Lameziaenonsolo maggio 2019 padre paolino tomaino

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Libri GRAFICHÉDITORE presenti al Salone Internazionale del Libro 2019 3D Teraphy la materializzazione delle emozioni di Mariannina Amato

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Cultura e letteratura nel lametino di Italo Leone Dal Codice di impulsi informativi di Aristotele all’Editing del Genoma di Luigino Mazzei E vissi aspettando il sole di Maria Russo Faville Aforismi per la contemplazione filosofica di Filippo D’Andrea Gianni Renda Il volto splendente di un giovane del sud di Filippo D’Andrea Il cuscino di traverso e i pensieri conseguenti di Enzo Ferrise

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Cujjianti cari di Ciccio Scalise

Il tango ed i suoi labirinti di Antonio Cittadino

Joachim Murat la vera storia dell’assassinio del re di Napoli di Vincenzo Villella

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A passo di capre Liriche per la contemplazione filosofica di Filippo D’Andrea

Il racconto di una lunga esperienza associativa conquistata sul campo di Ippolita Lo Russo Torchia

La storia della foglia Camilla di Anna Veraldi

Respirare: La tracheotomia, scelta e sfida per una vita indipendente di Antonio Saffioti e Salvatore D’Elia Orizzonti verticali di Tonino Spena Rêverie di Francesco Luca Giacobbe Scurchjuliandu scurchjiuliandu di Ciccio Scalise Sulle ali del tempo di Sara Matera Sussurri del Reventino di Maria Grazia Paola


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Padre Paolino Tomaino

di Donatella Villella

Padre Paolino Tomaino è l’unico missionario lametino da oltre mezzo secolo in Africa. Chiediamo direttamente a lui di raccontare la sua storia straordinaria sapendo coglierne la semplicità del messaggio che, nell’essenza, è dono della sua vita agli altri. Padre Paolino nasce a S. Pietro Apostolo, a pochi chilometri da Lamezia Terme, il 4 Novembre del 1937. Cosa ricorda della sua infanzia? Forse solo un persona vissuta allora può immaginare la vita di un ragazzo, in un paesino, in quegli anni, nel mio caso dal 1937 al 1956. Era il periodo della guerra: di notte si scappava dalle case e si correva in campagna, vicino al paese. S. Pietro Apostolo era invaso dai tedeschi, ma non ricordo alcun problema particolare legato a loro. Mia madre mostrava sempre una medaglietta che le aveva regalato un soldato e diceva che anche il letto di legno dove dormivamo era stato costruito da un tedesco. Il mio insegnante, Don Corrado Mazza, applicava nella scuola elementare una disciplina militare; di lui si diceva che non mancava mai dalle lezioni, neanche se ammalato, ed in effetti, in cinque anni, non ricordo un giorno senza la sua presenza. Poi ho saputo che non era un credente, ma se sono quello che sono, lo devo a lui. In quei tempi, nei paesi come il mio, non si parlava di formazione cristiana e ci si arrangiava da soli. La Provvidenza si prendeva personalmente cura di coloro che aveva destinato a compiti speciali, come nel mio caso. La mattina frequentavo la scuola ed il pomeriggio andavo verso il fiume, al mulino dei miei nonni e degli zii. Tutto ruotava intorno alle feste religiose. Grandi occasioni erano le Prime comunioni e le Cresime: non vi erano regali, ma ci si vestiva bene. Della preparazione a questi grandi Avvenimenti di Dio, non ricordo niente. In fondo la mia è stata un’esistenza normale, senza grandi problemi, senza desideri, senza bisogni inutili ma con tanta amicizia e solidarietà. I matrimoni erano occasioni per gustare un confetto: in genere la sposa li lanciava dalla porta e non era assicurato che ognuno ne avesse uno. Non ricordo che una sola volta abbia chiesto ai miei genitori di darmi del denaro. Per farne che cosa? Tutto quello di cui avevo bisogno era in casa. Ricordo un “ritornello” che dovevo sentire ogni mattina. Gli insegnanti andavano a scuola a piedi e alcuni passavano davanti a casa nostra, che aveva la porta sulla strada. Immancabilmente mia madre ripeteva

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ogni mattina “Don Corra’, minatilu, minatilu a ‘stu guagliune, ca me fha disperare!” Finite le lezioni, andavo dai miei nonni ad ascoltare “ ‘e rumanze”, i racconti di vita. Gli anni di frequenza delle scuole elementari trascorrono dunque nella serenità. Poi inizia il tempo delle prime scelte. In quinta elementare eravamo una cinquantina tra ragazzi e ragazze. L’insegnante, all’ultima ora di lezione, assegnava un problema di matematica e chi prima lo risolveva, poteva

sostenere gli esami di ammissione per accedere alla Prima Media, da frequentare a Decollatura e da raggiungere con il treno. Avevo soltanto due mesi per prepararmi con Rosarino, che tutti chiamavano il ragioniere, che aveva sposato la figlia di Don Corrado. E cosi iniziò questa nuova fase della mia vita: esami di ammissione, promozione, e tre anni nelle scuole Medie di Decollatura.. Mio padre mi raccontava che i vicini ironizzavano: “Un mugnaio cosa ne vuol fare del figlio, un maestro?” Per quei tempi era una cosa nobilissima.

uscire senza aspettare che suonasse la campanella. Era un metodo per conoscere la bravura di ogni alunno ed io ero sempre il terzo o quarto. Eppure dico che c’è Qualcuno che dirige la nostra vita. Finita la scuola elementare, come per quasi tutti i ragazzi del paese, s’iniziava a pensare al proprio futuro, imparando un mestiere da esercitare per vivere. Io non avevo le idee chiare su cosa fare e siccome vicino a casa c’era un sarto, inizia a frequentare la sua sartoria. Avevo allora 10 anni. La mia fanciullezza stava per finire e cosi la mia esistenza spensierata, felice oltre ogni immaginazione. Stavo lavorando, lo ricordo bene, mettendo i bottoni alle divise dei finanzieri, quando mio padre mi chiamò per dirmi di non andare più nel laboratorio del sarto perché “da domani vai da Rosarino”. Non capivo cosa fosse successo. Compresi poi che Don Corrado, in quel momento certamente sotto l’influsso di Qualcuno, disse a mio padre che io dovevo andare a studiare. Io, il quarto della classe, lasciando fuori gli altri tre, più bravi ed intelligenti di me… Bisognava dunque

Da ragazzo lei si definisce un “ribelle”, tanto che per ben due volte, nella scuola media di Decollatura, viene sospeso. Crede che questo suo carattere determinato a raggiungere gli obiettivi prefissati, a volte anche riscrivendo le regole, l’abbia aiutato a realizzare ciò che desiderava? E’ vero, guardando la mia vita passata con lo sguardo di ora, vedo in me una buona dose di anarchia. Difficile mettermi le briglie e farmi fare quello che pensavo non fosse giusto o utile. Anche ora in qualche modo è così. In quei tempi a scuola c’era molto rigore. Se qualcuno veniva espulso, i genitori non contestavano l’insegnante. Ed anche i miei facevano così. Quando mi sospendevano per ragioni più che valide, mio padre dopo essere andato dal Preside, il pomeriggio mi puniva: legato alla porta di casa, aperta sulla strada, per tutta la giornata, dopo aver rotto la cinghia… Sembrerà strano, ma io sarò per sempre grato a mio padre per come mi trattava in quelle circostanze. Comunque, dopo la seconda media, forse lo stesso Don Corrado suggerì a mio padre di non mandarmi di nuovo a scuola, ma di cercare un professore che mi facesse lezioni private, per poi presentarmi agli esami da privatista. Povero papà mio, che aveva la famiglia da mantenere e faceva anche fatica a trovare i soldi per l’abbonamento mensile del treno! Quasi per punizione, gli esami di terza media li sostenni all’Istituto Galluppi di Catanzaro, la scuola più importante della città ed andò tutto bene. Avevo allora 14 anni. Un’altra fase della vita era passata, indenne, e ancora per strada.

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Nel 1951 s’iscrive all’Istituto Magistrale perché sente che la vita lo chiama a svolgere la professione d’insegnante. Ha mai avuto qualche rimpianto per non aver portato a termine quella prima scelta? In quegli anni molti ragazzi venivano a piedi dalle frazioni in paese, per andare a scuola. Vederli arrivare ogni mattina, mi faceva dire a me stesso: voglio diventare maestro per andare ad insegnare nelle frazioni. Seguendo il mio esempio, altri genitori avevano iniziato a mandare i figli a scuola dopo le elementari. Pioggia o neve, bisognava frequentare le lezioni. Primo magistrale a Catanzaro: un’altra esperienza di vita alla quale non ero proprio preparato. Andavo a piedi fino alla stazione ferroviaria. I primi due anni furono molto belli, poi nel 1953 cominciò un periodo di crisi. M’interessai sempre più alla politica. L’idea di diventare insegnante iniziò a vacillare. Pensavo al mio futuro. I miei amici parlavano di fidanzati e fidanzate, quindi sognavano una loro famiglia, e l’idea di vedere me come loro, immaginando un’esistenza dentro quattro mura, mi lasciava perplesso. Pensare poi di vivere ogni giorno in una aula scolastica, non mi entusiasmava più. Mi chiedevo continuamente come poter aiutare i poveri e gli sfruttati. Quando inizia il terzo anno all’Istituto Magistrale, ero nel buio. “Compagni, lottiamo tutti uniti contro i ricchi sfruttatori, il sole dell’avvenire spunterà e allora cesserà ogni miseria ed ogni sfruttamento”: questo slogan dell’allora Partito Comunista Italiano colpisce il suo cuore ed per un certo periodo coltiva l’idea che sia la politica la risposta al suo desiderio di andare incontro ai più bisognosi. E’ così? Si è vero, eravamo tutti convinti che ci potesse essere un futuro migliore, anche se esigeva sacrifici. Mio Padre, cantoniere e socialista, su accusa di qualche democristiano, era stato trasferito per il suo lavoro all’estrema parte della Calabria, come punizione, accrescendo di più in me l’odio contro ogni situazione di oppressione. Avevo l’esempio poi di mio zio Vittorio, che era pronto a farsi anche uccidere per difendere il partito. Indimenticabili, assieme a lui, la commemorazione del Primo maggio di ogni anno, con le bandiere rosse al vento ed il cuore gonfio di speranza. Siamo negli anni caldi del dopo guerra e la politica entra nella vita delle gente: i comizi con le piazze piene, i discorsi infuocati e aspri contro l’America, i capitalisti, lo sfruttamento dei lavoratori, i padroni. Ogni partito aveva la sua piazza e non si poteva stare neutrale. Anche da ragazzi incominciavano le prime pag. 4

discussioni animate. Io frequentavo la sala comunista, perché era l’unica sempre aperta. Ricordo un grande manifesto a piramide: in cima i grandi capitalisti che sfruttavano la classe operaia; a metà vi erano le vesti neri dei preti; alla base, i poveri lavoratori che dovevano mantenere tutto l’apparato sovrastante. Guardavo sempre a lungo quel manifesto. Ascoltavo poi i lavoratori che raccontavano della loro fatica quotidiana e del basso salario percepito, non sufficiente a mantenere la famiglia. Nello stesso tempo, l’esigenza di noi giovani di stare insieme trovava accoglienza nelle iniziative e nella presenza in paese delle suore. Con un folto gruppo di coetanei formammo l’Azione cattolica maschile giovanile, ma non so se ne avessimo chiaro il significato. Mi elessero come primo Presidente. La Provvidenza ancora dirige i passi di Padre Paolino dove vuole. Nel 1955, in campeggio, incontra don Saverio Gatti ed è dai colloqui con quel sacerdote illuminato che intravede la sua vera vocazione. Cosa accade poi nella sua vita? Le autorità diocesane organizzarono un campeggio estivo a Decollatura ed io ero presente assieme a tantissimi altri giovani provenienti da tutta la Diocesi. Venivano organizzate attività che m’interessavano molto. Venne poi a parlare un Sacerdote, Don Saverio Gatti: c’illustrò la sua vita, la scelta religiosa, in un modo così attraente da lasciarci entusiasti. Parlò di sacrificio, amore, dedizione, comunità intesa come propria famiglia, e concetti di questo genere. Confrontavo il suo modo di essere con quello di altri sacerdoti conosciuti e di cui sentivo parlare. Pensavo alle “rumanze” di mio nonno, in cui in genere i preti non facevano una bella figura… Il cuore si scaldava. Iniziavo a credere che quella sarebbe potuta essere la via giusta per me sopratutto per fare il bene ed aiutare i bisognosi. In quel momento, l’aspetto spirituale invece era molto meno presente in me anche per la passata esperienza di vita nel paese. Ritornato a S. Pietro Apostolo, cercai di riorganizzare le idee, riflettere, senza confidarmi e confrontarmi con nessuno. Andai in Seminario a Nicastro e parlai con Rettore manifestandogli il mio desiderio di diventare prete. Dopo avermi chiesto una lettera di presentazione da parte del mio parroco, mi diede una lista di cose da comprare e portare con me, in seminario. Era il 1955 e avevo 18 anni. Fu il Parroco a dire ai miei genitori quali fossero le mie intenzioni. In tutte le mie scelte di vita non ho mai considerato necessario chiedere permesso. GrafichÉditore di A. Perri - & 0968.21844

Penso che i miei genitori siano stati contenti. E cosi entrai in Seminario a Nicastro ma solo temporaneamente, prima di andare al Seminario maggiore San Pio X di Catanzaro, nel mese di Settembre del 1955. Nel seminario di Catanzaro sente che la sua ricerca non è finita e s’interroga sulla strada che è chiamato a seguire, finché incontra Padre Enrico Farè, missionario in Sudan. Cosa cambia da quel momento in poi? Quando in paese s’informano che sono entrato in Seminario, è sorpresa generale: hanno tutti un’idea pessima della vita dei preti. Ormai avevo preso la mia decisione e dicevo a me stesso: “farò vedere a tutti come si fa il Prete!”. Nel 1955 i Seminari erano comunque pieni di ragazzi, anche se poi non tutti diventavano sacerdoti. All’inizio ho trovato un po’ di difficoltà negli studi ed anche la mia salute incomincia a risentirne. L’ambiente in cui vivevo era chiuso, i discorsi che sentivo erano estranei a me e pensavo proprio di avere sbagliato strada. Non percepivo risposte ai problemi della vita che mi avevano spinto fare una scelta in favore degli sfruttati, per la giustizia e per il diritto degli ultimi. Ero nel buio ma, ancora una volta, la Provvidenza venne in aiuto. A gennaio del 1956 arrivò in Seminario, dal Sudan, un Missionario Comboniano, che visitava il meridione per la prima volta. Parlò del Sudan ma specialmente dell’Africa, un immenso continente. Un popolo, un continente bisognosi di tutto? Era quello che cercavo! Padre Farè continuava a parlare e spiegare e la mia vita era già cambiata. Quella scelta fatta in quel momento, anche se non sapevo ancora cosa realmente implicasse, era entrata nel midollo delle ossa, ed è ancora oggi fonte d’acqua che non si secca mai. Non fu poi tutto facile. Occorrevano una lettera del Vescovo ed una del Parroco ed in paese, a casa, non avevo parlato con nessuno. Il Padre mi aveva dato l’indirizzo di uno studente comboniano a Verona ed ero in corrispondenza con lui. Il Vescovo dopo aver palato a lungo con me mi diede la tanto agognata missiva; aveva scritto, come si fa, ”Nihil obstat” che è la formula per dire che non vi sono obiezioni, ma io ero cosi disturbato che lessi, in un primo momento: niente da fare. Andai dal Parroco che cercò di scoraggiarmi dicendomi che il mio compito era quello di aiutare le mie sorelle. Mi arrabbiai. Poi fu proprio lui a chiamare mio padre e ad informarlo della mia decisione. In paese si disse di tutto: “si perderà per sempre, lo mangeranno, vende la sua vita, i genitori devono impedire la partenza.” So che mio padre rispondeva che io in quel momento non Lamezia e non solo


comunicavo molto con lui, e che “deve esserci un disgraziato da Verona che gli scrive”, perché notava la corrispondenza. I miei mandarono la mia sorellina Maria Luisa, molto legata a me, per tentare di scoraggiarmi. Lei mi diceva” Non andare in Africa”. Da piangere. Finalmente arrivò la lettera di accettazione da parte dei Missionari, in cui veniva indicata la destinazione: Gozzano, in Provincia di Novara, per il primo periodo di formazione chiamato Noviziato. Avevo quasi diciannove anni. Ci salutammo davanti a casa e sentii dentro di me, che ormai non appartenevo più a quel mondo. Mi riferirono che mia madre disse:” Mio figlio l’ho perso per sempre”, Viaggiai col Treno del Sole con una carissimo amico, Mario Tomaino, studente in Ingegneria a Torino. Andai a salutare i miei zii, e l’indomani zio Vincenzo mi accompagnò a Gozzano. E cosi incominciò la grande avventura. Noviziato dunque a Gozzano, in provincia di Novara, poi in Gran Bretagna per imparare la lingua inglese. A vent’anni era già convinto della scelta di dedicare la sua vita all’Africa? Aveva timore di partire così lontano, lasciando affetti e famiglia? A Gozzano il seminario era una casa immensa. Uno studente mi apri la porta e mi presentai, dicendo di venire da Catanzaro. “Catanzaro? E dove si trova?” Chiarii che venivo dal Sud, dalla Calabria. Mostrai la lettera di accettazione. Non ho mai visto tanta gioia nel volto di una persona come il sorriso di questo giovane che mi riceveva tra i Comboniani. Una gioia ed un affetto che lega tutti i Missionari comboniani, dovunque si trovino. Il Noviziato e’ un periodo di due anni, durante il quale si fa esperienza di vita comboniana. L’istituto ti studia e tu studi l’Istituto. Se si decide di farne parte, questa diventa la tua nuova famiglia. Il periodo di Noviziato fu veramente molto impegnativo, specialmente per uno come me, che aveva vissuto la vita libera di un ragazzo di paese. Bisognava richiamare sempre le motivazioni che hanno portato a fare quella scelta. E per me l’obiettivo era ed è: spendere la mia vita per i più poveri e bisognosi. Non c’è nessun’altra regola, non c’e alcuna difficoltà, ora e domani, che possa distrarmi da questa scelta di vita. Durante la festa dell’Immacolata si fece la vestizione della tonaca nera con fascia propria dei Missionari Comboniani. Intanto in Inghilterra stavano aprendo un Noviziato per gli studenti di lingua Inglese; la Provvidenza intervenne ed io fui uno dei quattro scelti per andare a frequentare il secondo anno ed eventualmente per finire le scuole secondo il sistema scolastico inglese. La casa di formazione era un po’ fuori Londra e vi

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erano Padri inglesi ed italiani, tutti missionari. Si continuò con la routine del Noviziato, con lo studio della lingua inglese. Finito il secondo anno, c’era da fare il passo definitivo, ossia la Prima Professione religiosa con voto di povertà, castità e obbedienza. Insomma, prendere o lasciare. Ci fecero giurare solo per un anno. Ricordo che questo mi fece veramente innervosire: per un anno? Non si fidavano di me? Io la mia scelta l’avevo fatta e per tutta la vita già a Gennaio del 1955. Avevo desiderio di partire ed avrei portato comunque la mia famiglia nel cuore. Nel suo primo giuramento avvenuto nel 1958, promette di dedicare la sua esistenza alla Santa Chiesa e specialmente ai popoli dell’Africa. Invoca poi la benedizione di Dio, dei Santi Pietro e Paolo e della Vergine Maria. La sua devozione mariana è ancora oggi molto viva. Avevo quasi ventun’ anni ed il 9 Settembre 1958 era la festa di San Pietro Claver, un Missionario che spese tutta la sua vita per gli africani portanti schiavi in America latina. Eravamo in una cappella della casa del Noviziato, in dieci giovani, quattro italiani e sei inglesi. Erano presenti tanti sacerdoti e parecchi parenti degli studenti inglesi. Ognuno di noi doveva leggere la sua formula. E’ strano come anche quei giovani che durante l’anno si mostravano allegri e sicuri, in quel momento quasi balbettavano, non riuscivano a leggere le parole, qualcuno sudava. Sicuramente il cuore stava battendo forte perché si assumeva un impegno con Dio e con tutta l’umanità. “Non sono più io che vivo ma è Cristo che vive in me.”. La mia vita non era più mia, ma di Cristo e dei suoi e miei fratelli. C’era da tremare. Il segreto di riuscita? La Grazia di Dio, oltre alla preghiera, alla disciplina personale, alla protezione della Madre. Pensavo a Gesù che disse prima di morire: ”Donna ecco tuo figlio”. “Uomo, ecco tua Madre?” Così è per ogni cristiano. Dopo questo giorno andammo nella casa vicina per proseguire gli studi superiori, continuando la formazione. Nel mese di Giugno del 1964, a poco più di ventisei anni, a Verona, viene consacrato sacerdote ed entra a far parte dell’ordine dei comboniani. Sin da giovanissimo, le è stato dunque chiaro che voleva seguire l’esempio di Daniele Comboni ed il suo significativo “Piano per la rigenerazione dell’Africa con l’Africa”? A Verona, a poco più di ventisei anni, mi venne conferito il ministero sacerdotale. Riesco ancora oggi a ricordare l’emozione di quel momento. Il cardinale Agagianian, liberato

da poco dalle prigioni sovietiche, impose le mani invocando lo Spirito Santo. Prestò molto attenzione ad ogni gesto compiuto ed a tutte le formule di rito, conferendo la giusta solennità ad un momento che è sempre rimasto vivo nel mia mente e nel cuore. Ero così consacrato alla Missione Universale della Chiesa, secondo lo spirito di Daniele Comboni. A Verona eravamo quarantasei consacrati provenienti da tre continenti. C’era aria di grande festa con un grande numero di parenti. Erano presenti i miei genitori, le sorelle, alcuni benefattori di Verona e compaesani residenti a Milano. Solo chi vive quei momenti sente il brivido di quello che sta succedendo, specialmente quando sei prostrato davanti all’altare e sai che stai per diventare, per l’eternità, sacerdote a servizio del popolo africano. Poi siamo ritornati a San Pietro Apostolo per festeggiare. Desideravo partire per l’Africa, convinto allora come lo sono adesso, che ogni popolo deve riscattare se stesso e trovare la forza per rinascere. Ecco perché ho aderito con convinzione alle idee di Daniele Comboni. Qual è il suo primo ricordo dell’incontro con l’Africa, con l’Uganda? Non è prudente mandare un sacerdote giovanissimo appena consacrato, subito in Africa, ma dopo circa un mese dall’ordinazione, arrivò comunque la lettera di destinazione per l’Uganda. E dove si trova? Africa Orientale!!! Segue un po’ di sorpresa. Non c’era tempo per mandare gli interessati prima in Inghilterra per imparare bene l’inglese e così mi affidarono alla Provvidenza di Dio. Ricordo che il nostro Padre spirituale, a Verona, mi aveva detto: “Tomaino, ricordati di queste mie parole: con rispetto verso i Superiori, non accettare di stare in Italia. La tua vita è in Africa.” Ho sempre pensato a questa frase come Parola dello Spirito Santo che guida i passi dei suoi fedeli. Ai primi di Gennaio 1965 l’aereo mi portò in Uganda assieme ai Padri Ambrosi, Cisternino e Dempsey. Il sole bruciava ma io lo sentivo ancor di più perché indossavo indumenti invernali. Avevo 28 anni. Pensavo che quella sarebbe stata la mia nuova patria, la società africana la mia nuova famiglia e che un giorno avrei chiuso gli occhi, dopo aver speso fino all’ultimo respiro per loro. Lo penso ancora adesso. Da Kampala con una macchina ci portarono nel Sud, a quasi 500 chilometri: il Vescovo ci disse, dopo il benvenuto, che bisognava seguire il corso di lingua locale perché necessario per poter comunicare. Il Padre Irlandese P.Dempsey ed io andammo nella Missione di Nyakishenyi, Regione del Kigezi; Padre Ambrosi e Padre Cisternino furono invece mandati nella Missione di

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Rubindi, Regione dell’Ankole. Dopo tre mesi, ci ritrovammo tutti insieme per il corso superiore, ed alla fine di Agosto decisero che eravamo pronti per cominciare a lavorare nelle rispettive Missioni. Non avevamo imparato bene la lingua, ma dicevano che quando ci si butta nell’acqua, s’impara a nuotare più velocemente… Mi mandarono nella Cattedrale di Kabale: lì vi erano molti movimenti giovanili ed avevano bisogno di un sacerdote giovane. La Missione era sotto la responsabilità dei“Padri Bianchi”, un olandese ed un tedesco, persone meravigliose che m’insegnarono tutto. E cosi incomincia l’avventura umana e missionaria di Padre Paolino. Nel territorio della Missione c’era l’Isola dei lebbrosi, abitata da persone quasi guarite dalla malattia. La domenica andavo lì a celebrare la messa e tornavo a casa col mal di stomaco. Continua così la formazione, quella vera: umana, cristiana, sacerdotale, missionaria, e gli incaricati di questo compito sono gli africani stessi. In breve, quali sono state le tappe principali della sua missione? La mia vita s’intreccia con quella del Paese nel quale ho vissuto e vivo: una storia spesso tragica e dolorosa, ma dalla quale l’Uganda ha sempre trovato stimoli per rialzarsi. Io ho vissuto nella parte Sud-Occidentale dell’Uganda, nelle Regioni del Kigezi e dell’Ankole, assieme ai gruppi umani dei Bakiga, Banyarwandaa, Banyankole, Bahima. Sono due le realtà incise nella mia personalità e che spiegano un po’ la mia intera attività. Disse Gesù:” Quello che avete fatto al più piccolo dei miei fratelli, lo avete fatto a Me Stesso.” Senza “se” e senza “ma”. Questa frase sintetizza e guida la mia vita. La gente accorre da lei perché “uomo di Dio” e lei con forza e coraggio inizia a lavorare. Dove dirige prioritariamente la sua azione? La Provvidenza ha voluto che, senza cercare, ogni cosa mi si è presentata ogni qualvolta bisognava fare delle scelte. Negli primi anni, nel Sud dell’Uganda, c’era da imparare tutto, non sono la lingua. Bisognava tenere gli occhi ben aperti per vedere, per non giudicare subito, per adattarsi come possibile. In quella zona ho trovato una Chiesa viva perché i primi Missionari sono arrivati nel 1914. Qui ho celebrato la prima Messa, il primo battesimo. L’Uganda era una colonia Inglese e l’Indipendenza era stata ottenuta solo da pochi anni, dal 1962. La presenza bianca era preponderante: chiese, scuole, ospedali, uffici, belle case, negozi, tutto in mano ai bianchi, nelle grandi città. Nelle periferie solo miseria.

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Qual era il primo compito specifico che le era stato assegnato? Avevo il compito iniziale di visitare le case dei cristiani e spesso stavo fuori anche tutta la settimana. Come in tutte le Missioni, vicino alla Parrocchia c’era la scuola elementare. Anni 1968-1970: lasciai la Cattedrale e andai nel Nord della Regione, la Contea del Kinkisi: era un’area troppo estesa e si rese necessario frazionarla per creare la Missione di Nyamwegabira. Era una zona piuttosto arida e la gente si lamentava perché le bestie rovinavano i campi. Qui si presentò preponderante il problema dei tanti ragazzi che non andavano a scuola ed è da qui che nacque l’idea delle adozioni a distanza per mantenere un contatto vivo con i miei benefattori. La sua vita è stata sempre vissuta per migliorare il tenore di vita degli ugandesi e per offrire loro strumenti di crescita. Dopo essere, ogni tanto, rientrato in Italia, con quale spirito è ripartito per l’Africa? Sono ritornato in Italia, per la prima volta, nel 1970. Veramente era tutto cambiato. Sono rimasto pochi mesi e poi sono rientrato in Africa. Mi sono recato nel Sud dell’Uganda per iniziare una nuova Missione insieme a Padre Giuseppe Ambrosi. La zona era in piena foresta ed era difficile anche solo arrivarci. Ci siamo messi al lavoro: le donne e bambini erano i più vulnerabili. Abbiamo aperto centri di alfabetizzazione in tutti i villaggi, piccole scuole elementari. Ho personalmente visitato tutte le case e non è stato facile perché parecchi cristiani vivono distante, vicino al lago. Grazie agli amici che ci sostengono da Bologna, siamo riusciti a comprare una barca, necessaria perché la gente viveva in gruppi molto distanti l’uno dall’altro. Abbiamo costruito chiesette in fango, da utilizzare sia come luogo di ritrovo per pregare ma anche come scuole per accogliere i bambini. Ogni volta che mi sono recato in Italia ho assaporato il piacere di riabbracciare le mie sorelle, i familiari, gli amici cari, ma dopo poche settimane ho sentito sempre la necessità di tornare a “casa”, da coloro che sento miei figli. La sua opera è incessante e non conosce pause. Come prosegue il suo cammino? Nel 1976 sono ritornato nel Nord Kigezi, di nuovo a Makiro, ed è iniziato un lavoro interessante con i laici e le associazione di adulti. È stata fondata una nuova Missione a Kambuga, che poi nel 1980 ho consegnato al Sacerdote Diocesano Padre Gaetano, per trasferirmi. Ho avviato subito un dispensario, scuole primarie e poi la grande scuola secondaria “COMBONI COLLEGE’, diventata GrafichÉditore di A. Perri - & 0968.21844

famosa in tutta l’Uganda. Alla fine del 1998, il nostro lavoro nella Diocesi di Kabale, è finito. Ho lasciato una missione automa dove le scuole funzionavano ed esisteva una sia pur minima organizzazione della vita sociale. Ci parli dell’importanza della Missione di Kyamuhunga. Lasciato il Kigesi, mi domandavo dove sarei andato. Il vescovo della Diocesi confinante di Mbarara mi chiamò per parlarmi della necessità di avviare una nuova Missione a Kyamuhunga, rimasta senza preti da quattro anni, per vari motivi. Mi ricordai dei “più poveri e abbandonati” e gli risposi che sarei andato volentieri, se lo avessero voluto i miei Superiori. E così dal 1990 mi spostai a Kyamuhunga. Considero i nove anni rimasti lì come i più belli della mia vita. Grazie alle offerte ed al sostegno costante dei miei amici italiani e soprattutto calabresi, si è riusciti a costruire un grande Ospedale, una bella scuola secondaria, una quindicina di scuole elementari, luoghi di preghiera dappertutto, cooperative nelle zone principali. Si è creato inoltre uno spirito di collaborazione tra tutte le realtà del territorio. Alle grandi feste della Chiesa partecipavano persone appartenenti a tutte le religioni. Il cambiamento nella vita della gente si poteva notare di giorno in giorno. E’ da questo momento che nella Diocesi di Lamezia, in molte parrocchie si organizzano dei gruppi missionari per aiutare questi bambini a studiare offrendo minimo 6 euro al mese. Attivo il Gruppo delle Vincenziane, la casa delle Bellomo, e tante altre. Nell’anno 1999, anche il mio lavoro a Kyamuhunga finisce per fare posto ai primi sacerdoti africani. In Italia dopo i sessant’anni si pensa alla pensione. Lei invece nel 2000, dopo una breve visita in Italia, ricomincia una nuova avventuraL’anno 2000 ero in Italia per un corso di rinnovamento a Roma. Non sapevo dove sarei approdato. Il Vescovo Paolo, che andai a salutare, lasciata Kyamuhunga, mi parlò di una zona in cui mai nessun missionario era volute andare, per la difficoltà del posto. Disse “O Padre Paolino o nessuno ci andrà mai”. Il Vescovo mi seguì in Italia ed io portai con me una grande carta geografica: cercavo la terra dei Pastori Bahima. Cosa fare? Intanto in quell’ anno morì mia madre e ringrazio Dio di essermi trovato in Italia perché poi per mio padre non ci sarei stato. A Settembre dello stesso anno ero nella Zona di Rushere insieme con il mio confratello Padre Giuseppe Ambrosi: un’area vastissima, quando un terzo della Calabria. Devo dire che per questa zona i cari benefattori Lamezia e non solo


ed amici hanno compiuto miracoli. Anche qui ho trovato i più poveri e abbandonati, “I non Banima”, senza terra e senza nome. Ho iniziato formando dei villaggi dappertutto, comprando pezzetti di terra per costruire una chiesetta ed una piccola scuola. In quegli anni sono sorti novantanove villaggi. Grazie all’aiuto dell’Amministrazione di Lamezia Terme, specialmente all’impegno dell’allora Sindaco Speranza e di altri amici consiglieri, siamo riusciti a costruire il “Lamezia Hospital”. Con il soldi del 5 per mille donati alla nostra Associazione “Amici di Padre Paolino”, abbiamo dato vita al reparto di Chirurgia. E ancora: la grande scuola secondaria “SEDES SAPIENTIAE”, alla costruzione della quale hanno contribuito veramente molti amici di Lamezia e dei paesi vicini, con tante, tante offerte. In questa Missione sono rimasto tredici anni ed è qui che ho compiuto i 75 anni, che è l’età che segna il momento in cui bisognerebbe lasciare la responsabilità parrocchiale, ma non l’attività sacerdotale. Io, grazie a Dio, continuo nel mio impegno. Ha parlato di adozioni a distanza. Può chiarire in che cosa consistono? I miei amici di Lamezia Terme, ma anche di Pianopoli, Feroleto Antico, Soveria Mannelli, S. Pietro Apostolo, Serrastretta ed altri paesi limitrofi, oltre che di Squillace, ma anche di Bologna ed altri centri, raccolgono ogni mese offerte che partono da 6 euro, per adottare uno studente, aiutare cioè un bambino a frequentare con regolarità la scuola ed essere ospitato in strutture che garantiscono almeno un pasto al giorno, acqua potabile, un letto, indumenti puliti. Così facendo, siete voi ad offrire la speranza in un futuro diverso ai ragazzi ed all’Africa. Io sono strumento nelle mani di Dio, ma opero solo grazie alla generosità di chi sostiene le mie missioni. Con le offerte ricevute, negli anni sono riuscito a costruire scuole con annessi dormitoi, mense, pozzi, strade. Lei ha fondato la sua idea di missione sulla necessità di offrire strumenti perché agli ugandesi siano i fautori del proprio futuro. Crede che la scuola e la diffusione della cultura possano rappresentare un terreno di reale svolta per la storia del popolo africano? Credo fermamente che la risposta ai bisogni dei popoli in difficoltà sia prioritariamente l’istruzione, la cultura. Un popolo ignorante non ha strumenti per combattere e salvarsi. Il sapere apre la mente dell’uomo e lo rende capace di autodeterminarsi. Negli anni, lodando il buon Dio, ho avuto la soddisfazione di vedere formati i primi insegnanti, infermieri, medici, che hanno studiato nelle nostre scuole e che ora prestano

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la loro opera con orgoglio ed abnegazione, consapevoli che il riscatto del popolo ugandese è già iniziato. Lo stesso concetto è stato applicato nel campo dell’agricoltura, dell’artigianato. Cosa è riuscito ad insegnare ai giovani per essere capaci di dare vita ad attività per il sostentamento della loro famiglia? Io intendo la scuola non certo come insegnamento nozionistico ed astratto. I ragazzi vanno indirizzati, seguiti e sostenuti assecondando le loro inclinazioni, i loro interessi. Ad una cultura in senso più strettamente scolastico, si affianca un insegnamento pratico che trova applicazione nel campo dell’agricoltura, dell’artigianato, della tecnica. Saper coltivare un banano, progettare e costruire un’abitazione, non sono attività meno importanti del conoscere la grammatica, la storia o saper suturare una ferita. I “miei” ragazzi s’impegnano a trovare la loro strada per un futuro migliore. Ci parli dell’attività dell’Associazione “Amici di Padre Paolino – ONLUS”, costituita da un po’ di anni , con sede proprio a Lamezia Terme. L’Associazione è stata costituita da amici che lavoravano da anni a sostegno delle mie missioni, per dare veste fiscale e giuridica ad una struttura naturale e spontanea che è operativa da tanto. Come dicevo, grazie al 5 per mille devoluto all’Associazione abbiamo costruito opere importanti. Voglio ringraziare i miei cari amici, tutti, che non si dimenticano mai dei bisogni dei bambini, delle donne e degli uomini ugandesi e che promuovono iniziative di ogni genere (cene di beneficenza, lotterie, vendita di oggetti e dolciumi, calendari, offerte per celebrare messe in suffragio dei defunti) per raccogliere fondi con assiduità e costanza. Nel suo recente viaggio in Italia ha avuto modo di ribadire l’importanza di aiutare gli africani nella loro terra, proprio per evitare i tristi e noti viaggi sui barconi, verso l’Europa, in cerca di un futuro migliore. Qual è la sua idea in merito? Durante il mio ultimo viaggio in Italia, agli amici lametini ho più volte chiesto se si sentivano di continuare a sostenermi, per lavorare ancora in favore dei giovani africani. Offrire ai bambini un pasto caldo, una scuola da frequentare, significa fortificarli perché diventino giovani capaci di migliorare il luogo in cui vivono. Sono certo che solo così può essere fermato il triste esodo verso l’Europa. In Uganda noi missionari abbiamo lavorato tantissimo e sono quasi inesistenti gli abbandoni della propria terra da parte dei giovani. Chi sta bene nel luogo in cui

vive non ha bisogno di allontanarsi, di recidere le radici familiari. Nel suo futuro vede la possibilità di un rientro definitivo in Italia, per riposare, dopo una vita di sacrifici indescrivibili? Ho donato la mia vita e le mie forze agli africani e voglio che il mio corpo riposi per sempre in Africa. Non lascerò mai quella che considero la mia terra. È di pochi mesi la notizia che la Cina intende investire nel continente africano. Il riscatto dei popoli dell’Africa deve passare necessariamente dall’aiuto delle Nazioni ricche o si può invece sperare in una rivoluzione silenziosa e pacifica della popolazione, come lei sostiene da anni? Come diceva Daniele Comboni tanti anni fa, anch’io oggi ripeto che l’Africa deve salvare se stessa con le proprie forze, sapendo valorizzare le enormi potenzialità che possiede. A S. Pietro Apostolo, suo paese natio, è ospite del parroco e dell’intera comunità, un giovane ugandese che studia a Catanzaro per diventare medico. Alcuni dei ragazzi che lei ha accolto e seguito nelle sue strutture ricoprono anche importanti ruoli politici. Lei mantiene un rapporto speciale con ognuno dei “suoi” ragazzi? Molti ragazzi africani hanno studiato nelle università italiane ed ora sono bravi professionisti. Il legame che s’instaura con i bambini accolti nelle scuole delle Missioni e poi seguiti nei loro percorsi, non s’interrompe mai. L’affetto che ci lega è intenso e questo dimostra che non è il colore della pelle o in luogo in cui si nasce a dare impronta alla persona umana, quanto i valori nei quali ci si specchia. In questo momento, a 82 anni, è a lavoro a Kyamuhunga. C’è ancora tanto da completare? Nel primo periodo della mia permanenza, non era stato possibile fare tutto il necessario. Ho trovato ancora poveri ed abbandonati, ma alcuni lo sono più degli altri. Quello che sono riuscito a realizzare in passato, la Provvidenza l’ha comunque conservato. Le ragazze di età scolastica ora hanno bisogno del nostro aiuto; bisogna guardarle negli occhi per capire i loro bisogni. I pochi anni che mi restano sono per loro, ma solo se voi che mi leggete, mi starete accanto Ricordate sempre, da cristiani, che “Quello che avete fatto al più piccolo dei miei fratelli l’avete fatto a Me Stesso”.

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Presentato nel CASTELLO DI PIZZO il libro di VINCENZO VILLELLA sulla morte di GIOACCHINO MURAT

di Antonio Perri

Nella suggestiva saletta del castello di Pizzo ove la Commissione militare, nominata dal generale Vito Nunziante, il 13 ottobre 1815 emise la sentenza di morte per fucilazione del re di Napoli Gioacchino Murat è stato presentato in anteprima il libro dello storico Vincenzo Villella JOACHIM MURAT. LA VETA STORIA DELLA MORTE VIOLENTA DEL RE DI NAPOLI. Di fronte ad un uditorio selezionato di sindaci, studiosi, rappresentanti di associazioni culturali di tutta la Calabria ha aperto i lavori il prof. Giuseppe Pagnotta, presidente dell’Associazione Murat onlus che ha finanziato la stampa del prezioso volume insieme alla Regione Calabria. Ha preso poi la parola il dr. Domenico Sorace, esperto di storia napoleonica, che ha disquisito sull’importanza del libro, mettendo in luce il grande lavoro di ricerca archivistica e bibliografica operato dall’autore. Per questo il volume si impone come un punto di riferimento per ogni altro studio sulla figura di Murat. In particolare ha sottolineato che i drammatici fatti di Pizzo nella settimana dall’8 al 13 ottobre 1815, che hanno cambiato la storia dopo il decennio francese e la caduta di Napoleone, coinvolsero le principali cancellerie europee facendo della vicenda finale della vita di Murat il momento storico più importante di quel periodo.

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Nella conversazione con l’autore il dr. Sorace ha puntato a mettere a fuoco gli aspetti più interessanti della controversa vicenda murattiana: il presunto complotto tesogli dalla polizia borbonica per attirarlo a Pizzo, il ruolo avuto da una parte della popolazione pizzitana nella sua cattura, il

tradimento di alcuni suoi fidati generali, l’umanità del generale Nunziante, l’ignominia del capitano di gendarmeria Trentacapilli, il processo farsa, il presunto vilipendio del cadavere, il sogno di Murat di

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costituire un’Italia unita partendo da Sud con Napoli capitale, le sua grandi iniziative legislative e pratiche per trasformare il regno di Napoli da uno Stato feudale in un Stato moderno all’avanguardia in Europa. È stata data la parola anche alla d.ssa Nella Fragale della litotipografia Grafiché di Lamezia Terme, che ha curato con professionalità il progetto grafico e la stampa del volume. La d.ssa ha voluto sottolineare la soddisfazione e l’onore di aver stampato il corposo saggio di Vincenzo Villella, curando insieme all’autore ogni dettaglio editoriale di un’opera di valenza europea. I passi più coinvolgenti del libro, compresa la lettera commovente scritta da Murat alla moglie e ai figli, sono stati declamati da Claudia Andolfi e Angela Maria Belvedere accompagnati al pianoforte dal maestro Francesco Silvestri. Prima della conclusione il presidente dell’Associazione Murat prof. Pagnotta ha ricordato tutti gli appuntamenti che da oggi ad ottobre caratterizzeranno le celebrazioni murattiane. La manifestazione si è conclusa con il canto, da parte del soprano Claudia Andolfi, dell’inno patriottico “Addio, mia bella addio” e dell’inno nazionale italiano con tutto l’uditorio in piedi. Subito dopo l’Associazione Murat ha provveduto a distribuire il libro a tutti coloro che ne avevano fatto motivata richiesta.

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Presentato “Respirare” il nuovo libro di Antonio Saffioti e Salvatore D’Elia di Salvatore D’Elia “Non siamo una famiglia speciale. Non siamo eroi. Siamo una famiglia ordinaria che vive lo straordinario di Dio”. Così Antonio Saffioti racconta se stesso e la sua famiglia in occasione della tanto attesa prima presentazione del libro “Respirare. La tracheotomia: scelta e sfida per una vita indipendente” scritto insieme a Salvatore D’Elia, edito da Grafichèditore di Antonio Perri, presentato nella serata del 3 maggio scorso presso il salone “Giovanni Paolo II” del seminario vescovile di Lamezia Terme. Non il solito appuntamento di presentazione di un libro. Non i saoliti rituali. E del resto, per chi conosce Totosaff, non poteva essere una presentazione secondo gli schemi. Una serata nella quale c’ era davvero di tutto, tutti i mondi e tutti gli aspetti che ruotano attorno alla vita di Antonio e della sua famiglia: la sua musica indipendente, di cui va pazzo, colonna sonora di tanti momenti della sua vita e della sua degenza al Nemo di un anno fa; il suo teatro, rappresentato in sala dal “suo maestro” Dario Natale e da Domenico D’Agostino lettori di alcune delle pagine più significative del libro; i suoi film, le sue fiction, le storie e le persone che come tessere costituiscono insieme il mosaico della sua vita. Perché di tutto questo parla “Respirare”. Parte da un fatto, da una scelta: all’inizio dell’estate del 2018 Antonio sceglie di sottoporsi alla tracheotomia per respirare meglio. Toglie la mascherina per la respirazione, sua compagna inseparabile per oltre tre anni. Una scelta che cambia la sua vita nel quotidiano, con nuove e diverse procedure necessarie per la gestione della nuova situazione. Immutati e potenziati ancor di più con cemento armato, i “pilastri” della vita di Totosaff e della sua famiglia: la lotta per la vita indipendente, per la buona qualità della vita, per i diritti delle persone con disabilità e per i diritti di tutti. Il ricavato del libro sarà devoluto al Centro NeMo Sud di Messina per la cura delle patologie neuromuscolari. “Un libro che è un inno alla vita. Un libro da leggere per imparare ad amare la vita nelle grandi e piccole cose di ogni giorno e a non lamentarci per tante piccolezze. come purtroppo facciamo spesso”, ha affermato nel suo intervento l’editrice Nella Fragale che ha incoraggiato Antonio a mettere per iscritto questo nuovo capitolo della sua vita. E ha ricordato la collaborazione ormai da qualche anno di Antonio con il giornale “Lamezia Mese”, “una collaborazione che rappresenta un arricchimento straordinario per il nostro giornale per gli spunti, gli argomenti interessanti trattati, e soprattutto per la carica di vita e la molteplicità degli interessi di Antonio”. Fuori dagli schemi della formalità istituzionale, l’intervento del presidente della commissione straordinaria del Comune di Lamezia Terme, Francesco Alecci, che ha avuto parole di apprezzamento per i due autori sottolineando quanto “sia importante che storie come quella di Antonio e la sua famiglia vengano raccontate, anche attraverso un libro e diventino una testimonianza di vita per tutti”. Il prefetto ha poi rimarLamezia e non solo

cato il ruolo dello Stato che deve “farsi garante dei diritti sanciti dalla Costituzione italiana per tutti i cittadini e quindi per le persone con difficoltà. Nessuno deve essere lasciato solo o lasciato indietro. E’ questo il compito di chi rappresenta lo Stato sul territorio”. Segue Antonio da diversi anni, lo ha accompagnato nella scelta della tracheotomia a giugno 2018 e in diversi passaggi centrali del suo cammino. Non poteva mancare alla presentazione di “Respirare” Stefania La Foresta, neuropsicologa del centro Nemo Sud di Messina, che ha parlato di tanti particolari che hanno segnato l’incontro con Antonio. In particolare quel primo incontro, sette anni fa, quando “ebbi l’impressione che Antonio discendesse da un altro pianeta, di 2000 anni più evoluto della Terra: carrozzina elettronica, computer di bordo, bluetooth, sorriso smagliante, espressione serafica e fiera. Insomma per un attimo pensai si trattasse di un extraterrestre disceso sulla terra con la sa navicella spaziale ad insegnarci il futuro oltre le barriere.” Dopo l’operazione della tracheotomia, per la specialista, “Antonio è davvero rinato per l’ennesima volta, ha ripreso molte delle sue vecchie attività ed intrapreso altre molto avvincenti tra cui attore di teatro, scrittore e televisione. Il grande merito di Antonio è quello di aver sempre puntato sulla sua forza interiore, quella forza che la distrofia muscolare non può intaccare ma che anzi se ben allenata nel tempo diviene potente ed indissolubile”. Toccante l’ intervento di Rocco Mangiardi, che condivide con Antonio una battaglia quotidiana per la libertà, su fronti diversi, accomunati dalla stessa voglia di vivere e dalla stessa tensione morale a far sì che le proprie conquiste possano diventare conquiste degli altri e di tutta la società. Il libro è dedicato a Luca Marasco, che con Antonio ha condiviso la distrofia muscolare e il cammino che lo ha portato alla tracheotomia. Luca però non ce l’ha fatta ed è ritornato al Padre a luglio dello scorso anno. Antonio e Salvatore hanno voluto dedicare a lui questo libro. Intervenendo alla presentazione, il papà di Luca ha ringraziato per un gesto che “continua a far vivere Luca, raccontando la sua vita, parlando di lui attraverso Antonio”. In questo libro – ha rimarcato Antonio - “non ci sono “esseri speciali” o “eroi”, da compiangere perché colpiti dal fato avverso o da esaltare perché inarrivabili dal resto degli uomini. Noi raccontiamo una storia nella quale tantissime persone possono rivedersi e dalla quale tanti possono raccogliere qualcosa di prezioso per il loro cammino di vita. Il messaggio centrale resta uno: la buona qualità della vita delle persone con disabilità è possibile, è realizzabile, è un bene per se stessi e per tutta la società.” Tanti sono gli appuntamenti che aspettano Antonio, Salvatore e la nostra casa editrice con il nuovo “Respirare”. Appena nato, tra qualche giorno, “Respirare” sarà tra i libri presentati dalla nostra casa editrice al Salone del Libro di Torino. A fine mese gli autori incontreranno ancora una volta i lettori nel contesto del Maggio dei Libri al Chiostro Caffè letterario.

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artisti lametini

Paola Testa, musicista e musicologa

di Antonio Perri

Iniziamo, con questo numero, una serie di articoli dedicati ai giovani artisti lametini invitandoli a parlare di sè, a farsi conoscere e presentarsi ai nostri lettori

Sono nata a Lamezia, il 28/02/1989. La passione per la musica nasce già a 4 anni. Essendo figlia d’arte, con madre pianista, non è stato difficile avvicinarsi alla musica, anzi oserei dire che sono nata tra la musica. A 4 anni ho iniziato a suonare il pianoforte, che è stato il mio strumento fino agli 8 anni , poi, la folgorazione: vidi un’arpa, e ... mi innamorai. Iniziai a chiedere di avere questo strumento, ma non era semplicissimo. Dopo varie insistenze, arrivò quest’arpa, nera, ancora ricordo il suo arrivo. Iniziai a studiare privatamente, e dopo circa un anno di lezioni, entrai a pieni voti al Conservatorio di Vibo Valentia. Iniziano così i miei studi musicali, conciliando scuola e conservatorio. Nonostante ciò, ho avuto un’infanzia e un’adolescenza normalissima, come gli altri ragazzi della mia età. Non ricordo particolari rinunce, forse perché quando si fa qualcosa che si ama, non si bada ai sacrifici. Durante gli anni dei miei studi, ho vinto la borsa di studio Erasmus che mi ha permesso (tra il 2008/2009) di vivere quest’esperienza in Spagna, al Conservatorio Superior de Musica de Malaga. Esperienza che mi rese ricca culturalmente e personalmente. Conseguo la laurea in arpa nel 2010 a pieni voti, inizio quasi subito ad insegnare nei licei musicali, prima in Calabria e poi in Campania, nel mentre , completo la formazione conseguendo la Laurea Magistrale in Musicologia, presso l’Università degli studi di Roma Tor Vergata, con il massimo dei voti, la lode, e la pubblicazione della mia tesi di laurea, diventata poi un libro. Non mancano i Master Universitari e quelli artistici dedicati al mio strumento con grandi arpisti internazionali. La mia carriera musicale, mi ha permesso (e mi permette) di viaggiare molto in Italia e all’Estero, conoscere grandi professionisti e stelle della musica. Al momento ho inciso 5 dischi, con vari ensemble musicali, alcuni dei quali dedicati alle tradizioni musicali del Sud Italia. Ai miei studenti del Nord piace moltissimo la musica del Sud, e questo loro entusiasmo accresce l’orgoglio delle mie origini. Ho vinto numerosi concorsi musicali, il primo ad appena 9 anni, con primi premi assoluti ed importanti riconoscimenti. Per citarne qualcuno: Seconda Ed. Concorso Musicale Internazionale Erik Satie sezione solisti 1 Premio cat. Arpa e Primo Premio Assoluto; Amigdala International Music Competition V Ed. (1° Premio Aspag. 10

soluto - Premio Amigdala Music Talent); XVII° Concorso Internazionale “V. Scaramuzza” cat. Arpa (1° Premio) ecc... Ho avuto l’onore di esibirmi per la Principessa Pallavicini a Roma e per le S.A.R. Murat. Ho suonato con Katia Ricciarelli, Red Canzian, Vadim Repin e sono stata diretta da eccelsi direttori d’orchestra. Nel 2015 sono stata selezionata come arpista dall'Accademia Musicale Santa Cecilia in Roma per il Progetto "Musica X Musei" , esibendosi presso il Museo Archeologico Nazionale di Reggio Calabria accanto ai Bronzi di Riace. I concerti sono tantissimi, centinaia, e li ricordo tutti. Prima ho accennato alla mia tesi di laurea, di cui una copia è stata donata alla Biblioteca Comunale O. Borrello di Lamezia Terme, diventata un libro: la pubblicazione riguarda il Campo di Internamento Ferramonti di Tarsia, e in particolare musicisti che vi erano internati. Ho scelto di affrontare questo argomento perché nessuno aveva mai parlato della realtà musicale che è nata in quel campo calabrese. Così mi sono immersa nella traduzione dei programmi da concerto (sì, stampavano dei veri e propri programmi da concerto all’interno del campo); nell’analisi degli spartiti che venivano composti dai musicisti internati e nella traduzione dei testi; nelle foto e nel riconoscimento degli artisti. E ho scoperto la bontà del popolo calabrese nei confronti degli ebrei internati. Il libro si intitola “Il Valzer Ferramonti. Suoni e Voci da un Campo di Internamento Fascista”. Una scoperta bellissima, un libro che è arrivato fino alla biblioteca dell’Università Polacca. Attualmente vivo a Milano ormai da due anni, insegno, svolgo attività di ricerca e continuo la mia attività musicale ma a Lamezia torno spesso, perché ho la mia attività di wedding music che porto avanti da 10 anni sul territorio calabrese soprattutto, ma anche fuori regione. Sono tanti gli sposi che si affidano a me nella creazione della loro colonna sonora, e coadiuvata da altri professionisti, facciamo corona al loro giorno più bello. Le soddisfazioni sono tante ed è bello vedere l’emozione nei loro volti quando ascoltano i brani che hanno scelto con cura. E’ bello quando a distanza di tempo ti scrivono ringraziandoti, perché hanno ricevuto il filmino del matrimonio e hanno riascoltato la musica da me suonata. Ogni matrimonio è unico e solo, e

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io tengo molto affinché la musica descriva la coppia e soddisfi i loro desideri. Purtroppo, nel settore musicale spesso si incontrano degli “improvvisati”, sono sempre meno poiché la maggior parte delle persone si riferisce sempre più al professionista che sa guidarli nella scelta migliore. La musica ha un ruolo fondamentale nella nostra vita: se ci pensiamo bene, ascoltiamo musica continuamente, ogni giorno; nei negozi, in macchina, per strada; ed è importante affidarsi a professionisti particolarmente per il giorno più importante della propria vita. Un professionista, ha alle spalle anni di studio serio e ricerca continua. E quando mi dicono che basta il talento, non è così. Il talento aiuta, ma anche Mozart, per citarne uno, studiava ore ed ore sul suo strumento. Qualche aneddoto: durante il concerto con Vadim Repin, abbiamo suonato in duo Le Cygne di Camille S. Saens. Stavo suonando in duo con uno tra i migliori violinisti viventi al mondo, e un pò di anisetta c’era diciamoci la verità. A fine prova, mi disse “Brava arpa” (lui è russo), e durante il concerto, dopo aver suonato il brano mi volle vicino a lui per l’inchino e per ricevere gli applausi, insieme all’etoile Svetlana Zacharova (come vedete in foto). E’ stato un momento che porterò sempre con me. Durante un altro concerto, mi è capitato che mi si avvicinasse una persona per dirmi “Sentendo la tua musica, sono andato in paradi-

so e tornato”; oppure studenti che a distanza di anni mi hanno detto che la passione per l’arpa gli è nata dopo avermi sentita suonare. Qualche altra citazione sulle mie esibizioni: "Premio Amigdala Music Talent 2015" : All'arpista Paola Testa perchè ha messo in mostra eccezionali doti di espressione musicale, di eleganza nel fraseggio e una notevole tecnica virtuosistica. "Un programma quanto mai difficile, soprattutto nell’interpretazione che richiedeva una maturità musicale non comune, sottolineato però dall’artista con una tecnica ineccepibile ed una musicalità ricca e convinta. Una fraseologia interpretativa che passava facilmente da brani quasi settecenteschi a brani molto descrittivi”. "Paola Testa è un’artista calabrese che ben onora la sua terra e diffonde nel mondo artistico una grande professionalità, frutto di un lavoro molto intenso, appreso nel Conservatorio “F.Torrefranca” di Vibo Valentia, dove ha fondamentalmente forgiato al sua tecnica”.

Satirellando

Le persone che non posso proprio soffrire sono quelle camaleontiche, quelle che mimetizzano il loro modo di essere, a seconda dei loro interessi. Ovviamente, nella vita se ne incontrano tante. Un tempo, appena le vedevo, mi innervosivo, poi… ho imparato a satirellare. Fa roppo bene al cuore… AH,AH, AH! IL CAMALEONTE Il camaleonte è quella persona

pur quando sembra

noncurante di divenirne zimbello!

e di costoro divien cicisbeo,

che, coi truci è truce

che tiri le cuoia,

Lo scansano in privato

pur di averli nel suo corteo!

e coi buoni è buona!

non fa vedere

come gregario,

Ma quando sveste la sua corazza,

Non si espone mai abbastanza:

che si annoia!

ma, in pubblico, a tutti, è necessario:

rivela un talento da ramazza

vuoi per viltà,

E’ il giullare degli adulatori:

nei concistori mondani serve

e due tondi occhietti roteanti

vuoi per buona creanza!

quelli che crede gran signori;

per le sue maniere arroganti

atti a carpir benefici importanti

Lo vedi sempre rifiorire

pur di bearsi di certa gentaccia,

e proterve,

che non gli servono per celare

quando credi

è disposto ai calci in faccia:

sa intrattenere i superficiali

la sua pochezza… spettacolare.

che stia per morire:

sta sempre al centro, nel capannello,

ostentanti blasoni museali

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Spettacolo

Lamezia Summertime. “Bollari” o il respiro del mare

di Giovanna Villella

Lamezia Terme, Chiostro S. Domenico Caffè letterario. In scena, per il Lamezia Summertime 2018 sezione TeatrOltre: il Teatro Ritrovato lo spettacolo Bollari: Memorie dallo Jonio di e con Carlo Gallo (Teatro della Maruca) collaborazione artistica di Peppino Mazzotta, costumi di Angelo Gallo. Il progetto Lamezia Summertime è un evento storicizzato, realizzato dal Comune di Lamezia Terme in collaborazione con Arci Lamezia Terme/Vibo Valentia in qualità di partner di progetto e finanziato dalla Regione Calabria con fondi PAC per il triennio 2017-2019. Bollari è un “cunto” antico e antico il suo primo cantore Suricicchiu. Carlo Gallo, straordinario, l’ha trasformato in uno spettacolo. Una scena nuda, una quinta nera e lui, l’Attore, che dà vita e respiro alle parole. Un racconto fitto e denso, in una lingua come di roccia aspra levigata dall’acqua di quel mare popolato di miti, leggende e pesci che diventa narrazione confidenziale delle lunghe ore passate in giovinezza accanto a un padre, pescatore e marinaio rinomato, e a quell’amico, Suricicchio, “piccolo e con le gambette veloci”. Ma è anche denuncia di una vita di fatica e di miseria nell’Italia del regime fascista in cui Bollari diventa il grido felice che fende l’aria ferma e assolata dello Jonio all’arrivo del banco dei tonni che fanno ribollire l’acqua. “Prodigio di mare” e grido che placa la fame, atavica, dei pescatori. Gallo diventa così il cantore-timoniere, la voce narrante che con distaccata ironia e ritmo cullante evoca, facendoli affiorare dagli abissi della memoria, i moti segreti , le intese, le ripulse, le pas-

sioni, le viltà che intarsiano, sotterranei, i personaggi. La ruvidità del padre, mastro Rafele, con quella sigaretta perennemente appesa tra le labbra, una mano mozzata e la mappa dello Jonio memorizzata negli occhi. La rabbia e la delazione di mastro Peppe. La severità e l’amorevolezza delle mamme calabresi. La violenza di Michele Mastano che pur lascia intravvedere un scintilla di umanità. La tenerezza e la fedeltà di Suricicchio, anche se Sandro era il suo vero nome… E, con uno scarto spazio-temporale, il pubblico è là sul molo, confuso tra la folla, ad aspettare la Cecella, la più grande imbarcazione dello Jonio, capitanata da mastro Rafele, nostrano Achab, che trasporta il suo prezioso carico di pesce; tra i paesani trepidanti che attendono Mussolini in piazza; nel coro dei pescatori “oh rema rema rema e tiramu l’arrancata…” o sui calanchi argillosi, con “il naso a profuma di mare” a scorgere la passa dei tonni e a gridare Bollaaaariiii, o ancora in quell’ultima tragica pescata a seguire il cambio repentino delle correnti e il lancio, preciso, delle tre pigne, quella con la miccia lunga, quella con la miccia media e quella con la miccia corta… fino al sacrificio finale. Vicenda di mare Bollari, piena di forte suggestione dominata dal tema della pesca, il “mestiere della miseria”, e dall’ineluttabilità del destino. Storia e memoria di terra meridionale infusa e circondata da elementi reali e simbolici. Perché qui il mare è anche un “mare di parole” cantate contratte dilatate gridate sussurrate che danno corpo a voci popolane, ora stridenti ora lamentose o a voci di comando e di sopruso mentre le mani vorticano, danzano nell’aria, avanzano e si ritraggono come fa l’onda sulla sabbia, con lentezza o rabbia.

Le perle di Ciccio Scalise

Pueti Accucchjiparoli P p i qquantu ricerchi ajiu fhaciutu, nù pueta. divintatu riccu, ull’ajiu truvatu, a ccuminciari du Pasculi, chi sà struggiutu, m’alleva chill’orfanialli, chi u patri ha llassatu. U Leopardi, u Giusti, u Parini, u Pani, u Ciardullu, u Butera, unn’è ca fhatigavanu ppi ffari fhistini, mà, ca ccù llà puesia, rendita un ccì nd’era. Nà bbona parti jianu avanti, pag. 12

cà, alli cumbiviali di nobili, i mbitavanu, tandu fhesti e bballi, sì ndì fhacianu tanti, ed’llli, mangiandu, ancuna poesia ricitavanu.

mà, chistu certu un ccì linchjia llà panza, avianu i jiri squatriciandu ppi ccampari.

“Si vua fhari i fhigli povarialli”, u saggiu anticu nuastru, dicia, “là fhari piscaturi i canna o acchjiappaggialli”, iu cci jiungera, “O mu scrivi ppoesia”.

Accucchjiaparoli, vinianu chjiamati, pirchì un ssapianu fhatigari, pirò, alli casi di cchjiù artulucati, chisti, un pputianu assulutamenti mancari.

L’unica cosa c’avianu in’abbundanza, eranu capilli luanghi e bbarbazzali, GrafichÉditore di A. Perri - & 0968.21844

Iu criu ch’è nnà virità lampanti, chissi chi scrivimu, u sapimu tutti quanti. Lamezia e non solo


Spettacolo

Angela Finocchiaro in “Ho perso il filo” ovvero il rovesciamento del Mito di Giovanna Villella In scena al Teatro Comunale lo spettacolo Ho perso il filo con Angela Finocchiaro su testo di Walter Fontana e regia di Cristina Pezzoli. L’evento, inserito nel cartellone della rassegna teatrale Vacantiandu con la direzione artistica di Diego Ruiz, Nico Morelli e la direzione amministrativa di Walter Vasta, è stato organizzato in collaborazione con il Festival Fatti di Musica di Ruggero Pegna. Arriva dalla platea, Angela Finocchiaro, a stabilire una immediata empatia con il pubblico. Sale quella scala improvvisata fatta con i bauli che contengono l’attrezzeria scenica e si mette al centro del palco dove campeggia un bianco gomitolo gigante. Dichiara le sue intenzioni interpretative. Questa sera si cimenterà in qualcosa di diverso. Vestirà i panni di un eroe: Teseo ma non prima di aver raccontato, con irriverente candore, l’antico mito del

vigore e una forza personalissimi. Dotati di una struttura fisica marcatamente nervosa ed esercitata fino nell’ultimo muscolo, riescono a rasentare l’acrobatico senza mai allontanarsi dai giusti confini della danza in un alternarsi di fluidità e stasi, sequenza di figure e passi d’élévation e in sottofinale un superbo gruppo scultoreo in posa plastica. Come un coro greco, in una striscia danzante continua, queste “creature del labirinto” accompagnano o enfatizzano le situazioni sceniche. Mentre gli interrogativi, i giudizi, gli ordini che si imprimono sul “muro parlante”, sorta di quadrante cinematico, non sono altro che proiezioni speculari dell’io e del subconscio. Tutto è giocato sul filo magmatico dei ricordi, visti in retrospettiva, con l’occhio adulto ma ancora infantilmente disincantato della protagonista: l’educazione in

sue autoconfessioni si misurano con un buon senso che si rivela nelle sue continue smagliature ma che, tuttavia, viene reiventato con ottimismo nella dinamica scenica attraverso un faticoso processo di rigenerazione e di autoaffermazione. Il filtro dell’umorismo esalta il sapore della libertà conquistata senza spargimento di sangue. La storia intera appare soprattutto mentale eppure deliberatamente teatrale, grazie alla regia abile e scoppiettante di Cristina Perazzoli e al testo di Walter Fontana, nella cui tessitura narrativa ritualistica iniziatica ma nello stesso tempo quotidiana e riconoscibile si aprono, d’improvviso, profondità metafisiche. Angela è sempre in scena, vitalissima. Con l’energia di un folletto salta scappa combatte gattona e danza esibendo frenesie motorie rigide, stilizzate, quasi marionettistiche ma so-

Minotauro. Con qualche suggestione alla Paolo Poli ma con una dose minore di perfidia e più sorridente ironia. Così dopo aver consegnato il gomitolo ad una spettatrice in prima fila si addentra nel labirinto in una atmosfera onirica tra sipari leggeri e un sapiente impasto cromatico di luci e suoni, merito dei talenti associati di Giacomo Andrico (scene), Valerio Alfieri (luci) e Mauro Pagani (musiche originali). In realtà la scena è un luogo dell’inconscio, un paesaggio interiore da cui provengono i fantasmi che evocano emozioni, ricordi, coscienza e immaginario. E qui i fantasmi hanno il corpo di sei fantastici ballerini: Giacomo Buffoni, Fabio Labianca, Alessandro La Rosa, Antonio Lollo, Filippo Pieroni, Alessio Spirito che, su coreografie di Hervié Batie, mostrano un

un collegio di Orsoline (con passerella clericale), il primo bacio, i consigli che si tramandano da madre in figlia, il matrimonio, la maternità, la rassicurante quotidianità… E in quel perimetro di sogno, la realtà, irrompe - paradossalmente - attraverso l’onnipotenza della tecnologia creando ironiche e giocose discrasie. Il mito diventa pretesto per raccontare la tragedia dell’individuo moderno circoscritta ormai all’esperienza personale e non più collettiva e che si traduce, in dubbi, incertezze, paure, insicurezze, nevrosi, tormenti. Ma anche in una riflessione sulla morte in tutti i suoi aspetti: morte rituale, morte violenta, annullamento. E lei, sempre più disorientata e sola, si impadronisce del gravoso compito di capire “le cose”. È l’eroismo della vita quotidiana dove le

prattutto parla…. Parla con garbo, intelligenza e autoironia, qualità indiscusse della recitazione. Sembra che la Finocchiaro si diverta molto, e così facendo diverte gli altri. Moltissimo. Vivace e turbinoso finale sulle note del sirtaki che si trasforma in gioiosa danza catartica. Applausi scroscianti e lunghissimi. Per tutti. E al termine dello spettacolo, il consueto omaggio della tradizionale maschera, simbolo della rassegna Vacantiandu ideata dal graphic designer Alessandro Cavaliere e realizzata dal maestro Raffaele Fresca, che il direttore artistico Nico Morelli e il direttore amministrativo Walter Vasta hanno consegnato ad Angela Finocchiaro.

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cultura

Memorie storiche di un tesoretto monetale magnogreco e di briganti sul monte Mitoio di Lamezia Terme Accompagnata da Luigi Serafino Gallo, presidente dell’Associazione Quaranta Martiri, mercoledì 3 aprile mi sono recata in località Polveracchio: si tratta di un pianoro sommitale a 865 m di altitudine, poco al di sotto della vetta del Monte Mitoio (m 1003 s.l.m.). Vi si arriva dopo aver oltrepassato l’abitato di Acquafredda, frazione montana di Sambiase, ora di Lamezia Terme. La località è nota nella letteratura scientifica per il ritrovamento casuale il quel luogo nel 1959 di un importantissimo tesoretto di monete di argento, il più antico fra quelli ritrovati finora in Magna Grecia, databile intorno al 520 a.C. Il mio interesse a osservare da vicino questo pianoro era motivato dal desiderio di rendermi conto perchè quel luogo fosse stato scelto per nascondervi il tesoretto. A soddisfare la mia curiosità è stata la felice circostanza di aver potuto parlare a lungo col signor Giuseppe Rocca, che aveva visto passare la macchina di Luigi Serafino Gallo e ci ha raggiunti con la sua sul pianoro, di cui è proprietario. Il signor Rocca è un novantenne che mantiene un’ottima forma fisica, asciutta e ancora agile, una mente lucida e una gran voglia di raccontare di fatti e luoghi di sua esperienza diretta, ma è anche memoria storica delle vicende che hanno lasciato traccia nei toponimi dei luoghi circostanti, vicende del passato non troppo lontano, risapute e tramandate dagli anziani da una generazione all’altra. Il pianoro porta il nome di Polveracchio perché esposto a tutti i venti, che sollevano nugoli di polvere anche quando, in primavera, è ricoperto di erba e fiori variopinti. È un punto di massima visibilità sulla piana lametina; infatti domina dall’alto, per tutta la sua estensione, l’intero arco del golfo di S. Eufemia fin oltre Pizzo, Vibo, Capo Vaticano, con l’Etna e le Eolie oltre la linea di costa; all’interno dell’arco costiero si distingue nettamente la grande valle dell’Amato, dalla foce alla sella di Marcellinara, con le colline e i paesi della riva sinistra, Maida, Curinga, Girifalco, e con le montagne della riva destra, il Monpag. 14

te Tiriolo, il Reventino, e poi tutta la città di Lamezia con i quartieri di Nicastro e Sambiase. Spostandosi sulla piccola vetta retrostante, affacciata ad occidente sulla valle dello Zinnavo, la visuale si allarga verso nord fin oltre Gizzeria e Falerna e al terzo monte dell’arco costiero, il Mancuso. La capacità di avere una visuale a 360 gradi spiega perché a Polveracchio fosse stata a lungo piantata una grande antenna di qualche ponteradio, ora rimossa. Un luogo, dunque estremamente panoramico, da cui si poteva scrutare tutto il territorio circostante e avvistare qualsiasi imbarcazione navigasse all’interno del golfo. La definizione di “colle dell’infinito” che gli è stata attribuita rende bene l’idea.

Insistendo sul Monte Mitoio, dall’età bizantina (IX-XI sec. d. C.) questa località rientrava, come tutto il monte e il suo contrafforte meridionale del Sant’Elia, nelle proprietà dell’Abbazia dei Quaranta Martiri, di cui mi sono a lungo occupata un ventennio fa. Queste proprietà (come quelle di quasi tutti i monasteri calabresi) erano confluite nella Cassa Sacra dopo il terremoto del 1783, erano state divise in lotti e per la maggior parte vendute a privati (di proprietà demaniale qui era rimasta l’area di Bosco Difesa per gli usi civici del comune di Sambiase, ora di Lamezia Terme, di recente sistemata a Parco). Delle compravendite più recenti di alcuni di quei lotti lo stesso Giuseppe Rocca è stato parGrafichÉditore di A. Perri - & 0968.21844

te in causa e attendibile testimone diretto. Ma è stato anche materialmente artefice del ritrovamento del tesoretto. Lo troviamo abitualmente citato come tesoretto “di Sambiase”, o “di Acquafredda”; è conservato nel Museo Nazionale di Reggio Calabria, ma lo possiamo ammirare anche nel nostro Museo Archeologico Lametino, nelle fedelissime copie in argento realizzate a suo tempo, su autorizzazione della Soprintendenza archeologica calabrese, dall’orafo Eugenio Rocca. Il ritrovamento era avvenuto nei pressi del bordo meridionale del pianoro. Giuseppe Rocca, all’epoca ancora giovane, ci racconta di essere andato col padre Francesco e con un cognato a fare un carico di pietre con un carro per una costruzione che avevano in corso. Era suo compito, per abilità consolidata, spaccare con un po’ di polvere (dinamite) un grosso masso di pietra addossato ad un altro ancora più grande presente sul bordo del campo. La deflagrazione aveva avuto il suo effetto, ma aveva anche fatto saltare in aria e sparpargliare in ogni dove un gruzzolo di monete d’argento in ottimo stato di conservazione, che doveva essere stato nascosto all’interno di una cavità del masso più grande, resa visibile dallo scoppio, in una sacca di cuoio scuro ridotta a brandelli dall’esplosione. Giuseppe Rocca racconta che raccolsero una dozzina di monete e l’immagine che gli è rimasta impressa è quella del cavallo alato (il mitico Pegaso che contrassegnava le monete di Corinto); il ritrovamento fu denunciato a nome del padre e del cognato (che sarebbero stati poi i soli a ricevere il premio di rinvenimento), in seguito furono fatte ulteriori ricerche sul sito e ritrovate altre monete (si recuperarono in tutto 56 stateri di Sibari, tre di Corinto e un panetto d’argento di gr. 57, 70), ma quelle schizzate più lontano per l’esplosione o finite in qualche cespuglio furono trovate in tempi diversi da pastori e andarono così disperse. La scelta di Polveracchio Lamezia e non solo


come nascondiglio per un gruzzolo di così grande valore si spiega dunque per la funzione strategica come punto di vedetta e di controllo di tutto il territorio circostante, sia in direzione delle aree montane interne (verso Martirano, San Mango e il Savuto) sia in direzione della piana e di tutto il golfo, che quel sito aveva per gli Enotri che vivevano in questa area all’epoca dell’occultamento del gruzzolo. Per testimonianza del più antico scrittore greco di storia e di geografia, Ecateo di Mileto vissuto proprio all’epoca a cui risale il tesoretto (seconda metà VI secolo a.C. e primi decenni del V), sappiamo che si chiamavano Lametinoi gli Enotri che abitavano nella regione dell’Amato. La presenza sul pianoro di un grandissimo masso rappresentava il segnacolo adatto per nascondervi il gruzzolo, che evidentemente i proprietari non sono più stati in grado di recuperare. Queste mie conclusioni hanno trovato ulteriori conferme in quanto ho ancora appreso da miei due informatissimi interlocutori. Per quanto si arrivi a Polveracchio attraverso una strada impervia, oggi asfaltata, il luogo è stato frequentato abitualmente dai proprietari per le coltivazioni piantate in esso e dai pastori con le loro mandrie ovine, ma era anche luogo di transito per chi avesse bisogno di raggiungere luoghi vicini. Infatti da lì si diramano anche altri percorsi: un bivio consente di accedere, salendo ancora un po’ di quota e poi discendendo sul versante nord-occidentale, alla località Le Monache, che dicono avesse assunto questo nome dopo che c’era stato allocato in un imprecisato periodo di guerra un ospedale da campo con infermiere. Si raggiunge da lì un’altra località ancora, denominata Cesina, ci spiega Rocca, per la grande strage di briganti e “greci” che vi avevano fatto i francesi (“greci” venivano chiamati gli Albanesi insediati in Calabria e il riferimento in questo caso è agli abitanti del comune di Gizzeria, separato dal Mitoio dal corso dello Zinnavo). Le grotte nelle Lamezia e non solo

montagne del Sant’Elia e del Mitoio sono numerose e hanno offerto in ogni tempo riparo ai pastori e ai briganti. Di questo racconto di Giuseppe Rocca ho trovato una inaspettata conferma nella Nota storica sulla Calabria di Auguste de Rivarol, pubblicata a Parigi nel 1817, da Rubbettino proposta nel 2007 nella traduzione italiana di Saverio Napolitano. Durante il decennio francese, il de Rivarol era stato di stanza in Calabria tra il 1809 e il 1812 come aiutante maggiore del reggimento di Isembourg agli ordini il generale Manhès, al quale Gioacchino Murat aveva assegnato il compito della repressione del brigantaggio. Una lettura utile questa Nota storica, perché il de Rivarol non propone un semplice racconto delle sue memorie, ma piuttosto prova a dare un quadro complessivo della Calabria del tempo nella sua realtà geografica, economica, socio-politica e diremmo oggi antropologica, asciutto, breve, senza fronzoli come si addice per sua stessa ammissione ad un militare di carriera che non presume di avere capacità di narratore, spesso duro e amaro per il lettore calabrese d’oggi (come duri sono anche i giudizi che esprime nei confronti di Giuseppe Bonaparte e di Gioacchino Murat), ma per ciò stesso meritevole di riflessione, perché frutto della valutazione di un testimone oculare colto e acuto. Ebbene, per tornare al nostro Polveracchio, questo toponimo non vi figura, naturalmente, ma sono menzionati il bosco di Sant’Eufemia e il monte Mitoio. Nel capitolo IV dedicato a temperatura ed epidemie, il de Rivarol dedica una lunga nota al bosco di Sant’Eufemia, che dice «più noto per il nostro scontro sfortunato con gli inglesi» (con riferimento alla battaglia di Sant’Eufemia o di Maida, come la definisce altrove). Un bosco che « è stato in ogni tempo temibile per l’asilo che offre al brigantaggio e per i perfidi miasmi che esala. É una superficie delimitata dal fiume Amato, dal massiccio del Mitoio, dal mare e dalle montagne di Serrastretta». E aggiunge: «La banda del capo brigante Benincasa vi stabilì per lungo tempo i suoi quartieri invernali » e quando ne racconta la morte mentre cercava di fuggire attraversando l’Angitola in piena, precisa che era il capo della banda di San Biagio. Precisa inoltre: «Il torrente conosciuto col nome di Bagni taglia in due il bosco [ di Sant’Eufemia] e scende dalle pendici del

Mitoio», e sul Mitoio inquadra un altro episodio che ebbe per protagonista un altro brigante, Carmine Antonio, che imperversava su Nicastro e dintorni. La sua banda aveva assalito di notte «un piccolo villaggio [Acquafredda?] sulle pendici del Mitoio, una montagna che divide la piana di Sant’Eufemia, dove era stato distaccato un sergente con pochi uomini». Un soldato francese nella precipitosa ritirata era rimasto ferito e cercò scampo nella prima capanna che riuscì a raggiungere. Il calabrese che lo aveva accolto lo spacciò per suo fratello moribondo quando i briganti setacciarono tutte le capanne, e la mattina dopo col permesso di Carmine Antonio lo trasportò su un mulo a Nicastro dov’era di stanza il suo battaglione. L’episodio è raccontato nel capitolo sul carattere dei calabresi, a conferma - rispetto a tanti aspetti negativi - dell’ospitalità, delle premure e della costanza di affetto che i francesi hanno potuto sperimentare «in certe famiglie». Dunque, della presenza dei briganti e dei conflitti armati con i francesi che si erano verificati sul Mitoio si conserva tra la gente del luogo una memoria veritiera e Giuseppe Rocca ce ne ha fornito un racconto essenziale.

foto di corredo : 1. Foto di Luigi Serafino Gallo con Giuseppe Rocca e Giovanna De Sensi Sestito a Polveracchio. 2. La piana lametina e il golfo di Sant’Eufemia visti da Polveracchio. Foto Luigi Serafino Gallo. 3. Tre stateri del tesoretto di Aquafredda, uno di Corinto e due di Sibari. Foto tratta da Museo Archeologico Lametino, Guida a cura di R. Spadea, Milano 2002.

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scuola

Ragazzi ... sempre più ... in gamba!

di Gaetano Montalto

Si è conclusa la trentasettesima Rassegna Ragazzi in gamba! Nel giorni 1 e 2 aprile, in orario antimeridiano e pomeridiano, si sono alternati sul palcoscenico dell’auditorium dell’Istituto comprensivo “NicoteraCostabile” ventisei gruppi scolastici che si sono espressi nei linguaggi del teatro, della musica, della danza, del musical, del recital, del canto, del coro, del disegno! Una edizione particolarmente ricca di creatività e varia per

da Maria Adriana Longo, amica e presente alla Rassegna fin dagli anni ottanta; l’Associazione “Eventi di tendenza” con la simpatica Simona Trunzo, creatrice di meravigliosi addobbi floreali in carta e maestra di disegno; l’Istituto Comprensivo “G.B.Moscato” di San Lucido (CS) con il plesso della Secondaria di Falconara Albanese, ormai assidua presenza con il suo folklore che connota la musicalità e la storia stessa dell’etnia alba-

za. Raggiungeranno il festival della Bellezza di Chiusi, nello storico teatro Mascagni, nella seconda decade di maggio: l’orchestra di violini ,con alunni della primaria dell’Istituto Comprensivo “Nicotera – Costabile” con la collaborazione dell’Associazione Amici della musica”; la Scuola dell’Infanzia di Savutano con i suoi piccoli artisti che si sono cimentati in “Aggiungi un posto a tavola”; la Secondaria di Falconara Albanese con il suo

la presenza di alunni dalla fascia della scuola dell’infanzia fino alla secondaria di primo grado! Presenti l’Istituto comprensivo “Nicotera-Costabile” con l’orchestra e la banda musicale , con la scuola dell’infanzia di Savutano e con varie classi della primaria dei plessi Savutano e Kennedy; l’Istituto Comprensivo “Perri-Pitagora” con un pregevole e inedito coro di 36 alunni di terza elementare,diretto dal Maestro Orlando Vescio, che hanno, con freschezza e senso del ritmo, intonato le sigle dei cartoni animati di tanti anni fa: Lady Oscar, Remy,l’ape Maja, Lady Oscar…un tenero modo per cantare insieme ai loro nonni quei motivetti che hanno allietato la fanciullezza di chi non ha più l’età!..un modo per tessere un ideale legame di complicità tra nonni e nipotini! Presenti anche l’Istituto Comprensivo “Fiorentino-Borrello” ; l’Istituto Comprensivo “Manzoni-Augruso”; la scuola di danza “Flash dance”;l’Associazione Muse’s Choir Life con “Musica tra le note”, diretto

nese; l’Istituto Comprensivo di Motta San Giovanni (Rc) che ha ripercorso la favola di Pinocchio attualizzandola teneramente alla realtà di oggi;l’Istituto Comprensivo di Papanice (Kr) con un “recita” sulla Shoa! Tema condiviso anche dalla secondaria di Pianopoli: un modo per offrire a queste generazioni del ventunesimo secolo il ricordo di una triste storia prima che la memoria sbiadisca e venga addirittura negata! Pregevole la rappresentazione dei bambini di prima della Scuola Elementare di Pianopoli con la rivisitazione della favola “Il brutto anatroccolo”,un modo per rivendicare la consapevolezza del non senso della “diversità”;una classe di quinta della primaria di Feroleto Antico che parafrasando “Piccole donne” ha ripercorso la storia del proprio paese e del Sud! Straordinaria la presenza del Plesso Davoli dell’Istituto Comprensivo “Gatti” con i suoi alunni di etnia rom, che, attraverso la musica, hanno rivendicato la propria cultura di appartenen-

folklore; l’Istituto Comprensivo di Motta San Giovanni con il suo struggente ricordo della Shoa. La Rassegna,nata a Chiusi nel lontano 1963, ha compiuto in campo nazionale il suo cinquantasettesimo compleanno: tra le sedi di Rassegna (Bergamo-Chiusi-Villa LiternoMontecorvino Rovella- Taranto- Messina -Lamezia Terme), la nostra Città è la sede più prestigiosa e più longeva. Nel 1983, l’allora Ministero della Pubblica Istruzione, ha concesso alla Rassegna Ragazzi in gamba il suo patrocinio, riconoscendone l’alto valore educativo ed artistico. Anche il Papa Benedetto sedicesimo, ricevendo in udienza particolare i Ragazzi, in gamba ha avuto parole di incoraggiamento a proseguire nella esaltazione del messaggio di speranza che traspare dai ragazzi, in qualsiasi codice artistico loro si esprimano. Arrivederci alla 38^ edizione a Lamezia e alla 58^ edizione nazionale...se Dio vorrà...

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recensioni

di Costanza Falvo D’Urso

Azzurro

Azzurro è il colore del cielo sereno con una gamma di tonalità tra il celeste più chiaro e il blu più scuro e a pensarci bene, Francesco Scoppetta, non poteva dare al suo libro un titolo più azzeccato di “Azzurro”. Senza entrare nel merito della ormai superata “vexata quaestio” dei generi letterari e delle varie categorie all’interno del genere, definirei il lavoro di Scoppetta un thriller sociologico o con un termine più colto o magari più appropriato un romanzo sociale con un enigma da sciogliere. Azzurro, infatti, non rispetta pedissequamente le regole classiche del romanzo giallo o poliziesco, il suo racconto trascina agevolmente il lettore dentro le pagine, dentro situazioni reali del nostro Sud, della nostra Calabria, con una varietà di toni che mutano a seconda l’ambiente o le circostanze, ora impenetrabili, ora bellissime. Non ricorre mai alla violenza esplicita, non punta sulla paura o sull’orrore per impressionare chi legge, ma intelligentemente riesce a toccare la molla della curiosità emotiva col pregio dell’originalità e forse per questo la storia narrata è più avvincente perché non è omologabile.

“Il cuore mi sussulta quando vicino al Belvedere di Capo Vaticano sento alla radio Celentano cantare: - Azzuzzo, il pomeriggio è troppo azzurro e lungo per me. Mi accorgo di non avere più risorse, senza di te -. Siamo su un promontorio e guardiamo le spiagge sotto con la sabbia bianchissima. Scendiamo pure alla baia di Grotticelle e camminiamo per vedere le tre spiagge contigue. Fabrizio sembra sia lì, a camminare con me e Brunello. In un posto così bello si può morire senza sapere perché”. I personaggi sono tanti, spinosi, evasivi, sfuggenti, misteriosi, “tridimensionali”, non piatti, credibili e sono elencati in una pagina prima che inizi la narrazione che s’ispira a fatti realmente accaduti.

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I protagonisti sono una coppia, marito e moglie.

Lui, Fabrizio Pozzi, ispettore scolastico mandato dal Ministero in una scuola calabrese per “ avviare un’ispezione per verificare se negli atti della scuola frequentata dall’alunna ci fosse traccia di quanto è emerso … e … richiedere alla Procura l’acquisizione del provvedimento nei confronti dell’insegnante che Lei (preside) ha denunciato…”. Lei, la moglie, Sandra Zunino, avvocato, che sollecitata dal vice commissario di polizia, Andrea Satti, torna in Calabria, dopo nove mesi, nei luoghi dove il marito ha trascorso gli ultimi giorni della sua vita, per ricominciare daccapo le indagini in presenza di nuovi elementi. Due capitoli, L’ispettore Pozzi e Sandra, il primo propedeutico al secondo, sono tessuti perfettamente insieme e costituiscono l’ossatura del racconto.

Essenziale la cronologia delle date che collocano nel tempo gli eventi e i due capitoli finali, Puntini e Epilogo, che proiettano il romanzo nel cosiddetto giallo classico-deduttivo dove il lettore trova il bandolo della storia, la soluzione dell’enigma. Post scriptum: Vi chiederete il “pro” di questo libro? La risposta nell’affermazione di Keith Oatley, psicologo e scrittore: “ che cosa sono un pezzo di narrativa, un romanzo o un racconto? Sono pezzi di coscienza che vengono passati da una mente all’altra. Quando leggiamo stiamo prendendo un pezzo di coscienza di qualcuno che facciamo nostro”

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LA CALABRIA, UNA TERRA DA AMARE

N OV E A N N I di Ginevra dell’Orso

Sono trascorsi nove anni da quando ho lasciato Milano per venire a vivere qui, in un piccolo paesino affacciato sul mar Ionio. Ogni tanto mi guardo indietro, cercando di trovare una ragione più complessa e articolata per spiegare quel “salto nel buio”, che mi ha portato a decidere di trasferirmi. Mi sono sempre detta che la ragione fondamentale fosse il bisogno disperato di un po’ di natura, di un clima meno ostile, di colori più vividi e soprattutto la forte necessità di spazi aperti. Non avevo mai tenuto in considerazione l’aspetto culturale, come se andassi a vivere in un luogo lontano da ogni forma di civiltà, disabitato, o comunque incapace di interferire con il mio mondo. Quando vivi tutta la tua vita in una grande città, ogni cosa è completamente diversa: i rapporti sociali sono altalenanti, o troppo intensi o del tutto assenti. Capita di non avere mai incontrato il proprio vicino di casa, con cui hai condiviso lo stesso pianerottolo per quasi 10 anni, o di salutare a malapena il barista che, per il medesimo tempo, ti ha preparato il caffè ogni mattina. Sarà la frenesia metropolitana, sarà il ripiego totale su sè stessi, ma sta di fatto che è del tutto normale proseguire per la propria strada, incurante dell’umanità circostante. Milano Abitando a pochi passi da Piazza Duomo, era mia normale abitudine uscire a piedi e raggiungere qualsiasi posto camminando o, eventualmente, prendendo al volo un tram. Era anche mia abitudine comprare da mangiare nei negozi o nei piccoli supermercati di zona, o al mercato del Sabato. Abitare in centro pag. 18

aveva grandi vantaggi, ovvero trovare tutto a portata di mano: cibo, negozi, teatri, cinema, ristoranti, pasticcerie, locali, insomma tutto. Come penso molti dei milanesi che conosco, il fine settimana me ne andavo via, in cerca di un po’ d’aria pulita, di cieli alti da osservare, e quasi sempre di mare e di montagna.

Poche ore per raggiungere ogni posto, pagando il prezzo di lunghissime code, e grandi stress. Tutto in cambio di un po’ di riciclo visivo, olfattivo e tattile. Poi arrivava l’estate, e finalmente potevo passare un po’ di tempo qui, in Calabria, lontana dalle mie abitudini, catapultata in una realtà così lontana dalla mia, da farla sembrare irreale, esageratamente bella da poter essere vera. Il desiderio di scappare lontano anni luce da una città che, per quanto amassi, inghiottiva voracemente GrafichÉditore di A. Perri - & 0968.21844

ogni mio sogno, aveva bussato alla mia porta quando già ero minorenne: poi però la scuola, l’università, l’amore, gli amici, e il difficile consenso sociale da chi non aspetta altro per giudicare le tue scelte, sperando persino nel fallimento. La vita mi aveva risucchiato nel suo disperato vortice tentatore, bello e dannato, instancabile e impavido, difficile da evitare: tuttavia, per quanto amassi ogni attimo della mia esistenza, non riuscivo ad abdicare al desiderio di vivere in una casa in mezzo al verde, circondata da animali, fiori, alberi secolari e da un instancabile mare. Poi sono nati i miei figli, e come molte mamme, ho passato ore e ore a un parco giochi, ogni giorno per tanti anni, proponendo loro un’effimera versione di natura; una merenda sotto un albero, fili d’erba da condividere con cani e altre migliaia di persone che disperatamente cercavano un contatto quasi primordiale con la Madre Terra. Eureka! “E’ il classico sogno infantile che si ha da bambini, la casetta in campagna con gli animali... chi non ce l’ha! Ma la realtà è un’altra cosa: e poi che farai? E i tuoi figli come cresceranno? Di favole e speranze?” Poi un giorno è arrivata l’illuminazione, la visione profonda: io che mi affacciavo alla finestra, guardando il mare all’orizzonte, e in lontananza la voce di mio figlio che mi diceva di muoverci, perchè era già tardi! Era giunto il momento di fare quel famoso “salto nel buio” senza sapere cosa ne sarebbe stato di noi! Quasi sempre i salti nel buio sono catartici; difficili, spaventosi, a volte Lamezia e non solo


LA CALABRIA, UNA TERRA DA AMARE persino traumatici, ma si impongono nella vita di ognuno di noi. Sono come un parto, dolorosissimo, ma che dopo pochi attimi, riempiono con una gioia straripante, e fanno dimenticare tutto il resto. I primi anni qui in Calabria sono stati belli e incantatevoli, proprio come me li ero immaginata; vivere certe esperienze dall’esterno, dà quel giusto distacco in grado di far sembrare tutto senza ombre. La ricerca di un lavoro, di una casa, faceva sembrare ogni giorno un’avventura, alla scoperta di una regione per tanti versi completamente estranea. La conoscenza di nuova gente, la rivelazione di borghi e paesaggi mai visitati, il mare, sempre a pochi passi da me! I primi anni sono stati una completa meditazione sul significato del moto perpetuo delle onde! E poi le montagne, le piante, le ore a guardare la metamorfosi delle nuvole, che non avevo mai visto veramente in tutta la vita. Ma non c’era solo il contorno: l’incanto era anche la brulicante vita di paese, il vociferare, le leggende, le magherie, i malocchi, le processioni, i canti nelle strade, i bambini. Il mio accento marcatamente milanese, di cui sorridere, e a volte arrossire, per non sentirsi mai fino in fondo parte integrante di un luogo, in cui non si ha avuto la fortuna di nascere. Un’infinità di nuove informazioni da inserire, minuziosamente, in una mente molto immaginifica come la mia, ma non per questo meno razionale o pragmatica. La consapevolezza Un bellissimo rimescolamento di sabbia, terra, polvere, bagnate dalla pioggia dell’innocenza. Un volo alto fino alle nuvole, terminato con uno schianto al suolo: nel mondo della notte e del giorno, del pieno e del vuoto, della teoria e della pratica, dopo tanta gioia non poteva mancare altrettanto dolore. Un buio nato da una forte e inevitabile consapevolezza: quello che era stato un bisogno di natura, pag. 19

di semplicità in un mondo troppo claustrofobico, era solo la punta di un iceberg. Sono iniziati gli scontri con il quotidiano, con la routine, con la praticità; inventarsi un lavoro, i figli da portare a scuola, su e giù dalla montagna ogni giorno, la mente modellata da una città da incastrare a quella di un borgo di 250 anime; riuscire a far coincidere ogni cosa razionale con tutto ciò che è profondamente spirituale.

Una lotta interiore che mi ha portato a guardare tutto con altri occhi, persino a dubitare di essere in grado di continuare a stare in un posto in cui diventava così difficile assestarsi percependo, dopo l’iniziale entusiasmo, la terra che franava sotto i piedi. E’ stato come tutte le storie d’amore: l’innamoramento iniziale, fatto di palpitazioni, fremiti e stupori quotidiani, è scivolato in una gabbia contaminata dalla paura, dal timore di non essere mai accettati fino in fondo, dalla sensazione di venire abbandonati, di non essere davvero all’altezza di un amore così grande, così viscerale, così troppo in tutto. GrafichÉditore di A. Perri - & 0968.21844

Le attese risposte Ogni giorno è stato dedicato ad una nuova domanda: dal significato dell’esistenza a quello che oggi, in questa società assurda, rappresenta il lavoro, il crescere dei figli, il senso dei valori, dei princìpi di verità. Tutte domande che ogni essere umano, ad un tratto, si pone, che però possono avere tante risposte. Poi, dopo un lungo e faticoso periodo di chiusura interiore, sono arrivate, piene di sorprese. E’ stato il moto perpetuo del mare ad avermele date; sono state le rondini che all’improvviso, come ogni anno, sono arrivate a fare il nido sotto il balcone della mia stanza. E’ stata la vecchina in fondo alla strada mentre preparava il sapone di casa; è stata la pioggia di Marzo con i suoi dirompenti arcobaleni; sono stati i miei adorati fiori che, in dodici mesi, tingono i prati con tutti i colori che siano mai stati inventati. E’ stato il sole, quando esce dalle fredde nuvole invernali a scaldarti con un semplice raggio: è stato il vento di scirocco, con la sua sabbia rossa che porta come dono da molto lontano. E’ stato questo posto sconvolgente che mi ha insegnato ad avere fede, a vedere la vita come un disegno perfetto in cui viviamo, sospesi da ali invisibili. E proprio come le vere storie d’amore... l’amore ha prevalso su ogni dubbio e incertezza. C’è un mondo, là fuori, che sbraita, come un cane rabbioso, che cerca di rubarti tutti i sogni, di privarti del sonno, della serenità, della certezza che la vita sia un’esperienza unica e irripetibile; bisognerebbe provare a vivere in una prigione fatta di diamanti, per capire quale dono possa fare la natura, con le certezze che solo e unicamente lei può dare. Ecco perchè, dopo nove anni, posso dire con un’incredibile sicurezza, che questa è la mia più grande e intensa storia d’amore: ti amo, Calabria mia! Lamezia e non solo


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LA ROYAL LASCIA LA SERIE A CONO ONORE E DIGNITA’ Il patron Mazzocca: “Fatto il massimo smentendo tanti scettici e senza il nostro PalaSparti” di Rinaldo Critelli C’era una volta lo sport…C’era una volta una società sportiva di calcio a 5 femminile… Fatta di persone appassionate e ‘folli’, che dopo un’entusiasmante cavalcata in A2 approdava il 29 aprile del 2018 nell’olimpo del futsal femminile. Ce l’ha fatta dopo soli 5 anni di vita societaria, densi di sacrifici immani a cui si stenterebbe a credere. Ebbene, tenetevi forte poiché l’incredulità aumenta ancor di più allorquando nella nuova serie, la A per intenderci, accade qualcosa di inimmaginabile. Quella società, la Royal Team Lamezia ovviamente, dopo aver giocato gran parte del torneo di A2 nella sua struttura, il PalaSparti, ma a porte chiuse, sperava che nel nuovo e prestigioso nuovo torneo potesse aprire le porte ai suoi appassionati tifosi e sportivi. Quel migliaio circa che nei due anni di A2 ha assiepato le gradinate del PalaSparti con affetto, colore, calore e rumore. Attese fin da subito deluse! Per consentire al suo pubblico, ma non solo, di godere dello spettacolo della Serie A, la Royal opta per il trasferimento in palazzetti di gran parte della Calabria, PalaPace di Vibo, Rogliano, Pentone e dulcis in fundo il PalaMaiata di Vibo Valentia grazie al fattivo interessamento del presidente della Provincia vibonese, Salvatore Solano. Ma non finisce qui, perché con ordinanza di fine dicembre 2018 da parte della triade commissariale insediatasi a fine novembre al Comune di Lamezia Terme, ecco chiudersi definitivamente il PalaSparti perchè ‘inagibile’, anche per gli allenamenti! La stagione della Royal dunque non iniziata sotto i migliori auspici, quelli di riaprire il PalaSparti, si tinge di fosco per l’incapacità della macchina comunale (leggasi dirigenti e funzionari e Commissari straordinari) di mettere a norma il PalaSparti in ben 16 mesi. Una diatriba stucchevole tra i Commissari e proprio gli anzidetti funzionari comunali, ed a farne le spese la città di fatto ‘spenta’ nelle sue varie espressioni sportive e culturali. In definitiva a Lamezia, secondo gli anzidetti ‘responsabili’ quasi nulla è agibile. Roba da non credere. Teatri chiusi, stagioni teatrali trasferite in fretta e furia a Catanzaro (guarda un po’…), sport nelle sue maggiori espressioni di fatto annientato! Conad Lamezia nel volley e Royal Team a peregrinare da Corigliano a Vibo passando per Cosenza, Pentone, Rogliano, addirittura il Basketball costretto a ritirarsi dalla Serie B Nazionale (!) a ottobre. Incredibile. Invece è purtroppo tutto vero! Capite bene che in questo scenario diventa alquanto problematico parlare di risultati tecnici. Con la necessità, nel caso specifico della Royal, di trovare in fretta e furia un campo dove allenarsi. Sapete dove? A Maida, circa 30 km tra andata e ritorno. Ogni giorno! Ed un allenamento a Vibo, quantomeno per abituarsi a quello che nel frattempo è diventato il ‘proprio’ campo da gioco, il PalaMaiata. Ebbene quegli anzidetti appassionati ma ancor di più folli, di cui prima, della Royal decidono di continuare. Campionato ormai avviato, impegni già assunti con giocatrici e sponsor (da ringraziare enormemente), che si ritrovano

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senza la ‘vetrina’ del PalaSparti, consigliano di non mollare, e andare avanti. Ma in quali condizioni? Difficilissime. Problematiche. Ardue. Insomma una montagna da scalare. Di fatto sempre in trasferta, non solo quelle da calendario, che vanno da Milano a Barletta, da Roma a Napoli, Firenze, Breganze, insomma tutta Italia da Nord a Sud (!), ma anche per gli allenamenti. Incredibile! Ma vero! Nonostante questo ‘terremoto’ la Royal ci ha provato fino all’ultimo, quantomeno a non sfigurare nonostante tante, le solite, promesse di chi avrebbe potuto aiutare quegli appassionati-folli sempre di cui sopra ed invece ha preferito voltarsi dall’altra parte, adeguandosi al marasma generale regnante in città. E così lo scorso 7 aprile a Terni è arrivato il sigillo aritmetico al mesto ritorno in A2 per la Royal dopo la promozione appena raggiunta. “Retrocediamo con dispiacere ma con grande dignità – osserva il presidente Nicola Mazzocca della Royal - convinti di aver fatto tutto quanto nelle nostre possibilità economiche e non solo. Quelle del sottoscritto e di qualche sponsor, per il resto siamo stati lasciati soli da chi poteva aiutarci e non l’ha fatto e da tutte le Istituzioni che invece dovrebbero favorire la pratica sportiva. A Lamezia invece non sono stati nemmeno capaci di mettere a norma un PalaSparti dopo ben 16 mesi di chiusura: vergognoso! Basti solo questo per spiegare l’abbandono in cui è stato lasciato lo sport, primato questo del tutto non invidiabile. Di fatto hanno annientato gli sport lametini di livello nazionale, che tra mille difficoltà hanno tentato di ribaltare in tutta Italia – conclude Mazzocca - la passione e i sacrifici fatti nel corso del campionato, in primis la Royal”. Un’annata inverosimile, che a raccontarla a chi non l’ha vissuta non ci si crederebbe davvero. Quanto fatto assume più i connotati di un altro piccolo ma significativo ‘miracolo’ più che una sconfitta vera propria. Difficile probabilmente da comprendere da chi sta fuori. E sì perché arrivare a 5 gare dalla fine, al netto di quanto raccontato finora, e restare in corsa per la salvezza rafforza il lavoro fatto da tutto l’entourage della Royal. In sequenza nelle ultime 7 gare da annotare l’unica vittoria col Fano (doppietta di Kale, a quota 14 totali), e il primo gol in Serie A della sua carriera per Stefania Corrao, valso il vantaggio nella gara persa col Cagliari (1-3) e quello di De Sarro nel match contro la Salinis. Proprio in relazione a quest’ultima gara, la penultima della regular season, è stata un po’ lo specchio dell’attuale tribolata stagione in quanto ad assenze ed infortuni. Oltre alla squalificata Corrao, da registrare le indisponibilità di Cacciola e Giuffrida (di fatto i due portieri in rosa!), per finire a Furno che si sta riprendendo dall’infortunio al ginocchio e Di Piazza infortunata nella seduta del venerdì, entrambe in panchina per onor di firma. Dunque portieri ‘adattati’ per l’occasione: ovvero la 17enne Maria Siciliano e la 18enne De Sarro (capitano

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La palla vola, l’uomo resta il Clun è l’uomo di Vincenzo De Sensi Forse solo le storie future renderanno pieno omaggio agli impegni che la JUVE Lamezia ha saputo assolvere negli anni settanta-ottanta del calcio giovanile lamentino. C’è stata una «bellezza» calcistica, nel corso degli anni settantaottanta, che è appartenuta tutta alla pedata lametina ed il marchio bianconero è riuscito a contrassegnarla con innumerevoli patenti di nobiltà, ponendo non solo un freno a certa decadenza della “scuola” lametina, ma offrendo vie di uscita, termini di paragone, modelli di comportamento, in campo e fuori. Sempre fedele alla tradizione ed all’immagine stilistica che deriva da questa tradizione, la Juve Lamezia si è offerta come specchio di una società umana, di uno spirito agonistico disciplinato ed esemplare. Ha prodotto “calcio reale” in anni in cui il “calcio parlato” tendeva ad una sproporzionata deflagrazione. Ha fornito pochissime occasioni d’intervento alla giustizia sportiva. Ha accumulato vittorie nelle varie categorie, tornei-maratone, ha sostenuto prove in tutta la Calabria con un puntiglio ed un doverismo che meritano massimo rispetto. C’è una «bellezza» juventina che è fatta di pudore, di ritrosia, di educazione, di riserbo, anche se sul campo tutti i bianconeri sanno combattere a denti stretti; ma al di là della carica sportiva rimangono, queste lezioni

esemplari, amate persino dagli avversari, che sempre hanno riconosciuto nella Juve Lamezia un punto di riferimento, un magistero calcistico e societario. Per assurdo vorremmo dire che, anche senza la caterva di campionati e di allori conquistati in quegli anni, l’insegnamento bianconero sarebbe ugualmente valido; per dignità, per vocazione realistica, per integerrima

per l’occasione), utilizzata però anche nei cambi in attacco. Entrambe disputano un match più che onorevole, disimpegnandosi bene sia in porta, e De Sarro anche come giocatrice di movimento, segnando addirittura il suo primo gol in serie A e colpendo l’incrocio nella ripresa. In definitiva una gara di grande sacrificio da parte di chi ha giocato quasi l’intero match: ad iniziare da Gatto e Primavera mai dome, Kale (preziosa soprattutto in difesa, sbrogliando diverse situazioni complicate) e Saraniti (14° gol nel giorno del suo compleanno) che non si sono risparmiate mostrando impegno e concentrazione. A spuntarla ovviamente la capolista Salinis. Al momento di andare in stampa manca solo la trasferta di Roma contro la Lazio l’1 maggio. Un match che segnerà la fine di una bella avventura, nonostante il risultato, la sintetizza bene il patron Nicola Mazzocca: “Ringrazio Cristian Liotti per il PalaPace di Vibo, Diego Sicilia per il Palasport di Rogliano, gli amici di Pentone ed il grande presidente della provincia di Vibo Valentia, Salvatore Solano per il PalaMaiata. Senza di loro ci saremmo ritirati da tempo. Ed invece, ad una gara dalla fine, abbiamo smentito gli scettici – e vi assicuro che erano tanti – che ci assegnavano 5-6 punti. Invece ne abbiamo fatti 17, restando in lizza per la salvezza fino a 5 gare dalla fine. E con la vergogna di non aver un Palasport e con gli aiuti ridotti di chi ha promesso salvo poi rimangiarsi la parola ci Lamezia e non solo

inter-pretazione dello spettacolo sportivo. Non per nulla, la “scuola” juventina viene vagheggiata anche da coloro che hanno dovuto abbandonarla; non esiste atleta che, vestendo altra maglia, non ricordi con affetto “questa” Juventus ed iI momento da lui vissuto nel club lametino. Chi ha attraversato gli anni settanta-ottanta seguendo le imprese del calcio giovanile lametino non può mettere in solaio i ricordi ci tanta avventura. Lo stile è l’uomo, diceva un filosofo. Ma lo stile, con undici ragazzi che corrono su un campo, è anche una scelta di fondo, è anche una sfida alle facilonerie ed ai comportamenti caotici del nostro vivere attuale. E’ quasi impossibile, dovendo scrivere una pagina per una società di calcio giovani- le non far ricorso ad aneddoti, nomi, frangenti ed occasioni tipici; solo il “modello Juve” lo consente, perché il “modello Juve” al di là dei risultati, è una figurazione amalgamata, è un protòtipo. Puoi girare la Calabria e dire “Juventus Lamezia”. Anche questa è una lezione di misura, un metodo di paragone con il vivere. La palla vola, l’uomo resta, il club è l’uomo. Al di là di vittorie e sconfitte rimane quel timbro, quella «bellezza» che diventano un segreto ma anche una maniera di essere ed una certezza di essere ed una intelligenza di essere.

ritroviamo alla fine della Serie A disputata con grande dignità. E con almeno tre società di calcio a 11 (due di Serie A e una di B) che faranno fare uno stage di prova alla nostra Maria Siciliano, in campionato in campo solo per pochi minuti. Anche questo il segno che la Royal, al di là del risultato finale, ha lavorato bene in varie direzioni e con tutte le gravose problematiche esistenti anzidette”

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La parola alla Psicologa

Quando si può parlare di Internet Addiction Disorder?

di Valeria Saladino

Se da un lato l’utilizzo di internet, negli ultimi anni, è diventata una preziosa risorsa che accompagna le persone nella vita quotidiana, dall’altra può diventare pericoloso se impiegato in maniera sbagliata. Esistono infatti delle patologie che riguardano la dipendenza da internet e che, in base alla gravità, possono compromettere il normale svolgimento delle attività di chi ne soffre. Le recenti pubblicazioni internazionali sull’argomento hanno messo in luce che l’utilizzo della Rete può indurre dipendenza psicologica e danni psichici e funzionali per il soggetto. Tale disturbo ha il nome di I.A.D. Internet Addiction Disorder. Si può parlare di dipendenza quando la maggior parte del tempo e delle energie vengono spesi nell’utilizzo della rete, creando in tal modo menomazioni forti e disfunzionali nelle principali e fondamentali aree esistenziali, come quella personale, relazionale, scolastica, familiare, affettiva. Le dinamiche di dipendenza dalla rete telematica si possono sviluppare al punto da presentare fenomeni analoghi alle dipendenze da sostanze, con comparsa di tolleranza, craving e assuefazione. Secondo le ultime rilevazioni, oltre 240.000 adolescenti italiani passano più di tre ore al giorno dinanzi al computer. In alcuni casi estremi, l’adolescente, dopo aver frequentato la scuola, viene completamente assorbito da una realtà parallela e passa l’intera giornata in una dimensione virtuale. L’IAD coinvolge anche gli adulti e il risultato finale è il quasi completo allontanamento dalla vita reale, caratterizzato dal rifiuto delle normali attività ludiche e sociali. Ma quali sono le fasi che conducono alla vera e propria patologia? Le fasi sono due: – Fase Tossicofilica: caratterizzata dall’incremento delle ore di collegamento, con conseguente perdita di ore di sonno, da controlli ripetuti di e-mail, siti preferiti, elevata frequenza di chat e di gruppi di discussione, idee e fantasie ricorrenti su Internet, quando si è off-line, accompagnati da malessere generale; – Fase Tossicomanica: caratterizzata da collegamenti estremamente prolungati, al punto da compromettere la propria vita socio-affettiva, relazionale, di studio o professionale. Attualmente sono stati riconosciuti cinque tipi di dipendenza: · Dipendenza dalle relazioni virtuali (Cyber-Relational Addiction), caratterizzata da un’eccessiva tendenza ad instauTestata Giornalistica Di tutto un po’ - lamezia e non solo anno 27°- n. 54 - maggio 2019 Iscrizione al Tribunale di Lamezia Terme dal 1993 n. 609/09 Rug. - 4/09 Reg. Stampa Direttore Responsabile: Antonio Perri Edito da: GRAFICHÈditore Perri Lamezia Terme - Via del Progresso, 200 Tel. 0968.21844 - e.mail. perri16@gmail.com Stampa: Michele Domenicano Allestimento: Peppino Serratore Redazione: Giuseppe Perri - Nella Fragale - Antonio Perri Progetto grafico&impaginazione: Grafiché Perri-0968.21844

Le iscrizioni, per i privati sono gratuite; così come sono gratuite le pubblicazioni di novelle, lettere, poesie, foto e quanto altro ci verrà inviato. Lamezia e non solo presso: Grafiché Perri - Via del Progresso, 200 -

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rare rapporti d’amicizia o amorosi con persone conosciute in rete principalmente via chat, forum o social networks. In tale condizione, le relazioni online diventano rapidamente più importanti dei rapporti nella realtà con la famiglia e con gli amici reali. · Sovraccarico cognitivo (Information Overload), caratterizzato da una ricerca ossessiva di informazioni sul web: gli individui trascorrono sempre maggiori quantità di tempo nella ricerca e nell’organizzazione dei dati in rete. · Dipendenza dal sesso virtuale (Cybersexual Addiction), nella quale si individua un uso compulsivo di siti dedicati alla pornografia e al sesso virtuale. Gli individui sono di solito dediti allo scaricamento e all’utilizzo di materiale pornografico online, sono coinvolti in chat per soli adulti e possono manifestare masturbazione compulsiva. · Gioco Offline (Computer Addiction), caratterizzato dalla tendenza al coinvolgimento eccessivo in giochi virtuali che non prevedono l’interazione tra più giocatori e non sono giocati in rete. · Gioco Online (Net Compulsion), nel quale si evidenziano coinvolgimento eccessivo e comportamenti compulsivi collegati a varie attività online quali il gioco d’azzardo, lo shopping compulsivo, i giochi di ruolo. La dipendenza da internet è una modalità eccessiva di utilizzo della reta telematica che si traduce in una serie di sintomi cognitivi e comportamentali tra cui la perdita di controllo, la tolleranza e l’astinenza. Se ai soggetti viene impedito di usare il computer, diventano irritabili, ansiosi o tristi. Spesso rimangono senza cibo o sonno per lunghi periodi e trascurano i normali doveri sociali. Queste dipendenze sono figlie dell’era moderna ma non hanno sostituito quelle da alcool o da sostanze che sono ancora largamente diffuse; piuttosto accade che le une si accompagnino alle altre. In conclusione, conoscere entrambi i lati della medaglia di Internet e diventare consapevoli di ciò che una connessione eccessiva potrebbe comportare può essere utile per evitare di svilupparne una dipendenza patologica. 88046 Lamezia Terme (Cz) oppure telefonare al numero 0968/21844. Per qualsiasi richiesta di pubblicazione, anche per telefono, è obbligatorio fornire i propri dati alla redazione, e verranno pubblicati a discrezione del richiedente il servizio. Le novelle o le poesie vanno presentate in cartelle dattiloscritte, non eccessivamente lunghe. Gli operatori commerciali o coloro che desiderano la pubblicità sulle pagine di questo giornale possono telefonare allo 0968.21844 per informazioni dettagliate. La direzione si riserva, a proprio insindacabile giudizio, il diritto di rifiutare di pubblicare le inserzioni o di modificarle, senza alterarne il messaggio, qualora dovessero ritenerle lesive per la società. La direzione si dichiara non responsabile delle conseguenze derivanti dalle inserzioni pubblicate e dichiara invece responsabili gli inserzionisti stessi che dovranno rifondere i danni eventualmente causati per violazione di diritti, dichiarazioni malevoli o altro. Il materiale inviato non verrà restituito.

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