lameziaenonsolo gennaio 2020 incontra francesco polopoli

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Lamezia e non solo

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PROV. DI CATANZARO


lameziaenonsolo incontra

di Nella Fragale

Francesco Polopoli

Incontriamo questo mese Francesco Polopoli, professore di latino e greco del Liceo Classico F. Fiorentino, nonché membro del Centro internazionale di studi gioachimiti; con una citazione immediata apriamo con lui questa piacevolissima conversazione: «la cultura è l’unico bene dell’umanità che, diviso fra tutti, anziché diminuire diventa più grande» (Hans Georg Gadamer). Buongiorno, Francesco e grazie per aver accettato di farti intervistare. Intanto, fa piacere che un giovane studioso lametino abbia una così grande attestazione di stima: senza dubbio ci sta dietro un lavoro attento e scrupoloso di cui vorremmo che tu ne parlassi. Da dove inizia la tua formazione e come hai incrociato il tuo percorso gioachimita? Grazie a te, Nella, per offrimi la possibilità di partecipare qualcosa di nostro, dal momento che ogni incontro, come questo, per esempio, è occasione di relazione. Ecco in sintesi lo spirito con cui ho intrapreso, sin da giovanissimo, il mio rapporto col mondo: l’altro come destinatario d’ascolto e come destinazione di senso. Spesso vado dicendo che la cultura è la forma più alta di carità sociale: un amore che mi appassiona da sempre, consapevole, poi, che la conoscenza sia il mattone più stabile di una sana e robusta Costituzione civile. Tutto è partito da Terno D’Isola: la mia piccola isola bergamasca dove tutto ha avuto inizio; impressa nella mia memoria è ancora la telefonata della dottoressa Capitanio, dal Provveditorato agli Studi di Bergamo. “Professor Polopoli”, - mi disse subito senza mezzi termini - “lei è stato contattato per un contratto a tempo indeterminato”. Non ci capii nulla, sostanzialmente, giustificandomi per il colpo di sole da canicola agostana di quel periodo: ricomposi i miei pensieri, richiamando poco dopo il numero di contatto. La risposta fu la medesima e l’invito fu pure di partire immediatamente. Non nascondo le

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incertezze che provai, soprattutto perché sentì stravolte in un momento tutte le mie carte in tavola. Non avevo preruolo, ero primo in quattro classi di concorso contemporaneamente, c’era da immaginarselo: certo, non mi aspettavo che si sarebbero sbloccati in quel periodo i reclutamenti delle nuove leve. 14000 in tutta Italia: io, uno di loro, a scegliere in una rosa di opzioni cittadine che non conoscevo minimamente. Rammento ancora con sorriso quando arrivai a decidere fisicamente la mia primissima Scuola: “Terno”, mi richiamava il numero ternario, cui sono legato per studi gioachimiti, mentre “D’Isola” rievocava la mia partenza dall’Ateneo messinese. Bingo, allora; scelsi questa cittadella dell’hinterland di Bergamo con cuore calabro-siculo. Dopo sei anni, la svolta sangiovannese e l’approfondimento del calavrese abate Giovacchino di spirito profetico dotato. Bergamo, parlaci di questa tua prima città e della tua esperienza bergamasca: come hai vissuto questo rapporto e, soprattutto, è venuto a mancare il tuo essere calabrese a contatto con una regione diversa? Ho accolto di buon grado questo trasferimento, senza tenere in considerazione alcuna perplessità, se non quella di poter donare un dono. Come per il quo vadis, dissi a me stesso “accetto”, senza se e senza ma. Lì ho incontrato la mia tutor, Jole Gherardi, moglie del sindaco d’allora Consonni, che mi seguì passo passo nello svolgimento del mio lavoro: di lei conservo una bellissima dedica, da lei autografata, ai margini

di un testo storiografico della comunità (“al mio allievo preferito con la certezza che sempre utilizzerai per il meglio i talenti che ti sono stati donati con grande generosità”). Tengo tantissimo a questo volume che conservo gelosamente in una scansia privilegiata della mia biblioteca privata, perché “quell’allievo” me lo sento cucito addosso nelle profondità del mio modus operandi a distanza di quasi un ventennio, ci manca poco, ormai! Gli studiosi restano studenti, a mio parere: ancor più nel mondo scolastico, dal momento che è dell’insegnare l’apprendere. Quanto di calabrese è rimasto di me nella terra bergamasca? Tutta l’anima, posso dire: un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo che anche quando non ci sei resta ad aspettarti, diceva nella Luna e i falò Cesare Pavese e penso che valga come mia risposta più sincera. Tuttavia, la fierezza del mio mondo d’origine ho deciso di spenderla lì e, tra le altre cose, in un territorio che il mio destino ha incrociato, senza neppure preventivarlo, perché c’erano in cantiere altre idee e tante e parecchie progettazioni. Già che ci sono, mi sono ritrovato, detto-fatto, nella Commissione Cultura ed Istruzione della provincia bergamasca, per un biennio, accanto all’Assessore Carla Ferrati: uno dei lavori che mi pregio di menzionare è la stesura di un volume fiabesco C’era non c’era, tra fiabe ed antifiabe. La particolarità di questo testo, in sintonia con l’Assessorato alla Cultura ed istruzione e delle Politiche sociali, era quello di ricostruire una convergenza

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tra culture differenti: sentivamo che l’alfabetizzazione fosse più forte grazie al potere delle storie. Non solo: l’operetta ha visto la sua luce, e qui mi commuovo, grazie al fervido impegno di Thomas Arrigoni, un giovanissimo adulto, scomparso recentemente, affetto dalla distrofia muscolare di Duchenne. Fu lui a scriverlo con un bastoncino tra i denti: quello lo guidava in una manualità surrogata mentre il suo sguardo era tutto concentrato sulla tastiera del suo pc. I suoi occhi baluginavano di gioia ogniqualvolta incontrava me e Carla: per noi quei momenti erano ritorni umani di bellezza di vita, lo dico con tutta sincerità, a nome di entrambi. Che dire, poi, del Castello di Soncino dove, in collaborazione con L’Unesco di Treviglio, presentammo un artista calabrese: Francis La Monaca. Una location di tutto rispetto che mi fece annaspare poco dopo aver valicato il suo ponte levatoio. Ero lì, negli stessi spazi che Ermanno Olmi scelse per il Mestiere delle Armi: anche qui Richard Donner diresse il suo Ladyhawke. Lo spaesamento è stata una reazione legittima, che poi ha colorato di bello la presentazione di questo nostro artista corregionale. Ma con la lingua, come te la sei cavata? Non dirmi che non hai incontrato qualche difficoltà con il loro dialetto, differente totalmente dal nostro. Guarda, qui inizi a sfondare una porta aperta, che è la mia personale curiosità per i linguaggi. Fermamente convinto che l’uomo è natura che si fa cultura, ho aperto immediatamente un legame con il territorio: ne è venuto fuori uno schedario delle voci e delle espressioni che sentivo frequentemente. Tutto questo senza lasciarlo campato in aria: quelle parole richiedevano una spiegazione, non solo una mia acquisizione mnemonica. Le

mie ricerche dialettologiche, 16 anni fa, se non vado errando, trovarono spazio su Giopì: ero il primo Uomo del Sud ad occuparmi del vernacolo bergamasco a 154 anni di fondazione di quel periodico d’informazione, pensa un po’! Tocchi un punto molto interessante, a questo punto, Francesco: il valore del dialetto su scala territoriale. Da quando coltivi questa passione per la lingua del popolo, quella orale, che sempre più, ahimè, sta sparendo un po’ dappertutto? A dire il vero, da almeno 20 anni, da quando curai l’edizione dei Modi di dire lametini, del compianto Santo Sesto. Quella prefazione fu firmata da me in un periodo fecondo di stimoli: forte era in me il magistero della professoressa Paola Radici Colace, filologa dell’antico, nota a tutto il panorama nazionale; continua ad esserlo, perché la sua traccia per me è continuo orientamento. Poi son venuti fuori L’idioma lametino: contatti con Montalbano Elicona e Galati Mamertino. Insomma, il dialetto mi segue da almeno due decenni: va a rafforzare il mio bagaglio classico, anche perché è un sistema di segni viciniore, di non poco, alle strutture del passato. Un buon anello di congiunzione che ho preferito incastonare come tesoro di vita. C’è una nostra espressione dialettale che ti ricorda il mondo dei Greci o dei Romani? Non so, “Vju nduvi mi portanu i pìadi!” è una di queste: è il calco dell’oraziano ire pedes quocumque ferent (“andar dovunque portano i piedi”); oppure “sa dd’u supìarchjiu!”, continuazione del motto che Solone fece scolpire sul frontone del tempio di Apollo medèn agan (“senza eccessi”). Ancora: quella che chiamo simpaticamente la

legge di Topolino, che non è il fratello ideale del fumetto Paperino, per farti sorridere, ovvero “Dammi tìampi ca ti cupu!”. Questo proverbio ha una sua morale, esattamente come le favole di Esopo, Fedro, La Fontaine, per fare un confronto immediato. Visto che la noce ha un guscio piuttosto consistente, il topo per bucarla e nutrirsi di quanto c’è in essa ha bisogno di tempo per rodere il guscio e, per inciso, seppure sia una ridondanza, tutti sappiamo quanto sia duro il suo rivestimento da rompere, no!? «Dai tempo a tempo», perché «chi la dura ... la vince», sembra raccontarci questo adagio: il tempo cairologico è racchiuso in non poche espressioni paremiologiche, compresa la nostra, figlia, d’altronde, di eredità classiche, alquanto cementate, che resistono tuttora, per solidità consapevole o incosciente, al galoppo inesorabile dei tempi. Insomma, sta alla pazienza del piccolo roditore adoperare al meglio i suoi dentoni, sino a traforare il mallo per approdare al saporito gheriglio. «Patientia animi occultas divitias habet» trad.: la pazienza è una vera, segreta ricchezza), raccomandava nelle Sententiae il buon Publio Siro, e questa esortazione, sfrondata della lingua dotta, si è volgarizzata fino a noi, mantenendo vivo il piano semantico delle medesime idee. Di tale motto si sono poi appropriati gli uomini del lametino, i quali lo adoperano per sostenere che riuscirà a superare anche gli ostacoli più difficili chiunque sappia mettere interamente a frutto le sue risorse, impegnar bene tutte le sue potenzialità, anche se modeste. Dove voglio arrivare? Agire è la coniugazione di quarta che non deve andare necessariamente in quarta: piano piano…la lenta ripetizione che la grammatica lascia senza errori per non farci errare. Qualche altra chicca, per chiudere il cerchio, è stat da me scoperta strada facendo: quest’anno, all’interno dei saloni dell’Uniter, del cui direttivo faccio parte, ho appreso la parola cacafanara. A spiegarmela è stata la professoressa Luciana Parlati, anche lei appassionata di storie e parole dell’antichità. Cosa significa, questa parola, Francesco: potresti spiegarla, a

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questo punto!? Forse è più facile partire dalla sua funzione più intrinseca, Nella: consisteva, una volta, nell’esecuzione d’un canto intessuto di ingiurie e di imprecazioni, che veniva rivolto da coloro che si recavano a fare la strenna natalizia contro la famiglia che non aveva sentito il dovere di offrire, per le loro prestazioni canore, neppure un bicchiere d’acqua. Una domanda sorge spontanea: che diresti ai giovani del rapporto col passato? La memoria è educazione alla cittadinanza: senza le radici gli slanci e le prospettive sono alquanto deboli. C’è un mondo che continua a parlarci e che non possiamo ignorare: quello delle nostre storie. Lì ritroviamo Pericle o Virgilio, per citarne alcuni. Le lingue classiche, poi, rimarranno sempre di casa, perché materne, paterne, familiari. Persino i dialetti ce lo dimostrano nella loro vivacità, ragion per cui vanno riacquisiti, oltre che utili alla ricostruzione della nostra identità sociale. Pensavo che stessi per citare il grande Omero poco prima, ad essere sincera. Che sai dirmi di lui? Su Tecnica della Scuola, che è una testata scolastica nazionale di informazione scolastica, l’ho affrontato, curvandolo sul mondo femminile. Mi permetto di sottoporlo all’attenzione dei lettori, quantomeno per una mia personale rilettura, che ha ottenuto non pochi consensi nel cerchio degli studiosi. «L’arte del tessere, tipicamente femminile, è un’attività lenta, paziente, ritmata, svolta con precisione e ritualità

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che ha dato origine fin dall’antichità a miti e ad un foltissimo immaginario metaforico (E. Agnoli). Curioso è prender nota di come le parole utilizzate per parlare di pensiero filosofico e di scrittura (intreccio narrativo, filo del discorso, “dipanare la matassa”, per usare, a livello letterario, un’espressione manzoniana) siano, in molte occasioni, tratte dall’antica arte di tessere, filare e cucire. Una maieutica da levatrice, per non offendere la buona memoria di Socrate, ma anche da sartoria, potremmo aggiungere! Se poi curviamo l’attenzione sul testo odissiaco si aprono scenari alquanto interessanti: Penelope, dal punto di vista onomaturgico, potrebbe derivare dal termine πηνη (“filo”, “trama”, “gomitolo”, “tessuto”), forse combinato con ωψ (pron. ops, “volto”, “occhio”). Omero, ὁ μὴ ὁρῶν (ho mè horôn), ovvero “colui che non vede”, potrebbe aver regalato lo sguardo al personaggio femminile in questione, il cui filo, al pari di quello di Arianna, permette al poeta del nostos di varcare le dedaliche vie del disordine. Se così fosse, le quote rosa nascono proprio dal cascame dell’epopea: ebbene, sì, figlie dell’Ellade, e da Atena benedette!». Una precisazione: spesso ho lasciato dei contributi a Tecnica della Scuola così come ad Orizzonte Scuola. La mia soddisfazione è stata la condivisione di parecchi miei articoli di commento: uno, in particolare, fu preso in prestito da più di 14000 followers (si dice così!?). Per non dire di Concita De Gregorio, che mi pubblicò sulla questione dei migranti su Repubblica. Noto un’arte d i s i n v o l t a nella parola, coinvolgente, a n c h e drammatica: è la mia impressione? Me lo fanno notare in parecchi: il mio entusiasmo per quanto studio lo fisicizzo. Anche il teatro mi ha aiutato come educazione

corporea e linguaggio di rinforzo, non posso negarlo! Fammi capire: hai lavorato anche a teatro!? A dire il vero, sì, Nella, nel mio primo biennio della mia carriera professionale: a Chignolo d’Isola, per l’esattezza. Ne vuoi parlare!? Guarda, è stata una parentesi della mia vita, quella lì: raggiungevo nel dopolezioni il teatro, in bici o a piedi, a quattro km circa da Terno. Tutte le volte che riporto a me stesso questa fase della mia vita, rivivo le sensazioni di quella strada percorsa, costeggiata da terreni incolti o preparati per la semina del granturco alla sua destra con un cimitero monumentale, dove campeggiava visibilmente la mole funebre dei Roncalli, sulla sinistra: una solitudine da far tremare i polsi, non lo nascondo. Lì si sarebbe consumata la triste storia di Yara Gambirasio, episodio di cronaca che ha nutrito tutti i nostri tabloid, da Nord a Sud, isole comprese. Decisi, comunque, di allentare la presa col teatro, benché specializzato con un corso di perfezionamento a pieni voti, che trascuro per questo riverbero di sangue innocente. Ci risulta che sei stato dieci anni a San Giovanni in Fiore: dalle montagne orobiche a quelle silane: com’è stato questo cambio!? L’uomo del monte ha detto “sì”, dice una réclame pubblicitaria. Che dirti: l’ho accolto con la stessa affermazione positiva ma, fuor di battuta, non ero alla frutta. Altri piatti avrei dovuto preparare a banchetto: la sapienza non è fatta di sapori e di odori!? A questo convivio ho incontrato Gioacchino da Fiore, ti pare poco!? Qual è il messaggio che più lo sintetizza, visto che lo porti un po’ ovunque? In questo momento penso ad almeno due aspetti, per quanto l’autore non possa essere esaurito in un’intervista. Per inciso, lui è il patrono degli esauriti, lo ripeto ironicamente all’associazione Il cammino di Gioacchino da Fiore, co-fondato da me qui a Lamezia Terme, ovviamente sulla base

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dell’attestazione dei miracoli riportati per sua intercessione. Gioacchino è, in primis, una dose di ottimismo in tempi di crisi: in un mondo che va allo scatafascio, l’idea di una palingenesi rigenerativa e di una rifioritura di tempi, da lui auspicate, spezza l’apocalittica politica in direzione di un cambio di pagina, tarato sui bisogni di tutti, e migliore. Gioacchino lo colloco pure come significato umano del Chi fa per sé, fa per tre. Come la storia anche la vita umana è attraversata dai disegni del cielo: la chiave è la stessa, l’unitrinità. L’Altissimo, onnipotente, bon Signore ha voluto che ciascuno di noi manifestasse un aspetto del suo splendore infinito: già, ad immagine e a somiglianza. Ma cosa vuole dire quest’endiadi di rinforzo? A livello mentale, l’uomo fu creato come agente razionale e volitivo, perché può ragionare e scegliere, quindi discernere. Questo è un riflesso dell’intelletto e della libertà di Dio: ogniqualvolta qualcuno inventi un macchinario, scriva un libro, dipinga un paesaggio sta dichiarando il fatto che siamo creati ad immagine di Dio. A livello morale, l’uomo fu creato nella giustizia e nella perfetta innocenza: insomma, una riverberazione della santità di Dio. Quando s’emana una legge, si rifugge dal male, si loda il buon comportamento o ci si sente colpevoli, si conferma di fatto di essere stati creati alla stessa immagine di Dio. A livello sociale, l’uomo fu creato per la comunione. Questo riflette la natura trinitaria di Dio e del suo amore: nei vari casi in cui qualcuno si sposi, instauri un’amicizia, stringa tra le braccia un frugoletto, frequenti la chiesa, un oratorio o un consorzio umano sta mostrando il fatto che siamo stati creati a somiglianza di Dio. Ergo, “Se dici: fammi vedere il tuo Dio, io ti dirò: Fammi vedere l’uomo che è in te, e io ti mostrerò il mio Dio” (San Teofilo di Antiochia, Libro ad Autolico). Senza dilungarmi oltre, trovo una vicinanza tra il suo pensiero e la visione laica della vita che di questi valori si nutre. E poi trovo un’altra idea, pag. 6

che vesto per ogni giovane come futuro prossimo della nostra società: siate fiori, speranze di frutto maturo. Gioacchino segna ed insegna dal Medioevo ad oggi per l’appunto… Quali sono le attività più importanti che hai svolto per promuovere questa storica figura calabrese? Sono partito dalla mia Scuola, il Liceo Classico di San Giovanni in Fiore, per operare un’istruzione sul territorio. In questo il mio ringraziamento va al dirigente d’Istituto, la dottoressa Angela Audia, al presidente del Centro Internazionale di studi gioachimiti, il dott. Riccardo Succurro, per la piena fiducia accordatemi sin dall’inizio. Nei budelli dell’abbazia, insieme ai miei studenti, sono nati progetti e lavori di rilievo sempre più crescente: dai meeting comunali ai reading regionali, per cominciare, fino a realizzare cortometraggi a diffusione regionale e nazionale. Persino Città della Scienza attenzionò i nostri lavori, che arrivarono a buon frutto grazie a Patrick Mcgranaghan, uno degli studenti più talentuosi, che io abbia avuto modo di incrociare nella mia vita. Poi sono venuti fuori i miei lavori specialistici: 1. Gioacchino raccontato dai suoi fiori. Atti del meeting letterario (San Giovanni in Fiore, 2012-2014), 2. Echi lucreziani e gioachimiti nella «Primavera» di Botticelli, in «Miscellanea di studi storico-religiosi in onore di Gioacchino da Fiore», SGF 2017, 3. La città del sole come limes. Da Gioacchino da Fiore a Tommaso Campanella, SGF 2018, editi tutti da Pubblisfera. Nel frattempo, sono stato ricevuto dall’ambasciata italiana a Budapest per discutere in un convegno internazionale le corrispondenze tra Dante Alighieri e l’abate florense, o dalla Cattolica di Milano dove ho definito un’esegesi gioachimita come rilettura botticelliana della Primavera. Anche a Lamezia Terme ho discusso dell’autore sia nei locali dell’Uniter, su invito della professoressa Costanza Falvo D’Urso, che in quelli di Samarcanda, su richiesta GrafichÉditore di A. Perri - & 0968.21844

delle professoresse Manuela Iacopetta e Michela Cimmino: il Rotary lametino ha finanche pubblicato un mio contributo in merito al lessico maschile e femminile presentato in un convegno consorziato tra Viterbo e Lisbona. Ti manca San Giovanni in Fiore, Francesco? Certo che sì: credo che sia una realtà straordinaria non solo dal punto di vista storico ma anche dal profilo umano. Grazie ad essa capisco anche il valore del Discorso della Montagna presente nei Vangeli: sulle alture spiccano le beatitudini, ne sono pienamente convinto. E poi la trovo una cittadella spirituale, nel nome di Gioacchino da Fiore, risorgimentale, a livello laico, tra i luoghi dei fratelli Bandiera, che non poche volte Vittoria Lopez mi ha concesso di visitare dentro la cornice del suggestivo Palazzo storico di famiglia. Anche Lamezia Terme è nel tuo cuore: nel cinquantesimo proponesti una lettura attenta del suo motto, mi pare, o sbaglio!? Verissimo, Nella: lo faccio con piacere. Vis unita fortior: fu un post condiviso da migliaia di persone e ne fui felice. In quell’occasione in sostanza dissi più o meno questo. La città dai tria corda è in un identikit a tre elementi: addizione di anime nella con(divisione) della sapienza antica, come a dire, T(riuni) rioni riuniti, nel Cinquantesimo, per ora e per sempre. La matrice classica parte, però, da un quadrinomio linguistico, differente solo alle estremità: Virtus unita fortior agit (nell’unità la virtù assume maggiore forza), espressione che il Goldoni adoperò nella commedia Il raggiratore, mentre correva l’Annus Domini 1756 per la sua Venezia. Giusto per darne una sommaria contestualizzazione, nel dialogo della quinta scena fra il Dottore Melanzana e il Conte Nestore, all’osservazione di quest’ultimo, secondo cui con due ragioni alla mano, avrebbesi più agevole la difesa, il Dottore avrebbe replicato, e Lamezia e non solo


proprio in questo passo entra in gioco il nostro Latinorum, Certamente virtus unita fortior. Diglossia linguistica, nel cursus honorum della comunicazione, per come pare riportata, a meno che il primo avverbio, sciolto in ablativo assoluto, dia il significato di “con mente certa”, nel dramma illuministico del Sorriso. Ora, tornando all’inciso dello stendardo lametino, si è deciso, invece, di concentrare nel primo addendo il sostantivo vis (forza) come valore agente per la gente tutta: uno al posto di due, che sommato a due fa tre, giustappunto, la trisillabica Lamezia. È il termine più costitutivo e costituzionale, a mio parere, che può caratterizzare, in futuro, un territorio così gravido di possibilità. Quanto occorre è un impegno più solidale come orientamento civico: viribus unitis (uniti nella forza) ed armati di buzzo buono, i requisiti di successo richiesti, necessariamente! C’è un lavoro di cui ti senti orgoglioso Francesco, e perché? Il recupero della fiaba nicastrese di Ingrid e Gerlando: riesumata per la seconda volta, dopo un lavoro col Bonacci, insieme alle splendide illustrazioni dell’artista Maurizio Carnevali e alle musiche della cantastorie calabrese Francesca Prestia, continua ad essere la creatura più bella, nuova ad ogni mio battesimo d’emozione. Perché, tra le leggende, la scelta di pubblicare questa fiaba? È tipicamente maschile scegliere in bene per il meglio di una donna nel Sud in un contesto feudale che si è cementato fino all’Unità d’Italia. Bene e meglio senza la partecipazione diretta del gentil sesso: quindi, male ed è un Male! Non a caso dalle nostre parti è invalso l’uso del “buon partito”, che altro non è che il riflesso di scelta politica, di equilibri, insomma, ancor prima di essere sentimentale, se quest’ultima, ed è ultima, non è proprio in subordine. La scelta federiciana di rinchiudere Ingrid nelle prigioni del Castello non può non rammentare i sequestri femminili perpetrati nelle periferie del comprensorio lametino o le limitazioni di libertà cui è stato soggetto il mondo muliebre proprio dalle nostre parti: per tutti questi motivi, c’è una narrazione attuale che è metafiabesca che fa della trama una storia rosa di Lamezia. Prima di concludere, se ti va, Francesco, vorrei che ci parlassi anche di te: sappiamo che vivi un Lamezia e non solo

problema e che lo hai ribattezzato “Luce mia”, per sdrammatizzarlo. Cos’è per te la leucemia: come la vivi e quanto una malattia può condizionare la vita. Non è un tabù parlarne, per me! Accolta da me senza alcun problema, benché me ne dia un bel pochetto, ma ci sta! Sarà un caso che la mia malattia inizia proprio all’età dell’ingresso al cielo di San Francesco d’Assisi? Altissimo, onnipotente, bon Signore, allora! Fortunatamente ad essere malate non sono le mie passioni e di questo ne gioisco: studium, letteralmente, è “amore”: quello è incorruttibile, mai malato, eh sì! Quindi, consigli di studiare ai tuoi ragazzi, su questo vuoi riportarmi, vero!? Già, Nella: l’ignoranza è la patologia più grave con effetti molto più indesiderati. Ecco perché vado spulciando vocaboli, storie e tradizioni: la memoria ha una vitalità da mantenere in buona salute. Anche le indicazioni di Andrea Marcolongo, autrice del terzultimo testo Alla fonte con le parole, edito da Mondadori, in un suo messaggio personale, mi hanno rincuorato su questa strada, come quelle prodigiose di Alda Merini o quelle laconiche di Margherita Hack che spulcio per rivitalizzare i sentieri delle ricerche. Come concluderesti sulla cultura? Una cultura che dimentica le proprie tradizioni tradisce se stessa, impantanandosi in un presente senza senso ed orientamento. Se tagliamo i nostri legami con il passato, poi, altrettanto faremo con il nostro futuro: e non ci può essere educazione nello sradicamento, potrei dire, a mo’ di slogan sociale! Cos’altro fare? Leggere, leggere, leggere: siate lectores in fabula, come il nostro Book-club mensile, di cui mi pregio di farne parte, che nell’incontrarci, ci fa incontrare un libro. E mi qui taccio, per ascoltare le parole, con un libro sottomano, che è quello che tu mi hai omaggiato come segno di amicizia. Grazie, Nella! Un’altra intervista portata a temine e, come ogni volta, mi sorprende di

riuscire a trovare nuove domande da fare, aggiunte a quelle solite, quelle che non possono che essere sempre uguali. Francesco è conosciuto ai più, io ne avevo sentito parlare ma, diciamo, che è grazie al Concorso “Dario Galli” che abbiamo avuto il piacere di conoscerci “de visu”. Che dire di Francesco? Mi ha ringraziata a fine intervista ma sono io che ringrazio lui e tutte le altre persone che hanno accettato di farsi intervistare, mettendosi in gioco poichè un’intervista è un po’ sottoporsi poi al giudizio di chi leggerà! In Francesco più della sua grande cultura, quando ho saputo della “luce mia”, mi ha colpito la pacatezza con la quale ne parla, non rassegnazione, nessuna rabbia, solo voglia di vivere e di andare avanti, di fare, di dire, imparare e di ... dare, di condividere quello che ha, di trasmettere il suo amore per la cultura, per la lettura. Si dice che la cultura renda liberi e, di certo, Francesco lo è ... libero dalla schiavitù, non quella fatta di catene ma quella ben più pericolosa, invisibile, quella che prende anima e corpo: la schiavitù mentale. E’ per questo che gli dedico una massima di Gianni Rodari che, a mio avviso, rappresenta il leitmotiv della sua vita: Vorrei che tutti leggessero, non per diventare letterati o poeti, ma perché nessuno sia più schiavo

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Come tutelare i dati personali, il “petrolio” del 21esimo secolo Si è tenuto nella splendida cornice del centro storico di Nicastro l’interessante incontro organizzato dall’Associazione Italiana Giovani Avvocati sezione di Lamezia Terme, dal titolo “Il valore dei dati nell’era dei big tech: cittadinanza, mercato, democrazia”, patrocinato dall’Ordine degli Avvocati di Lamezia Terme e da I Caffè Giuridici rassega di incontri formativi. L’introduzione dell’incontro giuridico/culturale è stato affidato all’Avv. Domenico Zaffina che ha presentato il tema e sottolineato la sua importanza dal punto di vista economico e sociale per poi dare la parola al relatore della serata l’Avv. Andrea Parisi, Presidente Regionale “Privacy Italia”. “Ogni epoca storica – ha spiegato l’avvocato Parisi – ha avuto un prodotto, un fattore della produzione che ha trainato l’economia e ha assicurato crescita e dinamismo delle nazioni. Lo scorso secolo, al di là della sua connotazione tristemente famosa come secolo delle guerre mondiali e dell’olocausto, è stato un secolo che ha cambiato il mondo. Per lungo tempo e sino all’800 andare dalla Calabria a Roma richiedeva 30 giorni di viaggio in carrozza e 20-25 a cavallo. Poi arrivarono le prime ferrovie, l’auto, l’aereo. Fu scardinato il vincolo dello spazio e del tempo, due categorie che si cominciò a percepire in modo differente. La tecnologia aveva trasferito definitivamente ogni sforzo industriale dal muscolo all’apparato tecnologico: ecco perché il ‘900 è stato il secolo dell’energia come motore dell’economia. Tutto, perché funzionasse, andava alimentato con il petrolio. E non è un caso se nello scorso secolo la lettura del potere indicava la proprietà del mondo nelle mani delle 7 sorelle del petrolio. Il motore dell’economia del 21° secolo non è più il motore del mondo: oggi il settore di traino dell’economia è quello dei dati. Se guardiamo ai valori di capitalizzazione di Borsa delle prime 10 società al mondo nel 2018, troviamo la seguente classifica: Apple, Alphabet pag. 8

(casa madre di Google), Microsoft, Amazon, Tencent Holdings, Berkshire Hathaway, Facebook, Alibaba, Johnson & Jhonson e JP Morgan Chase. Otto sono americane e 2 cinesi. Di esse 7 si occupano di dati, 2 (Berkshire Hathawayt e JP Morgan Chase) si occupano si servizi finanziari ed 1 (Johnson & Johnson) si occupa di prodotti farmaceutici e di cure della persona. La sostituzione del ruolo guida nell’economia dei dati al posto del petrolio, ha dato luogo a una espressione di senso comune quale: “I dati sono il petrolio del 21° secolo”. Il petrolio appartiene al mondo delle risorse finite, necessita di grandi investimenti per il trasporto, i dati invece si muovono da un capo all’altro del mondo alla velocità della luce e con un costo del tutto irrisorio. Infine man mano che le risorse fossili diminuiscono, le estrazioni di petrolio diventano più costose e difficili. Al contrario, con i dati la disponibilità aumenta e il costo diventa sempre più irrisorio grazie alla velocità di crescita tecnologica dei computer e dei software”. Da qui la necessità di preservare e tutelare la privacy e i dati. “In Europa privacy è tradizionalmente un termine che richiama la dignità della persona – spiega l’avvocato Parisi – mentre in America la prima cosa che fa venire in

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SEZIONE DI LAMEZIA TERME

mente è la capacità di tenere un segreto. La protezione dei dati presuppone l’esercizio di proprietà di qualcosa, in questo caso i propri dati personali. L’informativa privacy, la cosiddetta Privacy Policy si sta via via trasformando in Data Policy. La stessa denominazione del Garante è cambiata da Garante della Privacy a Garante della Protezione dei Dati Personali. I più grandi raccoglitori di dati sono i dati i Big Tech (Google, Facebook, Amazon, Apple, Microsoft). Google e Facebook sono assieme i più grandi raccoglitori di pubblicità online, controllano i ¾ del mercato mondiale. Ma la loro raccolta può dar luogo a innumerevoli forme deviate. Dati che da grezzi vanno analizzati. Tutte cose che contribuiscono a creare il cosiddetto Psicogramma: il profilo della persona, in base al quale si possono tracciare i tratti comportamentali di una persona e prevederne anche i comportamenti. Il che allarma e non poco. Ma la difesa dei dati personali è e deve essere un compito dello Stato. E lo Stato deve difendere i dati dei propri cittadini allo stesso modo in cui difende i confini nazionali o le proprietà pubbliche. Lo Stato deve farsi carico di questo ruolo, perché gli compete in via naturale. E le nostre classi dirigenti devono essere meno distratte sul ruolo, peso e sfruttamento altrui dei dati dei cittadini”.

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NUOVA COMPOSIZIONE COORDINAMENTO REGIONALE AIGA CALABRIA Lo scorso 6 dicembre si è svolto a Lamezia Terme, presso il ristorante Apothec Cavallino, con grande partecipazione delle diverse sezioni, in uno spiccato clima natalizio, il primo coordinamento regionale guidato dal neoeletto Coordinatore Avv. Caterina Giuliano che ha dettato il passo associativo per il biennio 2019/2021, prevedendo un’importante suddivisione di ruoli e compentenze, per ciascuna sezione, volti a migliorare i rapporti associativi e l’efficienza delle attività di formazione e politica forense. “L’idea di una struttura articolata, afferma il coordinatore, è volta ad intensificare il lavoro e permettere a tutte le sezioni di essere parte attiva nei lavori del Coordinamento”. Sulle base di tali criteri venivano comunicate le seguenti nomine: - Vice Coordinatori: Avv.ti Francesco Giordano, Presidente della Sezione di Castrovillari, e Vincenzo Barca Presidente della Sezione di Palmi. - Segretarie del Coordinamento: Avv. Isabella Monaco, Presidente della Sezione di Rossano, e Avv. Serena Perri, Vice Presidente della Sezione di Lamezia Terme. Il Coordinatore ha poi nominato: - quale Addetto stampa del Coordinamento Regionale Aiga Calabria, l’Avv. Nancy Stilo, Vice Presidente della Sezione di Reggio Calabria; - Responsabile per i Bandi l’Avv. Davide Barberi, Presidente della Sezione di Reggio Calabria; - Responsabile degli eventi conviviali e di aggregazione: l’Avv. Fabio Verre della Sezione di Catanzaro.

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SEZIONE DI LAMEZIA TERME

L’Avv. Giuliano ha, inoltre, istituito tre Dipartimenti Regionali e nominato i relativi componenti: 1. DIPARTIMENTO EQUO COMPENSO: Avv. Valerio Zicaro, sezione di Cosenza; Avv. Domenico Zaffina, sezione di Lamezia Terme; Avv. Michelangelo Pasqua, sezione di Vibo Valentia; Avv. Natalina Giungato, sezione di Crotone; Avv. Davide Barberi, sezione di Reggio Calabria; 2. DIPARTIMENTO PARI OPPORTUNITÀ E LEGITTIMO IMPEDIMENTO: Avv. Ilaria Oliva, sezione di Castrovillari; Avv. Irene Trocino, sezione di Crotone; Avv. Gloria Severino, sezione di Catanzaro; Avv. Valeria Cortese sezione di Vibo Valentia; Avv. Concetta Mercuri sezione di Palmi; 3. COMITATO SCIENTIFICO Avv. Antonella Chirico, sezione Locri; Avv. Gregorio Casalenuovo, sezione di Catanzaro; Avv. Vincenzo Santoro, sezione di Paola; Avv. Vincenzo Tracuzzi, sezione di Palmi. Nel corso della riunione sono state, inoltre, annunciate le sezioni che ospiteranno il consueto evento regionale annuale, ovvero, la Sezione di Paola per l’anno 2020 e quella di Crotone per l’anno 2021: un momento associativo di fondamentale importanza per le sue finalità aggregative e di formazione. Nel corso del coordinamento hanno poi preso la parola i Presidenti di ciascuna sezione relazionando sulle attività e i progetti in corso nonché su quelli in programmazione presso la propria sezione di appartenenza. L’Avv. Valeria Cortese, Presidente della Sezione di Vibo Valentia, ha ricordato che il prossimo luglio si terrà Tropea e Capo Vaticano il Consiglio Direttivo Nazionale estivo: un importante riconoscimento per la nostra regione che ci spinge a cooperare per la migliore realizzazione e riuscita dell’evento. Ha preso, infine, la parola l’Avv. Ester Ruffo per lo spazio dedicato alla rubrica “Aiga si racconta” fornendo la sua esperienza da Coordinatore Regionale Aiga Calabria del biennio 2015-2017, nonché le sue ulteriori esperienze in Aiga Nazionale, “sempre a servizio della fascia più debole dell’avvocatura: la giovane avvocatura”. Il coordinatore, Avv. Caterina Giuliano, invitando tutti i colleghi e amici a intrattenersi per un piacevole scambio di auguri natalizi, ha dato appuntamento al prossimo coordinamento regionale che si terrà il prossimo 18 Gennaio a Locri.

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UNITER. Il critico d’arte Teodolinda Coltellaro relaziona su “Territorio e territori dell’arte contemporanea: attraversamenti”

di Giovanna Villella

Ospite dell’UNITER il critico d’arte prof.ssa Teodolinda Coltellaro la quale relaziona su “Territorio e territori dell’arte contemporanea: attraversamenti”. Ai saluti istituzionali del presidente prof.ssa Costanza Falvo D’Urso, seguono le brevi introduzioni della prof.ssa Ippolita Luzzo e della prof. ssa Giovanna Villella. Teodolinda Coltellaro è uno dei critici d’arte contemporanea più apprezzati in Italia e all’estero e svolge il suo lavoro con rigore e passione. Professionista seria e preparata, è anche donna molto riservata ed è ella stessa un’artista bravissima la quale, tuttavia, ha preferito dedicarsi alle opere degli altri. Vive in un piccolo casale-museo in cui sono esposte le opere degli artisti che, nel tempo, sono diventati suoi amici. Perché Teodolinda Coltellaro non è un critico d’arte “ordinario” che si reca a vedere una mostra e poi ne scrive la recensione. Ogni artista che conosce e di cui si innamora diventa per lei un mondo da scoprire. Così, per qualche tempo - come ombra silenziosa - ne frequenta lo studio, lo osserva mentre lavora, cerca di indagarne le pieghe più recondite dell’anima. Collocandosi ad una “distanza affettiva” dall’artista riesce poi a tradurre, in un linguaggio raffinato e immaginifico, il “visibile” in “dicibile”. Infatti, sono soprattutto i suoi scritti a parlare di Tedolinda. Francesco Guerrieri dice di lei “è un critico d’artepoeta. Questo vuol significare che sa analizzare, scavare, incidere, alla ricerca del senso dell’opera per poi prendere il volo nei cieli alti della poesia”. Savelli (il Maestro del bianco), scrivendo di lei, sottolinea “l’ammirazione per il suo interesse verso l’estetica viva e la sua intensa ricerca diretta a sviluppare e a donare agli altri una coscienza dell’arte contemporanea”. A chi ancora oggi si chiede: L’arte contemporanea? Non la capisco… Qual è il soggetto?... Sono solo delle macchie!... Non vedo che del blu!... Sembra un disegnino di scuola elementare!... Teodolina Coltellaro offre risposte chiare ed esaustive con il desiderio di sradicare i pregiudizi, stimolando la curiosità e invitando i non-iniziati “a visitare volentieri una mostra d’arte contemporanea”. Perché esiste sempre e comunque una trama testuale e discorsiva che ricopre le opere d’arte - magari in parte le occulta, le traveste o le maschera - ma è anche in grado di svelarle e rivelarle tracciando dei sentieri, degli itinerari inediti, dei modi di comprensione nuovi capaci di riesumare una intelligibilità inaccessibile al solo sguardo. Le parole che si riferiscono all’opera d’arte possono costituire dei limiti ma al contempo aprono l’opera a delle visioni che la reinventano senza sosta. Questo legittima, nell’arte, il ruolo del critico che non si perde in giudizi vani né in futili apprezzamenti ma contribuisce, attraverso le parole e i concetti, a costruire nuovi modi di “guardare”. E Teodolinda Coltellaro lo sa fare benissimo. Una domanda, apparentemente semplice, dà all’abbrivio alla sua relazione. Che cos’è l’arte oggi? È un enorme alveo di fiume in cui confluiscono opposte tendenze, confluiscono le radici storiche, confluisce il concettuale, l’arte povera, l’avanguardia, le neo-avanguardie, il post-moderno… Tutte tendenze antitetiche con una vastità di segni, di

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retroversione, di storia, di memoria ma anche di assoluta innovazione che contribuiscono alla complessità del linguaggio. Da qui l’idea del titolo “Territorio e territori dell’arte contemporanea” visto che siamo immersi in una dimensione liquida, in costante mutamento nell’universo globale che esprime un’arte cosiddetta della “globalizzazione” di cui è emblematico esempio la banana con lo scotch di Maurizio Cattelan all’Art Basel di Miami Beach. Cattelan è il più quotato e il più venduto artista italiano a livello mondiale in quanto rappresentante dell’arte globalizzata. La sua banana è stata mangiata poi da un altro artista che è David Datuna. È l’artista che mangia l’artista, è l’arte che punta sullo scandalo, sulla provocazione e che si traduce in momento di riflessione trasversale sull’arte stessa. Da qui la complessità del mestiere del critico che si trova ad operare in un marasma di interpretazioni. La Coltellaro continua delineando il contesto contemporaneo in cui le istanze di una società complessa, postindustriale, postmoderna, fluida e multiculturale, di fatto, hanno generato nuovi modelli di pensiero, aprendo orizzonti di sviluppo inediti e imprevedibili anche al mondo dell’arte. Dagli Anni ‘80 in avanti fino al nuovo millennio, ad oggi ancora, continua a crescere la popolarità di un’arte che propugna il “pensiero debole” della postmodernità di cui è figlia la globalizzazione; un’arte non più rispondente alle categorie “classiche” individuate dalla critica e che può prescindere dalle sue intermediazioni culturali perché più “facile” e accessibile nella fruizione a chiunque si avvicini ad essa; sempre più sistema di comunicazione, nel contesto di una cultura globale, in cui prevale l’aspetto tecnologico-informatico e l’intento di stupire, scandalizzare col ricorso al monumentale, allo smisurato, alla ripetizione dell’identico, allo spettacolare. Le possibili riflessioni si appuntano, poi, su mutazioni e persistenze in un territorio (frammentato nei suoi diversi territori), ossia la Calabria. Un territorio artistico, anch’esso immerso nel vorticoso processo di globalizzazione in atto di cui si potranno cogliere spostamenti e cambiamenti interni di matrice linguistica e culturale, collocazioni periferiche all’interno del mercato globale dell’arte. E la Calabria si colloca all’estrema periferia. Ma cos’è un territorio? Territorio è un’entità storicosociale in cui si forma il senso identitario, è un luogo

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geografico, è un’identità di linguaggio, è il luogo fisico in cui nasce l’opera, è una dimensione dell’anima, dello spirito che crea. Sono, quindi, tanti i “territori “ presenti in uno stesso territorio e tante le possibili modalità di percorrenza, di analisi. La Coltellaro ne ha scelto alcuni partendo da Cosenza, da sempre la città più vivace nel dibattito sull’arte contemporanea. Sede di diversi musei e di molte gallerie d’arte che purtroppo stanno chiudendo, segnali di una crisi che sta attanagliando il settore dell’arte soprattutto nel territorio calabrese. Il MAON a Rende, nato in seguito a positive congiunture politiche, così come il Museo del Presente stanno subendo il senso del tempo e le difficoltà ad operare in un periodo storico abbastanza difficile in quanto ormai privi di programmazione e di stimoli necessari ad alimentare il dibattito sull’arte. Ma non vanno dimenticate le direzioni di ricerca e sperimentazione che hanno animato la città anche se artisti come Giuseppe Gallo e Alfredo Pirri, che sono tra i più importanti della nostra regione, i cosiddetti artisti della diaspora, hanno varcato i confini regionali in quanto non trovavano più le condizioni ottimali per poter lavorare in Calabria. E va ricordato il mecenate Bilotti che ha riempito Cosenza di opere d’arte. Reggio Calabria, invece, è forse la città meno produttiva dal punto di vista dell’arte contemporanea anche se il chilometro più bello d’Italia ospita le opere di Rabarama che godeva, in quel momento, dei favori del politico di turno. La città è stata sede della Biennale “Sensi contemporanei” ospitata a Villa Zerbi ma continua a rimanere uno dei territori meno fertili dal punto di vista artistico. Vibo Valentia ha vissuto un momento di grande visibilità ai tempi di “Limen”, una iniziativa organizzata dalla Camera di Commercio che portava artisti di tutta Italia compresi quelli calabresi alimentando un bel dibattito sull’arte contemporanea. Attualmente, le opere che hanno vinto il Premio “Limen” fanno parte di una collezione. Crotone che ha uno dei più importanti artisti italiani contemporanei, Antonio Violetta, non gli mai dedicato neanche una mostra. Poi c’è Catanzaro e i comuni limitrofi. Taverna, dove la Coltellaro ha contribuito alla fondazione del Museo Civico già Centro Museografico che ha ospitato alcune delle mostre più belle con artisti della seconda avanguardia americana. Catanzaro che, grazie anche alla presenza dell’Accademia di Belle Arti, ha realizzato esperienze molto importanti di ricerca e di contaminazione con i linguaggi del contemporaneo. Inoltre la città capoluogo offre spazi idonei come il Complesso Monumentale del S. Giovanni e il MARCA dove la Coltellaro fa parte del comitato scientifico fin dalla fondazione Nata a Gizzeria (Catanzaro), opera a Lamezia Terme. Con il suo intenso lavoro critico ha contribuito alla nascita e alla crescita qualitativa del Museo Civico di Taverna; è componente del Comitato Scientifico del MARCA (Museo delle Arti di Catanzaro) e direttore della collana editoriale “Quaderni del Marca”. Collabora con quotidiani, riviste e periodici di arte contemporanea. Il suo lavoro di critico, oltre che in numerosi musei, biblioteche e archivi museali nazionali e internazionali (tra cui il “Centre G.

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UNITER. Il prof. Rosario Coluccia, Accademico della Crusca, relaziona su “Conosciamo l’italiano? Dubbi e trappole della nostra lingua”

di Giovanna Villella

Lamezia Terme, 29 novembre 2019. Ospite dell’UNITER nel suo XXXI Anno Accademico il prof. Rosario Coluccia, Accademico della Crusca, con una relazione dal titolo “Conosciamo l’italiano? Dubbi e trappole della nostra lingua”. Dopo l’introduzione del neo-eletto presidente dell’UNITER, prof.ssa Costanza Falvo D’Urso che ne ripercorre sinteticamente la carriera accademica dedicata allo studio della lingua italiana e alla sua evoluzione, il prof. Coluccia - con l’ausilio di alcune slide - propone una riflessione sull’italiano di oggi. Che lingua fa? Giusto per usare una formula abusata. L’italiano, questa lingua comune che noi oggi parliamo e usiamo è un patrimonio relativamente recente. Dopo il secondo dopoguerra, per la prima volta nel corso della nostra storia, noi Italiani siamo diventati un popolo con una unica lingua. Nei secoli precedenti la situazione era molto diversa. Citando la nota scena del film Totò, Peppino e la malafemmena (1956) in cui i due malcapitati arrivano a Milano e chiedono informazioni ad un vigile in una lingua improbabile, Coluccia sottolinea che negli Anni ’50 nel nostro Paese non era ancora presente una coscienza linguistica e che chiunque andasse a Milano pensava si parlasse una lingua diversa. In questo momento storico un episodio analogo sarebbe irrealistico perché in qualsiasi parte d’Italia si vada si parla italiano. Esiste, ormai, un italiano comune e il processo è irreversibile perché oggi la lingua che primariamente i genitori trasferiscono ai figli è l’italiano mentre fino a 60/70 anni fa si parlava ai propri figli in dialetto e quindi la L1, la lingua primaria dei neonati, era il dialetto, o meglio, i dialetti delle diverse regioni d’Italia. L’attuale generazione di ragazzi compresi tra e 20 e i 25 anni è la prima generazione italofona. Ma quali sono stati i processi storico-sociali che hanno permesso all’Italia di diventare un paese linguisticamente unito oltre 100 anni dopo l’unità politica? L’Italia, rispetto agli altri paesi europei è arrivata tardi a questo processo di unificazione che è stato possibile anche, e soprattutto, attraverso la televisione che grazie alle trasmissioni di Mike Bongiorno e alle lezioni del maestro Manzi ha consentito il processo di alfabetizzazione di oltre due milioni di Italiani i quali hanno poi potuto approfondire la conoscenza della lingua negli Anni ’80, con la trasmissione Parola mia di Luciano Rispoli mentre oggi, nella rubrica Pronto Soccorso Linguistico inserita nella trasmissione RAI Uno Mattina in famiglia i consigli

del Prof. Francesco Sabatini aiutano a capire e ad usare meglio la lingua italiana, rispondendo a dubbi e incertezze. Ed è importante - continua Coluccia - trasmettere questa memoria ai giovani che sono concentrati solo su un presente dove esiste la sincronia e non la storia. Inoltre, mentre un tempo i “distributori della lingua” erano i poeti, gli scrittori, la scuola che fornivano sicure direttrici, oggi ci troviamo difronte ad una varietà di “agenzie linguistiche”: politici, cantanti, veline, calciatori… I parlanti e, soprattutto, i giovani come si comportano difronte a questi usi da cui vengono bombardati e che rispecchiano il mutare delle condizioni linguistiche? Certo la lingua è un organismo in movimento e l’entrata dei neologismi è un fatto fisiologico. Ma come Alice nel libro di Lewis Carrol dovremmo chiederci Chi comanda nella lingua? I parlanti. La lingua è un istituto democratico in cui, in teoria, contiamo tutti allo stesso modo ma è necessaria da parte di tutti l’accettazione dei neologismi per legittimarne l’adozione e il loro consolidamento attraverso la frequenza d’uso. Senza dimenticare che esistono meccanismi di neoconiazione interna quando servono nuove parole alla collettività. Poi il discorso si focalizza sull’importanza del testo - “In principio fuit textus” è la frase latina con cui il prof. Coluccia si rivolgeva ai suoi studenti per sollecitarli allo studio e invitarli alla riflessione - e su Dante in quanto “padre” della lingua italiana. Con una domanda Perché studiare Dante? che ha il sapore di una innocente provocazione intellettuale, Coluccia offre un excursus nell’immenso universo dantesco che non è semplicemente circoscritto a quello letterario. La lingua italiana è “relativamente” poco cambiata rispetto ai tempi di Dante. Già all’epoca della Divina Commedia il vocabolario “fondamentale” dell’italiano, cioè quello quotidiano con le parole usate per la comunicazione di base, era costituito al 60%. E ancora oggi noi usiamo nella nostra lingua – magari inconsapevolmente - le parole di Dante: Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende, Galeotto fu il libro e chi lo scrisse, serva Italia, dolenti

note, Amor ch’a nullo amato amar perdona… Mentre una variante di Lasciate ogni speranza o voi ch’ entrate è citata nel film con Antonio Albanese e Paola Cortellesi Come un gatto in tangenziale e sulla Clinton Road, la strada più strana e misteriosa del New Jersey negli Stati Uniti, campeggia la scritta NO HOPE. La più grande letteratura italiana novecentesca ha dovuto fare i conti con Dante a partire da Primo Levi che, prigioniero nel lager di Monowitz si aggrappa al Canto di Ulisse per sopravvivere e nella poesia Ad ora incerta i versi “[…]Non è mia colpa se vivo e respiro/E mangio e bevo e dormo e vesto panni” sono un esplicito richiamo al canto dei Malebranche nella Divina Commedia e ancora le letture dantesche degli attori famosi da Ruggero Ruggeri a Roberto Benigni. Dante, tuttavia, non è solo la più alta e rarefatta letteratura ma ha ispirato video game della playstation come Dante’s inferno e anche l’universo musicale con gruppi rock, heavy metal e black metal. L’ultima fragranza di Ferragamo si chiama Commedia e a Dante si attinge attraverso canali inimmaginabili: dai post con citazioni dantesche a Miss Italia 2013, Giulia Arena, che sulla scapola reca tatuato “Fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza”. Ma perché leggere oggi La Divina Commedia? Che cosa ne faccio di Dante? La risposta la dà Jorge Louis Borges “La rileggo a mente, a voce alta o senza pronunciare una parola, lasciandomi scivolare nelle spirali di quei versi che traggono infinitamente verso l’infinito. Alla mia età, avrei il diritto di essere stanco. Ma, leggendo Dante, scivolo in un tempo senza tempo, e la mia immaginazione — impercettibilmente, a momenti — coglie l’eterno. Forse significa che l’Eterno esiste. Questa elegante speranza rallegra la mia solitudine.”

Pompidou”) è documentato presso l’archivio storico della Quadriennale Nazionale di Roma. Ha curato cataloghi e mostre, tra cui: Le lieu du langage (Musée d’Art Contemporain de Chamalières , Francia); Nel più ampio cerchio (con nomi quali: C. Marca-Relli, S. Scarpitta, T. Stamos, A. Savelli), Mimmo Rotella. Nella natura l’origine dell’arte; Savelli: l’opera grafica (Museo Civico, Taverna); Poggiali (Museo Marino Marini, Firenze); Passaggi d’Oltremare (National Museum of Fine Arts, La Valletta, Malta - Museo Civico di Taverna); Cieli di terra (Museo Archeologico di Lamezia Terme - Museo Civico

di Taverna); Solitari cantori dell’utopia (Casa del Libro Antico, Lamezia Terme); Lia Drei (Museo d’Arte Moderna di Calasetta, Cagliari); Luoghi e realtà di ricerca tra identità e mutamento (Collegio S. Adriano, S. Demetrio Corone); Francesco Guerrieri. Dal polimaterico all’essenza della struttura (MACA-Museo Arte Contemporanea Acri).Tra le pubblicazioni e le monografie, si ricordano: Avvicinamenti a Sud (Museo Civico, Taverna, 1997); Museo civico di Taverna (Città Calabria Edizioni, 2003); Lia Drei (Modidarte Edizioni, 2005); Un muro di storia (Città Calabria

Edizioni, 2005), Humana Res (Rubbettino, 2008); Sperimentale p. Drei-Guerrieri (Edizioni Valmore, Vicenza, 2010); José Luis Simón: una andadura 1990-2010 (Universidad de Alcalá, Spagna); Fatti d’Arte. Un percorso nel contemporaneo tra arte, società e territorio (Rubbettino, 2010); L’Albero delle mani e altre storie (ArteCom Edizioni, 2011); Cesare Berlingeri - Ghiacci e ombre (Edizioni Prearo, 2012); Angelo Savelli: Il maestro del bianco (Silvana Editoriale, 2012); Alberto Biasi - Start up &

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Spettacolo

“Ben Hur” della compagnia veneta La Moscheta chiude la prima parte del Gran Premio Teatro Amatoriale Italiano

di Giovanna Villella

Quarto appuntamento con la V edizione del Gran Premio Teatro Amatoriale Italiano che ha portato in scena, al Teatro Comunale Grandinetti di Lamezia Terme la Compagnia La Moscheta di Verona (Veneto) con lo spettacolo Ben Hur. Una storia di ordinaria periferia di Gianni Clementi, regia di Daniele Marchesini.

indurito della “bela segnora” ma non le rivela di essere sposato con Galina. Ecco perché la delazione di Maria può essere compresa solo alla luce di un ennesimo tradimento che il destino le ha riservato laddove il suo cinismo e la sua cattiveria sono direttamente proporzionali al sentimento dell’amore ingannato e ferito.

La manifestazione, organizzata a livello nazionale dalla Federazione Italiana Teatro Amatori (FITA) e ospitata per la prima volta in Calabria, è inserita nella rassegna teatrale Vacantiandu 2019.2020 con la direzione artistica di Diego Ruiz e Nico Morelli e la direzione amministrativa di Walter Vasta.

Nicola Marconi delinea un Milan di personalissimo rilievo e spessore psicologico. Un personaggio sospeso tra coloritura e ironia, tra pragmatismo e svagatezza. Si presenta in scena dimesso, impacciato, balbettante, con un marcato accento dell’est e nel corso della storia cresce, riuscendo ad imporre la sua presenza come necessaria allo svolgimento del gioco scenico. Arrivato in Italia sulla scia di un’idea falsa e ingannevole che la televisione ha costruito del nostro Bel Paese, si dimostra subito attivo, intraprendente, instancabile e creativo ma il suo sogno di un futuro migliore per sé e per la sua famiglia finisce miseramente su un logoro divano a fiori, perché la vendetta si rivela più forte della pietà riuscendo a spegnere anche l’ultimo barlume di umanità.

Ben Hur è uno spettacolo divertente e amaro che affronta il tema dell’immigrazione e del razzismo con rigoroso equilibrio tra comicità e tragedia. L’allestimento della compagnia La Moscheta, in lingua veneta con qualche innesto di lingua italiana, è stato molto apprezzato dal pubblico lametino. La sapiente regia di Daniele Marchesini – che è anche attore protagonista - ha saputo mantenere inalterato lo spirito del testo originale scritto da Clementi. La scenografia presenta uno squallido appartamento di periferia dove vivono Sergio e Maria, un fratello e una sorella, entrambi con un matrimonio fallito alle spalle. Sergio è uno stuntman che avrebbe avuto una grande carriera ma si ritrova infortunato e in attesa di risarcimento così, per sbarcare il lunario, posa vestito da centurione per i turisti che passano davanti all’Arena. Maria, per arrotondare la scarsa economia domestica, è costretta a lavorare in una chat erotica. A rompere il tran tran quotidiano arriva Milan, ingegnere bielorusso, immigrato clandestino con tanta voglia di lavorare che stravolgerà la vita della coppia. Sergio, nella convincente interpretazione di Daniele Marchesini, è chiassoso, tracotante, affetto da machismo più per “convenzione” che per “convinzione”. Il rapporto con la sorella è conflittuale ma non privo di latente tenerezza. Nei confronti di Milan incarna il prototipo dell’italiano medio rispetto alla tematica dell’immigrazione. Ma il suo iniziale atteggiamento da padrone verso il bielorusso si modifica nel corso della storia quando una sera, i due, ubriachi, in un afflato di cameratismo e di complicità si scambiano confidenze sulle loro famiglie, ignari della presenza di Maria che sta ascoltando tutto. Maria, interpretata da una vibrante Daniela Felzani, è una donna in trappola vinta dalla nostalgia verso un passato che non c’è stato e senza sogni per un futuro che non potrà mai esserci. Eppure quell’incontro casuale con quello straniero che la conquista con la sua gentilezza e con i suoi ricordi fatti di semi di girasole, di neve e di spighe di grano le danno l’illusione di una seconda chance nella vita. Milan riesce a spazzar via la polvere dal cuore

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Così, nel finale, la commedia diventa un dramma della solitudine, un dialettico incontro di ironia e dolorosa partecipazione sulla miseria umana e sulla povertà interiore di tre individui che si sfruttano a vicenda. La Compagnia La Moscheta con Ben Hur rappresenta il Veneto, quarta tra le 14 regioni italiane selezionate a partecipare alla V edizione del Gran Premio del Teatro Amatoriale Italiano. Nata nel 1981 a Colognola ai Colli in provincia di Verona, il nome della compagnia, La Moscheta, è un omaggio alla omonima commedia del Ruzante. Nel corso della sua lunga e intensa attività teatrale ha ricevuto numerosi premi e riconoscimenti e annovera in repertorio 35 spettacoli di vario genere di autori sia italiani sia stranieri.Lo spettacolo è stato valutato da una giuria composta da sette giurati con competenze specifiche a diverso titolo nel settore i quali, nel Gran Galà finale del 29 marzo 2020, assegneranno 8 premi: Miglior spettacolo, Miglior attore/attrice protagonista, Miglior attore/attrice non protagonista, Miglior allestimento, Miglior testo e Miglior regia. Al termine della rappresentazione, il consueto omaggio della tradizionale maschera, simbolo della rassegna Vacantiandu, ideata dal graphic designer Alessandro Cavaliere e realizzata dal maestro Raffaele Fresca, che il direttore artistico Nico Morelli e il direttore amministrativo Walter Vasta hanno consegnato a Daniele Marchesini.

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Spettacolo

Storie di guerra e umanità nello spettacolo “I giusti nel tempo del male” della compagnia marchigiana CLAET al Gran Premio Teatro Amatoriale Italiano di Giovanna Villella

Lamezia Terme, 4 gennaio 2020. La V edizione del Gran Premio Teatro Amatoriale Italiano apre il nuovo anno con la Compagnia C.L.A.E.T. di Ancona (Marche) che ha portato in scena, al Teatro Comunale Grandinetti di Lamezia Terme lo spettacolo I giusti nel tempo del male. Storie di eroismo, coraggio e umanità di Svetlana Broz, regia di Diego Ciarloni. La manifestazione, organizzata a livello nazionale dalla Federazione Italiana Teatro Amatori (FITA) e ospitata per la prima volta in Calabria, è inserita nella rassegna teatrale Vacantiandu 2019.2020 con la direzione artistica di Diego Ruiz e Nico Morelli e la direzione amministrativa di Walter Vasta. I giusti nel tempo del male è un esempio di teatro civile a forte impatto emotivo. Lo spettacolo è tratto dall’omonima opera di Svetlana Broz, nipote del maresciallo Tito, la quale ha girato gli ospedali della Bosnia come medico cardiologo per portare soccorso alle vittime della guerra nella ex Jugoslavia, il più lungo assedio dell’era moderna: 1427 giorni, dal 5 aprile 1992 al 29 febbraio 1996. Le numerose testimonianze raccolte dalla Broz su episodi di aiuto trasversali rispetto alle diverse etnie in conflitto sono, poi, diventate un libro di alto valore storico e morale. In una scena nuda perimetrata dalle quinte nere e occupata solo da due grandi maschere/poltrone bianche, funzionali allo svolgimento scenico, Angela Ursi, Simona Paolella e Diego Ciarloni hanno dato corpo e voce a quelle donne e a quegli uomini le cui vicende umane non possono trovare spazio nei racconti dei cronisti di guerra se non come numeri che vanno ad ingrossare la lista delle vittime. Quattro storie di violenza e di “ordinaria” umanità tra etnie differenti che per anni hanno convissuto pacificamenLamezia e non solo

te. Un autista di autobus, cristiano serbo, che porta in salvo donne e bambini musulmani rifiutandosi di farli scendere e di consegnarli all’esercito serbo. Una donna serba che, grazie ad un sconosciuto, riesce ad arrivare a Zenica per riprendere il figlio quindicenne. Un medico musulmano della città di Mostar che, durante le “pulizie etniche” riesce, con l’aiuto del suo fraterno amico, un croato cattolico, a raggiungere l’ospedale e prendere un’ambulanza per portare in salvo la moglie e la figlia. Una famiglia serba di otto persone che, grazie ad una conoscente musulmana, la quale fornisce loro dei documenti falsi, riesce a fuggire e a salvarsi. Guerra etnica o guerra di religione, crisi economica, secessionismo o divisione, rigurgiti nazionalistici? Al di là di qualsivoglia pretesto o motivazione, un conflitto apre sempre voragini profonde in cui finiscono le vite delle persone e le prime vittime sono sempre la verità e gli innocenti. Ma cosa spinge l’uomo a comportamenti disumani? E può sopravvivere la vita dentro la guerra? Sì, perché è proprio la “vita dentro la guerra” ad emergere da questo emozionante affresco di tenebra e di luce che unisce vicende di atroce violenza a momenti di altissima umanità grazie ai “giusti”, persone che - mettendo a repentaglio la propria incolumità - hanno “scelto” di salvare altre persone a prescindere dalla loro etnia o religione. Nel video-promo dello spettacolo una voce dice “Non verrete a teatro per passatempo, per divertimento o solamente a cercare emozioni. Verrete a teatro per conoscere, per riflettere e per ricordare ma soprattutto verrete a teatro per interrogare la vostra coscienza.” E lo spettacolo è, in effetti, uno spettacolo duro, drammatico, capace di creare tensione e di esercitare una forte presa emotiva sul

pubblico perché è un invito alla responsabilità personale, una esaltazione dell’importanza del coraggio civile come scelta di vita. La Compagnia C.L.A.E.T. con I giusti nel tempo del male rappresenta le Marche, quinta tra le 14 regioni italiane selezionate a partecipare alla V edizione del Gran Premio del Teatro Amatoriale Italiano. Nato nel 1987 a Palombina Nuova, frazione della città di Ancona, per iniziativa di Andrea Pavani e Pierpaolo Renzi, il C.L.A.E.T. (Centro Lettura e Attività Espressive Teatrali), nel corso della sua lunga e intensa attività teatrale, ha ricevuto numerosi premi e riconoscimenti e annovera in repertorio spettacoli di vario genere di autori sia italiani (L. Malerba, T. Guerra, A. Longoni, S. Benni) sia stranieri (H. Bazin, J. Tardieu, E. Ionesco a Longoni, Reginald Rose, Anat Gov) con testi alquanto insoliti per una compagnia amatoriale che, tradizionalmente, preferisce attingere ad un repertorio drammaturgico più rassicurante e meno sperimentale. Lo spettacolo è stato valutato da una giuria composta da sette giurati con competenze specifiche a diverso titolo nel settore i quali, nel Gran Galà finale del 29 marzo 2020, assegneranno 8 premi: Miglior spettacolo, Miglior attore/attrice protagonista, Miglior attore/attrice non protagonista, Miglior allestimento, Miglior testo e Miglior regia. Al termine della rappresentazione, il consueto omaggio della tradizionale maschera, simbolo della rassegna Vacantiandu, ideata dal graphic designer Alessandro Cavaliere e realizzata dal maestro Raffaele Fresca, che il direttore artistico Nico Morelli e il direttore amministrativo Walter Vasta hanno consegnato a Diego Ciarloni.

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L’angolo di tommaso

Riflessioni La mancanza di attenzione verso gli altri, specialmente per coloro che ci stanno più vicini, può essere considera+ta una vera emergenza sociale. Tanti, troppi i fatti di cronaca che ogni giorno ci testimoniano episodi la cui matrice è la solitudine derivante dall’abbandono e dalla poca attenzione di chi, pur vicino da un punto di vista logistico in realtà è anni luce distante. In tutto questo si è affermata una categoria particolare, i “professionisti dell’attenzione all’altro”, conferenzieri e similari i quali si esibiscono in incantevoli conversazioni sull’argomento, dispensano consigli con linguaggi empatici e umani, si approcciano con eleganza al pubblico ascoltatore, donano una speranza, qualcuno in sala inizia ad intravedere un futuro di “corrispondenza di amorosi affetti”, salvo poi, che proprio detti “ professionisti”, nel dato concreto dei fatti, sono i più disinteressati al loro prossimo più vicino, il singolo interlocutore non suscita in loro alcuna pur minima umana curiosità, nemmeno il nome di battesimo. Troppo presi dal loro studio sull’attenzione

verso il prossimo, questo prossimo non è altro che una nebulosa informe, un vocìo confuso e probabilmente fastidioso.

L’Olocausto. Non sono riuscito fino ad oggi e penso che oramai non ci riuscirò più a superare emotivamente e intellettualmente l’Olocausto. Confesso che da anni non riesco a guardare un film sull’argomento e alcune immagini in foto o in movimento sono rimaste indelebili nella mia mente, mi angosciano, addolorano e commuovono sempre con la medesima intensità. Sarò sempre dalla parte del popolo ebraico, mi appassiona la cultura, la musica e il canto. L’Olocausto deve essere pensato nella sofferenza di ogni singolo dei milioni sterminati dalla malata cattiveria nazista. Si, pensate, la sofferenza di ogni singola anima... Il 27 gennaio è un giorno di riflessione profonda e di raccoglimento interiore.

riflessioni

L’asticella della Morale, indice di Civiltà di Alberto Volpe Etica e culturale (quest’ultima non intesa come insieme di conoscenze) sono il binomio parallelo di una socialità democratica. Per cui una Società che non affonda le sue radici nei solidi principi della Democrazia altro non è che autoritarismo,assolutismo,dispotismo e, oggi più eufemisticamente si direbbe sovranismo.

di conflitti bellici e una Comunità coesa, forte e solidale ? Laudator temporis acti ? Perché non ammetterlo che, pur nel mutare degli eventi, delle conoscenze e delle moderne tecnologie, vi è un innegabile e grave offuscamento di quei capisaldi giuridici ! A meno di oscurantismi “todo modo” di una modernità autoassolventesi, è palesemente innegabile che le massime istituzioni, presidio di un sicuro e certo Stato Tutti, essi, sistemi che la Storia ha stigmatizzato, cercando di vincere e costituzionale, hanno subito un sensibile calo di “neoalfabetizzatizzasuperare, non senza pagare il “prezzo” in termini principalmente di vite zione” rappresentativa. Ne è tale la odierna personalizzazione di quelle umane, con lotte, battaglie e guerre. Il riscatto, in termini di analfabetizstesse Istituzioni, nelle quali si annidano pressapochismo, arrivismo, e zazione autentica, e di rivendicazione di uno Stato sociale fondato sul uso personale della carica istituzionale. La Politica è scelta di servizio diritto, a prescindere dal censo e da ogni altro tipo di discriminazione , onorevole (ecco perché in origine era anche gratuita), quale primaria quel riscatto sociale è pietra miliare di un non-ritorno alle forme ,anche forma di solidarietà. Il che è ben lungi dal “sistemarsi” all’ombra della solo apparentemente neofeudalistichde. Eppure… Certo, quello stato di politica, ed è la negazione di quel “mercato” di parlamentari,con facile diritto è ben lontano dall’essere acquisita e non pur solo formale realtà e disinvolto “cambio di casacca”, ormai all’ordine del giorno. Esempi da tutti i popoli del pianeta Terra. Tra questi, anche taluni che si affacnegativi, neppure chiaramente esecrati, avvengano essi con manifeciano o chiedono di entrare a far parte della UE. Proprio a questa “sosta collusione o corruzione nel Parlamento come in una Prefettura di vrana Istituzione” si deve riconoscere la originaria funzione essenziale Provincia, con l’assenteismo da lavoro dei dipendenti pubblici, come di promozione democratica. Ma non sempre, e non ancora quella spinta di consiglieri regionali e comunali, incappati nei provvedimenti della e direzione viene recepita da taluni “sovrani” dei nostri giorni. Anacromagistratura con avvisi di garanzia in inchieste di “gettonifici”. Come nismi politico-culturali appunto, che rallentano e rinviano, spesso per è sempre più attuale, perciò, la riflessione dell’ex Pm di Milano, Piercaopportunismi finanziari di parte, la rivendicazione di crescita. Quanto è millo Da Vigo, secondo cui, pur a istanza di anni da quel Mani Pulite, unanimemente condivisibile un reale e concreto riconoscimento già nel in politica “non si è smesso di rubare, nostro Bel Paese Italia la condizione e si è smesso persino di vergognardi solidarietà sociale, sì che ad ogni si”. Da qui la deduzione, triste ma cittadino-utente-contribuente-elettore anche inoppugnabile, che l’ignoranza venga riconosciuto di fatto quello e l’impreparazione con cui si approda status ? La prospettiva non può che alla rappresentanza politica diventa nutrirsi di una cultura e di una conoccasione di permeabilità della cordizione giuridica fondata sulla eticità ruttibilità, siano esse di provenienza dei suoi legittimi rappresentanti nelle mafiosa come di loby finanziarie. La varie e diverse istituzioni. A quale livedo dura, dunque, che il possa farsi vello è oggi quell’asticella,indicatrice strada il monito dell’ex Procuratore di della indispensabile “cultura” che riMilano, Angelo Borrelli, volto a “respetta un “corpus iuris” ? Quanto è sistere, resistere, resistere” sia fatto lontano il tempo di quei “Padri costiproprio dalle nuove leve che si proPiercamillo Da Vigo: in politica “non si è smesso di rubare, tuendi”, che si preoccupavano di copongono come “cambiamento” ! e si è smesso persino di vergognarsi”. struire una Democrazia, sulle ceneri


IL VOLTO SPIRITUALE DELLA CALABRIA

CATERINA BARTOLOTTA DON GIOVANNI CAPELLUPO, IL DIRETTORE SPIRITUALE di Fernando Conidi Nella storia di mistici e santi la figura del direttore spirituale è sempre stata importante, una guida essenziale per riuscire a percorrere un cammino di fede autentico, privo di quei pericolosi personalismi che, molte volte, spingono l’individuo a volersi sentire guida egli stesso, abbandonando la strada dell’umiltà, che è sinonimo di santità. Caterina, guidata dalla volontà della Madonna, ha avuto un direttore spirituale d’eccellenza, don Giovanni Capellupo, un sacerdote pieno di amore e di zelo per la Madonna, da lui considerata la via più luminosa per raggiungere la salvezza di Cristo.

dopo aver ascoltato con attenzione, accettò di approfondire direttamente la storia di Caterina. UN SACERDOTE PIENO DI ZELO SPIRITUALE Don Giovanni era un sacerdote dal forte spirito pratico, non giudicava mai affrettatamente e, vista la forte esperienza spirituale avuta con Natuzza, certamente non gli sarebbe mancata la giusta capacità di discernimento di fatti, circostanze e testimonianze sulle vicende di Caterina.

LA STORIA UNA CHIAMATA DIRETTA Circa un mese dopo l’inizio delle apparizioni, nell’agosto del 1973, la Madonna fece a Caterina una richiesta particolare, quella di cercare un sacerdote, don Giovanni Capellupo, perché sarebbe dovuto diventare il suo direttore spirituale. Egli era originario di Settingiano e in quel periodo si trovava proprio nel suo paese natio, ospite di una sua sorella, a causa di un momento delicato che stava attraversando per la sua salute. La madre di Caterina, Vittoria Virgillo, conosciuta la richiesta della Madonna, si recò a casa della sorella del sacerdote per chiederle come potesse rintracciarlo, non immaginando che si trovasse proprio lì. Don Giovanni aveva una notevole esperienza sia sulle apparizioni mariane che, in generale, sui fenomeni mistici, poiché era stato a lungo direttore spirituale di Natuzza Evolo, la grande mistica di Paravati, frazione di Mileto (VV). Vittoria raccontò a don Giovanni delle apparizioni della Madonna alla piccola Caterina e quale fosse il motivo della sua visita. Egli,

Don Giovanni Capellupo segue Caterina durante una delle apparizioni della Madonna Settingiano, 1974

Soprattutto, egli si domandava quale fosse realmente il significato di quella chiamata fatta direttamente dalla Madonna, sopraggiunta proprio in un momento difficile per la sua salute. Don Giovanni, conosciuta Caterina, si rese conto immediatamente della genuinità e della sincerità della piccola veggente, che allora non aveva ancora compiuto i dieci anni d’età. L’umiltà e la dignità che trasparivano dalla famiglia Bartolotta, il comportamento di Caterina e il suo sguardo umile e sincero,

non potevano che essere un indizio che tutto fosse vero. Bastarono pochi giorni a don Giovanni per rendersi conto pienamente che qualcosa di straordinario stava succedendo in casa Bartolotta, proprio davanti ai suoi occhi. Così decise di accettare quell’incarico che veniva dalla Madonna, divenendo il direttore spirituale della piccola Caterina. Don Capellupo era un sacerdote mariano, zelante, cosciente della grande grazia che il Signore ha concesso all’umanità attraverso Maria, Madre di Cristo e della Chiesa. Egli iniziò a vivere un’esperienza molto forte, profondamente spirituale, capace di arricchirlo come sacerdote e come uomo, della quale scriveva su dei quaderni personali, su cui venivano riportate esperienze dirette e indirette, messaggi della Madonna e ogni avvenimento o dettaglio degno di nota. L’intento di don Giovanni era quello di creare un archivio personale, non solo perché amava rileggere e studiare a fondo tutto quel vissuto, ma, soprattutto, perché la storia di Caterina fosse corredata di documenti, che permettessero a tutti di conoscere il progetto che la Madonna aveva verso una piccola fanciulla calabrese. Don Giovanni la guiderà per oltre nove anni, fino al 1982, anno della sua dipartita da questo mondo. Egli lascerà un vuoto quasi incolmabile nel cuore di Caterina. In casa Bartolotta, per molto tempo dopo la sua scomparsa, il suo nome veniva pronunciato ogni giorno, in ricordo del suo zelo sacerdotale, della sua grande capacità di discernimento, della sua immensa umanità, della sua eloquenza e, soprattutto, del suo grande amore per il Signore e per la Madonna. Fonte: “Il Segno del soprannaturale”, n. 349, luglio 2017 - Edizioni Segno - Autore: Fernando Conidi


LA CALABRIA, UNA TERRA DA AMARE

Le pietre dei sognatori di Ginevra dell’Orso

Centinaia e migliaia di piccole casette, abbandonate in mezzo agli alberi, sulle rive dei fiumi, sparse tra le colline e poi tra le montagne. Piccoli e grandi ammassi di pietre, religiosamente appoggiate l’una sull’altra, con immane fatica e dedizione, un tempo luoghi d’incontro, di sieste, di riparo, di abitazioni: resti di paesi, o frazioni, o semplicemente accumuli di vita che non esistono più. Sono quelle meravigliose costruzioni che si trovano ovunque in Calabria, da nord a sud, dalle piane alle vette più alte: quelle casette a volte senza tetti, a volte senza porte e finestre; spesso semi intatte, e quasi sempre abbandonate. Sono quelle che io chiamo “le casette dei sognatori”. Le chiamo così perché danno tanto spazio all’immaginazione, ed è bello pensare a tempi lontani in cui, proprio in quel posto, come se si fosse in una realtà parallela, venissero compiuti fatti di cui, oggi, arrivano solo brandelli di storia. Sarà che l’inverno, con le sue giornate fredde e dalle nuvole basse, invita più di ogni altra stagione, a ripercorrere luoghi dimenticati, come se si volesse rivivere, per un solo attimo, un pezzo di passato. Intorno al mio paesino, ce ne sono una ventina, più o meno vicine al centro abitato: ogni volta mi domando come facessero a raggiungerle... queste casette, buttate lì, in mezzo al verde dei boschi, celate da secolari alberi, che custodiscono gelosamente segreti antichi. Ma non sono solo le casette sparse a fare da protagoniste a queste terre; ci sono castelli, interi picpag. 16

coli borghi abbandonati, che hanno attraversato il nuovo millennio portandosi ancora dietro, intatti, racconti meravigliosi. Roghudi vecchia Durante i miei tanti viaggi in lungo e in largo per la regione, ricordo che mi colpirono tantissimo le GrafichÉditore di A. Perri - & 0968.21844

leggende sul paese di Roghudi, situato alle pendici meridionali dell’Aspromonte, considerato ad oggi un paese fantasma, non solo per l’abbandono dei suoi abitanti, ma soprattutto per le storie che gli anziani ancora raccontano con tanta dovizia di dettagli. Si narra, ad esempio che Lamezia e non solo


LA CALABRIA, UNA TERRA DA AMARE esistessero delle donne, metà umane e metà animali, con zoccoli di mulo, che nella notte, a cavalcioni di un ramo di sambuco, cercavano di attirare le donne del paese, sotto sembianze benigne, per poi ucciderle e impadronirsi dei loro uomini. Un’altra famosa leggenda, decisamente un po’ inquietante, è quella che narra che lungo i muri delle case, venissero conficcati dei chiodi affinché si potessero legare con delle corde i bambini, al fine di scongiurare qualsiasi caduta nel burrone che circonda l’antico borgo. Si dice che di notte si sentano ancora i pianti disperati dei bambini salire lungo i dirupi. E per finire, la leggenda più affascinante: la rocca del drago. Sopra il paese, a dominarlo, c’è una grande roccia monolitica che assomiglia incredibilmente alla faccia di un drago. Sono scolpiti sulla superficie anche due grossi cerchi che sembrano proprio degli occhi, e sotto questo grande masso si racconta che ci sia un tesoro, dal valore inestimabile, custodito appunto dal drago. Tuttavia, gli abitanti sostenevano che chiunque si fos-

Lamezia e non solo

se avvicinato, sarebbe stato spazzato via da un forte e gelido vento, e scaraventato giù dal burrone nelle acque della fiumara. Le pietre giganti dell’amore Molto suggestiva è anche una storia che si dice sia partita da Badolato, paese limitrofo al mio, per poi diffondersi un po’ in tutto il litorale ionico. E’ la leggenda delle pietre giganti dell’amore: si narra che molto tempo fa la Calabria fosse abitata dai giganti, che vivevano sulle colline affacciate sul mare, dalle quali potevano adorare il loro Dio, il Sole. Questi giganti, per mettersi in bella mostra con le donne del loro paese, erano soliti fare a gara per trovare il masso più grande e farlo quindi rotolare giù per le pendici, cercando di raggiungere possibilmente il mare. E’ da questa storia che si è cercato di dare una spiegazione agli innumerevoli massi enormi che si trovano sparsi un po’ ovunque: dai megaliti di Nardo di Pace, al monolite di Pietra Cappa, fino alla scogliera di Pietragrande. Io stessa ho davanti a casa un enorme masso, divenuto poi nei secoli una sorta di altare di un’antica chiesa templare dedicata a San Giovanni. In effetti, mi sono sempre domandata come potessero esserci dei sassi così giganteschi, solitari e impo-

nenti: ma dopo questa storia, inizio a credere che ogni leggenda abbia davvero una parte di verità. Le sabbie mobili della Baronessa C’è anche il racconto della Baronessa Scoppa di Sant’Andrea, altro paese confinante col mio: sembra che attirasse numerosi amanti nel suo castello, situato nel cuore delle Serre calabresi, isolato dal resto del mondo e circondato da temibili sabbie mobili. Ed erano queste ultime a fare da protagoniste ai tristi episodi che ruotano intorno a questa donna: sembra infatti che, per disfarsi dei suoi amanti, li conducesse in mezzo al bosco per poi farli risucchiare dalle paludi, mentre cercavano di trovare la strada del ritorno verso casa. E poi... e poi ci sarebbero tante altre storie, dense di mistero, di magia, che raccontano una terra ancora da scoprire, non solo nelle sue leggende, ma nelle viscere della sua millenaria cultura. Del resto, la Calabria è come la felicità: è uno stato d’animo.

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giovani e dintorni

La comunicazione in politica tra strategia e verità

di Pierluigi Mascaro

Qualche tempo fa, ho letto un breve ma interessantissimo libro di Gianrico Carofiglio, intitolato “Con i piedi nel fango – conversazioni su politica e verità”, di cui consiglio vivamente la lettura. Questo libro è organizzato in forma dialogica, concisa, concreta ed incalzante, e si occupa del tema, oggi più che mai di enorme attualità, dell’efficacia della comunicazione in politica, di quanto i leader di partito possano influenzare in maniera a dir poco dirompente, nel bel mezzo dell’era della teledemocrazia, l’orientamento elettorale di masse di elettori sempre meno informati e sempre più trascinati dalla bufera mediatica di turno, mediante un sapiente e spesso astuto uso della parola. Tuttavia, in un simile scenario ormai divenuto d’indiscussa normalità, l’autore s’interroga, e invita i lettori a farlo, sulla misura in cui le suddette modalità comuinicative si attaglino o meno alla trasmissione di un messaggio politico veritiero, nonché su quanto esse si prestino a travisare la genuinità e l’autenticità d’ideali del leader/ attore politico nei riguardi del proprio uditorio. Sono rimasto particolarmente colpito da uno specifico passaggio del libro, a pagina 87 per la precisione, che riporto testualmente: “Direi che in questo campo vale una regola più generale, quella dell’equilibrio. Bisogna saper dosare i vuoti e i pieni. A volte è la forza dell’assenza o del silenzio a rendere

più efficace un messaggio”. Questa affermazione mi induce a riflettere sul fatto che forse, ferma restando l’inesistenza, anche in politica, di una verità in termini assoluti, sia proprio la mancanza di equilibrio oggettivo ad inficiare la pur sempre relativa validità della comunicazione tra elettori ed eletti (o aspiranti tali), che l’incessante cascata di pseudo-informazioni, generate da un uso temerario e spregiudicato dei mass media da parte degli odierni attori dell’arena politica, contribuisca enormemente a falsare e distorcere le scelte elettorali dei cittadini. Concludendo, sono proprio i miei corregionali calabresi, i quali come me si recheranno alle urne giorno 26 gennaio, che invito in maniera particolare a sviluppare e far proprie queste riflessioni; auguro a tutti noi di trovare, in questi giorni che ci separano dal voto, quell’equilibrio di idee e valutazioni che ci regali una quanto più lucida capacità di discernimento, che ci consenta di affidare il governo della nostra amata terra di Calabria a quelle forze politiche che hanno per davvero a cuore le sue sorti, il suo progresso e il suo sviluppo economico e sociale, e che non si limitano semplicemente ad adulare noi, la nostra gente, al solo scopo di incrementare il proprio “bottino” elettorale, non nutrendo alcun interesse, ma soprattutto stima, per le nostre radici e le nostre tradizioni.

Satirellando

Una breve satira, anzi una specie di strambotto, per castigare l’apparenza. Otto versi che neppure ironizzano, ma introducono nello spirito dell’apparire. Satirellare, a volte, può voler dire anche essere diretti, senza mezze misure… Conosco alcune femminucce,\ sempre coi

STRAMBOTTO SULL’APPARENZA La mera apparenza è fatta di sostanza che si nutre alla mensa fatta di malacreanza. Molti non sanno stare senza ed ostentano baldanza: sanno prendere alla lenza, col lor piglio d’arroganza!

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di Maria Palazzo Carissimi lettori, più che parlare di un libro, questa volta voglio parlarvi di poesia. Nel 2018, finalmente, Mondadori, a cento anni dalla sua morte, pubblica una raccolta di poesie del grande Guillaume Apollinaire, con le traduzioni di Vittorio Sereni, Giovanni Raboni, Maurizio Cucchi: CANZONI PER LE SIRENE. Poeti essi stessi, e grandi studiosi di poesia, ci hanno fornito traduzioni mirabili del grande poeta francese. Secondo la prefazione Del Cucchi, alla pag. VII, leggiamo: “Si viene a realizzare una selezione dei versi di Apollinaire che è anche una vera e propria antologia ideale dell’opera di quello che è un classico della poesia del secolo scorso.”. Un’opera importantissima, per approfondire lo studio di un poeta che, come dice sempre Cucchi, alla pag.VI, risulta tale: “Uomo del proprio tempo, Apollinaire ha saputo esprimere il suono e il colore dell’epoca come pochissimi altri, proponendo soluzioni nuove, assorbendo dunque la tradizione e trasgredendola, ma senza mai lasciarsi imbrigliare da un’ideologia letteraria:”.

La quasi assenza di punteggiatura e la mancanza di titoli (di solito, nelle antologie, si dà per titolo il primo verso o, per maggior comodità, si elencano con i numeri romani o lasciate senza titolo), marcano il quotidiano della vita, spesso escluso in poesia, che prende forma e assurge a livelli alti, dando la dimensione umana del giornaliero. Questo è, infatti, l’intento di Apollinaire: innalzare a poesia un momento vissuto, un attimo fugace, un flash, se vogliamo, della nostra vita. Eccone un esempio, a pag. 127, poesia n. V della raccolta Alla santé: Passano le ore\ Come passa un funerale\\ Rimpiangerai l’ora di questo pianto\ Che troppo presto passerà\ Come passano tutte le ore. Oppure in una della poesie della raccolta Vitam impendere amore, a pag. 157: Scendevi in acque così chiare\ Io annegavo nel tuo sguardo\ Passa il soldato e con la mano\ protesa lei spicca un ramo\\ Tu vai sull’onda notturna\ Ritorta fiamma è il mio cuore\ del pettine ambrato ha il colore\ Riflesso nell’acqua che ti bagna.

È proprio per questo che amo questo poeta, spesso ignorato a scuola. Lo amo per la sua forza, per la sua giovinezza immortale (morì a soli 38 anni), per la sua creatività straordinaria e per la sua scrittura originale e poliedrica. Apollinaire, infatti, non fu solo poeta, ma scrittore di prosa e teatro, in un’opera omnia che supera, di gran lunga, molti poeti che hanno vissuto molto più di lui.

Il pregio e la bellezza delle poesie di Apollinaire risiedono proprio nell’esaltazione degli attimi. Nel modo di sentire i versi attraverso la vita e non il contrario, come avviene normalmente…

Testata Giornalistica Di tutto un po’ - lamezia e non solo anno 28°- n. 60 - gennaio 2020 Iscrizione al Tribunale di Lamezia Terme dal 1993 n. 609/09 Rug. - 4/09 Reg. Stampa Direttore Responsabile: Antonio Perri Edito da: GRAFICHÈditore Perri Lamezia Terme - Via del Progresso, 200 Tel. 0968.21844 - e.mail. perri16@gmail.com Stampa: Michele Domenicano Allestimento: Peppino Serratore Redazione: Giuseppe Perri - Nella Fragale - Antonio Perri Progetto grafico&impaginazione: Grafiché Perri-0968.21844

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Lo amo per l’innovazione portata nel campo poetico e in quello della prosa. La sua maniera di scrivere è talmente originale, da potersi considerare un caso unico, nella Storia della Letteratura mondiale.

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Sport

AMARCORD/Tra i più grandi calciatori nei 100 anni di storia della Vigor Lamezia L’EX BOMBER NACHO CASTILLO: “Ritorno da allenatore? Mai dire mai!” “Ricordi? La tifoseria della Vigor fece un coro solo per me,un’eccezione” Fortissimo! E’ semplicemente l’aggettivo più azzeccato per Josè Ignacio Alvarez Castillo, detto “Nacho”. Castillo in argentino significa Castello e mai significato fu più appropriato per simboleggiare qualità e spessore tecnico del bomber argentino, oggi 44enne. Approdato in Italia nel 2001 a Brindisi, quindi Nardò, Vigor Lamezia (aveva 28 anni), 2 anni a Gallipoli, poi in B con Frosinone e Pisa, quindi in A con Lecce (7 gol), Fiorentina, Bari (2 anni in A e uno in B) e chiusura in C1 col Trapani. In totale 5 promozioni ed oltre 150 gol in carriera. Chapeau! A Lamezia arriva nell’estate del 2003 espressamente voluto da mister Boccolini, e proprio alla Vigor Castillo detiene, della sua lunga esperienza italiana, il record di gol (29): 24 in campionato e 5 ai play off, valsi l’ammissione in C2. Un piacere sublime ammirare Nacho in quella stagione al D’Ippolito ed in trasferta: devastante in progressione, faceva reparto da solo in attacco e fiuto del gol come pochi. Nei miei 35 anni di Vigor che ho avuto (scusate la prima persona) l’onore di seguire da tifoso prima e da giornalista poi Nacho il più grande! Lo abbiamo raggiunto a Tandil in Argentina dove è ritornato dopo aver appeso gli scarpini al chiodo nel 2014, con la moglie Carol ed i figlioli Tomas e Anna. Per noi si racconta a 360 gradi.

Nacho cosa stai facendo ora? Mi sono preparato per fare l’allenatore: l’ho fatto per 4-5 anni allenando Under 15, 17 e 19 del Tandil, ora sono fermo. Sono stato in trattativa per allenare la squadra della mia città che milita in serie B, ma non è andata a buon fine. Ora mi preparo a ritornare in Italia. Ho il patentino Uefa B, preso a Bari mentre giocavo in B l’ultimo anno, e poi due anni fa a Coverciano quello Uefa A, posso allenare fino alla C, e poi fare il secondo in A e B. A Lamezia hai lasciato ottimi ricordi, qui ancora campeggia la scritta ‘Nacho sindaco’. Cosa ti è rimasto impresso di quell’avventura culminata col ripescaggio? Quando la tifoseria della Vigor, che tifava sempre per la squadra e mai faceva cori per i singoli calciatori, all’ultima gara in casa invece me ne ha dedicato uno personale. La cosa mi ha fatto grande piacere: diciamo che – sorride – gli ho fatto cambiare idea. Per te fu Lamezia il vero trampolino di lancio. Da lì tante gioie: ne cito 2 entrambe nel 2009, a maggio allora 33enne il tuo gol alla Juve di Buffon, Del Piero, Nedved col Lecce valso il 2-2, a dicembre l’esordio in Champions con la Fiorentina all’Anfield col Liverpool… Sì, quell’anno ho fatto tanti gol a Lamezia e dopo andai

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di Rinaldo Critelli

a Gallipoli. Anche lì ho fatto bene vincendo tanti campionati e Coppa Italia in C. Poi quando finalmente ho risolto il problema del passaporto e divenni comunitario sono andato in A e B. Ho giocato in tante piazze calde e importanti: mi sono trovato bene ovunque, a Pisa, Lecce, Frosinone nella seconda parte, Bari che è una città fantastica. Quei due che hai citato sono sicuramente tra i ricordi più belli, aggiungo il gol nel 2010 a Napoli col Bari valso il 2-2. Si conferma ancora schivo Nacho, persona grande anche per la sua umiltà! Veniamo all’erede: tuo figlio Tomas (impressionante la somiglianza in foto con te!) cresce bene, di fatto sta seguendo le tue orme… E’ piccolo ancora, ma gli piace il calcio, lui dice che vuole fare il calciatore. Ma la carriera non dipende solo da te, per cui bisogna prepararsi, allenarsi e costruire qualcosa nel tempo per poi vedere se sei bravo. Tomas ha buone potenzialità ma deve sempre allenarsi e fare sacrifici, vediamo col tempo che succede. Ovviamente ti piacerebbe allenare in Italia… Molto. Quando ti rivedremo qui? Penso tra un mese di essere in Italia e vediamo se ho la fortuna anche di allenare. Magari un giorno ritornerai alla Vigor, in panchina? Speriamo: non dico no a nulla. Chissà, se un giorno arriverà una proposta la valuterei, specie dopo quell’annata passata in biancoverde: anche se arrivammo secondi quella Vigor era una squadra fortissima, una delle più migliori in cui ho giocato. E lo dimostra Lamezia e non solo


Sport

Rifkessioni sul gioco che origuna bellezza di Vincenzo De Sensi

L’intellettuale ai bordi del campo vacillò. Aveva appena imparato ad ammirare il sapinte palleggio e il fine dribbling e si era appena convinto che fosse Atlantide che ora sente parlare di moduli, di marcature, di incroci, di coperture. C’è dunque la mano e il genio dell’uomo. Oltre il piede talentuoso L’intellettuale sobbalzò. Una voce arnica, si dice fosse un vecchio cieco, gli raccontò del giorno in cui tecnici audaci sperimentarono i quattro-tre-tre, i quattro-due-quattro, o inventarono figure come il libro o il tomate, marcature a zona o in pressing. II vecchio, per farsi capire, gli ricordò l’importanza del coraggio nelle innovazioni tecniche e il valore delle sorprese fatte all’avversario. Al calcio giocano, spesso, veri e propri geni. Dominatori dello spazio e del tempo, perfetti coordinatori delle dinamiche dei corpi umani, sapienti strateghi. Il calcio è espressione artistica al pari della pittura, della musica, della poesia. Non si accetta il comune modo di interpretare il calcio esclusivamente come dimostrazione di forza fisica ed agonismo, geometrie, lanci, smarcamenti, incroci, proiezioni, palleggi, combinazioni, sono come tratti di pennello su una grande tela con il fondo verde rappresentato dal terreno di gioco. Huizinga in Homo Ludens: “quando il gioco origina bellezza, implicito è il suo valore per la cultura”. Ricomponendo sacro e profano il mistero è svelato e con esso l’elogio del calcio, in sé, come produttore di bellezza e dunque di cultura. II calcio, giocato ad un certo livello, non è solo l’espressione delle doti di fantasia o dell’estro del singolo giocatore. Non è quindi cultura d’autore, magari underground. Esso è orchestrazione scientifica di talenti organizzati, disposti secondo regole meditate, calcoli di tattica e strategia. Estro e fantasia, cervello e polmoni

vengono messi a disposizione dell’industria calcistica. Essi come succede in altri campi, non bastano a se stessi, e senza uno disponibilità alla propria massificazione per la squadra e per il pubblico, sarebbero votati ad un isolamento. I film di Pierino dimostrano che il calcio e la cultura si possono incontrare se, appunto, “il gioco origina bellezza”. La bellezza deve essere “originata”. Per farlo, abbiamo visto, non basta il talento, occorre la scienza. II calcio in fatti produce bellezza e cultura perchè è governato dall’ estro e dalla scienza. Fu proprio la bellezza a farmi diventare tifoso, a farmi contrarre l’inguaribile malattia. La bellezza dei movimenti di un uomo piccolo come una virgola, con una grande massa di capelli, dei calzettoni arrotolati fin sopra gli scarpini. Si chiamava Omar di nome, Cabezon di soprannome, Sivori di cognome. Muoveva quelle gambe esili con la grazia di un ballerino ispirato e portava la palla dove voleva. Fu quell’argentino strepito a folgorarmi, in tenera età. Erano i secondi anni ‘50 e lo vidi, per la prima volta, in televisione. Portava una maglia bellissima, bianconera, a strisce, un po’ larga. Era una casacca, una camicia senza bottoni. Solo dopo avrei saputo che era la squadra di un Avvocato che produceva macchine. Lo zdanovismo applicato al calcio, come ad ogni altra manifestazione artistica, indigna il mio cuore laico. Seppi dopo, anche, che quella era la squadra che vinceva sempre sempre. Lo seppi in realtà, molto dopo. Infatti, finita l’epoca di Bonipertì, Sivori e Charles furono, per noi Juventini, anni di piombo. Arrivammo fino all’abisso del dodicesimo posto, Tempi di transizione, si sa. E in essi avvengono, diceva Gramsci, i «fenomeni più morbosi». La Juve faceva come il Timone d’Atene di Shakespeare che «un giorno ci dà diamanti, un altro sassi».

anche che poi stravincemmo i play off perché si vedeva nettamente che eravamo meglio delle altre, questa è la verità, anche se vinse un’altra. L’allenatore tra i tanti che ti ha lasciato più degli altri? Sicuramente Boccolini: mi piace sempre ricordarlo perchè fu quello che mi fece venire in Italia, trattandomi come un figlio, questo per me è stato determinante. Anche se era molto esigente con gli atleti chiedendo sempre il 100%, però con me è stato speciale e ci sentiamo ogni tanto al telefono, gli voglio bene. Per me lui è il mister, tra i tanti allenatori avuti. A presto Nacho… Lamezia e non solo

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scuola

Importante progetto Scolastico all’Istituto “L. Einnaudi”: l’ integrazione dei ragazzi con “Bisogni Speciali”

di Annamaria Davoli

Gennnaio è il mese dedicato alle iscrizioni scolastiche. la Scuola è fondamentale per i giovani, futuri cittadini, come ambiente di insegamento-apprendimento. Essa ha come obiettivo la formazione culturale e umana dei propri allunni. Quali metodi adotta per affrontare questo compito? Analizziamo gradualmente il contesto socio-culturale odierno. Il nostro periodo storico è contraddistinto da importanti e rapidi cambiamenti caratterizzati sia dalla globalizzazione dei problemi, sia dall’emergere di diversità etnico-culturali e religiose. L’apertura delle frontiere ha permesso una maggiore libertà di muoversi e l’avanzata tecnologia, migliori collegamenti tramite i Mass Media e le Reti Multimediali. Il compito principale e fondamentale della scuola è fornire ai propri alunni un’adeguata formazione culturale e professionale. Essa deve coinvolgerli in tutti gli aspetti: persona, cittadino, lavoratore…) con riferimento alle conoscenze, competenze, ai sitsemi valoriali. Essa ha una funzione insostituibile di educazione e di formazione, ma anche di riflessione critica sulle differenti e spesso frammentarie esperienze formative che oggigiorno i giovani hanno spesso l’opportunità di fare. Il suo impegno però, non sarà la diffusione della conoscenza, bensì l’educare gli alunni a imparare. Questo è il concetto fondamentale l’‘Educazione Permanente’: L’ istruzione scolastica iniziale, fondamentale per tutti, non si esaurisce nell’apprendimento iniziale ed essenziale. La formazione deve svilupparsi, maturare e continuare lungo tutto l’arco della vita di una persona, fino alla terza e quarta età, così come richiede la complessità della società moderna e l’invasiva diffusione delle tecnologie nella vita quotidiana, rispettando, ovviamente, le diverse fasi, esigenze, età e condizioni di ciascuno. Come si può notare, oggi nella scuola sono presenti sia alunni stranieri con ovvie difficoltà espressive, sia alunni con problemi di apprendimento. Questi ultimi negli anni precedenti venivano iscrittti in classi speciali, ricevendo soltanto assistenza. Finalmente con la Legge 104 del 1992 si sono avuti interventi più efficienti. La Legge ha previsto infatti, innanzitutto l’integrazione scolastica e i diritti dei disabili, quali quello di promuoverne l’autonomia individuale. Essa ha come finalità oltre all’ integrazione, la programmazione coordinata dei servizi scolastici con quelli culturali, ricreativi, sportivi, sanitari e socio-assistenziali. pag. 22

Da sottolineare che questa si prefigge di valorizzare la diversità, rendendo ogni alunno disabile protagonista attivo delle proprie azioni, dei progetti, della propria vita, conoscendone, ovviamente: Capacità, abilità residue, potenzialità, in un costante training educativo. Spesso un qualsiasi alunno, può sentirsi insicuro o essere timido, temendo l’insuccesso. Perché l’azione formativa abbia successo, occorrre realizzare alcune condizioni di accoglienza creando interventi positivi nei suoi confronti, offrendogli motivazione e fiducia affinché egli possa proseguire il suo lavoro e riuscire nell’apprendimento in classe e lungo tutto l’arco della vita; altrettanto incoraggiandolo ad affrontare i problemi per risolverli servirà sia per il processo di apprendimento sia affiché possa gestire eventuali ostacoli. Motivarlo significa suscitare in lui desiderio, stima in se stesso e curiosità di cercare nuove conoscenze e/o di applicare l’apprendimento precedente a una ampia gamma di contesti della vita: Questi sono elementi essenziali di un’attitudine positiva. Per fare un esempio, alcuni studenti con ‘bisogni speciali’ iscritti all’Istituto Ipssar “L. Einaudi” di Lamezia Terme, sono stati coinvolti (lo sono sempre ) dalle docenti di sostegno in occasione del Santo Natale, in attività laboratoriali per la preparazione del presepe e degli addobbi natalizi, in attività ludico-operative, socializzando tra loro e con gli altri alunni in progetti creativi. Sono stati necesssari non solo impegno e volontà, ma anche capacità cognitive e percettive di ciascun bisogno. Gli alunni hanno appreso facendo esperienza, lavorando e riflettendo sul loro operato. Avere delle strategie adeguate per motivare i propri alunni sono le condizioni base di imput che il docente può fornire loro. Affinché il processo di insegnamento sia efficace, è necessario riuscir a crerare il clima relazionale positivo dovuto non al singolo docente, ma alla coerenza educadiva dell’intero team e dell’intera comunità scolastica, in grado d’inviare loro messaggi e valori positivi di Pace e Fratellanza, favoremdone la socializzazione e stimolandone la fantasia e la creatività. E’ importante che il clima relazionale tra tuti i componenti, docenti GrafichÉditore di A. Perri - & 0968.21844

e compagni di classe sia favorevole. All’alunno in via di apprendimento necessita un ambiente stimolante, che favorisca la sua soggetttività, il gusto per la scoperta, che valorizzi le divesità, permetta il confronto di idee, riconosca il diritto all’errore e consideri l’errore come una risorsa, perché egli possa attivarsi. Grazie alla motivazione suscitata e al clima favorevole attivato, è stato possibile far lavorare e socializzare gli alunni, far sì che questi si dedicassero ad alcune atttività ludico-operative, grazie alle quali sono stati realizzati in modo originale e utilizzando materiale di recupero alcuni oggetti quali: tappi di sughero , incollati tramite la colla e la pistola a caldo, poi colorati e assemblati, e col feltro rivestiti, in modo tale da prender forma come: Maria, Giuseppe e Bambin Gesù nella culla, adagiati su di un piccolo pezzo di sughero e un angioletto. Piatti di carta e pigne, candele colorate, aghi di pino, sono stati utili per la realizzazione di fantasiosi centri tavola, ghirlande, La Carta è servita per la creazione di alberelli, pastori e casette. Queste attività sono state attuate per i ragazzi e insieme a loro, per far sì ch’essi vivessero dei momenti motivanti di condivisione e di allegria. Si sono dimostrate utilissime, come sempre: Fantasia, creatività, e tanto spirito d’iniziativa e pazienza, che sono tra le virtù delle docenti realizzatrici di tali lavori laboratoriali. Grazie a tale progetto che, insieme ai compagni, ai docenti, alle famiglia, ha dato l’opportunità a questi ragazzi di valorizzare le proprie conoscenze, competenze e disabilità, è stato possibile permettere loro di acquisire le abilità prefissate e soprattutto, permettere loro di socializzare, affinché essi non debbano essere più “soli” , ma insieme agli altri nella vita.

Lamezia e non solo


CONSULENZA - Pedagogia

A Domande Risponde di Raffaele Crescenzo

Giovane età 22 – studentessa – “buongiorno,sono barbara,quando avevo 16 anni ho cominciato a soffrire di crisi epilettiche,ne ho avute 4 forti poi sono entrata in terapia farmacologica e non ne ho avute più. prima di perdere conoscenza durante le crisi ho avvertito sensazioni strane, il rumore di un treno, uno che cantava, la sensazione di vedere tutti dall’alto, può essere che questa cose si riferiscano a un trauma che me le ha fatte avere? cosa pensare quando per un semplice mal di testa o altro avverti sensazioni strane e vai a panico? io a volte canto per superare il momento” Gent/ma amica, prima nota positiva che la terapia farmacologia dà i suoi frutti; seconda nota positiva è la voglia di conoscere a fondo il perché di queste crisi, cosa le ha scatenate, come fronteggiarle in futuro. In letteratura, le manifestazioni di persone, di diversa età, prima della crisi sono tante e diverse: chi esclamava frasi diverse come se si trovasse in un sogno, chi si alzava e correva intorno al tavolo, chi invece pri-

ma della crisi avvertiva un dolore alla gola …. (Kanner L.,1969). Se pensi che tue manifestazioni “sensazioni strane, il rumore di un treno, uno che cantava, la sensazione di vedere tutti dall’alto” possano significare un trauma scatenante subito, direi di parlarne con i tuoi genitori e con il tuo medico e/o neurologo. La discussione che desidero affrontare insieme a te è quella riguardante le implicazioni psicologiche che possono presentarsi: devi convincerti e riflettere che uno stato d’animo, emotivo, un sintomo non è l’anticamera di una crisi ma bensì fanno parte della nostra quotidianità che va vissuta indipendentemente dalle avversità fisiche, psichiche e morali che incontriamo. Il tuo “cantare” non deve significare solo l’esorcizzare paura e panico, ma deve anche significare che in quel momento stai vivendo, nonostante tutto, stai dando un significato pieno al tuo esistere. Tra l’altro la forza che è in te l’ hai dimostrata scrivendomi, parlando di te ed insegnando qualcosa in più a me ed a tanti che ci leggono. La tua forza interiore e la terapia deve continuare ad essere una “coppia” affiatata ed efficace.

Consulenza tratta dal libro “Appunti di quotidiana pedagogia” (a colloquio con genitori e giovani) 2009 – Edizioni Boopen – Napoli

Le perle di Ciccio Scalise

PRIMA L’ASTI PUA TUTTU U RIASTU

Quandu guagliuni, alla scola hamu jiutu, l’asti, sunu a prima cosa c’amu fhaciutu, pua ad’una ad’una, tutti i vucali,, sempri attenti a Ili fhari tutti guali.

Pua i majiusculi e lli primi dittati, ccù sti cosi, i studi si sunu abbiati. Quandu ancuna cosa si sbagliava, ancuna bbacchittatella arrivava, un ffacia mmali, un ssì lamintava nnissunu, e ddi stu rituali sì ndì sarbava ssulu ancunu. Chin’era cchjiù bbravu e ddisciprinatu, certu i n’atru modu, da maestra vinia gguardatu. Lamezia e non solo

Ogni ttantu ni purtavanu a nna passiggiata, quanta cuntintizza e ggiojia, chilla jiurnata, mà, quandu u tema supra chilla cosa, aviamu i fhari, ntrà chilli bbanchi, era ttuttu nù gira capu ppi ccupiari. Pirchi, cumu oji, puru tandu sistia, chini i cosi, sapiandu, sempri e ssulu bboni i fhacia. Quandu dà scola alla fhini nisciamu, vinelli vinelli, nù giru i vattimuru ni fhaciamu, cc’era Rrusaru chi fhora n’aspittava, e cchini avia cinqualiri, si jiucava.

Senza sordi cc’eramu tanti guagliuni, e ppì ppignu mintiamu, sordi viacchji o bbuttuni Ppi jjiucari, ogni ccosa si mbintava, nà palla i pezza, dopu dua cauci si squartava, a mazza, u pizzicu i scatuli d’abbattari vacanti, ccù llù mpacchjiu, i fhaciamu girari arriati avanti U mastricchjiu i petra ccù Ili stacci, u strumbulu ccù llà mazza fhatta ccù lli stacci. Tandu, ccù ccosi i nenti, eramu cuntianti e ffilici, oji, sì un tteninu u smartifhoni, i guagliuni unn’anu mancu amici

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sanità

Come muore un ospedale di Filippo Maria Larussa

Mi riferisco al “San Giovanni Paolo II” di Lamezia Terme, al servizio di un comprensorio di 140.000 abitanti. L’annunciata “temporanea…” sospensione dell’attività ambulatoriale (dopo quella di Cardiologia e Medicina Interna ) della SC di Ginecologia ed Ostetricia, con il conseguente prevedibile drastico calo dei parti (già compresso da un tasso di natalità ormai da anni in picchiata) e’ l’inevitabile anticamera della chiusura del punto-nascita (come già accaduto a Soveria Mannelli e Soverato) e quindi allo smantellamento definitivo del nosocomio, ormai spoliato di quasi tutte le principali specialita’. E’ giusto però che l’opinione pubblica sappia che cio’ non e’ dovuto al “destino cinico e baro” ma a precise scelte degli organismi decisori, in primis i Dirigenti Massici prima e Adduce poi, a capo del Tavolo di Monitoraggio del MEF; in secundis,di chi è stato chiamato a ricoprire negli ultimi 10 anni i ruoli di Commissario e sub-commissario per l’attuazione del Piano di rientro, ed infine nella sciatta, se non insulsa burocrazia regionale di settore, occupata solo a blandire il Governatore di turno per soddisfare immeritate ambizioni di carriera. Il tutto nella sostanziale indifferenza, se non correità, di tutte le forze politiche avvicendatesi dal 2009, e che ora, a caccia di voti per le regionali, promettono come al solito interventi risolutori con la stessa credibilità di un marinaio in libera uscita! Proviamo a spiegare con la spietata nitidezza dei dati e degli atti. Il D.C.A 135 del 01/10/19 ha autorizzato, per tutti i presidi ospedalieri dell’ASP di CZ, l’assunzione di 8 medici ed un primario per le branche di Anestesia e Rianimazione, Pediatria, Neonatologia, Radiologia, Neuropsichiatria Infantile. Peccato che, con antecedente delibera 520 del 30/4/19, l’ASP CZ, avesse chiesto, considerati pensionamenti e dotazioni organiche consolidate e validate, solo per l’Ospedale di Lamezia: 3 cardiologi, 2 chirurghi, 2 ginecologi, 2 ortopedici, 2 pneumologi, 2 radiologi, 2 oncologi, 2 psichiatri, 3 neurologi, 7 fisiatri,

1 anatomo-patologo, 3 dirigenti di laboratorio e centro trasusionale e ben 6 medici di Pronto Soccorso, primari esclusi, s’intende. A conti fatti, 39 specialisti solo a Lamezia, evidentemente superflui per Struttura Commissariale e governi di vario colore. E dire che la stessa delibera precisa che tali assunzioni troverebbero amplissima copertura economica, posto che nel 2019 si è registrato un risparmio di spesa 5.268.689,97 rispetto alla spesa potenziale massima imposta dai vincoli di legge! Ma siccome non vi e’ limite al peggio,ecco l’ineffabile sub-commissaria Crocco partorire dopo lunga gestazione il DCA 192 del 20/12/19 che disciplina la metodologia di calcolo del fabbisogno regionale di personale ospedaliero: in pratica detta le linee guida cui attenersi per chiedere, ed ottenere l’autorizzazione all’assunzione di nuovo personale. Bene, confrontando le tabelle di questo Decreto, con la dotazione organica attualmente prevista, ne vien fuori che per tutte le sopracitate specialità, non solo non vi sarebbe alcuna possibilita’ di reclutare le figura sopra citate, ma

l’attuale personale medico risulterebbe addirittura in soprannumero. In verità stessa sorte toccherebbe, mutatis mutandis, agli altri ospedali: spoke ,generali ,di area montana della regione. Salvo poi correre ai ripari quando ci si accorge che la vita può essere appesa al filo della casualità della presenza o assenza di un medico di PS, ad esempio a Soveria, e dover stipulare,come oggi deliberato, convenzioni a gettone con sanitari dell’ASP di VV ad oltre 600 euro a turno! Tutto regolare, per l’amor di Dio, d’altronde lo prevede anche il succitato Decreto che “il fabbisogno di personale… può essere soddisfatto anche attraverso istituti contrattuali diversi da quelli del lavoro subordinato”, ergo, UTILIZZO DI MEDICI MILITARI, RICHIAMO DI PENSIONATI, CONVENZIONI CON COOPERATIVE DI NEOLAUREATI INGAGGIATI A COTTIMO , e tutto ciò che l’italica fantasia puo’ offrire. Così si nega il diritto alla salute costituzionalmente sancito e si decreta la morte di un secolare presidio di sanita pubblica!


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