Lameziaenonsolo multi agosto settembre

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Lamezia e non solo

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ST Television presenta Cooking Show

Inizia nel mese di Ottobre un nuovo format su ST Television, un format itinerante, partorito dalle mente vulcanica di Giovanni De Grazia, A condurlo lui, affiancato da due splendide ragazze: Regina Dalmaschio e Giusy Rocca. Prima di addentrarci nel dare qualche chicca sulla trasmissione presentiamo le due show girl, Regina Dalmaschio vive in Italia da 15 anni ma è nata in Brasile dove ha lavorato in TV come modella ed ha vinto tanti concorsi di bellezza. Ma non è solo avvenenza fisica quello che la contraddistingue ma è intelligente ed attenta ai problemi sociali tanto da essere stata una giovane Consigliera Comunale nel suo Paese prima di lasciarlo. In Italia ha lavorato in varie televisione locali ed ha anche lavorato nel mondo della bellezza per Giorgio Armani, Chanel, Dior, YSL. È arrivata a Lamezia da poco tempo e subito Giovanni la ha voluta al suo

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fianco, infatti con lui ha già collaborato per un allegro programma estivo, PLAYA BONITA. E’ stato proprio durante la registrazione di questo programma che hanno conosciuto Giusy Rocca, l’altra giovane donna che li affiancherà nel programma. Anche Giusy, 26 anni, non è italiana infatti è nata a Stoccarda. Lavora nel mondo televisivo dal 2010. Vincitrice del premio “Walter sogna ma non dorme” e del premio social al festival “Tulipani di seta nera” col videoclip del brano “Bambini di Natale”, è stata vincitrice, come regista, del Premio Manente 2016 col brano “Margherita” degli Skapizza. Ma cosa faranno i magnifici tre, insieme, in questo Format? Una volta a settimana visiteranno i migliori ristoranti della Calabria, seguiranno gli chef nella preparazione dei loro manicaretti e mentre guarderanno

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Redazionale

il cibo che, sapientemente manipolato dagli cuochi, finirà nei loro piatti, loro ci intratterranno, non solo dando al pubblico chicche culinarie e facendoci conoscere il “dietro le quinte” dei più famosi ristoranti, ma anche con simpatici schetch e calienti balli. Alla fine degusteranno i piatti preparati e daranno un voto. Ci sarà un vincitore? Qualcuno del pubblico potrà partecipare? Si potrà telefonare? Beh, non possiamo dirvi tutto ora, guardate il programma e scoprirete l’arcano Qualcosa la potremo spiegare però, i vari ristoranti che vorranno ospitare i nostri mattatori potranno farlo telefonando al 339 311 5829. Un consiglio? Cari ristoratori prenotatevi per tempo e … alla prossima puntata, anzi, alla prima!

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lamezia SUMMERTIME 2016

TeatrOltre: Festival di Teatro in Strada

SE LA CITTÀ SI FA TEATRO In un momento in cui è tanto difficile far “vivere” il Teatro e “vivere” di Teatro, vorrei, alla fine del Festival di Teatro in Strada, dire GRAZIE agli artisti che vi hanno preso parte, a tutti coloro che hanno contribuito all’organizzazione e soprattutto al pubblico che, con la sua presenza, ha fatto sì che la città diventasse un vero è proprio palcoscenico all’aperto rendendo speciale ogni evento. Perché il teatro è sogno, incontro, scambio. Il Teatro avvolge, contamina, accoglie. E il teatro in strada è soprattutto empatia ed energia. È coro di sguardi che abbraccia l’artista. Grazie Lamezia!

Pierpaolo Bonaccurso direttore artistico TeatrOltre: Festival di Teatro in Strada Lamezia Terme. 7 giorni di spettacoli, oltre 50 artisti nazionali e internazionali, centinaia di spettatori per l’edizione 2016 di TeatrOltre che, sotto la direzione artistica di Pierpaolo Bonaccurso, ha presentato il più grande Festival di Teatro in Strada del Sud inserito nell’ambito del progetto Lamezia Summertime. Dal 29 agosto al 4 settembre cantastorie, musici, attori, clown, mimi, danzatori, burattini, pupazzi, giocolieri, acrobati, trampolieri hanno animato i centri storici di Sambiase e di Nicastro in modo immaginifico e fantasioso, creando momenti di coinvolgimento e di vera festa. Il festival si è aperto il 29 agosto con la mostra fotografica 40x40 per celebrare i 40 anni di attività di teatrop, la storica compagnia teatrale lametina fondata nel 1976 e diretta da Piero Bonaccurso fino al passaggio di testimone al figlio Pierpaolo nel 2011. Un percorso visivo allestito nelle sale del Museo della Memoria e curato da Margherita Gigliotti e Stefano Regio mentre martedì 30, nel cortile “F. Bevilacqua” Edificio Maggiore Perri, in collaborazione con Cinema e Cinema 2016, ha avuto luogo la proiezione del film-documentario “Fili” a cura di Fabio Butera e dedicato a Gianni Piricò, altro padre fondatore di teatrop scomparso da qualche anno. Tra le attività collaterali: la conferenza semi-spettacolare “Il volto sottratto ovvero le teste staccate”, viaggio attraverso

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le maschere e le marionette di Fabio Butera, il laboratorio di Capoeira con il prof. Luca Baratta e laboratori di teatro e arti circensi (acrobatica, tessuti aerei, magia e giocoleria) a cura delle compagnie ospiti. Gli spettacoli sono stati annunciati dalla travolgente musica itinerante dei Takabum, una band di strumenti a fiato e percussioni, eccentrica e solare come i girasoli appuntati sui cappelli dei musicisti, che ha proposto un repertorio di composizioni originali e riadattamenti dei più celebri brani della tradizione jazzistica americana e della canzone italiana. La kermesse è stata aperta dall’arrivo del bus verde a due piani dei The Sprockets, una coppia di globetrotter, Isabelle (francese) e Scott (inglese), che hanno girato il mondo con il loro scenografico pullmino. Due artisti eccezionali che si sono esibiti in un originale ed esuberante collage di giocoleria, acrobalance, danza aerea e magia. A seguire il coinvolgente, magico, romantico Cico Cuzzocrea, un po’ mimo un po’ clown di strada, che ha deliziato il pubblico con la sua arte “semplice” ma non “facile” e le deliziose, ciniche stramberie dei “profeti senza patria” Gianluca Vetromilo e Marco Rialti dell’Associazione Nuncepace. E ancora la danza aerea di Tonia Mingrone al tessuto elastico per raccontare una storia d’amore disegnata nell’aria, i giochi d’amore e di fuoco della

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Compagnia Fuoco&Clownerie e la Parata Tzigani con il suo strano carretto trainato da uno strampalato capocomico a guidare l’itinerante carovana di trampolieri, acrobati, fuochisti, giocolieri. E poi la Vetrina Teatro Ragazzi con la storia di Iqbal di Teatro Rosso Simona, i pupazzi di Spazio Teatro per far rivivere il mito di Amore e Psiche attraverso la voce suadente di uno Zefiro dai capelli turchini, dolce ma dispettoso alla bisogna, le guarattelle di Angelo Gallo con le avventure del suo Zampalesta il cane Tempesta, i burattini di Pino Potenza, estroso Arlecchino di carne e di stoffa, e le fascinose storie

ternet www.lameziasummertime.it e la pagina ufficiale Facebook dedicata al Lamezia Summertime 2016 con le suggestive immagini scattate da Ennio Stranieri che ha documentato l’intera manifestazione. 74.545 visualizzazioni della gallery per il lancio del Festival con oltre 800 like e 260 condivisioni. 32.000 utenti raggiunti attraverso le 14 dirette live effettuate durante il Festival. 4.000 visualizzazioni in sole 24 ore per la diretta live dei Cafelulè. 25.000 visualizzazioni per le 5 gallery pubblicate con le foto

di sabbia di Greta Belometti raccontate con la tecnica della sand art. Gli ultimi due giorni del festival, nel centro storico di Nicastro, hanno visto lo spettacolo su filo teso dei Los Filonautas, i due equilibristi Valentin “L’Astronauta” e Soledad Prieto, in arte “Petrovska” che, su un palcoscenico alto un metro e ottanta e sottile come un cavo d’acciaio, hanno creato un vero spazio teatrale, dando vita a due eccentrici personaggi con tango finale e la suggestiva esibizione dei Cafelulè in una vertiginosa danza verticale lungo le pareti del seicentesco Chiostro di San Domenico. Quattro ballerine e un ballerino per uno spettacolo unico, metafora sulla vita nell’ottica dell’amore – incantevole il pas-à-deux sulle note di Mi sono innamorato di te di Luigi Tenco - che ha saputo raccontare “Mannequin. Storie di sarti e di legami” lasciando come ricordi la “maraviglia”, un abbraccio e un pezzetto di filo rosso. Enorme il consenso e il successo sui social: il sito in-

degli spettacoli e oltre 7.000 utenti che hanno interagito attraverso commenti, condivisioni e like. Ma è stata soprattutto la straordinaria partecipazione del pubblico a decretare la riuscita di questa manifestazione che ha saputo portare il teatro tra la gente trasformando la città in un palcoscenico en plein air. Per una settimana i centri storici sono stati invasi da adulti, bambini, anziani, famiglie che hanno vissuto una intrigante immersione nel fantastico mondo del teatro in strada per conoscere meglio e più da vicino gli strampalati e poetici personaggi che lo abitano. Lunga vita al teatro in strada! E un grazie particolare ai ragazzi Stefano Regio, Franco Grande, Nicola Muraca e alle ragazze Valentina Arichetta, Alessandra Caruso, Margherita Gigliotti, Giulia Pollice che, insieme al direttore artistico Pierpaolo Bonaccurso, hanno reso possibile questa festa!

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La Terra trema … Noi Volontari no! Il Terremoto che ha flagellato Amatrice, ha riportato in primo piano la Protezione Civile ed il Mondo del Volontariato. La Calabria si distingue da sempre, per l’impegno e la professionalità cresciuta progressivamente in questo decennio. Una delle risorse della Protezione Civile della Regione Calabria, sono le “Guardie Ecozoofile” di Fareambiente Calabria specializzate nella salvaguardia dell’ambiente ed assistenza, cura degli animali. In

Calabria il Referente dell’ufficio stampa Guardie Ecozoofile di Fareambiente è il Veterano Claudio Campanozzi Gli chiediamo: 1 Cosa significa Guardia Ecozoofila La Guardia Ecozoofila è un Operatore Volontario addestrato alla Repressione e Prevenzione dei reati Ambientali, ma soprattutto nella diffusione della cultura ecologista. 2 Cosa porta Lei e i vostri Volontari a donare le proprie energie alla Società Civile Ho conosciuto numerosi volontari in Italia e posso dire con certezza che ciò che li accomuna è un incontenibile desiderio di aiutare chi si trova in difficoltà. 3 Ci dia un valido motivo per divenire Volontari di Protezione Civile “Tutti in caso di calamità vorremmo essere utili” … ma solo chi ha frequentato e superato i corsi preparatori ed ha partecipato alle esercitazioni di Protezione Civile, può portare il proprio aiuto alla popolazione. Questo è un ottimo motivo per divenire Volontario di Protezione Civile 4 Quale futuro ha il Volontariato in Calabria Un Futuro straordinario, oggi che alla guida della Protezione Civile Regionale c’è il nuovo Dirigente Prof. Carlo Tanzi. Tanzi è un Geologo competente e determinato che sta rilanciando al meglio la struttura regionale valorizzando i mezzi e le competenza diffuse sul nostro territorio.

principale, che andremo a realizzare è entrare nelle scuole per diffondere la cultura della prevenzione, partendo dai giovani. 6 La nostra Regione è classificata ad altissimo rischio Sismico … dobbiamo vivere nella paura che accada l’irreparabile ? Ad essere onesti dovremmo vivere nella paura, perché il rischio è altissimo, ma il compito di un volontario non è quello di avere paura, ma ben sì prepararsi al peggio nella speranza che non serva mai! Ci congediamo con la consapevolezza di possedere in Calabria Risorse Umane di grande Professionalità e portatori sani di Profonda Umanità, quotidianamente impegnati nel diffondere la cultura della Prevenzione e della Solidarietà sentimenti che si sintetizzano in una sola parola Volontariato di Protezione Civile. Operatore della Comunicazione C. C.

5 Progetti dedicati alla prevenzione nel nostro territorio, dove e quando Il progetto Lamezia e non solo

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STRADE PERDUTE presenta ENEZI 73 una storia in sei film

Venezia è il Festival più bello del mondo. Perché, a parte il fascino decadente di una città bellissima che muore, affondando nel riflesso di sé stessa,; a parte l’innegabile eleganza di un Lido che sta cadendo a pezzi (nonostante la nuovissima Sala giardino, casermone squadrato e rossissimo, sorta dove fino a ieri, e per tanti e troppi anni, c’era un enorme buco -e infatti, cubo fa rima con buco…) ma che conserva il fascino dell’ancient regime; a parte tutto questo, c’è che a Venezia il rapporto con il cinema, e con chi lo fa, è vivo e ribollente. Se a Cannes il red carpet è roba per pochi, le interviste preconfezionate e veloci come uno speed date; solo in Laguna invece vivi l’incertezza del destino dell’intervista, l’euforia di poter entrare in sintonia con l’artista intervistato quando l’alternanza domanda/risposta diventa un dialogo, insomma solo qui ci si immerge fino alla punta dei capelli nel cinema, chi il cinema lo fa insieme a chi di cinema vive. I film: nella conferenza stampa romana, Alberto Barbera aveva parlato di livello qualitativo altissimo: e va e in effetti, con il profluvio di artisti (e star) arrivati quest’anno, le opere di venezia.73 sono mediamente belle. A parte le eccezioni, ovvio: ed è con queste che partiamo. La Regiòn Selvaja, in concorso, è il film di Amat Escalante che mette in scena un paesino del Sudamerica dove una creapag. 6

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tura informe ma dai molti tentacoli falliformi accende gli istinti basici delle persone (e animali) con cui viene a contatto -da antologia scult la sequenza dove nel cratere formato dalla sua caduta dallo spazio ogni tipo di animale, dal cane alla gallina, dalla lucertola all’iguana al canarino al serpente, si accoppia. Nella vicenda si inserisce la storia di una donna tradita dal marito, omofobico e omosessuale represso, con il suo stesso fratello, gay dichiarato. Le intuizioni di Escalante sono perfette e affascinanti: il mix equilibrato fra horror, fantascienza e soft-porn è riuscito, come anche l’idea di produrre una creatura extraterrestre come metafora degli istinti repressi dalla religione e dalla società. Peccato che la messa in scena sia sciatta, e gli sviluppi narrativi pressoché inconsistenti: lo stravolgimento dell’ecosistema, dall’esterno e dall’interno, è un’idea interessante, ma ad Escalante sembra non interessi portare a termine il film, e neanche approfondire caratteri o critica. Ma solo, attraverso la riproduzione di quest’essere grottesco e sottilmente sensuale, raggiungere il sentire comune, sbattere in faccia del sesso gratuito e cercare uno scandalo che, a ben guardare, non c’è e non ci può essere per così

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poca cosa. Passando poi a quelle opere che “stanno in mezzo”, ovvero le grandi attese disilluse: molte speranze erano riposte in The Bad Batch, di quella Ana Lily Amirpour attesa come una Tarantino al femminile. Flani come al solito disattesi e senza senso, perché al di là di un’ostentazione di una violenza efferata (che peraltro ha radici e significati diversissimi) niente lega i due registi. The Bad Batch racconta l’epopea della sua protagonista Arlen, che ritrovatasi dopo essere uscita di prigione dispersa nell’immenso e riarso deserto del Texas viene catturata da un branco di cannibali, ma dopo aver perso un braccio e una gamba, fuggita e curata da un’altra tribù più pacifica, torna a cercarli per la -solita- vendetta. The Bad Batch nasce e si avvita, all’inizio, su trovate sceniche affascinanti e su testi interessantissimi: mostrare l’altra America, quella enorme e desolata che si trova appena usciti dalla civilizzazione della città, mostrare i limiti della sopravvivenza ma soprattutto della comprensione umana, immergendosi nella vita degli emarginati e dei pariah. La visione di Amirpour è fortissima, e almeno per i primi venti minuti sembra di trovarsi di fronte ad una delle carte vincenti di questa 73^ Mostra: peccato che poi questo western psichedelico si disperda in una banale storia di vendetta, mettendo

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in scena personaggi improbabili che oltretutto sanno di deja-vù: dal Dream di Keanu Reeves fino all’Heremit di Jim Carrey, caricature grottesche di un paese in balia di falsi profeti, pedine di un racconto metaforico che accumula fin troppe (buone) idee per poi non sapere come risolverle. Tutt’altro discorso per l’opera seconda di Kim Rossi Stuart: Tommaso, fuori concorso, riprende le vicende dell’omonimo piccolo protagonista del suo film di debutto (Anche Libero Va Bene), cresciuto e definitivamente traumatizzato da una madre in perenne fuga. Oggi Tommaso è un attore quarantenne che non riesce ad approfondire i suoi rapporti con le donne, sempre in conflitto con la madre, e continuamente alla ricerca di una figura che lo protegga (la madre, il suo psicanalista, la sua agente) aiutandolo a risolvere i suoi problemi interiori. Tommaso gira fra Antonie Doinel -chiaramente citato nella sequenza finale sulla spiaggia- e Nanni Moretti -o quantomeno il primo, quello più comicamente freudiano-, risolvendosi in un film personalissimo e intimo, ma in un perfetto equilibrio fra dramma e commedia: sono molte le scene che dopo aver suscitato una risata grossolana, si depositano poi sul fondo e sedimentandosi lasciano un profondo senso di lacerante smarrimento. Kim Rossi Stuart allora si conferma come una delle voci autoriali più dirompenti del nostro cinema, costruendo una persona/personaggio che attinge a piene mani dal privato del suo autore, per poi però maturare in un raffinatissimo gioco di citazioni e rimandi cinefili all’interno di un film solido e strutturato. Con un suo ben preciso linguaggio, che svicola continuamente facendo uno slalom spericolato fra sogno e realtà, Tommaso ha la maschera di un divertissement ma la Lamezia e non solo

realtà di un dramma psicanalitico. Meno incisivo di Anche Libero Va Bene, forse; meno drammatico, sicuro. Ma anche ironico va bene. Salendo sempre più in alto, ottimo l’ingresso di Paolo Sorrentino nel regno dei serial tv con le proiezione delle prime due puntate del suo The Young Pope. Paolo Sorrentino. Che è uno di quegli autori che quando inizi a parlare di qualcosa di suo, non puoi fare a meno di aprire un’enorme parentesi. Paolo Sorrentino, oltre ad essere per chi lo ha conosciuto di un’antipatia rara, è suo -o nostro- malgrado uno degli autori italiani di cinema più importanti ed influenti dell’ultimo decennio, forse insieme a Matteo Garrone (che però per altri versi gli è inferiore) il regista che meglio rappresenta l’Italia negli Anni Dieci, allo stesso livello probabilmente per i posteri di Dario Argento, Federico Fellini e PierPaolo Pasolini. Prima di tutto, perché ha quello sguardo purissimo e innegabilmente originale che lo ha reso ormai un brand, uno stile riconoscibilissimo. E poi perché è riuscito a fondere mirabilmente contenuto e contenitore: la confezione, l’apparato visivo-onirico delle sue opere è incredibilmente denso, ed incredibilmente

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in linea con il contenuto, con i sottotesti, con il significato delle sue storie e dei suoi personaggi. È per questo che L’Uomo In Più, la sua opera prima, è un caposaldo, e che L’Amico di Famiglia e Le Conseguenze Dell’Amore sono due film preziosi e imprescindibili: la confusione dell’uomo, il senso di inadeguatezza, l’appartenenza alla categoria degli outsider; ma soprattutto, lo sguardo altro su un universo quotidiano ma colmo di orrore e di horror vacui, sono elementi che impregnano i suoi racconti incastonati negli ormai classici sorrentinismi. E se Il divo ha messo un punto fermo alla sua evoluzione, da lì in poi (This Must Be The Place, La Grande Bellezza ma soprattutto The Youth) pur producendo delle opere senza dubbio mirabili, Sorrentino sembrava aver perso quello slancio, e i suoi film sembravano girare intorno ad uno stile tanto bello e perfetto quanto inutilmente ostentato. Ora, dopo aver visto The Young Pope (in onda dal 22 ottobre su Sky Atlantic), si capisce bene cosa mancava ai film di cui sopra: il respiro giusto. The Young Pope è la storia di un papa immaginario che ha le fattezze ambigue e lo sguardo scivoloso di Jude Law: e si chiama infatti Pio XIII, nella tradizione che vuole i pontefici con questo nome come i più discussi, ed è attorniato da un vescovo dalla dubbia morale (Silvio Orlando, bravissimo e finemente maturato nel dramma) e dalla madre superiora Diane Keaton, splendida nella sua recitazione in sottrazione. Ma The Young Pope è soprattutto un capolavoro: perché ha tutto il meglio di Sorrentino, dallo sguardo alle carrellate, dalla geometria scenica all’iperbole narrativa. E questo racconto epico e (anti)etico si dipana attraverso la serialità televisiva che si mostra come la grammatica esatta per il talento di Paolo, consegnandogli un respiro, un tempo e un luogo in cui finalmente le sue intuizioni, i suoi voli, e l’esigenza

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di un’ampiezza creativa altra, trovano la loro giusta dimensione. Il mondo di The Young Pope è il mondo de La Grande Bellezza: pur se chiuso in una sorta di risiko cattolico, è un mondo schiavo dei suoi re, dei suoi boss, delle sue fedi contraddittorie. Se Sorrentino ha capito che la televisione è, con le sue serie, il linguaggio cinematografico del futuro, allo stesso tempo ci consegna un prodotto entusiasmante, che richiama l’azzardo dei cineasti di una volta che ritraevano il loro cinema come bigger than life, che giocano con le citazioni e con i loro detrattori (c’è anche spazio per un richiamo a Nanni Moretti, con quelle suore che giocano a calcio vicine ai preti di Habemus Papam che giocavano a pallavolo), ma che soprattutto riescono ad infondere nella pellicola il soffio della vita. Anche un altro regista italiano ha saputo tenere testa al cinema mondiale, ed è proprio quel Giuseppe Piccioni che pochi mesi fa è stato a Lamezia, ospite de L’Ora di Cinema; il suo film è Questi Giorni. Il film, ispirato ad un romanzo ancora inedito, racconta del rito di passaggio dall’adolescenza all’età adulta di quattro ragazze, simboleggiato nella storia da un viaggio compiuto da Ascoli Piceno fino a Belgrado. Film atipico, dunque, sia perché il road movie è un genere poco frequentato in Italia, sia perché all’interno stesso dei suoi confini Piccioni, autore sensibile e colto, lo rielabora fornendone una declinazione inedita quanto avvolgente. Perché prima di tutto la storia non inizia con l’inizio del viaggio, né si conclude con la sua fine; ma ne utilizza il percorso come non luogo, questa volta neanche fisico, di incontro delle solite anime perse della sua filmografia. Ecco che dove prima c’erano una lavanderia, un taxi, una piscina, una scuola (rispettivamente in Fuori Dal Mondo, Luce Dei

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Miei Occhi, Il Rosso E Il Blu), oggi c’è una macchina che trasporta le ragazze da un’epoca della loro vita, la giovinezza, ad un’altra. Ma Questi Giorni è anche l’opera più apertamente letteraria di Giuseppe: si apre con il Paradiso Perduto di Milton, attraversa i racconti di Guy De Maupassant, si nutre dei versi di Ada Negri e de La Mia Giovinezza. L’universo filmico di Piccioni, e la sua ispirazione quindi, sono da sempre una poetica fuori dal mondo: ma nel senso più letterale del termine perché la poesia è l’andamento e il ritmo che lui riesce ad infondere nelle sue storie. Questi Giorni, oltre ad avere un’idea ben precisa di cinema (intimo e intimistico, fatto di carrelli e primi piani, con quell’andatura meditativa che lentamente si fa quasi onirica) mette sotto i riflettori un’età della vita: non in senso cronologico, perché anzi come sempre non c’è nessun riferimento sociale che possa far identificare il film con un tempo ben preciso, rendendolo quindi generazionale o ancor peggio giovanilistico -trattandosi di ragazze, il pericolo era il teen movie-, ma in senso culturale e psicologico. Ecco allora che scatta l’identificazione emotiva: se in tutta la prima parte del film predominano i monologhi interiori con quella tecnica tutta piccioniana di far andare fuori sincrono immagini e parole quasi in flusso di coscienza, nella seconda e sul finale quella commozione asciutta si risolve in un pianto liberatorio, in un’eruzione di sentimenti ed emozioni dove trova anche spazio una salvifica ironia. Per tutta la narrazione, le protagoniste cercano un tempo nel quale il dolore della vita sia “sopportabile anche per gli animi meno temprati, quelli che non fanno in tempo a trovare un riparo”; sole, in quel difetto, anzi quella difficoltà comunicativa che è proprio ai personaggi del regista, in quell’interstizio fra la giovinezza e la maturità (che, attenzione, non è l’età adulta) le quattro donne sbandano continuamente e rientrano nella loro carreggiata, cercano di prevedere e quindi controllare il loro futuro al riparo da un presente imperfetto, ma alla fine sapranno solo spegnere -letteralmenEditore: Grafichè di A. Perri

te- la debole luce che le guidava, in una delle sequenze più emozionanti, per affidarsi semplicemente alla vita smettendo di fuggire dai loro fantasmi, da loro stesse e dalle loro disperate solitudini. Bussola emotiva, lungo tutto il percorso, la splendida madre parrucchiera interpretata da Margherita Buy: adulta mai adulta (come le altre figure dei “grandi”, sempre irrisolte, di Sergio Rubini e di Filippo Timi) quando appare sullo schermo sembra dare il ritmo e il respiro al racconto, fino ad un coraggioso e splendido sguardo in macchina. Infine l’ultimo applauso, per questo film prezioso ed emozionante, va fatto al coraggio di Giuseppe Piccioni per continuare testardo, in direzione ostinata e contraria, nella sua idea di cinema e di vita: Questi Giorni, in questi giorni tristemente afflitti da un’ignoranza crassa e spavalda, si fa avanti citando Maupassant, Flaubert, Truffaut, Milton, arroccandosi senza però rinchiudersi nel morbido splendore di una cultura soffusa, insostenibilmente leggera ma mai ingombrante. Senza avere paura di parlarne, di metterla in prima fila, di renderla protagonista: e senza timore di far sbadigliare chi ti sta difronte e magari, davanti a Godard, si gratta la patta. A finiamo andando in alto, in altissimo, per il film più bello e sontuoso visto quest’anno al Lido. Jackie, di Pablo Larraìn. Il capolavoro, il colpo di fulmine, il colpo al cuore. Pablo Larrain è il grande regista e autore cileno che ha saputo raccontare, in film piccoli ma enormi (Tony Manero, Post Mortem, No, e l’inedito in Italia Neruda), il rapporto fra Potere e Politica, e come hanno influenzato la cultura e la società del suo paese. A Venezia era atteso con qualche timore: perché Jackie è il suo primo film americano e si sa, quando un -grande- autore sbarca ad Hollywood i risultati sono pasticci rimaneggiati. E invece, insospettabilmente o meno, il passaggio non solo è stato indolore, ma anche dato una scorrevolezza di linguaggio al regista là dove in passato sarebbe potuto risultare ostico. Complice forse la presenza assoluta e carismatica di Natalie Portman, che interpreta con impressionante mimesi la vedova di JFK: dimostrando che il biopic (film biografico) può e deve essere racconto fedele senza essere calligrafico o agiografico, che interpretare un personaggio storico può essere calarsi completamente in esso senza distinzioni fra attore e persona, somigliargli e allo stesso tempo reinterpretarlo. Il biopic definitivo, pare: Lamezia e non solo


perché Larrain decide di cortocircuitare il suo racconto, e mentre la sua protagonista dice a chi la intervista che la realtà non può essere capita né conosciuta, ma solo osservata e al più raccontata. Rappresentazione o narrazione che sia, resta comunque l’incontestabile constatazione che verità è sempre altra rispetto a quella che si riproduce dopo che è avvenuta: è irraggiungibile, e forse alla fine irrilevante. È così che Jackie diventa un “oggetto di disarmante intensità”: per come innesta lungo tutto il film la domanda su quale immagine si vuole restituire di sé stessi, della storia. Il dominio della narrazione e della rappresentazione sulla verità. Che è mutevole, e dipende dal punto di vista, dal contesto. Se allora non è possibile rappresentare fedelmente la realtà, che senso ha dare una linearità al racconto? Ed ecco il lavoro geniale e lucidissimo che Larrain innesta sul racconto biografico: fa impazzire i segmenti, scompagina il tempo e la consecutio, ricompone la storia di Jackie attraverso parallassi, iperboli, ellissi narrative che non seguono una logica ma solo un pensiero, cercando di centrare un bersaglio. Ed ecco, l’altro passo che celebra l’enormità dell’opera di Larrain: il riallacciarsi della tecnica sull’emotività, in un’opera rigorosa ed emozionante, cerebrale e sconvolgente. Larrain descrive Jackie perdendola in un dedalo di tracce temporali: il racconto che lei fa ad un giornalista su tutta la sua storia, i giorni post mortem, i funerali e la riesumazione dei due piccoli figli morti, la confessione al prete, i rapporti con lo studio ovale, con i Kennedy e con il mondo. Nello spazio lacerante fra il dolore privato e il sorriso/dovere istituzionale, fra essere e apparire, fra realtà e performance, fra pubblico e privato, fra politica e vita reale: in questo interstizio minuscolo e vertiginoso esiste e vibra la Jackie di Larrain, che la segue con insistiti primi piani (dall’inizio alla fine, letteralmente), la insegue nei corridoi labirintici della Casa

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Bianca, la raggiunge all’interno della sua disperata solitudine dove la donna, non (più) la first lady, si blocca emotivamente in un passato mortale che per lei diventa un eterno presente. E allora eccola, la futura signora Onassis, che dopo l’efferatezza di Oswald lava via il suo sangue che si mescola con le lacrime e il mascara e cerca, a volte senza trovare, un nuovo vestito, una nuova mise, un nuovo volto e una nuova identità dopo che la sua vita precedente è stata brutalmente spazzata (e spezzata) via da due proiettili di cui vuole testardamente e inutilmente conoscere il calibro. In quei drammatici giorni post morte, quando Larrain affonda la sua camera nella vita, nel volto, negli occhi di Jackie/ Natalie, escono fuori ombre e mistero, esce fuori l’irraggiungibilità della verità per come è, destinata ad essere non capita ma solo intuita e conosciuta attraverso le immagini, attraverso i racconti, attraverso i ricordi. È qui che esce anche fuori, prepotente e bellissimo, il cinema di Pablo Larrain: l’infinito, vacuo ed eterno rincorrersi di pubblico e privato all’interno della dicotomia Potere-Politica. È come sempre una parabola, quella che decide di raccontare Larrain, che plasma e trasforma dal bianco e nero della realtà al colore della vita per poi ripiombarla nella tenebra, in un dualismo continuo e incessante, doloroso e disperato, in continuo compimento. Rigoroso e strutturato finemente come un gioco ad incastri -temporali, ma anche narrativi e logici-, non è forse un caso che il primo film in terra straniera di

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un autore che finora aveva sempre incastonato descritto e raccontato di uomini sia un film che inizia con l’omicidio proprio di un uomo, per poi seguirne le tracce attraverso gli occhi di chi gli è sempre stata al fianco. Granitica e composta Natalie Portman lancia sguardi in macchina senza timore, si spoglia emotivamente e si ricostruisce pezzo per pezzo, insegue il dolore, vi si immerge e ne esce ferma e rinnovata. Ma con una luce spenta negli occhi che si accende solo per brevi momenti: nell’amore dei figli, del ricordo del marito-Presidente; e quando il racconto, sul finale (che si sparpaglia in mille rivoli finali), si allarga fino ad esplorare la condizione umana tutta, in modi pacati e commoventi, emozionalmente diretti e sottili, come un raggio di luce che illumina una timida ripresa di vita. Rincorrendo “one brief shining moment that was known as Camelot”. “Quando cerchi il senso delle cose, arriva sempre il momento in cui ti rendi conto che non c’è risposta. O lo accetti o ti ti suicidi. Oppure, semplicemente, smetti di farti domande”. Scoprire che per tutte le cose un senso non c’è; che la realtà non è fatta di rispose e segmenti consecutivi; accettare tutto questo annichilisce, certo, ma dà anche una strana pace. Sipario.

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Consigliato dalla Piscina Comunale di Lamezia Terme per gli elettrogardiogramm a fatti direttamente in piscina da personale specia lizzato consegna immediata del referto

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Nuoto, ripartita la stagione sportiva dell’Arvalia alla Piscina Comunale di Lamezia Terme È ripartita lunedì 5 settembre, con la riapertura dell’attività agonistica e della scuola nuoto, la stagione sportiva dell’Arvalia Swimming & Fitness Club S.S.D, gestore della piscina comunale di Lamezia Terme dal 31 marzo 2015. Sulla base degli ottimi riscontri ottenuti lo scorso anno, sia in termini di incremento del movimento della scuola nuoto che del miglioramento dei risultati sportivi dei singoli atleti dell’Arvalia, è stato confermato il corpo istruttori, disposto da Katia Moscinksa per il settore agonistico e da Enzo Mirante, coordinatore di vasca. L’impianto, in questa fase, in un’ottica di programmazione avviata già nella scorsa stagione, è aperto alla collaborazione con enti e società sportive, anche appartenenti ad altre discipline, tra cui associazioni per i diversamente abili, squadre di calcio e pallavolo, che vedono nell’allenamento in acqua una valida soluzione per la preparazione atletica. Proprio in questa direzione, l’attivazione di una partnership con i “Nuotatori Krotonesi” e con l’impianto di Isca sullo Ionio, condividendo il direttore sportivo Vincenzo Savelli, già presentato ad agosto a Crotone, uomo di grande esperienza e manager di area. L’obiettivo principale di Arvalia è quello di essere vicina a tutto tondo al territorio e di essere aperta alle associazioni per cui vale il principio di lealtà e correttezza sportiva. Arvalia Lamezia Arvalia Swimming & Fitness Club (o Arvalia Nuoto) è una società specializzata nella gestione di impianti natatori, con oltre 10 anni di esperienza nel settore. Tre gli impianti Arvalia in Italia: uno a Roma, quello principale, uno a Nepi e uno a Lamezia. L’impianto di Lamezia sotto la gestione Arvalia, nella fase di avviamento, ha conseguito i seguenti obiettivi gestionali-sportivi da

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consolidare nell’arco dei nove anni di concessione: a. da un punto di vista gestionale, nello scorso anno, sono stati messi in atto una serie di investimenti negli impianti tecnologici necessari per il miglioramento del servizio e per l’innalzamento dei parametri di qualità e pulizia della vasca; b. da un punto di vista tecnico, nella precedente stagione sportiva, è stato ingaggiato come Direttore Tecnico Michele D’Oppido, crotonese di origine, ex campione olimpionico, con il mandato di costituire il settore sportivo agonistico e migliorare l’organizzazione della scuola nuoto. Ad oggi il settore agonistico tutto, che va dalla propaganda al settore master, è in fase di crescita, e la sua organizzazione sarà portata avanti, per questo nuovo anno sportivo 2016-2017, da Vincenzo Savelli, dirigente, allenatore e manager che assumerà specifici ruoli gestionali e dirigenziali all’interno di un mandato congiunto con altre due società sportive: l’impianto dei “Nuotatori Krotonesi” e l’impianto di Isca sullo Ionio, di prossima riapertura. Nel corso della passata gestione, l’Arvalia ha aumentato il numero degli iscritti in piscina, ha avviato rapporti di collaborazione con i vari Enti di promozione sportiva UISP, ACLI e AICS, che hanno permesso la realizzazione di meeting di nuoto rivolti ai bambini, e ha siglato specifiche convenzioni con le Associazioni Sportive Dilettantistiche presenti sul territorio che hanno come unico vero fine la promozione dello sport secondo i principi di lealtà: in particolare, la Lucky Friends, associazione rivolta alla promozione dello sport per i diversamente abili. L ‘impianto ha ospitato, inoltre, diverse tappe dei campionati FIN ed eventi del settore Master, riposizionando l’impianto all’interno della centralità del nuoto calabrese.

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Costruiamo il Tuo Futuro

Redazionale

E’ così che mi piace iniziare la presentazione di questi due giovani lametini, Rossana Grande e Giancarlo Iemma, che a breve apriranno un esercizio commerciale per la vendita di prodotti senza glutine. Perchè è questo quello che stanno facendo, stanno costruendo il loro futuro, rischiando sulla propria pelle infatti si sono buttati a capofitto in una impresa difficile: il commercio in un nuovo settore, quello del cibo senza glutine. Attualmente, in alcuni esercizi esistenti, si trovano piccoli spazi dedicati a questi prodotti ma aprirne uno dedicato è tutt’altra cosa: è affrontare una sfida, è cercare di lavorare nella propria terra, senza lasciarsi tentare dal desiderio di partire e cercare fortuna altrove. Sono giovani, belli e determinati, sono certa riusciranno! Nell’augurare a questi coraggiosi giovani di riuscire nella loro impresa cerchiamo di capire cosa è questo “gluten free”, questo “cibo senza glutine”, termini diventati ormai consueti sia in ristoranti che in bar che, appunto, in negozi. Sempre più spesso, fuori da questi locali vi sono cartelli con su scritto: “Cibo Gluten Free”. Sui giornali leggiamo articoli sulla celiachia, sul glutine e le ricette, di antipasti, primi, secondi, dolci, pizze, oramai abbondano, proprio a sottolineare come questo problema sia avvertito, addirittura vi è anche la birra, come altre bevande, senza glutine. Lamezia e non solo

Ma cosa è il Glutine? questo, oramai non più, sconosciuto? Ripetiamolo. “Il glutine è una componente proteica dei cereali presente nel frumento e in alcune varietà di cereali quali farro, spelta, triticale, orzo e segale. Di conseguenza, è presente in tutti gli alimenti prodotti con questi tipi di cereali. Pane, pasta, farina, pizza e biscotti ed in genere tutti i prodotti da forno, sono un esempio di quanti alimenti nascondono il glutine. Oltre alla presenza del glutine, particolare attenzione va prestata al processo di lavorazione o di cottura degli alimenti, per evitare la contaminazione da glutin Non solo i celiaci non possono consumarla, infatti è statisticamente provato che; “l’intolleranza e la sensibilità al glutine sono sempre più diffuse, ancora non completamente diagnosticate e hanno un’incidenza nella vita e nell’alimentazione di tutti i giorni. Mangiare fuori casa, per i celiaci, non è ancora la cosa più semplice del mondo”, anche perchè se

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l’intollerante al glutine può non avere conseguenze nel consumare cibo che è venuto a contatto con prodotti con glutine, così non è per il celiaco che potrebbe avere conseguenze disastrose nell’ingerire, per sbaglio, del glutine. Poichè la celiachia è un’intolleranza permanente al glutine, che, come detto, è una frazione proteica contenuta in molti cereali e di conseguenza nella pizza, nella pasta, nelle patatine fritte surgelate, in alcuni salumi, nei biscotti, nelle merendine, è quasi logico chiedersi se il celiaco può mangiare solo carne, pesce e verdure. No, per fortuna non è così, la dieta del celiaco, grazie all’attenzione che i mass media hanno avuto per questa “malattia e grazie alle aziende che negli ultimi anni hanno aperto numerose ditte “senza glutine”, che assicurano l’assenza, appunto, di glutine nei loro prodotti, la dieta dei celiaci può essere varia e non ripetitiva o monotona. Oramai si produce di tutto per i celiaci che possono, tranquillamente, mangiare pasta, biscotti, pizze fatte però con farina di riso o di mais.

buoni questi prodotti? Assolutamente sì, tanto buoni che c’è chi li mangia pur non soffrendo di alcuna intolleranza, non solo per la bontà del prodotto stesso ma anche perchè sono prodotti creati e confezionati con una cura particolare proprio perchè destinati ad una utenza “a rischio”. Sembra che la Celiachia sia in aumento e che sia il male del secolo. Non si nasce celiachi, lo si diventa col tempo. Chi è predisposto alla malattia la manifesta, a volte, dopo lo svezzamento, quando il glutine viene introdotto nell’alimentazione, ed è il caso più frequente ma vi è anche in chi si manifesta dopo un evento stressante per la persona come può essere una gravidanza, un intervento chirurgico, una infezione intestinale. Da ciò si evince quanto sia importante che questa nicchia di mercato venga curata in modo appropriato perchè riguarda la nostra salute. In attesa di andare a trovarli nel loro negozio auguriamo loro un grande successo ed un grande in bocca al lupo!

Altra domanda che viene naturale farsi: ma sono

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Le origini di Nicastro e del Lamentino nella riflessione di studiosi e cultori locali fra ‘400 e primo ‘900

1.Premessa: “Soggetta a quando a quando a diverse ruine, sempre surse più bella – ruine di tremuoti, ruine d’inondazioni, cui si arrovesciarono non poche abitazioni con la morte di molte vittime sventurate, ruine della mano dell’uomo, dai barbari, dai Saraceni, che lunga stagione devastarono queste noste contrade”. Continuità e frattura si coniugano in questo schizzo, così sinteticamente efficace, della storia di Nicastro abbozzata da Nicola Leoni un secolo e mezzo fa (III, p. 107); ed in effetti, qualora ancora oggi ci chiedessimo se siano da collocare in una prospettiva di continuità o di frattura le realtà insediative umane all’interno dell’arco centro-settentrionale del golfo lametino dall’età della pietra ai nostri giorni, non potremmo dare, nella sostanza, una risposta diversa: per un verso qualche fortunata scoperta e singoli, precisi dati storici rendono indubitabile una continuità di vità e di presenza umana ininterrotta; per altro verso i “segni” e le tracce tuttora visibili, nella loro esiguità e nel loro precario stato di conservazione, accanto ad altri dati storici precisi, danno ampia prova della violenza degli eventi naturali che si sono su di essa abbattuti nel corso del tempo e della frequenza di situazioni congiunturali che hanno determinato delle oggettive fratture. L’esistenza reale di Nicastro nel tempo – e con essa quella degli altri due abitati che concorrono a chiudere a settentrione il golfo lametino, Sambiase e S. Eufemia si presenta, infatti, ad una visione storica d’insieme, scandita ed in un certo senso condizionata da ricorrenti fenomeni naturali che talvolta hanno addirittura sommato i loro disastrosi effetti (alluvioni, terremoti, impaludamento di vaste aree della piana e l’incubazione in esse di bacilli malarici); oppure ancora da eventi storici traumatici, come incursioni e guerre, di cui fu spesso oggetto di preda o teatro d’azione. Va però rilevato che la continuità rappresenta un dato sostanziale, strutturale e discende dalla eccezionale idoneità dell’area della piana lametina all’insediamento umano in ogni epoca ed allo sfruttamento delle risorse naturali di cui abbonda: la sua stessa varia connfigurazione, che associa nello spazio di pochi chilometri coste, ampie distese pianeggianti, poggi, colline, monti, valli, fiumi, grotte, sorgenti calde e fredde, boschi e macchia mediterranea, si è via via prestata alle varie forme

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di economia e di sussistenza succedutesi nel tempo: economia di raccolta, di caccia e pesca, economia pastorale transumante e stanziale, economia agricola di tipo cerealicolo e arboricolo, economia della selva ecc.; altresì, la sua posizione geografica strategica, incuneata nel punto in cui la catena appenninica si presenta più sottile, meno ripida e forma un istmo di appena venti miglia, facilmente attraversabile da un mare all’altro con sola mezza giornata di cammino, l’ha posta in ogni tempo al centro degli itinerari lungo i quali si svolgevano baratti e scambi e le diverse culture venivano in contatto fra loro. Le fratture sono, invece, di tipo congiunturale, legate a specifiche vicende umane o a cataclismi naturali; ma merita segnalare il paradosso che tale categoria di fenomeni – per l’epoca anteriore al Mille per lo più puramente ipotetici - abbia lasciato un segno profondo più nella “storia raccontata” che nella “vita vissuta” degli abitati in esame: una storia sconvolta e rimaneggiata a piacere, modulata su quella dinamica semplicistica distruzione/ricostruzione, a cui tanti cultori locali di storia patria hanno trovato naturale ricorrere per ancorarvi ogni tentativo di conciliare dati presunti ed apparentemente divergenti fra loro. Quando nel 1803 venne pubblicata a Napoli la prima monografia a stampa sulla città di Nicastro, scritta da un suo autorevole cittadino e sacerdote, l’avvocato Giuseppe Antonio Scaramuzzino, s’era già sedimentata nella cultura storica dei “dotti” del tempo, e non solo nicastresi e calabresi, una serie di convinzioni tanto erronee quanto tenaci, che circolavano da oltre tre secoli ed erano dai più accettete come verità pressocchè indiscutibili. Esse erano state originate in parte dal fraintendimento di testi antichi, noti per lo più in forma breviata e liberamente tradotta, in parte dall’uso di documenti falsi costruiti ad arte ed inventati di sana pianta.

soprattutto, a valutare nella giusta luce studiosi e cultori nicastresi di storia patria dell’800 e del primo ‘900, che a tante fole hanno in buona fede spesso fatto eco, perché ne trovavano sicura testimonianza in tradizioni orali e vecchi manoscritti di concittadini dei secoli precedenti. 2. La ricerca erudita fra XV e XVI secolo. Un vero incunabolo di falsi dati storici per la storia di Nicastro si rivela la Chronica Trium Tabernarum, scritta dal canonico catanzarese Ruggero Carbonello nel XV secolo, che circolò manoscritta per circa due secoli, prima di essere pubblicata da Ferdinando Ughelli nel IX vol. dell’Italia Sacra (1662). In questo documento, contestato già dal primo editore e tuttora molto controverso, l’obiettivo palesemente perseguito, con la commistione di dati veri e falsi, era quello di rivendicare l’autenticità e l’antichità di tutta una serie di privilegi delle chiesa di Catanzaro considerandoli ereditati dalla chiesa di Taverna (identificata con quella di Tre Taverne) in conseguenza di pretesi decreti di papa Callisto II, che di persona si sarebbe recato a Catanzaro nel 1122 per consacrarvi la Cattedrale dedicata alla Vergine Maria ed ai Principi degli Apostoli Pietro e Paolo. Per inciso vi compaiono alcune notizie su Nicastro e dintorni, destinate ad influenzare tutte le ricerche antiquarie.

Ricostruire a grandi linee la genesi di questi errori, e dei falsi documenti creati nel tempo per puntellarli con nuovi dati apparentemente inoppugnabili, riveste, di per sé, un certo interesse storico; serve poi a fare giustizia una volta per tutte delle fole del passato, che stranamente persistono ancora a circolare in sordina, nonostante le smentite susseguitesi nel tempo; ma serve,

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Referto Arbitrale il Sacro Lettore Il Pallone nell’occhio

Al giudice unico

“ Agli autori va certamente contestato qualche fallo di troppo per eccesso di impertinenza. Le 1000 domande, poi, vanno al di là di qualsivoglia tempo di recupero e maliziosamente tentano di riaccendere una partita ormai conclusa. Tuttavia, non si propone per i due alcuna squalifica. Perché hanno avuto l’ingenua presunzione di capire la vita con un pallone negli occhi o, se volete, di tirare il pallone dentro le regole della vita. Quando si sa che, la vita, non è mai un gioco.” poi ho deciso di intraprendere questa carriera come mai hai deciso per questa professione e non per quello di insegnante sicuramente più facile più persa che donna allora devo fare

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“Ultime conversazioni”: chi crede non è mai solo, chi pensa non è mai un “fallito” Quando il giorno dopo l’elezione nell’aprile 2005 il Manifesto titolò in prima pagina “Pastore Tedesco”, capii subito quali erano gli ambienti politico – culturali a cui il nuovo Pontefice dava fastidio. Erano sempre gli stessi, quelli con il patentino della moralità, abituati a “pontificare” non da San Pietro ma da salotti e salottini parlando di operai con la “r” moscia tra una vacanza alle Terme e l’altra. Da quel titolo pieno di rancore ebbi la prima conferma che il Conclave aveva scelto il Papa giusto. Qualche anno dopo, la lobby politico-mediatica internazionale volutamente stravolse le sue parole sul preservativo nel corso del viaggio del Pontefice in Africa: capii che quel Papa era quello di cui il nostro tempo aveva bisogno. E quando con un atto di inaudito autoritarismo, un gruppo di professori di fisica si oppose all’intervento di Benedetto XVI all’inaugurazione dell’anno accademico della Sapienza a gennaio 2008, imponendo uno stranissimo concetto di laicità per cui tutti possono dire la propria meno che chi non la pensa come certe cerchie progressiste, e il Pontefice rinunciò ad imporsi e si limitò ad inviare il testo scritto del suo discorso: pensai, questo è il Papa di cui l’umanità ha bisogno. C’è un’immagine, ripetuta più volte nell’ultimo libro –intervista a cura di Peter Seewald dal titolo “Ultime conversazioni”, che sintetizza e lega i tanti volti dell’uomo e del Papa: l’immagine del servo. L’uomo e il teologo Joseph Ratzinger, l’intellettuale stimato da credenti e non credenti in tutti il mondo, il sacerdote e il Pontefice hanno come filo che li lega quella consapevolezza di essere, come dirà nelle prime parole subito dopo l’elezione, “un umile lavoratore nella vigna del Signore” fiducioso che il Suo Dio “sa operare servendosi di strumenti non sufficienti”. Lui si riteneva quello strumento non sufficiente a disposizione di Dio e della Chiesa. Ma dietro questa affermazione non c’era nessuna falsa umiltà o un’immagine mansueta di stampo sentimentalistico. C’era invece quella prospettiva cristiana che rovescia i modi di pensare e di vivere, i criteri del successo e dell’insuccesso, delle vittorie e dei fallimenti: amare significa servire, abbassarsi, sacrificarsi per un bene più grande. In uno dei suoi pochi interventi dopo il ritiro in monastero, il Papa Emerito ha parlato ai suoi ex studenti ricordando loro che “ci troviamo sulla via di Cristo, se proviamo a diventare persone che “scendono” per entrare nella vera grandezza, nella grandezza di Dio che è la grandezza dell’amore”.

forze non reggono più e gli occhi vorrebbero tanto spegnersi per guardare in faccia quel Dio che si è tanto amato per tutta la vita. Nell’immaginario collettivo, in estrema sintesi, possiamo così tratteggiare gli ultimi Pontefici che hanno segnato il passaggio cruciale da un millennio all’altro: Giovanni Paolo II, come Papa che “stava in piedi” e parlava alle folle; Papa Francesco come il Papa dell’abbraccio della gente, dell’ “incontro”, del tocco fisico; Papa Benedetto come il Papa “in ginocchio”, che è la posizione al tempo stesso di chi prega e di chi serve. Quanto terrore può suscitare al mondo e alla società di oggi un uomo in ginocchio. Fa paura qualcuno che metta in dubbio l’autosufficienza dell’uomo, la pretesa dell’individuo di dettare da se cosa è giusto e cosa non è lo è, come disporre della propria vita e della vita degli altri. Un uomo che anche da Papa dichiarava di essere non autosufficiente, con il suo stile pacato, la sua voce debole, il suo stare in ginocchio, annuncio all’umanità che è follia pretendere di bastare a se stessi, di elevarsi a creatori e redentori di se stessi: c’è bisogno di Qualcuno che venga a soccorrerti, a salvarti, ad amarti. Per un Papa, risponde il Papa Emerito all’autore del libro, sarebbe preoccupante ricevere solo applausi e pacchi sulle spalle; Cristo stesso, di cui il Pontefice è vicario, fu il più grande paradosso della storia, la parola più scomoda, quella che non si vuole sentire. Solo in questa dicotomia “autosufficienza dell’uomo

I rifiuti del mondo verso Benedetto XVI non sono verso atti specifici del suo governo della Chiesa, molti dei quali sono stati volutamente taciuti come l’aver ridotto allo stato laicale oltre 400 sacerdoti accusati di pedofilia o aver varato norme rigidissime contro il riciclaggio, ma contro uno stile che interpellava l’uomo di oggi a porsi delle domande, a far dialogare fede e ragione, a prendere in considerazione il fatto che Qualcuno lo amasse davvero e volesse salvarlo. Gesti eclatanti, di grande effetto mediatico, Benedetto XVI ce ne ha lasciati pochi. A parte ovviamente le sue dimissioni. Ci ha lasciato solo un gesto di rottura: affidandosi a Dio, ha pensato con la propria testa. Anche quando significava non ricevere applausi, essere messo in minoranza. Ha pensato con la propria testa. E nel libro, quando ammette con umiltà di non essere portato per decidere e governare imponendosi oppure riconosce il limite della sua timidezza, il Papa Emerito si fa compagno di quella parte di umanità che resta indietro e spesso anche da sola: di quanti in questo mondo non hanno la forza di battere i pugni sul tavolo, di quanti non appartengono alla categoria di quelli che “ce la sanno”. Per questo, oggi rispondendo a Seewald, può dire con serenità: non mi sento un fallito. Perché chi pensa non è mai un fallito. Chi serve per amore un popolo e ricerca la verità, non è un fallito. Anche se è minoranza. Anche se si resta soli. E io personalmente desidero ringraziarlo perché, parlando per la prima volta a milioni di giovani a Colonia nel 2005, ha detto delle parole che ricordo sempre senza adeguarsi all’ evergreen “voi siete il futuro”: ha detto “chi crede non è mai solo”. Valgono per i credenti ma anche per chi crede in valori e ideali più alti, in qualcosa che resta e che non è piegato alle logiche della gratificazione momentanea. Chi crede all’amore ed è capace di far morire il proprio egoismo per il bene dell’alto. Chi crede ha sempre una marcia in più. E non è mai un fallito.

Questo è stato Joseph Ratzinger, questo è l’immagine di lui che viene fuori dal percorso ricostruito nelle risposte al giornalista tedesco: l’uomo che serve, che si abbassa, che sa quando è il momento di lasciare il posto, che accetta come volontà di Dio quando le

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moderno – bisogno di un Dio che salva”, si può leggere e comprendere il suo storico ritiro: riconoscere a se stessi e davanti a Dio che le forze vengono meno, che non si è più in grado di farcela. Il Papa del primato della fede ammette di non farcela e con un gesto destinato a cambiare la storia evangelizza l’uomo ubriacato di onnipotenza, ricordandoci che ci salva l’amore di un Dio “sconfitto”, di un Dio “crocifisso”. .

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Summer Jazz Festival

Svoltosi a Lamezia Terme presso i Giardini del Novecento dal 24 al 26 agosto 2016. Per tre giorni, da mercoledì 24 a venerdì 26 agosto, in programma “Summer Jazz Festival” 1a Edizione 2016. La tradizionale kermesse estiva è stata dedicata a tutti gli amanti della musica jazz e si è svolta nella suggestiva cornice dei Giardini del Novecento a Lamezia Terme. Il festival ha condotto il pubblico in un appassionante viaggio nella storia e nella contemporaneità di questo genere musicale, spesso ritenuto “di nicchia” ma in realtà percorso da numerosi musicisti di diversa formazione e dotato di grande ricchezza e complessità di stili. Uno degli obiettivi della rassegna è stato proprio quello di promuovere la cultura del jazz e avvicinare i più giovani all’ascolto della sua musica. Finalità che, come ribadito dagli organizzatori, ha dato buoni risultati e di certo questo festival potrà diventare nel prossimo futuro uno degli eventi più apprezzati della nostra regione, per la sua capacità di proporre la musica jazz a un pubblico eterogeneo e di tutte le età in maniera interessante, seria e coinvolgente. Una “esplorazione” del jazz che è avvenuta attraverso i concerti all’aperto nei Giardini del Novecento location meravigliosa situata al centro della città di Lamezia. Nel cartellone tre formazioni calabresi, che hanno suonato stili diversi tra loro per gli amanti del jazz. Il programma ha preso il via giorno mercoledì 24 agosto con il chitarrista cosentino Andrea INFUSINO 4TET un progetto nato nel 2014 che propone jazz moderno e originale. Il sound dei brani e del gruppo si rifà alle esperienze accademiche e concertistiche con chiari riferimenti al bebop, all’hard bop e al jazz modale. Nel format sono presenti riferimenti e citazioni ai colossi del jazz come J.Coltrane, J.Henderson, W.Montgomery, J.Smith recuperandone l’eredità in un progetto musicale fresco e innovativo che coniuga il glorioso passato del jazz con l’innovazione e la modernità. Non mancano, inoltre, influenze e suoni mediterranei con l’introduzione di strumenti quali il clarinetto basso e l’oud che si mescolano all’approccio fortemente jazzistico delle improvvisazioni. Grazie alla filosofia di forte coesione e di ascolto reciproco, il gruppo riesce a spaziare da momenti di chiaro senso ritmico al free jazz che caratterizzano maggiormente i

brani. L’interplay è il leitmotiv di ciascun brano che consente al gruppo deviazioni inaspettate e sempre originali, elevando i momenti musicali ad esperienze uniche d’ascolto. Il chitarrista Infusino è affiancato da Danilo Guido sax e clarinetti, Fabio Guagliardi Organo e pianoforte e Manolito Cortese Batteria e percussioni. Giovedì 25 agosto sul palcoscenico un Trio di eccezione capitanato dal Pianista lametino Egidio VENTURA LATIN JAZZ THREE featuring Frank Marino al basso elettrico e Emanuele Fuduli alla batteria. Il Trio del musicista lametino è senza dubbio uno dei gruppi musicali più originali e interessanti che emerge con prepotenza ed intelligenza nell’asfittico mondo musicale calabrese, dimostrando che non esistono barriere tra i diversi generi musicali. Mostrando rare versatilità e capacità strumentali, il progetto è un contenitore che si permette di shakerare suoni e generi musicali: tra il latino e il jazz, in un continuo gioco tra ritmi incalzanti e armonie interessanti il cui risultato è come un cielo sereno da cui improvvisamente arriva un temporale. Questo è ciò che contraddistingue in modo inequivocabile ed ineguagliabile la formazione del Pianista Lametino, facendo della loro musica un marchio di fabbrica per il sound, la singolarità dei suoni, strumentali, in una riuscitissima commistione tra lo stile latino e quello afroamericano, offrendo una combinazione che non permette di annoiarsi all’ascolto. Il progetto è in co-produzione con Lamezia Jazz Festival. A chiudere la kermesse del Summer Jazz Festival è stato Bruno MARRAZZO TRIO, chitarrista talentuosissimo jazzista cosentino, che è stato affiancato dalla bravissima Cantante Emilia Stamile e dal Contrabbassista Renzo Carpanzano. Marrazzo Bruno è un grande musicista, un autentico innamorato della musica che, oltre ad eccellenti doti chitarristiche ed un sentimento profondo che traspira da quello che suona, riesce anche a divulgare in maniera efficace il fare musica. Il Trio ha proposto composizioni jazz d’autore, standard jazz famosi andando a toccare diversi stili dal Swing alla Musica Sud-americana.

L’angolo della Poesia

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Civita

Nell’ora in cui il cielo si tinge di rosa Tu Civita favola antica m’appari.

son’ occhi di maghi incantati

I raggi del sole sui tetti

E..l’aria sospesa,rimane nel cielo come rondine in volo.

Le piccole case balocchi di fate perdute.

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Di notte una cupola azzurra t’avvolge e fauni e gnomi silenziosamente danzano al tempo che se ne va.

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Il Romanzo di Ruggero Pegna

Il Cacciatore di Meduse

presentato a Reggio Calabria, presso il Palazzo della Cultura “Pasquino Crupi”, simbolo di Cultura e Legalità Mentre nel porto di Reggio Calabria la nave di Medici Senza Frontiere “Bourbon Argos” sbarcava 541 migranti, tra i quali 72 donne, 79 minori non accompagnati e sette accompagnati, di origine prevalentemente subsahariana, nel Palazzo della Cultura “Pasquino Crupi” è stato presentato il commovente romanzo “Il cacciatore di meduse” di Ruggero Pegna, storia di un piccolo migrante somalo e dei suoi amici immigrati di tutto il mondo. L’incontro è stata organizzato e coordinato con grande sensibilità dalla giornalista e pittrice Elmar Elisabetta Marcianò, che ha anche presentato un dipinto da lei realizzato ispirato proprio al romanzo. Numerosi gli interventi, tra cui quelli del professore Vincenzo Maria Romeo, docente di psicologia sociale presso l’Università per Stranieri “Dante Alighieri” di Reggio Calabria, del dottore Edoardo Lamberti-Castronuovo, assessore per le Politiche Culturali della Provincia e dell’editore del romanzo Michele Falco. Non casuale la scelta della location, come ha sottolineato la Marcianò. Il palazzo della Cultura è stato aperto lo scorso maggio e custodisce un immenso patrimonio artistico: circa 400 dipinti di artisti che vanno da De Chirico a Modigliani a Marino, Bava, ai più di 200 artisti locali contemporanei in mostra permanente. In mostra, anche numerose opere confiscate, tra cui i quadri della confisca Campolo. “Il palazzo della cultura Pasquino Crupi è una location preziosa, adatta ad ospitare un libro altrettanto prezioso; la presenza di molti dipinti di enorme valore, insieme a quella dei pittori reggini, offre uno scenario suggestivo unico in cui la presentazione di questo romanzo può svolgersi nella sua interezza fatta di drammatica realtà e luminosa speranza, lega-

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ta ad un filo narrativo che sfiora delicatamente la fiaba”, cosi Elisabetta Marcianò, presidente dell’associazione “LiberArché” e curatrice dell’evento, ha spiegato la scelta, “che si è rivelata scelta felice, come ricco di rivelazioni è stato lo stesso racconto, colmo di riflessioni delicate, ma anche precise, taglienti rispetto al momento storico che viviamo”. Alla Marcianò ha fatto eco Pegna all’inizio del suo intervento, sottolineando come questo palazzo sia allo stesso tempo simbolo di cultura e legalità, tema quest’ultimo a cui lo stesso autore ha dedicato una delle sue precedenti pubblicazioni, “La pecora è pazza”. Altro riferimento è andato al libro “Miracolo d’Amore” (Rubbettino editore), storia della leucemia affrontata da Pegna fino al trapianto di midollo osseo, in cui il racconto del periodo di malattia si fonde con quello di un condannato a morte innocente, tra fantasia e la realtà fatta di dure terapie e fede. “Quando ho sentito la diagnosi che non mi dava alcuna speranza di sopravvivenza per il tipo di leucemia, mi sono aggrappato ai medici e alla fede, alla mistica Natuzza Evolo che mi ha dato coraggio e predetto la guarigione. Da quella situazione limite che ho vissuto – ha detto Pegna – è iniziato un percorso di immedesimazione in situazioni di grande sofferenza e difficoltà contraddistinte dalla voglia di sopravvivere, come è anche lo stato di uomini in fuga dalle atrocità e miserie delle loro terre alla ricerca di condizioni di vita dignitose e ammissibili per la condizione umana. Nessuno ha scelto di nascere, né come né dove, ma tutti hanno diritto a sperare in una vita migliore per sé e i loro figli. ” Il professore e psichiatra Vincenzo Maria Romeo ha confermato l’importanza formativa di questo romanzo, da introdurre nelle scuole

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per la sua capacità di aiutare al superamento di pregiudizi e barriere verso uomini di diverso colore, religione, cultura ed etnia: “Mi ha sorpreso ritrovare nel romanzo – ha detto Romeo - aspetti di una verità impressionante, tra le altre cose, sono direttore di un centro di accoglienza perciò vivo quotidianamente le aspettative, le speranze e gli aspetti drammatici dei migranti”. L’incontro reggino è stato chiuso dall’intervento del dottor Lamberti-Castronuovo che ha sottolineato il significato che assume questo romanzo, capace di parlare con semplicità e sentimenti, senza retorica, in un momento storico in cui le cronache di sbarchi sono anche al centro di dibattiti sull’odio razziale e le oggettive difficoltà di accogliere le migliaia di migranti quotidianamente in arrivo. In un momento storico dominato dalle tragedie dell’intolleranza, dell’odio e del fanatismo terroristico, “Il cacciatore di meduse” parla di umanità e sentimenti, di uguaglianza tra uomini di ogni fede, razza e colore. Un libro struggente e attuale, una fiaba contemporanea, che ripropone il valore controcorrente del rispetto verso gli altri e la ricchezza della contaminazione tra diverse culture, affascinando anche i lettori più giovani. Una storia dei nostri giorni, tra fiaba e realtà, che appartiene a tutti noi. Secondo molti, un vero romanzo di formazione. Un romanzo che arriva dritto al cuore di lettori di ogni età, incastonato nella storia mondiale degli ultimi anni, dall’elezione di Obama, primo presidente americano di colore, all’appello di Papa Francesco alla Comunità Internazionale. Un romanzo che racconta la dura realtà dei nostri giorni, tra episodi drammatici e sfumature fiabesche, fino a fare diventare naturale il grido contro ogni forma di razzismo.

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Settembre

benvenuta scuola 1 Settembre, inizia la scuola: Si riavvia il linguaggio culturale che ci accompagnerà per tutta la vita. Oggi la scuola non è più intesa come luogo d’istruzione ( saper leggere, scrivere e far di conto ) ma come ambiente educativo di apprendimento, in cui ogni alunno apprende a imparare, ovvero un ambiente adatto in cui realizzare l’ ‘alfabetizzazione culturale’. La scuola è per tutti ed è adatta a ciascuno; il che significa che occorre realizzare opportune strategie di individualizzazione dell’insegnamento allo scopo di evitare la selezione per un verso, per l’altro favorire la socializzazione. La scuola, quella elementare in modo particolare, promuove l’acquisizione di tutti i tipi di linguaggi e un livello di padronanza dei quadri concettuali, delle abilità, delle modalità d’indagine essenziali alla comprensione del mondo umano, naturale e artificiale. Essa concorre a potenziare la creatività dell’alunno. Particolare importanza rivestono due aspetti: La necessità che le funzioni motorie,cognitive ed affettive operino in modo sinergico suscitando nel fanciullo il gusto di un impegno dinamico nel quale si esprime tutta la personalità. Le sollecitazioni offerte nell’ambiente scolastico promuovono la progressiva costruzione della capacità di pensiero riflessivo e critico, potenziando nel contempo creatività, divergenza e autonomia di giudizio, sulla base di un adeguato equilibrio affettivo e sociale e di una positiva immagine di sé. In tal modo la scuola pone le basi cognitive e socio-emotive necessarie per la partecipazione sempre più consapevole dell’alunno alla vita sociale, basi che si articolano oltre che nelle conoscenze e nelle competenze sopra indicate, anche nella motivazione a capire ed a operare costruttivamente, nella progressiva responsabilizzazione individuale e sociale, nel rispetto delle regole di convivenza, nella capacità di pensare il futuro per prevedere, progettare, cambiare e verificare. Per quel che riguarda l’integrazione scolastica degli alunni con disabilità, questa costituisce un traguardo importante nel sistema educativo italiano, che è una comunità accogliente nella quale tutti gli alunni, a prescindere dalle loro diversità funzionali, possano realizzare esperienze di crescita individuale e sociale. La piena inclusione degli alunni con disabilità è un obiettivo che la scuola dell’autonomia persegue attraverso una intensa e articolata progettualità, valorizzando le diverse competenze individuali e le risorse offerte dal territorio. Per quel che riguarda la presenza in classe di alunni con problemi: La Legge 8 ottobre 2010, nº 170 riconosce la dislessia, la disgrafia, la disortografia e la discalculia quali disturbi specifici di apprendimento, denominati “DSA”. Il diritto allo studio degli alunni con DSA è garantito mediante molteplici iniziative promosse dal MIUR e attraverso la realizzazione di percorsi individualizzati nell’ambito scolastico. Per quel che riguarda gli alunni

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con Bisogni Educativi Speciali (BES), questi vengono inseriti all’interno del gruppo classe, considerati come persone nella loro totalità, in una prospettiva bio-psico-sociale, senza discriminazioni, assumendo nei loro confronti un approccio decisamente educativo. Fondandosi sul profilo di funzionamento e sull’analisi del contesto, il modello ICF ¹ consente di individuare i Bisogni Educativi Speciali (BES) dell’alunno prescindendo da preclusive tipizzazioni. In questo senso, ogni alunno, con continuità o per determinati periodi, può manifestare Bisogni Educativi Speciali: o per motivi fisici, biologici, fisiologici o anche per motivi psicologici, sociali, rispetto ai quali è necessario che le scuole offrano una risposta adeguata e personalizzata. Spesso tra docenti o genitori si utilizza impropriamente l’acronimo ‘BES’ riferendosi solo al terzo tipo di Bisogno Educativo Speciale individuato dalle norme. Anche nelle scuole capita spesso di sentire espressioni di questo tipo: “non è certificato, è un ¹ ICF è la classificazione del funzionamento, disabilità e della salute, in inglese International Classification of Functioning, Disability and Health, promossa dall’Organizzazione mondiale della sanità (OMS). BES”, oppure: “non è un BES, è un alunno disabile”, o ancora “ha la certificazione DSA, non è un BES”. Non pochi docenti, pur conoscendo le definizioni e le distinzioni introdotte on la Direttiva Ministeriale del 27/12/12 indicano spesso con il termine BES solo quegli alunni che, pur manifestando un Bisogno Educativo Speciale (BES), non rientrano nelle misure previste dalla L. 104/92 sulla disabilità e dalla L. 170/10 sui Disturbi Specifici dell’Apprendimento (DSA). In realtà, però, anche gli alunni con certificazione o con diagnosi di DSA manifestano un Bisogno educativo Speciale, riconosciuto, però, in questo caso, anche da una legge dello stato. Occorre perciò fare un po’ di chiarezza sull’uso dei termini. In verità gli alunni che presentino una richiesta di speciale attenzione, per motivi diversi e molteplici, sono in costante aumento. Quest’ area viene individuata dalla D.M. e indicata come svantaggio scolastico; essa ricomprende problematiche diverse e definita come area dei Bisogni Educativi Speciali (BES). Vi sono comprese tre grandi sotto-categorie: la disabilità; i disturbi specifici di apprendimento e/o disturbi evolutivi specifici e lo svantaggio socioeconomico, linguistico o culturale.1. Nella prima sottocategoria rientrano gli alunni con disabilità certificata ai sensi della L. 104/92. Solo in questo caso è prevista la presenza del docente di sostegno, per un numero di ore commisurato al bisogno.

bi evolutivi specifici. La D . M . chiarisce che in essa rientrano non solo i Disturbi Specifici dell’Apprendimento (DSA), diagnosticati ai sensi della L. 170/10, ma anche i deficit del linguaggio, delle abilità non verbali, della coordinazione motoria, dell’attenzione e dell’iperattività (ADHD). Per gli alunni con DSA è obbligatorio il ricorso ad un Piano Didattico Personalizzato (PDP) e l’utilizzo di strumenti compensativi e di misure dispensative che possano garantire il successo scolastico di tali allievi. 3. La terza sottocategoria, infine, riguarda gli altri BES, cioè quegli alunni cioè con svantaggio socioeconomico, linguistico o culturale. In tal caso, non si è in presenza di una problematica certificata o diagnosticata ai sensi di una norma primaria e specifica di riferimento, ma si rileva tuttavia un bisogno educativo speciale, generalmente limitato nel tempo, dovuto a situazioni molteplici, che sono causa di svantaggio che richiedono pertanto, per un certo periodo una particolare attenzione educativa. Si tratta ad esempio degli alunni di recente immigrazione, che non hanno ancora appreso la lingua italiana, oppure di allievi che si trovano in una situazione sociale, economica o culturale difficile, che comporta molteplici disagi nel regolare percorso scolastico. Anche in tal caso, come previsto dalla nota ministeriale n. 2563/13 si può ricorrere alla compilazione di un PDP ed a misure compensative e dispensative, qualora il consiglio di classe lo ritenga necessario per un certo periodo di tempo. In tal caso non è un obbligo ma una decisione collegiale dei docenti. In tal modo la scuola pone le basi cognitive e socio-emotive necessarie per la partecipazione sempre più consapevole dell’alunno alla vita sociale, basi che si articolano oltre che nelle conoscenze e nelle competenze sopra indicate, anche nella motivazione a capire ed a operare costruttivamente, nella progressiva responsabilizzazione individuale e sociale, nel rispetto delle regole di convivenza, nella capacità di pensare il futuro per prevedere, progettare, cambiare e verificare. In ogni caso e qualunque sia il caso e lo svantaggio,fisico, psichico o sociale, si tratta sempre e comunque di persone, di giovani personalità in formazione che non devono essere indicate con acronimi quali ‘ BES’, ma chiamate per nome e formate dalla scuola, motivate ad apprendere i nuovi linguaggi del sapere, per conoscere il mondo ed essere anch’essi padroni del proprio futuro e cittadini del domani.

2. La seconda sottocategoria riguarda i distur-

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