Super ova pendenti gradu incidere”. Ancora: “Parrari allu viantu” è “Ventis verba profundere”. L’elenco è piuttosto ricco: anche questo è nel nostro calendario, con l’idea sottesa che per imparare il latino si può partire facilmente dal la(me)tino, perché no!? Come sei riuscito, Francesco, a costruire questi parallelismi tra i proverbi Lamezia e non solo

classici e quelli nostri? Sul piano paremiologico, Nella, il punto di riferimento è il magistrale Dizionario delle sentenze latine e greche di Renzo Tosi. Questa è una tra le imprescindibili fonti cui attingere per dare non solo un respiro europeo ai detti popolari ma anche a contestualizzare la matrice classica in ognuno di essi, fermo restando, come prerequisito di partenza, che si debbano conoscere le lingue antiche. Nel nostro calendario, Francesco, ci sono tante voci non comuni, che tu hai spiegato per porgercele in modo chiaro e sintetico. Ce n’è una cui sei maggiormente legato o che usi, magari, un po’ di più? “A barriquerta”, la usava mia nonna ed io la ripeto in una sorta di rievocazione proustiana per richiamarmela alla memoria e alla mia educazione sentimentale di affetti nostalgici attorno ad un bel braciere di famiglia. “A barriquerta”, che strana parola! Vorresti spiegarcela!? È usata col significato di “ad ogni modo”, “ad ogni buon fine”, ci ricorda il lessicografo Santo Sesto, di compianta memoria: tale locuzione, presente nella parlata di Sambiase, assume, in quella di Nicastro, la forma a barriquestra. Dal punto di vista linguistico me la spiego come espressione precauzionale di saggezza anticipatrice: dal latino habere certa, cioè avere cose certe, quindi «premunirsi di fronte alle evenienze». La gutturale (c) era sorda nel latino delle origini (suono -ke, que): un segno di mantenimento arcaico mantenuto nel nostro vernacolo. A questo punto la mia ricerca si addiziona alla memoria, intrisa di tinte nostalgiche. Non posso non ricordare Francesco Gaspare La Scala, con cui spesso condividevo gli scavi archeolinguistici. Ecco un esempio di insonnia creativa per parteciparci insieme il significato delle nostre parole: «Stanotte ci ho pensato sopra e mi son chiesto se non fosse anche logico supporre quest’altra soluzione che ti illustro. La chiave di volta geniale è il termine habere, che tu genialmente hai riesumato, e che è ripetuto quasi integralmente nel nostro dialetto. Se fosse seguita da quaerita (nel senso di cose richieste o necessarie) anziché da certa (con significato molto affine):si eliminerebbe il passaggio problematico da C a Qu; sarebbe necessaria la sola sincope della “i”; si ridurrebbe al minimo l’escursione fonetica complessiva della frase; il significato diventerebbe ancora più calzante. Potrebbe infatti tradursi: (Per) avere, procurarsi tutto ciò che necessita o che può essere richiesto

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(nella eventuale circostanza). Tu che ne pensi?». Bello quest’interrogarsi di La Scala, che traduce una ricerca che è tanto più vera quanto più manca il punto e basta, solo epidittico ed assiomatico oltre che antipatico. Io penso che sia bello andare a scoprire il significato di ogni nostra parola. Credo pure che non sia così facile, onestamente, o mi sbaglio!? Ti capita di essere contattato per dare chiarimenti etimologici sul nostro vernacolo? Non è semplice, lo riconosco. Laddove ho spazi di incertezza, vado a documentarmi. I social network, non poche volte, hanno saputo indirizzarmi nella più giusta direzione: ci sono face-discussioni che chiariscono tanti dubbi. Basta essere disponibili all’ascolto e farsi guidare: le relazioni fanno strada, l’ho imparato ancor prima di essere strutturato in un lavoro di squadra. Quest’anno, poi, il dottor Patrick Mulas, dalla Germania, ha contattato il nostro Comune per la decrittazione di un antico stornello nicastrese vernacolare. Non ho esitato a rispondergli, dietro l’invito del nostro carissimo ed illuminato assessore Giorgia Gargano, cui è arrivata un’email di ringraziamento, che la stessa mi ha inoltrato come segno di altrettanta cura ed attenzione: Gentile Dottoressa Gargano, vorrei ringraziarLa una volta ancora per avermi messo in contatto con il Professor Polopoli, che si è dimostrato un contatto assai prezioso ed altrettanto generoso di contributi. La trascrizione e la (bella) traduzione dello stornello prodotta dal Professor Polopoli mi permetteranno di rendere pienamente intellegibile il testo e di contestualizzarlo in maniera esatta. Non mancherò certo di menzionarne la paternità nel mio lavoro. Il professor Polopoli ha inoltre messo a disposizione alcuni riferimenti bibliografici estremamente interessanti con cui lo stornello mostra continuità e di cui potrebbe essere una filiazione. Anche questo aiuterà a contestualizzare. Oltre ad apprezzare la struggente e luminosa bellezza dello stornello che credo sia evidente a tutti, ritengo che la ricchezza del ‘prodotto’ culturale sia testimoniata dalla messe di riferimenti iconografici che è possibile intessere già ad una prima lettura. Esprimendole i miei più sinceri sentimenti di gratitudine per l’attenzione e la sensibilità dimostrata, la saluto. Belle soddisfazioni, Francesco! Anch’io apprezzo il tuo modo di approcciare la nostra Comunità, ragion per cui ho detto di sì al nostro progetto, che è quello di calendarizzare il dialetto per farne “scuola” 365 giorni. Sui social è esploso l’interesse per l’idioma lametino ed abbiamo avuto modo di constatare come sia rimbalzato grazie ai tuoi post che raccoglievano consensi ed ulteriori postille a commento: Facebook è diventato una sorta di Dizionario della nostra parlata per parecchi mesi. Non è poco, direi! Proprio così! Ad utilizzare le parole dell’amica Silvia Stucchi, docente di lingua e letteratura latina, presso La Cattolica di Milano, i canali social sono il motore di sopravvivenza delle nostre parlate locali: come darle torto!? A questo punto mi va di sottolineare anche un’altra cosa, che credo sia giusto partecipare in questa intervista, Francesco. La tua ricerca ha una destinazione umana: questa carica sociale mi ha ricaricato, quest’estate, quando mi sono messa ad impaginare il nostro calendario, prima di passare al suo graphic design, su cui ci siamo riviste tante altre volte. Per tuo espresso desiderio una parte dell’incasso verrà devoluta all’Ail (Associazione italiana contro leucemie, linfoma e mieloma): una piccola donazione non è mai un giorno perduto ma un’occasione per pag. 6

ritrovarsi nel calendario della solidarietà, mi ripeto con te, cosa vuoi dire, vuoi spiegarlo meglio tu? Sì! Il sangue o si rapprende in nuova vita o ingorga l’anima ed il corpo ed io, personalmente, ho scelto la destinazione più fruttuosa tra le passioni di sempre. Una ricerca nella ricerca, preferisco dirtela così…sapendo quanto sia discreto. Bella questa foto con il telaio, Francesco! Di chi è!? Cosa rappresenta per te!? Questo bellissimo telaio storico appartiene alla mia amica Manuelita Iacopetta, presidente dell’Associazione Samarcanda, cui sono legato da interessi comuni, oltre che dall’amore per il nostro dialetto, ospitato, come seminario, in uno degli eventi da lei promosso qualche anno fa. Per me è anche una suggestione omerica. Ti riferisci alla tela di Penelope, perché dici “suggestione”? L’arte del tessere, tipicamente femminile, è un’attività lenta, paziente, ritmata, svolta con precisione e ritualità che ha dato origine fin dall’antichità a miti e ad un foltissimo immaginario metaforico (E. Agnoli). Curioso è prender nota di come le parole utilizzate per parlare di pensiero filosofico e di scrittura (intreccio narrativo, filo del discorso, “dipanare la matassa”, per usare, a livello letterario, un’espressione manzoniana) siano, in molte occasioni, tratte dall’antica arte di tessere, filare e cucire. Una maieutica da levatrice, per non offendere la buona memoria di Socrate, ma anche da sartoria, potremmo aggiungere! Se poi curviamo l’attenzione sul testo odissiaco si aprono scenari alquanto interessanti: Penelope, dal punto di vista onomaturgico, potrebbe derivare dal termine πηνη (“filo”, “trama”, “gomitolo”, “tessuto”), forse combinato con ωψ (ops, “volto”, “occhio”). Omero, ὁ μὴ ὁρῶν (ho mè horôn), ovvero “colui che non vede”, potrebbe aver regalato lo sguardo al personaggio femminile in questione, il cui filo, al pari di quello di Arianna, permette al poeta del nostos di varcare le dedaliche vie del disordine. Se così fosse, le quote rosa nascono proprio dal cascame dell’epopea: ebbene, sì, figlie dell’Ellade, e da Atena benedette! Io ci voglio credere da uomo che rivendica maggiori diritti per le donne. Parlare con te, Francesco, è molto piacevole. Mi sa che dobbiamo mettere in cantiere altre dissertazioni per proseguirle con lo stesso entusiasmo di quest’intervista. Che ne pensi? Sì, mettiamo in calendario un altro calendario, che mi rispondi!? Spalanchi una porta aperta, Francesco! Animo e cuore a te, Nella, e alla mia città. Ad meliora, concludiamo così!

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mnemosine

Parole Salvate

di Saverio Candelieri Dirigente Scolastico dell’IIS “Enzo Ferrari” di Chiaravalle Centrale.

Nei ventidue interventi, tenuti in varie occasioni ed ora raccolti in questo volume, l’autore ha saputo tracciare con peculiare maestria un itinerario essenziale di fede, nello stile tipico che lo caratterizza; Filippo D’Andrea, infatti, è capace di coniugare, in modo straordinario, cultura e fede, vangelo e vita, assurgendo a modello del laico cristiano che intende, nella storia, rispondere all’appello di Dio e alla domanda di senso degli uomini. Nel taccuino della sua anima, Filippo D’Andrea appunta parole che meritano di essere salvate, in quanto custodi di un bisogno sempre inappagato di farsi cercatori della Verità, secondo il monito di Agostino che nel De Trinitate ci ricorda: «dobbiamo cercare per trovare e, dopo aver trovato, dobbiamo cercare ancora ». D’Andrea è, infatti, profondamente convinto che solo attraverso la fatica del pensare ed il servizio dell’intelligenza si possa annunciare e testimoniare al mondo la Parola che non passa. L’esperienza vibrante di umanità del nostro autore si traduce spesso in parole che esprimono il proprio modo di essere, che accompagnano e forniscono il senso dei comportamenti, che permettono una comunicazione autentica e comprensibile e che rimangono nella testa e nel cuore di chi legge come germogli di novità da sviluppare in se stessi. Le parole qui raccolte, infatti, non rivelano solo una dimensione intellettuale ma sono impregnate della vita di chi le ha pronunciate. Chi legge questi scritti, si accorge della sapienza che ne emerge, anzi è possibile scoprire a distanza di tempo, quanto quelle parole allora pronunciate siano ancora vive ed Lamezia e non solo

attuali! Il servizio più difficile, più prezioso che si può dare, ce lo ricorda l’autore, è il servizio dell’intelligenza, è il servizio del pensare. Un servizio, quello del pensare, che richiede un’educazione alla parola, all’ascolto, un’attenzione alle culture che attraversano il mondo nel quale viviamo, un rendersi conto dei passaggio storici dei quali noi stessi siamo protagonisti, un acquisire quel senso critico che ci consente la ‘lettura’ dei ‘segni dei tempi’ e ci permette, nel dialogo con gli altri uomini, di servire alla proposta cristiana, perché entri al di là e al di sopra delle culture. L’infaticabile Filippo D’Andrea, ancora una volta, con questo suo lavoro sollecita le attenzioni verso un rinnovato modo di fare cultura: non solo attraverso l’impegno di dare risposte, bensì attraverso la capacità di operare un discernimento critico, non intellettualistico, ma maturato secondo la forza dello Spirito. Quando cultura, impegno intellettuale e senso storico diventano unità di valore e caratterizzano le capacità interpretative del tempo, delle culture che lo attraversano, della conoscenza degli uomini, allora è possibile guardare alla costruzione di una storia ‘liberante e di salvezza’. È il messaggio più autentico che emerge da queste pagine, è l’auspicio più bello con il quale occorre salutare questo lavoro, ringraziando ancora una volta l’autore che ha di fatto ‘salvato’ queste parole affinché non rimanessero confinate solo a coloro che ne hanno goduto nell’immediato, ma potessero diventare un patrimonio per molti. Poca favilla gran fiamma seconda!

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amici della terra

La STORIA della TERRA e degli UOMINI DOCUMENTA CONTINUI CAMBIAMENTI CLIMATICI (3)

Geologo Mario Pileggi del Consiglio Nazionale Amici della Terra - geopileggi@libero.it

L’esito della recente elezione del nuovo Presidente degli Stati Uniti inciderà molto sui tempi e modi di attuazione degli interventi di adattamento al cambiamento climatico. Sulla rilevanza dell’evento basta ricordare la differenza tra le posizioni delle politiche ambientali degli ultimi due Presidenti Usa Obama e Trump e dei sostenitori delle due fazioni nei vari Paesi del Pianeta. Il richiamo alla memoria storica è indispensabile per individuare le misure di adattamento necessarie a far fronte alle inevitabili continue oscillazioni climatiche. Ed è pure indispensabile per individuare e distinguere i dati reali dalle tante bufale diffuse da alcuni media sulle cause degli stessi cambiamenti climatici.

In proposito, sono da richiamare alla memoria le vicende e contrasti tra climatologi e politici scatenati dalla teoria della “mazza di hockey” sul riscaldamento globale di origine antropica. E del conseguente caso politico scaturito a seguito della pubblicazione nella prima pagina del primo numero del 2005 della Rivista scientifica “NATURE” della denuncia di Joe Barton del Congresso degli Stati Uniti e presidente del Committee on Energy and Commerce. La denuncia del deputato Repubblicano Barton, era rivolta contro i tre climatologi Michael Mann della Pennsylvania State University, Raymond S. Bradley (Università del Massachusetts) e Malcom K. Hughes (Università dell’Arizona). autori di studio sul riscaldamento globale dove era riportato il noto grafico sull’andamento della temperatura degli ultimi 600 anni e successivamente ampliato agli ultimi mille anni. I tre climatologi nel loro studio sostenevano che il decennio degli anni novanta del secolo scorso era stato il più caldo di tutti gli altri decenni dei sei secoli precedenti e che la causa del riscaldamento globale era “antropogenico”. Nella loro pubblicazione: “Global-Scale Temperature Patterns and Climate Forcing Over the Past Six Centuries” i sopra menzionati tre climatologi sostenevano la teoria che la causa dell’aumenpag. 8

to di temperatura evidenziato nel grafico era dovuto ai gas serra prodotti dalle attività degli uomini. Questa teoria del riscaldamento globale antropogenico identificata con il grafico della “mazza di hockey” aveva condizionato fortemente le valutazioni e conclusioni del Rapporto dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPPC) dell’anno 2001 e, tra l’altro, messo anche in ridicolo la politica ambientale dell’Amministrazione americana del Presidente Bush. E per questo M. Mann, R. S. Bradley e M. K. Hughes erano stati già denunciati da Barton sul “Wall Street Journal”. Sulla rivista “Nature” il deputo repubblicano Barton, oltre a denunciare l’infondatezza dei dati a sostegno della teoria chiedeva trasparenza sui curriculum dei climatologi, sull’origine ed entità dei finanziamenti ricevuti e dei dati e Programmi informatici utilizzati per la costruzione del grafico sull’aumento della temperatura media globale.

Tra i tanti a contrastare le petizioni di Barton sugli autori della teoria della mazza da hockey si ricorda il deputato del partito Democratico Henry Waxman e alcune istituzioni scientifiche come la National Science Foundation e l’American Association for the Advancement of Science. Questi eventi alimentarono pressioni e controversie sia nel mondo scientifico che in quello politico e qualche scienziato lamentò perfino pressioni politiche da parte di organi federali. Di tutto ciò si trova traccia nel Forum, pubblicato sulla rivista Scienze” nel luglio del 2004, dove il Segretario dell’Energia degli Stati Uniti Spencer Abraham discute la strategia dell’amministrazione Bush per raggiungere l’obiettivo della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici volta a stabilizzare i gas serra nell’atmosfera a un livello che eviti interferenze con il sistema climatico. E degli interventi USA sia per ridurre del 18% l’intensità dei gas serra tra il 2002 e il 2012, sia per gettare le basi nella scienza e nella tecnologia del clima per ridurre le incertezze, chiarire rischi e benefici e sviluppare opzioni di mitigazione realistiche per raggiungere l’obiettivo UNFCCC. Nello stesso Forum Spencer Abraham descrive le principali attività di ricerca nell’ambito del Programma scientifico per il cambiamento climatico e del Programma tecnologico per il cambiamento climatico dell’amministrazione. La ricerca sul clima non disponibile a compromessi era finita tra

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gli opposti fuochi dei due partiti. Da una parte il Presidente Bush, vicino all’industria del carbone e del petrolio e, quindi, poco disponibile ad accettare i costi per la riduzione delle emissioni gas serra e dall’altra Robert F. Kennedy, nipote del grande Presidente, che definisce gli avversari:<<un piccolo esercito di ciarlatani pagati dagli industriali>>. Per gli storici del clima e più documentati sulla prima Età moderna l’accusa di corruzione può valere anche nella direzione opposta in quanto “per tutti i gruppi di lavoro accademici è di vitale importanza riuscire ad alimentare le proprie indagini e i propri istituti di ricerca”.

Proprio poiché in ballo ci sono carriere soldi e potere, Paul Andrew Mayewski, Direttore del progetto di carotaggio del ghiaccio GISP2, nel tracciare un quadro della ricerca sul Paleoclima ha evidenziato che “i climatologi non sono imparziali e perseguono obiettivi personali, in vista dei quali talvolta ricorrono a cordate e pressure groups (Paul Andrew Mayewski, e Frank White The Ice Chronicles, The Quest to Understand Global Climate Change University Pres of New England; London-Hanover. Per individuare e distinguere i dati reali dalle tante bufale come quelle di notevoli aumenti di temperature diffuse da alcuni apocalittici sono da considerare i circa 40 modelli elaborati su incarico dell’IPPC sul clima del futuro.

la possibilità di prevedere le variazioni del clima in futuro viene affidata ai modelli matematici che simulano i principali processi fisici del sistema Terra e la cui funzionalità viene testata confrontando le simulazioni del clima passato con i dati attualmente disponibili.

I modelli riportati nel quarto Rapporto IPPC sono raggruppati in sigle fatte di lettere e numeri. E tra più importanti e realistici sono da ricordare: · Modelli A1 che ipotizzano una rapida crescita dell’economia e della popolazione fino alla prima metà del XXI secolo e un calo nella seconda metà sia della popolazione che dell’economia. Lo stesso modello prevede che in breve tempo compaiono nuove e più efficienti tecnologie rispetto a quelle disponibili. Questo modello comprende tre scenari: il primo (A1FI) che punta ancora sulle energie fossili; il secondo ( A1T) che prevede l’utilizzo di energie non fossili e il terzo (A1B) che prevede l’utilizzo di un mix di tutte le fonti energetiche disponibili.

Vari scenari fondano la previsione sul Riscaldamento della Terra sulle temperature medie registrate tra il 1980 e il 1999 e cambiano a seconda di come si immagina l’emissione di gas serra. In pratica Lamezia e non solo

· Modelli A2 ipotizzano scenari del tutto differenti con crescita costante della popolazione mondiale e sviluppi eterogenei su scala regionali. In pratica questo scenario ipotizza una crescita lenta e ineguale dell’economia senza rilevanti novità rispetto all’attuale condizione. · Modelli B1 ipotizzano una convergenza economica e crescita della popolazione come il Modello A1 ma anche con l’intro-

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duzione di tecnologie più pulite e un cambiamento strutturale dell’economia in una economia dei servizi e dell’informazione. Si tratta dello scenario noto come “rivoluzione bio-industriale”. · Modelli B2 ipotizzano una lenta ma continua crescita della popolazione mondiale, moderati indici di crescita economica, tempi lunghi per le trasformazioni tecnologiche e una maggiore coscienza ambientale,che darebbe risultati a scala regionale. Questi modelli elaborati su incarico dell’IPPC e considerati tutti realistici, ipotizzano aumenti di temperature medie comprese tra 1,5 e 4°C entro il 2100.

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Questi aumenti di temperature medie ipotizzati, anche se di molto inferiori a quelli fantasiosi sparati dagli apocalittici, non sono affatto da sottovalutare perché con variazioni anche di soli 2°C, come documenteremo nei prossimi numeri di “Lameziaenonsolo”, si possono produrre effetti rilevantissimi come accaduto durante gli anni della “Piccola era glaciale.” Va considerato che i modelli basati sul riscaldamento globale sono ipotizzati soltanto per l’emisfero settentrionale perché nell’emisfero meridionale e Antartide le temperature restano basse e i ghiacciai, almeno fino al 2030, si presume che possono anche ingrandirsi. Solo a partire dalla seconda metà del XXI secolo i modelli dell’IPPC ipotizzano aumenti di solo 2 °C anche nell’emisfero meridionale. In funzione degli scenari di sviluppo ne conseguono possibili scenari di emissione di gas serra e aerosol. Come evidenziato nelle figure che riportano gli scenari di emissione di CO2 e di variazione della concentrazione della stessa CO2 in atmosfera previsti fino al 2100. Sugli sviluppi futuri inciderà certamente il contenuto dell’Accordo di Parigi sul Clima che, tra gli obiettivi da raggiungere prevede : “di mantenere l’aumento della temperatura media globale ben al di sotto di 2 °C rispetto ai livelli preindustriali, e proseguire l’azione volta a limitare l’aumento di temperatura a 1,5° C...” (art. 2); e di «raggiungere un equilibrio tra le fonti di emissioni antropogeniche e gli assorbimenti di gas ad effetto serra nella seconda metà del corrente secolo..» (art. 4).

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riflettendo

di Pierluigi Mascaro

Gli a-mortali

Sono rimasto particolarmente colpito da una bellissima riflessione di Alessandro D’Avenia, professore di lettere e scrittore, comparsa sul Corriere della Sera dello scorso lunedì, 2 novembre, giorno in cui ricorre la commemorazione dei defunti, riguardante il profondo legame che correla i concetti di vita e morte, tema che l’uomo contemporaneo ha sempre più spesso messo nel dimenticatoio, ma che i radicali e repentini cambiamenti che la pandemia ha imposto nella vita di noi tutti, ci hanno costretto a riconsiderare. L’Autore ci ricorda che ogni anno, nella giornata del 2 novembre, si è soliti recarsi al cimitero, al fine di rendere omaggio a coloro che non sono più tra noi. Gli antichi Greci lo definivano necropoli, che significa “città dei morti”: in tal modo, essi cercavano di dare una dimensione spaziale all’Aldilà, affinché i defunti non fossero destinati irrimediabilmente all’oblio, l’unica circostanza che, nel loro immaginario, corrispondesse davvero alla morte; per questo tra essi si annoverano grandi eroi, aedi, letterati; la battaglia, l’arte, la cultura li strappavano all’anonimato e all’oblio, quindi alla morte. I Cristiani utilizzavano invece la parola che si è tramandata sino a noi, ossia cimitero, che significa “giaciglio”, che simboleggia la terra, fertile letto del seme, ossia, allegoricamente, la morte come punto di passaggio ad una vita nuova, la vita eterna, nella luce e nella grazia di Cristo. Possiamo dunque notare che in entrambe le culture, pagana e cristiana, la morte era considerata una sorta di necessario termine di paragone che consentisse di attribuire un esatto e reale valore alla vita, vale a dire un senso di eternità: i Greci la guadagnavano tramite le gesta eroiche o la creatività artistica che li avrebbero resi immortali, i Cristiani mediante una fede incondizionata nel loro Dio, padre e salvatore. E invece noi contemporanei, che rapporto abbiamo con la morte? – si chiede Lamezia e non solo

D’Avenia. Abbiamo scelto di considerarla la più grande delle debolezze umane, e dunque, di conseguenza, abbiamo semplicemente preferito non considerarne l’esistenza, e ciò ci ha fatti sentire liberi, liberi di essere schiavi d’inseguire senza freni un miraggio di benessere legato all’inarrestabile progresso della materialità dell’esistenza, ormai perfettamente coincidente con la nostra idea d’Infinito: un’eterna competizione a produrre beni, servizi, utilità, risultati, ma forse non più valori. E poi, ad un certo punto, all’improvviso, arriva il virus e ci pone faccia a faccia con la morte, che ritorna reale, tangibile, vicina. Ci costringe ad averne paura. Questo termine deriva dal verbo latino paveo, che significa “avere timore”, e condivide la radice con la parola pavimento: la paura entra tangibilmente in contatto con gli umani, così come i passi fanno con il suolo sul quale camminano. E’ una similitudine davvero singolare e suggestiva quella tra la paura e il pavimento, è come se essa funga da banco di prova per le fondamenta del nostro vivere. Mettendoci di fronte alla paura della morte, la sfida senza precedenti cui siamo sottoposti a causa del virus ci sta obbligando a riscoprire l’ormai dimenticato binomio morte-vita e a trovare un elemento esterno e stabile al quale aggrapparci, non un utile o un risultato, ma un valore o un insieme di valori. L’uomo di oggi è, per dirla con le parole di Alessandro D’Avenia, un a-mortale: risucchiato dal vortice di una vita così caoticamente piena da non concedere nemmeno un attimo per prender fiato, si è completamente dimenticato della morte; ma paradossalmente, senza la consapevolezza e l’accettazione di questa, che si creda o meno nell’Aldilà, non si può essere innamorati della vita, perché essa non è altro che la continua ricerca che gli uomini conducono per trovare un antidoto alla morte, quel qualcosa che sia più forte di essa.

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Il nostro territorio

Le “Grandi Schifezze” di Lamezia Terme: Corso Numistrano e Piazza della Repubblica di Giuseppe Sestito

Parliamo di beni culturali di Lamezia Terme: da alcuni decenni mi occupo del Corso Numistrano che, a mio giudizio, costituisce il bene culturale più importante e prezioso, ricco di memorie e di storia; ancora oggi, rimane la costruzione più bella della città, che i nostri antenati hanno costruito e ci hanno lasciato in eredità. È un bene culturale simbolo, luogo d’incontro, che ha svolto per oltre un secolo e mezzo e continua a svolgere, la “funzione indispensabile come spazio di socializzazione collettiva” per la nostra comunità. Nonostante ciò, in questi decenni non vi è stato alcun intervento di riqualificazione o restauro o salvaguardia che lo abbia interessato, per cui il Corso è divenuto, progressivamente, una “Grande Schifezza”, un’area anonima, senza civile destinazione, che serve solo come parcheggio per ogni genere di veicoli che vi sostano, su entrambi i lati, spesso in duplice fila, e come via di scorrimento per gli altri che debbono attraversare questo pezzo di centro storico da un capo all’altro. Questa rappresentazione va in replica, immutabile, quotidianamente, di giorno e di notte, a tutte le ore. Non è l’unica eclatante schifezza che esista a Lamezia Terme, ne esistono altre, ancorché meno importanti del Numistrano: Piazza della Repubblipag. 12

ca, di cui parlerò più oltre; Piazza d’Armi, con quel ridicolo parallelepipedo, costruito non saprei dire con quale materiale, privo di qualsiasi funzione se non quella di imbruttire tutta la complessità dell’ampio spazio in cui sono stati inseriti gli interventi della presunta innovazione; Piazza Mercato Vecchio, con l’introduzione di quella inutile e sgangherata fontana, vuota sempre d’acqua e piena di immondizie sempre, i cui lavori di ammodernamento (sic!) hanno violentato la piazza medesima ed il contesto urbano ottocentesco che le faceva da cornice. Questo atteggiamento di disattenzione ed indifferenza verso le sorti del Numistrano, è da attribuire, prevalentemente, alla insufficienza di “cultura estetica”, che non è particolarmente attratta dal gusto del bello, né amante della bellezza, oltre che alla mancanza di senso civico della nostra comunità sociale. Ed infatti basta guardare alla miserevole fine che ha fatto anche l’altro slargo che ha per titolo, nientepopodimeno che, “Piazza della Repubblica”. Ricordo l’appassionato dibattito, nel corso degli anni Settanta, Ottanta del secolo scorso, tra i partiti politici ed i ceti sociali lametini mentre si discuteva delle prospettive che riguardavano l’avvenire di quell’area GrafichÉditore di A. Perri - & 0968.21844

in cui stavano sorgendo, contemporaneamente, la Chiesa del Rosario ed il Palazzo di Giustizia. Quello spazio, dunque, sarebbe dovuto diventare una piazza, con la P maiuscola, che avrebbe dovuto testimoniare l’operosità, la bellezza, la civiltà, il gusto raffinato, la sensibilità estetica, il grado di sviluppo civile, sociale, culturale, economico persino, della Lamezia moderna come il Corso Numistrano, aveva testimoniato e tramandato, nei decenni che si sarebbero susseguiti alla sua costruzione, tutte le virtù dei nostri antenati del XIX secolo; è diventata, invece, un’altra “Grande Schifezza”; uno slargo anch’esso commutato in un’area di parcheggio ricoperta interamente da veicoli nelle ore della mattinata, allorché riesce difficoltoso districarsi anche a piedi, e un deserto semi buio nelle ore notturne. Riprendendo il discorso sul Corso Numistrano, bisogna sottolineare che il ceto politico amministrativo lametino, nei decenni scorsi, fino ai giorni nostri, non ha saputo immaginare e dare soluzione a ciò che gli amministratori di quasi tutti i centri grandi e piccoli d’Italia, anche meridionale, hanno saputo realizzare, cioè chiudere alla circolazione i luoghi di maggiore pregio delle loro città per salvaguardarli dall’incuria degli uomini e dal logoLamezia e non solo


rio del tempo. Anche diversi piccoli centri a noi vicinissimi, quale Pizzo Calabro o Amantea, per citarne un paio, hanno chiuso i loro centri storici; li hanno preservati, rendendoli più belli ed incrementando notevolmente anche l’afflusso di cittadini provenienti da altri paesi e città del comprensorio oltre che di turisti esterni. Infatti nelle serate e nottate dei mesi estivi di luglioagosto è facile incontrare più lametini in Piazza della Repubblica di Pizzo Calabro (dove è possibile trascorrere delle ore a passeggiare o consumare un gelato seduti in un tavolo dei tantissimi bar all’aperto, o fare la stessa cosa lungo il corso di Amantea) che non sul Corso Numistrano. Pertanto, oltre al limite della cultura e del senso civico della comunità sociale ci sono anche l’incapacità e la sordità del ceto politico-amministrativo che si sarebbe dovuto porre il problema di come salvaguardarne l’integrità ed impedire che, con il passare dei decenni, Corso Numistrano finisca col fare la medesima, triste fine di Corso Garibaldi, che prima che fosse costruito il Numistrano era il centro di Nicastro dove avevano sede i più importanti uffici civili della città. Si sarebbe potuto pensare, per esempio, tra i rimedi possibili, alla costruzione di parcheggi, anche ai limiti del centro storico e, se possibile, sotterranei, per impedire il parcheggio e la circolazione dei veicoli e potervi accedere solamente a piedi. Oppure

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organizzare in altro modo, più razionale e sapiente, il traffico veicolare. Bisogna anche ricordare che le due amministrazioni di sinistra, che si sono susseguite una dopo l’altra per quasi un ventennio, non hanno effettuato alcun intervento di restauro del Numistrano e di contrasto al parcheggio e al transito selvaggio che sempre più ne stravolgono le funzioni. C’è da augurarsi che l’amministrazione Mascaro si ponga l’obiettivo d’intervenire con un qualche progetto di riqualificazione del Numistrano e sotto l’impulso dell’assessore alla cultura, Giorgia Gargano, che ne costituisce il “fiore all’occhiello”, lo restituisca alla fruizione, piena, della collettività lametina. A questo proposito, ho in mente l’esempio di una bellissima città dell’Umbria, Spoleto, nella quale ho soggiornato con la mia famiglia. A Spoleto, dunque, dove si svolge un festival di pregio internazionale, per accedere al Corso Garibaldi (detto Borgo), il centro storico, isola pedonale dove abitavo, bisogna lasciare i veicoli in dei parcheggi costruiti ai limiti di esso; nessuno vi può entrare con il proprio mezzo se non per il tempo limitato per il carico e lo scarico di merce, per i negozianti, o dei propri acquisti per i comuni

cittadini che abitano negli edifici che vi rientrano. È superfluo aggiungere che, vuoto di macchine, quel Corso è pieno di migliaia di turisti, italiani e stranieri, in tutte le stagioni dell’anno. A Lamezia il Corso Numistrano serve unicamente, continuo a ribadirlo, per parcheggio e transito delle macchine; anche il passeggio serale è stato confinato esclusivamente sui due marciapiedi, dove, se non si sta attenti, si finisce con lo scontrarsi tra persone. Naturalmente, come contrappasso, non vi si trovano turisti né di altre regioni italiane, né stranieri. I quali, nonostante ci si sforzi di urlare che Lamezia è una città “bella ed invidiabile” se anche vi dovessero capitare per caso, non appena arrivati al “cuore” di essa, il Corso Numistrano, appunto, vedendolo stracolmo unicamente di veicoli senza alcunché di attrattivo che meriti di essere visitato o gustato non vedrebbero l’ora di scapparsene. Sono convinto che tutti i cittadini di Lamezia sarebbero molto più felici, ed anche gli sparuti negozianti che vi sono rimasti ne trarrebbero maggiori benefici, se il Corso Numistrano potesse essere trasformato in isola pedonale dove poter passeggiare, socializzare, procedere tranquillamente ai propri acquisti e potervi svolgere tutti gli eventi importanti che la comunità lametina e la sua amministrazione ritengano opportuno realizzarvi.

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cultura

Brevi riflessioni sulla vita e le opere di

Francesco Fiorentino.

di Giovanni Martello

Francesco Fiorentino (Sambiase 1834-Napoli 1884) è stato una figura di spicco nel panorama culturale nazionale ed europeo, dal 1861 fino alla sua morte. Ancora oggi, a centotrentasei anni dalla sua scomparsa, nell’avvicinarci alla sua biografia e alla sua produzione filosofica, restiamo colpiti da quanto risultano attuali. Nella nostra epoca dominata dalla velocità, dove non è sempre facile dedicarsi allo studio di corposi volumi, possiamo conoscere Fiorentino attraverso i suoi numerosi articoli pubblicati su riviste molto importanti, alcune delle quali da lui stesso fondate e dirette. In ciò dimostrava doti organizzative non comuni, tanto da riuscire a catalizzare attorno a sé l’interesse di diversi studiosi, meridionali e non. Nel 1867, a Bologna, diede vita alla Rivista bolognese. Nel 1872, a Napoli, fu uno dei tre promotori del Giornale Napoletano di filosofia e lettere, scienze morali e politiche. A questa pubblicazione aggiunse nel 1882, sempre a Napoli, Il Giornale Napoletano della Domenica; quest’ultimo, purtroppo, riuscì a sopravvivere per un solo anno. Riusciva a portare avanti questi progetti editoriali affidandosi alla sua inarrestabile operosità e allo spirito collaborativo di alcuni noti studiosi, nonché suoi amici. Possiamo intuire la complessità della vita dell’infaticabile professore Fiorentino che quotidianamente agli impegni editoriali, affiancava quelli di studio, d’insegnamento universitario e di parlamentare. Gli scritti di Fiorentino sono impegnatavi, ma fluenti e con una prosa che in alcuni momenti raggiunge vette supreme e sfiora la poesia. Inoltre, in essi si colgono la sua verve e lo spirito polemico, che si traducevano in stroncature nei confronti di libri e studiosi che egli riteneva mediocri. A proposito, è celebre quella relativa alla silloge poetica Canto Novo del giovanissimo D’Annunzio: “studia i classici, fatti le ossa su di essi e poi cerca di essere poeta” gli consigliava, nella chiusura dell’articolo. Fiorentino non aveva peli sulla lingua nel parlare, figuriamoci nello scrivere e se ebbe molti amici e discepoli, si creò anche tanti nemici, anche fra persone che aveva, in precedenza, aiutato. A tale riguardo è utile ricordare la polemica con Carducci a Bologna nel 1868 che fu anche uno dei motivi che lo spinse ad abbandonare, dopo quasi un decennio, quella città. Un’altra polemica, molto violenta fu quella con il catanzarese Francesco Acri, nel 1876, che azzerò un’amicizia pluriennale. Come ricorda spesso l’amico Antonio Bagnato, Fiorentino è uno dei pochi filosofi sul quale sia stato scritto un libro che ne descrive il temperamento. Fiorentino, è innegabile, eccedeva nell’ira, ma era disponibile ad affetti totali e a grandi amicizie. Questo suo spirito polemico e di difensore della verità lo costrinse a girovagare fra le università: Bologna, Napoli, Pisa e, infine, di nuovo a Napoli. Fiorentino possedeva lo spirito vulcanico dei meridionali e, con molta probabilità, si sentiva un Giordano Bruno redivivo che doveva ancora lottare per la libertà e la verità nella accezione più vasta dei due termini. Non è un caso che fu proprio Il panteismo di Giordano Bruno, pubblicapag. 14

Prima parte

to nel 1861, il libro che gli aprì l’insegnamento universitario. Inoltre, di Bruno curò la prima edizione critica nazionale degli Scritti latini, iniziata nel 1879, portata avanti fino alla morte, continuata poi da Tocco e altri autori. Mi occupo di Francesco Fiorentino da alcuni anni, anche se negli ultimi tempi la narrativa ha assorbito quasi completamente il mio tempo costringendomi a tralasciare la saggistica storico-filosofica. In base ai miei studi e ai materiali raccolti credo di avere qualcosa da dire su Fiorentino. Ho approntato diversi lavori non ancora pubblicati perché aspetto di revisionarli; d’altra parte, la professione svolta fino a qualche mese fa, non mi ha lasciato molto tempo da poter dedicare al nostro filosofo. Posso anticipare ai lettori, eventualmente interessati, che la mia prossima pubblicazione su Fiorentino è relativa alle sue poesie. Anche questo è un lavoro pluriennale che sto conducendo assieme al brillante studioso lametino Francesco Polopoli. Nella prefazione al mio lavoro su Fiorentino, pubblicato nel 2014, Aniello Montano sottolineava, con ragione, che la caratteristica di quel saggio consisteva nel riuscire a incastrare biografia e filosofia. D’altra parte, mi ero reso conto dell’inefficacia di altri approcci per rendere appetibile un genere di lavoro e di autore che, nonostante l’importanza, risultano indigesti alle nuove generazioni. Realizzare questo incastro non è stato facile, per riuscirci è stato fondamentale padroneggiare il pensiero filosofico di Fiorentino, la continua evoluzione teorica, assieme alla biografia. Mentre la prima padronanza si ottiene con lo studio dei testi e della relativa letteratura critica, la seconda si acquista per mezzo di un lavoro archivistico certosino che si concretizza nell’esaminare e confrontare una mole impressionante di documenti che bisogna decodificare e trascrivere e infine vagliare con attenzione. Nel ricostruire la biografia e l’opera di Fiorentino, ho operato similmente a un detective attento a controllare molti indizi, cercando di scindere le notizie vere da quelle, come diciamo oggi, fake. In questo lavoro di cernita o di distillazione, ho capito che molte false notizie erano state create ed alimentate, senza volerlo, dalla sedimentazione storiografica che ha ripetuto una serie di stereotipi, senza mai controllarli. Non mi sono meravigliato nel constatare che in questi errori sono incorsi quotati studiosi dell’Ottocento e del Novecento. In apertura, parlavo di attualità di Fiorentino volendo significare che la sua storia biografica e culturale oltre a essere interessante a livello conoscitivo, può risultare illuminante e darci qualche insegnamento a livello etico. Anche se Fiorentino si è sempre dichiarato una specie di autodidatta senza maestri e con pochi libri a disposizione, all’inizio studiò a Sambiase con Giorgio Sinopoli nella sua scuola privata. Giorgio era il prozio, in quanto fratello del nonno materno di Fiorentino. Giorgio Sinopoli era un sacerdote, nonché grande latinista e uomo di cultura. Come ci ricorda Pietro Ardito, aveva commesso dei “peccati di gioventù”. Era stato

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iscritto alla carboneria come buona parte del clero “lametino” e nel rigurgito reazionario iniziato con la rivoluzione napoletana del 1799 e continuato con i moti carbonari del 1820, Giorgio Sinopoli fu sospeso a-divinis. Nel 1849, all’età di 15 anni, Fiorentino entrò nel seminario di Nicastro per continuare la propria formazione. Attorno al 1851 ne uscì e continuò a studiare privatamente con il fratello di sua madre Saveria, il sacerdote Bruno Sinopoli. Tra il 1851 e il 1852, Fiorentino trascorse il suo tempo tra Sambiase, Nicastro e Maida, cittadina quest’ultima, dove don Bruno era stato destinato come parroco eletto, cioè non titolare, nella parrocchia di San Nicola de Latinis. Tra l’altro, don Bruno insegnava al seminario di Nicastro. Nel ricostruire la biografia di Fiorentino lo si rintraccia nel 1852 Catanzaro. A questo proposito vorrei sottolineare l’intraprendenza di questo diciottenne molto colto che ben presto si rese conto delle insufficienti occasioni di arricchimento culturale e di prospettive offerte dal circondario lametino. Presa coscienza di tali limitazioni, si recò a Catanzaro. Perché a Catanzaro e non a Napoli? Catanzaro era più vicina e in quel periodo possedeva quella che oggi definiremmo l’università. Appassionato studioso di giurisprudenza e di lettere, il diciottenne Fiorentino non ha chiara ancora la scelta professionale da intraprendere, però possiede delle convinzioni che nessuno riuscirà a cambiare. La più importante è il proposito di abbandonare la Calabria e di trasferirsi a Napoli, per avere qualche chance di successo. D’altra parte, la capitale del Regno Borbonico allettava tutti i giovani meridionali. Per realizzare questo suo desiderio, Fiorentino dovrà attendere ancora quasi un decennio, anche perché ha poca disponibilità finanziaria. Suo padre Gennaro viene indicato nei documenti come farmacista, ma gli insufficienti introiti familiari provengono dalla coltivazione di oliveti e vigneti nelle zone di Savutano e di San Sidero. Nel dicembre del 1854, a Catanzaro, Fiorentino conseguiva la licenza in legge che gli permetteva di praticare l’attività forense, ben presto abbandonata per dedicarsi alle lettere e alla filosofia. Quasi contemporaneamente alla laurea in legge, conseguiva, diremmo oggi, una laurea di primo livello in lettere. Conclusa la formazione, in attesa di poter “scappare” a Napoli, apre a Catanzaro una scuola privata in cui insegna sia lettere che filosofia, nei successivi sei anni. Avrà diversi discepoli, che diventeranno suoi amici e suoi studenti all’università di Bologna. Fra questi ricordiamo Vincenzo Cirimele, Paolino Aloisio di Catanzaro e Giuseppe Vitale di Maida. Giunti fin qui, dobbiamo porci un’altra domanda: che tipo di formazione culturale possiede Fiorentino? Possiamo rispondere che Fiorentino è un divoratore di libri, “amo più i libri che gli uomini” affermerà in una lettera indirizzata a Francesco De Sanctis, nel 1861. Questa passione gli costerà molto a livello di salute e gli farà aumentare la miopia di cui soffrì a vita. Per sintetizzare, fino a quel momento la cultura di Fiorentino è abbastanza tradizionale e non poteva essere altrimenti considerate le fonti su cui si è formato e i maestri che lo hanno seguito e indirizzato. Viveva immerso nella tipica cultura cattolica meridionale, che non poteva essere allo stesso livello della cultura italiana ed europea. Le prime opere giovanili di natura filosofica composte da Fiorentino a Catanzaro, ad iniziare dal 1856, e fatte stampare due anni dopo a Messina, si muovono all’interno di una cornice teorica d’indirizzo cattolico abbastanza tradizionalista molto vicino allo spirito di restaurazione del tempo. Per riuscire a penetrare nella personalità di Fiorentino bisogna tenere nel giusto conto un altro importante fattore: la sua passione politica. Il prozio Giorgio era stato accantonato dalle gerarchie Lamezia e non solo

ecclesiastiche a causa delle sue idee carbonare e libertarie. Fiorentino respira questo anelito di libertà e ne rimane entusiasta. Inoltre, si nutre anche delle poesie patriottiche e risorgimentali di Leopardi, Manzoni, Berchet e Filicaia. I discepoli di Fiorentino concordano nel definirlo un maestro di vita che li infiammava fino a far prendere coscienza del cosiddetto problema nazionale. Nella seconda metà degli anni Cinquanta dell’Ottocento, la dinastia borbonica si avviava al collasso, nuove idee politiche, libertarie e risorgimentali infiammavano i cuori dei giovani, da sempre desiderosi del nuovo e in conflitto contro il sistema politico esistente che volevano cambiare anche con la rivoluzione e, se occorreva, anche immolando la propria vita. La figura che indirettamente condizionò Fiorentino, sia a livello religioso che politico, in questo periodo, è Vincenzo Gioberti, filosofo torinese, cattolico e personaggio politico. Nel 1843, Gioberti aveva pubblicato il saggio intitolato Del primato morale e civile degli italiani. Il primato di cui parlava Gioberti era il papato, istituzione politica e religiosa che in Italia esisteva da quasi due millenni. A livello politico, il saggio divenne, ben presto, il manifesto del neoguelfismo, cioè di un tentativo di soluzione alla questione italiana che individuava nel papa il presidente di una Confederazione di stati che doveva abbattere il predominio dell’Austria sulla penisola. In un certo senso questa era la risposta cattolica e moderata alle idee rivoluzionarie di Mazzini, reo di predicare non solo l’unità, ma anche la repubblica. Gioberti era amato dai giovani meridionali perché profetizzava la ripresa della tradizione italica, a partire da Pitagora. Il suo discorso si concretizzava, agli occhi di Fiorentino, quale recupero dell’antico retaggio meridionale che doveva ritornare a primeggiare o, almeno ad acquistare un ruolo rilevante, in Italia e in Europa. Nella sua polemica del 1876 con Francesco Acri, sopra citata, così gli scriveva: “Il mio Gioberti non si sarebbe piegato alla viltà del Sillabo, ed io fui cattolico a modo suo, scrivendo contro i papi a favore dell’indipendenza”. Al di là, del suo dinamismo filosofico, ovvero il passare dal giobertismo, all’idealismo e infine approdare al neokantismo, Fiorentino spese la propria vita per dimostrare che il Meridione aveva dei meriti innegabili. Se vogliamo evidenziare la cifra che contraddistingue la filosofia e gli scritti del Sambiasino, la possiamo ravvisare in questa volontà di dimostrare che il Meridione era stato la culla della civiltà e della libertà e, pertanto, doveva nuovamente inserirsi nei circuiti del pensiero, della cultura e dell’economia per rinascere e toccare il livello delle nazioni più avanzate. Ci può essere un pensiero più attuale, specie nella nostra epoca storica contraddistinta da decadenza culturale, etica e politica? Lamezia Terme 3 novembre 2020 Giovanni Martello P.s. L’allegata fotografia di Fiorentino, è l’ultima che lo ritrae dal vivo. Nel confrontarla con quella collocata nella sala consiliare dell’ex comune di Sambiase, scattata solo qualche anno prima, colpisce la stanchezza e l’invecchiamento precoce di un uomo che sta per compiere cinquanta anni. La foto presentata in questo articolo è incorniciata presso la Biblioteca Comunale “De Nobili” di Catanzaro. Vi arrivò alla fine degli anni Venti del secolo scorso, in seguito alla conclusione di una lunga trattativa, tra la famiglia Fiorentino, nella persona di Luisa Fiorentino in Ettari, secondo genita del Sambiasino, e il comune di Catanzaro. Alla fine, la città capoluogo acquistò la biblioteca del filosofo, adesso denominata Fondo Fiorentino, anche perché la città di Reggio Calabria aveva fatto una sua proposta ai Fiorentino. Inoltre, Catanzaro accoglie le spoglie mortali di Fiorentino e di sua moglie Restituta Trebbi, in una cappella costruita alla fine dell’Ottocento e restaurata alcuni anni fa.

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riverberi

Le poesie di Augusta Caglioti

di Augusta Caglioti

Giorno, notte

Intrappolo il giorno gravido di nere nubi in una luminosa notte. Trasgredisco le restrittive norme.

Un cristallino scintillio, in sala, esalta il bagliore di volti sorridenti e il tenue sottofondo di una dolce melodia rende pacato il nostro dire.

Tzzsss

Abbassiamo il tono! Potremmo disturbare il sonno di chi ha voglia di dormire e non pensare.

Ma anche noi dormiamo! Facciamo a gara a chi sa più sognare. In quanti siamo? In tanti.

Il sogno

non è passibile di ammende. Bello sarebbe se fosse virale!

In un libro

Se mi sento ostaggio del dolore o della solitudine mi rifugio in un libro

mentre ascolto il respiro del mondo

Se pur tortuoso percorrilo con fermezza.

Solo così nelle tenebre trovo spiragli di luce e certezze nelle parole.

Apparente e breve la felicità degli altri ed anche la tua.

Felicità

Sai guardare il destino con indifferenza? Potresti sentirti libera.

Emetti un soffio e il fiore perde ogni bellezza.

Libera se metti da parte il delirio dei pensieri.

Ma i semi sospinti dal vento genereranno una vita nuova.

Imbocca un sentiero nuovo.

e il mio respiro si fa più leggero

Breve

Come la piumata corolla del soffione.

scuola

Il Polo Tecnologico “Carlo Rambaldi” di Lamezia Terme viene segnalato nella classifica “Eudoscopio 2020

comunicato stampa

In un periodo in cui la scuola è al centro dell’attenzione nazionale per le polemiche sulle lezioni a distanza, il Polo Tecnologico “Carlo Rambaldi” di Lamezia Terme viene segnalato nella classifica “Eudoscopio 2020” della Fondazione Agnelli tra i primi tre istituti tecnici della Calabria, unico nella provincia di Catanzaro. “Si tratta – commenta la dirigente Roberta Ferrari – di un risultato che premia l’impegno dei docenti che in questi anni, ed in special modo in quello appena trascorso durante il quale l’emergenza Covid ha costretto ad operare in modo diverso rispetto agli altri anni mettendoci di fronte a situazioni per tutti noi nuove, hanno operato al meglio. Lavoro di squadra, attaccamento a questa professione che dovrebbe sempre avere come punto di riferimento la formazione degli uomini e delle donne del domani, sono stati i punti cardine su cui si e’ incentrata l’attenzione dei professori del Polo, sempre più protesi a guardare al futuro e, proprio per il tipo di studi che qui viene portato avanti, a ciò che la tecnologia può offrire per il miglioramento della vita”. Una menzione particolare, poi, la dirigente, la rivolge, oltre che al personale tecnico- amministrativo, grazie al quale la macchina amministrativa e tecnica può procedere con celerità ed accortezza, anche agli studenti del Polo che “con le loro competenze e la loro voglia di apprendere e, quindi, con i risultati ottenuti, hanno contribuito a far ottenere questo importante riconoscimento per una scuola relativamente giovane come la nostra rispetto ad altri istituti che operano sul nostro territorio e che, in alcuni casi, vantano anche tradizioni secolari. I giovani, oltre a rappresentare il futuro della nostra società - aggiunge Ferrari - , rappresentano anche la cartina di tornasole per chi opera nel mondo della scuola, come avvenuto in questo caso e l’attenzione del Polo è costantepag. 18

mente rivolta a questi ragazzi e ragazze con cui si lavora in sinergia ed in collaborazione, creando rapporti anche umani che travalicano i confini prettamente territoriali dell’Istituto”. E’ bene ricordare che la Fondazione Agnelli stila la classifica degli istituti superiori migliori d’Italia valutandoli secondo due parametri: quelli che meglio preparano agli studi universitari e quelli che offrono maggiori accessi al mondo del lavoro dopo il diploma Il Polo tecnologico, attualmente ha nove indirizzi per un totale di 986 alunni seguiti da 164 docenti. Una vera e propria “cittadella della tecnologia”, la cui “organizzazione” e’ affidata anche al personale tecnico-amministrativo per un totale di sessanta persone, che comprende 56 aule e 27 laboratori che comprendono 27 laboratori (elettronica, sistemi, tecnologia e progettazione di sistemi elettrici ed elettronici di cui uno per elettronici ed uno per elettrotecnici, meccanica, macchina a controllo numerico, grafica, elettrotecnica, informatica, energie alternative, droni, robotica, scanner 3D, simulatori di volo aereo, microbiologia, atelier moda ecc…)

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Lamezia e non solo


poetando

Le poesie di Rosario Muraca Americana Eri tutta americana. La nuova leggenda che da oltre oceano invase pensieri ed anima di intere generazioni. Ti incontrai per le strade d’America. Viaggiavamo entrambi alla ricerca di orizzonti sconosciuti. “On the road” mi dicesti, “On the road”, se vuoi assaporare davvero la libertà, scoprirti uomo dinnanzi al mondo. E le tue parole mi incantarono. Rimasi vicino al tuo respiro, ascoltando i battiti del tuo cuore, vedendo le tue labbra asciugarsi al vento caldo della lunga strada. Eri il mito americano, modellato da Pavese e Vittorini, amato attraverso le letture di Hemingway, di Kerouac, di Ginsberg, attraverso le canzoni di Elvis Presley e Bob Dylan. Le tue parole formavano modelli di vita, lo stato temporale che perfeziona l’immortalità delle cose. Ma oggi ti riscopri in un tempo vissuto, tuo vecchio compagno di sbronze, di nuove avventure, che di notte in notte inseguono ancora il vecchio sogno americano.

Dea del presente

Sei bellissima. Quando il sole tramonta tra Scilla e Cariddi, tra Vulcano e le Isole Eolie, tu riappari dalle onde del mare. Quante cose vorrei dirti. Ma nuove parole hanno inondato di significati il discorso; una voce virtuale ti designa il tempo presente e futuro, dove non si conosce più l’antica perfezione della genesi, dove segni di diverso genere compongono concetti aperti e futurismi.

Tu rimani il tempo passato e presente, la storiografia di un universo che oramai ha cancellato ogni fondamento di logica. Nulla importa se il discorso moderno trova significati diversi nell’insieme della comunicazione orale e verbale, tu sei sempre la similitudine dell’anima, l’essenza naturale che unisce la sorte al principio che domina su tutte le cose. Rimani sempre bellissima. Sorgente di luce che percorri le pianure dell’umana sofferenza, sentiero che unisce la conoscenza al perfetto, soffio vitale al lume che contiene la tenue ed universale speranza.

La nostra epoca

Un video ha trasmesso la tua immagine. Non parla: codifica dati, analisi lucide che rispondono ad un criterio di logica. Resta remota più del tempo; ora identificata in rete, ora visualizzata nella mia mente. Non conta più il progredire del presente: nel prossimo futuro ci saranno epoche ricche di avanguardia, dove sarà possibile cliccare un tasto e correggere persino l’andamento del tempo. Lo so che rimani remota più di ere antidiluviane; ma, in tutto questo periodare, sei rimasta la mendicanza cruda dell’anima, la solitudine tagliente che ha inciso solchi profondi dentro il cuore e abbandonato dentro fiumi di rimpianti. Non basta che tu appari dentro un video multimediale, soggiogata da internet, struttura omologata alle reazioni di un principio rimasto morto nella memoria. Adesso siamo due entità lontane e separate, ma sommerse dall’acqua medesima concettualità della vita. Un clic sarà la formattazione dei giorni futuri, quando anche i sentimenti, la nostra sessualità, i rapporti con il mondo esterno, saranno trasmessi da un video che avrà scarnato le reminiscenze dell’anima.

Le perle di Ciccio Scalise NENTI NENTI, SI SENTI UNNIPUTENTI di Ciccio Scalise O quatrà, o sugnu critinu iu, o chistu nentimenu, si senti Ddiu, du Natali ha gia cuminciatu a pparrari, ppimmu a ggenti cumincia a smaniari. Mà chini si?, ma cumu ti pirmiatti, ppimmu a Fhesta di Fhesta mpiatti, armenu chistu, lassani pinsari, ca u Natali, nSanta Paci nù putimu fhari. E cchi mmalanova sì, mà va fha nculu, chimu l’avera i fhari tu, nquarantena e ssulu, lassani fhuttari, fhanni spirari, Lamezia e non solo

cà stà Fhesta, cumu ogni annu a putimu fhari. U stà dimustrandu cà un ccapisci nenti, e bbà mintiandu nfribbillazioni a ggenti, , e cchilli capimbrella chi tiani vicini, siti bbuani sulu ad’armari grandi casini. Nù misi e mmianzu manca ancora, e ggià dici cà, u cani amu i lassari fhora, sì, arrassusia, alla tavula mu mangiamu, cchjiù ddi sia cumminsali n’assittamu.

Asseria nu pocu, fhallu ppì ccarità, u populu, ha avutu guai, e ancora quantu ndà, vidi u ciarbiallu mu fhai fhunziunari, ppimmu duni ajiutu a cchini un ppò mmangiari. L’umiltà Prisidè, l’umiltà, pussibbali cà ù Ila saputu, cà sempri randi, ad’ogni ppirsuna rispunsabbili ha ffaciutu.

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l’angolo di gizzeria

Una mamma davvero eccezionale di Michele Maruca Miceli

Teresa Mastroianni fu Vincenzo e fu Maria Giuseppe Maruca detta a” pecurara”, nasce a Gizzeria il 09 Marzo del 1887 ed all’età di 16 anni sposa nel 1903 Falvo Giuseppe fu Francesco e fu Maria Colella. Ella, anche oggigiorno viene ricordata, soprattutto, per aver messo al mondo 21 figli 18 dei quali viventi. Il suo è stato un vero primato, anche per quei tempi. Non era certo consuetudine il verificarsi di un tale evento cosi straordinario. Per questo ebbe l’encomio solenne da parte del re Vittorio Emanuele II. Questa semplice e

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grande famiglia viveva di agricoltura, il babbo lavorava con la pastorizia, la mamma accudiva alle faccende di casa e inoltre dedicava il poco tempo che le rimaneva della giornata, a fare il formaggio. Venne la guerra e mamma Teresa si disperava perché sette dei suoi prediletti figli furono chiamati alle armi. Ogni giorno, mentre attendeva ai lavori nei campi, pregava Iddio e i Santi affinché potessero ritornare sani e salvi a casa. Ebbene, dopo quattro lunghi anni, tutti e sette figli fecero ritorno a casa. La loro vita si svolgeva nei campi, nella proprietà dei feudali dell’epoca, in contrada Livadia, in un grande pagliaio costruito con la “ lascina “ particolare erba palustre che fa scivolare l’acqua quando piove. Si dormiva stipati in un unico ambiente, tipo agreste pastorale, sopra uno strato di paglia e con i piedi vicino al fuoco. Una sera, accidentalmente il pagliaio prese fuoco, e grazie all’intervento prodigioso di uno dei figli, che accortosi di quanto stava succedendo, riuscì a salvare i suoi fratelli e le sorelle trascinandoli fuori ancora addormentati. Appena appresa la notizia di quanto era accaduto,molti furono i volontari del paese che accorsero in aiuto alla famiglia, per la ricostruzione di una nuova dimora. Mamma Teresa Mastroianni detta “ a pecurara” e l’intera sua famiglia furono sempre riconoscenti verso quei concittadini che con tanta dedizione si prodigarono nel riportare loro un po’ di serenità in un momento così difficile. Un ringraziamento particolare va alla memoria della sig.ra Rocca Teresa che ci forni, negli anni passati le foto e ci fece conoscere una pagina straordinaria del passato del nostro paese ricco di emozioni e fratellanza umana. Elenco dei figli: 1) Carmelo n. 1904; 2) Giovanna n. 1905; 3) Maria n. 1905; GrafichÉditore di A. Perri - & 0968.21844

4) Giovanni n. 1907; 5) Giovambattista n. 1910; 6) Carmela n. 1911; 7) Antonio n. 1913; 8) Gennaro n. 1914; 9) Tommaso n. 1915; 10) Peppino n. 1917; 11) Tommasina n. 1918; 12) Raffaele n. 1920; 13) Bruno n. 1921; 14) Pasquale n. 1922; 15) Salvatore n. 1924; 16) Giuseppina n. 1925; 17) Carmela n. 1927; 18) Vittorio n. 1928 ) . Saggezza antica : “figli picciuli guai piccioli …figli grandi guai grandi“ (Figli piccoli guai piccoli, figli grandi guai grandi). “chi na ssi curca ccù mmamma u chjamu tata“ (Chi va a letto con la mamma lo chiamo papà. Il bisogno costringe spesso ad accettare qualsiasi padrone e qualsiasi regime politico).

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la parola allo psicologo

Oggi i giovani stanno male…. di Raffaele Crescenzo Pedagogista - Perfezionato in“Psichiatria di Consultazione e Clinica Psicosomatica” Oggi i giovani stanno male, dice Galimberti, non per le crisi esistenziali ma perché tra di loro si aggira un ospite inquietante, il nichilismo, che “penetra nei loro sentimenti, confonde i loro pensieri, cancella prospettive e orizzonti, fiacca la loro anima, intristisce le passioni rendendole esangui”. Il nichilismo che Nietzsche chiama ‟il più inquietante fra tutti gli ospiti”. Siamo nel mondo della tecnica che non tende a uno scopo, non produce senso, non svela verità. I concetti di individuo, identità, libertà, senso, ma anche quelli di natura, etica, politica, religione, storia, finiscono sullo sfondo corrodendoli. Determinando per i giovani, contagiati da una progressiva e sempre più profonda insicurezza, lo scorrere della vita vissuta in terza persona. I giovani rischiano di vivere parcheggiati nella terra del niente dove la famiglia e la scuola non ‟lavorano” più, dove il tempo è vuoto e non esiste più un ‟noi” motivazionale, causando il crollo di tutti i valori. La cosa è meno preoccupante da un punto di vista della sopravvivenza della nostra specie, perché la storia va comunque avanti e perché alcuni valori tramontano e altri sorgono; al contrario del nichilismo che presuppone non ne sorgano di nuovi. Valori da intendersi come fattori di coesione sociale, ma la nostra società ne è sprovvista, li ha persi lungo la strada, viviamo in una sorta di solitudine di massa, dove il futuro è destrutturato. I nostri giovani hanno davanti il niente che si prospetta, il niente che entusiasma; senza sollecitazioni, che li porta a “sbronzarsi” di finte emozioni, di immagini violente, di sensazioni forti ma artificiali. Anche se non lo avvertono o forse non lo sanno, i ragazzi stanno male, i loro pensieri sono confusi, gli orizzonti opachi, l’anima è fiacca e i sentimenti non bruciano nel loro cuore, come invece dovrebbe accadere a quell’età. Parlare di emozioni con gli adolescenti sembra oramai l’impresa del secolo. Nonostante l’adolescenza sia il periodo di vita più ricco di tempeste emotive, affetti dirompenti ed emozioni travolgenti, studiosi, ricercatori e clinici sembrano essere tutti d’accordo sul fatto che l’argomento “emozioni” rappresenti una difficoltà per i giovani adolescenti, sempre sfuggenti dalle conversazioni e dalle situazioni quando queste sembrano muoversi verso una direzione più profonda ed emozionale. Tante le spiegazioni che psicologi, neurologi e psichiatri hanno cercato di dare a questo. In primis c’è da considerare l’aspetto neurobiologico concernente alcune aree del cervello dell’adolescente che ancora devono finire di svilupparsi, come ad esempio la corteccia prefrontale, responsabile dell’inibizione di comportamenti impulsivi e irruenti, oppure il sistema limbico, al centro del funzionamento emotivo e della regolazione emozionale, che in questo periodo è ancora molto sensibile ed eccitabile. Pertanto ad una difficoltà di origine neurobiologica nella gestione delle emozioni corrisponderebbe anche una difficoltà a verbalizzarle. Lamezia e non solo

Una maggiore, complessità ad identificare i propri stati d’animo e le proprie sensazioni, così l’adolescente finisce per ignorare, o meglio distanziare, le componenti affettive, orientandosi verso un mondo più concreto, fatto di azione apparentemente più facile da codificare. Urge considerare però che un adolescente non impara da autodidatta a leggere ed esporre le proprie emozioni, ma necessita della guida del mondo degli adulti. All’interno del mondo degli adulti si dovrebbero sperimentare e apprendere, le competenze emotive di base, come la capacità di esprimere le proprie emozioni e di comprendere quelle altrui, che costituiscono i presupposti di base dell’intelligenza emotiva. Tuttavia nella fase adolescenziale queste competenze emotive, che siano o meno state apprese, vanno incontro ad un provvisorio ridimensionamento, conseguenza anche del distacco dalle figure genitoriali, finalizzato al raggiungimento del compito evolutivo più importante e significativo, quello di acquisire l’identità adulta. Per poter conseguire tale compito è necessario un graduale incremento di indipendenza e differenziazione dai genitori, infatti in adolescenza si verifica nuovamente un processo di separazioneindividuazione che porterà l’adolescente a distaccarsi dai propri oggetti internalizzati, ossia i genitori, per rivolgersi verso oggetti esterni alla famiglia. I ragazzi in questa fase sono alla ricerca di nuovi oggetti ed affetti, ed un’importanza fondamentale la riveste il gruppo dei pari, il quale rappresenta per l’adolescente il luogo in cui trovare supporto, sicurezza affettiva, in cui fare intense esperienze emotive, ed in cui è possibile, attraverso esperienze di identificazione con i membri del gruppo, l’elaborazione dell’identità. Ed è proprio il gruppo il posto elettivo in cui i giovani adolescenti cominciano a parlare di emozioni, a condividere affetti e punti di vista, fino ad arrivare alla messa in discussione dei propri stati d’animo. Pertanto, l’obiettivo è quello di rilevare alcune delle cause della difficoltà adolescenziale nel verbalizzare le emozioni, sarebbe utile considerare l’ipotesi di un cambiamento di direzione. Non deve essere solo dell’adolescente lo sforzo di aprirsi, di raccontarsi e rivelarsi, ma sta a coloro che si trovano a contatto con i giovani, come i professionisti della salute mentale, ma anche i genitori, gli insegnanti, il compito di interrogarsi su percorsi alternativi per sradicare le emozioni dagli adolescenti, in quanto esse sono presenti e scalpitanti, e hanno solo bisogno della giusta modalità per essere tirate fuori. Occorre aiutare gli adolescenti a liberare le emozioni dall’analfabetismo emotivo. Il problema non è il vuoto nei giovani ma il deserto creato dagli adulti. Non è il non credere a qualcosa o qualcuno ma l’assistere alla distruzione sistematica di ciò in cui poter credere. Nell’ultimo capitolo, Il segreto della giovinezza, Galimberti lascia pensare che disvelare ai giovani la loro ‟pienezza”, la loro ‟espansività” sia il primo passo per ricondurre a verità il salmo 127: “Come frecce in mano a un eroe sono i figli della giovinezza”.

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lamezia racconta

Lamezia Terme, Città costituita per essere al servizio della Regione: Sia sinergica con il Suo Hinterland! “LAMEZIAENON SOLO”, non è da meno, sta facendo da apripista! Essere cittadino di Lamezia Terme riempie di orgoglio. Essa è una città dove tutto è reso possibile, per cui quando le dai te stesso, essa ti chiede, ancora, di più. Ti accorgi, allora, di non avere dato abbastanza, quindi, devi tenere il suo passo: non puoi disattenderla! E’ arduo, quindi, esserne cittadino, tanto più, sindaco, amministratore, consigliere comunale, dirigente. Lamezia chiede, e tutto l’è dovuto! Peraltro, ad essa stessa si chiede sempre di più, perché il Buon Dio le ha elargito tutto: posizione geografica baricentrica nel contesto regionale, natura lussureggiante, terme, pianura, monti, mare, entroterra rigoglioso. Non è un caso che nel tempo, a noi vicino, la sua Nicastro fu scelta dagli Amalfitani come sede operativa dei loro commerci pieni di servizio; la sua piana dai Siciliani per un’agricoltura avanzata e competitiva nell’export. Se i campanilismi avviatisi in Calabria, nel 1970, non l’avessero dimenticata, essa ne avrebbe favorito lo sviluppo armonico perché “nata” per essere Città al servizio della Regione: il senatore Arturo Perugini ne aveva colto la vocazione. Il suo territorio baricentrico avrebbe dovuto interagire in modo sinergico con i territori di Cosenza, Catanzaro e Reggio Calabria (queste le province al tempo, ndr), evitando che la Provincia di Cosenza fosse attratta dal metapontino; quella di Reggio dall’area dello Stretto. Così, non fu, mentre i “fatti di Reggio”si conclusero con una spartizione, così come si fa per il bottino, tra “ compari”, tra le sole città di Catanzaro, Cosenza e Reggio Calabria, lasciando la Calabria in balia di se stessa. Né gli abitanti, l’artigianato ed il commercio di quelle municipalità hanno avuto, nel tempo, i vantaggi di tanta nefasta spartizione: perché in economia si cresce insieme! Tanto non ha aiutato lo sviluppo regionale perché, da una parte, erano escluse le zone montane e periferiche della regione e con esse i centri calabresi: Crotone, Vibo, Soverato per la provincia di Catanzaro; Paola, Rossano, Castrovillari per Cosenza; Locri, Gioia Tauro per Reggio Calabria, dall’altra! Erano, ahimè, disattese le finalità di Lamezia Terme e, con essa, lo sviluppo dell’intera Regione Calabra. I risultati negativi che continuiamo a registrare,( ora, siamo, perfino, al tappeto come pugile suonato) trovano ragione in quella sciagurata “ spartizione”: un Consiglio regionale a Reggio Calabria ed una Giunta a Catanzaro con tutte le disfunzioni possibili sul piano politico – amministrativo-burocratico, e con una vittima illustre della strada, l’on. le Guarascio, primo presidente della Giunta Regionale: una Cosenza che, rimasta “isola” a sé, giorno dopo giorno, perde il suo fascino, la sua classe politica, la verve di un tempo; una Reggio Calabria che, dimentica del suo territorio provinciale, per cigolarsi nell’area metropolitana, tendendo a essere sinergica con l’area dello Stretto (e che il riconoscimento dell’area metropolitana ha accentuato allontanandola dal contesto regionale), mentre esplodono in tutta le loro difficoltà: Locri ed il suo hinterland; Gioia Tauro ed i paesi della piana, territori lasciati in balia di se stessi. Catanzaro, sempre più deserta! Le province di Vibo e Crotone, pur piene di potenzialità, povertà nelle povertà! Ovvero, la Calabria nella sua unitarietà e sinergia operativa, non c’è; la spesa pubblica e gli interventi comunitari utilizzati senza efficacia perché si è erogato lasciando a se stesso l’investimento, mancando una visione d’insieme, coordinata e sinergica. Si è consumato e si consuma, in tal modo, il fallimento della classe politica e dirigente che, di volta in volta, si avvicenda nella gestione della “res publica”in un canovaccio che si ripete nelle competizioni elettorali, con l’opposizione che dice male della maggioranza uscente, per ripetersi, una volta al governo, in quello che contesta. Paradossalmente, la legge elettorale, votata nel pag. 22

di Francesco De Pino

2014 con il suo sbarramento all’8%, unico in Italia, perché non rapportato alla popolazione calabrese. Nell’ultima competizione elettorale regionale ne sanno qualcosa, le liste di “Tesoro di Calabria” con il 7,22% dei suffragi ed il “Movimento Cinque Stelle” con il 7,35%. E a dire che i propri candidati a Governatore, sorretti dalla propria esperienza e professionalità, avevano impostato programmi innovativi di alto spessore sociale, economico, organizzativo : Carlo Tansi, di “Tesoro di Calabria” Ricercatore del CNR, (dove si occupa dello studio delle faglie attive che interessano l’Appennino meridionale, e delle relazioni tra queste faglie e i terremoti e le frane), già presidente nella protezione civile calabrese ; i CinqueStellati, con Francesco Aiello, Docente Universitario di economia politica all’UNICAL. La legge elettorale li ha “appiedati”. La Casta si era blindata, resta blindata, anche, dopo le variazioni apportate dall’ultimo Consiglio regionale calabrese del 10/11/2020! Le “Calabrie”, allora, non sono solo un fatto storico (Calabria Citra e Calabria Ulteriore, SS delle Calabrie, ndr), ma una realtà, anche, dei nostri giorni. La mancata scelta di Lamezia evidenzia tutta la miopia e/o la tracotanza della classe politica succedutasi nel tempo e fino ai giorni nostri, mentre la Città di Lamezia Terme è sede dei loro incontri. Perché, allora, tanta scelta non doveva, non deve essere per l’economia e lo sviluppo dell’intera Regione? Questo dire, vuole dimostrare la validità di quel ruolo di servizio della nostra Città sin dal 1970. Non è campanilismo, il mio, ma una esigenza resa indispensabile allo “status” in cui langue l’economia calabrese, un’economia marginale, mentre compriamo e vendiamo NORD!. Per cui restituire Lamezia Terme al ruolo per cui è vocata è sempre attuale, non foss’altro, perché favorirebbe la riduzione dei tempi dell’operatività (mentre ripara dai campanili) in un contesto nazionale e mondiale in cui gli altri non si fermano, proprio per la caduta del mercato globale, una “deglobalizzazione” che ha avviato una corsa per affermare le loro economie, pur in costanza di Covid, per cui è sempre più difficoltoso raggiungerli, se non trovi strategie vincenti, programmazione, sinergie, territori che accomunano. Non possiamo e non dobbiamo restare sul tappeto come pugili suonati sul ring, tutt’altro! Incominci, per il momento, Lamezia Terme, nel suo processo di sviluppo socio-economico a coinvolgere il suo Hinterland, già nell’ex Comunità Montana del Reventino, dove insiste la “ Svizzera del Sud), e nell’ex Comunità Montana di Fossa del Lupo, (la Sila sul mare) per i paesi che ricadono sul versante del Tirreno: Jacurso, Cortale, Girifalco. Parimenti, essa deve essere sinergica con Pianopoli, Feroleto, Maida, San Pietro a Maida, Curinga, ovvero, con tutto il territorio della Diocesi di Lamezia, con la stessa Diocesi. Territori che sono legati a Lamezia da storia comune, ma necessitati, oggi come non mai, a frenare gli esodi demografici, nonostante le loro potenzialità: paesaggi paradisiaci, validi artigiani del legno e del ferro, terreni rigogliosi e fecondi che necessitano del corretto uso dell’agricoltura produttiva diversa da quella “previdenziale“; una tipologia architettonica che affascina (quelle case dagli esterni rustici, una caratteristica delle nostre zone interne, a volte, deturpate dagli intonaci). E’ ora che, anche, le Amministrazioni di queste Comunità interagiscano con Lamezia Terme e con le sue infrastrutture: pianura-montagna: una sinergia indispensabile, dove tutto è “Centro” e niente e “periferia” nelle pari dignità, cui si accompagnano gli strumenti urbanistici esistenti, ivi compreso il piano dei trasporti. Soltanto, di concerto con la Città della Piana, ed essa con loro, si possono trasformare in volano di sviluppo le

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Lamezia e non solo


medicina

La percezione del dolore nel neonato Dott. Gianfranco Farina, Medico Chirurgo, specialista in Pediatria

Fino a qualche tempo fa, si pensava che il neonato, a causa dell’immaturità delle varie strutture, non fosse in grado di percepire dolore. Attualmente si pensa che anche il neonato è sensibile allo stimolo doloroso. Infatti pare che fin dalla ventitreesima settimana di gestazione il Sistema Nervoso Centrale è completo per rispondere agli stimoli dolorosi (nocirettivi)mentre altre strutture non sono ancora complete. Pertanto nella Terapia Intensiva Neonatale il dolore del neonato viene monitorato tramite diverse scale algoritmiche: Frequenza Cardiaca, Frequenza Respiratoria, Saturazione di Ossigeno e Pressione Arteriosa), scale uno o multidimensionali. Contribuiscono anche al sollievo del neonato alcuni accorgimenti ambientali quali: Ambiente tranquillo, contatto fisico, somministrazione di sostanze zuccherine, succhiotto, allattamento al seno. Resta tuttavia prerogativa del personale medico e infermieristico esperto accorgersi del grado di dolore che il neonato presenta Accompagnamento della famiglia e comunicazione in caso di “prognosi infausta” in età pediatrica L’articolo 33 del Codice di Deontologia Medica riferisce quanto segue: “Il medico deve fornire al paziente la più idonea informazione sulla diagnosi, sulla prognosi, sulle prospettive e le eventuali alternative diagnostico terapeutiche e sulle prevedibili conseguenze delle scelte operate. Il medico dovrà comunicare con il soggetto tenendo conto delle sue capacità di comprensione, al fine di promuoverne la massima partecipazione alle scelte decisionali e l’adesione alle proposte diagnostico terapeutiche. Ogni ulteriore richiesta di informazione da parte del paziente deve essere soddisfatta. Le informazioni riguardanti prognosi gravi o infauste o

tali da poter procurare preoccupazione e sofferenza alla persona, devono essere fornite con prudenza, usando terminologie non traumatizzanti e senza escludere elementi di speranza.” Detto articolo racchiude in se tutte le tematiche che il medico pone in essere per comunicare ai genitori qualsiasi diagnosi e prognosi del bambino. La comunicazione infatti è un atto medico e pertanto in rapporto alla prognosi essa può essere agevole o in alcuni casi molto complessa e difficile. Sta di fatto che quando ad un medico tocca il compito di dare notizie di una prognosi infausta è un momento monto infelice, un momento che non vorrebbe mai capitasse. Per quanto possa mantenere la “freddezza professionale”, finisce, inesorabilmente, ad immedesimarsi e partecipare al dolore della famiglia. E’ un momento tragico! Il medico stampa nel suo cervello, ricordandola sempre, la frase: “ Mi ricorderò tutta la vita il momento della diagnosi”. Naturalmente non esiste un comportamento standard del medico per la comunicazione, ognuno ha il proprio metodo in base alla propria esperienza e sensibilità. In conclusione i caratteri che rendono efficace l’azione di sostegno sono: l’autentica disponibilità, l’accettazione e il rispetto incondizionato dell’altro, l’empatia e l’autenticità. Questi, ritengo, sono i caratteri fondamentali di una buona e corretta comunicazione che in caso di prognosi infausta, modulano l’effetto doloroso della notizia. Dott. Gianfranco Farina, Medico Chirurgo, specialista in Pediatria

loro potenzialità. Tanto dinamismo operativo favorirà l’afflusso d’investimenti esterni alla stessa Calabria, specialmente, se il nostro mare tornerà ad essere appetibile, il nostro ambiente tutelato, soprattutto, con il nostro civismo.

sione per riportare questo Centro alle finalità volute da due sognatori che guardavano lontano, per cui a Lamezia Terme: un Consigliere/Amministratore comunale, un Ricercatore del CNR!

Occorre,però,un “idem sentire” per costruire uno sviluppo economico endogeno di riferimento che s’irradi dal lametino e che valorizzi, con l’innovazione e la ricerca, nicchie di mercati, momenti produttivi collaterali, i settori trainanti di sempre: agricoltura-artigianato e turismo, in gemellaggio con il commercio ed il terziario! Sarà, quanto mai, utile l’apporto del mondo delle professioni, dello stesso CNR, che opera a Lamezia Terme, con l’Istituto di Scienze sull’Atmosfera e Clima, attiguo all’area del Centro Agro-Alimentare, il quale costituisce un’occaLamezia e non solo

Il nostro mensile “LAMEZIAENONSOLO”, non è da meno, sta facendo da apripista! Il nome della sua testata è eloquente, “ LAMEZIAENOSOL0”! Occorre che sia il riferimento di noi tutti Cittadini di “Lameziaenonsolo! Non può continuare a vivere nel volontariato per supportare tanta espansione, per la sua parte! Occorre del nostro apporto e sostegno per essere un volano nella comunicazione del nostro “Sviluppo Endogeno-Innovando Nella Tradizione”. Ne parleremo. Insieme si può!

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di Maria Palazzo

Carissimi lettori, come vi avevo preannunciato, anche questa volta, parleremo di un libro di Francesca Nunzi. Il secondo libro che la nostra amica ha scritto, si chiama: “LIBERI ECCESSI DI FANTASIA TRA PADRE E FIGLIA” e racconta, come dice la stessa scrittrice, nell’introduzione, “la storia di un grande amore, quello di un padre verso sua figlia, quello di una figlia verso suo padre”. Francesca ci parla della sua vita, attraverso piccole narrazioni e brevi composizioni in versi: ninne nanne, filastrocche, sonetti, poesie. Credo non sia mai stato facile narrarsi e parlare di sé. Anche gli scrittori più grandi hanno avuto difficoltà, pudori e timidezze: per regalarsi agli altri, occorre una forte personalità, una schiettezza assoluta e una sincerità che non teme il confronto col mondo. Ritroviamo, nei piccoli racconti, nei pensieri, nelle riflessioni, l’infanzia di Francesca, di sua sorella e il dolce mito del papà. Sono cose che sembrano lontane, addirittura scomparse, in un mondo che corre e, invece, ritroviamo persino noi stessi, i nostri sogni, le favole inventate dai nostri genitori, per rendere più bella la nostra vita da bambini… Nelle ninne nanne, poi, Francesca ci parla dei suoi figli, dei suoi nipoti, dei neologismi infantili, con cui si diletta, cercando rime simpatiche. E’ un lavoro apparentemente spontaneo, ma rivela l’estrema padronanza delle parole che un’autrice teatrale e televisiva, come la Nunzi, padroneggia con grande maestrìa, ma anche simpatia. Se lavorassi anch’io nel mondo dello spettacolo, vedrei le parole obbedire a Francesca, come fossero composte da lettere ballerine che, comandate da lei, a mo’ di direttore d’orchestra, potrebbero essere messe insieme, come si mettono insieme le note e, invece di creare melodia, creano parole che danzano. Ma la melodia esiste lo stesso. Su quella suggerita da suo padre o da lei, alcuni Maestri di Musica, hanno dato il loro contributo: per esempio, Marco Petriaggi o Gerolamo Piergiovanni… pag. 24

Leggendo tutto il libro, attraverso ogni singolo pezzo, ho come l’impressione di leggere una piccola Antologia di Spoon River, ma in chiave leggera, allegramente delicata, che parla di vita e non di morte, al contrario di quella di Edgard Lee Masters. Una carrellata di eventi, versi, motti e fole che non nascondono emozioni relative agli eventi, ma che, poi, perdono la dimensione autobiografica, per riflettersi in ogni lettore. I versi e i racconti di Sergio Nunzi, il papà di Francesca, che ha lo stesso nome di suo figlio, sembrano investiti da una luce particolare: quella malinconica del ricordo, ma anche quella attuale della gioia. A Sergio senior, è infatti, dedicato l’intero libro, definito, sempre nella prefazione, un minestrone di fantasia, che, infatti, contiene uno spettro multicolore, che ci coinvolge, come un arcobaleno, che ameremmo cavalcare e su cui ameremmo sognare… Mi ha fatto bene, lo dico sinceramente, leggere questo libro, così come il precedente, non solo perché faccia bene ritrovare l’infanzia e i buoni sentimenti, ma anche perché, in un momento storico duro, difficile e persino nebuloso, come quello che stiamo vivendo, il suo contenuto offre momenti di quella rara spensieratezza, che sembra bandita da questo nostro tempo, non fra i migliori vissuti… Offre anche forza e fiducia, dunque, persino nel futuro, riprendendo un passato che ci ha visti felici. E’, questo, un modo di continuare a credere, oltre che di leggere bene. E’ una festa, in un periodo in cui, tale parola, sembra impossibile da pronunciare: e offre calore, affetto, ci fa sentire avvolti, noi che, per ora, non possiamo abbracciarci, né stringerci neppure le mani e nemmeno baciarci… Un grazie infinito a questa scrittrice delicata, che entra in punta di piedi nel nostro cuore e vi rimane, per generarvi dentro un senso di nuova dolcezza, che ci fa dimenticare gli affanni e ci fa ben sperare… Buona lettura felice. Noi ci ritroveremo fra un mese, con altri libri, altri scrittori, altre storie.

GrafichÉditore di A. Perri - & 0968.21844

Lamezia e non solo


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