Nadia donato febb 2017

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Lamezia e non solo

Editore: Grafichè di A. Perri

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Spettacolo

El Tango

quel pensiero triste che si balla

Venerdì 3 febbraio 2017. Sul palcoscenico del Teatro Grandinetti di Lamezia Terme, nell’ambito della Stagione di Teatro organizzata da AMA Calabria, in scena Tango Nuevo interpretato dalla Roberto Herrera Tango Company di Roberto Herrera le cui doti di coreografo e ballerino sono universalmente riconosciuti. “Il tango è un pensiero triste che si balla”, così lo definiva Enrique Santos Discepolo, in arte Discepolìn, autore di tanghi. Il tango è un ballo d’amore e di morte, di passione e di nostalgia senza ritorno. Esso porta in sé la violenza dell’eros, il rischio, l’antagonismo, lo schianto. Se il valzer vola verso una lontananza infinita, il tango risuona come l’ultima volta, con una sua allegria disperata. La malinconia suscitata dal tango ha la brevità di un lampo di fosforo, un istante… quando il piacere dell’eros si fa intollerabile. Il valzer fa turbinare le immagini, il tango è un gesto fulmineo nel

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nulla. La sua tristezza non è confortata. Il tango non conosce lieto fine. È così che la Roberto Herrera Tango Company accompagna il pubblico in questo cerimoniale avvolgente e ipnotico che dai bordelli di Buenos Aires passa ai ricordi antichi dei gauchos del Rio de La Plata abilissimi a maneggiare le bolas, alla cultura meticcia degli emigranti con le tipiche danze folckloriche alla milonga con echi di habanera cubana e condombé africano fino alle sonorità del tango nuevo. 5 coppie di ballerini con Laura Legazcue e Roberto Herrera primi ballerini, guest Estanislao Herrera, musiche originali argentine di Osvaldo Pugliese, Julio De Caro, Astor Piazzolla, Gotan Project, Ariel Rodriguez eseguite da un’orchestra composta da pianoforte, violino, bandoneon e basso e la voce potente e calda di Marili Machado alla chitarra interprete, tra le altre, di una deliziosa “Verdulera” accompagnata dal

bandoneon del M° Simone Marini. In questo viaggio sonoro e visivo dove tutto è velocità e lentezza, precisione e invenzione, torsione di vertebre e avvitamenti di gambe, passeggiate, corse e scivolate, baci negati e avvinghiamenti, silenzio e complicità tra un corte e una quembrada, un passo e una media luna, un ocho e una refolada, una sacanda e un rosque si dipana questa sorta di rituale sociale che vede a confronto anche tre interpreti solo maschili e dove persino nei momenti di danza collettiva, apparentemente corale e uguale, ciascuno preserva una sua identità e autonomia riconoscibili mentre l’orchestra suona generosa eseguendo nel finale un magnifico “Libertango” di Piazzolla. Doppio bis con la “Cumparsita” e una milonga. Magnifici tutti. Pubblico in delirio.

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Nadia Donato

Lameziaenonsolo incontra

Nella Fragale

Una donna questa volta ad essere sottoposta ad una sfilza di domande mai troppo cattive, volte, ovviamente, a conoscere un po’ di più una delle poche donne, in Calabria, ad essere una giornalista sempre “sul campo”, pioggia, neve, sole, ferie, nulla la ferma. Quando accade qualcosa lei è lì, sul luogo dell’accaduto, pronta a raccogliere notizie, a prendere appunti che poi trasforma in articoli, quelli che noi leggiamo con la certezza di leggere verità. A voi lascio il piacere di leggere quel che è scaturito da questo interessante incontro. Ciao Nadia, grazie per avere accettato di farti intervistare e ... cominciamo con la domanda più ovvia, come e perchè Nadia Donato ha deciso di diventare, principalmente, una giornalista? Quando ero piccolina mia madre mi chiamava signorina perché? Forse certe cose si hanno dentro da sempre. In ogni caso, io volevo scrivere e non ne conosco il motivo, mi piaceva mettere i miei pensieri sul foglio sin da piccolina. Quando andavo a scuola, per esempio alle medie, le compagne di classe volevano che realizzassi per loro delle poesie, ovviamente, lo facevo come può una ragazzina. Devo però confessare che nonostante questo amore per la scrittura, scrivo male perché sono distratta e vado sempre di fretta. Crescendo la passione non è mutata anche se ha preso posto nel mio cuore il Teatro. Ho scritto alcune cose, alcune anche in dialetto insieme ad una mia amica da sempre, Rosa Mascaro. Poi leggevo e leggo sempre molto, mi piace persino l’odore dei libri e colleziono quelli antichi. La mia famiglia mi spingeva sempre a leggere, il libro che ho nel cuore è ”Piccole donne”, la figlia che si chiama Jo’ e che voleva fare la scrittrice, è la mia preferita. I miei amici più cari da ragazzina mi chiamavano JoD. Credo che la lettura sia stato sempre, lo è ancora, il mezzo per curare mente e anima, poi viene il teatro, la musica, il cinema fatto bene e la tv. Comunque, secondo me, alla base di tutto c’è stata la voglia di non far sentire solo nessun essere vivente in difficoltà, non accettare i soprusi e non credere che il più forte può sempre vincere. Vale per gli uomini, come per gli animali e tutto l’ambiente. Questi sono valori che mi ha insegnato la mia famiglia e che porto sempre dentro. Forse, in fondo, ho scelto di fare questo mestiere perché devo rendere conto a me stessa e perché non smetto di sognare. Io credo che il giornalista vero debba sognare sempre per portare avanti il suo lavoro. Come hai iniziato i tuoi primi passi in questo settore? Che iter hai seguito? Io ho iniziato con Teatro e Radio. A Pianopoli tra le cose belle c’era la Radio e grazie a Pino dell’Aquila editore di Radio RP international, abbiamo avuto modo di iniziare una grande avventura che poi ci ha portati alla TV. Dell’Aquila, purtroppo scomparso prematuramente, è stato un antesignano delle Radio nel lametino, puntava molto sui

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giovani, io non avevo nemmeno 18 anni, ci aiutava in tutto. Una bravissima persona che resterà sempre nei miei ricordi più belli. Poi tutto il resto è stato un caso, nonostante probabilmente non avrei saputo fare altro. Io ho un amico, posso dire da sempre, che è come un fratello, è Lorenzo Opice, oggi giornalista di Radio Rai 1, con il quale ho fatto molte cose, tra le quali Teatro. Quando abbiamo iniziato, il nostro sogno era fare uno spettacolo al Teatro Grandinetti, ma per poterlo fare bisognava “arrivare” all’ing. Francesco Grandinetti, che noi vedevamo come irraggiungibile. Intanto, noi i nostri spettacoli con testi scritti da me, li facevamo già da qualche anno anche se giovanissimi, però Pianopoli, il paese dove siamo nati e cresciuti e dove oggi io ancora vivo, non ha mai avuto un teatro, nè tanto meno un vero luogo dove potere fare uno spettacolo, utilizzavamo quella che ora è la sala comunale, perché era stata un vecchio cinema. Così, pensa un po’ il destino, o chi per lui, per sviluppare delle foto siamo andati da Giovanni De Grazia, che all’epoca aveva un negozio da fotografo, la sua prima attività. Lo stesso vedendo una nostra foto davanti al cavallo della Rai a Roma, ci chiese se avevamo mai fatto tv, a Lamezia stava nascendone una molto bella e guarda caso era proprio di Grandinetti. Per farla breve, ci fece incontrare la direttrice della Tv, Danila Del Re e di conseguenza incontrammo anche Francesco Grandinetti. Per entrare a Vl7 ci fecero un provino, forse siamo stati gli unici a farlo. Incontrammo anche Pino Fazio, un pioniere della tv a Lamezia e in Calabria, un tecnico incredibilmente bravo. Da quel momento, e per molti anni, siamo cresciuti in quella bellissima esperienza che è stata VL7 e che l’ing. Grandinetti trasformò in esperienza nazionale con Cinquestelle. Comunque abbiamo fatto lo spettacolo al Grandinetti con le scenografie del maestro Francesco Antonio Caporale, persona squisita. In ogni caso, quel Teatro è una della cose più belle che ha Lamezia Terme. Ogni volta che salgo su quel palcoscenico il solo rumore delle tavole mi commuove. Vl7 ci ha regalato anni bellissimi, nel corso dei quali sia Danila del Re che Grandinetti divennero per noi un punto di riferimento per tutto. L’ingegnere ci fece fare tantissime cose, io e Opice fummo i primi ragazzi che entrarono a VL7, poi arrivano anche quelli della radio (studioG) sempre legata a Grandinetti e tanti altri, ma eravamo tutti giovanissimi e con tante idee. E’ stato l’ingegnere dopo qualche anno a darci l’opportunità di diventare giornalisti professionisti. Portando avanti insieme a noi una battaglia molto forte contro l’ordine dei giornalisti della Calabria, che allora non voleva riconoscere la nostra attività, il nostro praticantato, il nostro studio ed il nostro impegno. Eppure lavoravamo senza mai guardare l’orologio, non sapevamo mai quando sarebbe finito il nostro turno e non ci costava nessuna fatica, lo facevamo volentieri. Lì ho avuto modo di incontrare tanti colleghi con i quali ancora conservo buoni rapporti. A Grandinetti tutto il giornalismo calabrese deve molto, peccato che spesso è facile dimenticare chi ti

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da una mano, le opportunità che ha offerto lui non le ha create mai più nessuno. Allora c’eravamo noi, Telespazio e Rete Calabria ad essere riconosciute come realtà regionali, ovviamente, c’erano anche altre tv locali con grande impegno sui propri territori, ma noi coprivamo tutto la regione con sedi nelle principali città. Era veramente “un impero” dell’informazione regionale. Costava tanto mantenere le sedi e tutto il personale. Oggi chi paga i contributi ai giornalisti? Non vogliono nemmeno pagare i servizi che fai, figuriamoci i contributi che per diventare professionisti, come lo siamo diventati noi, sono veramente tanti. Oggi si fanno pubblicisti perché costa poco e… Ti capisco e capisco anche la tua “amarezza”. Questo per quanto riguarda la TV invece con quali testate hai cominciato a scrivere i tuoi primi articoli? I miei primi servizi tv, come detto, con VL7, ancora ricordo il primo: senza aver avuto alcun preavviso , misero sia me che Lorenzo Opice, davanti alla telecamere per intervistare un gruppo venuto dalla Sicilia che parlava di extraterrestri. Parlavano dei figli del sole, mai saputo nulla sull’argomento, ma fu un successo, rido ogni volta che ci penso. Era il periodo della Festa di sant’Antonio a Lamezia e ricordo che uscimmo a fare una passeggiata e la gente per strada diceva: “Guarda, Guarda quelli degli extraterrestri”. Ridevamo ma eravamo contenti perché per la prima volta qualcuno ci aveva riconosciuto per strada. Mentre i primi articoli li ho scritti su Reportage, un giornale diretto e creato da quello che allora era il direttore anche della tv, il prof. Rosario Arcuri, mai ricordato abbastanza. Una persona buona e disponibilissima che ci ha dato i primi consigli e i primi spazi sul suo giornale. Poi, da allora è andato avanti il lavoro della tv sino a quando ho preso, molti anni fa, il tesserino da giornalista professionista con esame di Stato a Roma. Vl7 è stata la prima e la strada migliore che ho avuto, oltre agli insegnamenti di un grande Giornalista come Vito Napoli, che tanti anni dopo ho incontrato nel mio lavoro a Roma. Lui caporedattore della stampa, pluripremiato a livello nazionale, era conosciuto come politico, ma era un ottimo giornalista e quando ho lavorato come Consulente dell’informazione al Ministero delle Attività Produttive, lui era capo di Gabinetto, i suoi consigli sono stati preziosi e fondamentali per me. Purtroppo è andato via troppo presto. Oggi pur essendo “burocraticamente” più difficile avere la tessera di giornalista, forse è più facile ma … basta essere iscritti all’ordine dei giornalisti per essere definiti tale? Questa domanda è difficile per me. Lo è perché io sono ipercritica e a volte sembro un po’ esagerata. Ho fatto la gavetta, ho lavorato tanto, come molti miei colleghi, e quando oggi vedo che ci si alza al mattino e con un bel calcio nel sedere si ha l’opportunità di andare in tv o scrivere qualcosa, mi sento male. Tanti editori per non pagare prendono chi capita e gli danno la possibilità di sproloquiare. Certo non è per tutti così, ma per molti lo è, tanto da far sembrare questo mestiere una barzelletta. Manca il rispetto per chi guarda e per chi legge, quando invece è la prima cosa da tenere presente. La presunzione di molte persone è veramente imbarazzante, perché non si rendono conto che fare il giornalista è un’altra cosa. Senza avere mai fatto realmente questo mestiere, magari rimanendo seduti dietro una scrivania a fare un altro lavoro, come l’impiegato statale, comunale o bancario, si pretende di essere giornalisti solo perché si ha il tesserino da pubblicista. Sarebbe bene che molti spiegassero come hanno preso

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questo documento. Se per tutta la vita sei stato un lavoratore di un’altra categoria, come mai oggi pensi di poter vantare il diritto di essere giornalista e lavorare al posto di chi questo mestiere lo fa da sempre? Io non pretendo di fare l’avvocato, il medico, il professore o l’impiegato comunale. Ci vuole una legge più severa per tutelare il pubblico, perché in tanti non sanno che possono fare del male e commettere gravi reati abusando di questa professione. Giornalista è chi lo fa veramente, sempre e sul campo. Tutti gli allievi o le allieve che ho avuto, da me non hanno sentito dire altro che questo. Perché è un mestiere che s’impara giorno dopo giorno senza mai smettere, impari a tutte le età e non lo si fa solo leggendo i giornali al mattino. Si imparare correndo da un posto all’altro, valutando cosa fare con sangue freddo e a volte in maniera un po’ spietata, senza perdere la notizia, poi puoi anche decidere di mandarla, ma devi averla e subito, non domani. Come ti capisco, torneremo sull’argomento. Tu sei una giornalista a tutto tondo, della carta stampata, dell’etere, della tv, ma non solo per i mezzi che adoperi ma anche per gli argomenti che tratti infatti i tuoi articoli e le tue interviste, i tuoi reportages abbracciano tutti i settori della società moderna, senza esclusione alcuna. Ma c’è un settore che senti più tuo? Sì ho lavorato in tutti i settori dell’informazione, compreso agenzia di stampa Parlamentare e ufficio stampa Ministeriale, proprio per ampliare la mia preparazione, ma ritengo la Tv il mio mezzo preferito per comunicare. In televisione ho fatto molto e credo di avere fatto le cose più importanti per me. Mi piace avere la possibilità di mostrare sia il bello che il brutto, mi piace spesso far parlare le immagini e mi piace sapere che posso far compagnia a qualcuno che altrimenti dall’altra parte potrebbe essere solo. Ti sei mai sentita in pericolo dopo una pubblicazione o dopo un reportage? Se stata mai minacciata? E’ capitato più di una volta, ma va messo in conto quando si fa questo mestiere, spesso cronaca nera o giudiziaria. Anche se fare politica o il sociale non è meno rischioso perché siamo in un Paese dove non puoi dire sempre la verità e se lo fai corri dei rischi pesanti. Per fortuna sino ad oggi è andata bene, ad altri colleghi è andata peggio. La paura, comunque, c’è stata e c’è, ci convivi, non sei un eroina ma una persona comune. E’ vivere in questa nostra terra che ci fa tutti eroi e nello stesso tempo persone comuni, purtroppo. La parola minaccia mi fa venire in mente la parola discriminazione, ti sei mai sentita discriminata per il tuo essere una giornalista impegnata e donna? Qualche volta è capitato ma meno di quanto si possa pensare. Ho sempre avuto la possibilità di farmi valere, certo costa molta più fatica nel giornalismo perché si pensa che l’inviato o il direttore lo fa meglio un uomo che una donna. Sono riuscita a dimostrare che non è così, come hanno fatto molte altre colleghe. Fare il direttore di testate giornalistiche non è facile, anche perché devi trovare chi crede in te e tu devi credere in lui, a me è successo e ne sono contenta perché ho aperto la strada ad altre in Calabria. In Italia e nel mondo già lo facevano tante donne. Tornando alle interviste, ho letto sulla tua pagina FB che una delle interviste che ti ha più emozionato è stata quella con Biagi, perchè?

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c’è stato un momento che ti ha emozionata particolarmente o è stata l’intervista in sè? Il solo pensiero d’intervistarlo mi emozionava, per me lui è sempre stato un esempio, un giornalista vero, quello che ti racconta i fatti come sono e poi tu da spettatore li giudicavi con la tua testa. Enzo Biagi è stato gentilissimo con me anche se ho avuto l’impressione di essere piccolissima davanti a lui e questo non è mai un bene per un giornalista, ma ero giovane e mi si può perdonare. A parte Enzo Biagi, fra le decine e decine di interviste fatte quale altre ricordi con piacere? Mi fai pensare a quanti anni sono passati e come sono una vecchia giornalista! Ho iniziato troppo giovane! Mi consolo così, che poi è la verità. Le interviste più belle le ho fatte alle persone semplici che mi hanno raccontato le loro storie, tanti dolori e spesso sofferenze indicibili ma anche gioie e desideri. La mia non è retorica ma verità tanto che molti ragazzi e ragazze della redazione mi chiamano “la giornalista delle cause perse”. Per quanto riguarda i personaggi? Qualcuna mi sfuggirà, ma per esempio, ho fatto una bella intervista a Susanna Agnelli, quando era Ministro, a Tina Lagostena Bassi, credo uno dei più grandi avvocati Italiani. La stessa che difese le donne violentate al Circeo (processo famosissimo). Ricordo che venne in Calabria, proprio nel tribunale di Lamezia, per difendere una donna violentata. Ero alle scuole medie e non andai a seguire le lezioni per poterla vedere. Non so come fecero a farmi entrare in Tribunale a quell’età, ma è ricordo vivissimo. Mi ripromisi che avrei dovuto incontrare quella donna e così fu dopo molti anni la intervistai nel suo studio a Roma. Anche Scalfaro quando era presidente della Repubblica. Rita Levi Montalcini, nella sede della sua Fondazione a Roma insieme alla nostra scienziata, Amalia Cecilia Bruni, un’emozione incredibile perché era veramente una donna speciale, un genio. Moltissimi i personaggi dello spettacolo: Renato Zero, che è il mio idolo, incontrato al Piper, Donna Summer, i Simply Red, Pupella Maggio e sua sorella Rosalia, Arnoldo Foà, Mia Martini, Concetta e Peppe Barra, Giuliana De Sio, Alessandro Gassman e Peppe Fiorello etc veramente tantissimi. Poi molti politici come Bettino Craxi che era così alto che non riuscivo ad arrivare con il microfono sino a lui, De Mita, Andreotti, una volta anche Almirante prima che morisse, Fini e, poi quelli più recenti. Ricordo uno arrogante, di livello nazionale, che non si è fatto intervistare dopo averci fatto aspettare molto. Uno che “smacchiava i giaguari” e che ora vorrebbe riprendersi il partito, che all’epoca della mancata intervista invece lo guidava. E ancora tanti a politici nazionali e molti calabresi, bravi e mezze calzette che invece si sentono furbi e geniali, ma sono di un’ignoranza spaventosa. Altra intervista molto bella l’ho fatta a Firenze a Saverio Strati, il nostro grande scrittore d’Aspromonte, che andai a trovare a casa sua. Una persona timida e di grande spessore culturale. Parlava di Benedetto Croce e di altre sue conoscenze di enorme levatura storico-letteraria con tanta naturalezza e umiltà. Poi una bellissima esperienza è stata l’Africa, in Uganda dove ho seguito padre Paolino Tomaino, il missionario tra i poveri dei poveri. E’ stato un momento della mia carriera di enorme importanza soprattutto morale. Quell’uomo vive dove noi non vivremmo mai. Vedere e documentare quell’Africa così povera è straziante ma ti cambia profondamente dentro. Questi sono veramente personaggi da non dimenticare mai! Di recente mi ha

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fatto piacere incontrare il premio Nobel per l’ambiente, referente di Rifiuti Zero, Zero Waste Italy, Ercolini, invitato dalla sua associazione a Lamezia Terme. Le persone migliori sono sempre molto semplici e umili. Sono centinaia di interviste, queste sono quelle che mi vengono in mente ora. C’è una intervista che hai fatto e che avresti voluto non fare? Si e non la dimenticherò mai. Una ragazza della provincia di Vibo V. Un paesino di quella zona. Era stata sequestrata da un vecchio “sensale”, cioè uno che combinava matrimoni e che si arrogava il diritto della prima notte , il famoso, in senso negativo, “ius primae noctis”. Era una ragazzina senza madre ed il padre si era risposato con una donna che non la considerava proprio. Era poverissima, ingenua e spaventatissima. Per alcuni giorni mi chiesi se era giusto pubblicarla, ancora oggi non lo so se ho fatto bene o meno. Il mio pensiero è sempre stato rivolto alla ragazza, cosa le avrebbe provocato la pubblicazione della sua storia? Non l’ho mai saputo, di certo fu un po’ più libera perché qualcuno fu costretto ad occuparsi di lei e di tutto il male che faceva il “sensale”. Raccontai la sua storia per il settimanale Visto e mi fece così male quel racconto che non sono mai riuscita a dimenticarlo. Non ho più scritto nulla per Visto, anche se il settimanale non aveva alcuna colpa, quello è il suo “carattere”. Certe cose ti segnano profondamente. Ho fatto servizi di cronaca nera veramente difficili, eppure nessuno mi ha sconvolto come quel racconto, ancora oggi mi chiedo che fine ha fatto quella ragazza. Penso sempre alle persone che intervisto, non amo lo scoop e se loro non concordano non faccio pubblicare le interviste anche se me le potrebbero pagare bene e mi darebbero popolarità. Ho rinunciato spesso ma non mi pento. Giornalismo e Tecnologia, oggi l’informazione u t i l i z z a molto l’etere, famose testate giornalistiche hanno blog/ profili/pagine/ sul web, importanti trasmissioni televisive basate sul giornalismo, invitano gli ascoltatori ad utilizzare la rete per domande, per apprezzamenti o denunce. Tu scrivi per la carta stampata, fai trasmissioni in tv che poi trasferisci sul web sulla piattaforma di youtube, hai un profilo su FB che utilizzi per questo, questo vuol dire che sei PRO-teconologia? Si sono per la nuova tecnologia se usata con ponderatezza. Orami non potremmo fare a meno della tecnologia, è andata così avanti che rischieremmo di restare esclusi se non la utilizzassimo. E’ di estrema importanza e non solo per il giornalismo. Ritieni che il web abbia sminuito la figura del giornalista? Oramai tutti, o quasi, si sentono nati con la penna in mano, giornalisti provetti, anche se non hanno nemmeno il tesserino di pubblicista, si sentono reporter d’assalto, pronti a dare notizie con un click, senza nemmeno accertarsi della veridicità della fonte, solo per essere i “primi”, è così o è solo una mia impressione? Sarebbe sciocco da parte mia dire che non è così dopo quello che ho dichiarato ad una delle tue domande precedenti. Se pur il web ci ha reso più liberi ha sminuito e declassato, questo mio mestiere. Per me è importante che il lettore o chi guarda stia sempre con il cervello “connesso”, deve usare la sua mente per valutare ciò che legge. Il giornalista, se tale si deve chiamare, ha l’obbligo di verificare la notizia e le sue fonti per non pubblicare sciocchezze, per non rovinare

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la vita alle persone e per tutelare chi legge. Tutto questo, però, succede di rado e se un errore è ammissibile, non è accettabile che diventi la regola. Dico: vecchie e buone regole con la nuova tecnologia. Giornalisti veri e non improvvisati scribacchini spesso ignoranti e presuntuosi. Giornalisti da distinguere dagli opinionisti, cosa che non sempre si fa ed un’opinione passa come notizia o peggio ancora come verità. Il giornalista non è un’opinionista, se vuole diventarlo si presenti come tale e dica a chi lo segue: ”questa è la mia opinione”, non è un fatto. Inoltre quando lanci quelle poche righe sul web, devi essere certo che stai scrivendo l’accaduto, non un’ipotesi che fai passare per notizia. Pertanto, il linguaggio è di estrema importanza, ma se tu non lo hai imparato come fai ad utilizzare un buon linguaggio? Ogni notizia ha il suo modo per essere scritta. Saper fare un bel tema a scuola, se pur è importante, non vuol dire saper scrivere da giornalista. Faccio la maestrina? Chiedo venia, ma ogni tanto m’indigno davanti all’abuso di una professione che potrebbe dare molto alla libertà e alla democrazia. Non fai la maestrina, sottolinei delle verità! Le notizie bufala oramai sono all’ordine del giorno. Per chi come te, vive in mezzo alle notizie, è facile scovarle in mezzo alle migliaia che vengono pubblicate sulla rete? E’ difficile. A volte il web è per le persone pigre, per coloro che non hanno voglia di approfondire ed informarsi realmente e se non si fermano al titolo poco ci manca. Allora quando si legge una notizia, magari, messa ad effetto, subito si tende a condividerla senza verificare se è verità. Pertanto, colpa della stampa ma anche del lettore ignorante, girano falsità. Le “bufale” che invece toccano le persone o comunque gli esseri viventi, come piante e animali, sono una cosa che mi infastidisce tanto. Sono cattiverie che andrebbero punite come reati gravi perché diseducative e pericolose. Sempre per restare in tema di “rete”, digitando il tuo nome si aprono decine di pagine, in una delle tante si legge che sei stata la prima giornalista donna ad occuparsi di casi cronaca e di inchieste nei luoghi dell’accaduto e sempre la prima donna ad essere nominata direttore responsabile emittente tv, è una bella soddisfazione! E’ stato facile ritagliarsi una fetta così importante in un settore come questo? Se non la prima, sicuramente una delle prime a fare l’inviato sul luogo dell’accaduto. Ricordo una mia foto sull’espresso quando furono uccisi i coniugi Aversa, arrivai li per prima, ero in un angolo accanto l’auto, con grande angoscia a raccontare i fatti. Ed erano già tanti anni che giravo in lungo e in largo facendo l’inviata di cronaca. E’ stato merito di chi ha creduto in me, come Danila Del Re e Francesco Grandinetti. Per la direzione di testate c’è da dire che non è stato facilissimo, si tendeva sempre a scegliere un uomo o se era una donna era un nome fittizio, per fortuna ora va un po’ meglio e si discrimina di meno. Oggi le donne lavorano con più facilità e sono anche brave, alcune. Mi sentirei solo di dire e sottolineare non fatevi prendere perché belle o perché raccomandate, ma fatevi valere. Mai dimenticare che prima di noi tante donne hanno lottato spesso rimettendoci la vita per dimostrare che siamo valide e possiamo fare bene tanti lavori spesso ritenuti maschili. Una cosa che mi fa tanta paura è che le donne non conoscano la storia o che la dimentichino. Tutta la storia, anche quella contemporanea, è un insegnamento del quale non possiamo fare a meno. Spero che ogni madre spinga i propri

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figli ad imparare la storia. Quello che in passato è stato “sconfitto” anche a costo della vita di molte persone, potrebbe tornare e riportarci indietro togliendoci la libertà. Ecco perché conoscere cosa è stato ci aiuta a non essere vulnerabili, sottomessi e vittime di ideologie o religioni che non conosciamo se non per sentito dire. Sempre sul web leggo: “Oggi è impegnata quotidianamente nella lotta alla criminalità con il proprio lavoro sia professionale che di volontariato”, vuoi dirci prima in cosa consiste questa tua lotta prima di parlare del volontariato? Ritengo che la lotta più importante sia fare cultura ed è difficilissimo. Lo è perché viviamo un momento di sconforto. Siamo stati troppe volte ingannati, come popolo, da essere a volte stanchi di credere che possiamo farcela. Si ripete: “Perché lo devo fare io se gli altri non lo fanno? Meglio pensare ai miei guai perché ne ho tanti. Il criminale, lo ’ndraghetista mi aiuta il Governo no”. Se ci si pensa bene come dar torto alle persone che la pensano così? Invece è proprio questo modo di vedere le cose che è necessario cambiare, farlo con ogni nostra piccola azione. Perché questo ci porta ad essere più forti. Allora, credo che una goccia nel mare non si perda affatto, ma fa il mare. Bisogna, inoltre, dare spazio ed aiutare chi, giorno per giorno, combatte l’illegalità, la violenza di ogni genere e su ogni essere vivente e la criminalità sotto tutte le sue forme. Le testimonianze di queste persone devono essere riportate e ricordate, così come le vittime della criminalità. La cultura e l’informazione corretta danno fastidio ai criminali. Sul web come in ogni luogo possibile, bisogna parlarne sempre. Io lo faccio aiutando come posso chi lotta, chi ha bisogno, scrivendo e realizzando le mie trasmissioni. Il web, come ha sottolineato il giudice Gratteri, è ormai un mezzo che utilizza bene anche la malavita, l’attenzione deve essere massima per non cadere nelle loro trappole ed ecco a cosa serve la cultura, a farci diventare liberi. Ora vuoi parlarci dell’ARA, l’Associazione della quale sei Presidente? Con quale scopo è nata? cosa fa? Qualche importante obiettivo che avete raggiunto? L’Ara è stata fondata molti anni fa da Giacobbe Perri, un signore, un imprenditore che sino a quando ha potuto si è occupato di recupero degli alcolisti ed ha aiutato tante persone a venire fuori da questo problema. Qualche anno fa ha dovuto lasciare la presidenza dell’associazione, riconosciuta dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, e mi ha chiesto se volevo portare avanti l’impegno. Io non ho la preparazione per occuparmi di dipendenza come terapeuta, allora ho chiesto ad alcuni amici, che sul nostro territorio lavorano egregiamente da anni e che hanno altre associazioni, come potevo essere utile. Mi è stato chiesto di occuparmi di prevenzione e di bisogni informando, in questo modo avrei aiutato anche loro. Allora, questo è diventato il nostro principale obiettivo. Realizziamo degli incontri per informare, delle Giornate di Prevenzione portando medici ed esperti nei diversi comuni etc. Poi aiutiamo le famiglie in difficoltà con il banco alimentare, con i vestiti, mobili e quanto altro può essere utile alla loro sopravvivenza, perché spesso si tratta proprio di sopravvivenza. Aiutiamo anche, con l’ausilio di alcuni avvocati, nell’assistenza legale con patrocinio gratuito e con i sindacati, nel disbrigo di alcune pratiche importanti. Tutto gratuito. Quando ci sono bisogni legati alle dipendenze ci rivolgiamo agli esperti per dare una mano in maniera concreta. Un giornalista vivente che ammiri molto?

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Forse più di uno, non dico quelli calabresi per evitare di essere sgarbata con gli altri, ma ammiro anche colleghi/e di questa nostra regione. A livello nazionale sono tanti. Cito Maurizio Costanzo perché da sempre affronta argomenti prima degli altri, quelli che nessuno vuole trattare come fa lui, lo fece in tempi non sospetti perché crede nel suo lavoro, sa che può essere utile parlarne indipendentemente dallo scoop, che per me è insiegnificante. Poi è preciso e non ha fronzoli. La Gabanelli perché mi piacciono le sue inchieste. Piero Angela, inimitabile come giornalista scientifico e storico. Mieli come storico. Mimosa Martini come inviata del tg 5, Giovanna Botteri come corrispondente Rai. Dovrei citarne tanti altri, ma sarebbe lungo. Paola Bacchiddu, una tua collega, ha pubblicato questa frase: “un giornalista non deve piacere, un giornalista deve informare”, da quello che hai detto penso che tu condivida questa affermazione. Come non potrei? Per quanto mi riguarda non è mai stata una priorità. Tutto ciò che ho fatto lo dimostra, sarei ridicola se pensassi diversamente. Ritengo che oggi nemmeno le Miss debbano essere apprezzate per la loro bellezza, che se c’è non guasta, ma non è indispensabile per fortuna. Purtroppo oramai sembra che solo l’apparire conti ma magari ne parleremo approfonditamente un’altra volta. Conduci una trasmissione televisiva, fra le altre, dal titolo significativo: “Pandora”, vuoi parlarcene? L’idea l’ho avuta molti anni fa quando facevo una trasmissione settimanale, come corrispondente da Roma, per Radio CRT Network. Intervistavo per la radio numerosi personaggi e con loro affrontavo diverse tematiche di attualità. A distanza di tempo ho ripreso il nome anche per la tv ed oggi ho fatto tante puntate che vengono trasmesse da alcune tv calabresi regionali. E’ sempre una trasmissione che ha carattere prevalentemente sociale e di cronaca, proprio per rispettare un mutuo accordo tra me ed il pubblico che mi segue, quindi, “fare la tv della gente e per la gente”. Questo è il mio motto dal 1985. Per la scelta del nome non mi sono basata sul noto marchio di gioielli, all’epoca non si conosceva nemmeno. Ho pensato alla mitologia greca : Pandora è la prima donna creata, per ordine di Zeus, per punire gli uomini, creata da Efeso. Era una bellissima fanciulla alla quale gli dei offrirono grazia e virtù. Ermes, la dotò anche di astuzia e curiosità, questo fu il suo debole. Ricevette in dono da Zeus un vaso, che però le aveva ordinato di lasciare sempre chiuso. Pandora disobbedì: aprì il vaso e da esso uscirono degli spiriti maligni che erano i mali del mondo: la vecchiaia, la gelosia, la malattia, la pazzia ed il vizio, questi colpirono gli uomini. Sul fondo del vaso, però, rimase la Speranza che non fece in tempo ad allontanarsi prima che il vaso venisse chiuso di nuovo. Tutto cambiò, vennero a mancare la libertà, la bellezza, l’amore e l’immortalità. Pandora, allora, decise di riaprire nuovamente il vaso per far uscire anche la speranza, l’ultima a morire. Allora, il mondo riprese a vivere. A tutto ciò io lego il fatto che Nadia vuol dire Speranza. Con Pandora parliamo di tante cose che forse in molti vorrebbero tenere nascoste e di altre più belle, lo facciamo sempre con la speranza che si possa trovare un via per essere migliori. Pertanto facciamo Pandora con Speranza. Anche in questo caso condivido il tuo pensiero e mi piace questo accostamento del significato di Pandora con il significato del tuo nome. Ho seguito le trasmissioni, che trovo molto interessanti, hai intervistato medici, religiosi, cuochi, magistrati. Ma Nadia Donato ha una preferenza nelle scelta delle persone da intervistare? Nel senso, c’è un settore che ti affascina di più per qualsivoglia motivo,

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per cui intervistare quella persona, piuttosto che un’altra, ti fa più piacere? Mi fa piacere raccontare qualcosa che può essere utile a chi ascolta e non parlarmi addosso. Vorrei sempre potere dire che il servizio, l’intervista o la trasmissione ha lasciato un segno, anche piccolo piccolo, a chi ha avuto modo di seguirla. L’argomento non conta, è la qualità del contenuto ed il rispetto per chi intervisti e per chi ti segue che da un senso a tutto. A parte Pandora conduci un’altra trasmissione televisiva “Health”, questa dedicata alla medicina, alla salute, vuoi parlarci anche di questo tuo altro importante progetto? Nasce dall’idea di potere dire ai calabresi che abbiamo bravi medici e specialisti e che ci sono delle strutture dove ci si può curare, oltre che informarli sulle diverse problematiche legate alla salute. La Calabria non è solo malasanità, è anche professionisti eccellenti che possono dare molto alla popolazione. Health vuole far vedere tutto ciò. Prossimamente farò anche una nuova trasmissione dove non sarò sola e spero possa essere un “Intreccio” di interessi per dare più spazio alla gente. A proposito di Intreccio, vedo che sei stakanovista, non ti fermi mai, un fiume di idee e di progetti ai quali lavori, so che un altro tuo progetto, realizzato in collaborazione con Mario Catroppa e Stefania Platania, la cooperativa sociale Intrecci, ha preso il via alla fine del 2016, ci vuoi dire qualcosa su questo? E soprattutto, visto che so che si occupa anche del randagismo, vuoi dirci cosa fate o farete per questa piaga? Mi fermo anche io ogni tanto, devo farlo per forza. Intrecci è stata fondata di recente come cooperativa perché abbiamo pensato di potere dare opportunità diverse a noi e a molte persone nel campo del sociale. Io collaborò con il dottore Mario Catroppa, da molto tempo. Lui è un mio compaesano anche se lametino di adozione, quindi mi conosce da quando ero una piccola peste. E’ stato proprio Catroppa, che già ha avviato da solo numerose iniziative sociali. e insieme a me con ARA, a farmi conoscere la presidente Stefania Platania, che è molto giovane ma con tanta volontà di esprimersi ed essere presente nel volontariato e nel sociale. Vorremmo, ed abbiamo già iniziato a farlo, essere presenti in primo piano per aprire nuove strade ai diseredati. Per noi è, comunque, importante essere anche come supporto ad altre associazioni che tanto bene lavorano sul territorio in settori diversi. Qui entra anche in campo il sostegno a chi si occupa di animali, soprattutto di cani. Abbiamo alcuni progetti importanti che tenteremo di mettere in atto quanto prima, intanto facciamo ciò che è possibile. Di certo non mancherà la comunicazione. Vorremmo essere, con il nostro sito di prossima uscita e con le nostre produzioni video, non solo denuncia ma anche punto di riferimento per informare su cosa di può e si deve fare per vivere meglio. Informazione e comunicazione in tanti settori, non solo nella sanità, ma in molti campi dove i diritti vengono negati a chi è più debole, anche gli animali. Pertanto, mettiamo a disposizione psicologi, medici, avvocati e altri professionisti che con noi hanno accettato di fare volontariato. Esperti che potranno stare accanto a chi spesso è solo e non sa a chi rivolgersi, ha paura e sopporta anche delle violenze, in tal senso ci stiamo già occupando di violenza in generale. Inoltre, speriamo di poterci occupare anche di extracomunitari nel pieno rispetto della legge e del vivere civile. Di anziani, non solo quelli che hanno difficoltà, ma anche quelli che stanno bene ed ancora possono dare molto a questa nostra società. Altro punto al quale teniamo molto è la valorizzazione dei luoghi belli

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e sconosciuti della Calabria, facendoli conoscere con più mezzi. Così come stiamo preparando spazi importanti di informazione e materiali, per la tutela dell’ambiente inteso anche come tutele degli animali e delle piante. Stiamo lavorando tanto per essere pronti a quei progetti ai quali teniamo molto, c’è tanta fatica ma per ora resistiamo. Per ultima domanda, riguardante il tuo lavoro, vorrei tu mi parlassi dei libri che hai scritto: “Il caso Aversa”, cronaca nera e giudiziaria e “Come è sempre e come è mai”, due libri completamente diversi l’uno dall’altro. Il caso Aversa è un libro nel quale ho riportato gli atti dei primi processi ed il racconto di come ho trascorso quella prima sera, e poi notte, appena furono uccisi i coniugi Aversa. Il libro è stato il primo su questo caso, nessuno aveva ancora parlato dell’accaduto. E’ stato scritto con l’ansia della giovane cronista che si trova davanti ad un fatto grave, crudele e pericoloso. In questo libro per la prima volta ho fatto intendere che la super testimone, Rosetta Cerminara, mentiva. Lei, qualche anno dopo fu comunque premiata con la medaglia del presidente della Repubblica, che le fu ritirata dopo molti anni quando si scoprì che aveva realmente mentito su tutto, come io avevo lascito intendere. Ritengo che questo libro sia un documento per i fatti di quella pagina terribile di Lamezia Terme. L’altro libro è un racconto epistolare, che ho scritto dedicandolo ad una ragazzo che a Lamezia conoscevano tutti come Sasà. Un giovane che qualche anno fa fu ritrovato morto in casa sua per overdose. La storia l’ho scritta, e lo spiego anche nel libro, perché lui mi chiese dopo un’intervista fatta per VL7, di parlare di un argomento che nessuno all’epoca voleva trattare e non è la droga. Con l’esperienza di oggi avrei scritto diversamente, ma quando uscì fu presentato anche a Roma e fu molto apprezzato. A me rimane anche il fatto di avere esaudito il desiderio di quel ragazzo bellissimo e arrabbiato con la vita che gli aveva dato veramente poco pur avendolo sfruttato molto. Mi aveva parlato tanto di persone insospettabili e di fatti forse inenarrabili, accaduti a Lamezia ed in altri luoghi, che sarebbero veramente stato un scoop, aveva anche molte prove di ciò che diceva, ma pur avendo quel materiale, quei nomi, quelle frasi in testa, io ho preferito raccontare la sua storia come quella che tutti riteniamo unica ma è uguale a quella di tutti anche se tanti, molti, pensano che sia diversa. Un gioco di parole ma secondo me una grande verità come il titolo “Come è sempre e come è mai” Hai in cantiere un altro libro da scrivere? Si da anni, ma non so se lo scriverò mai. Scrivere per me è qualcosa di molto profondo che scardina dentro anche quando racconti cose non tue e allora bisogna essere preparati ad affrontare tante cose, non sempre facili. Se scrivi per per la notorietà, perché sai che libro te lo promuovono lo stesso anche se è una sciocchezza, che senso ha? Anche scrivere un libro è una cosa seria, non puoi e non devi improvvisare nulla, purtroppo lo si fa spesso. Se un editore mi chiede una storia forse lo farò e lavorerò con lui purché sia una bella verità da raccontare. Allora, se mai scriverai un altro libro magari saremo noi a stampartelo, Gai visto mai? Ora basta con domande “serie” che fanno pensare, dimmi, come ci si sente ad essere intervistata invece che essere intervistatrice? Io mi sento male, perché m’imbarazzo e perché sono timida anche se nessuno mi crede. Ho sempre timore di dire troppo o dire cose inutili. Parlare di me non mi piace, non sono nessuno, una donna che fa il

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mestiere di giornalista e che ci crede. Un giornalista un po’ anomala e, dicono, autoritaria, che pretende un po’ troppo da chi lavora con lei. Anche se molte delle persone che hanno lavorato con me poi mi hanno ringraziata anche dei rimproveri ricevuti. Posso anche sbagliare, sicuramente lo farò, come tutti. Ma il mio difetto credo sia prendere sul serio questo mestiere e, quindi, le interviste mi piace farle agli altri. Però, se me lo chiede una persona come te che ha tanto garbo e tante qualità, ci provo. E di questo ti ringrazio, conoscendoti da tempo, quando ti ho chiesto dell’intervista ero incerta sull’esito della tua risposta. Ora, sia pure brevemente, cerchiamo di conoscere l’altra Nadia Donato, quella privata. Parlaci di te, della tua famiglia, dei tuoi amori. Questo è una parte che preferisco sempre tenere per me. Ma m’impegnerò a rispondere. Il paese dove vivo è parte di me, ritengo di essere cresciuta in un bel luogo, dove potevo sognare, dove tutti si danno una mano e dove c’erano tanti pettegolezzi e qualche idiota dal punto di vista umano che in quanto a chiacchiere e bugie ne ha dette tante, ma questo oggi sento che mi ha fortificata. Un paese dove non c’era criminalità, non c’era violenza fisica e dove nascevano i gruppi teatrali, i collettivi femministi ed i gruppi musicali. Quando io ero adolescente e giovane a Pianopoli la cultura era importante. Ricordo il Sindaco di allora, Rodolfo Cuda, che ci aiutava sempre a fare delle belle cose, ci metteva a disposizione quel che poteva per le nostre iniziative. Era veramente bello sentirsi protagonisti di quella bella gioventù.. Pianopoli ti faceva crescere bene. Oggi, mi auguro che sia ancora cosi. Per me è il più bel paese del mondo. Amo molto la mia famiglia, ho perso mio padre e mi manca molto anche se eravamo sempre in conflitto, ma tutto ciò mi ha dato la possibilità di credere nel confronto, di dialogare e di poter, comunque esprimere il mio pensiero. Era severo ma non mi ha mai proibito di dire la mia, anche se mi contestava. Lui per me rappresentava la protezione, come credo per ogni figlia un papà. Io sono stata una figlia difficile da capire perché in un paesino di poche anime facevo cose che le altre ragazze non facevano, tranne qualche amica cara che ancora ho. Per mio padre era faticoso mandarlo giù. Ho avuto una zia che era come una seconda madre per me, come lo sono state tutte le sorelle di mia madre. Mia madre è stata ed è il faro della mia vita, il mio legame con lei è indescrivibile, forse troppo forte, tanto da influenzare anche alcune mie scelte, come tornare e rimanere in Calabria. Io sono tornata in questa regione proprio per la mia famiglia, dopo aver lavorato molti anni fuori. Ho due fratelli più grandi di me, quattro nipoti, tre ragazzi ed una ragazza, inutile dire che li adoro. Ma io ho un legame speciale con tutta la famiglia. Zii, cugini e anche quelli acquisiti, sono la mia famiglia che è un forza da sempre, lo era anche quando ero piccola. Mi ha sempre fatto sentire amata e parte di qualcosa d’importante. I libri che ami leggere? Tutto, ma la storia è ciò che preferisco. I romanzi legati ad un periodo storico, per esempio, sono una lettura per me piacevolissima. A casa ho una libreria molto vasta, ci sono argomenti di ogni genere e spesso penso che dovrei averne altri, quelli che ho sono pochi, anche se qualcuno dice che prima o poi tutti questi libri mi cacciano di casa. Tra libri, cd e dvd, non so più dove metterli. La musica che ami ascoltare?

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Anche qui devo rispondere tutta. La musica è sempre stata parte della mia vita, mio padre e tutta la sua famiglia suonavano e cantavano molto bene, Pensa che mio zio Francesco Donato, detto il cavaliere, proprietario del 2000 a Pianopoli, ancora suona il violino e fa spettacolo ogni sabato sera. E’ famoso per le sue performance, è straordinario. Uno dei miei fratelli suona la chitarra ed ha un gruppo riformatosi dopo tanti anni, “Festa Mobile” dove suonano anche due miei cugini. Io strimpello la chitarra e se non fossi timida proverei a cantare. Pertanto, sono cresciuta ascoltando musica di ogni genere, anche l’opera. Mi piacciano le grandi voci italiane di sempre, una tra tutte Mia Martini, i gruppi pop rock, i cantautori come tutti i giovani degli anni 70/80. Poi la musica Sud America, i grandi autori brasiliani come A. C. Jobin, C. Buarque, G. Gil, Roberto Carlos, Vinicius De Moraes, , gli argentini Astor Piazzolla, Juan Maria Solare, Charly Garcia, Martha Argerich e altri. Adoro il Jaz di J Coltraine, Amstrong, D Ellington, Miles Davis, Bill Evans, Glen Miller etc. C’è una musica come quella dei Vaya con Dios che mi piace ascoltare molto mentre viaggio, oppure quella classica mentre lavoro. Insomma, senza la musica non vivrei. Che rapporto hai con la religione? Penso che ci sia un Dio buono e che sia uguale per tutti, indipendentemente dalle religioni. Sono stata cresciuta come cristiana e qualcosa ho ancora dentro, ma la chiesa, non Dio, mi porta spesso ad avere molti dubbi. Per me Dio è amore senza se e senza ma, ci ama come siamo, non ha barriere, così dovremmo fare noi con il nostro prossimo. Cosa ti piace fare nel tuo tempo libero? sempre che tu ne abbia! Il tempo libero sono i miei cani che considero componenti della famiglia e a volte anche quelli degli altri, nel senso che non riesco a pensare che possano soffrire in qualche modo. Parto quando posso. Colleziono elefantini provenienti da tutto il mondo, macchine fotografiche, vecchie radio e libri. E poi con i miei amici, a quali tengo molto, passo quanto più tempo posso. Vorrei poter dire altro ma non ho veramente un attimo. Anche perché faccio molte cose che mi piacciono e allora come se fossero anche hobby, se pur arriva la fine della giornata e non so come fare, vorrei durasse molto di più. Beh direi che amare il proprio lavoro è una grande fortuna! La nostra città e la nuova amministrazione comunale, un tuo pensiero in merito? Lamezia Terme, che mi ha adottato per il lavoro, è un po’ anche la mia città, anche se sono di Pianopoli e ne vado fiera. E’ un pezzo di Calabria che, negli ultimi decenni, non è stata amata dai suoi politici ed oggi forse è anche meno amata da propri cittadini. Le potenzialità che ha avuto e che ancora oggi ha, sono state mortificate da interessi politici di bassa lega. E’ lampante che non ci sia mai stato un politico capace di mettere da parte la propria carriera per dare una via di sviluppo alla città, se non l’ha penalizzata, come è accaduto spesso, al massimo non ha fatto niente o qualche promessa mai mantenuta. Se così non fosse l’aspetto di questo territorio sarebbe totalmente diverso

e la popolazione sarebbe cresciuta in maniera differente. Cedendo ai compromessi, si è fatto in modo che Lamezia perdesse sempre di più le strutture importanti che le avevano fatto avere, in anni passati, il lavoro della popolazione e della buona politica. Ci sono stati politici ed imprenditori nel passato che hanno pensato a Lamezia facendosi valere nei luoghi che contano. Niente di nuovo in quel che dico. Oggi si può fare ancora tanto, per esempio lo si potrebbe fare se la legge elettorale ci consentisse di scegliere chi votare, lo si potrebbe fare se il calabrese non fosse talmente assuefatto alle cattive gestioni, da riuscire cambiare il modo di vedere la politica e pretendere di farne parte. Votando in maniera diversa, non avendo più paura, non chiudendo la porta di casa e pensando solo ai propri interessi, così come fanno i politici. Bisogna tornare in piazza e protestare civilmente per far sentire che si è presenti, che si conta qualcosa e che si vuole cambiare. Lamezia oggi soffre anche per colpa dei lametini che si lamentano ma non reagiscono. E poi anche loro stanno piagnucolando pensando che ogni male dipenda dagli extracomunitari. Se piove, per certe persone, è colpa degli extra comunitari, se ci sono le buche, se ci sono strade dissestate, se non c’è diritto alla cura, se non ci sono soldi per i servizi sociali, se non ci sono case, se non ci sono libri, se la scuola non funzione e se il comune cade a pezzi, è sempre colpa degli extracomunitari. Perché non pensare che è un alibi? Dire che è colpa loro tutto ciò che non va è l’alibi per nascondere che tutto è cambiato molti anni fa quando la politica ha incominciato ad essere solo interesse. Oggi litigare tra poveri nasconde la polvere sotto il tappeto. La mancanza di rispetto per le leggi, per le persone, per gli animali e per la vita in genere è il vero male di tutto, anche a Lamezia. Se ci si rispettasse ancora non ci sarebbero tanti problemi. Questo sindaco è arrivato, a mio avviso, in un momento sbagliato. Un uomo come lui qualche anno fa avrebbe potuto dare molto di più a Lamezia Terme. In questa città, dove la politica è spesso beghe tra gli “uomini”, è difficile oggi fare qualcosa di concreto. Se poi non hai mezzi economici, se poi comunque qualcuno lo devi accontentare perché i voti non arrivano per caso, se poi la regione non è dalla tua parte politica, se poi i parlamentari ci sono e non ci sono, se poi i cittadini non pagano le tasse, se poi vuoi mantenere buoni rapporti con tutti, se poi chi ti deve aiutare a capire ne sa meno di te, se poi hai escluso la possibilità di cambiare una squadra che non va, se poi tutto ha tempi biblici. Che cosa vuoi che succeda? Paolo Mascaro, uomo intelligente, versatile, lavoratore, distratto, equilibrista, umile, esagerato nei comizi, un po’ testardo, poco politico… ancora, e meno male, a mio avviso potrebbe fare molto di più se qualcuno lo aiutasse. In questa città mancano i politici capaci di amarla e di aiutare chi la guida. Anche i giovani che fanno politica stanno cadendo nei clichè dei vecchi maestri, i quali hanno ignorato il popolo e hanno snobbato chi per il popolo voleva fare qualcosa. Ritengo che la classe che deve guidare questa città debba essere ricostruita, ma prima disintossicata dalla vecchia maniera di far politica. In tutto questo il cittadino lametino ha il ruolo più importante, come? Tagliando fuori chi non ha dato risposte e non accontentandosi delle briciole. La città può avere un futuro ma non così. Dopo questa risposta molti mi metteranno nella lista nera, ma è così che la penso. Ecco perché non preparo mai le mi interviste con i politici, così non si preparano nelle risposte e sono difronte alle loro responsabilità senza paracadute. Loro non è a me che devono rispondere ma alla città, alla popolazione alla quale chiedono il voto. Abbiamo una passione in comune: gli animali ed i cani in particolare: è una malattia la nostra secondo te? A volte, per come soffro, penso che lo sia. Il maltrattamento, la violenza e la soppressione di un animale mi spezza il

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cuore, mi suscita tanta rabbia, forse capita a tutti, ma non riesco a dire “tanto è un cane, un gatto” o altro animale, vorrei che ci fossero pene severissime per chi commette un reato contro un animale. Io faccio quel che posso per aiutarli. Con Settimio, il mio trovatello di 40 kg, straordinario, che mi ha lascito lo scorso anno, abbiamo fatto anche delle trasmissioni contro l’abbandono, a favore delle adozioni e delle sterilizzazioni e poi tutto ciò che mi hanno chiesto i volontari ho cercato di farlo. Oggi, ho tre cani, uno dei quali ha le zampe posteriori paralizzate, ma ha così tanta voglia di vivere che è uno spettacolo. Ha bisogno ogni giorno di fasciature alle zampe e per fortuna c’è chi se ne occupa insieme a me. Su Fb c’è la pagina Billy e Achille, che vivono insieme e poi sulla mia si vede Rocco che ho a casa. Mando un abbraccio a tutti i volontari/e che su questo territorio fanno tantissimo, spesso sopperendo alle mancanze delle istituzioni. Sono indispensabili con il loro infaticabile impegno. Chiudiamo con la domanda alla Marzullo che facciamo a tutti: La domanda che non ti ho fatto e che avresti voluto ti facessi: fatti la domanda, dacci la risposta Non saprei. Mi hai fatto tante domande che non so dove metterai le risposte. Allora… mi chiedo: Se avessi dei soldi che farei? Un centro dove possono stare gli anziani, dove possono convivere con gli animali, con tanto verde e dove posso incontrare tanti giovani e raccontare le loro esperienze. Un luogo dove i genitori si sentano sicuri e dove si impegnano a portare i loro figli senza lasciarli da soli per strada o a casa. Dove la scuola è collaborazione tra famiglia e insegnati e non diatriba sciocca per fare in modo che si studi di meno, non ci sia educazione e non ci sia l’amore per il proprio Paese e per l’accoglienza dell’altro chiunque esso sia. Un luogo dove non ci siano diversi. Forse e’ un’utopia per alcuni,

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un sogno irrealizzabile per altri, per me è ciò che si può fare senza nemmeno tanto sforzo, se si vuole. È giovane Nadia ma dove è ora non ci è arrivata per puro caso o per raccomandazioni. Come abbiamo letto ha alle spalle tanti anni di gavetta che la hanno portata a trasformare una passione, nata sui banchi di scuola e cresciuta con lei, in un lavoro che lei svolge con serietà e professionalità ma soprattutto con passione tanto che non le pesa lavorare senza sosta. Forse potrebbe apparire una sfida volere fare un’intervista ad una giornalista come lei perchè ha conosciuto ed intervitsato personaggi notevoli, di grande spessore morale e culturale e continua a farlo, ogni giorno ma l’intento, che lei ha colto, era quello di fare una piacevole chiacchierata. Semplice, la vedo così Nadia, di quella stessa semplicità che lei ravvisa nei personaggi che ha intervistato ed ammirato per questo loro modo di essere e di porsi, non ama mettersi in mostra, pur potendo farlo, avendone i mezzi ma soprattutto la giusta personalità. Decisa, sa quello che vuole e lotta per ottenerlo. Intelligente, ironica, sensibile. Una Sognatrice Realista e non è un ossimoro questo perchè il suo sogno, un luogo dove poter vivere felici, potrebbe divenire realtà con la buona volontà da parte di tutti. Potrei continuare ad elencare le idee che condivido con lei a partire dall’amore per gli animali, per la musica, per i libri, al rispetto per la natura, al culto della famiglia, ma ci sarebbe poi troppo da scrivere concludo con la frase che mi sembra giusta per lei, è di Lauren Kate, Fallen: “Una sensazione di calore l’avvolse mentre si guardava intorno. Aveva sempre amato il lieve aroma stantio che solo una stanza piena di libri emana. Il rumore ovattato delle pagine che venivano voltate le dava tranquillità”.

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Associazionismo

Famiglia di Fatto e Famiglia Legittima quali le differenze di tutela per i figli e per la coppia?

Il 19 Gennaio si è tenuto nei locali del Qmè sito in Via Guglielmo Marconi il primo consueto Caffè Giuridico dell’ Aiga per l’ anno 2017 alla presenza del Presidente Aiga sezione di Lamezia Terme, Avvocato Andrea Parisi che ha introdotto l’ evento, il Presidente del COA Avvocato Antonello Bevilacqua per i saluti, e inoltre alla presenza di numerosi soci Aiga intervenuti. Il convegno in questione dal titolo : “Famiglia di Fatto e Famiglia Legittima quali le differenze di tutela per i figli e per la coppia?”, ha visto come relatrice la dott.ssa Valeria Gaetano la quale dopo essersi unita ai saluti dei Presidenti, ha esposto le problematiche sottese al nostro ordinamento e alla nostra società , riguardo a un tema le unioni di fatto, sempre più presenti e attuali ma di fatto ancora molto contrastate: il legislatore ha cercato di affrontare e risolvere in parte le lacune legislative che tendono a far sussistere ancora sperequazione tra i due diversi nuclei familiari. Se il numero di coppie che attualmente optano per la convivenza sono sempre in costante aumento, viene ancora attribuito loro specialmente nel caso di prole a carico, un comportamento giuridicamente e socialmente disdicevole accusandoli in un certo qual modo di non pensare al futuro dei propri figli. Si ritiene infatti ancora ed in modo del tutto erroneo che l’ ordinamento non tuteli affatto questi minori a differenza dei nati da una coppia unita in matrimonio: in realtà non è affatto così ed è dunque doveroso precisare che non esiste più alcuna differnza per ciò che concerne i figli nati da una o

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dall’ altra unione, ciò è stato possibile grazie alle innovazioni introdotte con la L.219/2012 e successivi interventi che, avendo inciso anche sull’ art.30 della nostra Costituzione, hanno eliminato qualsivoglia differenza precedentemente esistente e anzi hanno teso a rafforzare i principali diritti e doveri dei genitori anche conviventi nei confronti dei figli ( si pensi al dovere di istruire ed educare la prole secondo le proprie capacità economiche e le inclinazioni naturali dei figli) e non assolutamente di secondaria importanza, anche il principio fondamentalmente morale ma oramai anche tutelato da molte pronunce giurisprudenziali, secondo cui, anche i figli concepiti in costanza di convivenza debbano mantenere rapporti effettivamente significativi con i parenti in modo particolare con la figura essenziale e significativa dei nonni. La suddetta figura è stata particolarmente rivalutata dall’ ordinamento stesso, vengono infatti considerati essenziali per la crescita e lo sviluppo sereno del minore e dell’ adolescente. Tuttò ciò porta a un altro assunto particolarmente importante: Se nella coppia convivente dovesse venire a mancare uno dei due partner, non verrà assolutamente dichiarata l’ immediata adottabilità del minore, verrà invece posto in affidamento in primis presso i nonni per l’ importanza degli stessi su esposta e poi se del caso ciò non fosse possibile presso gli ascendenti prossimi. Tutto ciò per garantire al minore una effettiva continuità affettiva con la propria famiglia utile specialmente per la sua crescita interiore. Se nessuna

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differenza dunque esiste più tra matrimonio e convivenza per quanto riguarda la prole, ciò non vale per il rapporto tra i partner, nonostante l’ entrata in vigore della Legge Cirinnà nel Giugno del 2016 abbia apportato numerose modifiche in tal senso. Con l’ entrata in vigore della suddetta legge i conviventi hanno oramai pari diritti assistenziali in caso di ricovero e malattia del partner, possono qualora lo vogliano, dichiarare il loro status e dunque la volonta di costituire una nuova famiglia mediante apposito modulo da compilare e presentare poi all’ anagrafe, il partner inoltre potrà avere diritto al mantenimento su pronuncia del giudice, qualora non sia capace da solo di provvedervi e qualora anche i suoi ascendenti prossimi, non siano in condizioni di farlo. Ancora il partner del convivente venuto a mancare o in caso di figli con disabilità potra continuare ad abitare presso la casa comune per un periodo di due anni o per un periodo pari alla convivenza se superiore, in ogni caso non si potranno superare complessivamente i cinque anni. Come ben si può constatare dall’ esame di alcuni punti fondamentali della Legge Cirinnà, molti sono stati i passi avanti del legisltatore verso una possibile equiparazione di fatto per le unioni civili. Nonostante ciò molti saranno ancora i passi avanti da fare per arrivare a una quasi equiparazione tra le due fattispecie, sebbene nel fare ciò i legislatore dovrà contemperare i vari interessi in gioco, ed evitare ingiustificate differenze a favore dell’ una o dell’ altra.

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Associazionismo

Francesco Polopoli in Conversazione gioachimita: il pensiero nell’attualità all’Uniter di Lamezia Terme

L’Uniter di Lamezia terme da anni sul territorio con due lezioni settimanali, il mercoledì ed il venerdì, dalle 17,00 alle 18,30, nei locali della Casa Del Sacerdote, offre ai soci approfondimenti interessanti su varie discipline del sapere. Compito di chi si occupa della scelta degli argomenti da proporre è avere lo sguardo libero e curioso sulle varie opportunità che offre il territorio nel campo artistico e di ricerca. Così è successo anche questa sera con l’interessante proposta di Costanza FalvoD’Urso che avendo letto della relazione di Francesco Polopoli (Cosenza), Echi lucreziani e gioachimiti nella “Primavera” di Botticelli presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, ha invitato lo studioso nei saloni dell’Uniter. Molte altre sono le proposte presenti nel programma, fra cui segnalo la presenza di Anna Vinci, biografa ufficiale di Tina Anselmi giorno 8 marzo. .Siamo alla fine della conferenza all’Uniter di Lamezia Terme ed aprendo il medaglione con simbolo gioachimita che Francesco ha appeso al collo leggiamo: Nos esse quasi nani super humeros gigantum insidentes noi siamo come nani sulle spalle di giganti, possiamo vedere più cose di loro e più lontane perché siamo sollevati e portati in alto dalla statura dei giganti. Francesco Polopoli, docente di latino e greco presso il liceo classico di San Giovanni in Fiore è uno studioso di Gioacchino da Fiore, membro del “Centro internazionale di studi gioachimiti” Gioacchino da Fiore, abate, teologo, nato a Celico, 1130 circa e morto a Pietrafitta, 30 marzo 1202, figura profetica e attuale del quale Francesco stasera ci ha proposto alcuni documentari sulla vita insieme ad una sua personale rilettura delle tavole miniate del Liber figurarum. Senza appunti scrivo di ciò che mi è rimasto di una lezione elettrica fatta da un professore in t-shirt che inizia col raccontarci una sua esperienza a Bergamo, dove era stato incaricato dalla Provincia di studiare le forme dialettali con derivazioni dal latino. Significato, significante, segni, ogni parola è una storia, così come la goccia che in bergamasco vuol dire niente. Nella piacevolezza del suo essere docente ringrazia un alunno

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che ha tradotto in inglese il suo lavoro presentato di recente all’Università Cattolica di Milano. Studenti: fiori che daranno frutto, ci dice lui. Legge un pensiero del Cardinale Ruini sul Logos che appartiene a Gioacchino da Fiore, logos che si compenetra nella Charitas, così come la Charitas di San Francesco si compenetra nel logos. Compenetrazione di intelletto e cuore. Dai cistercensi ai Florensi la via umanistica di Gioacchino da Fiore. da qui a novecento anni fa. Un intellettuale, un profeta, Gioacchino da Fiore, conosciuto da Leonzio Pilato e studiato da Dante, da Petrarca, come colui che vide prima. Un grande umanista, lo definisce stasera Francesco Polopoli, un uomo che ricercava nella lingua, nell’origine delle parole, il senso, un uomo che univa l’antico col nuovo che fiorisce. Iure Vetere. L’antico col nuovo, perché nulla si può conoscere di nuovo se prima non si conosce la rete intricata delle parole con i simboli , le derivazioni di molti linguaggi. In questa affascinante ricerca io stessa mi esalto perché l’etimologia è veramente la più bella delle avventure e spalanca la comprensione di ogni gesto umano. Spiega infatti via via Francesco il significato di misericordia, di religione, di cerebrum, cervello, fatto di cera, malleabile eppure che giudica, ma ogni parola è fantastica e la lingua è una rete, che permise a Gioacchino, conoscitore di più lingue di avviare quel nuovo umanesimo proiettato nel futuro. Un clochard del suo tempo, Gioacchino viene definito stasera e amenfedeltà alla sovranità di Dio, partendo dalla lingua semitica da destra verso sinistra e poi da sinistra verso destra, leggendo segno per segno, come sapeva leggere Gioacchino. Leggendo capiamo e guardiamo le tavole disegnate da Gioacchino da Fiore, le tre età, l’età del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo con il pensiero rivolto a quei monti della Sila, alla confluenza di fiumi, al possibile incontro già vagheggiato fra popolo ebraico e popolo cristiano, a Francesco che raccoglie e conserva studi su studi per ridonarceli nella splendida nuova alba del secondo millennio. Finiamo nei cerchi di Gioacchino, ognuno col suo colore, verde azzurro e rosso e in tutti i colori che Gaudì ci regala sulla t-shirt di Francesco nel grande medaglione della conoscenza.

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Associazionismo

Giornata della memoria Il Rotary club di Lamezia Terme ricorda le vittime della Shoah

Richiamare alla nostra memoria e alla nostra coscienza il ricordo di questo tragico ed oscuro periodo della storia e trasmetterlo alle giovani generazioni come monito affinché quello che è accaduto non accada mai più. Conoscere, educare ai valori della convivenza civile per prevenire, perché ciò che è accaduto può ritornare, le coscienze possono nuovamente essere sedotte e oscurate. Questo il senso del Giorno della Memoria celebrato dal Rotary Club di Lamezia Terme con un incontro svoltosi il 27 gennaio presso il Savant Hotel. L’incontro è stato introdotto dal Presidente Giuseppe Senese il quale ha sottolineato l’importanza del Giorno della Memoria, ricorrenza internazionale celebrata il 27 gennaio di ogni anno in ricordo delle vittime della Shoah, e si è soffermato sul valore della memoria e sull’insegnamento che dobbiamo trarre da questa terribile pagina di storia dell’umanità affinché non si ripeta mai più quello che è accaduto, invitando ad essere sempre vigili davanti ai nuovi sintomi di razzismo e intolleranza che si colgono nella società, anche a causa della recente immigrazione. L’intervento di Natalia Majello, Prefetto del club lametino, ha ripercorso le vicende storiche che hanno portato alla Shoah, illustrando il processo di progressiva emarginazione degli ebrei dalla società tedesca poi sfociato nella decisione, presa dai vertici nazisti nel gennaio del 1942, di porre fine alla questione ebraica attraverso lo sterminio sistematico, la “soluzione finale”. La Majello si è soffermata sull’orrore dei campi di sterminio, la cui cruda realtà apparve per la prima volta quando, il 27 gennaio del 1945, le avanguardie delle truppe sovietiche raggiunsero il campo di concentramento di Auschwitz, luoghi “dove si sono perpetrate atrocità inaudite, dove si è consumato il sacrificio di tante vite, di esseri umani considerati diversi e inferiori a cui è stata tolta non solo la vita, ma ne sono state annullate l’identità e la dignità”. Ha ricordato che tra i tanti massacri e genocidi di cui purtroppo è costellata la storia dell’uomo, quello della Shoah, teso allo sterminio di un intero popolo, è stato il più razionalmente pianificato della storia dell’umanità e, particolare non di poco conto, concepito in Germania, una nazione nel cuore dell’Europa e strettamente partecipe di quella tradizione di cultura umanistica e cristiana, uno dei cui valori fondamentali è il rispetto della persona umana. “La Shoah dimostra quanto fragili siano in fondo le basi sulle quali poggia la civiltà, e quanto ancora la natura umana rimanga soggetta alla capacità di concepire e perpetrare il male”- ha detto. Ha sottolineato poi, che se non si vuole che la Shoah subisca l’usura del tempo finendo per essere considerata un fatto “ordinario”

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per quanto tragico della storia, è importante conoscere, tenere viva la memoria e trasmetterla alle giovani generazioni come monito perenne contro ogni persecuzione e ogni offesa alla dignità umana, affinché quello che è accaduto non si ripeta. Il Giorno della Memoria, quindi, come occasione per commemorare le vittime della Shoah, ma anche di acquisizione consapevole di conoscenza. Giorno in cui ricordare e onorare i tanti giusti e le tante azioni eroiche, ma ricordare anche le colpe di chi, anche in Italia, per interesse o per paura, si fece complice dei carnefici. “La memoria è un possente strumento per capire il passato e per rispondere alle sollecitazioni del presente – ha aggiunto - ma ad essa va associata una formazione basata sui valori e sulla consapevolezza”. Ha ribadito, quindi, quanto sia importante puntare sulla cultura e sulla formazione dei giovani ai valori della libertà, della solidarietà, del rispetto, allo sviluppo del senso critico e dell’autonomia di pensiero, per farne “teste pensanti” capaci di opporsi al male e rifuggire dal rischio dell’omologazione. E, inoltre, quanto sia importante, considerati gli scenari che si stanno delineando in Europa e nel mondo, la crescente immigrazione e il propagarsi di nuovi germi di razzismo e intolleranza, che vengano difesi e alimentati gli ideali di libertà, democrazia e uguaglianza, patrimonio “tanto grande quanto fragile”. Nel corso della relazione è stato ricordato Primo Levi di cui ricorre quest’anno il trentennale della morte, testimone fedele e intransigente dell’indicibile orrore nazista. È stato ribadito come Levi e gli altri sopravvissuti ai campi di sterminio, con le loro vivide testimonianze, abbiano contributo non solo alla conoscenza della Shoah, ma anche, e molto, alla sensibilizzazione delle coscienze e ad arginare tesi negazioniste. La loro volontà di testimoniare, percepita come obbligo morale e civile, ha fatto sì che venisse narrato l’indescrivibile affinché rimanga vivo il senso dell’orrore e la memoria storica non vada smarrita. A conclusione dell’intervento della Majello è stato proiettato un filmato su Primo Levi e sui campi di sterminio. Ad esso ha fatto seguito l’intervento della socia Luciana Parlati la quale, con voce vibrante, ha letto alcuni passi degli scritti di Primo Levi. Pagine che narrano la terribile vergogna dei campi di concentramento e che hanno suscitato profonda emozione tra i convenuti. Agli interventi è seguito un interessante dibattito a cui hanno partecipato diversi soci.

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Scuola

La scuola primaria dell’Istituto

di S. Eufemia

in visita alla

Comprensivo Tipogafia Grafichè

Le classi seconde A e B della scuola primaria dell’Istituto Comprensivo di S. Eufemia Lamezia, nell’ambito del progetto lettura “E per amico un libro”, teso a sollecitare il piacere di leggere e a fornire le conoscenze necessarie per realizzare un rapporto attivo - creativo e costruttivo con l’oggetto “libro” attraverso cui si alimenta l’immaginario infantile, hanno organizzato un’uscita didattica nella nostra tipografia “Grafichè Perri”. L’uscita, finalizzata a introdurre gli alunni nell’universo affascinante del libro e far loro conoscere, attraverso modalità esplicative semplici e coinvolgenti, la sua nascita tipografica e oggettuale e il suo successivo “destino” divulgativo, parte dal presupposto che nella scuola primaria bisogna alimentare nel bambino quel gioco infantile che è il “provare curiosità”. Nello stimolare la curiosità verso il libro intervengono diverse esperienze, non ultima quella di capire come esso nasca e diventi libro, appunto;ossia, di capire come una storia, nata dall’immaginazione di chi scrive, acquisti materialità, diventi un oggetto quasi magico attraverso cui, col semplice gesto dello sfogliare le pagine, permetta di entrare in mondi nuovi, di scoprire dimensioni immaginifiche coinvolgenti, storie da cui lasciarsi condurre e affascinare. Così, pieni di curiosità, sono giunti i bambini :numerosi, vocianti e desiderosi di conoscere. Accompagnati e sollecitati nelle loro curiosità dalle insegnanti, è iniziato il loro speciale viaggio intorno al libro, alla sua nascita attraverso il processo della stampa tipografica. Prima un po’ di storia con l’incontro degli antenati: i caratteri mobili incisi su legno con cui comporre le pagine; il più antico computer per la stampa, attraverso cui si realizzavano le parole e le frasi direttamente con il piombo fuso. L’esplorazione, la voglia di toccare, di sperimentare la consistenza e la forma di ogni singolo elemento spiegato hanno fermentato la loro curiosità, e i loro occhi somigliavano tanto ad appendici mobili

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con cui sfiorare gli oggetti con lo sguardo prima che con la tattilità delle mani. Il seguito del percorso è stato un vivace ed intenso andare e venire da una macchina all’altra, guidati dai nostri addetti con esemplificazioni pratiche,ma condotti anche dalla curiosità di conoscere il funzionamento di ogni singolo strumento tipografico. Li ho visti incantati davanti alla macchina per tagliare a misura la carta; a seguire, in un rincorrersi febbrile, la stampante di volantini e stampati di piccolo formato( brochure, pieghevoli ecc.); poi la piegatrice e la spillatrice per il momento del loro allestimento finale. La macchina per la stampa di manifesti e di libri li ha poi completamente irretiti, poiché dopo essere stati fotografati e dopo aver assistito all’elaborazione informatica della foto, hanno visto uscire dai rulli della stampante la gigantografia in quadricromia dei loro visi sorridenti e in posa. Tanti altri sono stati i momenti che li hanno visti coinvolti e attratti: la dimostrazione dei passaggi necessari per “costruire” in tipografia un libro;la rifinitura con la cucitura e la brossura, la realizzazione della “fustella” ecc. Sono stati affascinati da tutto ciò che si presentava davanti ai loro occhi e hanno seguito con particolare attenzione le varie fasi in cui si è esplicato il viaggio conoscitivo. Non è mancata la pausa musicale e canterina:un vero e proprio omaggio al momento e al luogo. Un grosso bidone per i residui cartacei è diventato un inusitato bongo da cui è partito il ritmico movimento di percussione che ha accompagnato una originale versione di una tarantella di Modugno. E’ incredibile dove possa arrivare la fantasia e la capacità di gioco felice dei bambini… fino alla costruzione dell’apprendimento, della voglia di sapere e di sapere ancora… giocando. E’così che Il progetto di una scuola induce a leggere per il gusto di leggere e il libro, naturalmente, diventa “amico” insostituibile del proprio tempo, del proprio processo di crescita.

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Spettacolo

Notre Dame de Paris nel 2017 nuova tappa in Calabria “Notre Dame de Paris”, il più grande successo di sempre nella storia dello spettacolo in Italia ha ripreso le rappresentazioni per le feste di Natale e ci accompagnerà almeno fino alla metà del 2017. Dopo una prima parte di tour rovente con dei veri e propri “bagni di folla” che hanno infiammato i cuori del pubblico, è inziata una seconda parte a grande richiesta che, ripartita dalla capitale il 28 dicembre scorso, ora toccherà i principali capoluoghi della penisola nel 2017: Torino, Bologna, Milano, Ancona, Bari, Napoli, Lugano, Rimini, Firenze, Padova, Cosenza e altre se ne stanno aggiungendo. Alcune sono tappe nuove, altre sono ritorni dopo il trionfo delle rappresentazioni andate in scena quest’anno. In un momento storico particolarmente difficile come quello attuale, il bilancio di questo incredibile ritorno fa gridare al miracolo: l’opera musicale firmata da Riccardo Cocciante ha fatto impennare le vendite dei biglietti a teatro quest’anno, capitanando la classifica dei titoli, e superando le presenze dei più grandi live della musica rock e pop. Sono infatti oltre 700mila i biglietti venduti ad oggi e ben 23 le città visitate (da Trieste a Reggio Calabria passando per la Sicilia e la Sardegna) per un totale di 179 repliche a colpi di sold out, con pubblico in delirio e critiche entusiaste. Ben 20.000 le presenze lo scorso novembre al Palacalafiore di Reggio Calabria, in una tappa ormai storica organizzata dal promoter Ruggero Pegna che, dopo l’enorme successo reggino, ha voluto programmarla per la prima volta a Cosenza, nella cornice dello stadio San Vito, nei prossimi 23, 24 e 25 giugno, con il Patrocinio e la collaborazione del Comune di Cosenza, Assessorato ai Grandi Eventi. “Notre Dame de Paris” oltre ad essere il più grande successo di sempre nella storia dello spettacolo in Italia, è anche lo show più importante che sia mai stato prodotto in Europa. E’ diventato un vero e proprio “cult”, grazie soprattutto al grande amore che l’affezionatissimo pubblico gli tributa ogni sera, affollando le rappresentazioni in ogni città della penisola. In undici anni di

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programmazione, ha superato i 3.500.000 di spettatori in circa 1.000 repliche, 42 le città visitate in Italia per un totale di 114 tappe. “Notre Dame de Paris ha cambiato il modo di fare un certo tipo di spettacolo” afferma Riccardo Cocciante “Il mio intento era quello di creare un’espressione popolare moderna, recuperare la nostra cultura europea e lo strumento della voce, e inserirle in un contesto moderno. Quest’opera non è una fotografia ma un’immagine in movimento che vive nel tempo e diventa ogni volta qualcosa di diverso, grazie alla forza attrattiva di una scrittura che ti porta dentro alla storia”. E il produttore David Zard aggiunge “Tenere conto del pubblico è la prima cosa nel nostro lavoro. Dare certezze al pubblico è fondamentale. Notre Dame de Paris ha questo enorme successo perché è onesto, mantiene ciò che promette.” “Notre Dame de Paris” è l’opera popolare moderna tratta dall’omonimo romanzo di Victor Hugo, prodotta da David e Clemente Zard, con le musiche di Riccardo Cocciante e le liriche di Luc Plamondon adattate in italiano da Pasquale Panella. In scena un cast d’eccezione: Lola Ponce (Esmeralda), Giò Di Tonno (Quasimodo), Vittorio Matteucci (Frollo), Leonardo Di Minno (Clopin), Matteo Setti (Gringoire), Graziano Galatone (Febo) e Tania Tuccinardi (Fiordaliso), assieme al secondo cast e agli oltre 30 ballerini e acrobati. “Provo un’enorme gratitudine nei confronti degli spettatori italiani. Moltissimi tornano a vederci, continuamente, e sono sempre di più! Notre Dame de Paris ha cambiato le loro vite, e le nostre: un’esplosione di energia e di amore che viviamo ogni sera” dichiara Lola Ponce, e Giò Di Tonno racconta che “oggi affrontiamo questo spettacolo con maggior consapevolezza ma senza aver perso la voglia di divertirci. Quando abbiamo iniziato 14 anni fa sentivo di dover fare uno sforzo in più per conquistare il pubblico, oggi sono molto più sicuro e voglio solo dare emozioni. Ed il bello è che in tutti questi anni noi siamo cambiati ma l’entusiasmo del pubblico è rimasto intatto. L’opera ha ancora più successo di prima e ogni sera ne siamo esterrefatti.”

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Spettacolo

Tenco 50 anni dopo: il mondo di ieri e di oggi in quel biglietto

Il mondo è rimasto quello lì. La società italiana, i suoi gusti, le sue tendenze, quelle logiche che fanno andare avanti alcuni e restare indietro altri, sono ancora descritti nelle poche righe di un biglietto ritrovato nella stanza numero 219, dell’ Hotel Savoy di Sanremo, alle prime ore del 27 gennaio 1967. Qualcuno ne mette in dubbio l’autenticità, altri dicono addirittura si tratti di righe scritte per depistare. Ma accanto al corpo senza vita di Luigi Tenco, esattamente 50 anni fa, c’erano queste parole: “ Io ho voluto bene al pubblico italiano e gli ho dedicato inutilmente cinque anni della mia vita. Faccio questo non perché sono stanco della vita (tutt’altro) ma come atto di protesta contro un pubblico che manda Io tu e le rose in finale e ad una commissione che seleziona La rivoluzione. Spero che serva a chiarire le idee a qualcuno. Ciao. Luigi.” Il mondo è ancora oggi quello che Tenco abbandonava 50 anni fa, puntandosi una pistola alla tempia. Una calibro 22. E non era l’eliminazione della canzone cantata al Festival insieme a Dalida, la speranza delusa di un ripescaggio, una serie di situazioni che non andavano come qualsiasi artista vorrebbe. Era un mondo che non era fatto e continua a non essere fatto per quelli che non amano le canzonette e le copertine, la banalità dei contenuti nascosti da forme stravaganti, l’apoteosi di rumori e suoni che svuota di significato le parole e i testi. Luigi Tenco e altri come lui non erano fatti per quel

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mondo. In una recente intervista, Gino Paoli è tornato a parlare dell’amico compagno di quella “scuola genovese”, che vide crescere e fare successo De André, Bruno Lauzi, Umberto Bindi. Gino Paoli, riguardo a quella ultima sera di Tenco, dice che si toccava con mano la sua estraneità, come se si trovasse in un altro mondo. E involontariamente con le sue parole, Paoli coglie ciò che sta dietro un suicido che racconta al tempo stesso il dramma di un uomo, di un artista, il dramma di una società travolta dal boom economico e dalle dinamiche del capitalismo rampante che lasciava indietro senza pietà chi non riusciva ad andare a tempo, chi non si omologava, chi non era bravo a giocare con i numeri alti. Di “un giovane idealista”, parla di lui

Aldo Colonna, in una recente biografia sul cantante, sottolineando il suo “assillo

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di essere costantemente significativo”, il suo essere a disagio in un mondo in cui si faceva strada lo star system a suon di canzonette mentre lui attraverso la musica voleva impegnarsi. Impegno che per lui era anche sociale, politico, ma in senso lato, insito nelle sue canzoni più esplicitamente di protesta, da Cara Maestra a Ognuno è Libero, così come in Ciao Amore Ciao, brano che tocca il tema dell’emigrazione degli italiani verso l’America, e nei romantici versi di classici quali Mi Sono Innamorato di Te e Vedrai Vedrai. Ma quel mondo non faceva per lui. Era un mondo frenetico, estremamente ingiusto, dove la velocità e la quantità avevano rimpiazzato la qualità e il senso. Un mondo che a chi voleva essere a tutti i costi “significativo”, o chiudeva le porte oppure rendeva la vita insopportabile. E proprio “la vie m’est insupportable” scriverà Dalida, anche lei su un biglietto ritrovato nella sua stanza, prima di compiere quel gesto estremo che li avrà ricongiunti “lontano nel tempo” a parlare di un amore ormai troppo lontano. Rileggere quel biglietto di Luigi Tenco, cinquant’anni dopo il fatto di cronaca che racconta il travaglio di un’epoca e di un Paese, fa venire i brividi. Per l’attualità di una società escludente e di una solitudine che continua ad attanagliare chi si azzarda semplicemente a “pensare” prima di “consumare“. Quel biglietto squarcia il velo su una realtà attualissima, per dirla con le parole messe in bocca da Goethe al giovane Werther, fatta di gente che “nella vita non si preoccupa d’altro che del cerimoniale, che per anni sognano e calcolano solamente come intrufolarsi a tavola un posto più su”. Le idee forse in questi cinquant’anni non ce li siamo chiarite. Continuiamo ad escludere e a lasciare soli chi non sta al gioco del sistema. E puntualmente continuiamo a piangere ex post e a commemorare. 50 anni e un biglietto da rileggere. Ciao Luigi.

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Io, due gambe e quattro ruote - totosaff@gmail.com

Sesso & Disabilità

Questo mese ci occupiamo di un tema delicato, su cui negli ultimi mesi in Italia e anche nella nostra città si è sviluppato un vivace dibattito: i “lovegiver”, la possibilità per le persone con disabilità di ricevere prestazioni da parte di professionisti accreditati per poter vivere la loro sessualità. Come tutti i temi che intrecciano questioni etiche e ciò che attiene alla dimensione intima della vita persone, è giusto che vi siano diversi punti di vista e diverse prospettive di riferimento. Per questo vi proponiamo due articoli che esprimono due posizioni diverse sul tema: Salvatore D’Elia, nostro collaboratore da molto tempo, e Antonio Saffioti vicepresidente Fish Calabria. Immaginate, di avere un’irrefrenabile voglia di toccarvi le zone erogene per procurarvi piacere ma di non poterlo fare perché intrappolati nel vostro corpo… vi sentireste di sicuro nervosi e frustrati. Io da 5 anni, con l’aggravarsi della mia disabilità e non potendo soddisfare autonomamente le mie pulsioni sessuali, vivo la rabbia e la frustrazione di cui parlo; tant’è che la notte sogno di esplorare il mio corpo e non di fare sesso con Scarlett Johansson. Allo stesso tempo però, da quasi 5 anni - siti internet, social network e numerosi media tradizionali (quotidiani, agenzie di stampa, riviste e settimanali), si stanno occupando del “rapporto tra sessualità e disabilità” stimolando dibattiti sulla figura dell’Assistente Sessuale per le persone con disabilità previsto nel relativo Disegno di Legge n. 1442 del 2014. Tale argomentazione suscita differenti posizioni ideologiche contrastanti da parte di molteplici attori sociali quali: cattolici e laici, “bigotti” e “radical chic” nonché Associazioni di varia natura. Nell’ordinamento internazionale e nazionale la salute è un diritto umano fondamentale indispensabile per l’esercizio di altri diritti umani. Di conseguenza, la salute sessuale e riproduttiva e i relativi diritti costituiscono un elemento fondamentale della dignità umana di cui occorre tener conto nel contesto più ampio della discriminazione strutturale. Pertanto Il diritto alla sessualità, latamente inteso, chiede di essere garantito al pari di tutti i diritti fondamentali delle persone con disabilità, nel contesto di una prospettiva di inclusione e valorizzazione dell’autodeterminazione. Nonostante quanto premesso, le tematiche inerenti la sfera affettivo-sessuale delle persone con disabilità, sono state messe in luce con notevole ritardo rispetto ad altri argomenti di interesse sociale come il lavoro, la scuola, la famiglia, le barriere architettoniche ed altro ancora, in quanto categorizzate come dei tabù da celare a causa della loro complessità e in netto contrasto con le ideologie di “etica di vita”, religione, opinione pubblica dominante nella società moderna e post-moderna. Alla fine degli anni ’70 iniziano i primi dibattiti che vedono coinvolti persone con disabilità, genitori e operatori socio-educativi e assistenziali-riabilitativi per discutere questi argomenti

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considerati “scottanti” ma sempre più bisognosi di essere riconosciuti e legittimati. Alla fine degli anni Novanta in Italia si giunge a discutere in merito al servizio di “Assistenza Sessuale” – figura operante già da anni in alcuni Paesi europei (Danimarca, Germania, Paesi Bassi, Svizzera e Austria). Nel 2012 Maximiliano Ulivieri, persona con disabilità promotore di vari siti internet, lancia LoveAbility: un sito che riporta storie, annunci per e tra persone disabili (ma non solo). Lo stesso anno esce nelle sale cinematografiche il film americano The Sessions e gli stessi argomenti vengono poi riproposti nel documentario italiano The Special Need nel 2013. Nel 2014 è stato pubblicato il volume di Giorgia Wurth “L’accarezzatrice”. L’anno prima era uscito il documentario Sesso, Amore & Disabilità, che pur non essendo specificamente centra-

to sulla figura dell’assistente sessuale. A fronte di questa “rivoluzione” ideologica (anche se ancora di lieve intensità e labile comprensione) nasce un Comitato per riconoscere e promuovere la figura di Assistente Sessuale in Italia. A tal fine, il suddetto Comitato sviluppa un proprio sito (lovegiver) per sostenere una petizione a favore del Disegno di Legge sopra citato che identifica e decreta a livello legale questa nuova figura professionale. Sostenuto da alcuni Parlamentari La proposta trova sostegno attraverso fonti di diversa natura: nell’area del partito radicale (Associazione Luca Coscioni), da parte del giornale «Il Fatto Quotidiano», da parte di alcuni esponenti del Movimento LGBT e viene ripresa da un’infinità di siti, blog, pagine Facebook e quotidiani. La proposta viene inoltre sostenuta anche da un punto di vista “scientifico” da parte dall’IISS (Istituto Italiano di Sessuologia Scientifica) di Roma. Avrete capito che, personalmente, sono più che

favorevole all’introduzione in Italia di tale figura professionale, senza nascondere che ne beneficerei volentieri. Le voci e le opinioni sono tante: C’è chi dice che l’assistente sessuale è solo una prostituta, C’è chi sostiene che l’amore non si compra, C’è chi obietta che lo stato non può pagare le prostitute ai disabili. A costoro, io rispondo: Ai primi, specifico che l’assistente sessuale, sarebbe una figura professionale qualificata da corsi di formazione ad hoc, dotata di empatia e inoltre in nessun caso sarebbe previsto un rapporto completo, la penetrazione o sesso orale, ma verrebbe dato piacere solo tramite gesti empatici e sex toy. Il fatto che non avvenga penetrazione o sesso orale non è una “clausola” per rende più “accettabile” tale figura ma è il sottolineare che il piacere e il beneficio che deriva da tale incontro è il provare sensazioni che fanno sentire vivo il proprio corpo. Ai secondi, sottolineo che noi persone con disabilità non vogliamo “comprare l’amore” ma vogliamo poter essere supportati nel riappropriarci del nostro corpo, nel poter godere di quel che il nostro fisico è in possesso e in grado di provare. Ai terzi, evidenzio infine che lo stato non spenderebbe nulla in quanto, i 100 euro ipotizzati come compenso per il servizio saranno a carico delle persone con disabilità. Inoltre, migliorando la qualità di vita delle persone in oggetto, si ridurrebbero le spese a carico del sistema sanitario nazionale (psicofarmaci, cure psicologiche ecc.). Detto questo, se mi trovate una escort empatica e qualificata sulle disabilità, fornitemi il numero, a me va bene! Addentrandoci maggiormente da un punto vista più piscologico della questione, l’incontro con un Assistente Sessuale (perché è così che dovrebbe essere chiamato: INCONTRO) è qualcosa che va al di là del semplice rapporto in cui si provano solo sensazioni fisiche. Ma è un incontro caratterizzato dall’empatia, dalla scoperta e dal piacere umano di sentirsi e trovarsi. L’essere umano è “un’unità bio-psico sociale”: è cioè fatto di carne, mente, relazioni e spirito (inteso come spiritualità). Nessuno di questi aspetti deve essere negato, ridotto, o confuso con gli altri. In psicologia si parla di “errore di

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“Lovegiver”:

lasciateci credere che l’amore non si compra

Tradotto alla lettera, il loro nome vuol dire “donatori d’amore”. Non vi è ancora una disciplina specifica, né un ordine professionale, ma già il consiglio regionale della Toscana ha adottato una risoluzione che impegna la giunta regionale ad andare verso il riconoscimento dell’assistente sessuale per i disabili e un disegno di legge in materia giace nei cassetti del Parlamento Italiano dal 2014 presentato dal parlamentare del PD Sergio Lo Giudice. Ed esiste un comitato, Lovegiver, fondato da Maximiliano Ulivieri, che spinge per introdurre una disciplina della materia e promuovere la pratica.

Nei prossimi mesi, dunque, in Toscana dovrebbe svolgersi il primo corso di formazione per aspiranti lovegiver, figure professionali provenienti da vari campi che dovrebbero permettere a persone con disabilità fisiche di provare forme di soddisfazione sessuale. Un progetto sperimentale, quello della Toscana, che potrebbe allargarsi ad altre regioni e al Paese. E’evidente che si tratta di un tema complesso, che tratta di un ambito che è un “terreno sacro”, il mondo della disabilità, ambito in cui la garanzia effettiva dei diritti e la buona qualità della vita delle persone rappresentano la cifra dell’umanità di una società e della civiltà di un Paese. In quella “buona qualità della vita” non c’è una definizione astratta, ma sono inclusi tantissimi aspetti, ben sintetizzati nella Convenzione Onu per i diritti delle persone con disabilità adottata dalle Nazioni Unite nel 2006: l’accesso alle cure, l’assistenza nei vari aspetti della vita quotidiana per le persone con disabilità e le loro famiglie, l’inclusione nei percorsi scolastici, lavorativi, professionali… Ma alla base di tutto questo, c’è un concetto: quello di persona. Le battaglie fatte in questi anni da associazioni, famiglie, è stata indirizzata verso un messaggio da far comprendere, accettare e concretizzare: la società si avvicina non a un “caso clinico”, non si avvicina a una malattia, ma a una persona. E nella dimensione della persona è inscritta quella naturale inclinazione ad amare e ad essere amati. E il bisogno di amore non si riempie come un bicchiere vuoto Cartesio” quando si cerca di dividere la mente dal corpo. La persona con disabilità è anch’essa un ESSERE UMANO COMPLETO, e privarlo di uno di questi aspetti significa non rispettarlo e non permettergli di godere ed esprimere il suo “essere un Umano”. Il piacere di sentire il proprio corpo rientra perfettamente in tale concezione. Si evince quanto sia dunque delicato il ruolo dell’Assistente Sessuale. Esso deve essere caratterizzato da empatia e trasporto vivo nella relazione tra lei/lui e la persona con disabilità. Tuttavia, il Disegno di Legge n. 1442 (Disposizioni in materia di sessualità assistita per persone con disabilità) non è l’unica soluzione possibile per il superamento degli ostacoli per la soddisfazione dei bisogni sessuali e, tantomeno, è la soluzione per tutte le persone con disabilità che non costituiscono un gruppo omogeneo. Vi sono, infatti, forme diverse di disabilità, che possono anche incidere, in maniera lieve o grave, su strutture o su funzioni corporee connesse alla vita sessuale, ma quando residuino delle abilità esse devono poter trovare espressione, anche grazie all’interazione di fattori personali o ambientali. Quindi oltre questo servizio di cui abbiamo fin ora parlato, ci sono

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e non si appaga come si appaga la sete bevendo un bicchiere d’acqua. Il parallelismo usato dall’autrice del libro “L’accarezzatrice” di Giorgia Wurth reggerebbe se parlassimo di corpi, di vuoti da riempire, di sensi che cercano appagamento. Ma parliamo anche di anime, di bisogni di affetto e tenerezza. Di un desiderio di felicità che sia per sempre, anche qualora i giorni di vita dovessero essere pochi. In una parola, parliamo di persone. C’è tutto un mondo di affetti che non si possono comprare e che l’assistente sessuale non riuscirebbe mai a garantire al suo cliente. Basti un solo esempio. Capita alle persone sole, nel disperato tentativo di uscire dalla loro solitudine, di spendere energie, tempo e addirittura soldi per le persone delle quali si vorrebbe la confidenza e la compagnia: regali, cene pagate, favori..Saremmo anche disposti ad arrivare sulla luna e portarne giù sulla terra un frammento. Ci ritroveremo nella stessa solitudine di prima, con una consapevolezza in più: l’amore non si compra. Mai. Ogni sforzo è inuile. Nel massimo rispetto per chi vorrà intraprendere la nuova professione così come per le persone con disabilità che si battono perché questa attività venga disciplinata e che magari ne usufruiranno in futuro, almeno ci sia consentito con umiltà di mettere in guardia da un rischio peggiore della paventata cura: il rischio dell’acutizzarsi della solitudine, del vuoto che resta dopo i pochi istanti dell’appagamento fisico. E questo non per moralismo, ma per la constatazione concreta che vivono quanti, anche non disabili, vogliono riempire solitudini cercando di comprare ciò che comprare non si può. In una delle sue canzoni Battisti parlava di “un gaio gesto d’amore che amor non è mai” e, immaginando un dialogo con una “erogatrice” d’amore, le diceva di non avere soldi e per questo di non poterlo comprare. Perché l’amore non si compra. Forse dovremmo reimparare a donarlo e a donarlo gratis. Ad essere professionisti, senza albo regionale e senza fondi ad hoc, nel riempire le solitudini del prossimo. Ad essere “lovegiver” a titolo volontario di una società un po’ più umana.

ulteriori interventi che possono e devono essere implementati e/o ampliati per favorire il diritto ad avere una vita soddisfacente anche da un punto di vista sessuale, quali: Incrementare il livello di inclusione sociale attraverso l’abbattimento delle barriere architettoniche e il potenziamento di servizi di trasporto, l’implementazione di servizi per la vita indipendente e di assistenza personale quantitativamente e qualitativamente idonei; Implementare percorsi di educazione sessuale nelle scuole, con il gruppo classe, per tutti gli alunni con disabilità che hanno uno sviluppo cognitivo non inficiato dalla disabilità stessa, oppure personalizzati per tutti quegli alunni che hanno difficoltà a livello cognitivo; Dare vita a campagne di sensibilizzazione e informazione circa le relazioni intime di persone con disabilità (sia motoria/sensoriale, sia cognitiva; Coinvolgere le persone con disabilità in training di crescita personale, sotto il profilo della gestione delle emozioni, dell’assertività e delle capacità relazionali sviluppando, quindi, processi d’empowerment attraverso la metodologia del Peer counselling; Stimolare le persone con disabilità (e i caregi-

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ver) a prestare attenzione alla cura del corpo e di tutti quei piccoli accorgimenti che possono rendere piacevole l’aspetto della persona con disabilità: Uscendo dal delicato campo psico-sociale, i problemi nel campo politico-legislativo non sono da meno. A tal proposito infatti, sempre nel Disegno di Legge n. 1442, al comma 4, lettera e) dell’unico articolo, ci si limita a rimandare alle Regioni il compito di «definire il tipo e la gravità della disabilità dell’utente che rende funzionale l’intervento professionale dell’assistente per l’esercizio della sessualità», ma ciò solleva una molteplicità di questioni che vanno attentamente prese in considerazione: Delegando alle Regioni la definizione del tipo e della gravità della disabilità, che consentirebbe di accedere al servizio di assistenza sessuale, si produrrebbe la solita disparità di trattamento da Regione a Regione. In conclusione, non ci troviamo di fronte a una «rivoluzione sessuale» come è stato pomposamente scritto su “La Repubblica” il 21 agosto 2014 ma a mio avviso, caratterizzata da aspetti importanti sociali, politici e psicologici di notevole e delicata rilevanza… il dibattito è perciò aperto. PARLIAMONE!

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Calabria continua ad essere uno “sfasciume pendulo sul mare” La

ma non solo dal punto di vista fisico ed ambientale

Nessuno ha amato il nostro Meridione così tanto e così intensamente come il lucano Giustino Fortunato, che insieme al napoletano Pasquale Villari costituisce la coppia dei primi due, grandi meridionalisti della storia d’Italia. L’intellettuale di Rionero in Vulture ha speso la vita, impegnandosi senza sosta, con tutti i mezzi culturali e politici a sua disposizione, per il riscatto del Meridione, la promozione e lo sviluppo delle sue popolazioni, la salvaguardia del territorio. Da intellettuale moralmente coerente, politico accorto e storico perspicace, ha analizzato con lucida consapevolezza le difficoltà in cui si è dibattuto il Mezzogiorno fin da subito dopo il compimento dell’Unità d’Italia; ne ha individuato le cause e denunciato, a più riprese, nella sua vasta produzione letteraria e storica, le responsabilità correlate al suo degrado civile, politico, economico. Nei confronti delle condizioni di arretratezza e di miseria in cui versava la Calabria, che conosceva benissimo per averla percorsa interamente, come lui stesso afferma, dalla Sila all’Aspromonte e dall’uno all’altro mare, l’ analisi di Giustino Fortunato fu spesso impietosa. Nel 1904, pubblicando il volume “La questione meridionale e la riforma tributaria” definì la nostra regione uno “sfasciume pendulo sul mare”. Con questa metafora, il meridionalista lucano si riferiva alle frequenti devastazioni idrogeologiche che le fiumare calabresi, per lo più prive d’acqua ed in secca d’estate, ma gonfiate a dismisura dalle intense piogge invernali, con le loro periodiche esondazioni ed inondazioni, apportavano, con inaudita violenza, al fragile tessuto ambientale calabrese. Proprio com’è avvenuto quest’anno, nello scorso mese di gennaio. Si riferiva, inoltre, alle distruzioni dei ricorrenti terremoti, che nel corso dei secoli, hanno funestato e devastato, sistematicamente, l’intero territorio calabrese. Il comprensorio lametino dell’Area centrale della Calabria – l’Istmo lametino-scilletino - è, in particolare, un territorio ‘prediletto’ dai terremoti tanto che, sistematicamente, ne sconvolgono il tessuto strutturale, fisico ed umano, con distruzioni sempre immani. Basta qui ricordarne alcuni che si sono verificati negli ultimi quattro secoli. Quello del 1638, la domenica delle palme, che, oltre a provocare migliaia di morti, a Nicastro distrusse, insieme a case ed edifici di pregio, il Castello normanno-svevo, la Cattedrale di Nicastro e l’Abbazia benedettina di Sant’Eufemia Lamezia fondata dal Guiscardo nel 1062. Solo il Bastione di Malta, costruito intorno al 1530, rimase in piedi. Acquisito al patrimonio pubblico ai tempi dell’amministrazione Speranza, la cittadinanza aspetta che l’opera di ristrutturazione venga completata e la storica, imponente “Torre costiera” possa essere aperta al pubblico e destinata alla fruizione della comunità sociale lametina. E non solo. Un altro terremoto, che arrecò non meno devastanti danni fu quello del 1783. “tra il 5 e il 7 febbraio e, nuovamente, il 28 marzo...colpì parte della Calabria. I paesi maggiormente colpiti nel nostro comprensorio furono quelli collinari tra cui Feroleto, Maida, Curinga, pag. 20

Martirano”. E’quanto riportano Filomena Stancati e Lucio Leone nel loro recente volume: “Nicastro ed il territorio lametino nel tempo” Infine, i due terremoti degli inizi del XX secolo; il primo dell’8 settembre 1905 ed il secondo del 28 dicembre del 1908, che devastarono la Calabria da sud a nord e dal Tirreno allo Ionio. Le zone più colpite dal terremoto del 1905 furono Reggio ed il Reggino; ma anche nel nostro territorio i danni furono ingenti. Scrivono Stancati e Leone nel volume sopra citato: “Nicastro non subì vittime e i danni agli edifici non furono così gravi come i miseri paesini dell’entroterra lametino……..Molti, però, furono i senzatetto ed alcuni edifici comunali subirono danni rilevanti, in particolare l’Asilo di Mendicità e il Palazzo di Giustizia (Pal. Mendicino)” Nel terremoto del 28 dicembre 1908, i medesimi due autori c’informano che invece “a terra tremò a lungo. Furono distrutte Reggio e Messina e con esse le abitazioni di altri 300 paesi... a Nicastro una vittima ci fu. Si trattò di una povera fanciulla dell’Orfanotrofio di Via Garibaldi... I danni agli edifici, pubblici e privati, furono ingenti. Tra gli edifici pubblici danneggiati, vi furono il campanile della chiesa di S. Domenico, il Duomo, la chiesa di S. Francesco, l’Ospedale civile e il Teatro Numistrano” A proposito della frequenza con cui i terremoti scuotono violentemente i nostri territori, e funestano i nostri paesi, le nostre città provocando lutti e danni, mi viene da chiedere: esiste, nell’ambito del nostro comune, un piano d’intervento, sia pure abbozzato, quanto meno di proporzioni ridotte in relazione alle risorse disponibili, con la individuazione di luoghi e la predisposizione di alcuni mezzi e strumenti, con cui far fronte alla prima emergenza nel caso in cui, malauguratamente, un evento sismico simile a quelli che nel passato hanno interessato le nostre contrade dovesse ripetersi? Se la risposta è positiva, rendiamo merito a chi lo ha ideato e ne è stato l’artefice; se è negativa non sarebbe saggio, da parte delle autorità amministrative comunali, iniziare ad allestirlo? Facendo ricorso magari all’ausilio della competenza professionale della Protezione civile regionale, dell’Anas, dei Vigili del fuoco? Io penso che questo problema non lo si possa trascurare illudendosi, magari, che nelle nostre zone i terremoti non si ripeteranno. Alle cause di questi sconvolgimenti, se ne sono aggiunte altre prodotte dallo sconsiderato comportamento dall’uomo: le deforestazioni dovute all’opera di criminali piromani; la cementificazione delle coste, che ne hanno provocato l’erosione e il dissesto, con costruzioni di vario genere che spesso arrivano fino a quasi il litorale; le abitazioni ed i manufatti abusivi - molti dei quali costruiti in zone e luoghi dove era assolutamente pericoloso e vietato edificare - che in certi paesi raggiungono un numero superiore a quello delle costruzioni fabbricate con regolare permesso delle autorità preposte; l’assenza di adeguati controlli e, viceversa, i condoni governativi, che in questi ultimi decenni si sono susseguiti e, pur di fare prontamente cassa, hanno trasformato, allegramente, l’illecito in lecito! Bisogna infine aggiungere lo spopolamento dei paesi montani e

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I veri eroi: I Vigili del Fuoco Spesso ce lo domandiamo: ma dove sono gli eroi? Tanti ne creano di fatui tra attori e cantanti, specialmente i giovani, costretti direi a cercare i loro “eroi” in modelli stucchevoli ed estremamente passeggeri, meteore senza strada e senza futuro. Difficile è far rivivere, se non in momenti culturali ben definiti, gli antichi eroi dell’Iliade e dell’Odissea, passano presto dalla mente e dall’esperienza umana e quotidiana. Eppure è proprio nei momenti tragici e drammatici che possiamo

individuare i nuovi autentici eroi: quei grandi uomini che a rischio della loro vita si mettono al servizio di altre vite in pericolo, nelle zone terremotate e tra le nevi del centro Italia e in particolare in Abruzzo. Li vedi, uomini semplici e coraggiosi, i quali hanno

collinari, da cui gli abitanti sono fuggiti perché privi di attività lavorative che potessero produrre un reddito adeguato alle loro esigenze di vita. Abbandonate a se stesse, quelle zone hanno subito una desertificazione antropica rimanendo prive di una qualsivoglia opera di manutenzione e salvaguardia. Conclusione: per tutti questi sconvolgimenti, naturali ed umani, le condizioni fisico/ambientali ed antropiche calabresi sono al collasso e ad ogni inverno ci tocca assistere alle devastazioni causate dalla furia degli elementi e fare la contabilità dei danni. Di frequente, piangere anche i morti. Devastazioni che spesso , come è successo quest’anno, colpiscono contemporaneamente paesi, città e territori di tutte le province della regione. Si ha l’impressione di essere impotenti spettatori di eventi naturali quasi rituali... e tuttavia del tutto prevedibili. Solo che per far fronte alle loro devastanti conseguenze poco o nulla si fa durante il periodo ordinario dell’anno per mettere in sicurezza il territorio regionale. Cosi che, successivamente alle inondazioni, si assiste ai correlati rituali umani delle passerelle delle autorità politiche, anche queste ampiamente prevedibili ed inutilmente ripetitive che, dimenticando di essere preposte alla salvaguardia del territorio, nel restante periodo dell’anno se ne stanno con le braccia conserte. Nel frattempo, però, i sindaci si rivolgono alle province, che a loro volta chiamano in causa la regione e, tutti insieme, sollecitano il governo pro-tempore a dichiarare lo stato di calamità affinchè vengano deliberati i finanziamenti per rimediare alle emergenze ed ai danni causati dal maltempo. In concomitanza con tali richieste di soccorso, si susseguono le visite dei maggiorenti politici delle province e della regione nelle zone più colpite. Magari le si sorvolano con qualche elicottero; si svolgono delle riunioni a vari livelli; si firma qualche protocollo d’intesa, ma senza che mai questa ‘liturgia’ abbia una qualche ricaduta effettuale per mettere in sicurezza il territorio regionale nel suo complesso. Segue, infatti, il silenzio più assoluto per i restanti mesi dell’anLamezia e non solo

abbracciato il valore dell’altruismo e della gratuità, scavare con pale e mani, senza sosta, nella speranza di trovare uomini donne bambini ancora vivi. Uomini concreti rivestiti di sensibilità, uomini che compiono il miracolo di dare il vero senso della vita in momenti di accadimenti di forte criticità. Eccoli i nostri Eroi, quelli veri, quelli epici, quelli che non passano con le mode, quelli che scrivono pagine di Storia. GLI EROI. I VERI EROI: I Vigili del fuoco.

no... fino alla successiva stagione delle piagge, che puntualmente sopraggiunge portando con sè nuove inondazioni, smottamenti, frane. E mentre l’impetuosa violenza dell’acqua delle fiumare allaga paesi e villaggi, dappertutto si aprono crateri e voragini che inghiottono interi tratti di strade, porzioni di piazze, rendendo ancor più precario e fragile lo stato dei territori colpiti. Riflettendo sulle conseguenze di tanto desolante spettacolo, dovuto sia all’azione della natura che all’inerzia dell’uomo, mi viene da pensare che forse – ma senza forse, via... - lo “sfasciume pendulo sul mare” di cui parlava Giustino Fortunato guardando alla Calabria nel 1904, perdura ancora e si è anzi aggravato perché non è solo fisico ed ambientale, ma è ancor più diventato, negli ultimi decenni, politico, amministrativo, umano, sociale. E da esso, da questo sfasciume, nessuno può chiamarsi fuori, perché tutti ne siamo, con responsabilità diverse, parte in causa: singoli cittadini, comunità sociale calabrese e ceto dirigente, politico e civile.

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Carissimi lettori, come molti ben sanno, preferisco gli scrittori francesi, ma vi è un americano che ritengo sia uno scrittore immenso,a parer mio. Ricevetti, fra i miei primi libri di lettura, TOM SAWYER, e mi innamorai di quel narratore che, pur essendo uno dei più grandi letterati oltreoceano, non ha mai dimenticato la sua infanzia, anzi tende ad usarla come metafora. Attraverso alcuni suoi piccoli, grandi personaggi, egli celebra il vero spirito americano, quello dei big dreams e della speranza evergreen. In molte sue opere, raccontate attraverso la storia di personaggi non troppo attempati, egli esalta i valori del suo credo. Oltre a TOM SAWYER, LE AVVENTURE DI HUCKLEBERRY FINN, IL PRINCIPE E IL POVERO, letti dai ragazzi di tutti i tempi, egli scrisse, nei suoi 75 anni di vita, un numero esorbitante di opere e lasciò un gran numero di articoli e di aforismi. L’energia che trapela da questo immenso esempio di uomo di lettere è paragonabile solo a quella di Alexandre Dumas padre, lesto d’ingegno e di penna. Logorroico e grafomane, genio ribelle e anticonformista, profondo conoscitore dell’animo umano, Mark Twain usò l’irriverenza per fornire, non spunti didascalici alla scrittura, ma il suggerimento di nuove strade di pensiero, per avventurarsi. Chi di noi non ha apprezzato lo spirito libero e indomito di Mark Twain? Chi non ha sognato sulle rive del suo Mississippi? Ma il romanzo su cui voglio soffermarmi, non è sempre citato, fra le opere di questo prolifico scrittore. UN AMERICANO ALLA CORTE DI RE ARTU’... Un libro, soltanto apparentemente, per ragazzi, ma in realtà, una favola per adulti che fa intravedere chiaramente la lotta del pensatore, contro l’immobilismo, il suo credo e la sua fiducia nel progresso, l’assoluto rifiuto di una nostalgia atavica, che fa da zavorra al presente. Lo ammetto, neppure io sono nostalgica. E anch’io ho fede nel progresso e non guardo romanticamente al passato. Ciò che guardiamo, infatti, romanticamente, del passato, lo guardiamo così, perché non lo abbiamo vissuto. Se potessi utlizzare una macchina pag. 22

del tempo, non andrei mai nel passato. Non sopporterei di veder rallentare ogni cosa. In UN AMERICANO ALLA CORTE DI RE ARTU’, Mark Twain non utilizza il passato per esaltare una nostalgia, ma per dare significato al futuro. La cosa sorprendente è il titolo originale del libro: A CONNECTICUT YANKEE IN KING ARTUR’S COURT. Uno yankee (così erano chiamati gli americani del big dream, dagli inglesi spocchiosi). Del Connecticut, per giunta... E il cognome del protagonista, Morgan: Hank Morgan, in omaggio al grande corsaro Henry Morgan, viaggiatore e grande solcatore dei mari (è noto che Hank, specie negli States, sia diminuitivo di Henry)... Hank Morgan non viaggia su un veliero di grandi dimensioni, ma attraverso la macchina del tempo, portando il progresso, addirittura nel passato e affermando, con simpatico umorismo, a tratti pungente, la superiorità americana sulla madrepatria inglese... Hank Morgan è potente, almeno quanto lo fu l’omonimo sir. Potente grazie ai mezzi del futuro, messi in atto nel passato. Così Twain irride la tradizione imbalsamata degli europei, che credono troppo nelle antiche epopee e smonta l’antico a vantaggio del nuovo, per attingere al futuro, non al passato, come facevano gli europei, per migliorare. Twain fa satira, evidenziando la forza del suo tempo e mi piace perché, come me, irride antiche nostalgie, per invitare a guardare oltre il proprio naso, la nosta confortevole illusione di ricevere il meglio dalle cose note, quando, invece, è piuttosto l’incognita del futuro, a farci avanzare nel cammino... Eppure, alla fine della narrazione, appare un intento di parodia, anche nei riguardi di un credo che millanta solo capacità positive nel futuro, avulso completamente dal passato... Il genio di Twain si manifesta quando, pur ironizzando sul passato, non lo si misconosce e, pur esaltando il futuro, non lo si mitizza. Un romanzo di grande attualità che, dietro l’apparenza del racconto per ragazzi, riflette, a volte amaramente, senza mai scadere, però, nel melodramma, rivendicando un equilibrio che possa scaturire dalla grandezza delle idee da coltivare nel quotidiano e non dalla troppa convinzione... Buona lettura.

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OGGI, ANZICHE’ RISOLVERE I PROBLEMI SI PREFERISCE ELIMINARNE PIU’ CELERMENTE LE CAUSE!

PERCHE’? Oggigiorno si danno per scontate molte cose senza provare a discuterne. Se alla nascita siamo una ‘tabula rasa’, sebbene con un enorme potenziale da imparare, poi, un po’ per volta, ci acculturiamo, precludendoci tante possibilità, dando per scontate alcune cose che diventano ostacoli, impedendoci cioè di sviluppare completamente le nostre capacità. Il problema reale è che, adottando alcuni modelli di pensiero o determinate credenze, sarà molto difficile sbarazzarsene, avendo in tal modo, un numero di possibilità molto più limitato rispetto a quello che si sarebbe potuto ottenere, imparando a fare. In realtà, ciò che è limitante è il ‘pensiero’ che i problemi debbano essere risolti. Ma… Cosa significa risolvere un problema? Significa innanzitutto, constatare che ci sia un ostacolo. Quando ci si rende conto che qualcosa ci impedisce di raggiungere un obiettivo, questo disturba la nostra stabilità, frustrandoci e irritandoci. Tali emozioni, anziché agevolarci nell’affrontare produttivamente la situazione, ci danneggiano, influenzando la nostra capacità di trovare una soluzione positiva. Risolvere un problema significa che dobbiamo innanzitutto eliminare l’ostacolo dal nostro cammino, per tornare il più rapidamente possibile allo stato iniziale, che era probabilmente quella zona di ‘comfort’ nella quale ci sentivamo sicuri. Considerare però, i problemi, come semplici ostacoli, implica una visione molto ristretta, che non facilita lo sviluppo personale. Considerarli invece, come qualcosa da superare, come ‘sfide’ che ci aiutino a trasformarci, a maturare e a rafforzarci, comporterebbe un cambiamento radicale nel modo in cui vediamo e affrontiamo il mondo. Perché oggi si ha la tendenza a considerare i problemi come ostacoli piuttosto che sfide? In verità si tratta di una visione che ci ha trasmesso la società occidentale, società che promuove valori competitivi e individualistici, che si concentra nel raggiungimento di obiettivi personali, a dispetto del gruppo e degli interessi e necessità altrui. Come ha scritto Salvatore D’Elia nel N° 27 di Dicembre: “Dagli Stati Uniti arrivarono negli anni ’70 tecnologia e mezzi d’informazione con una velocità incontrollabile così come da uno spot pubblicitario emerse l’immagine dell’uomo padrone e salvatore di se stesso: “ L’uomo che non deve chiedere mai”, un uomo invincibile“: In quest’ottica, tutto intorno a noi è progettato per farci perseguire degli obiettivi specifici, constatando che tutto ciò che ci si ponga d’avanti, sia da considerare come ostacolo. In realtà, se anziché considerare la vita come una mera conquista di obiettivi, la considerassimo invece come un cammino, i problemi non sarebbero più, semplici ostacoli, ma opportunità di crescita. Se non avessimo l’ossessione di dover arrivare, prima possibile, ad un determinato punto, ma avremmo invece lo scopo di goderci il viaggio, i problemi assumerebbero un’altra dimensione divenendo opportunità. Considerare quindi i problemi come sfide e sostituire “risolvere” con “superare” non è semplicemente una trasformazione di linguaggio, ma implica un cambiamento di atteggiamento e di visione del mondo. In realtà, chi riesce ad affrontare le avversità della vita uscendone rafforzato, non è il più forte o il meglio preparato, ma è colui che affronta i problemi come fossero delle sfide, convinto che Lamezia e non solo

la situazione gli permetterà di crescere. Così, la zona di ‘comfort’ in cui ci si sente a proprio agio, diventerà sempre più grande e minori saranno le cose che ci faranno sentire a disagio. In quest’ottica, superare una difficoltà significherà non solo risolverla, ma anche imparare la lezione: Dare un senso a ciò che è accaduto e incorporarlo nella nostra esperienza di vita. In tal modo ci arricchiremo come persone e sarà così, meno probabile, tornare a inciampare nello stesso ostacolo, avendo acquisito un quadro molto più completo della situazione e dei fattori che ci hanno condotto ad essa. Perché è importante il cambiamento di prospettiva? Ecco che i problemi, in realtà, non sono fattori esterni, ma esprimono sempre qualcosa di noi. Infatti, ciò che in alcune fasi della vita può sembrarci un problema di proporzioni gigantesche, non avendo le risorse psicologiche per affrontarlo, in futuro potrà trasformarsi addirittura in una situazione che ci farà sorridere. Le difficoltà non sono in realtà, un ostacolo esterno, ma l’espressione di una qualche paura, insicurezza, o di un proprio limite. In quest’ottica, dunque, il problema non è una pietra che possiamo togliere facilmente dal sentiero, dimenticandolo, ma un segnale che ci avverte di un deficit molto più profondo e, quindi, un’opportunità di trasformarci in persone più forti. · 11 gennaio 2017 Omicidio a Ferrara: “ I continui litigi per i brutti voti a scuola avrebbero spinto l16enne a far massacrare da un amico i genitori, finiti a colpi d’ascia, in cambio di mille euro. “ ; · Lodi, 2015: Luigi Nasti, 57enne, uccide il vicino di casa. Tra le famiglie esistevano tensioni per motivi banali: Anziché discuterne e risolvere ogni cosa, la tensione e l’odio crescente sarebbe sfociato nel tragico epilogo; · 2014 Ragusa: Omicidio del piccolo Loris di 8 anni: Il nonno lo avrebbe ucciso perché il bambino aveva visto che il nonno e la mamma erano amanti; · 2002 Cogne: Annamaria Franzoni, madre di un bambino di tre anni, è accusata per la morte di suo figlio, Samuele Lorenzi. Da perizie psichiatriche è emersa una personalità affetta da ‘nevrosi isterica e “crisi di panico”, incapace di elaborare in modo maturo i problemi della quotidianità; · 2001 Novi Ligure Erika De Nardo, 16 enne massacra la madre il fratello di 11 anni.

Se alcuni ‘problemi’ fossero stati discussi e superati dialogando o intervenendo neurologicamente, ove necessario, forse molte vittime si sarebbero potute evitare.

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Remember

Era piccola,magra, smunta, povera, spettinata, con i seni flosci pendenti su un ventre vuoto. Ai piedi un paio di ciabatte rosicchiate che trascinavano un corpo esangue. Un panno bianco le legava la fronte e se ne andava sempre in giro a cercare una pillola per il suo eterno mal di capo. Nella bocca non aveva denti, non sorrideva mai, e più che una bocca aveva in mezzo al viso un buco vuoto. Quando parlava, la lingua le si attorcigliava per cui non si capiva nulla. L’età, incalcolabile. Abitava in un basso, un magazzino senza finestre che conteneva cinque figli ed un letto matrimoniale. Non si capiva se i figli avessero un letto, credo di no, dormivano su un pagliericcio, per terra. Non c’era neanche un tavolo, a che cosa poteva servire se non avevano nulla da posarci sopra? Poggiavano il poco cibo su una gabbietta capovolta e per sedie qualche sgabello di legno recuperato chissà dove. L’ambiente era sempre al buio, un pò di luce filtrava dalla porta principale che rimaneva sempre socchiusa e che nessun vicino osava oltrepassare. In quella casa nessuno portava una lira.Il capofamiglia se guadagnava qualche soldo lo spendeva all’osteria, si ubriacava senza ritegno e, beveva per disperazione: non trovava lavoro, aveva una moglie sempre malata, cinque figli da mantenere che trascorrevano la loro vita sempre in mezzo alla strada; una bambina, per giunta si ammalò di tifo e rimase per più di due mesi fra la vita e la morte. Guarì, non si sa come; non vidi mai un medico entrare in quella casa,nessuno che le portava una tazza di brodo caldo o una fetta di pane,non so descrivere come sia potuta guarire !Certo è che negli anni quaranta se ne sono viste delle belle, per vivere non bastavano certo i cento grammi di pane a testa che assegnava il governo con la carta annonaria. Mancava tutto a tutti. Riuscivano a star bene quelli che facevano il contrabbando. Parecchie famiglie vendevano l’olio di nascosto ai napoletani che a loro volta lo rivendevano a Napoli ad un prezzo molto elevato. Alcunii si sono arricchiti, ad altri, la guerra li ha distrutti. Erano tempi duri quelli. Comunque come andò come non andò la ragazza guarì... non che la malattia non le avesse lasciato conseguenze, anzi...Crebbe anche lei e anche lei trovò un marito che le fece fare quattro figli, fra cui una con handicap. e la storia si ripetè: ignoranza, degrado, fame. Anche lui aveva il vizio del vino, la sera non tornava mai a casa senza passare dalla “cantina” per scolarsi un’intera bottiglia, anche perchè a quell’ora, nelll’osteria Mensile di informazioni - anno 25°- n. 29 - febbraio 2017 Iscrizione al Tribunale di Lamezia Terme n. 609/09 Rug. - 4/09 Reg. Stampa Direttore Responsabile: Antonio Perri Edito da: Grafichè Perri Lamezia Terme - Via del Progresso, 200 Tel. 0968.21844 - e.mail. perri16@gmail.com Stampa: Michele Domenicano Allestimento: Peppino Serratore Redazione: Nella Fragale - Perri Antonio Progetto grafico&impaginazione: Grafiché Perri-0968.21844

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non c’era nessuno e poteva bere tranquillo. Ma una sera due tipi strani si avvicinarono al suo tavolo e lo invitarono a bere insieme a loro. Inorgoglito, Giuseppe ordinò la prima bottiglia, l’oste si affrettò a portare altri due bicchieri, i due si sedettero intorno al tavolo e bevi tu che bevo io, in attimo si tracannarono l’intera bottiglia. Allora il nostro amico ne ordinò una seconda e poi un’altra e un’altra ancora. Che bellezza! ormai il mondo lo vedeva d’un altro colore e per poco si sentì quasi felice. Ma ad un certo punto arrivò l’ora di pagare:- Uno dei due si alzò barcollando e con far borioso si avvicinòalla cassa:-Quant’è? Ma appena il proprietario ebbe profeirto il costo del vino che avevano tracannato, cominciò a girare e rigirare nelle tasche senza trovare un centesimo. “Mi dispiace, disse, m’hanno rubato il portafogli.” Allora si rivolse all’amico con aria smarrita: “Mi dispiace” disse. L’altro senza scomporsi si avvicinò alla cassa e con aria seria rispose:-Non importa. pago io!- Ma nelle sue mani non apparve nessuna moneta. Così girò e rigirò nelle tasche si tolse il cappotto girò nelle tasche interne, nulla, non aveva propio nulla. A questo punto, Giuseppe, pieno di sè, si alzò e depositò alla cassa il guadagno d’una intera giornata. “Bene, disse l’oste, ora potete andare” Ma appena usciti all’aria aperta Giuseppe riprese coscienza e cominciò a disperarsi: “Come poteva tornare a casa senza un soldo?” Erano già due giorni che i figli digiunavano, come avrebbero fatto quella sera? Dicendo queste parole si mise a piangere e a strapparsi i capelli. Gli amici incominciarono a beffeggiarlo e ridevano, ridevano. Ad un certo punto, Giuseppe, perse la pazienza, e in un baleno sferrò un bel pugno in faccia all’amico sbruffone. Quello cadde immediatamente per terra , stordito. -E’ morto, è morto gridava l’altro. Immediatamente la strada si riempì di gente, arrivarono anche i carabinieri che presero Giuseppe per la collottola e lo portarono in guardina. L’altro rimase per qualche giorno in ospedale, e i figli di Giuseppe per parecchi mesi senza pane...

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Editore: Grafichè di A. Perri

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