Lameziaenonsolo Salvatore Moschella marzo 2022

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Austerlitz, la battaglia perfetta:

il mito di Napoleone nacque a Piacenza Austerlitz è ricordata come una delle più brillanti operazioni militari della storia ed evento fondamentale nel romanzo “Guerra e Pace” di Tolstoj. Rappresenta il più grande successo raggiunto da Napoleone nella sua carriera militare e ha assunto una statura quasi mitica nell’epopea napoleonica. Quella del 1805 in Moravia (nella parte orientale della Repubblica Ceca) è definita da Salvatore Moschella – nel titolo del suo libro – la “battaglia perfetta”, che l’autore descrive minuziosamente con un’avvincente narrazione. Il volume (“Austerlitz 1805 – La battaglia perfetta”, edizioni grafichéditore) è stato presentato al PalabancaEventi (in Sala Panini, con Sala Verdi videocollegata) nel corso di un partecipato incontro organizzato dalla Banca di Piacenza in collaborazione con il 2° Reggimento Genio Pontieri (presente il comandante col. Federico Collina e altri militari del Genio). Il dott. Moschella (medaglia di bronzo al Valore dell’Esercito e già Ufficiale superiore medico, oggi scrittore di storia militare e collaboratore di riviste specialistiche) ha illustrato le caratteristiche della sua

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fatica editoriale introdotto dal giornalista Robert Gionelli. «Austerlitz - ha spiegato l’autore della pubblicazione con prefazione dello storico professore Vincenzo Villella - è la battaglia conclusiva della prima straordinaria campagna militare del Bonaparte imperatore. La sfolgorante vittoria fu dovuta non solo ed esclusivamente al suo genio, al suo talento, ma anche alla sua temerarietà e alla sua fortuna, senza tralasciare il suo acume militare e l’importanza che dava al fattore tempo». Una vittoria - è stato evidenziato - ottenuta da 74mila soldati con 140 cannoni contro i 90mila austro-russi con al seguito una dotazione doppia di artiglieria. «La disfatta degli austro-russi - ha proseguito il dott. Moschella - fu totale: lasciarono sul campo 30mila tra morti, feriti, catturati, contro le perdite francesi di 1300 morti e 7mila feriti». L’autore, con la meticolosità del più appassionato ricercatore storico, ci porta nel vivo di quel gelido e infuocato 2 dicembre 1805 (che ridisegnò i confini politici dell’Europa del tempo), quando Napoleone piegò il nemico «non solo grazie alla magnificenza

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della Grande Armée, ma provocando la battaglia utilizzando soluzioni audaci e innovative, tali da far rovesciare i ruoli: convincere gli austro-russi che non erano preda ma cacciatori, così da indurli a prendere l’iniziativa. Un capolavoro assoluto». Moschella - prima di “immergersi” nel tema Austerlitz - aveva fatto un salto indietro nel tempo di una decina d’anni (1796), per rimarcare il fatto che fu con la Guerra delle Alpi e l’azione militare a Piacenza (dove attraversò il Po in soli due giorni, una cosa all’epoca impensabile) e a Lodi (nella battaglia che gli aprì le porte alla conquista di Milano) che Napoleone prese consapevolezza del suo talento. Ed è nel nostro territorio che nacque il concetto di “unità di comando” e si sviluppò, con la conquista della Lombardia, il primo esempio di guerra moderna, vale a dire in assetto prettamente offensivo. Al termine dell’incontro il colonnello Collina ha consegnato al relatore Salvatore Moschella e al moderatore Robert Gionelli una targa del 2° Reggimento Genio Pontieri in ricordo della serata Testata Giornalistica Di tutto un po’ - lamezia e non solo anno 30°- n. 82 - marzo 2022 Iscrizione al Tribunale di Lamezia Terme dal 1993 n. 609/09 Rug. - 4/09 Reg. Stampa Direttore Responsabile: Antonio Perri Edito da: GRAFICHÈditore Perri Lamezia Terme - Via del Progresso, 200 Tel. 0968.21844 - e.mail. perri16@gmail.com Stampa: Michele Domenicano Allestimento: Peppino Serratore Redazione: Giuseppe Perri - Nella Fragale - Antonio Perri Progetto grafico&impaginazione: Grafiché Perri-0968.21844

Le iscrizioni, per i privati sono gratuite; così come sono gratuite le pubblicazioni di novelle, lettere, poesie, foto e quanto altro ci verrà inviato. Lamezia e non solo presso: Grafiché Perri - Via del Progresso, 200 -

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88046 Lamezia Terme (Cz) oppure telefonare al numero 0968/21844. Per qualsiasi richiesta di pubblicazione, anche per telefono, è obbligatorio fornire i propri dati alla redazione, e verranno pubblicati a discrezione del richiedente il servizio. Le novelle o le poesie vanno presentate in cartelle dattiloscritte, non eccessivamente lunghe. Gli operatori commerciali o coloro che desiderano la pubblicità sulle pagine di questo giornale possono telefonare allo 0968.21844 per informazioni dettagliate. La direzione si riserva, a proprio insindacabile giudizio, il diritto di rifiutare di pubblicare le inserzioni o di modificarle, senza alterarne il messaggio, qualora dovessero ritenerle lesive per la società. La direzione si dichiara non responsabile delle conseguenze derivanti dalle inserzioni pubblicate e dichiara invece responsabili gli inserzionisti stessi che dovranno rifondere i danni eventualmente causati per violazione di diritti, dichiarazioni malevoli o altro. Il materiale inviato non verrà restituito.

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La nosta storia

Santa Maria delle Grazie “La Veterana”

di Matteo Scalise

Sita nella parte più alta del nucleo più antico della città di Nicastro, il quartiere San Teodoro, la rettoria di Santa Maria delle Grazie, ma dal popolo universalmente appellata da secoli A vitrana (la veterana, cioè la più antica) ancora oggi è storicamente la chiesa cattolica di più antica edificazione e fruizione sita in Nicastro. La documentazione storica risalente alla sue origini è purtroppo scarsa ma si tende a stabilirne la fondazione alla prima metà del XIII secolo (1200) quando, ormai cresciuta la popolazione attorno al castello Normanno Svevo e non più bastevole per capienza alle funzioni liturgiche e per le sepolture la cappella sita all’interno del maniero, dedicata a San Nicola di Casalinovo, la diocesi di Nicastro autorizzò l’edificazione di un nuovo luogo sacro, dedicandola alla Santa Vergine Maria, forse in un sito dove vi era stato, secoli prima, un romitorio basiliano, primo luogo di culto della nuova area urbana voluta dai bizantini (Neokastron). Esiste anche una leggenda attorno alla sua edificazione e cioè che la figlia dell’imperatore Federico II, dimorante un periodo di permanenza nel castello nicastrese, avesse sognato che la Vergine le ordinava di dedicarle una chiesa. Questa chiesa resterà l’unica del rione fino a quando, dal XV –XVI secolo sorsero altre chiese (San Marco, del Santissimo Salvatore) oggi tutte scomparse tranne la parrocchiale dedicata a San Teodoro Martire, di cui divenne dipendente pastoralmente. La Veterana però è nota nell’Hinterland Lametino da secoli per la tradizione, la domenica di Pasqua, di raggiungerla a piedi onde lucrare l’indulgenza plenaria valevole 100 giorni dopo aver toccato ciò che rimane della bolla papale di promulgazione della indulgenza, cioè una copia dei filamenti di ferro terminanti appunto con delle cucchiarelle che altro non sono che dei piccoli recipienti ove veniva versata la cera rossa in cui si imprimevano i sigilli papali, appesi al lato sinistro della porta d’ingresso alla chiesa. Ricordo però che l’indulgenza si ottiene concretamente soltanto dopo aver soddisfatto le condizioni stabilite della chiesa che sono essersi confessato, fatto la comunione e aver pregato un Pater, Ave e Gloria per le intenzioni del Sommo Pontefice. Su questa indulgenza gli storici locali da secoli dibattono se sia stata concessa o da papa Callisto II (1119-1124), che pernottò nel castello di Nicastro per 15 giorni nel 1121, sceso in Calabria sia per consacrare la Cattedrale di Catanzaro e forse anche la prima Cattedrale di Nicastro (atterrata dal terremoto del 1638) e l’attuale Santuario di Dipodi e soprattutto per mettere pace tra i germani normanni Guglielmo e Ruggero d’Altavilla, tesi però oggi insostenibile da credere poiché è certa l’edificazione della chiesa attuale nel XIII secolo, oppure, la tesi più storicamente certa è che l’indulgenza sia stata concessa da papa Paolo III (1534 -1549) nel 1542, quando amministratore apostolico di Nicastro era il cardinale Giacomo Savelli (1540 – 1554), cugino della madre del pontefice e un anno dopo l’insediamento temporaneo dei Padri Cappuccini (1541 – 1545) nel romitorio sito vicino la chiesa prima che fondassero l’attuale Convento. Della bolla originaria oggi si conservano pochi frammenti ma da una trascrizione fatta 227 anni dopo (1769) dal Visitatore Apostolico monsignor Paolino Pace, inviato da Roma per controllare l’operato non brillante del vescovo monsignor Achille Puglia (1737 -1773) scopriamo sia che fu effettivamente papa Paolo III a concedere l’indulgenza, forse su richiesta dal nipote Savelli, e sia che l’indulgenza non era stata concessa per il giorno di Pasqua ma per le seguenti 5 solennità liturgiche: Pentecoste (50 giorni dopo Pasqua), Visita della Beta Vergine alla cugina Elisabetta (31 maggio), purificazione della Santa Vergine (Candelora) 2 febbraio, Santa Maria della Neve ( 5 agosto) e santo Stefano (26 dicembre). Il popolo credette invece che fosse stata concessa nel Lamezia e non solo

giorno di Pasqua perché nel dialetto locale la Pentecoste è detta ancora oggi “Pascua Jiurita” (Pasqua fiorita). Danneggiata dai terremoti del 1638 e 1783, fu soggetta a restauro tra il 1961 e il 1963. Dipendente dal XV secolo dalla vicina chiesa di San Teodoro, quest’ultima retta per secoli dalla prima dignità del Capitolo, l’Arcidiacono, fu concretamente gestita però sia dalla Confraternita “della Madonna delle Grazie” attiva dal XVII al principio del XVIII secolo, e soprattutto, fino agli anni 50’ del secolo scorso da un romito, un uomo che vivendo da solo custodiva la chiesa e viveva della carità dei fedeli. Ultimo fu un certo Angelo da Feroleto Antico, detto Privitissi. Da ricordare anche altri due fatti importanti accaduti alla quasi millenaria chiesa della Veterana: 1) nel 1811, durante il Decennio francese, per pochi mesi fu trasformata in carcere ove relegare i briganti anti – napoleonici; dai documenti d’epoca pare siano state recluse anche alcune donne con l’accusa di meretricio;2) come già detto nel 1961, dichiarata pericolante, fu soggetta a restauro conservativo. L’anno prima, nel 1960 però successe che fu trafugato da ignoti mai scoperti il preziosissimo dipinto del pittore Francesco Colelli, “La deposizione della Croce”, forse perché il vescovo del tempo, monsignor Vincenzo Maria Iacono (1955 – 1961) per salvarlo da rovina certa aveva pensato di esporlo permanentemente o in Episcopio o in Cattedrale, con grave disappunto della popolazione di San Teodoro che, al massimo, avrebbero preferito, come suggerito dal parroco monsignor Pietro Bonacci (1939 – 1992), di essere custodito invece nella chiesa di San Teodoro. Non rivenuto, nel 1968 il pittore Giorgio Pinna ne fece una pregevole copia. Dal 2005, per volontà dell’allora vescovo di Lamezia Terme monsignor Luigi Antonio Cantafora (2004- 2019) la cura pastorale della Veterana è affidata alle missionarie “Apostole della Parola”. Chiusa durante l’anno, tranne se si fa richiesta di visita per i turisti di passaggio, il giorno di Pasqua, in concomitanza con la pratica delle cucchiarelle, si celebra una Santa Messa. Attuale rettore della chiesa della Veterana è don Giuseppe Critelli, che è anche il parroco della chiesa di San Teodoro Martire.

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collana calliope

Dall’Impressionismo alla Street Art La rivoluzione nell’arte (seconda parte) L’arte del primo Novecento è stata caratterizzata dal fenomeno delle avanguardie, che ha riguardato le arti e la letteratura prima del secondo conflitto mondiale. L’ideologia delle avanguardie scaturisce dalla concezione romantica della storia: per i romantici la storia era un processo di cambiamenti in cui ogni epoca contiene gli elementi che diventeranno dominanti nell’epoca successiva, determinando il progresso della società, delle istituzioni politiche, delle forme dell’espressione artistica e letteraria. Compito delle avanguardie era indicare alle masse la strada del cambiamento. Il Futurismo italiano, per esempio, inneggiava alla società della tecnica, della velocità e della guerra. Il cubismo, il dadaismo, l’espressionismo, il surrealismo europei si muovevano anch’essi sul doppio binario della novità ideologica e dell’innovazione tecnica nell’esecuzione del prodotto artistico. Gli artisti iniziarono allora a distaccarsi dal pubblico e dalla mentalità borghesi e dichiararono apertamente guerra all’immediata comprensibilità dell’opera d’arte. Sulla scia del post-impressionismo (Van Gogh, Picasso) essi ricercarono forme espressive sempre più lontane dalla riproduzione immediata del reale per rappresentare il modo visionario ed elitario in cui l’artista guardava la realtà. Fino a giungere all’astrattismo pittorico, in cui la rappresentazione della realtà, che è caotica e complessa, trovava nelle forme pure della geometria l’ordine e la razionalità. Già l’esistenzialismo e la filosofia di Heidegger tra le due guerre avevano messo in moto meccanismi di revisione del pensiero filosofico, della religiosità tradizionale, delle teorie economiche e delle forme di vita sociale. Ma fu la seconda guerra mondiale che provocò la seconda grande svolta nella vita dei popoli occidentali e nella visione culturale in genere: nel dopoguerra la crescita della disponibilità di beni prodotti e l’integrazione delle economie occidentali favorirono un miglioramento delle condizioni di vita delle masse popolari mai visto in passato, e una attenzione ormai necessaria per la formazione culturale dei cittadini, anche delle donne, ormai indispensabili per rispondere alle richieste delle imprese, e determinanti per incrementare l’assistenza sanitaria e previdenziale della popolazione. Il benessere diffuso ebbe come conseguenza il fenomeno definito consumismo. Il nuovo modello di società di massa dette voce alle donne nella richiesta di parità con gli uomini, e a quella parte ormai numerosa di cittadini che ritenevano necessari i mutamenti nella legislazione sul diritto di famiglia, sul diritto al divorzio e all’aborto. I movimenti studenteschi di rivolta alla fine degli anni sessanta esprimevano questa spinta verso il cambiamento, anche se a volte frange estremistiche intravidero in questa esigenza di crescita sociale uno strumento per una restaurazione della destra fascista, o per la rivoluzione marxista nella variante sovietica o maoista. E’ in tale contesto che nella parte più avanzata della società statunitense matura la contestazione all’omologazione dei comportamenti e dei gusti indotti dalla pubblicità, dalla cultura consumistipag. 6

di Italo Leone ca promossa dal cinema, dalla televisione e dalla stampa. La diffusione a livello di massa della fruizione delle opere d’arte attraverso la fotografia, il cinema, la televisione, e oggi soprattutto Internet, rendevano tecnicamente possibile la loro infinita riproducibilità al di fuori dei contesti per cui quelle opere erano state pensate e realizzate, modificandone la percezione e in definitiva banalizzandole (W. Benjamin). La pop-art riciclava le immagini della cultura americana di massa, evidenziandone proprio gli aspetti nichilistici, utilizzando tecniche già sperimentate dalle avanguardie come il collage, l’assemblaggio, la scelta di materiali di riciclo. Il messaggio della pop art non veicola ideali alti, ma è rivolto alla gente comune. Le opere di Andy Warhol avevano come soggetto bottiglie di Coca Cola, barattoli di conserva, eroi dei fumetti, i celebri ritratti in serie di Marilyn Monroe, icone di un mondo banale e soprattutto consumabile ed effimero: tutte cose considerate nella loro funzione di “usa e getta”. Artista tra i più originali fu Mimmo Rotella di Catanzaro. L’arte non tendeva più a esprimere l’ideale o a riprodurre il reale, era ormai arte di contestazione che rifiutava la visione ottimistica e superficiale della società occidentale, immersa nel sogno di un progresso indefinito e spensierato. Nella medesima direzione procede la street art, la cui tecnica di esecuzione, anche grazie alle bombolette di colore, è alla portata di tutti. Diamante, in Calabria, è uno dei tanti borghi antichi, dove gli artisti di strada hanno l’occasione di manifestare la propria abilità ed esprimere liberamente il proprio messaggio.

Diamante Sulla facciata di una casa, in uno stretto vicolo di fronte ad una chiesa del centro storico, l’artista ci propone una scena di vita paesana in cui i personaggi rappresentati davanti alla loro casa guardano il passante con la stessa curiosità del turista che oggi li guarda, aggirandosi nei vicoli del borgo. La vita delle persone rappresentate all’interno della casa si intreccia con la vita delle persone che camminano sulla strada in un rapporto fecondo di scambio semiotico.

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Se la street art recupera in genere la fruibilità di spazi urbani in degrado o in abbandono, c’è una variante di street art che veicola messaggi più complessi, che mirano a rappresentare il mondo come si vorrebbe che fosse, o lo rappresentano sarcasticamente come è nelle sue contraddizioni. Il tessuto urbanistico della città diventa così occasione di riflessione. Il maggiore rappresentante di questa tendenza è Banksy, un artista di strada britannico che nasconde la propria identità e che esegue spesso i suoi lavori con il favore della notte.

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Nelle tre immagini riportate, Banksy evidenzia la contraddizione tra il messaggio ottimistico proposto dai media nelle società occidentali, follow your dreams (segui i tuoi sogni), e la realtà dell’uomo comune, il dimesso lavoratore che sulla scritta incolla il cartello imposto dall’autorità: annullato. Quest’opera d’arte, apparsa in un quartiere molto povero di Chinatown, Boston, nel Massachusetts, si ricollega alle due immagini in cui i protagonisti, rappresentanti della cultura dominante, sono una scimmia e un topo visibilmente soddisfatti dei sogni proposti dalla società del consumo. L’umanità riappare invece nella denuncia delle condizioni di ghettizzazione di quella parte di popolazione palestinese, che vive a ridosso del muro che separa la Cisgiordania dallo Stato di Israele. Un muro che, a differenza della selva oscura di Dante, della siepe del Leopardi o della muraglia di Montale, non è metafora dei limiti della condizione umana, ma è il muro reale di una prigione a cielo aperto. E’ significativo che siano i bambini, nella loro ingenua tendenza al sogno, a essere protagonisti delle opere di Banksy apparse sulla parte palestinese del muro di divisione. Bambini che sognano di poter guardare ciò che c’è al di là del muro, sollevandosi in volo con dei palloncini, o che lo sognano attraverso uno squarcio immaginario sulla parete del muro. Banksy va oltre la street art per rappresentare la società di oggi con le sue contraddizioni e i suoi sogni.

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blaterando

Fabia Tonazzi di Anna Maria Esposito

giornalista e blogger pria nicchia di appartenenza è consigliabile ma non vincolante se è il cuore a parlare quando si scrive Ad un emergente cosa consiglieresti prima di scrivere un libro? Di documentarsi sul mondo editoriale e di capire se ci si vuole rivolgere ad una casa editrice o si vuol intraprendere un percorso diverso

“L’amore è in ogni atomo di aria che respiriamo, in ogni cellula, in ogni gesto che rivolgiamo verso di noi e verso gli altri. Una vita senza amore non è degna di essere vissuta.” Fabia Tonazzi, giornalista e blogger, collabora con diverse testate online ed etichette discografiche, occupandosi di cultura e spettacolo. Da ottobre 2020 gestisce il sito “Passione Vera”, dove intervista artisti emergenti e non. Laureata in “Scienze dell’informazione”, si dedica alla comunicazione e al mondo dei Social Media. Cosa significa per te essere Social? Essere social per me significa essere presente sui social network in modo attivo Chi è il blogger? Lo siamo un po’ tutti? Si decisamente siamo tutti un po’ blogger! Il blogger è colui che riempie un contenitore virtuale quindi anche un semplice messaggio in chat o su WhatsApp fa di te un miniblogger Perché hai deciso di creare il tuo sito “ Passione Vera? Soprattutto con quanta passione lo gestisci? Passione Vera nasce con l’intenzione di valorizzare quanti vogliano esprimersi attraverso l’arte, uno stile diretto, semplice, confidenziale è quello che uso proprio perché è l’artista intesa come persona che è messa al centro dell’intervista. Siamo persone prima di tutto e di conseguenza è la storia di ognuno di noi a rendere significativo ciò che realizziamo. Il mio sito è il mio coach, non c’è nulla di più bello del poter dare spazio e voce a chi cerca di il modo pag. 8

di essere visibile raccontando la sua storia. Tu ami leggere. Possiamo definire la copertina il primo strumento di comunicazione di un libro? La copertina attira tanto quanto il lettore è attratto per colore, forma o genere nella sua quotidianità. Mai generalizzare, mai dare per scontato che un libro colorato possa attirare più o meno di un libro all’apparenza “stropicciato” o vecchio. Ogni cosa ci risuona familiare in base a quanto c’è di noi in ciò che vediamo, quindi non si può arrivare a tutti, arriveremo a chi è in linea con noi in quel momento, sia che ci si dedichi una vita alla “copertina” sia “un minuto”. Indiscutibilmente è uno strumento di comunicazione che rivela l’immagine che l’autore ha di sé e della sua opera. Dipende poi se scriviamo un libro per così dire tecnico, un manuale o un libro di narrativa, nel primo caso le cose cambiano. Come promuovere un libro? Non esiste il modo per promuoverlo esistono i modi per promuoverlo! Ci vuole una strategia alla base ma la tecnica se supportata alla volontà di farsi conoscere rende tutto più semplice. Il modo più veloce è usare i social, il modo più convenzionale è organizzare incontri di lettura o presentazioni in libreria ma alla base di tutto ci deve essere la capacità dell’autore di capire cosa vuole raggiungere: spesso la vendita del libro non va sempre di pari passo con “popolarità”. La domanda da farsi alla base è: voglio vendere un prodotto o voglio metterci la faccia in ciò che ho scritto/promuovo? Quanto sono convinto del mio lavoro? Se si gode di una buona autostima qualsiasi modo sarà vincente. In linea di massima una buona analisi del mercato e della proGrafichÉditore di A. Perri - & 0968.21844

Quale il personaggio fantastico in cui ti rivedi e perché? La favola del brutto anatroccolo, gli raccontavano tutti di essere quello sbagliato e semplicemente cambiando ambiente, ha scoperto di essere un cigno. Chi di noi non si è mai sentito così almeno una volta nella vita? Se dovessi paragonarti ad un frutto, quale sceglieresti? Mi piacciono i mirtilli e i lamponi, tanto amabili con i dolci se maturi ma altrettanto agri e dal sapore acidulo se colti troppo presto. Io sono così, devi sapermi cogliere al momento giusto, versatile ma anche decisa nelle mie scelte! Quale il tuo motto? “La passione nasce dal cuore di chi sa leggere” è un motto che ho creato io. Nasce dalla consapevolezza che non ci si può dedicare veramente a qualcosa se non si è capaci di leggere fino in fondo il cuore di chi ci si trova difronte, e affinché questo accada l’unica strada è seguire la propria indole, natura senza lasciarsi condizionare troppo dagli altri. Hai mai pensato a scrivere un libro? Tante volte, e altrettante mi sono fermata perché mi sono ripromessa di scrivere sempre e solo con passione e mai per vanità. Parto dal presupposto che gli autori sono tanti ma solo chi sa trasmettere un messaggio forte è destinato a restare nel cuore del lettore. Una bella notizia c’è… A marzo verrà pubblicato un mio racconto intitolato “Tutto in un abbraccio” in una raccolta di storie per la Giraldi editore. Grazie Fabia e come diceva Cesare Pavese: “Finché si avranno passioni non si cesserà di scoprire il mondo” Contatti fabiatonazzi@gmail.com; www.passionevera.it Lamezia e non solo


Visita della statua peregrina della Medaglia Miracolosa, In un’epoca che appare buia e priva di speranza, con la sofferenza patita dalle innumerevoli morti contate per la diffusione del Virus letale, con i venti di Guerra, che uomini potenti e privi di Luce dell’intelletto, fanno soffiare sulla nostra amata Europa, si materializza la figura della Madonna della misericordia nella atavica sofferenza della mente umana. Il 4 marzo per volere del Cappellano, don Giuseppe Ferrara, e di don Francesco Farina, direttore dell’Ufficio di Pastorale della Salute, in occasione della visita della statua peregrina della Medaglia Miracolosa, si è

tenuta una Messa in soccorso dei degenti della Psichiatria. Come direttore dell’Unità operativa, sono stato onorato e orgoglioso di questa iniziativa e felice che la Luce della Madonna, si sia rivolta al complesso lavoro quotidiano degli operatori del Servizio psichiatrico diagnosi e cura (Spdc), che con sempre più impegno lottano per alleviare le sofferenze dei degenti psichiatrici. La messa si è svolta nel Giardino del reparto, definito “Giardino dei Pensieri Ritrovati” che, nell’idea degli operatori dell’Spdc, ha dalla sua inaugurazione avvenuta il 21 dicembre del 2018, rappresentato il ponte della sofferenza verso il benessere. Questo luogo, con una funzione di cura per il paziente che perde la ragione e altera le sue emozioni, ha oggi avuto, con la visita

della Madonna, una benedizione che potrà in futuro potenziare la saggezza di una cura sempre più efficace e soprattutto dare forza per ridurre i pregiudizi e lo “Stigma” che da sempre sottende il malato psichiatrico. Dr Michele Gabriele Rossi Dir SPDC Polt

Satirellando

Adoro il mese di marzo. Amo i nati di marzo. Sono figlia di un marzolino, del 13… Ogni anno aspetto questo mese: il più luminoso e limpido dell’anno. Imprevedibile, a volte caldo, a volte freddo oltre misura. Quando studiavo a Firenze, ricordo una terribile, bellissima, nevicata il 9 marzo…

Insomma, come omaggio al mio papà (lassù) e a tutti i meravigliosi figli di marzo (quaggiù), ai Lucio (Dalla e Battisti) della canzone italiana, ecco qualche mia rima… Non è proprio satira, ma il tutto è det- di Maria Palazzo tato da amore e simpatia… Buoni versi.

MARZO Sono figlia d’un vero marzolino: a volte pigra, a volte un po’ fuocherellino! Faccio le cose, secondo come gira: a volte pioggia, a volte vento tira. Quello che so è che non mi arrendo, neppure se il mio destino è orrendo! Nella mia vita, come per papà, amo una certa imprevedibilità: quella delle cose superbelle, in cui percepisci sempre, a pelle, Lamezia e non solo

tutto ciò che davvero ti sta a cuore e ne benefici in tutte le ore. Il sogno viene, la realtà passa: di ogni cosa si fa man bassa. Con ciò voglio dir che, vivere, mi piace: c’è tempo sempre, per il “qui giace”! Perciò, con marzo pazzerello, non solo prendo il famoso ombrello soprattutto anche se c’è il sole, ma cerco mammole, rose e viole,

perché siam nel mese dei primi fiori e dall’inverno, ormai siamo fuori, anche se sopportiamo quella brutta coda che, di freddo, fa tremar e… inchioda! Ma, poi, anche quando ogni cosa sembra nera, in fin dei conti, è marzo, che porta primavera!

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parlando di..

“Tradizioni e tipicità culinarie di una terra baciata dagli dei”. Mare splendido, bellezze naturali, tanta cultura, tradizioni affascinanti e... una cucina da leccarsi i baffi! Chiunque sia stato in questa regione non può non essere stato colpito dalla bontà dei suoi piatti tipici. Ma perché così buona questa terra di Calabria...? Dalle coste alle montagne della Sila e d'Aspromonte, un mix di tradizioni che rendono la cucina tipica calabrese unica e particolarmente apprezzata, da chi ci abita e da chi ha la fortuna di venire qui in vacanza. Quello che apprezziamo ma soprattutto gustiamo oggi è il risultato di secoli di sapori e ricette segrete tramandate da generazioni, ma per fortuna ancora oggi a portata di... forchetta! Una cucina povera dalle mille risorse, fatta di ricette e usanze ispirate a Greci, Latini, Arabi, Normanni, Spagnoli. La nostra arma segreta? Ingredienti e prodotti d'eccezione come la cipolla di Tropea, addirittura in versione gelato, la nduja di Spilinga,il Caciocavallo silano, il Cedro di Diamante, il Bergamotto di Gioia Tauro, lo Stocco di Mammola. Se vogliamo iniziare come si deve,non si può non citare la regina dei primi la "pasta chjina",o i "fileja" con spada e melanzane. E perché non abbinare pasta o pane a zuppe di verdure selvatiche come la "licurda", una minestra a base di patate, cipolle, verdure varie e pane raffermo. Non dimentichiamo sua maestà il maiale, di cui nulla si butta e simbolo della tradizione culinaria locale,in particolare il maiale nero di Calabria. Non meno importante la carne di agnello e capretto dei quali anche in questo caso si consuma tutto, con deliziosi piatti a pag. 10

di Antonella Caruso

base di interiora come il "morzeddu" tipico dell'area catanzarese. Dalla carne al pesce spada con i suoi involtini o grigliato servito con il "sarmoriglio", un condimento saporito a base di olio, aceto e limone. Non si può non annoverare il Panino al Pesce Spada, una specialità composta da pane locale, spada grigliato, sarmoriglio e insalatina croccante, una goduria per il palato. Per una tavola che possa considerarsi Doc non possono mancare i formaggi. Latte di mucca, pecora e capra lavorati alla maniera calabrese danno vita ad eccellenze come il sopracitato Caciocavallo Silano Dop;la scamorza; la provola e il tipico "butirro" un caciocavallo con l'anima di burro. Gli ortaggi tipici della cucina calabrese sono senza dubbio le melanzane che danno vita ad una specialità alla massima potenza : la parmigiana. Le "patate mpacchiuse" tipiche del cosentino e le frittelle di fiori di zucca. Asparagi selvatici, funghi locali a profusione, conservati e cucinati in tutte le salse. Pomodori essiccati al sole e poi conservati sott'olio. Come non terminare un buon pranzo o una cena con il rinomato Tartufo di Pizzo o una Clementina di Calabria IGP o con dei prelibati fichi secchi ricoperti di cioccolato o lavorati con spezie come mandorle e noci ottenendo così le nostre amate "crocette",tipiche del periodo natalizio. Per concludere in bellezza non ci resta che inebriarci con un aromatico liquore al bergamotto, cedro o liquirizia. Per i palati più forti consiglio una buona grappa al finocchietto selvatico o meglio ancora... al peperoncino!

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il salotto di piera

Le nostre radici di Piera Messinese

belle

Gli anziani hanno fame di affetto. Lo comprendi subito perché ti guardano con gli occhi dolci e con una tenerezza disarmante, perché ti tendono le braccia per cercare un contatto. Quando li accogli in un abbraccio, senti che ti stringono, fino ad esaurire tutte le loro energie. In quel momento si sentono sicuri, protetti, anche forti, perché quando ci si accorge di essere amati, si avverte una pienezza dentro che semina coraggio. Non conoscono la parsimonia. Ci sono due cose da cui vorrebbero fuggire per sempre: il silenzio e la solitudine. Non sono abili a sintetizzare, infatti i loro discorsi sono meravigliosamente prolissi, stracolmi di voli pindarici, quasi sempre una miscellanea disordinata di presente e passato, un andirivieni di ricordi, un contenitore inesauribile di saggezza. Quando li osservi, ti prendono per mano, ti portano nelle loro rughe e ti lasciano navigare nelle camere segrete per curiosare. E tu scopri un’infinità di cose preziose che non conoscevi affatto. Mentre li ascolti e trattieni la mano sulle loro guance, sai bene che con quel gesto li hai conquistati nel cuore. Allora, ti rendi anche conto, che non vorresti mai allontanarti, che chissà quante cose vorresti e potresti dire. Per pochi istanti ti trovi fuori da ogni dimensione spaziale e temporale. E ti senti felice, perché hai capito che, proprio in quel preciso istante, stai vivendo il tuo tempo migliore. Lamezia e non solo

Le cose Quando ero piccola, avevo difficoltà ad accettare che potessero finire tutte le cose belle. Era così che chiamavo quelle situazioni che mi procuravano sensazioni gradevoli, per cui io avvertivo una serenità che a volte sfociava in manifestazioni sfrenate di contentezza. Si trattava di momenti che mi facevano stare bene con me stessa e con gli altri. Friedrich Nietzsche diceva che la vita è fatta di rarissimi momenti di grande intensità e di innumerevoli intervalli. Ecco, io avrei desiderato che quei rarissimi e speciali momenti potessero accadere con maggiore frequenza e che noi potessimo ancorarci ad essi per scongiurare un loro abbandono. Detestavo quelle soste, perché le consideravo sterili, inutili e, spesso, finanche esageratamente troppo lunghe. Avrei voluto evitarle e, invece, spesso, mi ritrovavo costretta ad affrontarle. Conservo ancora un ricordo nitido del tempo che spendevo a riflettere se potesse esserci un sistema affinché gli attimi di felicità, non si lasciassero rapire dalla corsa inarrestabile del tempo, non si consumassero nel loro inevitabile destino. Naturalmente, l'età porta sempre buoni consigli. Per cui, andando in avanti con gli anni, ho preso sempre più consapevolezza che siamo fatti per sopravvivere a momenti unici e irripetibili che, nonostante il dispiego di tutte le nostre forze, non siamo in grado di prolungare all'infinito e neppure di riproporre in tempi successivi, perché le situazioni non si presentano mai identiche a se stesse. E così, ancor oggi, quando mi trovo stretta nel vortice di un'emozione particolarmente intensa, soprattutto se inattesa, cerco di attraversarla con piena partecipazione, nella certezza, oramai consolidata, che presto non sarà mai più. Tutte le situazioni vissute le portiamo sempre dentro di noi come un serbatoio di energia, come piccole isole di spensieratezza, come reminiscenze frammentarie, che non sono in grado di ricostruire un'idea concreta del tempo trascorso. Ma, nonostante tutto, troveremo sempre il modo di ricongiungerci all'eco di un suono lontano, odoroso di quelle piacevoli fragranze che non potranno più deliziare le nostre narici. Ergo, ci toccherà elemosinare soltanto brandelli di emozioni perdute.

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Sport

Il fascino del numero 9 di Vincenzo De Sensi La scena si ripete con il consueto rituale. Un calciatore, braccia al cielo, corre verso la folla inseguito dai compagni che vogliono festeggiarlo. È l’abbraccio ideale tra il calciatore e la folla dopo un gol segnato. La folla esulta, il calciatore, con la sua gioia, conferma, semmai ce ne fosse bisogno, che nel calcio la cosa più importante è far gol. Sino a poco tempo fa la gioia del calciatore cosi espressa poteva costargli un’ammonizione. L’arbitro infatti spesso ammoniva il giocatore che, dopo aver segnato, lasciava il terreno di gioco e si avvicinava alle tribune. Forse gli eccessi non sono gradevoli e forse è giusto che si cercasse di evitare scene prolungate di giubilo, a volte scomposto. Ed infatti si deve fare una considerazione di fondo. Si può cioè immaginare un calciatore che, dopo aver segnato un gol, torni al suo posto come se niente fosse accaduto, limitandosi ad un appena accennato gesto di soddisfazione? Per quanto distaccato un giocatore si sforzi di essere, il gol inevitabilmente e fatalmente lo esalta. E l’esaltazione comporta manifestazioni di giubilo che sono deprecabili solo quando sono offensive nei riguardi dell’avversario. Nell’eccitazione, aggredisce verbalmente e mortifica quanti hanno subito la rete. Ma il calciatore che, braccia alzate, corre verso la folla, non è affatto biasimevole o scomposto. Considerando però che ci occupiamo di centravanti, poniamoci alcune domande. Se, sia ancora valido il principio che individua nel centravanti il cannoniere »per antonomasia. Ed ancora se l’evoluzione del gioco del calcio abbia davvero snaturato le funzioni del centravanti non più «uo-mo-gol» ma «uno degli undici », con compiti che a volte sono ben lungi da quelli specifici di far gol. Noi crediamo che l’indiscussa evoluzione del calcio, la cosiddetta sua modernizzazione o, se si preferisce, il tentativo di ridimensionare i ruoli dei singoli giocatori, per lasciar posto al vagheggiato calciatore universale », non hanno intaccato la figura tradizionale del centravanti ridimensionando il fascino che il numero 9 conserva e che ha radici profonde al punto da essere ormai parte integrante del calcio. E’ vero, oggi si parla in generale di «punte»o di «centravanti a tutto campo», ma ciò nonostante il cosiddetto fascino del numero 9 resiste e che resisterà pure in futuro, anche perché sono i numeri 9 »che hanno fatto in gran parte la storia del« gioco più bello del mondo ». Ma il fascino del centravanti è sempre valido, conservando nel calcio una pecularietà che pochi ruoli hanno. Quello del portiere di sicuro, poi del libero, e in parte del centrocampista, molto meno del difensore soggetto, più di altri, ad una trasformazione che in verità ricalca esperimenti effettuati con successo tanti anni fa. Il calcio moderno non ha potuto eliminare i ruoli tradizionali, tra i quali quello del centravanti è uno dei più importanti. E non si tratta solo di fascino romantico! Quando si parla di centravanti va accettata la realtà che il centravanti mitico di una volta non c’è più, o che comunque la sua leggendaria figura ha subito notevoli trasformazioni. È evidente quanto il tentativo da parte degli allenatori di creare il «giocare universale» abbia contribuito a un tale ridimensionamento, ma ci sono stati altri motivi, a cominciare da un esapag. 12

sperato tatticismo e dalla spesso discutibile mania di mescolare i numeri sulle maglie. Ma chi erano questi mitici centravanti tradizionali? Niente di trascendentale e tanto meno nessuna ricerca di un protagonismo fine a se stesso. Il centravanti era un giocatore che per doti fisiche, per capacità tecniche, per attitudine e per caratteristiche naturali, finiva per diventare il «condottiero» dell’attacco composto di cinque giocatori, un centravanti appunto, due ali e due mezzeali che solo in seguito sono diventati più genericamente centrocampisti. Al centravanti si chiedeva molto Il centravanti, come indica lo stesso termine, era ed è il giocatore «faro» dell’azione offensiva. Sino a quando il sistema di gioco praticato era il metodo, sul centravanti si portava il centromediano metodista, il numero 5. Certo è che le qualità tecniche dei centravanti entrati nella leggenda erano tali da far supporre che il loro mito avrebbe resistito anche ad una marcatura stretta e spietata, tanto più che una marcatura del genere può impedire all’attaccante di giocare per ottanta minuti ma raramente ne annulla completamente il talento che esplode spesso a sprazzi ma sufficientemente per determinare un risultato. Il centravanti di una volta rimaneva preferibilmente nell’area di rigore avversaria, dialogava con i compagni ma conservando sempre una posizione che gli permettesse di far gol. La fama di condottiero che il centravanti si è guadagnata era frutto proprio di questa sua capacità di trasformare in gol il lavoro dei compagni. Oggi è diventato quasi norma un centravanti che non segna e che anzi con la sua posizione favorisce i gol dei compagni, ma una volta era prima di tutto dal centravanti che ci si aspettavano le reti, era lui che doveva guidare la squadra alla vittoria. Centravanti e gol erano legati da un filo pressoché indissolubile e che raramente si spezzava. Il calcio, a quel tempo genuino e sicuramente più sport e meno mercenarismo e fenomeno da baraccone, chiedeva al centravanti l’ebbrezza di mandare la palla in rete senza la quale una partita di calcio aveva poco senso. Ripetere che una gara perfetta dovrebbe finire sullo zero a zero significa fare della pura teoria a scapito della realtà. Il gol quando manca toglie in fatti all’incontro la sua identità, punisce e penalizza lo spettatore, priva lo spettacolo del suo traguardo più ambito.

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Lamezia e non solo


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