Lameziaenonsolo giugno 2019 grafichéditore

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Lamezia e non solo

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La Grafichéditore anche questo anno al Maggio dei Libri di Antonio Perri Il Comune di Lamezia Terme, anche quest’anno, ha partecipato alla rassegna nazionale “Il Maggio dei Libri”. L’iniziativa si é tenuta dal 29 aprile al 2 giugno all’interno del chiostro di San Domenico. Le serate, non troppo calde, anzi, alcune anche piovose, hanno fatto sì che il chiostro fosse il luogo adatto in cui poter realizzare questa rassegna. La Grafichéditore, ha partecipato alla manifestazione in due serate con le iniziative denominate “Scrittori in cerca di lettori 2019”. In questi due giorni sono state presentate le ultime pubblicazioni edite dalla giovane casa editrice, che, reduce dal successo dello scorso anno, ha voluto replicare l’iniziativa presentando ben 16

pubblicazioni. La sala del chiostro piena di convenuti ha fatto da cornice alle presentazioni dei libri. Dissertazioni brevi sulle varie pubblicazioni per non annoiare e per suscitare la curiosità del pubblico e, invogliarli a leggere. I libri presentati sono stati vari anche per genere, in modo da poter soddisfare le varie esigenze del pubblico. Il libro di Ippolita Lo Russo Torchia, “il racconto di una lunga vita associativa conquistata sul campo” è un viaggio corale

lungo cinquanta anni, un viaggio carico di ricordi e di pathos che sottolinea l’importanza delle associazioni che si muovono sul territorio nazionale ed internazionale. “Sulle ali del tempo” di Sara Matera è una delicata silloge di poesie brevi che toccano le corde del cuore di chi legge facendole vibrare. Sentimenti comuni a tutti si librano nel cielo per riportare nel lettore una consapevolezza della vita, senza spazi temporali, evitando di imbrigliarla in luoghi comuni che non siano la purezza pag. 3

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dei sentimenti. “Sussurri del Reventino” di Maria Grazia Paola è una dichiarazione d’amore della scrittrice per la sua terra. E’ quel richiamo forte, mai sopito, che ti lega al luogo dove sei nata, alla sua lingua, alle sue tradizioni, ai suoi santi. E l’orecchio di Maria Grazia si fa attento per coglierli quei sussurri che poi regala al lettore sotto forma di versi e prosa. “E vissi aspettando il sole” di Maria Russo è una Saga Familiare raccontata con i ritmi moderni. La scrittrice cattura l’attenzione del lettore che si ritrova in quei personaggi che “prendono vita” durante la lettura e riesce, in una amalgama incredibilmente perfetta di parole, adeguandosi ai ritmi frenetici della vita moderna, a parlare di questa famiglia, delle sue gioie e dei suoi dolori, invitandoci, alla fine, a fermarci e a riflettere. “Gianni Renda, il volto splendente di un giovane del Sud” di Filippo D’Andrea è un omaggio a questa figura lametina, scomparsa prematuramente, che pure ha lasciato ricordi indelebili in quanti lo hanno conosciuto. Un libro che parla dell’uomo, dei suoi sentimenti, del suo modo di porsi, e poi a parlare di lui sono gli amici, i parenti, tutti coloro che lo hanno amato e che ne portano ancora oggi, il ricordo nel cuore “Angeli di Carta” di Anna Maria Casalino, un delicato libro di “fiabe moderne” che, come dice la stessa autrice, vorrebbe “regalare un momento di serenità” invitandoci ad immaginare un mondo meno chiassoso ed irriverente, Un mondo a misura d’uomo, perchè si sa, le fiabe non sono solo per i bambini. Il libro è illustrano da una giovanissima lametina, appena 13 anni, Chiara Domenicano che ha letto le fiabe e poi ha chiuso gli occhi e ha disegnato quello che ha “visto”. “La storia della foglia Camilla” di Anna Veraldi insegnante di Catanzaro che è sempre a contatto con i bambini ed ha sentito l’esigenza di scrivere questa favola per insegnare qualcosa ai bambini, per fare capire loro il ciclo della vita, dalla nascita alla morte, prendendo come esempio la dolcissima foglia Camilla che nel morire non è triste perchè sa che il suo sacrificio sarà di aiuto alle “foglie” che vivranno dopo di lei. Con “3D Therapy la materializzazione dell’emozione” di

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sapere sulla storia, su quello che l’Unità d’Italia ha comportato per la Calabria. Garibaldi era veramente l’Eroe dei due mondi? I veri terroni erano coloro che vivevano al sud o erano coloro che vivevano al Nord? I Briganti, davvero un manipolo di manigoldi che pensavano solo a rubare o uomini stanchi di soprusi costretti a nascondersi? Le risposte? Basta leggere il libro per averle.

Mariannina Amato, l’argomento è completamente cambiato, infatti si è passati dalla fiaba alla scienza. Il libro ci svela come, tramite la “realizzazione materiale” di quelle che sono le nostre paure, che sia un animale, un oggetto, un sentimento come la paura della morte o la gelosia, si possa tentare di vincerle, grazie all’aiuto, ovviamente, delle giuste persone e grazie alla tecnologia moderna che trasforma quello che viene disegnato come “ciò che fa paura” perchè “immateriale” in qualcosa che si può toccare e quindi, affrontare. Sempre nell’ambito delle scienze il libro “Dal codice di impulsi informativi di Aristotele all’editing del genoma” di Luigino Mazzei. Bellissimo libro che ci svela cosa si nasconde dietro i meandri del DNA, che ci fa notare come questi studi, che oggi sono all’avanguardia e che stanno, in questi ultimi periodi, portando alla clonazione dell’uomo, siano in effetti iniziati nella notte dei tempi, quando i mezzi tecnologici non esistevano proprio e tutto partiva dalla capacità dell’uomo di osservare e trarre deduzioni scientifiche dalle sue osservazioni, “Respirare: la tracheotomia scelta e sfida per una vita indipendente”, di Antonio Saffioti, e Salvatore D’Elia un libro “scientifico” che si può sicuramente definire anche autobiografico sebbene sia stato scritto a 4 mani, da Antonio Saffioti. Antonio, affetto da distrofia muscolare di Duchenne fin da piccino, nel 2018 era giunto ad una svolta della sua vita ed ha preso una decisione difficile e delicata: sottoporsi a tracheotomia per potere ancora respirare. Questo libro racconta del prima e del dopo ed è coinvolgente ed emozionante, mai suscita pietà, piuttosto ammirazione. “A passo di Capre, liriche per la contemplazione filosofica” di Filippo D’Andrea è una raccolta di poesie suddivise in 4 parti, a seconda del periodo in cui sono state scritte. Queste poesie sono un invito alla riflessione, un invito a fermarsi, ad abbandonare la vita frenetica di oggi e tornare indietro, nel tempo, quando tutto si faceva con calma, quando si procedeva, appunto, a passo di capre, dando il tempo di pensare e riflettere.

Presenti i libri ma per diversi motivi non i loro autori, “Joachim Murat. La vera storia della morte violenta del re di Napoli” del prof. Vincenzo Villella. “Rêverie, tratto da una storia falsa” del giovanissimo Luca Francesco Giacobbe “Cujjianti cari” di Ciccio Scalise, e per concludere il libro di Antonio Cittadino “il tango ed i suoi labirinti” presentato mentre veniva proiettato il sensuale tango di Jennifer Lopez e Richard Gere nel film “Shall we dance”. Notevole interesse hanno riscosso i libri presentati. Il pubblico presente alle due giornate di incontri, alla fine delle presentazioni si é intrattenuto a parlare con gli autori. Durante le presentazioni gli ospiti sono stati intrattenuti dalla voce di “Giancarlo Davoli” che ha letto alcuni passi per ogni libro presentato. “Scrittori in cerca di lettori 2019”, incontri inaugurati durante il maggio dei libri lametino, fa parte di un programma di cultura più ampio ideato dalla grafichéditore e cominciato con la rassegna “inchiostri d’autore”. Con questa rassegna la casa editrice presenta nella propria sede i libri stampati a pochi giorni dalla loro uscita. Questi incontri hanno avuto sempre una ottima cornice di pubblico. Il programma culturale di quest’anno si concluderà nel mese di ottobre con il “Premio Nazionale Dario Galli”, dedicato all’importante poeta nicastrese. Le iscrizioni al premio si sono concluse il 31 maggio. Il massiccio invio di opere inedite, con alcune arrivate proprio a poche ore dalla chiusura delle iscrizioni, ha lasciato meravigliati, ma anche orgogliosi, gli organizzatori. Per la giuria si prevedrà un’estate intensa dedicata alla lettura di tutti questi inediti, per poter così decidere il vincitore di questa prima edizione. Salutata l’edizione 2019 del maggio dei libri, con l’augurio di ritrovarci nella nuova edizione, non ci resta che aspettare il mese di ottobre per conoscere l’identitá del vincitore del premio Dario Galli. Come lo scorso anno, tutti i libri sopracitati, e non solo, sono stati presentati e/o esposti al Salone del Libro di Torino.

Con “Fratelli? No feroci conquistatori” di Francesco Antonio Cefalì si cambia nuovamente tema, un libro che parla di storia e che ribalta quanto sapevamo, o meglio, quanto credevamo di

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SANTI E BEATI

SANT’ANTONIO DI PADOVA L A V I V A N D A A V V E L E N A TA di Fernando Conidi

LA VOCE DEL SERVO DI CRISTO L’instancabile Antonio serviva il Signore con umiltà e amore, e le sue parole attiravano e convertivano molti. Una folta folla lo seguiva per ascoltare le sue prediche. Racconta la Benignitas che una donna padovana, alla quale il marito aveva impedito di recarsi ad ascoltare Antonio predicare, affacciatasi alla finestra della sua casa e guardando verso la contrada dove egli stava predicando, si ritrovò ad ascoltare la sua voce da due miglia di distanza; il marito, incredulo, avvicinatosi alla moglie non poté che constatare il prodigioso evento, e dal quel giorno non le impedì più di seguire da vicino i sermoni del frate. Antonio faceva riecheggiare le parole del Vangelo; con la sua voce, le frasi di Cristo vibravano in melodia nel cuore di chiunque ascoltasse, quasi come una musica celestiale. Non tutti, però, amavano le sue prediche, con le quali attirava le folle e convertiva i cuori al Vangelo. IL TIMORE DEGLI ERETICI Davanti ai molti prodigi e alle mirabili prediche, la sua fama di uomo di Dio cresceva sempre di più. Diminuiva invece, davanti alla santità di Antonio, l’affezione che gli eretici di Rimini solevano riscuotere tra la gente con il loro comportamento conturbante e falsamente sincero. Quel potere, quella supremazia viziata dall’attaccamento al denaro e alla falsa verità, era per loro motivo di vanto e orgoglio. Essi temevano di perdere quella sorta di autorità, quella sudditanza psicologica che talvolta riuscivano a suscitare nella povera gente, che si lasciava trasci-

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nare dai loro discorsi, presa dalla povertà e dai mille problemi quotidiani. Il loro timore era talmente forte che odiavano Antonio, che confutava le loro false teorie, smembrando ogni loro discorso e palesandone le false basi ideologiche e dottrinali, quasi sempre, contrarie alla Chiesa cattolica.

UN INSANO PROPONIMENTO Essi decisero, quindi, che quel frate doveva essere reso innocuo, ma trovandosi davanti a uno spirito forte, pensarono che l’unico modo fosse quello di farlo morire, e tramando tra di loro, cercavano la maniera per portare a termine il loro insano proponimento, ma senza subirne poi le conseguenze. Antonio era molto amato; le sue prediche sugli insegnamenti del Vangelo e della Chiesa entravano nel cuore di chi ascolta-

va. Gli eretici non volevano, né potevano, macchiarsi di un tal delitto davanti a tutti; così, furbescamente, decisero che la migliore soluzione era quella di ordire un inganno per propinargli del veleno. I loro subdoli ragionamenti erano frutto di quel veleno morale che porta alla perdizione, che il maligno, lentamente, sfruttando la loro vanità e il loro orgoglio, aveva già inoculato nella loro anima, volendo portarla alla dannazione eterna. MARTELLO DEGLI ERETICI Antonio predicava facendo molti proseliti. La sua “lingua” era considerata un dono di Dio. Era capace di predicare per giornate intere senza stancarsi, specialmente quando si trattava di difendere la verità del Vangelo e la Santa Chiesa; per questo veniva definito “Martello degli eretici”. Lo Spirito del Signore lo ispirava, concedendogli una grande eloquenza. Egli nelle sue prediche utilizzava parole semplici, per essere compreso da tutti. I suoi discorsi erano così carichi di espressività e spiritualità, che chiunque ascoltasse non poteva che rimanerne ammirato. Davanti agli occhi degli eretici, invece, Antonio appariva come saccente, poiché non erano capaci di sostenere le sue predicazioni e i suoi moniti. Le sue parole palesavano la loro falsa saggezza e demolivano le basi del loro falso sapere. Per questo, la loro immagine sociale e il loro ruolo venivano messi a rischio da un semplice frate, che non aveva né le loro morbide ed eleganti vesti e né i loro agi mondani. Per gli eretici era insopportabile e inaccettabile essere messi in un imbarazzo così forte

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SANTI E BEATI da un frate, che per loro contava quanto un semplice passero del cielo. Ma il Signore innalza gli umili e abbassa i superbi. L’INGANNO Essi, così, decisero di ordirgli un inganno. Lo invitarono a mensa col falso fine di discutere e confrontarsi sugli aspetti della fede, ma il loro atroce progetto era di avvelenarlo. Antonio non disdegnò l’invito, nel quale vedeva una mirabile occasione per cercare di portare verso la verità di Cristo chi si era già avviato per la via della perdizione allontanandosi dalla Chiesa. Accolto da loro come un invitato di rispetto, bramavano, invece, di terminare il pasto in quel modo orrendo, senza alcun timore per un Dio nel quale dicevano di credere, ma non credevano. L’INSIDIA PALESATA Lo spirito del Signore, davanti alla vivanda avvelenata, palesò l’insidia ad Antonio, che rimproverò gli eretici esortandoli alla conversione. Loro, mentendo e imitando il diavolo, padre della menzogna, si giustificarono dicendo che lo avevano fatto per sperimentare ciò che è scritto nel Vangelo per coloro che credono: “[...] se berranno qualche veleno, non recherà loro danno” (Mc 16, 18). Cercarono quindi di indurlo a consumare la vivanda, asserendo che, se non avesse patito alcun male, si sarebbero convertiti, ritenendo vere le parole del Vangelo, ma se egli si fosse rifiutato di prenderla, le avrebbero reputate false. IL SEGNO DELLA CROCE DI CRISTO Antonio, senza alcuna paura, tracciò un segno di croce sulla vivanda e, prendendola in mano, disse: “Faccio questo non nella presunzione di tentare Dio, ma mosso da zelo fermo e impavido per la vostra salvezza e per la fede evangelica”. Gli eretici, sbigottiti per il coraggio e la fede di Antonio, rimasero impietriti mentre lui si apprestava a prendere la vivanda, e attendevano sicuri di veder sul suo volto i primi segni del-

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Pannello di piastrelle di autore sconosciuto, secolo XVIII - Episodio del tentato avvelenamento di Antonio - Museo di Sant’Antonio, Lisbona

la morte coglierlo improvvisamente. I loro occhi erano però terrorizzati, davanti a tanto coraggio, ma essi, beffardi, credevano che, oramai, la fine di colui che demoliva la loro dottrina e criticava la loro condotta davanti a tutto il popolo, fosse imminente. Il tempo passava, ma il volto di Antonio era quello di sempre; il suo sguardo era umile, ma autorevole, sul viso aveva la serenità di chi ripone in Cristo la propria speranza e tutta la propria vita; nulla di funesto appariva sul suo volto. Egli, dentro di sé, sapeva già ciò che, da lì a poco, sarebbe successo nel cuore di que-

gli uomini che avevano osato sfidare Dio, cercando di far morire il suo servo. Infatti, erano i loro volti a mutare espressione, mentre la loro arroganza e la loro superbia lasciavano, attimo dopo attimo, il posto alla paura e al timore di Dio.

Statua di Sant’Antonio con la reliquia della lingua

FONTE: “Il Segno del soprannaturale”, Edizioni Segno - autore: Fernando Conidi

PENTIMENTO E CONVERSIONE Essi, resisi conto che nulla sarebbe successo a quel povero frate, si andavano interrogando con gli sguardi, come a chiedersi come poteva essere che quel frate umile, vestito di un saio sdrucito, non fosse già stramazzato a terra e morto davanti ai loro stessi occhi. Quando nella loro mente presero coscienza dell’evento prodigioso a cui avevano assistito, come miseri peccatori pentiti, chiesero perdono di quel terribile proponimento, al quale avevano dato seguito col suggerimento del demonio; che, in loro, sperava di aver trovato il mezzo per liberarsi di quell’umile e infaticabile servo del Signore, che coglieva tutte le occasioni per strappare dalle mani del maligno ogni anima che s’incamminava per la via della perdizione. Cristo aveva dimostrato, ancora una volta, che le parole del Vangelo sono verità e che la sua parola non passa ed è sempre viva (Mt 34, 35), come vivo è il Signore, per sempre!

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eccellenze lametine

Lamezia si prepara ad accogliere il nuovo Vescovo. Il 6 luglio l’ ordinazione episcopale e l’ingresso in Diocesi di Salvatore D’Elia Monsignor Giuseppe Schillaci è il nuovo ottantasettesimo Vescovo di Lamezia Terme. L’annuncio ufficiale è avvenuto il 3 maggio scorso alle ore 12 nel salone dell’Episcopio di Lamezia Terme e a Catania, arcidiocesi di provenienza del Vescovo eletto e in contemporanea con la pubblicazione del Bollettino della Santa Sede. A dare l’annuncio, Monsignor Cantafora che contestualmente ha ricevuto la nomina di Amministratore Apostolico sino alla presa di possesso canonica del nuovo Vescovo diocesano. Sua Eccellenza Monsignor Giuseppe Schillaci è nato nel 1958 ad Adrano, provincia e Arcidiocesi di Catania. Dopo la maturità tecnica e gli studi universitari di filosofia alla statale di Catania, inizia il percorso formativo nel Pontificio Seminario Francese a Roma, che lo porterà all’ordinazione sacerdotale, ricevuta nel 1987, è laureato in Filosofia. Viceparroco e Parroco nelle parrocchie di Adrano, poi ha esercitato il ministero nel Seminario Arcivescovile, nel quale da undici anni è Rettore. Queste le parole con cui, a mezzogiorno del 3 maggio, Monsignor Luigi Cantafora ha annunciato la nomina del nuovo vescovo: “Ringraziamo il Signore che non fa mai mancare i pastori, specie in questo tempo spesso privo di punti di riferimento. Siamo grati al Signore per il dono dei pastori e nello stesso tempo invochiamo la Sua misericordia, consapevoli dell’impegno ricevuto. Attraverso i pastori noi siamo legati all’unico Pastore che è Cristo, volto radiante del Padre, amore gratuito che sazia veramente il nostro cuore. Per questo accompagniamo con la preghiera il nuovo pastore della Chiesa che è in Lamezia Terme, Mons. Giuseppe Schillaci, a cui va tutto il pag. 8

mio affetto e già la mia stima. Ci illumini la Parola del Vangelo di oggi in cui l’apostolo Filippo chiede al Signore: «Mostraci il Padre e ci basta!». Il pastore vero fa vedere il Padre. Accompagniamo con la preghiera Mons. Schillaci, con il desiderio di consegnare al suo cuore sacerdotale e paterno, il cammino e la vita di questa Diocesi, mentre lo affidiamo alla Madonna della Quercia e ai nostri santi patroni. A tutta la Diocesi dico: stringiamoci al nuovo pastore come un padre e facciamo in modo che il nuovo Vescovo sia veramente accolto. Sono felice che Mons. Schillaci abbia nel suo ministero una significativa esperienza come Rettore del Seminario. Così saprà stare vicino a tutti. In particolare ai giovani”. Il vescovo eletto, monsignor Giuseppe Schillaci, ha subito diffuso un messaggio alla Diocesi, poche ore dopo l’annuncio: “il saluto del Cristo risorto giunga a tutti voi fratelli e sorelle della nostra Chiesa che è in Lamezia Terme, ma anche ad ogni uomo e donna del nostro territorio che vive, lotta e spera per una vita più dignitosa e più umana; mi preparo a venire da voi, nel nome del Signore della vita, con timore e tremore, ma anche con tanta fiducia e speranza. Ben consapevole della mia inadeguatezza e dei miei molti limiti, è al Signore e alla sua infinita misericordia che affido il mio ministero episcopale; da Lui viene il dono, la grazia, così come viene anche il compito, l’impegno, che è mio desiderio portare avanti con gioia, responsabilità, umanità. È alla sequela del Signore Gesù Cristo che vogliamo tutti noi crescere, fedeli, presbiteri, diaconi, religiosi e religiose, seminaristi, GrafichÉditore di A. Perri - & 0968.21844

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insieme, in una comunione di intenti, di passione, di rispetto, di benevolenza, di reale, fattiva e sempre nuova accoglienza reciproca. È il Vangelo di nostro Signore Gesù Cristo l’orizzonte dentro cui bisogna capire noi stessi e gli altri, in una tensione sempre più inclusiva, per non smarrire il sorgivo slancio missionario: “Andate ed annunciate ad ogni creatura”. Mettiamoci in ascolto umile di tutti, accogliamoci gli uni gli altri, non scartiamo mai nessuno, soprattutto chi non c’è la fa umanamente, spiritualmente, economicamente… stiamo al passo degli ultimi per non perdere di vista il Cristo, Lui ultimo tra gli ultimi, che venne “non per essere servito, ma per servire”. Coltiviamo grata memoria del passato non per chiuderci in una nostalgia sterile, ma per capire meglio chi siamo, da dove veniamo e dove andiamo; lasciamoci ancora stupire da quello che siamo perché ci è stato donato; lasciamoci interpellare dall’oggi, con le sue sempre nuove sfide, senza paura; lasciamo venir fuori, con ottimismo, il bene che c’è nelle nostre comunità e nel nostro territorio tra la nostra gente, ma allontaniamo con ferma decisione il male, anzitutto dai nostri comportamenti; proiettiamoci con rinnovata fiducia verso il futuro, non smarriti e stanchi, ma speranzosi e gioiosi; siamo cristiani, lasciamo trasparire la bellezza dell’incontro con la fonte della nostra gioia e della nostra speranza: Gesù Cristo. A voi tutti, in particolare al Vescovo Luigi Antonio Cantafora che ha guidato la nostra Chiesa di Lamezia Terme per 15 anni, al quale si deve

riconoscenza e gratitudine, e a voi fratelli presbiteri, a voi fratelli diaconi, a voi religiosi e religiose, che ogni giorno vi consegnate in un servizio sempre più generoso, infaticabile e disinteressato nei confronti di tutti, in particolare dei più piccoli e dei più poveri, a voi seminaristi e a voi giovani come speranza della nostra Chiesa, a voi tutti fratelli e sorelle che fate la nostra Chiesa dentro le trame della vita di ogni giorno, sforzandovi di essere segno e strumento di comunione nelle nostre comunità, a tutti voi domando umilmente la vostra preghiera e la vostra benedizione. Affido il mio ministero nella nostra Chiesa che è in Lamezia Terme all’intercessione di Maria, Madre della Chiesa”. Sabato 6 luglio alle 17 sarà celebrata nella Cattedrale di Lamezia Terme l’ordinazione episcopale di Monsignor Giuseppe Schillaci, vescovo eletto di Lamezia Terme. A presiedere la celebrazione durante la quale sarà consacrato il nuovo vescovo, l’arcivescovo di Catania Salvatore Gristina. Una scelta fortemente voluta da Monsignor Schillaci l’ordinazione episcopale nella sua Diocesi e nella Chiesa Cattedrale, Chiesa Madre di tutte le chiese della Diocesi, segno eloquente della relazione profonda che lega il pastore alla sua comunità diocesana, iniziando così insieme la missione pastorale e il cammino al servizio di Dio e della Chiesa di Lamezia. La Chiesa di Dio che è in Lamezia, in vista di questo momento di grazia, continua a ringraziare il Signore e a pregare con affetto per il suo nuovo pastore Giuseppe.

Satirellando

A volte la mia iconoclastia contro gli imbalsamati, mi porta a non sopportare certe altezzosità e a mettere in ridicolo alcuni atteggiamenti abnormi degli snob. Poi, alla fine, rido e la fantasia si sfoga satirellando… Questa volta, la livella del Principe De Curtis insegna… Ah, ah, ah! TITOLATI Mi accorgo che molti, senza il titolo, non attraversano neppure un vicolo: son sempre attenti a sbandierare l’appellativo che li può esaltare. C’è chi porta alla bocca un bicchiere e si fa precedere dall’ “Ingegnere”, chi pure andando dal confessore antepone il titolo di “professore” e chi con fare enciclopedico, non rinuncia all’ossequio da medico, Lamezia e non solo

come chi, recandosi al gabinetto, non omette il suo “Architetto”! Ma pure chi essendo in vacanza, non mette da parte la sua spettanza di avvocato, giudice, generale, credendo, forse, che porti male esser chiamato col proprio nome, infatti, senza sapere come, si ritrova, pure in spiaggia, ad imbrodarsi “alla selvaggia”!

Tutti camminano con sussiego, par che dicano:”Io non mi piego”, come Totò, son tutti d’un pezzo, del caro alito si sente il lezzo, mentre camminano nel loro Parnaso: hanno tutti la puzza al naso! Persino Bettina d’Inghilterra è donna che non afferra quanto di pregio sian titolati ed in alto ben collocati, con la loro altezzosa fronte, come dèi dell’Olimpo monte…

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Ma poi, ridendo, a crepapelle, dopo averne viste di tante e di belle, io che sono iconoclasta, a tutto questo dico basta, alla “Livella”, così, mi rifaccio e lascio scritto nel mio “brogliaccio”: “In guardia perché, comunque farete, come me, nel loculo, finirete!”!

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amici della terra

CON I RIFIUTI EMERGONO INCAPACITA’ E RESPONSABILITA’ DELLE CLASSI DIRIGENTI LOCALI E NAZIONALI di Mario Pileggi

Con l’inizio della nuova stagione balneare, come puntualmente accade da più di un decennio, emergono alla ribalta della cronaca episodi di degrado e sporcizia dei litorali delle regioni meridionali e, in particolare, della Calabria. Si tratta spesso di sporcizia e problemi vecchi per i quali nessuno dei soggetti ed Enti preposti si preoccupa di trovare soluzione nei mesi che precedono e seguono la stagione estiva. L’episodio più rilevante emerso nelle scorse settimane nel Golfo di Sant’Eufemia è quello della discarica in prossimità della foce del Fiume Angitola oggetto di apposita interrogazione parlamentare. Immagini e video dei rifiuti trasmessi dai vari mezzi d’informazione, diffusi ovunque attraverso i social, evidenziano che non è spazzatura depositata e scoperta di recente. Si tratta di tonnellate di spazzatura accumulata in passato per molti anni sotto gli occhi degli Enti Preposti e oggetto di varie e particolareggiate denunce del WWF; una ben individuata e indagata discarica, di oltre dieci mila metri cubi di rifiuti solidi urbani,

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da bonificare con i tre milioni di euro stanziati nel 2014 con il “Patto per la Calabria” e l’altro milione di euro reperito dall’Amministrazione Comunale. Una discarica che, anche per la sua ubicazione sulla sabbia della preziosa fascia costiera del Golfo di Sant’Eufemia, poteva e doveva essere già bonificata molti anni fa. Con la recente “scoperta” della spazzatura in prossimità della foce del Fiume Angitola, in pratica, emergono anche incapacità e responsabilità del malgoverno delle classi dirigenti locali e nazionali ad ogni livello, in particolare: - le scellerate scelte del passato di accumulare tonnellate di rifiuti solidi urbani in corrispondenza di aree di alto pregio ambientale come le dune costiere dell’Angitola e tanti alvei dei corsi d’acqua; - le fallimentari scelte dei governi nazionali di nominare Commissari Straordinari che hanno sperperato ingenti quantità di denaro pubblico senza risolvere anzi aggravando gli stessi problemi nella Regione; - l’incapacità anche delle attuali classi dirigenti di unirsi per trovare soluzioni ai problemi della collettività come il risanamento, la tutela e valorizzazione del prezioso patrimonio di risorse naturali disponibili e come consentire ai giovani meritevoli di studiare, specializzarsi e trovare occupazione nella propria Regione. Incapacità e responsabilità emergono anche osservando le immagini rilevate in tempi diversi dai satelliti che mostrano le variazioni morfologiche in corrispondenza delle foci dei corsi d’acqua; e, in particolare le variazioni dello sbocco a mare delle acque raccolte ed incanalate nel Fiume Angitola riportate nelle figure allegate. Dalle stesse immagini satellitari, pubblicate da Google Earth, emerge che per molti anni la di-

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stanza tra la discarica e la foce del Fiume Angitola si è mantenuta di molte centinaia di metri. Solo l’immagine del 2017 mostra che le acque del fiume sono incanalate verso Sud e la zona della discarica. Questa inversione del deflusso delle acque e l’erosione della sabbia fino al margine occidentale della discarica ha messo in luce nelle scorse settimane la spazzatura sepolta qualche decennio fa. Pertanto, i riflettori dei media si sono accesi sulla spazzatura invece che sulle specificità dal ricco patrimonio che caratterizza i cento chilometri di spiagge naturali del Golfo di S. Eufemia e dell’intera Calabria. Questi episodi, oltre ad oscurare le bellezze della Regione e scoraggiare i turisti, rendono evidente il motivo per cui nei cento chilometri di costa del Golfo di S. Eufemia non arrivano turisti in quantità paragonabili agli oltre di 5 milioni di turisti balneari all’anno che popolano i 100 chilometri d spiagge, spesso rifatte, disponibili nell’intera regione Emilia Romagna. Tra tante specificità del patrimonio costiero oscurate da questi episodi c’è quella degli assetti idro-geomorfologici favorevoli allo sviluppo della più grande varietà di habitat e forme di vita in ambiente acquatico e terrestre. In particolare, la varietà di terre e acque ricche di minerali e sostanze che alimentano moltissimi e tipici vegetali e animali che costituiscono gli ingredienti fondamentali di quei preziosi prodotti enogastronomici considerati dal New York Times per inserire la Calabria tra i luoghi da visitare nel 2017. Biodiversità favorita pure da un microclima ideale che consente la più lunga durata della stagione balneare del Mediterraneo con tratti di costa caratterizzati da una ventilazione particolarmente favorevole anche per pratiche sportive come il Kitesurf. Sulla ricchissima biodiversità è da ribadire la rilevanza delle due specie megabentoniche, Topsentia calabrisellae e Halicona fimbriata, che vivono nelle acque del Golfo tra i 70 ed 90 metri di profondità; la presenza di varie oasi di Coralli finora non rilevata in nessun’altra area dell’intero Mediterraneo e oggetto d’interesse di molti centri di ricerca internazionali come l’Università di Cambridge. Altre preziose risorse naturali della fascia costiera del Golfo che restano oscurate sono i siti d’interesse comunitario (SIC) del “Lago La Vota” Sito “SIC - T9330087” e delle “Dune dell’Angitola” Sito “SIC IT9330089” di 383 ettari che inizia proprio in destra della foce del Fiume Angitola e si estende nel comune di Curinga fino alla foce del Torrente Turrina. Siti e Dune caratterizzate dalla presenza di sette diversi habitat di interesse comunitario. Sulla geodiversità e grande varietà di spiagge naturali che caratterizzano il Golfo di S. Eufemia va ribadito che le stesse, formate da frammenti di rocce di tutte le ere geologiche, documentano la nascita ed evoluzione sia del paesaggio terrestre sia degli insediaLamezia e non solo

menti umani dell’intero Belpaese. Con specificità rare nelle coste della Penisola, come gli ammassi granitici di Capo Vaticano generati dallo stesso magma che ha generato le più note coste granitiche della Sardegna dalle quali sono stati separati a seguito di imponenti movimenti della crosta terrestre iniziati milioni di anni fa e ancora in atto nel Tirreno. Come va ribadito che, oltre ad una grande varietà di preziosi aspetti naturalistici, paesaggistici ed ambientali, nei cento chilometri della fascia costiera del Golfo di S. Eufemia, esiste un rilevante e unico patrimonio archeologico a partire dai manufatti in pietra risalenti al Paleolitico Inferiore di Casella di Maida e a seguire con i resti databili tra l’ VIII ed il V secolo a.C. dei centri abitati della Magna Grecia come: Hipponion, Temesa e Terina che sorgeva sul margine interno dell’antica laguna attualmente testimoniata dall’area Sic “Lago La Vota”. Come nel passato, anche in questo inizio di stagione balneare 2019, le classi dirigenti continuano a non considerare o sottovalutare le specificità della biodiversità e geodiversità che caratterizzano gli assetti idro-geomorfologici dei litorali e del patrimonio costiero. Sottovalutazioni e dimenticanze che sono costati e continuano a costare molto sia in termini di mancato sviluppo sia in termini di danni al territorio e alle sue risorse come ad esempio quelli legati a erosione, alluvioni e crolli provocati da eventi naturali prevedibili come le correnti marine e la pioggia. Il prezioso patrimonio costiero disponibile, con le ricche specificità alle quali si è fatto cenno, per essere tutelato e valorizzato richiede una vera svolta rispetto al passato ed interventi e atti concreti dall’insieme delle classi dirigenti locali e nazionali. Solo con la necessaria consapevolezza del che fare e volontà di agire unitariamente si potrà avviare una crescita occupazionale utile a garantire un futuro ai giovani che desiderano continuare a vivere nel territorio più favorito dalla natura e che ha dato il nome all’intero BelPaese.

Geologo Mario Pileggi del Consiglio Nazionale di “Amici della Terra”

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Rubrica di Antonio Saffioti totosaff@gmail.com

Il giornalismo secondo Papa Francesco di Antonio Saffioti

A giugno, tra: TRIDICINA, SANT’ANTONIO, SPIAGGIA, MUZZUNATA, TRAME E SAN PIETRO; Voglio parlarvi di giornalismo, non perché mi senta un appartenente alla categoria - dato che sono un semplice “RACCONTATORE DI STORIE” o meglio un “COMUNICANTE”, anche se preferisco “SCRIBA” o per dirlo alla lametina “SCRIBBACCHINU” - ma perché: Il 18 maggio, Papa Francesco ha ricevuto in udienza nella Sala Clementina del Palazzo apostolico vaticano, i giornalisti dell’Associazione della Stampa Estera in Italia, Francesco ha ricevuto dalla presidente Patricia Thomas la tessera e l’invito nella sede di Roma dell’associazione.

La notizia, non è stata nell’incontro, ma nelle parole pronunciate dal Papa (venuto dall’altra parte del mondo), riguardo: al giornalismo, al ruolo del giornalista, alla comunicazione ecc. ecc.

Ed ecco cosa ha detto Francesco - Jorge Mario Bergoglio:

“Il giornalismo, è strumento per non dimenticare certe situazioni. Ad esempio che IL MEDITERRANEO STA DIVENTANDO UN CIMITERO. La Chiesa vi stima, anche quando mettete il dito sulla piaga, e magari la piaga è nella comunità ecclesiale. Il vostro è un lavoro prezioso perché contribuisce alla ricerca della verità, e solo la verità ci rende liberi. LE DITTATURE, INFATTI, LA PRIMA COSA CHE FANNO È DI TOGLIERE O LIMITARE LA LIBERTÀ DI STAMPA”. Dal pontefice il riferimento, pronunciato a braccio, ai Rohingya, agli Yazidi:

“CI AIUTATE A NON DIMENTICARE le vite che vengono soffocate prima ancora di nascere; quelle appena nate che vengono spente dalla fame, dagli stenti, dalla mancanza di cure, dalle guerre; le vite dei bambini-soldato, le vite dei bambini violati. Ci aiutate a non dimenticare tante donne e uomini perseguitati per la loro fede o la loro etnia, discriminati, vittime di violenze e della tratta di esseri umani. Ci aiutate a non dimenticare che chi è costretto – da calamità, guerre, terrorismo, fame

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e sete – a lasciare la propria terra non è un numero, ma un volto, una storia, un desiderio di felicità”.

Rivolto ai giornalisti ha aggiunto:

“I GIORNALISTI SIANO UMILI. PERCHÉ UN GIORNALISTA UMILE È UN GIORNALISTA LIBERO. LIBERO DAI CONDIZIONAMENTI. LIBERO DAI PREGIUDIZI E PER QUESTO CORAGGIOSO. L’umiltà del non sapere tutto prima è ciò che muove la ricerca. La presunzione di sapere già tutto è ciò che la blocca. In un tempo in cui molti tendono a pre-giudicare tutto e tutti, l’umiltà aiuta anche il giornalista a non farsi dominare dalla fretta, a cercare di fermarsi, di trovare il tempo necessario per capire. L’umiltà ci fa accostare alla realtà e agli altri con l’atteggiamento della comprensione. Il giornalista umile cerca di conoscere correttamente i fatti nella loro completezza prima di raccontarli e commentarli. NON ALIMENTA L’ECCESSO DI SLOGAN CHE, INVECE DI METTERE IN MOTO IL PENSIERO, LO ANNULLANO. NON COSTRUISCE STEREOTIPI. Non si accontenta delle rappresentazioni di comodo CHE RITRAGGONO SINGOLE PERSONE COME SE FOSSERO IN GRADO DI RISOLVERE TUTTI I PROBLEMI, O AL CONTRARIO COME CAPRI ESPIATORI, SU CUI SCARICARE OGNI RESPONSABILITÀ. Penso, per esempio, a come certi TITOLI ‘GRIDATI’ - POSSONO CREARE UNA FALSA RAPPRESENTAZIONE DELLA REALTÀ. UNA RETTIFICA È SEMPRE NECESSARIA QUANDO SI SBAGLIA, ma non basta a restituire la dignità, specie in un tempo in cui, attraverso Internet, una informazione falsa può diffondersi al punto da apparire autentica. Per questo, voi giornalisti dovreste sempre considerare la potenza dello strumento che avete a disposizione, e resistere alla tentazione di pubblicare una notizia non sufficientemente verificata. IN UN TEMPO IN CUI MOLTI DIFFONDONO FAKE NEWS, L’UMILTÀ TI IMPEDISCE DI SMERCIARE IL CIBO AVARIATO DELLA DISINFORMAZIONE E TI INVITA AD OFFRIRE IL PANE BUONO DELLA VERITÀ. Specialmente nei social media ma non solo, molti usano un linguaggio violento e spregiativo, con parole che feriscono e a volte distruggono le persone, si tratta invece di calibrare il linguaggio e, COME DICEVA IL VOSTRO SANTO PROTETTORE FRANCESCO DI SALES NELLA FILOTEA, USARE LA PAROLA COME IL CHIRURGO USA IL BISTURI”. E anche in questo caso l’umiltà salva. Perché in un “tempo di parole ostili”, aiuta a “ricordarsi che ogni persona ha la sua intangibile dignità, che mai le può essere tolta. LA LIBERTÀ DI STAMPA E DI ESPRESSIONE È UN INDICE IMPORTANTE DELLO STATO DI SALUTE DI UN PAESE. ABBIAMO BISOGNO DI GIORNALISTI CHE STIANO DALLA PARTE DELLE VITTIME, DALLA PARTE DI CHI È PERSEGUITATO, DALLA PARTE DI CHI È ESCLUSO, SCARTATO, DISCRIMINATO. C’è bisogno di voi e del vostro lavoro per essere aiutati a non dimenticare tante situazioni di sofferenza, che spesso non hanno la luce dei riflettori, oppure ce l’hanno per un momento e poi ritornano nel buio

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PAPA FRANCESCO», volume edito dalla Libreria editrice vaticana che raccoglie i discorsi, le interviste e i messaggi in materia di comunicazione di Jorge Mario Bergoglio – Papa Francesco.

Non prima di averli salutati, con una meravigliosa esortazione:

“IL GIORNALISTA UMILE E LIBERO CERCA DI RACCONTARE IL BENE, ANCHE SE PIÙ SPESSO È IL MALE A FARE NOTIZIA. Ciò che mi ha sempre confortato nel mio ministero di vescovo è scoprire quanto bene esiste tra di noi, quante persone si sacrificano – anche eroicamente – per assistere un genitore o un figlio malato, quante persone s’impegnano ogni giorno nel servizio agli altri, quante tendono la mano invece di girarsi dall’altra parte. Vi prego, CONTINUATE A RACdell’indifferenza”. CONTARE ANCHE QUELLA PARTE DELLA Riguardo alla comunicazione, ha lanciato un monito molto REALTÀ CHE GRAZIE A DIO È ANCORA LA PIÙ DIFFUchiaro: SA: LA REALTÀ DI CHI NON SI ARRENDE ALL’INDIF“Sia davvero strumento per costruire, non per distruggere; per FERENZA, DI CHI NON FUGGE DAVANTI ALL’INGIUSTIincontrarsi, non per scontrarsi; per dialogare, non per monolo- ZIA, MA COSTRUISCE CON PAZIENZA NEL SILENZIO. gare; per orientare, non per disorientare; per capirsi, non per C’È UN OCEANO SOMMERSO DI BENE CHE MERITA DI fraintendersi; per camminare in pace, non per seminare odio; ESSERE CONOSCIUTO E CHE DÀ FORZA ALLA NOSTRA PER DARE VOCE A CHI NON HA VOCE, NON PER FARE SPERANZA”. DA MEGAFONO A CHI URLA PIÙ FORTE”. Mi auguro che chi - si accosta, lavora a tempo pieno e si diAl termine dell’udienza, il Papa ha donato ai partecipanti all’in- letta - nella comunicazione, si ispiri all’idea che ha il Papa, contro il libro «COMUNICARE IL BENE. LE PAROLE DI riguardo a questo settore vitale della società.

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Il nostro territorio

La “Lettera collettiva” del 1948, dei Vescovi dell’Italia meridionale sui problemi del Mezzogiorno. di Giuseppe Sestito Resa pubblica il 25 gennaio 1948, giorno in cui ricorreva la domenica di settuagesima (cioè la settima domenica antecedente a quella di Pasqua) la “Lettera collettiva” dei vescovi dell’Italia meridionale concernente i problemi del Mezzogiorno solo per alcuni aspetti si presenta oggi datata. Tuttaiva, per comprenderne ai giorni nostri i contenuti, lo spirito ed il significato, la “Lettera collettiva” dev’essere contestualizzata rispetto al desolato dopoguerra della fine degli anni ’40 e calata in quel periodo di tempo affatto particolare da tutti i punti di vista. La circostanza che la “Lettera”, pur trattando temi attuali e drammatici, mai affrontati prima dalla Chiesa del Sud, avesse avuto uno scarso rilievo anche sulla stampa cattolica dell’epoca e che molti vescovi non vollero sottoscriverla o ne ignorarono gli aspetti più urgenti e drammatici, la dice lunga su quanto la mentalità cattolica del tempo fosse lontana dalla consapevolezza che quegli argomenti, riguardando la città dell’uomo e il suo destino terreno, fossero importanti non solo per il popolo delle regioni del Sud, stremato da tanti mali secolari, che per la Chiesa meridionale medesima. Certamente, i tempi non erano ancora maturi per indurre la Chiesa del Sud ad essere presente, con delle posizioni ufficiali e ben chiare, nel campo dell’etica economica e sociale meridionale. Per rendersene conto, basta riflettere un momento sul fatto che il primo vero documento dei vescovi italiani sulle condizioni di marginalità e sottosviluppo del Mezzogiorno sarebbe stato pubblicato solo nel 1989 (Chiesa italiana e Mezzogiorno: sviluppo nella solidarietà), a distanza di 41 anni dalla “Lettera collettiva” e ad un quarto di secolo dalla conclusione del Concilio Vaticano II. Alla luce di queste considerazioni, titanico e profetico nel contempo ci appare oggi il tentativo dell’arcivescovo di Reggio Calabria, mons. Antonio Lanza, di cimentarsi nell’impresa di preparare un documento che, coinvolgendo nella sua sottoscrizione gli altri confratelli arcivescovi e vescovi, facesse emergere dalle catacombe, dove stavano sotterrate, le miserrime condizioni morali, culturali e civiche delle regioni meridionali. Negli anni dell’immediato secondo dopoguerra, lo stato pag. 14

complessivo del Mezzogiorno si presentava, infatti, in modo disastroso sia per via di una insufficiente, spesso inesistente, politica di sviluppo dello Stato liberale prima; che della politica economica del Fascismo dopo, che a parte le bonifiche effettuate in alcune aree delle regioni meridionali, come nella Piana lametina, per esempio, aveva per venti anni praticamente cancellato la “questione meridionale” dall’ agenda delle sue priorità; che infine della recente guerra mondiale la quale ne aveva aggravato le condizioni, rendendo ancor più desertificate, dal punto di vista umano, morale e materiale, le già desolate aree meridionali. Di conseguenza, mons. Antonio Lanza pensò che si dovesse intervenire con urgenza su quel cumulo di macerie e, quindi, che ci fosse l’assoluta necessità che le Chiese dell’Italia del Sud facessero sentire la loro voce, in modo forte, sul terreno dei problemi dell’etica civile e sociale e della giustizia. A parere dell’arcivescovo reggino, ciò era tanto più necessario in quanto si trattava non solo di rivendicare l’intervento dei pubblici poteri per alleviare le precarie condizioni di vita delle genti meridionali, ma altresì di scuotere le coscienze dei cittadini da un atavico torpore che le aveva inchiavardate nell’inattività. Era cioè necessario che i meridionali prendessero in mano il loro destino e fossero sollecitati all’ impegno collettivo per costruire una società rinnovata, più giusta e solidale. La “Lettera collettiva” inizia analizzando innanzitutto la religiosità dei cristiani meridionali. “La religione – affermano i vescovi – se in molti è davvero cosciente ed operosa adesione alla verità [……..] in altri, è sentimento e tradizione [.……] intristita da forme parassitarie e superstiziose” . Affinché sia autentica, la religiosità popolare dev’essere “munda et immaculata”. Invece, “dobbiamo con amarezza concludere che non di rado ci muoviamo in un mondo cristiano solo d’apparenza…….” Partendo da questa consapevolezza, i vescovi indicano la causa di tanti mali del Meridione nelle “difficoltà e resistenze che l’attuazione delle norme di giustizia incontra nel Mezzogiorno d’Italia”. E ne denunciano nel seguente modo la situazione prevalente nelle sue contrade: “Non possiamo

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[…….] rimanere indifferenti o inerti di fronte alla persistente miseria di alcune classi del popolo, alla precarietà di vita ed instabilità del bracciantato, al reddito estremamente basso di alcuni lavoratori e coloni, all’evidente ingiustizia di talune forme contrattuali, all’insufficienza di alcune strutture economiche, ai complessi e gravi problemi connessi al persistere del latifondo”. Dopo di che, la “Lettera” entra nel merito della questione sociale meridionale ed affronta la trattazione della crisi attuale, soffermandosi in successione sui principi e le direttive da tenere presenti per impostare un’azione di risanamento della società e dei mezzi cui fare ricorso per uscirne. In relazione al primo aspetto, i vescovi ritengono che sebbene la “crisi che attraversiamo sia penosa e torbida […..] nelle sue scaturigini [si tratta] non già di involuzione, ma di maturazione e di crescenza” [indotta da] “aspirazioni che trovano il loro fondamento in una più matura consapevolezza della dignità della persona umana, dell’essenziale uguaglianza tra gli uomini, della preminenza del lavoro, dell’insopprimibile diritto dell’uomo ad attuare, in senso di libera responsabilità, la sua missione e di perfezionare la sua personalità”. Per risolverla rapidamente, la “Lettera collettiva” propone dei rimedi da adottare sulla base di una serie di principi e direttive di natura etico-sociale che sono Lamezia e non solo

ricavabili dal corpus della dottrina sociale che fino ad allora era andata formandosi con la promulgazione dei documenti sociali pontifici: la strumentalità della ricchezza, per cui questa dev’essere finalizzata al perfezionamento dell’uomo; la primitiva destinazione dei beni materiali al servizio di tutti gli uomini; il diritto naturale alla proprietà privata, nella sua duplice funzione individuale e sociale; la creazione di un ordinamento sociale che impedisca la concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi; il diritto naturale di ciascun individuo a fare del lavoro il mezzo per provvedere alla vita propria e dei figli. Il documento dei vescovi, passa infine a indicare alcuni rimedi attinenti ai “più spinosi ed urgenti problemi delle nostre regioni relativi alla proprietà terriera, ai rapporti contrattuali, alle condizioni dei braccianti e all’ambiente di vita dei lavoratori”. Com’ è facile constatare, i contenuti della “Lettera” riguardano esclusivamente l’economia del settore primario (agricoltura) ed i connessi problemi di braccianti e contadini. Non sono affrontate le questioni dell’industria e degli operai perché i vescovi si sforzano di muoversi nell’ambito di una visione realistica delle condizioni del Mezzogiorno dove l’industrializzazione era ancora di là da venire e perciò inesistente era la presenza degli operai. I rimedi proposti riguardano gli interventi di competenza dello Stato, il ruolo che deve svolgere l’iniziativa dei privati ed i compiti delle categorie sociali, quali le associazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori. I compiti dello Stato sono di due tipi: a) “assumere su di sé l’onere totale o parziale di quelle opere per cui facciano difetto o siano insufficienti le forze dell’iniziativa privata. In particolare, dare sviluppo alle opere di bonifica e alla trasformazione degli ordinamenti colturali…….; b) dar vita, mediante una sana legislazione ed una razionale riforma, a tutti quegli strumenti giuridici ed economici che valgano a correggere l’attuale sperequazione del regime di proprietà, ad impedire nel futuro la creazione di monopoli terrieri, e ad assistere la piccola proprietà, i lavoratori e le loro famiglie………”. I privati, a loro volta, sono chiamati a vincere la passività mediante un impegno diretto nella vita sociale ed economica perchè “non è possibile attendersi tutto dallo Stato”. E perché, inoltre, il “compito dei poteri pubblici non è quello di sostituirsi all’iniziativa privata bensì stimolarla e sorreggerla”. La “Lettera” termina esaminando il ruolo delle categorie sociali ed affida la conclusione ad una riflessione ricavata dal discorso che il Papa Pio XII aveva rivolto alle ACLI l’11 marzo del 1945. Se l’obiettivo cui pervenire è quello di un nuovo assetto della vita economica e sociale, “è necessario – afferma il Papa – che al di sopra di qualsiasi categoria, al di sopra della distinzione fra datori e prestatori di lavoro sappiano gli uomini vedere e riconoscere quella più alta unità la quale lega tra loro tutti quelli che collaborano alla produzione, vale a dire il loro collegamento e la loro solidarietà nel dovere che hanno di provvedere insieme stabilmente al bene comune e ai bisogni della comunità”.

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“LA GAZZOSA”: UN RITO CADENZATO NELLA NICASTRO D’ALLORA di Francesco De Pino La “Gazzosa”, di limone o di caffè, la bibita preferita della Nicastro d’allora, entrata nelle abitudini piacevoli dei suoi abitanti, specialmente, quando, la si gustava con gli amici, nella “rivendita” specializzata di Corso G. Nicotera locali a piano terra, ora, uno dei locali della sede di una nota Banca (foto1). Quasi, un rito che si ripeteva cadenzato, preferibilmente, nelle ore serali, un appuntamento con gli amici, un allietare un incontro con un sorso gradevole e frizzante. La “gazzosa” di limone era immancabile tra gli amici all’osteria: costituiva il premio della vittoria per quelle lunghe, interminabili partite a carte-La regina della giocata, così, rendeva quel nostro vino d’uva, forte e dal rosso rubino, frizzante e piacevole. Una cassa di “gazzose” era immancabile nelle dispense delle famiglie: un segno di benessere familiare e di distinzione, un orgoglio quando la pesante ”cariola” di legno, spinta dall’addetto con gran dispendio d’energie, faceva sosta dinanzi all’uscio di casa per scaricarne il prodotto. Ricordi storici, intensi, di un passato

e laborioso operare che, le risorse umane impiegate, eseguivano con diligenza tra il tintinnio di bottiglie, anch’esse costrette a seguire l’uomo e la macchina dal lavaggio, all’imbottigliamento, alla distribuzione, mentre quel profumo di limone e di caffè, intenso e diffuso, sembrava volesse mitigare tanta fatica. Spesso, Natale Torchia, m’intratteneva con un parlare affascinante e suadente, un piacere ascoltarlo: uomo pieno di sapere e saggezza, dava, tranquillo, insegnamenti di vita vissuta. N’ero affascinato. Pietro De Sarro, non era da meno, pur se uomo dalle poche parole, ma dal sorriso, affettuoso che ti faceva notare quella sana dentatura! Al primo impatto poteva sembrare senza dialogo, invece, nascondeva l’uomo timido che era in lui. Appena, però, entravi in tanta difesa, lo apprezzavi per la bontà, la disponibilità, il profondo rispetto per gli altri e ne restavi amico. L’ho apprezzavi, ancor, di più, a tavola, dove diveniva, per incanto, loquace, aperto, confidenziale, dall’animo popolare: nicastrese doc. Era nei soci della nostra tradizione, tanta diversità, come ho avuto modo di rilevare nel tempo in tutti. Una caratteristica comune a entrambi: davano il “ Voi”, anche, ai giovanissimi. Negli incontri cercavo di cogliere il perché di tanta managerialità, benché, non sorretta da un’elevata scolarità, caratteristica comune della nostra imprenditoria di successo che mi ha spinto da sempre a starle vicino cogliendone le istanze, leggendone i volti, mentre imparavo, giorno dopo giorno, tuffandomi in tanta cultura, propria della “gente di lavoro”, i “self man”! Sì, fattasi da sola.

semplice, pieno di valori e solidarietà umana, che vogliono indicare come quella bibita era entrata nei costumi del nostro popolo, quasi un patrimonio, ne costituiva un vanto carico d’orgoglio nei confronti dei paesi vicini. Quel prodotto gli apparteneva e con esso l’azienda che lo produceva: la De Sarro & Torchia. Fondata nel lontano 1941 da due nicastresi autentici: Natale Torchia e Pietro De Sarro ( foto 2). Due benemeriti nicastresi dall’imprenditorialità diversa, ma complementare, perché sinergica: ragionatore e convincente ,il primo, mirato e pratico,( ne seguiva la gestione produttiva-amministrativa), l’altro. Essi avevano dato un ritmo incalzante alla produzione, con macchinari efficienti e innovativi, che determinavano, nei reparti, un attento pag. 16

Lo fu, tanto spirito indomito, nei soci della” DE SARRO&TORCHIA” e nei “F, LLI FERRISE”, le due delle tre aziende nicastresi del settore di acque gassate, (la terza, Amatruda & Valentino, con Sede in Via Mario Paola) i cui soci sono legati, peraltro, da vincoli stretti di parentela, sono cugini: origini comuni che risalgono al dicembre 1904, quando il loro Avo, un uomo “faber”, il Sig. Vincenzo Ferrise (fig.3), (nato il 28 luglio 1876 e morto il 28 luglio 1956), costituì la prima azienda del settore. Nella stessa, iniziarono a prestare attività lavorativa, oltre ai propri figli, Domenico (1913-1979), Bruno (1919-1993), Vincenzo i nipoti, Pietro De Sarro (nato il 1909/1998), appena, dodicenne e, Natale Torchia (1912/1992) quindicenne, figli, rispettivamente, di due delle sue tre sorelle: Rosaria e Angela. La terza sorella, Rosaria, aveva sposato Francesco Scarpino, padre del sen.

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l’opinione

DISAFFEZIONE e COMPLICITA’ IN POLITICA di Alberto Volpe Che figure (evidentemente non di segno retorico), e che figuri, vien da esclamare (e tralasciando per educazione il resto della ormai abusata espressione dell’ex direttore Fede) a seguito della definitiva condanna, con detenzione nelle patrie galere, di soggetti antesententiam “intoccabili, celesti e potenti” ! Trionfo della democrazia o decadenza della stessa ? Quanta differenza tra chi (pensiamo ai vari De Gasperi, Almirante, Berlinguer) il titolo di Onorevole veniva “onorato” da comportamenti che valeva gratuito servizio di rappresentanza per conto di cittadini, mentre l’attualità ci riserva, con disgustosa frequenza, un’azione penale a carico di soggetti eletti ai vertici delle Istituzioni ! Quanta “polvere” sotto quei “tappeti” quando solo vengono sollevati da sotto quei “tavoli, scrivanie e uffici”, dove si decide l’impiego ed utilizzo del denaro pubblico. Quadro apocalittico di una Politica tout court , con condanna aprioristica ed inappellabile per chi la rappresenta ? La risposta,senza tentennamenti, è No ! Ma quel quadro di “esercito” di indagati, processati di meno, e condannati ancora pochi, con un trand non certamente in calo, beh non è immagine esemplare di edificazione ! Anzi, è sempre più preoccupante l’assuefazione e la omologazione alla convinzione del “così fan tutti”, e dunque ! Forse perché l’azione penale

spesso finisce nelle secche assolutorie o “sanatorie” per via di proscioglimento, per amnistia o condono e indulto, per i quali necessita un provvedimento ad hoc, ma anche per archiviazione e prescrizione, ed infine per via di costituzionale immunità che riguarda i parlamentari. Certo un procedimento di avvio di indagini a carico, che riguardi oggi un politicoamministratore, va diventando materia e motivo di scontro tra le opposte posizioni politiche, le quali alla pirandelliana maniera giocano le parti di garantisti o di giustizialisti. Il che avviene sempre più frequentemente a prescindere dalla gravità o meno della materia “imputata” . Come a voler dare ad intendere che il giustizialista è un forcaiolo a prescindere, non avendo diritto a “scandalizzarsi” dalle iterate condotte illegali della casta politica, la quale talvolta spudoratamente “ci prova” a far passare norme, talvolta palesemente incostituzionali (come poi vengono perciò bocciate), o comunque di autoassoluzione. Il gioco non sempre riesce, e qualche volta dietro le sbarre ci finisce chi (pensiamo al reggino Scopelliti, al Siciliano Cuffaro, al giornalista,poi con pena commutata, Fede, o al parlamentare di Comunione e Liberazione Formigoni) occupava scanni di rilievo. Certo la storia, da quella greca e quella romana, alla medievale e risorgimentale, è piena di simili condanne. “Historia (non) docet” ? Evidentemente

no, se quelle regole, o certezza di esse, cui pure si fa risalire l’inquinamento scandalistico dell’esercizio politico dei nostri giorni, dell’essere “responsabile” di una carica istituzionale, se l’asticella dell’etica politica oggi si è talmente elevata che quella “storia” non mostrando sufficienti remore nel rispettare la finanza pubblica, alias il denaro dei contribuenti onesti, per cui il compromesso, la corruzione vengono praticati anche a rischio consapevole. Come dire “finché la barca va”! Quando, poi, ad essa situazione si aggiunge la “complicità” di quei tanti poveri “cristi” (piccoli o grandi imprenditori, come di sempli-ciotti cittadini), i quali rincorrono il “favore” del parlamentare,regionale o nazionale, ma anche dell’assessore, amico, in cambio della promessa elettorale a vantaggio della carriera politica del potente di turno, allora il quadro di una democrazia debole e proiettata alla sua negazione, è ben chiaro quale possa essere il futuro di una società. Ma dove è finito, stante così le cose, lo stato di diritto ? E la Società senza “padrone o padrini” ha finito per credere in una Costituzione conquistata a prezzo di vite umane, sangue e sacrifici, visto che è appena trascorso il 25 Aprile ? Vale, allora, invertire un pericoloso declivio, per dare motivo di speranza alle nuove generazioni !

Armando Scarpino.

dove cessò la sua gloriosa attività produttiva, nel 2008.

Pietro e Natale, rilevano, dopo l’esperienza fatta nell’azienda dello zio, Vincenzo, la piccola fabbrica di gassose dell’altro zio, Francesco Ferrise, che già dal 1904 produceva gassose di caffè e al limone dall’intuizione felice e fattiva che fu propria del fratello Vincenzo, papà dei soci della “F.lli Ferrise”, Domenico (19131979), Bruno (1919-1993), Vincenzo (1916-2017) i quali ne ereditarono la sua attività, esercitata in Largo Angotti, prima, in Via San Giovanni, poi, fino alla sua cessazione, nel 1978. Persone a me care per i vincoli di amicizia e religiosi che legano le nostre famiglie.

Avremmo voluto che ci svelassero il segreto della ricetta della gassosa, custodito gelosamente negli anni, ma ritenemmo che la risposta sarebbe un “ no comment” e non l’abbiamo fatto. Avremmo voluto, ancora, la gloriosa rivendita, di Cors G.Nicotera, oggi occupata dal Monte dei Paschi per far tornare la De Sarro & Torchia ai lametini ed i lametini alla De Sarro&Torchia.

I cugini, Pietro e Natale, esercitarono in un succedersi di sedi che variavano con il progredire della “De Sarro e Torchia”: da Via Colosimo, dove lettere sbiadite ne ricordano l’attività, si trasferisce in Corso G. Nicotera, che rimase solo come rivendita di gassose poi, nel 1970, in via Anile, per passare alla moderna Via Marconi, sede, lussuosa ed efficiente, poi, nella zona industriale, Lamezia e non solo

Lasciammo, quel dì, la “De Sarro & Torchia”, senza non prima aver degustato, sia la gassosa a limone, sia quella di caffè, soltanto, che le bottiglie non avevano più quella “ palla della gassosa (la pallina che messa all’interno della bottiglietta, appena piena, la pressione faceva schizzare in alto rendendo possibile la chiusura ermetica della stessa). Ma, siamo certi di avere fatto un servizio alla nostra collettività lametina pur se avremmo voluto ancora la gassosa della De Sarro & Torchia e dei F.lli Ferrise sulla nostra tavola, ma che vi abbiamo voluto raccontare, seppure, in modo succinto, tornando indietro nel tempo. Ma, che tempi, quelli, si era felici con poco!

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cultura

“Elisa Salerno: Eresia o Nuova Pentecoste”, di Michela Vaccari.

Il libro “Elisa Salerno: Eresia o Nuova Pentecoste”, (Il pozzo di Giacobbe, 2019) di Michela Vaccari, propone un’importante lettura della lotta per l’emancipazione della donna, ripercorrendo la vita e l’attività di una coraggiosa figura femminile, Elisa Salerno. Nata nel 1873 a Vicenza e qui vissuta fino al 1957, Elisa Salerno fu giornalista, fondatrice di un periodico per le lavoratrici, dal titolo “La donna e il lavoro”, scrittrice di romanzi, saggi e articoli, tutti finalizzati a sostenere la causa della donna e a combattere l’errata concezione dell’inferiorità del sesso femminile, derivante dalla mentalità del tempo, diffusa negli ambienti cattolici. Il contesto storico-culturale in cui si sviluppa l’opera di Elisa Salerno è quello di una città, la sua Vicenza, tradizionalista e conservatrice, che considerava la donna obbligata al silenzio in Chiesa e all’obbedienza in casa, e di un Vaticano che condannava il femminismo egualitario. In questo contesto, da fervente cattolica, Elisa, ancora sconosciuta al mondo ecclesiastico ufficiale, criticava la Chiesa, dedicandosi a tutto ciò che poteva ostacolare la dignità della donna in ogni ambito. Cattolica e femminista, come lei stessa amava definirsi, fece emergere le contraddizioni che esistevano all’interno della Chiesa sul modo di considerare la donna, nonché le ingiustizie e gli errori antifemministi praticati dalla Chiesa stessa. Nel libro di Michela Vaccari è messo in evidenza il fervore con cui Elisa sostenne che la Chiesa era antifemminista e che c’era stato un certo stravolgimento del Vangelo operato dai Padri della Chiesa e da teologi come Sant’Agostino e San Tommaso. Elisa Salerno fu molto brava a mettere in luce il problema che le donne erano escluse a priori da certe attività o costrette ad un impegno mag-

giore rispetto all’uomo per dimostrare la loro competenza e la loro moralità. Si battè per la dignità della donna, che il Vangelo stesso proclamava, per la parità dei sessi all’interno della famiglia, nel luogo di lavoro, nell’istruzione, nell’attività politica, nell’ambiente religioso. Nelle critiche rivolte alla Chiesa, la sua amara constatazione era che solo nei partiti non cattolici la donna era messa nelle condizioni di pensare e di agire, mentre nel “campo cattolico”, riguardo al sesso femminile si imponevano e si soddisfacevano le passioni del genere maschile; ragione per la quale la donna era in posizione di subalternità e di dipendenza rispetto all’uomo. Il singolare coraggio della Salerno fu combattere l’antifemminismo cattolico con gli stessi argomenti della Fede, tanto da essere talvolta definita una “cattolica ribelle” o una

“fedele scomoda”. Elisa, infatti, scelse sempre di rimanere dentro il recinto della Chiesa, provando a spostarne i confini, troppo ristretti e rigidi da non contenere un messaggio cristiano. Come scrive Michela Vaccari, in lei si ritrovano due anime alla continua ricerca di una sintesi: l’anima contemplativa su cui si radica la sua profondissima fede e l’anima attiva su cui si fondano le spinte e le esigenze del cuore, che vuole tradurre in vita concreta attraverso le sue quotidiane battaglie. In un contesto impreparato e non ancora pronto ad accogliere il nuovo che stava avanzando, in cui la mentalità e la cultura avevano una visione parziale sulle possibilità del genere femminile e la Chiesa era ancorata ad una visione tradizionalista della donna, per le sue convinzioni femministe, malgrado le critiche del clero del tempo, Elisa Salerno può essere considerata una cristiana con il dono della profezia. Sebbene alla sua morte vide realizzate pochissime delle conquiste per le quali si era battuta, i suoi temi, un secolo dopo, sono stati rivendicati dalle femministe di tutto il mondo nelle lotte di liberazione della donna. La rivalutazione di Elisa Salerno e la modernità che ha caratterizzato le sue idee e la sua attività, quali traspaiono nel libro di Michela Vaccari, rendono interessante tale saggio e importante la figura di Elisa ancora oggi, in cui il tema della parità di genere continua ad animare dibattiti e convegni. Elisa rappresenta un esempio di coraggio e di libertà per tutti e le sue battaglie per l’affermazione delle sue idee egualitarie contengono un messaggio educativo e culturale valido ed efficace in ogni tempo e in ogni ambito. Liceo Scientifico Chiaravalle C.le Classe IV A Chiera Sara, Daniele Raffaella Moroniti Sara, Trebisacce Lorenza

Le perle di Ciccio Scalise

Tutti mo’ hanu na rizzetta

A ttutti sti cunsigliari risumati, ntrà n’aricchjia cci vulessi ddumandari, fhinu a mmò, nduvi siti stati?, pirchì un bb’amu sintutu mmai parrari?.

nissunu i Vua, a difhesa ha ppiata, anzi, chini megliu ha ppututu fhujiri, ha ffujiutu.

Mò, v’aviti tutti risbigliatu, di nù suannu ppì mmia, pocu tranquillu a lliattu cunzatu, ognunu ha ddichiaratu, ppì ssarbari Lamezia, sà ddi fhari chistu e cchillu.

Guarda tù mò, cchi ccumbinazioni, tutti quanti aviti rizzetti e mmidicini, ppì ffari prima, i cosi cchjiù nnicissarii e bboni, e ffari accussì rinasciri Lamezia e Ili Lamitini.

Quandu Lamezia vinia ccaniata, tutti quanti Vua, Vi nd’aviti fhuttutu,

Mentri unu sulu jia arrancandu, mù l’unuri i Lamezia putia ssarbari,

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l’autri, Vi nd’aviti jiutu cugliuniandu, ad ancunu, puru cuntru, l’ajiu vistu rimari. Sì tutti, quantu siti, i cunsigliari, fhussivu daveru unesti e unurati, un jjiessivu guardandu i cosi d’aiari, mà allu Sindacu dicessivu, fhorza avanti jiati. “Sindacu, si a ngratitudini un rriasci a ssuppurtari, sianti a mmia, bbeni un ndì fhari”. Lamezia e non solo


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Lamezia, “Fratelli? No…feroci conquistatori” il libro di Cefalì presentato al liceo “Galilei” Lamezia Terme – Presso il Liceo Scientifico “Galilei” di Lamezia Terme, è stato presentato l’ultimo libro di Francesco Antonio Cefalì “Fratelli? No…Feroci conquistatori”. Dopo i saluti del dirigente scolastico dott.ssa Teresa Goffredo sono intervenuti, il Sindaco di Motta S. Lucia, avvocato Amedeo Colacino, il dirigente scolastico del liceo ‘Tommaso Campanella’ di Lamezia Terme dott. Giovanni Martello e l’autore del libro, l’ing. Francesco Antonio Cefalì. L’avv. Colacino, dopo un’ampia panoramica sull’Unità d’Italia, si è soffermato in modo particolare sui primati del Regno delle Due Sicilie prima del 1860 e sulle teorie razziste postunitarie di Cesare Lombroso. Il dirigente scolastico Giovanni Martello ha ricordato il decennio francese nel Meridione della Penisola, le guerre d’indipendenza sostenute dai Savoia e le condizione economiche, non certo buone, dei contadini e degli artigiani durante i diversi governi borbonici. Ha preso, quindi, la parola l’autore del libro soffermandosi sulla vera storia del Risorgimento italiano, con una serie di documenti trovati in diversi Archivi di Stato italiani che dimostrano che il ricco Regno delle Due Sicilie fu annesso in modo violento e sanguinoso ai Savoia, che in quel periodo erano sull’orlo del fallimento economico. Il Cefalì ha continuato dicendo che l’operazione di unire l’Italia del 1860 fu ispirata dagli inglesi e dalla massoneria internazionale e realizzata dai Savoia che prima dell’invasione del Meridione, con la farsa della ”Spedizione dei Mille”, pianificarono il tutto, corrompendo alcuni alti ufficiali del Regno delle Due Sicilie e presero accordi, con i grandi proprietari terrieri contrari al governo borbonico, con la mafia e con la camorra, che allora non erano ancora organizzate (Garibaldi entrò a Napoli scortato dal capo camorra Salvatore De Crescenzo e dai suoi uomini, che poi furono assunti Lamezia e non solo

nella guardia cittadina). Durante l’invasione il Palazzo Reale di Napoli fu denudato di tutti gli oggetti preziosi e spediti poi a Torino, l’oro della Tesoreria dello Stato e i beni del re, depositati presso il Banco di Napoli, furono requisiti, i piemontesi si comportarono esattamente come un esercito straniero e colsero ogni occasione per saccheggiare chiese, palazzi pubblici e privati, rubando ogni oggetto prezioso, fu soppressa la libertà di stampa e di riunione e fu instaurata una durissima dittatura militare. Così, gran parte del popolo del Regno delle Due Sicilie si ribellò con durezza contro gli invasori; le insurrezioni si propagarono a macchia d’olio in tutto il Sud, fu una vera e propria guerra che durò più di dieci anni, durante i quali le truppe piemontesi compirono tanti delitti e distruzioni, mai visti in altre guerre. Nel 1865 fallirono quasi tutte le fabbriche meridionali perché senza più commesse. Incominciò così l’emigrazione, prima verso le Americhe e nel secolo successivo nel Nord Italia. L’autore del libro conclude elencando i veri morivi dell’invasione e che il Risorgimento italiano è stato una catastrofe per il Regno delle Due Sicilie e una fortuna per i piemontesi e per i popoli del nord dell’Italia, che in nome di una pseudo Unità hanno commesso un grandissimo crimine, oltre che un falso storico.

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Spettacolo

Lamezia Summertime. Angelo Gallo e Gaspare Nasuto ospiti a TeatrOltre: il Teatro Ritrovato di Giovanna Villella Lamezia Terme, Chiostro di S. Domenico Caffè Letterario. Ospiti per il Lamezia Summertime 2018, sezione TeatrOltre: il Teatro Ritrovato Angelo Gallo (Teatro della Maruca) e Gaspare Nasuto in Pulcinella e Zampalesta nella la Terra di Fuochi. Lo spettacolo nasce dalla collaborazione artistica di Angelo Gallo con Gaspare Nasuto, burattinaio napoletano che dal 1989 ricerca per Pulcinella nuove strade drammaturgiche di gusto contemporaneo. Il progetto Lamezia Summertime è un evento storicizzato, realizzato dal Comune di Lamezia Terme in collaborazione con Arci Lamezia Terme/Vibo Valentia in qualità di partner di progetto e finanziato dalla Regione Calabria con fondi PAC per il triennio 2017-2019. La Calabria e la Campania. Angelo Gallo e Gaspare Nasuto. Due artisti, l’arte antica dei burattini, due tradizioni che si incontrano. Gaspare Nasuto, Ambasciatore di Pulcinella nel mondo. Angelo Gallo “papà” di Zampalesta, il cane Tempesta. “Non sono uno scultore e nemmeno un artigiano. Io fabbrico leggende” così Nasuto con i suoi piccoli capolavori di scultura in legno (cirmolo, mogano, faggio..): i Black Dogs, la Morte nera in puro stile rock, Totonno ‘o pazzo, il Guappo napoletano e poi il suo Pulcinella. Sguardo vivo sotto la maschera dal naso a becco d’uccello e le rughe profonde, veste bianco lenzuolo, abito dei sogni e sudario dei morti… e ancora quella voce metallica che pesca nell’universo animale… E Gaspare vive con la sua pivetta d’argento, accucciata sotto la lingua o nell’incavo della guancia. Si dice che non se ne separi mai… È questo il suo Pulcinella, non solo personaggio o maschera ma l’archetipo di tutto il Sud con il suo carico di negritudine: la ribellione, la fame atavica, l’irriverenza, la voglia di riscatto sociale, l’eterna lotta con la morte. Zampalesta, creato da Angelo Gallo, s’inscrive nella tradizione dei Black Dogs di Nasuto ma se ne differenzia per il colore del suo mantello color cenere come la pelle di un pachiderma. Corpo allungato, bocca grande, occhi pag. 20

furbi e dispettosi. Sempre in caccia della povera gallina Serafina, pennuta variopinta e instancabile produttrice di uova fresche, ha come padrone il contadino Rusaru, tipico villano calabro dalle scarpe grosse e dal cervello fino. E Angelo lo anima con attenzione talmente premurosa ad ogni suo variar di espressione da farlo diventare una vera primadonna in grado di ammiccare al pubblico, mordere gli altri attori, veri o animati che siano. Perché i burattini non sono semplici oggetti di legno a cui le mani dell’animatore/attore imprimono movimenti meccanici. È sorprendente quanto nella fissità della loro espressione riescano a comunicare tutta la gamma dei sentimenti umani: amore, gelosia, rabbia, dolore, rivalità, tenerezza… Merito dell’alchimia che si crea tra i burattini e i loro animatori che li muovono, danno loro la voce, rispondono diventandone l’ombra, l’alter ego in un perfetto sincretismo tra umano e inanimato, tra animali, oggetti e uomini. E così Pulcinella e Zampalesta, secondo moduli fissati in un consumato – eppur sempre nuovo - esercizio scenico, si incontrano nella baracca nera per una storia a quattro mani che prende spunto dalla cronaca reale riportando una tematica di stretta attualità ovvero quella relativa alla terra dei fuochi. Nella storia di pura fantasia teatrale che narra dei preparativi dell’imminente matrimonio tra Pulcinella e la bella Teresina, si insinua prepotentemente la realtà delle ecomafie con i rifiuti tossici sversati clandestinamente nelle fertili terre campane. E saranno proprio Pulcinella e Zampalesta a smascherare i criminali che stanno avvelenando uomini, piante e animali e a garantire l’happy end. Uno spettacolo di denuncia sociale che fa riflettere divertendo e che annulla le distanze tra adulti e bambini perché l’infanzia non è solo una fase della vita ma anche uno spazio dell’immaginario collettivo, uno spazio mitico ove investire memoria, desideri, sogni. E la mente va ai primi giochi candidi, all’infanzia, alla meraviglia per il dono di questi due grandi artisti.

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Spettacolo

Vacantiandu: gli alunni dell’Istituto Comprensivo S. Eufemia in scena con “Romeo e Giulietta” per ricordare Antonio Federico di Giovanna Villella È stato il Teatro di S. Eufemia ad ospitare quest’anno lo spettacolo in ricordo del piccolo Antonio Federico, prematuramente scomparso qualche anno fa. In scena gli alunni della Scuola secondaria di I grado dell’Istituto Comprensivo S. Eufemia con una rilettura del capolavoro di Shakespeare Romeo e Giulietta per la regia di Pierpaolo Bonaccurso. Il progetto, fortemente voluto e sostenuto dalla famiglia Federico in collaborazione con l’Associazione teatrale I Vacantusi, viene realizzato ogni anno coinvolgendo gli studenti delle scuole secondarie di I grado del territorio lametino. Un modo per mantenere viva la memoria di Antonio che amava molto il teatro e per dare la possibilità a tanti ragazzi come lui di seguire i laboratori teatrali avvicinandosi al mondo dell’arte scenica. Il laboratorio è parte integrante della sezione VacantLab del progetto a validità triennale Vacantiandu con la direzione artistica di Diego Ruiz e Nico Morelli e la direzione amministrativa di Walter Vasta, finanziato dalla Regione Calabria con Fondi PAC. Impegno, divertimento, tecnica, gioco, racconto, esibizione, ironia e autoironia, morali rovesciate e rovesciamento di ruoli, gag individuali estemporanee, incursioni sceniche di singoli con qualche vena di protagonismo compiaciuto ma anche scambio di energie che diventano forza collettiva per una messinscena che si presenta in forma di studio, di work in progress per dei giovani “attori” che si pongono in piena libertà davanti a un sacro testo classico per dissacrarlo pur mantenendone inalterato lo spirito. Una lettura decisamen-

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te alternativa – con giochi di luce di grande effetto e scene agili e spiritose - che scaturisce dalla voglia di giocare e di divertirsi tra balli, canti, prove di memoria in rima, finte morti e resurrezioni con il continuo avvicendamento di Guliette che ben rende l’idea della dimensione corale di questa narrazione dal ritmo frenetico e allegro con finale a sorpresa. Eppure si coglie il grande impegno, la grande tensione emotiva ed espressiva in questa favola contemporanea che ha il sapore della meraviglia stampata in quegli occhi estatici, nelle bocche socchiuse che si allargano in sorrisi immensi quando arriva il momento degli applausi finali. Meritatissimi, per tutti. Perché il teatro è il luogo dove tutto può accadere e a fare teatro a scuola si impara sempre qualcosa di nuovo, di unico, di decisamente significativo. Ci si sente parte di un gruppo in cui si è uguali e solidali, e in cui ognuno sa di essere riconosciuto e valorizzato per le proprie capacità e il proprio carattere. Un senso di appartenenza che aiuta a superare i propri blocchi emotivi ed espressivi e ad acquisire la capacità di comunicare anche se, indipendentemente dal livello tecnico raggiunto, l’affetto e la solidarietà che nascono tra chi fa teatro è l’effetto della condivisione che si crea quando si ha un obiettivo comune da raggiungere. E un plauso va a questi 14 giovani protagonisti: Lorenzo Belvedere, Erica Bonaddio, Adrine Cristiano, Alla Ennaui, Iness Guitt, Maria Chiara Mauro, Gioele Mazzocca, Lucrezia Mura, Domenico Muraca, Letizia Muraca, Federica Napolitano, Michelle Persico, Claudia Sacilotti e Fabiola Trunzo che hanno aderito

immediatamente al progetto accogliendolo con entusiasmo e condividendone lo spirito: mantenere vivo il ricordo di Antonio Federico, un ragazzo come loro con l’amore per il teatro. Per oltre 2 mesi i ragazzi hanno profuso impegno e passione nel frequentare con assiduità il laboratorio condotto da Pierpaolo Bonaccurso con la preziosa collaborazione della professoressa Francesca Scarpino, in qualità di tutor e Angela Gaetano, responsabile organizzativa dei laboratori teatrali dell’Associazione teatrale “I Vacantusi”, le quali hanno saputo guidare, motivare e sostenere i ragazzi cogliendo e valorizzando le attitudini, le vocazioni e le sensibilità di ciascuno. Al termine dello spettacolo Nico Morelli e Walter Vasta hanno consegnato la tradizionale maschera di ceramica, simbolo della rassegna Vacantiandu, al regista Pierpaolo Bonaccurso e all’avv. Paolo Mascaro, già sindaco della Città di Lamezia Terme, per la sua vicinanza nel sostenere questo importante progetto che coinvolge le scuole del territorio lametino. Mentre le targhe con il simbolo dell’Infinito, legato al nome del piccolo Antonio, sono state consegnato da Pippo Federico alla professoressa Francesca Scarpino e alla dirigente scolastica Fiorella Careri dell’Istituto Comprensivo S. Eufemia per la sensibilità e la disponibilità che hanno dimostrato nell’accogliere e realizzare l’iniziativa per il terzo anno consecutivo e all’avv. Paolo Mascaro, in segno di stima e di affetto per aver sempre condiviso e sostenuto il Premio dedicato al ricordo di Antonio.

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l’angolo di tommaso

di Tommaso Cozzitorto

Ricordi e ...Memorie...

Può essere affascinante un romano lunedì sera di maggio e trovarsi in Piazza di Spagna sotto una pioggia dal sapore autunnale, con una malinconia serena e leggera soffermarsi davanti Fontana fu Trevi o in una solitaria Piazza Gregoriana; attraversare Piazza di Pietra e giungere fino al Pantheon con la già provata sensazione di sentirsi davanti alla Storia... L’indomani mi reco nello splendido scenario della Galleria d’Arte moderna in via delle Arti invitato come relatore del romanzo Terra Calda di Francesca Ferragine, ambientato in buona parte nel centro storico del quartiere Sambiase di Lamezia Terme. Mi piace

rappresentare davanti al pubblico romano una voce della nostra città, testimone diretto di alcuni luoghi descritti nel libro caratterizzato dai colori e dalle suggestioni della nostra Terra di Calabria. Il mattino successivo, prima di ripartire, vado a prendere un aperitivo a casa Pirandello, invitato dalla Signora Giovanna, vedova del pittore Fausto Pirandello, nipote del grande drammaturgo. Una casa che trasuda Ricordi e Memoria, una casa sul lungotevere che porta intrinsecamente testimonianze di Luigi e opere di Fausto sulle quali ritornerò presto a parlarne con voi...

... fra i vicoli romani

Quando mi trovo a Roma non posso non fare una passeggiata in Via Margutta. Ogni volta respiro un pezzo di Storia della città, la casa dove abitava Fellini con la moglie Giulietta Masina, la soffitta leggendaria della scrittrice e poetessa Sibilla Aleramo, il film Vacanze romane dove proprio in via Margutta era situata la casa del giornalista che vedeva ospite la principessa in cerca di libertà. E ancora le Gallerie d’Arte un po’ solitarie ma visitate da esperti e stimatori dai gusti raffinati, i centri di studio e la magia di alcuni angoli. Via Margutta, una affascinante “parentesi” di Via del Corso... pag. 22

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eventi

Hafsa

La sposa bambina conquista la libertà

di Annamaria Davoli

Si è svolto il 18 maggio alle ore 18,00 presso l’“Associazione culturale Altrove” a Lamezia Terme, l’incontro con Hafsa Abdullai Alì, 24enne somala. Il nome Hafsa che significa ‘giovane leonessa‘, si addice perfettamente alla protagonista dell’incontro che ci ha narrato le disavventure affrontate con notevole coraggio e forza d’animo. Divenuta infatti sposa bambina di uno sconosciuto, ebbe la forza di ribellarsi a violenze e soprusi subìti, trovando il coraggio di lasciare il suo mondo che non le avrebbe mai garantito né cultura, né autonomia né, soprattutto, un futuro di donna libera, come ella ha sempre desiderato essere. Hafsa ha evidenziato come, purtroppo la condizione della donna in Somalia e in molti Paesi del Medio Oriente (Afghanistan, Birmania, Somalia, Turchia, e molti altri), sia ancora oggi completamente diversa e peggiore rispetto a quella delle donne occidentali. La donna musulmana ha infatti diritti limitati in quanto non può uscire da sola, giocare con le coetanee; non è libera nelle scelte sentimentali e, come moglie può essere picchiata dal marito che ha il diritto di ucciderla. Come stabilisce

il Corano, deve seguire le regole tribali piene di violenze e di soprusi: Se uscisse da sola sarebbe considerata una prostituta; è obbligata a coprire il proprio corpo indossando il ‘burka’ o il ‘chador’, ed è costretta a sposarsi da bambina per decisione dei capi tribù. L’ associazione tra clan e tribù è parte della cultura e della politica islamica; I clan sono spesso divisi in gruppi che cercano di mantenere tra loro legami di alleanza tramite i matrimoni contratti tra uomini di un clan e donne di un altro. Questo è uno dei motivi per cui spesso le donne son costrette a divenire ‘spose bambine’, subendo matrimoni con uomini sconosciuti e molto più anziani di loro, oltre che gli interventi chirurgici della infibulazione. La prevalenza dell’ uomo sulla donna è scritta nel Corano, in cui si afferma che gli uomini abbiano la posizione prevalente (Corano 2: 228). Alla donna è permesso di uscire soltanto tre volte nella vita: Quando nasce, quando si sposa e quando muore. La donna musulmana è inoltre costretta a servire l’ uomo che lavora e che, per tale ragione assume il diritto di prevalere su di essa, picchiandola anche per futili motivi, mentre ad ella è affidato il lavoro domestico e il ruolo di madre. Questo predominio dell’ uomo sulla donna si manifesta purtroppo ancora oggi, in ambito familiare, in cui l’uomo detiene tuttora l’autorità e, spesso, l’uso legittimo della forza. Poiché egli è fisicamente più forte rispetto alla donna, è scontato che abbia sempre la meglio su di essa, risultando vincente. Fortunatamente la situazione è leggermente migliorata grazie al movimento femminista del XX secolo che si diffuse anche in molti

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Paesi musulmani. Nel 1923 fu fondato al Cairo l’Unione femminista egiziana. Nel 1956 la Tunisia emanò una serie di leggi che instaurarono l’uguaglianza giuridica fra uomo e donna e abolì la poligamia, vietando i matrimoni forzati. Purtroppo però negli anni ’70 l’avanzare dell’Islam, ha nuovamente peggiorato la condizione delle donne in molti paesi, come in Afghanistan sotto il regime dei Talebani. Fortunatamente alcuni Movimenti Femministi si sono opposti a tutto ciò e dal 1980 si continua ancora a lottare. Hafsa, parlando della propria esperienza ha narrato come da bambina all’età di 2 anni fu affidata alla madre dopo la separazione dei genitori; ella venne separata anche dal fratello che fu affidato al padre. Fin da piccola avvertì la mancanza di libertà, sentendosi costretta a non poter giocare con le altre bambine. Anch’ ella subì abusi e violenze fin da bambina, fu costretta a non uscire ed a coprire il proprio corpo. Dopo aver frequentato la scuola elementare, subì il matrimonio con uno sconosciuto, molto più anziano di lei e molto ricco, che pagò la famiglia in cambio della “sposa bambina”. Concluse gli studi, e qualche tempo dopo si rese conto di aspettare un bambino, ma non intendendo viver più con quell’uomo, fuggì di casa e, nell’intento di aiutare un’altra ragazza nelle sue stesse condizioni, decise d’imbarcarsi insieme ad essa. Fu però minacciata dal marito della ragazza e costretta a riportarla indietro. Si rifugiò in Kenia da dove s’imbarcò per raggiungere l’Italia: Hafsa era però nuovamente in pericolo: Il mare in burrasca, un temporale incombeva minaccioso sull’equipaggio, tutti avevano perso ogni speranza. Soltanto Hafsa non aveva paura ma si sentiva libera e sicura; era convinta che quella nave, nonostante l’ uragano, l’avrebbe trasportata in Italia e resa finalmente una donna libera.

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di Maria Palazzo

Carissimi lettori,

questa volta, ho fatto una scelta particolare, un po’ anacronistica, se vogliamo… Mi è capitato di imbattermi, ultimamente, in quelle meravigliose bancarelle, che io chiamo oasi di libertà, in cui si vendono ancora dei… libri, nelle fiere, nei mercati, nelle mostre. Per me è la gioia più completa, totale… Mi sento felice come un bambino con il suo aquilone… I libri sono sempre stati il mio personale aquilone, essendo io sempre stata una bambina fisicamente un po’ pigrotta e sedentaria, con la fantasia iperattiva… Su uno di questi stands, ho ritrovato i libri cari a mia madre, quelli che lei definiva d’evasione. Ho avuto in casa, due grandi esempi: papà, lettore colto e assetato di grandi classici e mamma onnivora, lettrice di tutto: dal quotidiano, alla rivista, ai libri di ogni tipo: dai classici difficili, ai libri d’avventura, a quelli che lei chiamava, appunto, di evasione. Con questi libri, mentre mio padre leggeva i classici a tavola, per appassionare i figli al bello, mia madre mi ha fatto apprezzare, a tutto tondo, l’universo racchiuso nella carta. Mio padre ci ha dato l’ossatura su cui reggere la cultura, ma è stata mia madre a insegnarci l’immenso spazio della lettura, quell’infinito, mai colmo per definizione, in cui lettura e scrittura si uniscono all’orizzonte…

occhio duale, nei libri di Liala: da una parte i buoni, dall’altra i cattivi, tipico dei grandi feuilletons del passato. Ma vi è un distacco, fra la realtà corrente dell’epoca e la narrazione di Liala, pur conservando un sottile fil rouge che le unisce. Come nei film hollywoodiani di un tempo. Liala è descrittiva. Il paesaggio è narrato poeticamente e così i sentimenti, così i nomi dei personaggi e i titoli scelti. Può sembrare anacronistico leggerla oggi, eppure, oltre all’evasione, a volte un po’ sospirante, troviamo moltissime cose, non trascurabili: i costumi dell’epoca, il modo di pensare, la forza dei sentimenti, la bellezza dei paesaggi e degli interni delle case, degli alberghi descritti e di ogni piccola cosa, che oggi ci rivela tutto un periodo storico, altrimenti difficile da identificare. Il mondo che ha attraversato due guerre mondiali (Liala aveva già 18 anni, quando l’Italia cominciò a combattere la Prima Guerra Mondiale), per poi riprendersi nella ricostruzione. Liala ha vissuto un secolo di Storia, è vero, con gli occhi velati dalla passionalità delle sue vicende personali, ma è comunque un testimone della nostra Storia e, nel suo piccolo, anche della Letteratura. Per anni amata e odiata, per via del suo successo, ma anche per la sua maniera di esprimersi, che ha sempre conservato l’anti-

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Liala divenne prestissimo, dunque, una grande scrittrice popolare, passata indenne in tutte le vicende storiche dell’Italia del ‘900. Ricordo le serate in cui io e mia madre, dopo aver letto uno stesso libro, ne facevamo la cronaca. Dopo cena, quando la famiglia si disperdeva un po’, fino a che mia madre è vissuta, noi ci accingevamo a fare la cronaca e il resoconto, analizzando personaggi e ambientazioni. I nostri preferiti erano i personaggi di Liala, per i molti non detto, che lasciavano spazio a critiche di varia natura, su cui innestavamo altri racconti e altre vicende. (Se in molte case si facilitasse il dialogo e l’espressione in questo modo, piuttosto che occuparsi dei fatti altrui…) Oggi, ogni volta che leggo un libro di Liala, come quello che sto leggendo ora, L’azzurro nella vetrata, ripenso ai bei momenti con mia madre e allo sviluppo espressivo che mi ha inculcato e penso anche alle auliche frasi di Liala stessa, che contengono anche un lessico elevato, che fa onore all’italiano. Mi beo della storia narrata, senza pregiudizi, simpatizzando, or soffrendo, or provando gioia, con i personaggi, finché il libro è aperto sotto i miei occhi e provando un po’ di leggera nostalgia, quando il libro giunge a conclusione, per l’assenza di mia madre… “Devi leggere qualsiasi cosa”, lei mi diceva, “per non avere una cultura settoriale” e, ancora oggi, seguo il suo consiglio. Essere onnivori, in fatto di lettura è, a mio parere, la migliore maniera di essere colti.

E veniamo alla scrittrice in questione: mia madre amava Liala. Amalia Liana Negretti Odescalchi è nota a tutti per i suoi romanzi d’amore. Cara a D’Annunzio, per la sua maniera di scrivere e descrivere, un po’ lontana dai canoni odierni, Amalia, Liala, morta quasi centenaria, nel 1995 (era nata nel 1897), di certo, non fa più sognare le giovani di oggi, ma è, senz’altro, resta una testimonianza letteraria di un mondo dorato, che un po’ torna di moda, nella nostra immaginazione. Pensiamo al grande successo di Rai1, con la fiction Il Paradiso delle Signore... Un mondo che, nel nostro immaginario, privilegiava la lealtà e i sentimenti forti, ma anche un mondo fatto di regole molto rigide, oggi inconcepibili, pur se, in esse, si faceva prepotentemente strada la libertà odierna. Le persone sono viste con

fa suo il modo di rapportarsi al pubblico, dei grandi narratori di avventura, cappa e spada e lo trasferisce alla storie d’amore. In questo, specie in Italia, è unica, nel suo genere.

ca maniera un po’ altezzosa di descrivere le donne e di dar loro un ruolo, mai retrogrado, ma spesso stereotipato, Liala, oggi, è una piccola grande eroina del suo tempo. L’evasione, diceva mia madre, consente di sentirti nella storia, come tutti i grandi autori. Ella GrafichÉditore di A. Perri - & 0968.21844

Leggete ancora Liala e mi rivolgo alle donne, principalmente, non siate impietose: in anni in cui, spesso, la cosiddetta letteratura femminile era messa all’indice (pensate che era all’indice persino MONTECRISTO e i MISERABILI), Liala rappresentò un piccolo faro nella letteratura popolare di fruizione femminile: i suoi romanzi, pur narrando storie per le donne, non furono osteggiati dalla censura e ciò, in un tempo in cui l’educazione femminile era rigida e ferrea, ha rappresentato, pur se non strombazzata, una discreta vittoria. Buona lettura d’antan, ma non senza emozioni. Lamezia e non solo


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