Lameziaenonsolo misto maggio

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LA ROYAL TEAM LAMEZIA SI FERMA SUL PIU’ BELLO MA RESTA UNA STAGIONE ECCEZIONALE

Qualche lacrima a qualche tifoso è venuta giù domenica 1 Maggio al PalaSparti al termine della semifinale di ritorno tra Royal Team Lamezia e Roma. Non è servita la vittoria (2-1) dell’andata, le lametine hanno perso 4-1 e dunque via libera per la finale per la A Elite alle avversarie romane. Alla fine applausi per tutti, anche ovviamente per la Pmb Roma gesto apprezzato dal suo tecnico Casini che ha avuto modo di elogiare la Royal per la sportività di società e pubblico! Chi ha mal digerito la sconfitta è sicuramente il patron Nicola Mazzocca, ma la delusione è durata giusto fino a lunedì seguente, poi ha manifestato la sua soddisfazione per quanto fatto in questa stagione. “A caldo è legittimo restarci male – inizia Mazzocca – ma è stata comunque una stagione eccezionale, in cui siamo mancati nell’ultima partita. Però faccio un plauso a tutto lo staff tecnico, alla squadra e al meraviglioso pubblico lametino. Vedere il PalaSparti pieno ci ha riempito di soddisfazione ed un pizzico di orgoglio per quanto abbiamo saputo creare in così poco tempo. Senza di-

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di Rinaldo Critelli

menticare le Final Eight di Pesaro, eliminati solo ai rigori. Il futuro? Siamo ripartiti dal martedì successivo alla semifinale di ritorno: ora sicuramente vogliamo migliorare, e spero che la città di Lamezia riesca a supportarmi di più e meglio per quanto fatto in questa stagione. Ringrazio davvero tutti gli sponsor e l’amministrazione comunale, in primis l’assessore Angelo Bilotta”. Secondi in campionato a -6 dal Bisceglie, finali di Coppa Italia battuti da chi ha poi vinto il titolo, la Thienese, play off promozione: cosa chiedere di più? Nella gara decisiva di inizio maggio purtroppo il cuore e il sacrificio della Royal non è bastato. Al di là dell’impegno non si possono regalare tre assenti all’avversario: ad iniziare dalla bomber Mirafiore, 23 gol stagionali, vera ‘regina’ della squadra; per passare al capitano Alessandra Marrazzo, esempio di professionalità ed attaccamento alla maglia messa k.o. da un infortunio già all’andata; per finire all’esperto bomber Tiziana Pota, squalificata fino al 30 giugno. Eviden-

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temente, ribadiamo nonostante l’impegno, la Royal ha perso tanto in fatto di esperienza e tecnica vera e propria, e così si è pagato dazio. Ciò dopo addirittura essere passati in vantaggio con super Samanta Fragola, tra i pilastri della squadra ed autrice di ben 12 reti stagionali. Purtroppo è venuta meno – la qual cosa è ovviamente accettabile – la verve di alcune calciatrici, che vanno elogiate per quanto fatto in campionato. Ci riferiamo alla ‘leonessa’…Anna Leone. Per la forte atleta capitano per l’occasione è stato un crescendo di forma: partita a rilento, s’è conquistata il posto da titolare con mister Carnuccio ed anche lei ha fornito il proprio fattivo contributo. Ma sono da menzionare tutte le ragazze della rosa: dal portiere Reda, a chi ha giocato di più nella semifinale come Loiacono, Linza (vice bomber stagionale con 16 gol), Imbesi, Bagnato, e chi ha giocato di meno quali Romola, Sirianni, Vezio, la stoica Scicchitano gettata nella mischia dopo 3 messi di inattività, e ancora Iellamo. Un pensiero anche per l’altra portiere Lucia Gonzalez, che per motivi di lavoro ha dovuto abbondare a torneo in corso. Un plauso ovviamente al tecnico Paolo Carnuccio (ed anche al suo predecessore Andrea Tulino): ha cercato di assemblare una rosa ‘variopinta’. Alcune, molte, all’esordio in Serie A. Ed esordio anche per Carnuccio avendo sempre allenato finora in campo maschile. Siamo certi che questa esperienza servirà anche a lui, magari per ripartire ancora più determi-

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nato. Menzione per il preparatore Pietro Mercuri, che ha lavorato dietro le quinte. Per passare a dirigenti e collaboratori quali Luciano Vasta, Tonino Scalise, Totò Gigliotti, Francesca Sirianni, Gianluca Verso. E come dimenticare i tanti tifosi presenti ogni domenica al PalaSparti e a quelli sempre presenti anche fuori casa, che si sono sobbarcate tutte le trasferte in Puglia, Basilicata e Sicilia. Menzione particolare alla presidente Claudia Vetromilo: spesso ha lasciato in avanscoperta il marito-patron Nicola Mazzocca, ma dietro le quinte senza urlare ha saputo tenere coeso il variegato gruppo di ragazze. E a premiare tutto ciò i tanti riconoscimenti tributati alla Royal dalla città e da fuori: ad iniziare dalla collaborazione con gli amici di Lucky Friends; a quelli dell’Autismo, all’Istituto per Geometri che ha voluto la Royal per inaugurare il campetto scolastico. Per non parlare dei complimenti ricevuti da tutta Italia per la splendida gara di Pesaro in Coppa Italia. Per finire alla famiglia Pagni col ds Danilo, che ha inteso premiare la Royal col 3° Premio “Dante Pagni”. Dulcis in fundo un appuntamento per gli sportivi lametini: la Royal Team ha anche vinto il torneo provinciale CSI. Ed il 2 giugno si confronterà contro squadre del reggino nella Final –Four per il titolo regionale. In caso di vittoria in palio lo scudetto-CSI con finali a Montecatini. Insomma, un altro obiettivo da inseguire per la Royal Team Lamezia!

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Fidapa Sezione di Lamezia Terme

Ricordando Giuliana

“Insieme per ricordare” , così Angela Frontera, attuale presidente della Fidapa, ha titolato la serata dedicata a Giuliana Borelli, e così è stato. Insieme: chi l’ha amata, conosciuta, stimata. C’erano tutti quella sera: i figli, Lisi, Paolo, Roberta, i nipoti, le amiche, persino gli alunni. “Ricordare, conservare nella memoria, rammentare” spesso si organizzano eventi per “ricordare”, altrettanto spesso questo ricordare viene vissuto come un evento che ci scivola addosso, resta un giorno, una data, un evento, perchè viviamo una vita all’insegna della frenesia e della mancanza di tempo; spesso è così, non sempre, per fortuna. La serata per Giuliana è stata una di quelle che appartiene alle eccezioni, perchè ci ha costrette a fermarci ed a pensare, perchè ha dischiuso emozioni sopite che sono così riemerse riportandoci indietro nel tempo, facendoci riprovare quelle stesse sensazioni avvertite nel momento in cui il narrato avveniva. Un plauso, per questa serata, alla presidente Frontera che fortemente l’ha voluta, poichè, donna sensibile ed attenta quale è, ha intuito l’importanza di questo volere rimembrare un’altra donna che ha lasciato, con la sua presenza discreta, ricordi importanti in ciascuno di noi, senza che noi stessi ce ne rendessimo conto, se non ritrovandoci e parlandone. Risate sommosse, lacrime furtive, applausi sentiti alle parole di chi la ricordava. Ed eccola Giuliana, nata a Catanzaro e trasferitasi a Roma perchè la mamma credeva che nella capitale i figli avreb-

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bero avuto una vita migliore, e lì vivere in un periodo particolare per l’Italia, la seconda guerra mondiale, che la ha vista protagonista nel triste bombardamento di San Lorenzo, evento che, probabilmente, l’ha segnata per sempre, facendola diventare la donna che è stata, entusiasta della vita, sempre pronta a mettersi in gioco, ad intraprendere nuove avventure, a rialzarsi dopo cadute. Ed eccola ancora, giovane vincitrice di concorso, che torna in Calabria per prendere possesso della cattedra. Noi tutte abbiamo avuto l’impressione di vederla, con la sorella, giovane e innamorata della vita, recarsi all’incontro con il direttore, con la gonna larga, la camicetta con un collettino grigio e le scarpe basse, ed il direttore che continuava a rivolgersi alla sorella perchè la giudicava troppo giovane per essere un’insegnante, noi tutte l’abbiamo vista ridere divertita ed allargare le braccia alla vita, appena uscita dall’incontro. Eccola fra i banchi, giovane e sensibile, sedersi accanto all’alunno che s’accorgeva essere a disagio, per parlargli, conquistarne la fiducia, farlo sentire come gli altri, integrarlo nella classe. Oppure quando tornava a casa, dopo ore di scuola, e preparava, senza scomporsi, tagliatelle o gnocchi, o quando organizzava le sue serate, carnevale o compleanno che fosse, lei riusciva sempre ad essere originale ed a stupire, piacevolmente, gli ospiti. Giuliana Insegnante e Mamma di tutti i suoi alunni, come s’è intuito dalle loro parole. E per finire Giuliana poetessa, scrittrice. Nei versi delle sue poesie, in alcune frasi del suo diario c’era lei, i suoi dolori, le sue paure, i suoi desideri, c’erano i suoi sogni: due ali, due ali per potere ancora “viaggiare”. Questa era Giuliana, piccola e forte, grande lottatrice che ha combattuto, sorridendo, fino alla fine. Noi tutte abbiamo avuto l’impressione che, quella sera, lo spirito di Giuliana fosse lì insieme a noi, e che ci sorridesse con quel suo modo particolare, e che ci stringesse tutti nel suo abbraccio caldo. Non frasi fatte a concludere questo scritto ma alcune frasi della lettera, suggestiva e commovente, che Roberta ha scritto per lei quando ci ha lasciate: “ ... Giuliana è stata una mamma sorridente, spiritosa e simpatica, dalla risata coinvolgente fino alle lacrime, una mamma per la quale tutto era realizzabile e realizzato con facilità e rapidità, una mamma che sapeva perdonare anche se la ferivi profondamente ... ... Giuliana è stata una mamma guerriera che ha sempre combattuto con le armi della dolcezza e dell’intelligenza, che ha superato le delusioni e i dolori che a tutti, nessuno escluso, la vita riserva ma che si è sempre rialzata, più volte, con tenacia. ... Ringraziamo il Signore per averci dato il privilegio e la fortuna di essere stati suoi figli Grazie Giuliana, grazie mamma”

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Fidapa & Lions Club - Lamezia Terme

Filippo Frontera

astrofisico di fama internazionale, ospite della Fidapa e del Lions Club

Organizzato dalla FIDAPA, sezione di Lamezia Terme, e dal Lions Club di Lamezia Terme, il 16 aprile scorso si è svolto presso l’Auditorium del Liceo “Tommaso Campanella” di Lamezia Terme un importantissimo convegno che ha visto relatore il Prof. Filippo Frontera, astrofisico di fama internazionale, Professore all’ Università di Ferrara e Associato all’Istituto Nazionale di astrofisica presso L’Istituto di astrofisica spaziale e Fisica Cosmica dell’Università di Bologna. L’incontro si è articolato in due sessioni; la mattina con gli studenti dell’ Istituto ospitante ove l’illustre relatore ha intrattenuto i ragazzi su tema “ L’ Universo Violento ai raggi X” e il pomeriggio, con la cittadinanza, sul tema “ La visone dell’universo dalle origini ad oggi” .

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A fare gli onori di casa all’illustre ospite sono stati il Dirigente Scolastico Prof. Giovanni Martello, la Professoressa Angela De Sensi Frontera, presidente della Fidapa, e l’Avvocato Roberto Rocca, Presidente della Zona 27 del Distretto Lions 108 YA. E’ inoltre intervenuto, portando i saluti della Città, il Sindaco Avvocato Paolo Mascaro accompagnato, per l’occasione, dalla gentile consorte Dott.ssa Luigia Spinelli. Il Prof. Filippo Frontera, dopo essersi laureato in Fisica con lode presso l’ Università di Bologna, ha dedicato la sua vita alla ricerca e all’insegnamento universitario. Professore di Astrofisica presso l’Università di Ferrara nonché Associato all’Istituto Nazionale di Astrofisica presso l’Istituto di Astrofisica Spaziale e Fisica Cosmica di Bologna. Per Otto anni è stato Coordinatore del Dottorato in Fisica dell’Università di Ferrara. Sin dalla laurea ha svolto la sua attività scientifica nel campo dell’astronomia in raggi X. Ha avuto la responsabilità di numerosi esperimenti di astrofisica in raggi X tra cui gli esperimenti di alta energia PDS e GRBM effettuati a bordo del satellite BeppoSax messo in orbita il 30 Aprile 1996 dalla base di Cape Canaveral. In particolare, l’esperimento GRBM ha avuto un ruolo cruciale nella scoperta avvenuta nel 1997 dell’Origine dei Lampi di Raggi Gamma e tale scoperta per due anni (1997 e 1998) è stata classificata dalla rivista americana “Science” tra le “Top Ten” della scoperte più importanti dell’anno in tutti i campi della scienza. Grazie alle sue scoperte, il prof. Frontera, ha ricevuto vari premi e riconoscimenti internazionali tra cui il prestigioso “Premio Fermi 2010” della Società Italiana di Fisica ed ha ricevuto a Stoccolma

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il Marcel Grossman Award 2012. L’ ISI Web of Knowledge di Baltimora, per l’altissimo numero di citazioni dei suoi lavori, lo ha incluso tra i ricercatori italiani più citati al mondo. Per i suoi successi il Presidente della Repubblica lo ha recentemente insignito del titolo di Commentatore al Merito della Repubblica Italiana. Le attività in corso sono sia osservative che sperimentali. Tra queste ultime ve n’è una molta ambiziosa: lo sviluppo di lenti focalizzanti per raggi gamma per mezzo delle quali ci si attende un miglioramento della sensibilità degli attuali strumenti di 2/3 ordini di grandezza ed ottenere, così, il loro utilizzo nel campo della radioterapia. Molto apprezzati dai presenti sono stati i contenuti scientifici porti con mirabile semplicità dal relatore pur nella complessità e profondità degli aspetti trattati, rispetto ad una tematica tanto importante quanto affascinante. L’uditorio infatti, folto e attento, alla fine dei lavori, ha interagito positivamente con interventi e domande cui il Prof. Frontera ha dato riscontro attraverso compiute quanto accessibili risposte che hanno senz’ altro appagato le curiosità dei presenti. Tutto ciò si è reso concretizzabile grazie alla sinergia dei due Club Service coinvolti i quali, in collaborazione, hanno offerto alla comunità un segno tangibile del loro operare in attuazione dei rispettivi fini statutari. Per ciò che riguarda il Lion, esso nasce nel 1917 dalla felice intuizione di un uomo d’affari di Chicago, Melvin Jones, che visse con l’idea che “Non si può andare lontano se non si fa qualcosa per qualcun altro”. Il Lion, presente a Lamezia Terme da 56 anni, presieduto per l’anno sociale in corso dal Dott. Giuseppe Costanzo, è l’Organizzazione di servizio più grande al mondo, con

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oltre 1,3 milioni di soci, operativo in 211 paesi. I soci sono accomunati dalla volontà di perseguire comuni ideali di solidarietà scegliendo di essere attori e promotori di un volontariato molto speciale, facendosi sostenitori di iniziative nei diversi ambiti della solidarietà, della cultura, della cittadinanza attiva, disponibili alla collaborazione e alle sinergie con tutte le realtà locali aperte al dialogo, allo scambio e all’arricchimento reciproco. La Fidapa Bpw Italy ( Federazione Italiana Donne Arte Professioni e Affari) è un’associazione operante in Italia che vede iscritte 11300 socie e appartiene alla Federazione Internazionale IFBPW ( International Federation of Business and Professional Women) costituita negli Stati Uniti d’America dall’avvocatessa Lena Madesin Philips nel 1930. Quest’ultima intendeva portare la parità di genere in tutto il mondo e migliorare le condizioni di vita di tutte le donne. La Fidapa, presente in 80 Nazioni, è stata costituita in Italia, a Roma, dalla Prof.ssa Maria Castellani ed è operante a Lamezia Terme dal 1970 allorché fu costituita dalla Prof.ssa Angelica Branca Biacca, prima Presidente di Sezione. Tra le socie fondatrici la Prof.ssa Angela De Sensi Frontera, attuale Presidente della sezione Fidapa di Lamezia Terme. La circostanza che il Prof. Frontera abbia lasciato a sedici anni la natia Savelli per continuare gli studi presso il Liceo Classico e l’Università, entrambi a Bologna, per poi seguire una brillante carriera accademica e scientifica, ricca di risultati, non può che inorgoglire i calabresi tutti per questo figlio della nostra terra che tanto lustro ed onore ha dato e sta dando anche oltre i confini nazionali. Del resto l’amore del Prof. Frontera verso la sua terra, ove è sempre tornato con piacere, ha trovato concreta espressione nella recente realizzazione, proprio a Savelli, di un Osservatorio astronomico.

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Daria Pelaggi e le sue pennellate Sento in me… Sento in me un’emozione strana come una pena, ma lontana. E sento una grande esultanza qualcosa come una danza. Forse perché la brezza mi percorre leggera la sua carezza fin tra i capelli scomposti mi trascorre. Gioca con la mia veste. Da una vaga lontananza bianco-cerulea una fragranza salmastra percorre la piana. È come una voce che chiama è come un esile canto

che sa di gioia e di pianto un canto che suona più lieve un canto che suona più greve… Oppure…come un silenzio. Ondeggia secondo il vento. e sfiora i pendii più vicini sospira attraverso le fronde dei pini. Dal mare che non vedo a me viene la pena e la danza. È il mare a cui aspiro, a cui cedo. Non è il mare, è la sua lontananza. (Dalia Pelaggi, 23 ottobre 1997)

“È come una voce che chiama” quel sottile e profondo senso di beatitudine che è possibile trovare tra le pennellate di Dalia Pelaggi. Una “voce” che ci desta dalla quotidianità frenetica e rumorosa per invitarci a visitare un mondo affascinante, dove tutto appare leggero e colorato, quieto e rassicurante, sconosciuto a coloro i quali si lasciano sopraffare dalla razionale e materiale visione delle cose. I paesaggi e gli sguardi dipinti con mano delicata, testimoniano la sua straordinaria sensibilità che avvolge, come un canto, anche le nostre emozioni più recondite. Una parte di lei non può più raccontarci di quei luoghi visitati e di quelle espressioni dolci e raffinate fissati nelle opere, ma i suoi versi e le sue storie parlano della propria esistenza e fanno da cornice ad un’esposizione pittorica di mirabile intensità, che conduce noi fruitori all’interno di un mondo da cui una volta entrati, diviene difficile allontanarsi. Forse perché ognuno di noi vorrebbe dare consistenza alle proprie sensazioni, voce ai pensieri e colore ai ricordi. A questo proposito infatti, sembra naturale ritrovarci tra le fronde dei suoi alberi, tra le braccia della Vergine Maria, tra le case e i monti, tra le persone intente a compiere gesti semplici e nobili che rendono ricca ogni esistenza: annaffiare i fiori, suonare il violino, guardare lontano, specchiarsi nei laghi, perdersi nei propri pensieri. Gesti di cui Dalia amava circondarsi, perché semplice era la sua persona

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e il suo talento seppur carichi di grande coinvolgimento emotivo. Tra infinite qualità, possedeva il dono di trasferire sulla tela, sulla tavola di legno o su supporti occasionali la propria visione della realtà, a volte circondata da atmosfere medievali altre avvolta da autentica umanità con pennellate semplici ed essenziali ma finalizzate a trasmettere al mondo il suo essere sensibile e poetico. Poesia sono i suoi quadri, i suoi scritti, poesia era il suo sentirsi “vita” in un mondo che difficilmente accetta le persone umili e sognatrici che avvertono, della vita, quella “pena” e quella “danza” spingendole a cercare rifugio nelle infinite forme d’arte per trovare conforto e leggerezza. È risaputo che l’arte rappresenti un momento di catarsi, di liberazione. Qualsiasi atto creativo porta ad una consapevolezza che raramente si riesce a spiegare a parole. Quindi lasciamoci andare nelle atmosfere che ha sapientemente dipinto, leggiamo le sue poesie e lasciamoci emozionare dalle pagine della sua delicata fiaba “Fuga dal castello”, scappiamo assieme a Primula per cercare la fata e con lei riflettiamo su come poter salvare quei legami dell’esistenza che spesso, senza neanche darci il tempo di rendercene conto, cambiano. Abbandoniamoci alle emozioni, e fermiamoci un attimo a pensare e a sognare. Sicuramente, dopo ci sentiremo un po’ più ricchi perché porteremo con noi una parte del suo modo artistico di vedere la vita, una parte che può insegnarci a rendere speciale e unica ogni visione della realtà. (Miriam Guzzi) “I quadri di Dalia” Retrospettiva delle opere pittoriche di Dalia Pelaggi Dal 15 al 22 Maggio 2016, ore 18 - 20 Associazione Culturale “Altrove” Via Lissania 18 Lamezia Terme (CZ)

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UNITER - Lamezia Terme

Uno dei grandi misteri dell’epoca sovietica: la morte del poeta Vladimir Majakovskij Suicidio o omicidio? Alle 10 del mattino del 14 aprile del 1930 un colpo di pistola al cuore pose fine alla vita del massimo poeta della rivoluzione bolscevica, Vladimir Majakovskij. Aveva trentasette anni. “Giaceva su un fianco, la testa verso la parete, tetro, il lenzuolo fino al mento, la bocca semiaperta, come uno che dorme … Aveva l’espressione con cui si comincia a vivere, non si finisce”. Così scrisse Boris Pasternak accorso tra i primi nella “stanzabarchetta”, come Majakovskij stesso chiamava il suo studio, 11 metri quadrati, un lusso per quei tempi, ubicato in un appartamento in coabitazione con quattro famiglie. In seguito anche se tra i due, non c’era mai stata gran simpatia, l’autore del “Dottor Zivago” dedicherà a Majakovskij una delle sue più belle poesie dal titolo: “In morte di un poeta” . Per il funerale del bardo della rivoluzione si erano radunati più di centomila persone tra gente comune, proletari, letterati, poeti, agenti della polizia segreta, spie e burocrati non certamente di alto rango, infatti non un notabile del Partito era presente. Quella folla immensa aveva seguito il feretro attraversando le strade di Mosca con i balconi dei palazzi listati a lutto da drappi neri mentre i Professori della Filarmonica moscovita suonavano la Marcia funebre di Chopin. Poi, dopo l’estremo saluto da parte di amici e nemici, davanti al Crematorio si udirono le note dell’Internazionale. La morte del primo poeta della Russia comunista, a cui fu prelevato il cervello perché gli scienziati del GIM (Istituto statale del cervello) potessero studiarlo per carpirne il segreto della grandezza e della genialità, operazione che non diede il ben che minimo risultato -(perché la poesia o ce l’hai o non ce l’hai)-, fu per tutta la nazione e non solo un evento tragico e simbolico che ebbe l’effetto di suscitare molte ipotesi perché alla versione ufficiale di un suicidio per ragioni private si contrapposero ragioni che andavano cercate nella disillusione per la piega che stava prendendo la rivoluzione sovietica. Attraverso il libro di Serena Vitale “Il defunto odiava i pettegolezzi” (2015), che si presenta sotto forma di inchiesta con una base storico-letteraria, ripercorreremo gli eventi misteriosi che precedettero quella tragica morte, conosceremo la figura del poeta “tanto amato e vilipeso, altezzoso e tenero, impaziente e pietoso, con un corpo da gigante alto più di un pag. 10

metro e novanta, partorito da chissà quale Golia in una notte di gelo”, ricorderemo il tempo in cui visse e rievocheremo l’atmosfera di quell’epoca, facendo anche nostra la raccomandazione di Marina Caetaeva riportata in epigrafe dall’autrice: “In primo luogo quando parliamo di un poeta, voglia Dio che ricordiamo sempre il secolo in cui visse. In secondo e opposto luogo: parlando di Majakovskij, dovremmo ricordare sempre non soltanto il secolo – ci toccherà sempre ricordare un secolo avanti… Con il suo passo veloce è arrivato lontano, molto lontano dal nostro tempo, e da qualche parte, dietro qualche angolo, gli toccherà aspettarci ancora a lungo”. Certamente Serena Vitale con il suo libro realizza quanto affermato dalla poetessa russa, amica di Volodja, gli rende omaggio e lo fa parlare con i posteri. Majakovskij era nato nel 1893 in un piccolo paese della Georgia e, morto il padre, a tredici anni si era trasferito a Mosca con la madre e le due sorelle. Giovane difficile e ribelle nel 1908 aderì al Partito operaio socialdemocratico russo, venne arrestato per tre volte per attività clandestina e poi rilasciato dalla polizia zarista (zar Nicola II). Nel 1911 si iscrisse all’Accademia di Pittura, Scultura e Architettura, poi nel 1912, giacché le novità delle avanguardie artistiche parigine erano già conosciute a Mosca, M. entrò a far parte attivamente del movimento futurista russo, detto anche cubofuturismo, il cui manifesto dichiarava il distacco dalle rigide regole poetiche del passato, la volontà di una rivoluzione lessicale e sintattica e l’assoluta libertà nelle scelte stilistiche. Dal 1913 M. cominciò a pubblicare raccolte di poesie e testi teatrali, dove lanciò la famosa equazione “futurismo=rivoluzione”. Nel 1915 pubblicò ”La nuvola in calzoni” e nel 1916 “Il flauto di vertebre”, due poemi in cui mise la sua arte al servizio della rivoluzione bolscevica sostenendo la necessità che la poesia, capovolgendo i valori sentimentali e ideologici del passato, divenisse espressione della rivoluzione. M. credeva sul serio che potesse nascere una nuova umanità comunista basata sull’uguaglianza e che la Russia potesse esserne il faro, il faro di una società più giusta. Come futurista M. combatté contro il cosiddetto “vecchiume” cioè contro l’arte e la letteratura del passato per realizzarne una nuova che fosse costruzione della vita, proponendo che i testi letterari avessero una finalità precisa e un pubblico definito. Trovò però opposizioni e censure da

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parte del regime zarista prima e poi da parte di quello staliniano. “La nuvola in calzoni” è ritenuto un capolavoro ed è tra i testi più significativi del futurismo russo e della letteratura russa del ‘900. E’ un poemetto che “trabocca forza lirica tesa, appassionata, dissacrante, antiborghese, antifilistea e soprattutto libertaria”. “L’eroe lirico cerca l’amore di una donna, l’amore tra gli uomini e l’amore universale tra l’uomo e il cosmo”. Nell’opera è presente “la rivolta contro una società ingiusta, contro i lazzaroni di tutti i tempi, una rivolta che trova solo il rifiuto, il silenzio dell’universo e di Dio”. Quindi nei versi di M. l’amore e la rivoluzione sembrano darsi convegno per sconvolgere la realtà circostante devastando il conformismo del passato e annunciando la libertà e la bellezza di un futuro prossimo. Nel 1925 M. partì per gli Stati Uniti e tornato in URSS pubblicò 22 poesie dal titolo “Ciclo americano” che celebrano le conquiste tecnologiche di quel paese e in seguito testi in prosa con il titolo “La mia scoperta dell’America”, da queste opere si evincono talvolta giudizi positivi e altre volte fortemente negativi per le condizioni di semischiavitù degli operai delle fabbriche. In “Mistero buffo”, commedia in tre atti più il prologo, descrive quanto di grande e di comico ci fosse nella rivoluzione. I poemi: “Bene!” e “Lenin” e le commedie “La cimice” e “Il bagno” stigmatizzano il filisteismo di ex rivoluzionari diventati burocrati e denunciano il ritorno all’ordine che aveva ucciso la bella utopia del socialismo, contengono propaganda proletaria, criticano il mondo piccolo borghese evidenziando i problemi della vita quotidiana. Il prologo del poema incompiuto “A piena voce” del 1930 rappresenta un momento di alta poesia, è il testamento spirituale di M, un messaggio al futuro. Il poeta credeva davvero che ci sarebbe stata una società migliore, “senza storpi, monchi e mendicanti”. Il titolo del libro “Il defunto odiava i pettegolezzi” è tratto da una lettera d’addio trovata nello studio del poeta che sembra confermare ragioni strettamente personali per la sua morte, “A tutti”: ”Non incolpate nessuno della mia morte e, per piacere, non fate pettegolezzi. Il defunto li odiava. Mamma, sorelle e compagni, perdonatemi – non è questo il modo (non lo consiglio ad altri) ma non ho vie d’uscita. Lilja, amami. Compagno governo, la mia famiglia è composta da Lilja Brik, mia madre, le mie sorelle, e Veronika Polonskaja. Se per loro organizzerai una vita tollerabile – grazie. Le poesie già iniziate datele ai Brik, ci penseranno loro. Come si dice – l’incidente è chiuso, la barca dell’amore si è schiantata contro l’esistenza quotidiana. Io e la vita siamo pari e a nulla serve l’elenco dei reciproci dolori, disastri, offese. Buona permanenza al mondo. Vladimir Majakovskij”. Questa lettera se autentica non lascerebbe dubbi sul suicidio ma se invece fosse un falso e il suicidio un ben orchestrato omicidio? Un complotto? La lettera è scritta a matita e non a penna come M. era solito fare e con la matita è più facile imitare la calligrafia altrui, e poi è datata 12 e non 14 aprile, che cosa nel frattempo è andato storto? Alcuni versi riprendono espressioni presenti in altre opere di M. e il tono, poi, non è sicuramente quello che lui avrebbe usato. Nel dramma del 14 aprile il poeta è sì il protagonista ma non bisogna dimenticare quei personaggi che ebbero Lamezia e non solo

ruoli importati durante la sua breve vita e che sono anche citati nella lettera. Nel 1915 M. incontra l’attrice Lilja Brik che diventa la sua musa e amante, Lilja è sposata con Osjp Brik, imprenditore, redattore di giornali e appassionato filologo. Il matrimonio però non costituisce un problema per gli amanti anzi i coniugi e il poeta riescono a creare un singolare rapporto fatto d’amore, amicizia, un ménage à trois che nel 1919 li porta a convivere nello stesso appartamento. La stranezza di questo rapporto è che comunque nessuno dei tre sarà sempre fedele all’altro. Inoltre Serena Vitale riporta una quartina attribuita al poeta Sergej Esenin, morto anche lui suicida, che crea ulteriori misteri su tutta la vicenda: ”Credete che Brik Osja/ si interessi di poesia?/ uno sbirro, in verità/ scrive in prosa alla Ceka…” e anche la condotta di Lilja non è sempre trasparente, anche lei aveva rapporti con i servizi segreti. Quando M. muore i due sono lontani, sono in viaggio in Europa, come mai? di passaggio a Berlino vengono avvisati della morte, da chi?. Nel 1929 sono proprio i coniugi Brik a organizzare l’incontro tra il poeta e la bellissima attrice ventiduenne Veronika Polonskaja, detta Nora, per fargli dimenticare un’altra donna, conosciuta a Parigi nel ’28, la modella Tat’jana Jakovleva di cui Volodja era follemente innamorato, che però preferirà sfilare per Coco Chanel e non seguire il poeta. L’autrice, Serena Vitale, aiutata dalla possibilità di consultare una gran mole di documenti conservati nell’Archivio del Comitato centrale del PCUS non più secretati ma resi accessibili fin dal 1991, aiutata da testimonianze vere o false fornite da contemporanei e da articoli di giornali del tempo, tenta di ricostruire i fatti che causarono quella morte misteriosa e si chiede: fu davvero suicidio?, e se si perché? forse per amore? M. si è suicidato come un borghesuccio qualunque perché l’amante, Veronica Polonskaja, lo aveva definitivamente respinto non volendo divorziare dal marito? O forse si è ucciso perché era malato di sifilide, considerata malattia del capitalismo, come qualche pettegolo maligno aveva scritto? – cosa assolutamente non vera come fu dimostrato dall’autopsia - o forse M. si è tolto la vita per riacquistare quella popolarità che negli ultimi tempi aveva visto diminuire? O ancora ha forse premuto il grilletto da solo usando la mano sinistra lui che era mancino? O ha messo in atto una specie di roulette russa, perché aveva una strana attrazione verso la morte come fecero trapelare i coniugi Brik? (la Mauser o la Browning sono armi semiautomatiche non hanno un tamburo rotante) o è stato ucciso dalla polizia segreta perché era diventato inviso al regime per la sua critica verso la burocrazia staliniana, verso un sistema politico tirannico, espressa nelle due opere teatrali La Cimice e Il Bagno, già citate, che non ebbero il successo sperato? o fu qualche agente della polizia politica di Stalin a sparalo al cuore entrando da una scala esterna, poi sparita, che arrivava direttamente nel suo studio dove fu trovato il suo cadavere? o, peggio ancora lo hanno suicidato, cioè lo hanno indotto al suicidio, lo hanno istigato a suicidarsi come farebbe pensare anche la nota che il regista e sceneggiatore russo Sergej Ejzenstejn scrisse sul proprio diario: “… Così, sul campo, è morto Majakovskij … Stava come un

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macigno sulla strada di tutti coloro che volevano attentare alla sacra causa del comunismo … Bisognava farlo fuori … Uccidere una persona con le sue stesse mani è la più terribile forma di omicidio, sacrilega e crudele”. E’ certo che M. fosse continuamente sorvegliato, finanche durante gli incontri culturali al LEF (Fronte di sinistra delle arti), da lui fondato nel 1923, prendevano parte sinistri uomini dei servizi segreti di Stalin, come Agranov. Majakovskij era dunque diventato un uomo “ingombrante”, non lo era solo fisicamente tanto da non entrare nella bara, come qualcuno dei presenti ricorda, ma lo era diventato anche politicamente ed era ”vulnerabile e ingombrante pure da morto”. Il mistero della sua morte rimane tuttora un mistero favorito dalla sua aggrovigliata vita sentimentale, dalle gelosie e dai rancori degli ambienti letterari e soprattutto dal ripudio da parte della Nomenklatura. Anche riguardo all’arma che lo ha ucciso c’è mistero, a sparare fu una pistola Mauser come stabilì il medico legale o una Browning come risulta dai documenti originali che elencano i materiali che riguardano la scena del suicidio? o una Bayard? M. ne possedeva più di una, amava le armi e le collezionava. Un’arma fu fornita al poeta con insistenza da agenti del NKVD (commissariato del popolo per gli affari interni, una polizia politica nelle mani di Stalin per controllare partito e società sovietica) che gli fecero capire che quella era una disposizione pervenuta dall’alto per cui doveva accettarla. E ancora forti contraddizioni si rilevano riguardo all’esatta posizione del cadavere, la testa era rivolta verso la porta o verso la finestra?, le testimonianze sono tante e contraddittorie. Anche la versione dell’amante, Veronika, che era con lui quella mattina, mostra molte incongruenze. Forse anche lei non era del tutto estranea all’OGPU – Ufficio politico di Stato di tutta l’Unione sovietica -. Come unico testimone diretto racconta che era appena uscita dallo studio del poeta, dopo una tragica conversazione, quando “echeggiò uno sparo”, tornata sui suoi passi –dice- “nella stanza c’era ancora la nube dello sparo” (le armi semiautomatiche non producono fumo) “e sul tappeto giaceva il poeta con le braccia spalancate”, ma nemmeno dopo tanti anni aggiunge prove con-

crete ai sospetti e al mistero che hanno sempre circondato la morte del poeta. Secondo la stampa russa più recente il poeta era già “condannato” dal 1922 da quando aveva fatto nel poema “Il bagno” il ritratto satirico di Stalin, che si vantava di aver compiuto grandi gesta, e da quando in altre poesie aveva messo alla berlina le orde dei burocrati che a suo giudizio strangolavano la rivoluzione e anche perché durante il viaggio negli Stati Uniti, organizzato perché cercava di svincolarsi dal legame sempre più opprimente dei Brik, aveva celebrato le conquiste tecnologiche dell’America. Qui aveva iniziato una relazione con Elizaveta Zibert (negli USA Elly Jones) da cui ebbe una figlia, Patrizia Thompson nata nel 1926 e morta da pochi mesi. Nel 1930 M. aveva ormai perso del tutto i favori del regime staliniano, infatti una cosa è certa nell’URSS degli anni ’30 non c’è più spazio per l’individualismo. Nemmeno per quello di M. E lui lo sapeva. In una Russia puritana, che ancora negli anni trenta celebrava la famiglia tradizionale, la tesi del dramma privato alla base del suicidio di M. sembrò quindi possibile anche perché trovava, purtroppo, giustificazioni nella sua vita privata certamente turbolenta con tante donne e tante amanti. Era stato considerato il precursore della Rivoluzione bolscevica, adesso gli si rimprovera di lasciarsi trascinare dai sentimenti privati, gli si rinfacciava l’evidente lirismo delle sue opere mentre lo Stato imponeva come stile un piatto naturalismo. M. era ormai un corpo estraneo al sistema, emarginato dalla Nomenklatura. Comunque alla fin fine non importa se fu un omicidio o un suicidio o un suicidio indotto, la verità è che M. fu immolato al potere staliniano. Serena Vitale scrive: “Bisognava presentare all’opinione pubblica straniera la morte di Majakovskij come quella di un poeta-rivoluzionario morto per un dramma privato perché il suicidio è inammissibile lì dove solo lo Stato ha licenza di eliminare i propri sudditi. Equivale a disubbidienza, ammutinamento, diserzione”.

L’angolo della Poesia

Mistero

Dormiva su un letto d’erba smeraldo. Una stella il guanciale nuvole le coltri. Isuoi capelli al vento intrecciati alle cime degli alberi: un’arpa.

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Dita sottili muovevano le corde: onnipossente musica. Angeli, scintillio d’oro nella sera

Primavera

Si rinnova il canto delle rondini sotto la grondaia.

Esplode la rosa sul muro, sussurra segreti all’ape di miele vestita

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Il costituzionalista Di Giacomo Russo alla Scuola di Dottrina Sociale: Si va verso la Repubblica dei Comuni Apriamo una stagione piena di incognite, in cui si può cominciare a parlare di repubblica dei Comuni”. Così il costituzionalista Bruno di Giacomo Russo nell’incontro che si è tenuto nella giornata di ieri nella sala riunioni del Comune di Lamezia Terme, insieme a sindaci e amministratori locali del comprensorio lametino, per parlare della Riforma Delrio a due anni dalla sue entrata in vigore. L’incontro si inserisce nel percorso formativo della Scuola di Dottrina Sociale della Chiesa promossa dalla Diocesi di Lamezia Terme e coordinata dall’Ufficio per la Pastorale Sociale e del la-

voro diretto da Don Fabio Stanizzo. “A due anni dall’entrata in vigore della legge n. 56/2014, dobbiamo riconoscere che sono tanti gli ostacoli e le inadempienze che non ne consentono una piena attuazione. Pensiamo alle fusioni di Comuni, che procedono a rilento. Oppure al fatto che le Regioni tendono a rinviare l’individuazione delle funzioni fondamentali e il trasferimento delle funzioni dalle Province, perché questo comporterebbe per gli enti regionali un aggravio di costi. In questo quadro, la direzione è però ormai segnata: si va verso l’obiettivo di avere meno Regioni e meno Comuni, per un’organizzazione più snella ed efficiente dello Stato, corredata dalla costituzione delle Città Metropolitane che avranno una funzione strategica sul piano economico”, ha affermato il docente dell’ Università Bicocca di Milano indicando nei Comuni “che si troveranno ad assumere molte funzioni prima attribuite alle Province, i veri protagonisti della nuova fase amministrativa aperta dalla Riforma Delrio”. Al netto delle incognite e dei rallentamenti, per Di Giacomo Russo la direzione indicata dalla Riforma Delrio è ineludibile “perché vuole soddisfare delle esigenze fondamentali alle quali ci ha richiamato l’Unione Europea, a partire dalla razionalizzazione dei centri di spesa sul territorio nazionale attraverso una semplificazione dei livelli di governo. La riforma

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Delrio ci spinge verso un modello di amministrazione caratterizzato dalla sussidiarietà, dalla differenziazione, dalla flessibilità e dall’adeguatezza. La strada è tracciata – ha concluso il docente – ora tocca agli enti locali accellerare questo percorso, a cominciare dai processi di fusione dei Comuni più piccoli e del trasferimento da parte delle Regioni delle funzioni amministrative delle Province, senza più rinvii. Solo così anche i cittadini potranno avere effetti concreti e tangibili da questo processo riformatore”. Ad aprire l’incontro, l’intervento del Sindaco Paolo Mascaro che ha evidenziato come “Lamezia, nascendo dall’unione di tre Comuni, sia stata antesignana di quei processi di razionalizzazione e semplificazione contenuti nella riforma Delrio”. Dal primo cittadino, un ringraziamento alla Scuola di Dottrina Sociale della Chiesa per “il lavoro prezioso di promozione del magistero sociale della Chiesa e perché ci permette di confrontarci per imparare come amministratori ad essere più vicini ai cittadini, a valorizzare le risorse del territorio e a non sprecarle”. Un incoraggiamento a proseguire sulla strada della collaborazione tra l’amministrazione pubblica e la Chiesa da parte del Vescovo Luigi Cantafora che, di fronte a tanti amministratori del comprensorio, ha ricordato “la vocazione propria di Lamezia di mettere insieme tutte le realtà del territorio. Lamezia può crescere solo stando insieme, superando gli interessi e gli steccati, in nome del bene comune”. L’incontro di oggi – ha ricordato Don Fabio Stanizzo in apertura dei lavori – “si inserisce nel percorso del X anno della Scuola di Dottrina Sociale della Chiesa che quest’anno ha come filo conduttore la riflessione sull’Enciclica “Laudato si’…” di Papa Francesco. Un documento importante del Magistero sociale della Chiesa che parla a tutti gli uomini di buona volontà, per realizzare un’ecologia integrale dell’uomo e dare risposte evangeliche alle grandi questioni sociali, economiche e ambientali del nostro tempo”.

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L’ORA DI CINEMA EXTRA presenta: INCONTRI AL CINEMA

Giuseppe Piccioni e Pupi Avati a Lamezia Terme

L’Ora Di Cinema, patrocinata dal Comune di Lamezia Terme, sponsorizzata dalle Assicurazioni GENERALI, e ideata dal Direttore Artistico GianLorenzo Franzì, dopo il successo riscosso con le scuole di Lamezia Terme (quasi mille ragazzi coinvolti in due mesi di programmazione) ha presentato due incontri extra, con due registi italiani di statura artistica indiscussa: il candidato all’Oscar -nel 1999, con Fuori Dal Mondo- Giuseppe Piccioni, due volte premiato con il massimo riconoscimento italiano nel cinema, il David Di Donatello; e il candidato all’Oscar come miglior film straniero -con Il Testimone Dello Sposo e con Il Cuore Altrove- Pupi Avati, tre volte vincitore David, quest’ultimo un vero e proprio pezzo di storia della settima arte. Due registi, due sensibilità, due grandezze assolutamente parallele ma diversissime. Sia Piccioni (classe 1953, nativo di Ascoli Piceno) che Avati (1938, Bologna), portano avanti un cinema fieramente, orgogliosamente, coraggiosamente e meravigliosamente “provinciale”, nel senso migliore possibile: perché le storie raccontate nei loro film sono piccole storie che raccontano di piccole persone ritratte nello spaccato, più lirico possibile, delle loro quotidianità: ma se nei film di Piccioni -autore poco prolifico, nove film in venticinque anni- succede poco e niente e la narrazione è soprattutto introflessa, ripiegata su sé stessa ad indagare i coni d’ombra e le solitudini dell’anima, in quelli di Avati -personalità sommessamente strabordante come la sua filmografia, ben quaranta film in quarantaquattro anni- il mondo raccontato è filtrato dalla sensibilità emiliana dell’autore con colori e profumi, suoni e caratteri declinati in mille maniere differenti, tutto teso a restituire la varietà dell’intimo umano. La filmografia di Pupi Avati, alla luce di quasi un film all’anno dal 1970, può ormai essere codificata con le stimmate dell’autore, perché si è autori quando ogni film racconta sempre la stessa cosa, la stessa “ossessione”, ma in modo sempre differente: e la cifra stilistica avatiana è quella che ricollega l’amicizia e l’amore come i due grandi poli attorno a cui ruota ogni singola vicenda dei suoi personaggi, sempre però in balia di un destino non cieco ma profondamente religioso. Giuseppe Piccioni invece ha iniziato a trovare la sua giusta

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dimensione forse solo con il suo quinto film, il pluripremiato capolavoro Fuori Dal Mondo: descrivendo quel sottile dolore che attraversa le esistenze di chi vive appunto “fuori dal mondo”, ovvero chiunque non riesca a stare al passo con il suo tempo, per un impercettibile scarto dell’anima che lo lascia indietro o di lato, ma sempre e comunque isolato dal resto della collettività. Sono poi i luoghi a raccontare le storie: una lavanderia (Fuori Dal Mondo), una piscina (Giulia Non Esce La Sera), un taxi (Luce Dei Miei Occhi), un set (La Vita Che Vorrei), o ancora una scuola (Il Rosso E Il Blu), luoghi destinati a far incontrare i suoi dropline e a far toccare le loro esistenze parallele ma mai incrociate, nel disperato tentativo, mai pago, di ricucire gli strappi che il cuore ha subito. Proprio sulla scuola, e sul Rosso E Il Blu (proiettato il 19 aprile a Palazzo Nicotera nella saletta Polivalente, prima dell’incontro col regista) è virata la maggior parte della conversazione che Piccioni ha avuto con Franzì davanti al pubblico e alla stampa: un incontro che ha conquistato e messo in luce la delicata, raffinata capacità introspettiva dell’artista che ha raccontato cosa c’è stato dietro la realizzazione del suo film. Come alcuni attori, caricati emotivamente dalla sceneggiatura,

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alla fine dell’ultima ripresa si sono sciolti in lacrime; come per lui siano importanti, anzi fondamentali, i dialoghi, così tanto da fargli privilegiare questa dimensione nel momento di scrittura del film, cosa che impone successivamente ai suoi attori uno sforzo maggiore per rendere reali e realistiche le frasi pensate e scritte dal regista sceneggiatore; e come lui dissemini i suoi film di piccoli, impercettibili segnali di un regista/autore sempre presente, che in maniera sottocutanea trasforma i suoi film in voli metafisici (come nel Rosso e Blu: quando la Buy, professoressa in visita ad un suo alunno problematico che non sta più andando in classe, viene incalzata dal ragazzo per sapere come mai sia andata a casa sua, e cosa gli abbia portato, fruga nella borsa dicendo “Cosa ti ho portato? Vuoi sapere cosa ti ho portato? Cosa ti ho portato…” la camera poi scivola oltre lei cambiando inquadratura e impedendole di finire la frase. Perché quello che lei aveva portato al suo alunno depresso era la speranza). Piccioni ha poi rievocato diversi ricordi legati ai suoi film, dal nominato all’Oscar del 1999 fino a Giulia Non Esce La Sera, da Luce Dei Miei Occhi a La Vita Che Vorrei, questo splendida, potente e malinconica opera sul sottile ma fortissimo legame che c’è fra Arte e Vita, e come si influenzino a vicenda. Di diverso tenore l’incontro con Pupi Avati, avvenuto il 22 aprile nella sala affrescata di Palazzo Nicotera: dopo la visione de L’Arcano Incantatore, Avati è intervenuto con il fratello Antonio, sceneggiatore e produttore dei suoi film, per presentare il volume “Voci Notturne: Storia Di Un Capolavoro Dimenticato”, scritto proprio da Franzì. E si è partiti proprio da lì: la pubblicazione del libro è stato l’ultimo passo del riconoscimento dello sceneggiato Voci Notturne a cult assoluto: per la storia e i retroscena si rimanda ovviamente al libro (recuperabile sul web digitando il titolo completo), basti dire qui che Avati è stato ben lieto di tornare a parlare di questa sua creatura un po’ dimenticata, passando poi a parlare del suo gusto per il cinema gotico e per la naturale tendenza alla Lamezia e non solo

creazione dello spavento, che fin da piccoli suscita piacere -basti pensare al divertimento dei bambini nel momento in cui riescono a spaventare i genitori con un semplice “buh!”… Inevitabilmente, il tenore dell’incontro con Avati è stato differente: meno intimo e forse meno raccolto, ma assolutamente non per questo meno partecipato. Il regista di Regalo Di Natale, abituato a ben più vaste e blasonate platee, ha aspettato un po’ prima di liberarsi e lasciarsi andare a ricordi personali, ma soprattutto ad un’aneddotica varia e vasta, rivelando la sua anima sopraffina di affabulatore assoluto. Perché l’arte di Pupi Avati risiede proprio in questa sua innegabile dote di saper coinvolgere il pubblico con il gusto colorito delle sue storie: e quindi, con le pause, con i gesti, proprio come un mattatore. Rivelando così come è nata la partecipazione di Katia Ricciarelli al suo bellissimo La Seconda Notte Di Nozze (prima era solamente una cantante lirica), e parlando del fallimento assoluto dei suoi primi due film (Thomas e gli Indemoniati e Balsamus l’uomo di Satana, entrambi del 1970) che portarono lui e suo fratello a quattro lunghi anni di disoccupazione. E anche: a come i due film, totalmente anarchici ma eccessivi in tutto, furono finanziati da un benefattore proprio calabrese, della provincia di Cosenza, e a come in seguito fu solo il caso, o il destino, che li fece instradare verso il successo, perché un copione prima accettato e poi rifiutato da Paolo Villaggio fu fortunosamente letto da Ugo Tognazzi che se ne innamorò, decidendo così di produrlo ritagliandosi una piccola parte all’interno. E facendo quindi uscire al cinema La Mazurka del Barone, Del Santo e Del Fico Fiorone, primo successo di Pupi che lo portò alla sua luminosa carriera. L’ORA DI CINEMA ha quindi chiuso in bellezza la sua prima edizione, in vista della pausa estiva: sperando di tornare ad ottobre, sempre con il patrocinio del Comune di Lamezia e sempre con lo sponsor GENERALIN Assicurazioni, e anche con la speranza di continuare nell’importante percorso di portare la cultura del cinema e della Settima Arte a Lamezia.

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Senza voler considerare la critica storica fatta al Dorso sulla spinosa “Questione meridionale” che l’autore lametino ha edito nel 2013 per la Edisud di Salerno insieme ad altri coautori, sono passati diversi anni da quando Giuseppe Zolli esordiva con “Fair play”, raccolta di poesie che dava già il sapore di una attenta osservazione sulla realtà. Questa volta, a fine marzo scorso, propone al suo pubblico di casa, una carrellata di racconti e poesie tutti raccolti in un unico volume di cento pagine pubblicato dall’Associazione culturale “Mediterraneo” per conto de “Il Pensiero Edizioni” che lo inserisce nella sua collana “Pentagramma”. Sorprende la voglia di rimettersi in gioco, giocando a disegnare un mondo fatto di speranze, ricordi e riflessioni nate dall’esperienza diretta o talvolta anche vissuta indirettamente. Episodi di vita e di una realtà che suggeriscono dunque all’autore pensieri e parole da spendere sui valori dell’esistenza. Come si legge dal retro della copertina, “poesie partorite da vari stati d’animo che si esternano in un canto libero e filtrano nei versi un sospiro, a volte amaro….”. La prima parte del libro offre, con un linguaggio morale ed etico, spunti di riflessione umana, nella seconda parte invece sono presenti liriche brevi, ermetiche ma dissacranti. La lettura appare scorrevole, semplice e fresca da un canto e frizzante, pungente, simbolica dall’altra. Un piccolo volume nel complesso che nasconde, ma che talvolta anche palesa un germe letterario inespresso, latente ma soprattutto originale. Spiega Zolli che certe situazioni lo hanno segnato, formato, ispirato: “La mia vita, ..., attraverso questo libro, è stata ripercorsa da eventi particolari e spettacolari... Momenti di gioia e di dolore che mi hanno regalato sensazioni ed emozioni, determinando decisive riflessioni e caratterizzando scelte nel mio cammino d’esistenza ancora in corso. Sentimenti passati affiorano velocemente e lucidamente nella mia mente e confluiscono insieme nel momento di renderli nitidi in racconti maturati dall’ispirazione di tutti i giorni. Un iter labirintico dal quale si può ripag. 16

UN VIAGGIO ETICO E REALE TRA RACCONTI E POESIE CON

Savoire Faire IL NUOVO LIBRO DEL LAMETINO GIUSEPPE ZOLLI

trovare la via giusta e ricostruire un mondo interiore migliore di quello che si ha. Scrivere è una attività che libera lo spirito dell’uomo e lo porta quasi a perfetta conoscenza di se stesso... Implicito è il messaggio comunicativo di trasmettere ai nostri posteri una mentalità pura, libera, basata sulla verità e non sull’ipocrisia” (dalla premessa, nota dell’autore). Racconti di denuncia e poesie di discreta moralità. Oggi gli uomini sembrano disorientati e bisogna tornare ad essere curiosi, avere la giusta malizia, il giusto interesse e una buona ambizione. Soprattutto bisogna esser felici di vivere anche se tra sacrifici, difficoltà ed ostacoli. Il titolo “Savoir faire” nasce per dar seguito a “Fair play” in quanto, in sostanza, è una sua proiezione. Il “refrain” è quello di essere gli artefici del buon senso che occorre realizzare col “saper fare” che non tutti hanno, ahinoi, ma che tutti potrebbero avere come qualità e come virtù. Ho estrapolato – aggiunge Zolli questo motto transalpino e l’ho voluto importare nella mia raccolta per cercare di dare un messaggio forte a chi si benignerà di leggerla. Partendo da un’amicizia sfumata in “L’ultimo poker” e da un immorale professionista in “Legale illegale”, passando per la consapevolezza della sudditanza informatica in “Il computer” o “Off Line”, sfogliando i beffardi destini in “Decesso morale” o “In campo per sempre”, leggendo l’amore in “La telefonata fatidica”, “Serata festiva” o “Lo scontro” e giungendo alla grottesca vicenda in “Km ignoto”, si potrà trascorrere nell’imminente stagione estiva, qualche buona ora sotto l’ombrellone sulla spiaggia. Un cocktail ben combinato i cui ingredienti si sposano con l’energia ed il carattere sensibile dell’autore Zolli che definisce la sua vita molto stimolante e divertente fatta di viaggi, interessi, passioni e impegni professionali. Il libro, già presente nelle librerie e disponibile in rete, verrà presentato in via Alberti a Catanzaro presso l’Associazione “Mediterraneo”.

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La nomina di

Nicola Gratteri a Procuratore della Repubblica di Catanzaro.

Giudice Nicola Gratteri fino ad oggi sostituto procuratore della repubblica di Reggio Calabria è stato nominato, alla unanimità, dal Consiglio Superiore della Magistratura, quale nuovo procuratore della repubblica di Catanzaro. Questa nomina non può che fare piacere a tutti i calabresi onesti che, nella nostra regione, soffrono per la presenza e la correlata attività asfissiante e distorcente della vita delle nostre comunità in tutti i suoi aspetti: politici, economici, civili, sociali ecc. della criminalità organizzata, la ‘Nadrangheta. Tutti noi, infatti, abbiamo appreso dalle cronache giornalistiche, dagli anni scorsi fino ai giorni nostri, del lavoro di Gratteri e delle condizioni di isolamento fisico in cui si è trovato a vivere e sappiamo anche quanto questo magistrato sia un professionista capace, serio ed impegnato, sempre in prima fila nella lotta alla ‘Ndrangheta, appunto. I commenti di compiacimento e gli attestati di stima nei suoi confronti sono stati molteplici e venuti da tutte le parti. C’è da sperare che tutti coloro che si sono spellati le mani ad applaudire, ed anche la più vasta platea di persone che sinceramente anela ad una convivenza civile e pacifica in una Calabria liberata definitivamente dalla ‘Ndrangheta, non si aspettino miracoli dal lavoro del “solo” Gratteri. Il giudice Gratteri non è un padreterno e, perciò, non fa miracoli. Credo sia necessaria, invece, la collaborazione di tutti. Credo che il magistrato di Gerace abbia bisogno, per svolgere bene il suo lavoro e renderlo produttivo al massimo, di sentire forte intorno a sé il sostegno, la solidarietà attiva ed ininterrotta dell’intera società civile calabrese, di tutti i calabresi perbene, onesti, laboriosi, che sono la stra-grande maggioranza della popolazione. A proposito dell’apporto che i calabresi, noi gente comune, possiamo dare al lavoro di Gratteri e della magistratura più in generale nella lotta di contrasto alla ‘Ndrangheta, mi è venuta in mente la frase, passata alla storia, che il presidente Lamezia e non solo

degli Stati Uniti, J. F. Kennedy, pronunciò, al momento del suo giuramento quale trentacinquesimo Presidente di quella grande Nazione, il 20 gennaio del 1961, rivolto ai suoi concittadini. Disse Kennedy in quell’occasione: <<Americani, non chiedetemi cosa io potrò fare per voi, chiedetemi piuttosto cosa tutti noi, insieme, potremo fare per l’America, per il nostro Paese.>> Ed un’altra frase mi è tornata alla mente. Quella pronunciata proprio qui da noi, a Lamezia Terme, da Mino Martinazzoli, dirigente bresciano della Democrazia cristiana, uomo di grandi qualità morali, intellettuali, culturali, ministro in diversi governi e spesso Guardasigilli, durante un discorso tenuto ai Lametini. Tra le altre splendide riflessioni pronunciate su vari temi di attualità politica, economica, sociale, Martinazzoli disse a proposito della criminalità organizzata in Calabria e del ruolo di contrapposizione di cui lo Stato ed i cittadini calabresi debbono farsi carico: <<Io non conosco gente che aspetta di essere liberata da qualcuno, ma gente che si vuole liberare e per quest’obiettivo combatte>>. Ecco! L’augurio che, nel mio piccolo, sento di dover rivolgere a Nicola Gratteri è proprio questo: che nella sua attività, certamente difficile e faticosa di contrasto alla ‘Ndrangheta, il Procuratore non sia mai solo, circondato dall’indifferenza dei più, ma possa sentire intorno a sé l’entusiasmo e soprattutto il sostegno, la solidarietà, la collaborazione della società civile calabrese per conseguire, insieme ad essa, e non nonostante essa, l’obiettivo della lotta di liberazione di questa bellissima regione dalla criminalità ‘ndranghitista che da decenni ne sfigura i tanti aspetti positivi di storia, cultura, beni naturali e culturali che pure possiede in quantità!

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Lo scopone scientifico Sabato 2 aprile 2016, per la V Rassegna Teatrale “Vacantiandu – Città di Lamezia Terme”, in scena al Teatro Comunale Costabile, con doppia replica, la commedia in due atti, Lo Scopone Scientifico, regia di Enzo Ardone, della Compagnia La Rive Gauche di Roma. Adattamento teatrale, curato da Gianni Clementi, dell’omonimo film di Luigi Comencini, scritto da Rodolfo Sonego sulla base di un avvenimento reale a cui aveva assistito a Napoli nel 1947. Molto interessate la riscrittura drammaturgica di Clementi che ha saputo tradurre in una sintesi dialogica, con battute brevi e pungenti, la parte più negativa dell’uomo, la sua realtà sociale e la sua crisi quando, in tale realtà, i valori umani vengono sottoposti a forze irrazionali come la passione per il gioco. “Una favola giusta sulla lotta dei deboli contro i potenti” secondo la definizione dello stesso Comencini. Eppure c’è una carica drammatica che attraversa questo spettacolo - nonostante il comico delle battute - affidato alla lingua, quella romana, capace di infondere particolare colore all’angoscia, all’insicurezza, alla rabbia, alla voglia di riscatto, alla ricerca di affetto e di pace spezzando la tensione e alleggerendo situazioni altrimenti insostenibili. Una commedia nella tragedia stessa di una vita di fatica, di coabitazione e di miseria dove la risata può restituire anche un profondo senso di stordimento e di malinconia e la situazione drammatica inciampare continuamente nell’ironia. Il rigore registico di Enzo Ardone, senza cadere nella facile trappola della comicità sguaiata, impone, attraverso una attenta concentrazione recitativa e gestuale, tempi stretti e intensi a tutti gli interpreti che si rivelano affiatati e solidi. Tuttavia questo lavoro di sottrazione nella scrittura non comporta una diminutio dei personaggi che, anzi, risultano ben caratterizzati e forti. Due famiglie, due mondi, due classi sociali. Il mondo che lotta per la sopravvivenza abita in una borgata romana. Una baracca di lamiera dove uomini e topi sono in guerriglia costante. Un fornello sempre acceso dove cuociono patate, riso, pasta e legumi. Cibi poveri per sfamare i poveri, anche se qui, il cibo non riguarda solo la necessità di nutrirsi ma assume un significato culturale che serve a de-

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limitare lo stesso status sociale. E poverissimi sono gli abitanti. Paolo Formiconi ci offre un Peppino ironico, tormentato e inane a cui fa da controcanto l’Antonia di Anna Maria Astengo, attiva, propositiva, pronta a rischiare. Alla loro prima esperienza teatrale, ma espressive e di gran presenza scenica, la giovanissima Giulia Ardone nella parte di Cleopatra che in un unico monosillabo “sì”, declinato in più intonazioni, dà prova di grande intensità e Monica Biagini che, nel personaggio di Iolanda, tratteggia una figura di prostituta esuberante, coatta, ma anche tenera, generosa e con una gran voglia di cambiare vita. Emblematiche le due figure di “vecchi”. Raimondo Statella è il professore, comunista, acculturato e affamato. Il mangiare è la sua ossessione, la preoccupazione costante, l’assillo quotidiano. Ma la sua è un fame “cosmica”, è un “buco nero”, un vuoto sociale che cerca invano di riempire scroccando il pranzo e sgranocchiando, finanche, i biscottini dei neonati. Agostino Abolesci è nonno Agusto. Arzillo e arguto, rappresenta la saggezza popolare, ma anche il legame con la realtà e la consapevolezza di quanto sia difficile mutarla se ci si affida solo alla fortuna. C’è poi Richetto, il baro, nella efficace interpretazione di Elio Bruni, indisponente e gradasso quanto basta. L’altro mondo, quello dei ricchi, abita in una villa lussuosa e beve Moët & Chandon. È il mondo “dell’americano in vacanza”, quando erano quelli del Nuovo Continente a venire in massa in Europa, e in Italia soprattutto, per visitare le città e cercare nuovi stili di vita. Qui i protagonisti sono una donna âgé, il suo segretario e una vecchia domestica. Lucida e attenta l’interpretazione di Maria Antonietta Tortora nella parte della vecchia americana caratterizzata da intelligente cattiveria travestita da apparente bonomia e democrazia. Misurato e garbatamente ironico Paolo Franzini nel ruolo del segretario/schiavetto George. Incisivo anche il cammeo di Maurizio Bisozzi nel ruolo del

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dottore. Smagliante l’interpretazione di Antonella Rebecchi che ci regala una Pasqualina dalla vis comica incontenibile seppur giocata con estrema naturalezza. Di fatto, Pasqualina, è il trait d’union tra i quartieri alti e le borgate. È la sensale del gioco, colei che combina gli incontri per le partite a scopone scientifico avvertendo Peppino e Antonia dell’arrivo della vecchia. Ecco - lo scopone scientifico - appunto, gioco di memoria e di riflessione che dà il titolo alla commedia. Intorno a queste 40 amiche/nemiche che sono le carte napoletane si dipanano i legami di amicizia tra la vecchia e i due borgatari. Esse diventano il fulcro che condensa i rapporti sociali, affettivi ed economici. La vecchia è affetta da quella che oggi si chiamerebbe “ludopatia”, totalmente dipendente da questa pratica che non è considerata alla stregua di un semplice passatempo ma occupa un posto centrale nella sua vita. Tuttavia, lei gioca per il puro gusto di giocare, non lo fa per vincere soldi, è abbastanza ricca da potersi permettere qualsiasi capriccio, ma come tutti i giocatori “veri” non ama perdere. I due borgatari, avviluppati in questa spirale viziosa, sono delle pedine nelle sue mani. Attraverso il gioco ella esercita la sua superiorità sociale e, di fatto, li schiavizza

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psicologicamente. Il loro ottimismo non viene minimante scalfito dalle continue sconfitte ma, malgrado le precauzione che ad ogni di partita si ripromettono di prendere, finiscono sempre col rischiare troppo, colti da quel fremito, da quella eccitazione, da quella tensione piacevole e dolorosa insieme che li spinge a rilanciare, a non smettere di giocare e che, sistematicamente, si traduce in una débâcle. Tuttavia, le due coppie di giocatori partono da due presupposti diversi. Per la coppia formata dalla vecchia e dal suo segretario si tratta di piacere “intellettuale”, per Peppino e Antonia il gioco ha un fine lucrativo/sociale poiché solo vincendo una grossa somma di denaro si potrà realizzare il loro sogno di cambiare vita. In fondo essi aspirano ad una esistenza “normale” che permetta loro di avere finalmente un appartamento con bagno e cucina degni di tale nome. Ma l’avidità ha il sopravvento fino al colpo di scena finale preparato in sordina dalla figlia Cleopatra che, con la complicità di nonno Augusto, troverà un modo inaspettato e originale per spezzare questo circolo vizioso e probabilmente anche la possibilità (remota) che i desideri dei genitori, diventati nel frattempo quelli dell’intera borgata, si esaudiscano. Un finale al veleno, dolce-amaro. Lunghi applausi per tutti.

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La Bellezza:I consigli di Antonella

Le macchie: Causa e prevenzione Le macchie della pelle sono la conseguenza di alterazioni nel funzionamento dei melanociti che con l’avanzare dell’età tendono ad «incepparsi», così la distribuzione di melanina non appare uniforme e il viso si macchia di chiazze più chiare o più scure. La melanina è prodotta dai melanociti dello strato basale dell’epidermide, che la producono quando sono esposti alla luce ed in particolare alla radiazione ultravioletta (UV) nel campo da 380 a 410 nanometri (UVA), presente in natura principalmente nello spettro della luce solare, con la mediazione dei neuroni del sistema nervoso. L’Eumelanina è più abbondante in persone con pelle scura. Ne esiste una nera e una marrone. Una piccola quantità di eumelanina nera causa i capelli grigi, mentre una piccola quantità di eumelanina marrone li rende di colore biondo. La Feomelanina è un pigmento rosso che si trova nella pelle. Le donne hanno più feomelanina degli uomini, e quindi la loro pelle è più rosata. La molecola conferisce un colore dal rosa al rosso e si trova in grandi quantità in particolare in soggetti dai capelli rossi. L’INVECCHIAMENTO CRONOLOGICO è dovuto a fattori genetici. Ha inizio dopo i 25 anni, per manifestarsi visibilmente dai 40 anni in poi. A livello dell’epidermide questa forma di invecchiamento si esplica con la riduzione della capacità proliferativa delle cellule della membrana basale e con il suo conseguente assottigliamento. Il fotoinvecchiamento provoca un invecchiamento accelerato che, rispetto all’invecchiamento cronologico, si esprime con delle manifestazioni cutanee più accentuate relativamente ad alcuni aspetti, come l’iperpigmentazione cutanea che, inizialmente, si mostra attraverso la formazione di lentiggini, ma poi evolve in vere e proprie macchie senili. Più gravi sono le possibili dilatazioni dei capillari a seguito dell’esposizione prolungata al sole e la formazione di tumori della pelle. L’ i n v e c c h i a m e n t o cutaneo è un processo evolutivo irreversibile; si articola di un insieme di alterazioni fisiologiche che determinano la perdita di idratazione cutanea, la comparsa di microrughe, pag. 22

la perdita di elasticità, l’ipercheratosi e la formazione di macchie iperpigmentate, chiamate “macchie senili”. Queste alterazioni sono la risultante di due eventi paralleli: l’invecchiamento cronologico e l’invecchiamento da fattori ambientali. INVECCHIAMENTO - Le macchie senili, evidenti a livello di mani e viso, appaiono di colore scuro, forma tondeggiante, e sono costituite da un deposito di pigmento che interessa in alcuni casi anche gli strati più profondi della cute. FUMO E SMOG - Il fumo e lo smog inducono la formazione dei radicali liberi, fattori importanti nella formazione delle macchie. RADIAZIONI SOLARI - Le radiazioni UV, in particolare gli UVA, danneggiano la cute e ossidano la cheratina, portando alla comparsa di macchie scure. Le lentigo solari appaiono nelle zone fotoesposte e sono di colore nocciola. ESTROGENI - L’uso di estrogeni, come la pillola contraccettiva, favorisce la comparsa di macchie, in particolare al viso (melasma). GRAVIDANZA - Lo sbalzo ormonale tipico della gravidanza può favorire la comparsa di macchie scure color grigio o marrone che tendono però a sparire dopo il parto. MENOPAUSA - Il cambiamento ormonale della menopausa aumenta il rischio di pigmentazioni: il cosiddetto cloasma. PROFUMI - Molti profumi e altre sostanze presenti in certi cosmetici possono creare fotosensibilizzazione e quindi favorire la comparsa di macchie. ACNE Alcune forme di acne lasciano macchiette rosse al viso, soprattutto negli adolescenti, che tendono a permanere per parecchi mesi. Possibile è l’evoluzione in macchie scure se esposte al sole.

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