Newsletter Centro Culturale Veritas 01/10/2016

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1 ottobre 2016

CENTRO CULTURALE

VERITAS

newsletter 1 ottobre 2016

Numero monografico
 Speciale laicità Contributi di:

Sergio Frausin
 (pagina 3)
 Alessandro Cucuzza
 (pagina 12)
 Giovanni Grandi
 (pagina 18)
 Annalisa Spedaliere
 (pagina 28)

direttore responsabile Tiziana Melloni testata registrata il 21 novembre 2011 con il numero 1249 c/o il Tribunale di Trieste

Confluenze, ovvero: come vivere insieme Il Cancelliere di Francia Michel de L’Hospital, che visse nel pieno periodo delle guerre di religione, esasperato dalla violenza ed in cerca di un riferimento per mettere fine ai massacri, scrisse una formula che potremmo definire il motto della laicità: «Non importa quale sia la vera religione, ma come si possa vivere insieme». 
 Premessa essenziale, ieri come ai giorni nostri, per condurre un’esistenza dignitosa in un contesto pacifico, è la comune accettazione del fatto che siamo tutti diversi e ciascuno ha il diritto di coltivare la vita spirituale secondo il credo in cui si riconosce, nel rispetto di ogni cultura e tradizione, senza essere discriminato.
 Nella Costituzione il principio è enunciato all’articolo 3: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”.
 Una riflessione sui fondamenti del vivere insieme è essenziale nel nostro tempo e nelle nostre città, in cui fondamentalismi e populismi rischiano - e a volte riescono a farlo - di minare il sereno svolgimento delle attività quotidiane. 
 Il reciproco riconoscimento del valore di ogni uomo non può esser dato per scontato ma è frutto di un impegno continuo e pensato.
 Per questo motivo desideriamo offrire ai lettori della Newsletter i testi integrali del corso sulla laicità che si è tenuto al Centro Veritas ad aprile di quest’anno.
 La rassegna, ricca di spunti stimolanti, è di ottimo auspicio all’inizio di un anno accademico in cui il filo conduttore è il passaggio dalla multicultura all’intercultura, sotto il titolo di “Confluenze”. Con l’augurio che i molteplici apporti di idee, culture, opinioni, tradizioni diverse vadano ad alimentare con abbondanza il fiume del pensiero.
 Tiziana Melloni 1


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Don Sergio Frausin
 docente di teologia dogmatica

La laicità come appartenenza dialogante, riconoscimento e corresponsabilità: uno stile e un linguaggio evangelico Laicità come dialogo 
 Il dialogo pubblico tra Eugenio Scalfari e papa Francesco che risponde alle domande che il fondatore e direttore emerito del quotidiano La Repubblica gli aveva rivolto tra luglio e agosto 2013 costituisce una testimonianza inedita di laicità come contributo che la comunità dei credenti in Gesù Cristo, nella sua apertura al mondo, può dare alla costruzione della società, facendo tratti di strada assieme alle diverse istanze socio-culturali e religiose che la abitano 1. Intendiamo in questo ambito “laicità” come appartenenza al popolo (in greco λαός) ecclesiale dei credenti in Gesù Cristo, un’appartenenza che si declina al plurale e implica un rapporto con altre appartenenze. Non quindi innanzi tutto come “condizione di chi è profano, non appartenente allo stato ecclesiastico, e, nella Chiesa, non appartenente allo stato clericale”. La laicità come incontro del cristianesimo con la realtà secolare può permettere in forme inedite oggi una distinzione necessaria tra i due ambiti, ma allo stesso tempo promuovere il dialogo, la collaborazione, tra fede e comunità civile, tra Chiesa e Stato, tra religioni nel nuovo contesto pluralstico2. Questo dialogo richiede il superamento di pregiudizi e di accuse reciproci, di assolutizzazioni filosofico-politiche, di impostazioni fondamentalistiche da una parte e dall’altra. Come ogni dialogo richiede di deporre atteggiamenti “armati”, solo difensivi, oppositivi. Per chi crede nel Dio che in Gesù è Lógos, Parola divina personale di verità scambiata e relazionale che entra in dialogo definitivo con gli uomini nella storia (cf. Gv 1,14), il dialogo è un’esigenza intrinseca e un’espressione intima della fede, occasione di approfondire e comunicare discorsivamente la propria identità in relazione

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Cf. G. COSTA, «Papa Francesco, testimone di laicità (anche per i cattolici)», Aggiornamenti sociali, ottobre 2013, n° 10/ 64 http://www.aggiornamentisociali.it/easyne2/LYT.aspx? Code=AGSO&IDLYT=769&ST=SQL&SQL=ID_Documento=9158. 2

Cf. E. PREZIOSI, «Nuovi confini per laicità e libertà religiosa», in Studium 4 (2007), 513-526, 513.

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all’interlocutore, occasione di uscire dalle paure di incontrare l’altro, di incontrare il non credente che alberga in ciascuno3. «La concezione, oggi largamente dominante, che oppone laicità ad atto di fede [è banalizzante]. Laico può essere il credente come il non credente. E così entrambi possono essere espressione del più vuoto dogmatismo. Laico non è colui che rifiuta, o peggio deride, il sacro, ma letteralmente colui che vi sta di fronte. Di fronte in ogni senso: discutendolo, interrogandolo, mettendosi in discussione di fronte al suo mistero. Laico è ogni credente non superstizioso, capace cioè, anzi desideroso di discutere faccia a faccia col proprio Dio. Non assicurato a lui, ma appeso alla Sua presenza-assenza. E così è laico ogni non credente che sviluppi senza mai assolutizzare o idolatrare il proprio relativo punto di vista, la propria ricerca, e insieme sappia ascoltare la profonda analogia che la lega alla domanda del credente, alla agonia di quest’ultimo. Quando comprenderemo con questa ampiezza il significato della laicità, allora, e soltanto allora, essa potrà essere il valore sopra il quale costruire la nostra dimora» ( M. Cacciari in La Repubblica, 29 ottobre 2003). L’ opposizione pregiudiziale all’atto di fede, il rifiuto e la derisione banale di un sacro più o meno determinato e che si presenta in una forma storico-culturale precisa, appartiene a quello che chiamiamo laicismo; c’è anche un dogmatismo religioso o ideologico vuoto di motivazioni, autoreferenziale che non comunica, non discute, non lascia spazio all’interrogazione, al confronto. C’è la possibilità di una laicità come appartenenza ad un popolo credente o non credente, capace di dialogare con l’altro, di mettersi in ascolto, in atteggiamento di riconoscimento delle differenziate esperienze del Mistero divino, che non escluda la prospettiva religiosa e la fede a priori e che non pretenda di neutralizzarle forzatamente nello spazio pubblico. È su questa laicità positiva che, sulle tracce di papa Francesco, istruiti dal Concilio Vaticano II, desideriamo puntare e scommettere in questo contributo e nella vita ecclesiale. Ci sono delle domande di senso, ricerche di verità, di giustizia, di valore, che interpellano la coscienza, accomunano e tormentano il credente e il non credente, domande da ascoltare assieme, evitando l’assolutizzazione del proprio punto di vista.

A partire dalla coscienza… 
 La fede della Chiesa riconosce che in Gesù Cristo Dio e uomo s’incontrano e stanno insieme mantenendo ciascuno le rispettive proprietà nell’unità di due nature, ciascuna delle quali opera insieme 3

«Ciascuno di noi ha in sé un credente e un non credente, che si interrogano a vicenda, che rimandano continuamente domande pungenti e inquietanti l’uno all’altro» (Incontro inaugurale della “Cattedra dei non credenti”, Milano 1987).

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all’altra ciò che le è proprio, due volontà differenti che si rapportano liberamente, senza che l’uno o l’altro smetta di essere se stesso nel vivere l’unione con l’altro4. Nel rapporto cristologico tra Trascendenza divina e umanità storica nel mondo, tra fedeltà a Dio e fedeltà all’uomo e alla sua storia, possiamo attingere un criterio cristologico di laicità come incontro, comunicazione, confronto costruttivo, collaborazione tra appartenenza ad un popolo credente e altre appartenenze in cui ciascuna mantiene le caratteristiche e la libertà che la differenziano dall’altra, con la capacità di agire assieme all’altra. Il “luogo” in cui questo incontro di appartenenze, come forma di laicità, può avvenire è la coscienza di ciascuno. L’esperienza di fede e di incontro con Gesù Cristo è un evento di coscienza: «quanto più è autentico, tanto più risulterà umanizzante e renderà chi procede su questo cammino sempre più capace di riconoscere l’autenticità umana di ogni esperienza di coscienza»5. Con il Concilio Vaticano II la Chiesa riscopre la coscienza come «il nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo, dove egli è solo con Dio, la cui voce risuona nell’intimità» (Costituzione pastorale Gaudium et spes, 1965, n. 16). È in questa esperienza «che l’uomo scopre la legge dell’amore che indirizza la sua vita; è qui che si compie liberamente la ricerca della verità e diventa possibile l’incontro tra Dio e l’uomo (cfr. anche la Dichiarazione sulla libertà religiosa Dignitatis humanae, 1965, nn. 2-4). Proprio l’esperienza della coscienza risulta decisiva per la vita di ogni persona, per il credente come per il non credente»6 ed è quindi il terreno di incontro, di dialogo, di confronto con le istanze altre rispetto alla propria, luogo di incontro tra diverse appartenenze, luogo di laicità, in quanto «l’uguaglianza radicale di fronte alle esigenze della coscienza è la condizione di possibilità del dialogo sincero e della capacità di mettersi in discussione»7, «nella convinzione che la verità possa essere trovata nel processo di un aperto ‘dibattito’»8. Afferma papa Francesco rispondendo a Scalfari: «la questione per chi non crede in Dio sta nell’obbedire alla propria coscienza. Il peccato, anche per chi non ha la fede, c’è quando si va 4

Cf. CONCILIO DI EFESO (431; DH 250-251), CONCILIO DI CALCEDONIA (451; DH 301-303), III CONCILIO DI COSTANTINOPOLI (680-681; DH 556-559) 5

Cf. G. COSTA, «Papa Francesco, testimone di laicità (anche per i cattolici)», Aggiornamenti sociali, ottobre 2013, n° 10/ 64 http://www.aggiornamentisociali.it/easyne2/LYT.aspx? Code=AGSO&IDLYT=769&ST=SQL&SQL=ID_Documento=9158. 6

Cf. G. COSTA, «Papa Francesco, testimone di laicità (anche per i cattolici)», Aggiornamenti sociali, ottobre 2013, n° 10/ 64 http://www.aggiornamentisociali.it/easyne2/LYT.aspx? Code=AGSO&IDLYT=769&ST=SQL&SQL=ID_Documento=9158. 7

Cf. G. COSTA, «Papa Francesco, testimone di laicità (anche per i cattolici)», Aggiornamenti sociali, ottobre 2013, n° 10/ 64 http://www.aggiornamentisociali.it/easyne2/LYT.aspx? Code=AGSO&IDLYT=769&ST=SQL&SQL=ID_Documento=9158. 8

Cf. E. PREZIOSI, «Nuovi confini per laicità e libertà religiosa», 514.

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contro la coscienza. Ascoltare e obbedire ad essa significa, infatti, decidersi di fronte a ciò che viene percepito come bene o come male. E su questa decisione si gioca la bontà o la malvagità del nostro agire». Il rispetto profondo di ogni interlocutore e della sua coscienza, il riconoscimento delle ragioni dell’altro, preso sul serio, e l’apertura sincera all’incontro con le persone, qualunque sia la loro matrice culturale e religiosa, è la radice di quella laicità costruttiva e positiva di cui la nostra società mostra di avere tanto bisogno, una laicità sana “aperta a tutte le forme di trascendenza, secondo le diverse tradizioni filosofiche e religiose”9 della storia culturale di un territorio. Una laicità che rispetti la diversità e consenta l’espressione e la proposta chiara da parte dei credenti delle proprie convinzioni, dei propri valori con le opportune elaborazioni e adeguate mediazioni per la loro traduzione nella sfera pubblica e civile. In questo senso, la fede può ispirare una visione di democrazia, una organizzazione della convivenza che arricchisca una cultura pluralistica, alimentando il rispetto delle culture e delle società. «Bandire le religioni dall’arena pubblica sarebbe quindi, oltre che ingiusto, restrittivo, incoerente in una cultura amante della libertà, perché limiterebbe le persone impedendo loro di riferirsi alle proprie convinzioni, restringerebbe il campo delle motivazioni alla scelta politica e non promuoverebbe i fini della libertà e dell’uguaglianza» 10.

Forme di laicità, modelli di comunità ecclesiale nel suo rapporto col mondo

Il modo in cui è vissuta la condizione di laicità come appartenenza al popolo credente in rapporto con il mondo dipende anche dal modello e dall’immagine di Chiesa che sono vissuti, percepiti, agiti in un certo periodo e in in un certo contesto storico e culturale. Un rapporto responsabilmente collaborativo con le istituzioni pagane esistenti, percepite come stabilite da Dio a servizio del bene comune e della giustizia, pur senza condividerne l’esaltazione divinizzante e idolatrica del culto imperiale, anche a costo del martirio, caratterizza la comunità ecclesiale delle origini e dei primi secoli. Essa caratterizzata da un modo di vivere comunionale in cui il ministero si organizza in senso collegiale (cf. 1Tm 5; Tt 1,5), ci consegna uno stile che, facendo propri i sentimenti di umiltà e disinteresse che sono in Cristo Gesù (cf. Fil 2,5), dà a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio (Mt 22,17-22), consapevole che bisogna obbedire prima a Dio che agli uomini (cf. At 5, 29). La lealtà tributaria non significa confusione con il 9

Ss. FRANCESCO, Incontro privato con una delegazione del movimento francese dei Poissons Roses, cristiani di sinistra, 2 marzo 2016 in http://www.avvenire.it/Chiesa/Pagine/Papa-Francescoincontra-Poissons-Roses.aspx 10

Cf. E. PREZIOSI, «Nuovi confini per laicità e libertà religiosa», 514.

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riconoscimento di divinità al sovrano politico con la sua pretesa assolutizzazione, e non impedisce il riconoscimento di Dio quale unico Signore della propria vita e della storia di tutti (cfr. Rm 13,1-8; 1Tm 2,1-2; 1Pt 3,8-17). Si tratta di un rapporto leale e testimoniale con il mondo che accredita il limpido, approfondito, motivato, generoso rendere ragione della fede. I cristiani abitano la città degli uomini senza assolutizzare appartenenze etniche, sociali, culturali, geografiche, politiche, linguaggi, ma offrendo la testimonianza della loro forma di vita, di comportamento e di appartenenza alla pólis ispirati alla fede, incarnandosi in qualunque contesto, come è suggerito nella Lettera a Diogneto (II sec.)11. Nella storia della salvezza, laikós ha assunto il significato di “appartenente al laos tou Theoȗ, al popolo consacrato a Dio, erede dell’alleanza e delle promesse di salvezza” 12 contrapposto ai popoli pagani. Già in epoca post-apostolica laikós ha accezione di “profano” dal momento che nella tradizione giudaico-cristiana antica laikós ha conservato un valore categorizzante da essere applicato alla massa del popolo in opposizione ai capi, ai sacerdoti o ai diaconi officianti il culto, così da designare un credente che non ha ricevuto una consacrazione speciale in vista del servizio divino, in posizione di sudditanza nei confronti della gerarchia. All’interno della Chiesa, a partire dal III secolo d.C., i laici sono membri del popolo di Dio13 non chierici, non religiosi professi, non ministri ordinati, e si configura una distinzione funzionale sempre più marcata tra laici e gerarchia. In un modello istituzionale e piramidale di Chiesa, in epoca di cristianità, da Costantino, Teodosio (lungo il IV secolo) e per tutto il medioevo, si rafforza la separatezza all’interno del corpo ecclesiale, fra vescovi, sacerdoti, monaci da una parte e fedeli laici dall’altra. Il compito dell’evangelizzazione in rapporto alla società e al mondo esterno alla Chiesa è considerato affare e responsabilità di religiosi e di preti, assistiti da pochi laici volontari, cooptati. La laicità, in questo contesto, è quindi separatezza dal sacro inteso come cultuale, sottomissione ad esso; questa connotazione oppositiva intraecclesiale si ripercuoterà nella concezione del rapporto tra ambito sacro ecclesiale e ambito mondano civile.

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“Vivono nella carne, ma non secondo la carne. Vivono sulla terra, ma hanno la loro cittadinanza in cielo. Osservano le leggi stabilite ma, con il loro modo di vivere, sono al di sopra delle leggi. Amano tutti, e da tutti vengono perseguitati. Anche se non sono conosciuti, vengono condannati; sono condannati a morte, e da essa vengono vivificati. Sono poveri e rendono ricchi molti; sono sprovvisti di tutto, e trovano abbondanza in tutto. Vengono disprezzati e nei disprezzi trovano la loro gloria; sono colpiti nella fama e intanto viene resa testimonianza alla loro giustizia”. 12

D. BOURGEOIS, «Laïc/Laïcat», in J. LACOSTE (ed.), Dictionnaire critique de Théologie, PUF, Paris, 1998, 637-640. 13

Cf. I. DE LA POTTERIE, «L’origine et le sens primitif du mot “laïc” », in NRT 80, 1958, 840-853.

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Di fronte alla forte istanza degerarchizzante nella mediazione della grazia portata avanti dalla Riforma protestante, la risposta cattolica con il Concilio di Trento (1545-1563) è andata nel senso di una forte centralità e supremazia del clero e di una passività gregaria del laicato nella vita della Chiesa e nel suo comunicare col mondo, con la cultura e la società. Ciò ha portato ad un clericocentrismo in tutto il modo di essere della Chiesa e, in particolare anche ad una clericalizzazione della scienza teologica, isolata dalla cultura pubblica e concentrata nei seminari. Sotto il profilo dell’originaria accezione che, con “laico”, designava una categoria nell’ambito del popolo senza connotazione sacrale, come tale neutra da un punto di vista religioso, potrebbe persino vedersi più comprensibile come in epoca moderna il termine laico abbia potuto ricevere nell’uso linguistico corrente una coloritura valutativa di “a-, anti-religioso profano, secolare, non religioso, aconfessionale”. Contrapposto ad un sacrale inteso in termini di potere e quindi generatore di conflitto per la supremazia. Ad un certo punto, nella modernità, laicità significa in Occidente autonomia e rivendicazione di indipendenza, emancipazione delle istituzioni dello Stato, della sfera mondana rispetto al sacrale, rivendicazione di affermazione e difesa di una autonomia della cultura e dell’ambito civile rispetto ad un sacro, ad un religioso, ecclesiastico e clericale, percepito come invasivo, ingerente, carico della pretesa di normare nei dettagli la vita delle persone. L’idea moderna e occidentale della laicità non sarebbe stata possibile «senza la contesa secolare tra potere politico e potere religioso che ha portato alla desacralizzazione del primo e alla ridefinizione degli ambiti specifici, spirituali, del secondo» 14. Forse in questo processo, che ha visto tensioni e conflitti, non ancora risolti, brusche e violente esigenze di neutralità delle istituzioni civili nei confronti della sfera religiosa, il sacro, il religioso, l’ecclesiastico non sono stati vissuti dagli appartenenti al popolo dei credenti con tutta l’eloquenza cristologica di umile offerta di senso all’umano, di amicizia, di alleanza e complicità al bene e alla libertà dell’umano.

La svolta del Concilio Ecumenico Vaticano II nel rapporto e nella comunicazione tra Chiesa e società, tra Chiesa e mondo. Laicità come corresponsabilità e riconoscimento di legittima autonomia delle realtà mondane. Il riconoscimento e la valorizzazione avvenuti al Concilio della condizione laicale nella Chiesa (cf. LG 11,13, 30,39,40), incentrati sulla 14

P. SCOPPOLA, La democrazia dei cristiani. Il cattolicesimo politico nell’Italia unita. Intervista a cura di Giuseppe Tognon, Laterza, Roma-Bari 2005, 31.

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riscoperta della dignità battesimale di ogni christifidelis nel popolo di Dio in cammino nella storia (Lumen Gentium, cap. IV), ha reso possibile un nuovo approccio alle responsabilità connesse all’essere nel mondo, una nuova responsabilizzazione nel rapporto della Chiesa con il mondo e la società che passa proprio per la specifica indole secolare dei laici (cf. LG 31). Nell’incontro con il mondo, con la cultura e con la società, i laici con la missione che è loro propria passano da sudditi a soggetti-protagonisti nella Chiesa, cristiani in senso pieno e autonomo nel mondo perché una tale vocazione viene loro dall’essere battezzati e non da deleghe ulteriori (cf. LG 31). Dalla partecipazione universale e differenziata al sacerdozio, alla profezia e alla regalità di Gesù Cristo, da rendere presente nel mondo con l’offerta della propria vita, scaturisce la chiamata alla testimonianza, all’evangelizzazione e al servizio per tutti i fedeli. La responsabilità, le gioie, i compiti, le fatiche e le speranze del rapporto con il mondo, con la cultura, con la storia, con la società meritano di essere riferiti non solo o prevalentemente ai laici né solo o prevalentemente ai consacrati e al clero, ma alla Chiesa tutta, soggetto storico, deputato all’annuncio del Vangelo e alla testimonianza della carità. Alla luce di queste consapevolezze è la Chiesa come comunione e corresponsabilità di tutti i suoi membri, con le ricchezze specifiche, le competenze e le risorse umane, spirituali e culturali di ciascuno, che si coinvolge nel mondo, nella società con più libertà da paure e sospetti. Affiora «l’immagine di una Chiesa che è chiamata ad essere nel mondo non estranea, non esclusa e arroccata in difesa, ma presente, solidale, in continuo dialogo con il mondo per la costruzione del bene comune»15. C’è l’esigenza del Concilio di rendere la Chiesa non clerocentrica nel suo rapporto con il mondo e di salvaguardare l’agire autonomo dei credenti dalle indebite sfiducie che possono venire anche dai ministri ordinati. Il Concilio Vaticano II – afferma papa Francesco – «tra i suoi molteplici frutti” ha portato anche “ad un modo nuovo di guardare alla vocazione e alla missione dei laici nella Chiesa e nel mondo” […] I fedeli laici non sono membri di “second’ordine”, al servizio della gerarchia e semplici esecutori di ordini dall’alto, ma come discepoli di Cristo sono chiamati ad animare ogni ambiente secondo lo spirito del Vangelo: portando la luce, la speranza, la carità ricevuta da Cristo in quei luoghi che, altrimenti, resterebbero estranei all’azione di Dio e abbandonati alla miseria della condizione umana. Nessuno meglio di loro può svolgere il compito essenziale di «iscrivere la legge divina nella vita della città terrena» (Gaudium et spes)»16. «I credenti 15

Cf. E. PREZIOSI, «Nuovi confini per laicità e libertà religiosa», 517.

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Messaggio in occasione della Giornata di studio organizzata dal Pontificio Consiglio per i Laici, in collaborazione con la Pontificia Università della Santa Croce, sul tema Vocazione e missione dei laici. A cinquant’anni dal Decreto conciliare “Apostolicam actuositatem” (10 novembre 2015).

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impegnati nelle istituzioni sanno che la Chiesa non si confonde con la comunità politica e non è legata ad alcun sistema politico. Essi pertanto hanno il compito di vivere responsabilmente e autonomamente il loro impegno: la laicità chiede di perseverare nella scelta dell’essenziale della fede cristiana che, come tale, non può essere prestata come copertura ad alcuna contingente operazione politica»17. Nel Concilio Vaticano II tutta la Chiesa si rapporta ad una società e ad un mondo visti con partecipazione, speranza e solidarietà, non come sfera insidiosa e nemica da cui solo difendersi apologeticamente con scomuniche, condanne e divieti, sentendosi cittadella assediata, o da cui evadere spiritualisticamente per non sporcarsi le mani. In fedeltà al Verbo che si fa carne e storia (Gv 1,14) perché il mondo si salvi per mezzo di Lui (Gv 3,17), l’approccio della Chiesa alla contemporaneità si fa coinvolgente apertura al valore intrinseco della legittima autonomia delle realtà terrene e delle discipline che se ne occupano con metodi propri (cf. GS 36). Questo riconoscimento delle leggi e valori propri delle cose create, delle esigenze di autonomia delle scienze, fondato sulla consistenza, verità e bontà intrinseca della condizione creata da Dio come unica fonte delle realtà profane e delle realtà di fede, è probabilmente un passaggio decisivo per la laicità come rapporto tra cristiani e un mondo che si sente rispettato e apprezzato dai credenti nella sua rivendicazione più preziosa: l’autonomia. Tale approccio ha favorito e sbloccato nella Chiesa nuove forme di comunicazione e collaborazione, reciproci apporti tra fede e scienza, tra fede e cultura, fede e società, uno stile testimoniale di abitazione partecipativa della città degli uomini con la proposta di senso che scaturisce dalla fede cristiana. In questo senso la laicità può esser vissuta come sfida, occasione positiva e impegno a costruire assieme a tutte le istanze delle società e delle culture il bene comune nella città dell’uomo a misura d’uomo, la civiltà dell’amore, con la custodia attiva del mondo e del creato da consegnare alle generazioni future, con la centralità dell’essere umano, la promozione della libertà religiosa e del dialogo interreligioso come contributo alla giustizia e alla pace. «Il tema della laicità in un contesto pluralistico che promuove e garantisce la libertà religiosa è, al tempo stesso, una sfida per chi si sente estraneo alle religioni e per quanti credono. Lo Stato e i suoi cittadini vi trovano un terreno di coltura propizio per radicare l’esperienza democratica anche nei contesti più plurali»18.

17

Cf. E. PREZIOSI, «Nuovi confini per laicità e libertà religiosa», 523.

18

Cf. E. PREZIOSI, «Nuovi confini per laicità e libertà religiosa», 523.

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Laicità come nuovo linguaggio di misericordia da Giovanni XXIII alla Chiesa in uscita di papa Francesco Papa Giovanni XXIII in apertura del Concilio Ecumenico Vaticano II (11 ottobre 1962) ha prospettato da parte della Chiesa, che «vuole mostrarsi madre amorevolissima di tutti, benigna, paziente, mossa da misericordia e da bontà verso i figli da lei separati», l’uso della medicina della misericordia19, con una metafora terapeuticaospedaliera della Chiesa ripresa spesso da papa Francesco, nel cui pontificato la misericordia è messaggio e linguaggio centrale. Egli parla della Chiesa come ospedale da campo, casa aperta a tutti in cui curare le ferite dell’umanità20 con l’accoglienza, la misericordia, la consolazione e la solidarietà, con l’ascolto della richiesta di aiuto e perdono che sale da coscienze tormentate e pentite. L’appartenenza a Dio nella Chiesa che si comprende come il popolo che ha ottenuto misericordia (cf. 1Pt 2,9-10) diventa offerta di misericordia e di speranza che può rischiarare il cammino di tutti. Siamo di fronte ad un nuovo paradigma di laicità. Possiamo parlare in questo senso della misericordia come di un nuovo stile e di un nuovo linguaggio di comunicazione tra Chiesa e mondo, non più solo polemico, sanzionatorio, didattico, paternalistico, autoreferenziale, che aspetta che l’interlocutore venga a sé solo per ricevere e imparare. Tale novità si colloca in una immagine e modello di Chiesa che papa Francesco aiuta ad essere più sinodale e corresponsabile del rapporto col mondo al suo interno, meno accentrata sull’Europa occidentale per essere “a porte aperte”, mossa dal Vangelo (cf. Mt 15,30; 22,9) ad uno stile “in uscita” da sé verso tutti, verso le periferie dell’esistenza21 . Una Chiesa libera da strumentalizzazioni ideologiche e da confusioni col potere politico per battaglie identitarie, libera dal clericalismo che svaluta la grazia, la creatività e la profezia propria della identità battesimale in ciascun cristiano, «cerca di controllare e di frenare l’unzione di Dio sui suoi» 22. Una Chiesa che di fronte alle nuove sfide antropologiche e socio-culturali non innalza muri, non si chiude e non si difende, ma, offrendo il contributo della verità e della gioia del 19

GIOVANNI XXIII, Discorso di solenne apertura del Concilio ecumenico Vaticano II, 7.2-3. C f . h tt p s : / / w 2 . v at i c a n . v a / c o n t e n t / j o h n -x x i i i / i t / s p e e c h e s / 1 9 6 2 / d o c u m e n t s / h f _ j xxiii_spe_19621011_opening-council.html 20

Cf. FRANCESCO, Intervista con p. Antonio Spadaro (19 agosto 2013); Omelia nella Veglia di preghiera per la famiglia promossa dalla Conferenza Episcopale Italiana in preparazione alla XIV Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei Vescovi, 3 ottobre 2015. 21

Cf FRANCESCO, Esortazione apostolica Evangelii Gaudium (24 novembre 2013), 20-24; 46-49; 76-134; 177-258. 22

Cf. FRANCESCO, «L’indispensabile impegno dei laici nella vita pubblica», Lettera al card. M. Ouellet, Presidente della Pontificia Commissione per l'America Latina, 4 marzo 2016.

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Vangelo sulla vita e la convivenza umana, sull’amore umano, il dialogo per la pace e la giustizia, si mette sulle strade di tutti, si espone coraggiosamente all’incontro e al confronto con tutti, offre la compagnia della cura delle fragilità, della misericordia e dell’accoglienza, con la consapevolezza che Dio Amore è il Padre di tutti che è presente in tutti e agisce per mezzo di tutti (cf. Ef 4,6). In questa rivelazione scorgiamo il fondamento di una laicità come stile e linguaggio evangelico nella comunicazione tra appartenenza al popolo dei credenti in Cristo e altre appartenenze. Papa Francesco mostra «che è possibile essere presenti nella società come credenti e dialogare a partire dalla fede “con fraterna vicinanza”, senza minacciare interdetti o scomuniche, ma senza per questo sminuire o gettare a mare il tesoro che viene dalla fede. Anzi, ci ha mostrato che questa è la vera strada per essere oggi testimoni della buona notizia»23, e ridirla significativamente nel contesto contemporaneo, mettendosi in ascolto delle profonde aspirazioni, delle gioie, delle speranze e delle angosce dell’umanità, del grido dei poveri, delle vittime della cultura dello scarto, delle urgenti esigenze della dignità di ogni essere umano e di una convivenza sempre più pacificata, giusta, riconciliata, collaborativa e corresponsabile.

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Cf. G. COSTA, «Papa Francesco, testimone di laicità (anche per i cattolici)», Aggiornamenti sociali, ottobre 2013, 629-636, 636.

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Alessandro Cucuzza
 docente di filosofia delle religioni

Aspetti filosofici di un processo in corso: 
 la secolarizzazione Secolarizzazione o secolarismo, laicità o laicismo La tesi che sosterrò in questo articolo, sintesi di un intervento presso il Centro Veritas di Trieste, è la seguente: non vi può essere un corretto esercizio della laicità dello stato, senza una corretta lettura del fenomeno della secolarizzazione che l’Occidente cristiano sta vivendo da oramai alcuni secoli. Questo contributo è un’analisi degli aspetti filosofici di tale processo, con la finalità di individuare quale possa essere, in tale contesto, la giusta relazione tra l’esperienza religiosa e la sfera pubblica (la laicità); il tutto avverrà attraverso un’indagine di carattere storico-sociologico, che ci permetterà di evidenziare le diverse connessioni tra sfera pubblica ed esperienza religiosa oggi.

Aspetti e prospettive diverse del processo di secolarizzazione Il termine secolarizzazione riesce a connettere diversi aspetti, da quello giuridico a quello culturale, socio-strutturale, teologicofilosofico e della ricerca sociologica. Il termine viene introdotto per la prima volta con un uso prettamente giuridico nelle trattative per la pace di Westfalia (1644 - 1648), al termine della guerra dei Trent’anni, tra Impero, Svezia e nazioni protestanti e della guerra degli Ottant’anni tra Impero e Francia. Al di là degli esiti politico-storici di queste vicende, a noi interessa che cosa comportasse precisamente l’introduzione, in tale contesto, di questo termine. Per “secolarizzazione” s’intendeva il passaggio di proprietà di terreni, monasteri, case, scuole ed istituzioni, dall’uso e dalla appartenenza della Chiesa all’uso ed alla appartenenza dello Stato. Si configura quindi, in relazione alla nuova configurazione politico-religiosa di determinati territori, una loro diversa connotazione dal punto di vista della giurisdizione, dal punto di vista dell’aspetto socio-strutturale. La “secolarizzazione” è quindi inizialmente un processo scevro da ogni valutazione ideologica, è un semplice passaggio di beni dalla Chiesa a proprietari civili.

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Tale passaggio, solo successivamente, a seconda dei diversi punti di vista, sarà valutato da un lato come “liquidazione illegittima di un potere religioso” (da parte della Chiesa), dall’altro come “liquidazione di un potere religioso illegittimo” (da parte dei circoli di pensiero maggiormente orientati ad una lettura laicista dell’evento). Da tali riletture dell’evento, con “secolarizzazione” si intenderà non più soltanto un spetto storico-socio-strutturale, ma un fenomeno o un aspetto culturale, sotto due varianti di lettura: secolarizzazione intesa come affrancamento del profano dal sacro, oppure come indebolimento dei contenuti religiosi presenti nelle società occidentali, cioè come de-cristianizzazione della società. Possiamo leggere quindi in questo passaggio il termine “secolarizzazione” non come un rifiuto ma come una riduzione dell’incidenza ed azione della religione a fronte di altre attività umane che reclamano la loro autonomia, ed anche come estromissione del sacro dal profano a favore di quest’ultimo esaltato nella sua essenza ed autonomia24. L’uso del termine secondo le diciture appena prese in esame svilupperà, nella metà del secolo XIX, un dibattito trasversale su tale processo, tra teologia, sociologia e filosofia, dibattito dai contorni molto ampi quanto imprecisi, di cui cercherò ora sinteticamente di dare una presentazione25.

Le voci del dibattito Nel 195326 Gogarten avrà il merito di conferire a tale termine una precisa connotazione teologica: “La secolarizzazione è termine che designa la maturità dell’uomo che è capace di prendere la responsabilità per la vita, la forma e l’andamento di essa e per la forma del proprio mondo”. Vi è inoltre secondo tale autore una distinzione tra “secolarismo”, ove viene ritenuta inutile ogni questione che sorpassa il visibile, l’afferrabile, e quindi irrilevante, se non addirittura pericolosa, ogni influenza dell’esperienza religiosa nella sfera pubblica (laicismo) e, dall’altra parte, “secolarizzazione”, ove si intende quell’atto dovuto per cui l’uomo è nel secolo e debba restarvi senza però negare Dio, ma rimanendo a Lui aperto, in una tensione di autonomia delle realtà temporali. A tale termine fa pendant giustamente una visione laica dello stato (laicità) come rispetto dell’esperienza religiosa, ma nella difesa della piena autonomia della sfera pubblica. 24

Posto il fatto che nessuno sappia bene effettivamente cosa sia sacro e cosa sia profano, e che in un’ottica neotestamentaria non sia più opportuno distinguere tra sacro e profano (Cfr.: Lettera agli Ebrei). 25

Cfr.: J.C. Monod, La querelle de la sécularisation, Librairie Philosophique J. Vrin, Paris 2002. 26

Cfr.: P. Gogarten, Destino e speranza dell’epoca moderna, Morcelliana, Brescia 1972. 13


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Sempre nel 195327 a Gogarten dobbiamo una precisazione ulteriore dei termini. Vi sono infatti, secondo l’autore, due forme di secolarizzazione, una favorevole alla fede, in quanto dà all’uomo la sua responsabilità ma nella soggezione a Dio, l’altra contraria ad essa in quanto dà all’uomo la consapevolezza di essere l’unico salvatore del mondo. Ma è negli anni ’60 e ’70 che il dibattito sulla secolarizzazione si svilupperà ulteriormente, e sono diverse le voci che si esprimono a questo proposito. Nel 196528 Cox, sociologo statunitense, teorizza il necessario avvento di una città secolare che agevoli un cristianesimo finalmente adulto, libero, affrancato da ogni mito, da ogni concessione al potere, inteso come realizzazione di un’esperienza di fede finalmente libera dai pesi della storia, capace di ritornare alla purezza delle sue origini. Nel suo contributo emergono chiaramente alcune idee di fondo: in primo luogo l’idea che la secolarizzazione sia un processo in fieri, con un esito che s’intravvede positivo; in secondo luogo emerge l’idea che tale esito sia insito nella natura dell’evento cristiano stesso, in terzo luogo che sia proprio il cristianesimo in Occidente ad essere stato il fautore della società secolare stessa e primo fruitore dei benefici che essa comporta. A confronto su tali posizioni vi è anche una voce italiana: quella di Del Noce29. In tale dibattito emerge, come elemento condiviso, il fatto che con “secolarizzazione” si debba intendere una vicenda, un passaggio, un processo, un evento che si sta ancora evolvendo e configurando come “una trasformazione dal sacro, divino, soprannaturale al profano, secolare, naturale; da una comprensione verticale ad una orizzontale del mondo e della storia, con una progressiva esclusione della religione e della Chiesa”. 30 Audet 31 in tale passaggio ne sottolineerà la modalità di estrema duttilità. L’idea che emerge, e che poi nei fatti non si realizzerà, e che la secolarizzazione, fenomeno insito nell’Occidente cristiano, porterà necessariamente alla dissoluzione del sacro. Questi, insieme ad altri teologi, andranno a fondare la teologia radicale della “Morte di Dio”.

27

Cfr.: P. Gogarten, La questione di Dio, Queriniana, Brescia 1971.

28

Cfr.: H. Cox, La città secolare, Vallecchi, Firenze 1968.

29

Cfr.: A. Del Noce, L’epoca della secolarizzazione, Giuffrè, Milano 1970.

30

Cfr.: A. J. Nijk, Secolarizzazione, Queriniana, Brescia 1973.

31

Cfr.: J.P. Audet, Le sacre et le profane: leur situation en Christ, in Nouvelle revue theologique, 1957, pp. 39-40. 14


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In tale contesto, a livello della riflessione sociologica e statistica, emergono diverse posizioni che, all’interno della condivisa riduzione d’influenza del sacro, propongono posizioni di compromesso o mediazione nel rapporto tra fede personale ed evidenza sociale del fenomeno religioso, nel rapporto tra sfera pubblica e coscienza personale di ogni singolo individuo. Non possiamo non considerare la posizione “di partenza”, quella di Durkeim32 che, pur non usando il termine “secolarizzazione” conosce ed esamina il fenomeno intendendolo come marginalizzazione della religione nel passaggio della differenziazione istituzionale tra la società tradizionale e quella moderna. “Come estensione sempre minore dello spazio di vita sociale che la religione ricopre. In origine essa si estendeva su tutto, tutto ciò che era sociale era religioso. I due termini erano pressoché sinonimi. In seguito, a poco a poco le funzioni politiche, economiche, scientifiche, si sono rese indipendenti dalla funzione religiosa costituendosi a parte, assumendo un carattere temporale sempre più accentuato. Dio, che in principio era presente in tutte le relazioni umane, per così dire, si ritira progressivamente da esse, abbandonando il mondo agli uomini e alla loro controversia”. Come Durkeim così Tönnies33, per il quale la secolarizzazione si caratterizza “come passaggio dalla comunità definita dalla volontà sociale, come concordia, costume e religione, ad un’età della società definita della volontà sociale come convenzione, politica, opinione pubblica.” Per questi due autori vi è una metamorfosi, più che una scomparsa, della religione nelle società “altamente differenziate”. La religione sarà da intendersi come “tutti quei valori, credenze e riti capaci di suscitare intensi sentimenti comuni e di generare rispetto morale e coesione sociale, necessari perché una società possa sussistere in quanto tale”. Permane quindi, a detta di questi autori, una valenza pubblica del fenomeno religioso, ma in una sua mutata trasformazione istituzionale. D’impatto molto forte sull’argomento vi è il pensiero del sociologo Max Weber34 che utilizza il termine Säkularisation nel contesto dell’Entzauberung der Welt, disincantamento del mondo: “è l’affermarsi di una immagine del mondo per cui non occorre più ricorrere alla magia per ingraziarsi gli spiriti”. In tale nuovo mondo tutte le sfere, quella interna e quella esterna dell’umano, tendono ad acquistare una loro autonoma legalità (sfera economica, sfera politica, sfera estetica, intellettuale). La nascita di tale mondo è in contrasto con il fenomeno religioso che “non scompare interamente dal mondo moderno ma, spogliato di 32

Cfr.: E. Durkeim, De la division du travail social, Paris 1893.

33

Cfr. F. Tnnies, Gemeinschaft und Gesellschaft, Leipzig 1887.

34

Cfr. M. Weber, Gessammelte Aufsätze zur Religionssoziologie, Tübingen 1920. 15


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ogni capacità di subordinare a sé i vari ambiti della vita sociale, risulta confinato alla incomunicabilità inafferrabile dell’esperienza mistica”. La riflessione sociologica fin qui tratteggiata quindi ci riporta a confermare l’idea di secolarizzazione come processo, fenomeno storico macro- sociale, di autonomizzazione delle diverse sfere della vita dall’influenza religiosa.

Dalla lettura della realtà alle possibili diverse teorie della secolarizzazione Dal contesto di riflessione e di dibattito a livello teologico e di analisi sociologica discendono diverse prospettive, che definirei modalità relazionali, tra il pubblico e il privato, il sacro e il profano, che portano a diverse teorie della secolarizzazione e a diverse forme di laicità. La diversità delle impostazioni nasce dalla lettura corretta o dalla riduzione arbitraria della portata e dell’importanza del fenomeno religioso, e da quanto si reputi il fenomeno della secolarizzazione come un fenomeno ineluttabile, o solo di assestamento, nel rapporto tra fede e vita. Una prima teoria intende la secolarizzazione come desacralizzazione. Se la religione corrisponde ad una serie di pratiche relative il sovrannaturale, essa si lega ad una visione necessariamente non razionale del mondo stesso, legata alle comunità rurali. Il fenomeno della “societizzazione” come impersonalizzazione dei rapporti priva necessariamente la religione dei suoi adepti. Di conseguenza il fenomeno della secolarizzazione induce a generare movimenti religiosi alternativi a quelli tradizionale in linea con la dimensione spiccatamente edonistica, individualistica e privata del sacro. Non è quindi questo un ritorno del sacro ma un suo adattamento alla nuova forma societaria 35. La seconda teoria vede la secolarizzazione come privatizzazione. La secolarizzazione è intesa in questo caso come un processo soggettivo, dove il fenomeno religioso perde ogni rilevanza sociale, si è ritirato nella sfera privata. La religione passa dal disegnare un “cosmo sacro” al produrre un diffuso “pluralismo religioso”, quasi a livello di marketing del sacro, con un valore però non istituzionale ma solo legato al singolo. La religione così diviene solo un aspetto privato, ormai socialmente invisibile36. Una terza teoria infine considera la secolarizzazione come trasposizione della religione alla sfera secolare. Le Chiese tradizionali, pur assumendo una posizione socialmente defilata, minoritaria, rimangono apportatrici di valori che la società fa 35

Cfr.: B. Wilson, La religione nelle società secolari, Londra 1966.

36

Cfr.: Th. Luckmann, L. Berger, Secolarizzazione e pluralismo, 1966. 16


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propri ed istituzionalizza. La religione perde così ogni valenza kerigmatica e rimane solo fonte di valori socialmente utili e condivisibili37 . In questa terza teoria della secolarizzazione, da un lato il pluralismo denominazionale cristiano non pregiudicherebbe la continuità dei valori, dall’altro la responsabilità personale dell’individuo non sarebbe venuta meno, scomparso il quadro delle religioni istituzionali. La secolarizzazione non eliminerebbe quindi i valori religiosi ma li trasferirebbe in una nuova dimensione morale laica: è questa la religione civile, la religione secolare, la religione politica. Questa è intesa come insieme di valori collettivi derivanti dalla tradizione cristiana, ma trasformati e adattati dal singolo38 . Traccia di questo modo di vedere l’esito del cristianesimo si può ben evidenziare nel pensiero del filosofo italiano Gianni Vattimo39. Tale visione ha fatto breccia anche all’interno della laicità chiusa, quella del sistema giuridico francese, dove il presidente Sarkozy ha voluto un vescovo cattolico all’interno di un comitato nazionale di etica. Essa è ben presente anche all’interno del contesto di una laicità aperta come è quello italiano: si vedano le aperture di dialogo tra l’allora presidente del Senato Marcello Pera e Benedetto XVI. Le sue origini sono invece ascrivibili al contesto della laicità americana40. Queste teorie della secolarizzazione non danno ragione o cercano di limitare od orientare il fenomeno religioso. Una corretta interpretazione di questo processo, così come spero sia emersa dalla veloce carrellata di teologi e sociologi qui menzionati, dovrebbe portare al riconoscimento da un lato della giusta autonomia delle diverse sfere, sacra e profana, dall’altro dell’utile e necessaria collaborazione tra di esse. La secolarizzazione si sposerebbe in questo caso con una laicità equilibrata, in una sana autonomia e fruttuosa collaborazione delle diverse anime, all’interno delle società eterogenee del occidente contemporaneo41.

37

Cfr.: T. Parson, La religione nell’America post- industriale, 1974; R. N. Bellah, Religione civile in America, 1966. 38

Cfr.: A. Autiero, M. Magatti, Etica civile nella modernità, Ed. Messaggero, Padova 2014. 39

Cfr.: G. Vattimo, Credere di credere, 1996; Dopo la Cristianità, 2002; Il futuro della religione, 2005. 40

Cfr.: nota 16.

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Sui concetti di laicità qui presi velocemente in esame cfr.: R. Mancini, La laicità come metodo, Cittadella Ed., Assisi 2009; G. Boniolo, Laicità, Einaudi, Torino 2006. 17


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Giovanni Grandi
 docente di antropologia filosofica

La laicità vista da dentro e da fuori. Alcuni problemi del tempo presente Il concetto di “laicità” si presta a diverse flessioni: si nota spesso una diversità tra il modo di intenderla nel contesto civile e in quello ecclesiale, oltre naturalmente alle varianti di significato che si profilano quando sta ad indicare la forma pubblica di rapporto tra lo Stato e le Istituzioni confessionali (si parla ad es. della “laicità alla francese”). Esistono però anche altre accezioni, per certi versi più ordinarie, che rappresentano a loro volta l’eco di un modo di intendere la figura del “laico”. Vorrei avviare la riflessione proprio da una di queste, come uno spunto per sollevare una questione di ordine generale: nel nostro immaginario il “laico” non si definisce mai in modo autonomo, ma sempre attraverso ciò che lo differenzia da altre figure o da altri modi di essere. Il laico esiste perché simultaneamente esiste qualcuno o qualcosa che laico non è. Quello di “laicità” è, potremmo dire, un “concetto di coppia” e proprio per questo è importante capire di volta in volta qual è il profilo dei due “partner” e cosa supponiamo caratterizzi l’uno e non l’altro nella loro relazione. Il “dentro” e il “fuori”, secondo le intenzioni di chi ha chiesto questo approfondimento, indicano il contesto intraecclesiale e quello civile, due ambiti in cui lo stesso termine assume significati diversi, soprattutto a livello implicito e di cui può essere utile tenere conto. Quel che propongo sono poco più che appunti per una riflessione libera ed esplorativa, senza alcun intento sistematico, un semplice modo per provare a raccogliere le idee e aprire una discussione.

La laicità vista da “dentro” Chi è il laico nella Chiesa? Non intendo, come anticipavo, ritrovare ancora una volta le definizioni “canoniche” ma fare delle osservazioni che investono quel che più spesso la parola evoca nella mentalità comune, il tipo di rapporti che la parola implicitamente e spesso inavvertitamente disegna. Per guadagnare questo livello di comprensione vorrei dunque partire da un’accezione che forse potrà sorprendere, come ha sorpreso me quando l’ho sentita per la prima volta. Il contesto era quello sanitario: durante un corso per volontari il medico che illustrava alcune manovre di rianimazione più volte ha sottolineato come si trattasse di procedure facilmente assimilabili dai “laici”. L’accezione di laico si 18


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sovrappone qui a quella di profano, e rappresenta il profilo di chi non è uno specialista, di chi non se ne intende, di chi può operare con una certa autonomia ma solo fino ad un certo punto, perché poi non sa più dove mettere le mani. Più oltre occorre che intervengano quelli che sono del mestiere. C’è allora una prima coppia da tenere presente, che è quella che mette in relazione il popolano e il sapiente, e in questo senso possiamo dire che l’utilizzo del medico è etimologicamente sensato, perché Laòs è il popolo nell’accezione della gente comune, non specializzata. Poi laikòs trasla anche nell’ambito della distinzione che evidenzia lo scarto tra il sacro e il profano e quindi tra i ministri del culto e la gente comune. Qui vediamo allora il laico in una posizione asimmetrica rispetto ad altra figura – quale che sia – che ne sa di più, che ha studiato di più, che sa dove mettere le mani. Una figura più preparata e specializzata potremmo dire. In qualche modo noi potremmo anzitutto chiederci se non sia questo il modello che più spesso funziona implicitamente proprio nel discorso intraecclesiale, dove al posto del medico che cura i corpi c’è il presbitero che si occupa della cura delle anime; sono entrambi degli specialisti, e di fronte a loro c’è il laico, la persona che non se ne intende. Che non se ne intende di cosa però? In ambito medico è chiaro, ma in ambito ecclesiale spesso tocchiamo un campo vasto: di liturgia, ma poi di fede, di dottrina, di morale, persino di politica. Il che può anche essere vero in molti casi, ma se questa incompetenza un po’ generale viene assunta come vera sempre, cioè come tipica del laico, è allora che possiamo parlare di un modello di comprensione del laicato nella Chiesa. È attivo in qualche modo questo modello? A leggere solo il nr. 37 della Lumen Gentium dovremmo dire di no. Qui è molto chiaro che il rapporto non è giocato su una asimmetria di competenze, ma su una logica di mutuo servizio – nella distinzione dei ruoli quanto al magistero naturalmente – e anzi, su «rapporti familiari tra i laici e i pastori [da cui] si devono attendere molti vantaggi per la

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Chiesa»42 . In modo un po’ provocatorio vi propongo però un sintomo che potrebbe portarci a rispondere diversamente e a chiederci se e perché in realtà proprio questo modello – non certo ecclesiale – si attui talvolta nella vita concreta della Chiesa. Un campo di osservazione molto interessante è appunto quello dell’impegno socio-politico, e in particolare dell’impegno dei laici nell’ambito politico-legislativo. Ci sono alcune questioni recentemente all’ordine del giorno dell’agenda pubblica che hanno sollevato dibattiti molto accesi: pensiamo al tema delle “unioni civili”. Su questo specifico punto i cattolici hanno a disposizione una Nota – del 2003 – della Congregazione per la dottrina della fede, che titola “Considerazioni circa i progetti di riconoscimento legale delle unioni tra persone omosessuali”, in cui al nr. 10 troviamo delle indicazioni operative davvero minute, che sono molto di più di semplici “considerazioni”: «Se tutti i fedeli sono tenuti ad opporsi al riconoscimento legale delle unioni omosessuali, i politici cattolici lo sono in particolare, nella linea della responsabilità che è loro propria. In presenza di progetti di legge favorevoli alle unioni omosessuali, sono da tener presenti le seguenti indicazioni etiche…» (e si procede distinguendo il caso in cui la proposta sia avanzata per la prima volta da quella in cui una legge di questo tipo sia già in vigore).

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LG 37: «I laici, come tutti i fedeli, hanno il diritto di ricevere abbondantemente dai sacri pastori i beni spirituali della Chiesa, soprattutto gli aiuti della parola di Dio e dei sacramenti; ad essi quindi manifestino le loro necessità e i loro desideri con quella libertà e fiducia che si addice ai figli di Dio e ai fratelli in Cristo. Secondo la scienza, competenza e prestigio di cui godono, hanno la facoltà, anzi talora anche il dovere, di far conoscere il loro parere su cose concernenti il bene della Chiesa [118]. Se occorre, lo facciano attraverso gli organi stabiliti a questo scopo dalla Chiesa, e sempre con verità, fortezza e prudenza, con rispetto e carità verso coloro che, per ragione del loro sacro ufficio, rappresentano Cristo. I laici, come tutti i fedeli, con cristiana obbedienza prontamente abbraccino ciò che i pastori, quali rappresentanti di Cristo, stabiliscono in nome del loro magistero e della loro autorità nella Chiesa, seguendo in ciò l'esempio di Cristo, il quale con la sua obbedienza fino alla morte ha aperto a tutti gli uomini la via beata della libertà dei figli di Dio. Né tralascino di raccomandare a Dio con le preghiere i loro superiori, affinché, dovendo questi vegliare sopra le nostre anime come persone che ne dovranno rendere conto, lo facciano con gioia e non gemendo (cfr. Eb 13,17). I pastori, da parte loro, riconoscano e promuovano la dignità e la responsabilità dei laici nella Chiesa; si servano volentieri del loro prudente consiglio, con fiducia affidino loro degli uffici in servizio della Chiesa e lascino loro libertà e margine di azione, anzi li incoraggino perché intraprendano delle opere anche di propria iniziativa. Considerino attentamente e con paterno affetto in Cristo le iniziative, le richieste e i desideri proposti dai laici e, infine, rispettino e riconoscano quella giusta libertà, che a tutti compete nella città terrestre. Da questi familiari rapporti tra i laici e i pastori si devono attendere molti vantaggi per la Chiesa: in questo modo infatti si afferma nei laici il senso della propria responsabilità, ne è favorito lo slancio e le loro forze più facilmente vengono associate all'opera dei pastori. E questi, aiutati dall'esperienza dei laici, possono giudicare con più chiarezza e opportunità sia in cose spirituali che temporali; e così tutta la Chiesa, forte di tutti i suoi membri, compie con maggiore efficacia la sua missione per la vita del mondo».

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Non mi interessa qui il merito della questione, ma il fatto che la Congregazione ritenga necessario redigere un documento con destinazione universale che contiene non solo, appunto, una serie di considerazioni ma anche indicazioni operative molto chiare e specifiche sul da farsi in sede legislativa civile. Mi interessa dunque interrogare il risvolto di mentalità. Noi tutti tendiamo a dare istruzioni precise su come muoversi solo quando riteniamo che chi dovrà agire non abbia le competenze per farlo, o quando riteniamo che non ci sia da fidarsi, e che quindi sia meglio chiarire preventivamente il consentito e il vietato, a scanso di equivoci. Proviamo dunque a chiederci perché, nel caso che ho richiamato, si è avvertito il bisogno di dettagliare così tanto. Non si riteneva che i laici cristiani impegnati in politica nelle diverse assemblee legislative fossero all’altezza di un buon discernimento sul da farsi nelle sedi civili istituzionali? Era davvero necessario accompagnarne il pensiero fino alle più concrete determinazioni? In un certo modo qui vediamo al lavoro proprio il modello che ho richiamato prima, quello che vede da un lato gli “specialisti” – ministri ordinati – e dall’altro i “poco competenti” – i cristiani laici –. Al di là delle intenzioni, il messaggio che passa implicitamente è che da una parte abbiamo il laicato cattolico, che quantomeno appare incapace di discernimento, dal momento che si stima che abbia bisognoso di istruzioni al dettaglio (qui in ambito addirittura legislativo civile). Dall’altra abbiamo chi invece se ne intende, che sa dove vadano messe le mani e si tratta di un pool (passatemi questa espressione) di vescovi e presbiteri. Che il pool magari si avvalga del consiglio di laici esperti, cosa che probabilmente avviene, non appare certo in trasparenza: l’effetto che si ottiene (ripeto a scanso di equivoci: non intenzionalmente) è che l’incompetenza venga associata alla figura stessa del laico e la competenza a quella del ministro ordinato. Ancora una volta, come nel caso del sapere medico, il laico è semplicemente colui che per definizione non se ne intende. Naturalmente questo tipo di visione non è priva di conseguenze, ma non è di questo che qui ci interessava discutere.

La cristianità perduta. La laicità vista da fuori Ora vorrei spostare la prospettiva della riflessione e provare a gettare uno sguardo da fuori, sempre provando a tenete il baricentro sull’idea di laicità nei suoi funzionamenti impliciti. Anzitutto cosa c’è lì fuori? Credo che su un punto ormai c’è un consenso unanime: fuori non c’è più quella che in altri tempi si sarebbe detta la «cristianità». A questa conclusione era giunto negli anni Cinquanta del Novecento anche Jacques Maritain, il teorico che solo una quindicina di anni 21


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prima aveva proposto l’ideale della “nuova cristianità”. Vale la pena qui di fare solo qualche richiamo telegrafico. Quello di «cristianità» è un concetto filosofico-politico, che indica una forma positiva di incontro tra cristianesimo e società e che si esprime in un assetto istituzionale oltre che in una vita culturale vivificati dallo spirito evangelico. Le forme di cristianità – questo il pensiero di Maritain – possono essere diverse. «Il medioevo – scriveva già in Religione e Cultura (1930) – aveva formato la cultura secondo un tipo “sacrale” della vita civile, fondato sulla convinzione che tutte le istituzioni terrene, con tutto il loro vigore e la loro forza, sono al servizio di Dio e delle cose divine, per realizzare quaggiù il suo regno»43. Questa forma di cristianità aveva forse il pregio – tutto da verificare storicamente – di garantire un ordine sociale cristiano, ma aveva certo il difetto di ridurre il cristianesimo ad una forma di etica sociale al servizio di un potere temporale. Quali che ne fossero i pregi e i limiti, la cristianità sacrale è tramontata. E Maritain negli anni Trenta si interrogava sulla possibilità di ricreare una nuova forma di cristianità, una cristianità profana 44 – ecco che ritorna la coppia sacro-profano – dopo l’attraversamento dei totalitarismi; forme chiare, questi ultimi, di «umanesimo antropocentrico»: proposte sociali autodistruttive, perché incapaci di accompagnare l’uomo all’autenticità della vita spirituale che non è incontro con se stessi ma con l’Altro e per questo con gli altri. L’aspetto per noi interessante è che l’immediato dopoguerra sembrò in qualche modo ritrovare la via per la costruzione di una società cristianamente ispirata. Maritain non era affatto favorevole al partito unico dei cattolici, tuttavia – specialmente in America latina – Umanesimo Integrale divenne il punto di riferimento per trovare una buona sintesi tra cristianesimo e democrazia, cosa che per noi oggi può sembrare scontata ma non lo era certamente alla fine dell’Ottocento (Superfluo richiamare qui il Non expedit di Pio IX del 1874). Il successo storico dei partiti democratici cristiani nell’immediato dopoguerra rilanciò effettivamente una nuova forma di cristianità? Come dicevo sopra, Maritain divenne sempre più dubbioso e, appunto, già negli anni Cinquanta parlava piuttosto di «minoranze profetiche d’urto»45 . Secondo il filosofo rimaneva necessario che i cristiani laici non si 43

J. Maritain, Religione e cultura, Guanda Editore, Modena 1938, p. 23. 44

J. Maritain, Umanesimo Integrale, Borla, Roma 1980, p. 197. 45

Cfr. J. Maritain, L’uomo e lo stato, Marietti, Genova-Milano 2003, p. 137 e ss.

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ritirassero dall’impegno nelle strutture politiche: a suo parere la presenza cristiana nella polis non poteva essere concepita come una pura coscienza critica, estranea ai luoghi istituzionali perché indifferente alle questioni di governo o perché autoesiliata in nome di qualche malintesa affermazione di purezza. Certamente però l’ottimismo – sempre cauto – degli anni Trenta rispetto ad un rilancio della cristianità a portata di mano era svanito. Si affermava piuttosto l’idea di una semina paziente, di cui era difficile dire se si sarebbero raccolti frutti e quali sarebbero stati. Soprattutto si affermava l’idea che la stessa azione politica avrebbe dovuto fare i conti con una condizione fisiologia di minoranza nella società. Nel 1985 Pietro Scoppola, alla vigilia del Convegno ecclesiale di Loreto, pubblicò una serie di riflessioni titolandole La nuova cristianità perduta e mostrando lucidamente il tramonto dell’illusione che per alcuni decenni aveva fatto pensare a molti che l’occidente europeo fosse tornato ad essere più significativamente cristiano dopo il delirio dei totalitarismi. A proposito però di lucidità, vale la pena di rileggere una pagina di Emmanuel Mounier: «La generazione cristiana che seguì la guerra del ‘14, finalmente a proprio agio nella democrazia borghese europea (giusto quando questa esalava l’ultimo respiro), partì alla conquista della sua epoca seguendo le vie tradizionali: più aderenti, più organismi, più potere. Apparentemente quello sforzo generoso e sviato fruttò in venti anni, con il “ritorno delle élites”, il gonfiamento dell’Azione Cattolica, l’avvento al potere dei partiti democratici cristiani. Gli uomini di settantacinque anni ricordando la loro difficile giovinezza cantano vittoria. Bisogna recitare la parte delle Cassandre? Neanche. Per guardare con l’ironia sufficiente questo spirito di reclutamento e di insediamento, basta aprire un settimanale cristiano, leggervi che ogni anno il mondo non cristiano guadagna qualche centinaia di migliaia di esseri umani sul mondo dell’etichetta cristiana. Basta misurare la statura delle grandi forze moderne con le piccole combinazioni clerico-parlamentari. Da tutte le parti il Cristianesimo che vorrebbe insediarsi è respinto verso il suo dramma essenziale, verso la sua condizione nativa: pellegrinaggio, debolezza, povertà»46.

Perché questo lungo inciso? Per dire che l’idea di avere immediatamente alle nostre spalle una forma popolare di “cristianità”, cioè una società diffusamente cristiana nella sua ispirazione, è un’illusione. Un’illusione che molti hanno coltivato a lungo, semplicemente perché la maggioranza delle persone all’epoca passava attraverso il catechismo e veniva a messa alla domenica. La datazione delle parole di Mounier, 1950, è importante per cogliere 46

E. Mounier, Cristianità nella storia, Ecumenica editrice, Bari 1979, p. 15.

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che gli osservatori (laici) più attenti avevano notato fin dall’immediato dopoguerra che la società occidentale aveva smesso di vivere e di pensare cristianamente a livello diffuso. La rinascita di una società cristiana non era affatto avvenuta e la breve stagione dopo i trattati di pace in cui era emerso l’impegno di grandissime personalità del mondo cattolico aveva lasciato in eredità il varo delle grandi Costituzioni europee, ma non quello di una cultura popolare più decisamente radicata nella fede cristiana di quanto non lo fosse durante l’esperienza dei totalitarismi. Con questa consapevolezza – e cioè quella di essere ben lontani da una cristianità e ben lontani dal riconoscimento che il professare la fede cristiana sia sinonimo di alta coscienza civile – provo a passare alla seconda prospettiva su cui dicevo che avrei voluto sostare: come sono visti i cristiani da fuori? Come siamo (non mi tiro certo fuori) visti da quelle generazioni ormai uscite da tempo dall’atmosfera della cristianità (o forse mai entrate a dar retta da Mounier), da quelle generazioni che del cristianesimo – per responsabilità spesso nostra – hanno conosciuto solo una caricatura moralistica, irta di divieti e vuota di slancio spirituale? Come siamo visti, potremmo dire, dai laici? Qui ci viene in aiuto la riflessione di Habermas, che ancora una volta chiama appunto in causa una certa idea di laicità. Jürgen Habermas si è occupato ripetutamente del problema della partecipazione delle tradizioni confessionali alla costruzione della polis. Ne ha fatto una questione di capacità di intendersi, di argomentare, di portare ragioni. In un lavoro del 2005 ha scritto che «oltre la soglia istituzionale che separa la sfera pubblica informale da parlamenti, tribunali, ministeri e amministrazioni, contano solo le ragioni laiche»47 . In questa prospettiva si suggerisce che c’è un modo di ragionare e di esprimersi popolare, diffuso, comprensibile da tutti e che questo modo di proporsi è quello standard nella sfera pubblica. È il modo laico di ragionare. Qui possiamo osservare che ancora una volta c’è un’eco del senso della popolarità, laico continua qui a significare “alla portata di tutti”. Habermas nota che poi però ci sono anche modi di ragionare meno diffusi, che vengono da convinzioni ed esperienze religiose particolari, non immediatamente comprensibili da tutti, che occorre in qualche modo tradurre in lingua, un po’ come se fossero dei dialetti. «I cittadini “monoglotti” – prosegue Habermas – anche quando adducono ragioni religiose, prendono posizione con intento politico. […] Hanno la facoltà di esprimersi in linguaggio religioso solo a condizione di riconoscere la riserva istituzionale di traduzione; essi, 47

J. Habermas, Tra scienza e fede, Laterza, Roma-Bari 2006, p. 33.

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fidando nell’opera cooperativa di traduzione dei loro concittadini, possono sentirsi partecipi del processo legislativo, anche se in esso contano solo le ragioni laiche»48. Qui si intende sempre il laico nel senso del popolare, ma appunto è capovolto l’ordine di preminenza: non riconosce più al non-laico una speciale sapienza, ma piuttosto una speciale incompetenza nel farsi comprendere o una parzialità di prospettiva. In un certo senso Habermas ci sta dicendo che non siamo più in grado di farci comprendere, perché argomentiamo in modo incomprensibile ai più. Ritorno in questo caso alla Nota che citavo in precedenza, che ospita una sezione centrale, la terza, intitolata “Argomentazioni razionali contro il riconoscimento legale delle unioni omosessuali”. Le argomentazioni proposte sono comprensibili per chi si muove nell’orizzonte di una razionalità aristotelico-tomista. Tuttavia il punto della questione è il modo in cui suonano quelle argomentazioni in chi non ragiona più all’interno di un quadro valoriale e assiomatico come quello che ci hanno lasciato i dottori medievali (ma poi soprattutto la neoscolastica di fine Ottocento). Provare per credere: basta sottoporre la parte centrale del documento alla lettura di un cittadino medio e vedere quanto il discorso fili dal suo punto di vista. I più vi diranno quel che garbatamente segnala Habermas: un ragionare incomprensibile. Quel che oggi appare sempre più chiaro a chi entra in contatto con altri ambiti sociali è che esistono effettivamente altri modi di pensare, altri modi di collegare i problemi, altri modi di disporre le catene causali. Letteralmente esistono altre ragioni. Sia chiaro, non ragioni migliori. Semplicemente ragioni altre. Come ha osservato Luigi Alici, il problema trasversale della società plurale contemporanea non è che valutiamo diversamente le stesse cose impiegando le stesse unità di misura: valutiamo diversamente le stesse cose avendo ciascuno la propria unità di misura. I nostri sguardi e i nostri modi di parlare tendono cioè a diventare non semplicemente diversi, ma incommensurabili. Davanti a questa alterità c’è chi insiste nel proporsi sulla scena pubblica avanzando la pretesa che noi – noi cattolici – siamo quelli che ragionano meglio di tutti e che per questo occorre fare come diciamo noi e legiferare secondo le nostre indicazioni (il che poi diventa: secondo le indicazioni dei documenti come la Nota di cui sopra). È un approccio, questo, che continua a far valere il modello di laicità da cui siamo partiti, come appunto se il laico fosse il meno specializzato e competente e viceversa il credente (e tra i credenti il più alto in grado, 48

Ivi, p. 33-34.

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cioè il ministro ordinato) il più specializzato, il più attrezzato, quello in possesso della migliore razionalità. Quel che però realmente accade oggi nella configurazione di questo rapporto è proprio ciò che descrive Habermas: funziona l’altro modello, quello per cui a livello sociale e intellettuale il credente (ordinato o meno che sia) non appare affatto come il più competente, ma viceversa come quello incapace di farsi capire, portatore di richieste di parte. E infatti ai cittadini credenti (ordinati o meno che siano) viene rimproverato di avanzare pretese di regolamentazione pubblica, valevoli dunque per tutti, derivandole dalle loro particolari convinzioni di ordine religioso. Pretese dunque eccessive, di chi suppone di essere interprete della sensibilità popolare mentre in realtà – ci suggerisce in fondo Habermas – è semplicemente portavoce di una minoranza “dialettale” e neppure se ne accorge. Qui, spero sia chiaro, non sto entrando nel merito delle questioni ma mi interessa mettere in luce la problematicità del rapporto tra la componente cristiana della società e quella non cristiana: non soltanto accade di pensarla diversamente su molte questioni particolari (è fisiologico in un contesto di pluralismo), ma leggiamo e intendiamo il nostro stesso essere in relazione gli uni con gli altri in modo molto diverso. Nessuno impedisce ai cristiani di credersi, per parte loro, sapienti e depositari della retta ragione, ma la pretesa di vedersi riconosciuto questo status viene rispedita al mittente; al contrario, su una serie di questioni i cristiani appaiono come gente che parla e ragiona in modo strano e incomprensibile. Naturalmente vale anche l’inverso: spesso ai cristiani appaiono incomprensibili le ragioni dei non cristiani, protestando che si tratta di gente che sragiona. Tuttavia i rapporti tra maggioranza e minoranza, usciti dalla cristianità, fanno pendere la bilancia in un modo ben intuibile.

Rifare il marketing o rivedere gli (impliciti) modelli di laicità? Possiamo naturalmente leggere le considerazioni di Habermas in modo minimalista, dicendo che è una questione di linguaggi e di marketing. Dal quadro che ho ricostruito potremmo trarre la provocazione a curare maggiormente il restyling del nostro modo di porci. Sarebbe già qualcosa, ma sarebbe riduttivo. Incontrare altre ragioni significa disporsi a percorsi lunghi di ascolto, anzitutto per capire come ragiona l’altro, non solo come si esprime e che cosa gli piace sentire. Il secondo modello di laicità in funzione – i cristiani, gente che non si fa capire – denuncia anzitutto un deficit di ascolto della realtà, un aver dato troppo per scontato che tutti dovessero ragionare in un certo modo, con certi riferimenti. Cosa c’è dietro a certi cambiamenti di paradigma? Di cosa sono sintomo? Quali lacerazioni o semplicemente 26


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quali incomprensioni rivela il fatto che molti abbiano abbandonato il modo di pensare che – se non è mai stato popolare – quantomeno ha accompagnato per secoli la cultura e le stesse formulazioni dottrinali e morali della tradizione cristiana? Occorre risalire anche a queste fratture per capire e per ritornare a farsi capire. Invece, il primo modello di laicità, spesso in funzione implicitamente – i laici cristiani, gente che non se ne intende –, rischia di ostacolare proprio quel riflettere ad ampio spettro di cui c’è bisogno, perché continua a suffragare nelle comunità cristiane un atteggiamento di semplice attesa di indicazioni operative al dettaglio, su qualsivoglia argomento, ma specialmente poi su quel che riguarda proprio il rapporto con la polis. Con questi due modelli, che appunto rappresentano modi di concepire le relazioni, occorre misurarsi: riconoscerli in funzione e capire quando rischiano di diventare un problema nella ricerca di una interlocuzione con il tempo e la società presente può essere importante.

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Annalisa Spedaliere
 insegnante di religione

Laicità. Questioni di attualità

Per affrontare il tema della laicità appare necessario fare una breve premessa sulla religione in generale e sul fatto che, oggi come nel passato, le diverse esperienze religiose cercano di dare risposte alle diverse domande esistenziali dell’uomo. Pertanto, nell’analizzare la relazione tra dimensione religiosa e dimensione civile nella prospettiva della “laicità”, sembra indispensabile sottolineare preliminarmente che le religioni, siano emanazione del trascendente, siano un ponte con l'altrove, sono, nella loro accezione storica, anche un fatto culturale e, in questo senso, c'è un collegamento imprescindibile tra religione e cultura. Anche Giovanni Paolo II aveva sottolineato con forza l’esistenza di un nesso imprescindibile tra vita sociale e cultura, tra morale e religione; sono realtà che «o stanno insieme o cadono insieme».49 La situazione culturale e politica del nostro paese appare stagnante, bloccata rispetto alla percezione del valore della vita sociale e civile, in particolare rispetto alla sua essenziale laicità. Ancora oggi questa parola suggerisce divisioni e conflitti. Basta ricordare che, nell'uso linguistico diffuso, essa indica, nella società, quanti prescindono da una fede in Dio e, nella chiesa, quanti non rientrano tra il clero o tra i consacrati a una particolare forma di esistenza religiosa. Pietro Ichino suggerisce in un suo saggio50 i diversi volti della laicità: 1. innanzitutto essa è autonomia del diritto dai precetti religiosi, in antitesi alle “Religioni del libro” (islamica ed ebraicoortodossa) che fanno derivare puntuali regole giuridiche dal Corano o dal Pentateuco; 2. può, inoltre, essere vista come autonomia del potere politico dalle ingerenze ecclesiastiche, in antitesi a concezioni teocratiche o confessionali; 3. può viceversa essere vista come libertà delle Chiese dall’ingerenza temporale attraverso le varie espressioni 49 SORGE B., Introduzione alla dottrina sociale della chiesa, Queriniana, Brescia 2011, 153. 50

PIETRO I., Quando l’altare va a fuoco: il cristiano, la buona politica e la religione civile, relazione in convegno Un uomo di pace in tempo di guerra, Massa, 26 giugno 2010. 28


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storiche del “giurisdizionalismo”, dal “regalismo” al “gallicanesimo” al “giuseppinismo” alle più recenti “chiese patriottiche”; 4. può, ancora, intendersi come affermazione del pluralismo religioso di contro a confessioni di stato, come aspetto di un più ampio pluralismo dei valori; 5. può intendersi come esclusione della religione dalla sfera pubblica, relegata nel privato è la laïcité de combat, secondo una tradizione, sia pure in via di lento superamento, del solo costituzionalismo francese; concezione che talvolta affiora, come vedremo, nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti a proposito della presenza di simboli religiosi nelle scuole o allorché ha giustificato forme di divieto, in taluni paesi, del velo islamico); 6. può essere vista, infine, a prescindere dal riferimento immediato alla dimensione religiosa, come rifiuto dello Stato etico, che tende a subordinare la libertà dell’individuo a verità e ideologie di stato. Ai predetti significati della laicità si può aggiungere un altro significato che possiamo così definire con Ichino e, più recentemente, con Mancini: “laicità come metodo”, un metodo in grado di accomunare non credenti e credenti e di realizzare le condizioni per la coesistenza fra valori e progetti di vita contrastanti, in primo luogo il rifiuto di fondamentalismi e di chiusure dogmatiche contrapposte. Il metodo laico – a differenza delle sopracitate definizioni della laicità – non è una categoria giuridica, ma è regola per fare coesistere e dialogare fra loro tutte le fedi e tutte le dottrine, è un processo che di per sé, anche a prescindere dai risultati conseguiti, assicura il loro mutuo rispetto e la loro reciproca comprensione. In tal senso sembra interessante sottolineare che l'etimologia della parola rinvia all’appartenenza al “popolo” (Laos) , secondo un significato che ormai deve essere inteso non in un' ottica nazionalista, perché invece riguarda l'universalità umana 51. Così, la laicità sta anzitutto nell'appartenenza originaria di ognuno al genere umano, che è poi la coappartenenza di condizione esistenziale. Anche considerando giustamente, differenze, divergenze e forme di vita particolari, è evidente che gli esseri umani sono legati da una profonda unità ontologica. A tale proposito appare notevole la proposta di Salvarani: una laicità inclusiva, di addizione, e non di sottrazione, come di solito s'immagina (togliere il religioso dallo spazio pubblico); una laicità che 51

MANCINI R., La laicità come metodo […], 18. 29


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è presupposto del pluralismo, un tratto ineliminabile delle democrazie, e non si riduce né a mera tolleranza illuministica né a puro e semplice relativismo (lo stato autenticamente laico non è relativista, ma prevede istituzioni politiche e organizzazioni confessionali legate da rapporti di autonomia e di reciproco rispetto)52. Per quanto riguarda i pronunciamenti dei Pontefici sul tema in esame, dopo qualche timida apertura di Leone XIII, è Pio XI che - pur mantenendo la ferma condanna contro il “laicismo” - riconosce anche di fatto, con la politica dei concordati, la legittimità della laicità, intesa come distinzione di poteri tra Stato e Chiesa e rispetto della loro reciproca autonomia. Successivamente Pio XII e Giovanni XXIII parlano esplicitamente di un “sano concetto di laicità” ma ci sarebbe voluto il Concilio Vaticano Il per passare definitivamente dalla concezione della laicità come separazione e contrapposizione a quella del dialogo con la cultura moderna e con tutte le culture. Negli insegnamenti di Giovanni Paolo II la libertà religiosa occupa un posto di singolare rilievo, persino sotto il profilo quantitativo. Infatti una raccolta dei suoi pronunciamenti in materia già nei primi venti anni di pontificato annovera dieci documenti di notevole importanza e più di quattrocento menzioni per così dire occasionali 53. Una tale insistenza non deve sorprendere: il Pontefice polacco riconosceva nella libertà religiosa un diritto che, stando “alla radice di ogni altro diritto e di ogni altra libertà”54, può senz’altro essere considerato “uno dei pilastri che sorreggono l’edificio dei diritti umani”55 o, ancor più precisamente, la sua “pietra angolare”56. Benedetto XVI in continuità con il suo predecessore nella “Deus Caritas est” afferma che la «laicità come “autonomia delle realtà temporali” è ottenimento proprio del cristianesimo e appartiene alla struttura fondamentale del cristianesimo. A causa dell’ideologia secolare prevalente o delle «posizioni di una maggioranza religiosa di natura esclusiva», Benedetto XVI denuncia come i credenti «debbano sopprimere una parte di se stessi – la loro fede – per essere cittadini

52

SALVARANI B., La questione della laicità […], 20.

53 COLOMBO A., La libertà religiosa negli insegnamenti di Giovanni Paolo II (1978-1998), Milano, Vita e pensiero, Città del Vaticano 2000. 54

GIOVANNI PAOLO II, Discorso ai partecipanti al IX Colloquio internazionale romanistico canonistico - Pontificia Università Lateranense (11 dicembre 1993), in www.vatican.va, n. 3. 55 GIOVANNI PAOLO II, Discorso ai membri della “Società Paasikivi” nella sala dei concerti della “Finlandia Hall” (5 giugno 1989), in www.vatican.va, n. 2. 56

GIOVANNI PAOLO II, Messaggio per la celebrazione della XXIV giornata della Pace 5 (8 dicembre 1990), in ww.vatican.va, n. 5. 30


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attivi»57 e si arriva a «pretendere che i cristiani agiscano nell’esercizio della loro professione senza riferimento alle loro convinzioni religiose e morali, e persino in contraddizione con esse» 58. A giudizio del Pontefice simili tendenze non sono «espressione di laicità, ma sua degenerazione in laicismo»59, in quanto manifestano una «intransigenza secolare [...] nemica della tolleranza»60 e dunque incompatibile con un «corretto concetto della libertà religiosa»61. Il magistero, ogni volta che valuta positivamente la laicità dello Stato, avverte l’esigenza di precisare che non intende riferirsi a qualunque forma di laicità, ma solo a quella che merita la precisa qualifica di “sana”, così come era avvenuto nella prima menzione del termine ad opera di Pio XII. Una laicità che, tenendo presente la “duplice dimensione” “religiosa” e “sociale” della persona umana, sancisce «l’effettiva autonomia delle realtà terrene, non certo dall’ordine morale, ma dalla sfera ecclesiastica»62. Benedetto XVI, nel qualificare la concezione della laicità proposta dalla Chiesa, privilegia l’aggettivo “positiva”, rispetto a quello tradizionale di “sana”; laicità «aperta che, fondata su una giusta autonomia tra l’ordine temporale e quello spirituale, favorisca una sana collaborazione e un senso di responsabilità condivisa»63. Nel solco dei suoi predecessori si è inserito anche Papa Francesco con una posizione ancor più aperta ed ecumenica, come si può evincere dal discorso tenuto nel 2013 durante l’incontro con la classe dirigente del Brasile a Rio de Janeiro: 
 La laicità dello Stato favorisce la pacifica convivenza tra religioni diverse […] Senza assumere come propria nessuna posizione confessionale la laicità dello Stato rispetta e valorizza la presenza del fattore religioso nella società,

57

BENEDETTO XVI, Incontro con i membri dell’Assemblea generale dell’ONU (18 aprile 2008), in www.vatican.va al 03/08/2015. 58

[…].

BENEDETTO XVI, Discorso del Santo Padre Benedetto XVI agli eccellentissimi

59

BENEDETTO XVI, Discorso all’Unione Giuristi (9 dicembre 2006), in www.vaticvan.va al 03/08/2015. 60 BENEDETTO XVI, Discorso ai partecipanti al Convegno promosso dal Partito Popolare Europeo (30 marzo 2006), in www.vatican.va al 03/08/2015. 61

BENEDETTO XVI, Discorso del Santo Padre alla conferenza di Porto Rico (30 giugno 2007), in www.vatican.va al 03/08/2015.

[…].

62

BENEDETTO XVI, Messaggio per la celebrazione della XLIV giornata […], n° 3.

63

BENEDETTO XVI, Discorso del Santo Padre Benedetto XVI agli eccellentissimi 31


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favorendone le sue espressioni concrete64.

La vera sfida oggi è scommettere sulla “cultura dell’incontro”, altrimenti, sostiene il Papa, «tutti perderanno». Il rispetto profondo di ogni interlocutore e l’apertura sincera all’incontro con le persone, da qualunque percorso provengano, è la radice di quella laicità costruttiva di cui la nostra società mostra di avere tanto bisogno65 . A questo punto sembra interessante cercare di attualizzare la questione della laicità, in particolare in riferimento a svariati fatti di cronaca, più o meno recenti, che offrono uno spunto di riflessione per osservare che non necessariamente il problema della laicità è un problema esclusivamente religioso. Partiamo dal settembre 1989, quando a Creil nell’Oise, tre studentesse - Fatima e Leila Aichahboun e Samira Saidani smettono di frequentare il Collège Gabriel-Havez, perché il direttore ha nei giorni precedenti scritto una lettera alle famiglie chiedendo loro di permettere alle ragazze di non indossare il cosiddetto «foulard islamico» in classe. Secondo il direttore, esso sarebbe un segno religioso incompatibile con il buon funzionamento di una scuola. Il carattere laico della scuola richiederebbe, a suo avviso, di limitare l'esibizione di simboli di appartenenza religiosi e comunitari. Le famiglie delle ragazze, che in un primo momento sembrano acconsentire, non accettano invece l'«invito» del preside e, come conseguenza, le ragazze interrompono la loro regolare frequenza scolastica. L'episodio statisticamente poco significativo - quante ragazze musulmane frequentano la scuola francese senza incidenti? riceve una ampia eco mediatica e dà vita ad un vivo dibattito politico, alimentato, tra altro, da una serie di casi simili che si succedono nei mesi successivi in diverse scuole. Argomentazioni politiche differenti si oppongono: da chi sostiene che la coabitazione tra comunità religiose «così diverse» non è possibile, a chi richiede un ministro dell'integrazione, a chi si mobilita nell'organizzazione di manifestazioni di protesta66 . La confusione sul tema è esemplificata dai vari termini usati per descrivere gli indumenti effettivamente usati dalle ragazze: fichu, volle, foulard, chador. Ancora oggi non è sempre chiaro che cosa effettivamente indossassero le ragazze di volta in volta coinvolte, nel corso degli anni Novanta, nel conflitto con le istituzioni e che cosa 64

FRANCESCO, Discorso per l’incontro con la classe dirigente del Brasile
 in occasione Della XXVIII Giornata Mondiale
 Della Gioventù (27 luglio 2013), in www.vatican.va al 04/08/2015. 65 66

COSTA G., Papa Francesco, testimone di laicità […], 101. BISCALDI A., Relativismo culturale - In difesa […], 106. 32


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effettivamente presidi e direttori proibissero. Nella maggior parte dei casi è probabile che si trattasse di un pezzo di stoffa per coprire la testa, il collo e le spalle67. Nel novembre del 1989, nella confusione generale di casi e soluzioni scelte dai presidi, il ministro dell'educazione, Lionel Jospin richiede il parere del Consiglio di Stato. Il Consiglio di Stato, nella sua risposta, sottolinea il diritto degli studenti di esprimere e manifestare le loro credenze religiose all'interno degli istituti scolastici, nel rispetto degli altri e senza pregiudicare il regolare svolgimento dell'attività didattica. Insomma, giudica il foulard in classe compatibile con la laicità dello Stato; il ministro dell'educazione, Lionel Jospin, diffonde, nel dicembre 1989, una circolare nella quale lascia libertà agli insegnanti di decidere, caso per caso, e raccomanda il dialogo tra insegnanti, allievi e famiglie68. Tra il 1994 e il 2003, però, un centinaio di ragazze sono espulse da collegi e licei a causa del capo coperto. In un caso su due, le espulsioni sono annullate dall'intervento successivo del Consiglio di Stato. La situazione diventa insostenibile dal momento che le decisioni diverse prese da insegnanti, direttori e gli esiti dei ricorsi sembrano invalidare agli occhi dell'opinione pubblica il principio di uguaglianza di tutti davanti alla legge. Nel 2003, il presidente Chirac, richiamandosi solennemente ai principi della Rivoluzione francese, richiede una legge che vieti esplicitamente tutti i segni religiosi visibili in nome della laicità: crea una commissione per prepararla, la commissione Stasi. La legge sulla laicità, anche detta “legge sul velo islamico”, ha un iter legislativo sorprendentemente rapido ed entra in vigore dal marzo 2004: essa vieta tutti i segni religiosi definiti ostensibles (visibili, mostrabili) - come il velo islamico, il crocefisso, la kippah - cioè segni che manifestano apertamente un'appartenenza religiosa. È bene notare che la stessa legge permette altresì l'uso di «simboli discreti», come piccole croci, medagliette, mano di Fatima. In molti casi la legge è difficile da applicare e genera situazioni contraddittorie: è possibile coprirsi il capo con qualcosa che non sia un velo o un foulard, ad esempio una bandana? In principio la legge non vieta la bandana in quanto essa non è un segno di appartenenza religiosa. Ma per evitare problemi, molte scuole proibiscono tutti i tipi di copricapo. I parenti dei ragazzi possono entrare velati a scuola? La legge Stasi non dice nulla sui parenti, ma di fatto alcune scuole vietano anche ai parenti l'ingresso a scuola con

67 LACOSTE-DUJARDIN C., Les fichus islamistes: approche ethnologique, in Hérodote n° 56 (Gennaio-Marzo 1990), Parigi 1990, 14. 68

BISCALDI A., Relativismo culturale - In difesa […], 107. 33


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il velo, soprattutto se esercitano funzione di rappresentanza di classe o di collaborazione scolastica. Il conflitto si fa aperto configurandosi come un conflitto di principi. Da un lato c'è la laicità dello Stato, a cui si appellano varie categorie insieme alla maggior parte degli insegnanti francesi: i difensori della legge; le francesi musulmane che rifiutano di portare il velo; le femministe che interpretano univocamente il velo come un segno inequivocabile di subordinazione e imposizione del sistema patriarcale; i francesi che ritengono fondamentale il principio della riconoscibilità degli individui, che non dovrebbe consentire di coprirsi di volto69. Dall'altro c'è il principio della libertà totale di culto, a cui si appellano i detrattori della legge: le francesi musulmane che, per vari motivi, scelgono di portare il velo; le autorità religiose (sia cattoliche che islamiche) che rivendicano il diritto alla libertà di espressione della propria religione; le associazioni di laici che invocano il ruolo della scuola come luogo di inclusione e di confronto e non di esclusione 70. Come questione di principio - il principio della laicità contro il principio della libertà di espressione - la questione è difficilmente ricomponibile. Sicuramente, al fondo della vicenda sta il problema dell'integrazione dei migranti nella comunità nazionale francese e la paura della possibile penetrazione di integralismi religiosi e della diffusione di fenomeni terroristici. Tuttavia, se riflettiamo più attentamente possiamo osservare che comportamenti, credenze, problemi vanno contestualizzati, cioè compresi sulla base dell'analisi attenta del contesto che li genera71. Allora, forse, appena ci apprestiamo a ricostruire il contesto, sembra che sia importante riconoscere che non sono solo due principi a scontrarsi - laicità contro libertà - né due diverse culture, ma sono da una parte delle studentesse, dall’altra parte degli insegnanti all'interno di alcune scuole nella Francia negli anni Novanta. L’affaire du foulard, richiama alla mente un caso, meno noto, di casa nostra, avvenuto al Liceo Racchetti di Crema nel marzo 2003. Francesca, alla vigilia dell'intervento americano in Iraq, si presenta a scuola avvolta in una bandiera per la pace. Ad un certo punto della mattinata, un insegnante la invita a togliersi la bandiera. La ragazza rifiuta e viene mandata fuori dall'aula. Nel corso del suo stazionamento nel corridoio, viene vista dal preside che le impone di togliersi la bandiera, definendola «una pagliacciata», e che minaccia

69

BISCALDI A., Relativismo culturale - In difesa […], 107.

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BISCALDI A., Relativismo culturale - In difesa […], 108.

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sanzioni disciplinari. La famiglia denuncia l'accaduto. Sorprendente la dichiarazione del preside, intervistato dal giornale locale sul fatto: «Il docente ha redarguito la ragazza perché doveva fare lezione, che è una cosa seria. Da parte mia, dopo averla vista avvolta nella bandiera, ho solo detto che questo comportamento non era decoroso. Ho poi aggiunto che oggi era la bandiera della pace, domani qualcuno - imitando - poteva arrivare con quella della guerra e in futuro chissà che cosa. Sottolineo che nei confronti della giovane non è stato preso alcun provvedimento». 72

In questo caso è ancora più evidente il fatto che il conflitto di culture o religioni o ideologie c'entra solo marginalmente. Quello che emerge è, soprattutto, l'incapacità da parte del corpo insegnante di pensare la scuola come spazio di confronto, arena politica, nella quale è possibile «rappresentare» le proprie convinzioni, agirle, trovando i ritmi e le forme espressive del discorso politico73. L'esclusione, la sospensione, il rifiuto sono atti pericolosi perché alimentano il risentimento e la violenza, sottraendo agli studenti quelle risorse di pensiero e di espressione che permetterebbero al loro dissenso di esprimersi in modo costruttivo, attraverso il dibattito democratico. Magari di cambiare idea. Senza dubbio di sentirsi riconosciuti. La scuola ne esce snaturata, avvilita. La comparazione di questi due casi mette in evidenza come il problema sia solo marginalmente di natura «religiosa» o di differenza tra culture. A Crema, come in molte cittadine francesi, giovani donne hanno chiesto alla scuola — o meglio ad alcuni suoi insegnanti — di essere all'altezza del suo compito, che definiamo «formativo», di misurarsi con una realtà quotidiana in rapida trasformazione. La risposta è, tristemente, nota. 74 Ancora sul tema del velo è necessario fare qualche osservazione, in particolare sulle reazioni che la legge e l’applicazione della stessa da parte delle varie Corti francesi hanno suscitato. Preliminarmente occorre tener presente che la repubblica francese è stata costruita attorno al principio di laicità, derivato da una lunga tradizione. È nato infatti dalla Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789, in piena rivoluzione. In seguito è stato richiamato nelle leggi di riforma della scuola del 1882 e del 1886, che hanno istituito la scuola primaria obbligatoria, pubblica e, appunto, laica.

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GUERINI, A, In castigo perché avvolta nella bandiera della pace, in La Provincia di Cremona 19 marzo 2003. 73

BISCALDI A., Relativismo culturale - In difesa […], 111.

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Ma la vera chiave di volta della laicità francese è stata, come accennato, la legge del 9 dicembre 1905, che ha separato in modo netto la Chiesa e lo stato. Nell’articolo 1 vi si afferma: «La repubblica assicura la libertà di coscienza. Essa garantisce il libero esercizio del culto sotto le sole restrizioni di seguito decretate nell’interesse dell’ordine pubblico». E nell’articolo 2 la separazione è definita in modo preciso: «La Repubblica - vi si legge - non riconosce, né stipendia, né sovvenziona alcun culto». A questo punto, però, è necessaria una precisazione: la legge del 2004 non vieta solo il velo integrale, ma, come suddetto, l’ostentazione di tutti i simboli religiosi visibili, pertanto sono proibite croci, kippah e qualunque altro emblema possa essere riconducibile a una precisa appartenenza religiosa. Per i contrari, però, questi provvedimenti rappresentano una discriminazione vera e propria che non tiene in considerazione il parere delle dirette interessate. In effetti, forse, la nascita della legge si è basata sul presupposto che l’uso del velo sia automaticamente imposto alle donne dalle famiglie quando, occorre ricordarlo, a volte è una libera scelta 75. Le conseguenze di queste leggi sono state l’espulsione dalle scuole degli studenti che si rifiutavano di togliere i simboli religiosi in evidenza, ma in molti si sono chiesti se misure del genere non abbiano minato il diritto allo studio di questi ragazzi e alla possibilità di interagire con coetanei di religioni diverse in un ambiente democratico. La questione del velo in Francia non può essere vista da una sola angolazione e, secondo i favorevoli al divieto, il provvedimento del 2011 mirava a garantire proprio l’incolumità dei cittadini e l’uguaglianza delle donne e degli uomini di fronte allo Stato e nella società. Tale parità, dunque, verrebbe incrinata dal velo, che rappresenterebbe la negazione della possibilità di girare per strada a volto scoperto senza paura di nulla76. Nel discorso del 12 gennaio 2004 al corpo diplomatico, Giovanni Paolo II ha detto, tra l’altro: Noi siamo testimoni, in questi ultimi tempi, in certi paesi d’Europa, d’una attitudine che potrà mettere in pericolo il rispetto effettivo della libertà di religione. […] si invoca spesso il principio di laicità, in sé legittima. […] ma la laicità non è laicismo!77 .Anche i vescovi francesi hanno espresso “riserve” sulla legge francese, facendo notare che essa non affronta il vero nodo che è l’integrazione: «Auspichiamo – ha detto il 75

SALVARANI B., La questione della laicità […], 18.

76

SALVARANI B., La questione della laicità […], 18.

77

GIOVANNI PAOLO II, Discorso del Santo Padre al corpo diplomatico accreditato presso la santa sede (12 gennaio 2004), in www.vatican.va al 05/08/2015. 36


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presidente della Conferenza episcopale francese mons. JeanPierre Ricard – che l’applicazione di questa legge possa essere fatta senza stigmatizzare una religione, l’islam, che potrebbe sentirsi attaccata». 
 Sempre in Francia, i tre presidenti del Consiglio delle chiese cristiane in Francia (cattolici, ortodossi e protestanti) avevano inviato una lettera a Chirac in cui affermavano che la laicità dello stato è uno «spazio aperto in cui tutti, credenti e non-credenti, possono dibattere» per «una migliore conoscenza» reciproca. «Se la laicità aggiungevano - dovesse rifiutare questo spazio al religioso, diventerebbe eccessiva e si trasformerebbe rapidamente in laicismo intollerante».
 Alcuni dicono che la legge francese sul velo è un errore: in primo luogo, perché considera irrilevante la volontà della donna musulmana che avesse deciso autonomamente di portare lo hijab (velo); in secondo luogo, perché la libertà di religione include anche il diritto di indossare i simboli della religione a cui si appartiene, salvi i motivi di “ordine pubblico” (della già citata Convenzione europea), che non sembrano però applicabili alla situazione francese e che ad ogni modo dovrebbero colpire il solo simbolo problematico (il velo), non anche gli altri; in terzo luogo, perché conferma e alimenta il conservatorismo islamico che in diversi paesi musulmani limita la libertà religiosa verso i credenti di altre religioni.
 Non tutto il mondo cattolico ha espresso giudizi negativi sulla legge francese. Ad esempio, uno dei più noti studiosi di islamismo, il gesuita Samir Khalil78, afferma che «il velo è la punta di iceberg di un progetto radicale che rifiuta l'integrazione e che, di fronte alla crisi dell'Europa laica e cristiana, rilancia l'islam come alternativa globale, religiosa e politica». Dietro all’ostentazione del velo «c’è la pretesa di modellare la società secondo principi islamici, anche sfruttando il multiculturalismo come un cavallo di Troia che consente una penetrazione in stile politically correct»79. «Fa bene quindi il governo della Francia ad arginare le derive radicali dell’islam e a difendere quella laicità che i francesi sentono come un patrimonio consolidato e irrinunciabile»80.
 La reazione dell’Europa a queste leggi è stata sostanzialmente positiva. La Corte europea ha approvato la legge francese sul velo

78

PAOLUCCI G., Islam e Laicità «Dietro il velo c'è una strategia», in Avvenire del 23 gennaio 2004, 10. 79

PAOLUCCI G., Islam e Laicità […], 10.

80

PAOLUCCI G., Islam e Laicità […], 10. 37


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integrale81 ; infatti secondo la Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo la legge francese che vieta d’indossare il velo integrale non viola né il diritto alla libertà di religione né quello al rispetto della vita privata.
 Un altro caso interessante è rappresentato dal dibattito che si accese in Italia nel dicembre 2003 quando il Comitato Etico Locale della Azienda ASL 10 di Firenze espresse parere favorevole alla proposta della dottoressa Lucrezia Catania e del dott. Abdulcadir Omar Hussein di eseguire presso le strutture sanitarie pubbliche la sunna rituale, un rito simbolico alternativo alle mutilazioni genitali femminili.
 La sunna rituale consisterebbe in una piccola puntura di spillo sul clitoride delle bambine, tale da fare uscire qualche goccia di sangue, in anestesia locale, cioè dopo aver spalmato una pomata anestetica82 .
 Ben altra cosa rispetto alla pratica delle mutilazioni genitali che comporta invece l'asportazione e/o l'alterazione di una parte, più o meno ampia a seconda dei rituali, dell'apparato genitale esterno della donna; una pratica che riguarda 130 milioni di donne al mondo e che, con l'intensificarsi dei fenomeni migratori, coinvolge sempre di più direttamente (per richieste) o indirettamente (per complicanze immediate o croniche) anche le nostre strutture sanitarie.
 Il rito simbolico avrebbe, secondo il comitato, la funzione di evitare, appunto, le gravi conseguenze di natura sanitaria che le mutilazioni genitali femminili comportano e anche un valore sociale e culturale importante, quello di accompagnare un processo di trasformazione culturale delle comunità che ancora in Italia vi ricorrono clandestinamente e spesso mettendo a repentaglio la salute, se non la vita, delle bambine ad esse sottoposte. L'obiettivo dichiarato dal medico è la graduale scomparsa della pratica83.
 L’attività e il confronto quotidiano del dottor Abdulcadir con questa pratica mutilante lo hanno portato ad un percorso di riflessione teso alla ricerca di una soluzione che possa salvare il significato sociale della pratica, l'identità culturale delle famiglie che vi ricorrono e che la richiedono per le loro figlie e al tempo stesso l'incolumità dei corpi delle bambine ad essa sottoposte. L'elaborazione di una proposta alternativa è stata il frutto di un complesso dialogo tra diverse voci in campo: dai giuristi, che hanno escluso il reato di lesioni personali, alle comunità di migranti di dieci paesi africani, che lo hanno sostenuto, sottoscrivendo un documento di approvazione. Inoltre la 81

DE SAKUTIN S., La corte europea approva la legge francese sul velo integrale, 1 luglio 2014, in www.archivio.internazionale.it al 04/08/2015. 82

BISCALDI A., Relativismo culturale - In difesa […], 112.

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BISCALDI A., Relativismo culturale - In difesa […], 113. 38


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proposta di un rito simbolico alternativo non è certo un'invenzione bizzarra del dottore e della moglie, ma si pone in linea di continuità con le trasformazioni in atto in alcuni paesi dell'Africa Occidentale (ad esempio in Kenya, in Mali, in Ghana), che stanno sperimentando, anche con un certo successo, alternative rituali84 .
 Dopo l'approvazione del Comitato Etico Locale di Firenze la proposta passa all'Assessorato alla Salute della Regione Toscana, che sottopone il caso all'Ordine dei medici e al Comitato regionale di Bioetica. Ma, improvvisamente, l'iter viene intercettato dai media. La notizia, superficialmente tradotta, in «la Repubblica» del 21 gennaio 2004 con il titolo de “La via italiana all'infibulazione”, alimenta un dibattito in cui scarsa conoscenza dei fatti, uso improprio di termini e di categorie interpretative, strumentalizzazioni politiche si combinano, si potenziano a vicenda, rendono impossibile, di fatto, una doverosa riflessione critica. Sorprende la straordinaria unitarietà del fronte contrario alla proposta. Soprattutto la presenza in esso di figure progressiste e solitamente associate a battaglie in difesa dei diritti85 .
 Da un lato il dibattito si basa su un equivoco originario veicolato da un uso linguistico scorretto: «infibulazione soft» o «infibulazione alternativa» suggeriscono l'idea che il medico proponga una nuova, diversa, forma di infibulazione.
 Dall'altro il rito alternativo diventa, agli occhi dei difensori dei principi occidentali, il simbolo stesso della legittimazione della sottomissione della donna. Chiedono che «non si facciano sconti» e che le mutilazioni vadano combattute apertamente. La mediazione è considerata un cedimento intollerabile e un tradimento dei nostri valori fondamentali.
 Poche voci, fuori dal coro, pongono domande provocatorie che non trovano certo la rapida soluzione imposta dai rapidi e sensazionalistici ritmi del discorso giornalistico: se parliamo del principio di uguaglianza, perché un così tacito generale assenso sulla circoncisione maschile, la lesione di un organo sano su un minore, e una così radicale avversione al rito simbolico alternativo, certamente meno lesivo? 86 
 Se parliamo di rispetto per la donna, «che cosa sono star e starlette, soubrettine e soubrette, ma anche giornaliste, che occhieggiano da riviste, TV, calendari se non un trastullo per gli uomini?»87 
 84

BISCALDI A., Relativismo culturale - In difesa […], 113.

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BISCALDI A., Relativismo culturale - In difesa […], 113.

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ZOLO D., Infibulazione e circoncisione, in Jura Gentium rivista online, 23 marzo

2004. 87

2004.

PERRI A., Infibulazione «dolce»: perché si e perché no, in Libero, 5 febbraio 39


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Queste domande possono invece indirizzarci verso la dimensione relativista antropologica che, tanto per cominciare, richiede l'utilizzo di una prospettiva emica88 che porta ad un ascolto attento della complessità della situazione delle voci in campo.
 Prospettiva emica significa capire il profondo significato culturale delle mutilazioni genitali femminili; comprenderne la complessità non significa giustificarle, ma ammettere che non possono essere liquidate semplicemente come una pratica barbara e incivile89 . 
 Prospettiva emica significa anche, in seconda battuta, comprendere la diversità di prospettive sul problema interno agli stessi gruppi dei migranti (la differenza tra le opinioni delle donne migranti somale di età, appartenenza sociale, livelli di istruzione, esperienze di vita diverse) o tra gruppi di migranti (donne somale e donne nigeriane) e tra migranti e italiani.
 Ancora una volta, come nel caso dell'uso del velo in Francia, forse sarebbe più utile «ascoltare», cercando il più possibile un approccio emico e discuterne, anziché cedere al fascino rassicurante di astratte posizioni di principio.
 Particolarmente emblematica dei differenti “modelli” di laicità esistenti è oggi la questione dei simboli religiosi nello spazio pubblico, ove, accanto ai profili costituzionali del principio di laicità, approfonditi dalla giurisprudenza dei singoli Paesi, emergono anche quelli storico-culturali e politici, strettamente intrecciati, questi ultimi, con le politiche di integrazione delle popolazioni immigrate.90
 In Italia la situazione è particolare in virtù di un articolato percorso storico e dell’esistenza di tradizioni religiose e culturali fortemente radicate nella popolazione. In questo contesto l’uso di simboli religiosi personali incontra il solo limite della sicurezza delle persone. Nel nostro ordinamento, quindi, sarebbe impensabile una norma di divieto di indossare il velo come quella francese, per il primato ivi riconosciuto al diritto di libertà religiosa e alla libertà di manifestazione del pensiero. 91
 Più dibattuta è stata invece la questione del crocefisso nelle scuole pubbliche la cui esposizione è stata riconosciuta legittima dalla giurisprudenza in quanto ritenuta non lesiva della libertà di coscienza ed espressione di valori e di tradizioni che fanno parte 88 NOTA esplicativa: Le analisi emiche secondo il linguista Kenneth Pike sono quelle che pongono in rilievo i significati soggettivi condivisi da un gruppo sociale ed il loro modello di esperienza culturalmente specifico. 89

PASQUINELLI C., Infibulazione: il corpo violato, Meltemi Editore, Assago (MI) 2007, 98. 90 CAVANA P., Laici ad Occidente - Modelli e via italiana, in Dialoghi n° 2, Roma 2010, 31. 91

CAVANA P., Laici ad Occidente - Modelli […], 32. 40


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integrante del patrimonio storico e culturale del nostro paese. 92
 Innanzitutto è il caso di ricordare brevemente il quadro normativo entro cui si colloca la vicenda. In Italia, l’affissione del crocefisso nelle scuole è prevista da due Regolamenti, tuttora vigenti, del 1924 e del 1927 in materia di arredi scolastici. In linea generale, nel nostro ordinamento, la valutazione sulla legittimità dell’esposizione del crocefisso come simbolo religioso si realizza in un contesto che tenga conto dei principi che ispirano la nostra Carta costituzionale.
 Nella vertenza Lautsi contro Italia, la madre atea di due ragazzini che frequentano la scuola pubblica ha contestato questa politica, in vigore dal 1924, sostenendo che la presenza del crocefisso nelle scuole pubbliche violava i suoi diritti e quelli dei suoi figli alla libertà religiosa e ad un insegnamento laico garantiti dalla Convenzione europea dei diritti dell'uomo. 
 La giurisprudenza italiana che si è occupata del caso Lautsi ha così sottolineato che l’esposizione di un simbolo religioso in un luogo pubblico - che per il credente rappresenta un valore di fede - è da considerarsi legittima dinnanzi all’intera comunità, comprensiva anche di quanti non credono, qualora tale simbolo sia in grado di richiamare in forma sintetica, intuibile e percepibile quei valori che ispirano l’ordine costituzionale e rappresentano i fondamenti del nostro vivere civile. 
 La sentenza93 che in Italia ha chiuso il caso ha indicato con chiarezza: “il crocefisso è atto ad esprimere, appunto in chiave simbolica ma in modo adeguato, l’origine religiosa dei valori di tolleranza, di rispetto reciproco, di valorizzazione della persona, di affermazione dei suoi diritti, di riguardo alla sua libertà, di autonomia della coscienza morale nei confronti dell’autorità, di solidarietà umana, di rifiuto di ogni discriminazione, che connotano la civiltà italiana”.
 A questo punto, davanti all’orientamento negativo della giurisprudenza amministrativa italiana, la signora Lautsi nel luglio del 2006 si rivolge alla Corte europea dei diritti dell’uomo (giudici eletti dal Consiglio d’Europa, organismo i cui membri sono designati dai parlamentari degli Stati membri), asserendo che l’affissione del crocefisso nelle scuole costituirebbe “una violazione dei genitori ad educare i figli secondo le loro convinzioni” e una violazione alla “libertà di religione” degli alunni”.
 In primo grado, una sezione della Corte di Strasburgo, composta da sette membri (tra cui l’italiano Vladimiro Zagrebelsky), il 3 novembre 2009 accoglie all’unanimità il ricorso. Il secondo grado si celebra così davanti alla Grande Camera della Corte europea per i diritti

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CAVANA P., Laici ad Occidente - Modelli […], 32.

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CONSIGLIO DI STATO, Sez. VI, Sentenza n. 556, in www.overlex.com/ leggisentenza al 05/08/2015. 41


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dell’uomo, composta da 17 giudici che, dunque, il 18 marzo 2011, hanno ribaltato la precedente decisione (15 favorevoli e 2 contrari).
 La Corte ritiene che “se è vero che il crocefisso è prima di tutto un simbolo religioso, non sussistono tuttavia nella fattispecie elementi attestanti l’eventuale influenza che l’esposizione di un simbolo di questa natura sulle mura delle aule scolastiche potrebbe avere sugli alunni”.94 A tal proposito:
 […] l’obbligo degli Stati membri del Consiglio d’Europa di rispettare le convinzioni religiose e filosofiche dei genitori non riguarda solo il contenuto dell’istruzione e le modalità in cui viene essa dispensata: tale obbligo compete loro nell’esercizio dell’insieme delle funzioni che gli Stati si assumono in materia di educazione e di insegnamento.
 E ciò «comprende l’allestimento degli ambienti scolastici qualora il diritto interno preveda che questa funzione incomba alle autorità pubbliche».95
 In particolare è attribuito 
 […] allo Stato l’obbligo di rispettare, nell’esercizio delle proprie funzioni in materia di educazione e d’insegnamento, il diritto dei genitori di garantire ai propri figli un’educazione ed un insegnamento conformi alle loro convinzioni religiose e filosofiche.96
 Dunque le autorità italiane
 […] hanno agito entro i limiti dei poteri di cui dispone l’Italia nel quadro del suo obbligo di rispettare, nell’esercizio delle proprie funzioni in materia di educazione e d’insegnamento, il diritto dei genitori di garantire tale istruzione secondo le loro convinzioni religiose e filosofiche.97
 La decisione offre una corretta interpretazione del principio di laicità che comporta che i sentimenti religiosi della popolazione possano a pieno titolo partecipare alla formazione delle coscienze delle nuove generazioni. Inoltre conferma, anzi rilancia l’idea che la libertà di religione e l’esercizio del culto è una prerogativa dei credenti proprio quale conseguenza del principio di laicità: la legittimità dell’esposizione del crocefisso come simbolo religioso nelle scuole si realizza in questo contesto, riaffermando la prerogativa dei genitori di garantire ai loro figli un’educazione armonica con le loro convinzioni religiose, specie quando sono - come lo è il Cristianesimo

94 SPINELLI S., L’avvocato: sventato il rischio di uno Stato a "confessione laicista" 20 marzo 2011, in www.ilsussidiario.net al 05/08/2015. 95

SPINELLI S., L’avvocato: sventato il rischio […].

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SPINELLI S., L’avvocato: sventato il rischio […].

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SPINELLI S., L’avvocato: sventato il rischio […]. 42


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- promotrici di pace e rispetto della persona umana. 98 
 Infatti, il crocefisso, appeso alle pareti scolastiche o nelle aule giudiziarie o in qualsiasi ambiente pubblico, non vieta mica a nessuno di professare ed esercitare liberamente la propria fede (secondo quanto garantito dall’art. 19 Cost.). Né impone a chicchessia l’esercizio di una determinata fede, credenza o convinzione (secondo il contenuto negativo di detto diritto di libertà). Non si può certo sostenere che la semplice presenza del crocefisso obblighi qualcuno ad essere cristiano!99 
 Allora, forse, la decisione della Corte Europea in primo grado,
 […] nascondeva un diverso obiettivo: non la tutela della libertà di religione anche negativa di ciascuno; quanto invece – mediante un malinteso principio di laicità dello Stato – la pretesa di disconoscere per tutti, a livello pubblico, il valore dell’esperienza religiosa, e in particolare della fede cristiana, in nome della civile pretesa di una suprema neutralità statale, intesa come indifferenza, agnosticismo, pulizia religiosa, eliminazione di tutte le sovrastrutture di marxiana memoria (religione oppio dei popoli).100 
 Eppure – in mancanza della sentenza di opposta opinione del 2011 – si sarebbe appesa alla parete un’altra religione, quella laicista101. 
 La giurisprudenza peraltro recentemente si è espressa in merito, decretando che il crocifisso è l'unico simbolo religioso ammesso nelle aule di Tribunale italiane, pur riconoscendo che non esiste nessun obbligo legislativo che imponga la sua presenza nei luoghi pubblici. 
 A stabilirlo è stata la Corte di cassazione 102, in una sentenza emessa il 14 marzo 2011. La motivazione della Suprema corte, è incentrata sul fatto che per esporre negli uffici pubblici altri simboli religiosi sarebbe necessaria «una scelta discrezionale del legislatore, che al momento non sussiste». Val la pena ricordare che la Cassazione si è espressa sul tema del crocifisso nella stessa sentenza che ha portato alla rimozione dall'ordine giudiziario di Luigi Tosti, il giudice di pace del Tribunale di Camerino che aveva richiesto la rimozione del crocifisso dalle aule del tribunale e si era rifiutato di tenere udienza nelle stesse finché in esse fosse stato presente il simbolo religioso. 98

GAMBINO A., Il giurista: e ora la fede non deve più nascondersi, 19 marzo 2011, in www.ilsussidiario.net al 04/082015. 99

GAMBINO A., Il giurista: e ora la fede […].

100

GAMBINO A., Il giurista: e ora la fede […]..

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SPINELLI S., L’avvocato: sventato il rischio […].

102

CASSAZIONE CIVILE, SS.UU., sentenza 14/03/2011 n° 5924, in www.overlex.com/ leggisentenza al 05/08/2015. 43


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La decisione della Suprema Corte è stata quindi favorevole al verdetto disciplinare emesso dal Consiglio superiore della magistratura che aveva destituito il giudice dal suo incarico. Scalpore ha suscitato però la decisione del sindaco di Padova nel luglio 2014 di rendere «il Crocifisso obbligatorio in scuole e uffici pubblici regalato dal Comune di Padova» ribadendo però subito dopo il rifiuto all’utilizzo delle palestre comunali per le preghiere del ramadan dei fedeli musulmani. Questa posizione forte sul crocifisso potrebbe sembrare in linea con i valori cristiani ma in fondo per come è stata posta (o imposta) non lo è stato. Viene quindi da porsi la stessa domanda che Alberto Loggia, in un articolo pubblicato su Famiglia Cristiana del giugno 2014, fa a se stesso ed ai lettori: «le neo-crociate del sindaco leghista sono a favore della chiesa?»103. La risposta è scontata ma al tempo stesso illuminante, ovvero il giornalista (e con esso Famiglia Cristiana) esprime il proprio dubbio che queste prese di posizione possano davvero far crescere la coesione di una comunità e sembrano dimenticare che la popolazione italiana (ed in genere europea) accoglie nel suo seno ormai tanti stranieri. E allora perché compiere gesti escludenti dalla comunità e non includenti che, cioè, mettono “insieme”? Perché soffiare sulle braci mai spente del pregiudizio nei confronti di chi “non è dei nostri”? Perché rischiare di alimentare lo scontro, sempre latente, tra culture, dentro una società che già fatica molto a vivere il “meticciato” delle genti? Chi non genera comunità, crea il ghetto. La scristianizzazione e la secolarizzazione avanzano non perché le comunità cristiane hanno staccato la croce dai muri, ma dalle loro vite, dai loro volti e per questo sono diventate trasparenti, insignificanti. Incapaci di mostrare al mondo lo scandalo-grazia del Crocifisso con la “C” maiuscola. Come scriveva infatti Claudio Magris già a seguito della prima sentenza della Corte Europea del 2009 che richiedeva la rimozione del crocifisso in un’ aula (poi ribaltata nel 2011 dopo il ricorso del governo italiano), se da un lato le sentenze che ordinano di schiodare i crocifissi dalle scuole «fomentano i peggiori clericalismi», imporne sempre la presenza sui muri, scatenerebbe solo i più ostinati laicisti e le guerre di religione. Il Cristo in croce ha la forza di parlare a ogni uomo anche se non cristiano. Quell’uomo in croce, scrive ancora l’intellettuale triestino, «che ha proferito il rivoluzionario discorso delle Beatitudini non può essere cancellato dalla coscienza, neanche da quella di chi non lo

103

LOGGIA A., Ma le crociate del sindaco leghista sono a favore della chiesa?, in Famiglia Cristiana (A. LXXXIV) n° 26, San Paolo, Alba 2014, 14. 44


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crede figlio di Dio, perché è il volto universale dell’umanità, della sofferenza e della carità che la riscatta»104. Come suggerisce Loggia, c’è da riflettere come cristiani tutti sul fatto che la vera testimonianza di fede non passa per “l’obbligo di legge”, ma per la proposta gioiosa e scomoda insieme, di chi ha sperimentato la bellezza del Vangelo che gli ha cambiato la vita. Che poi, a guardar bene, è proprio quanto papa Francesco va ripetendo: sì alle “comunità ferventi”, che “danno fastidio”, inquietano; e no “ai cristiani da salotto”, anche se sulla parete sta un crocifisso, si potrebbe aggiungere105. Peraltro la motivazione principale di questa posizione presa da Famiglia Cristiana è riconoscibile nel solco del magistero di papa Francesco che, difatti pur non avendo mai preso posizione sul tema, ha spesso ribadito con le parole l'importanza della “cultura dell'incontro” e lo ha ampiamente dimostrato anche nei fatti. Riporto infine un estratto di un’articolata sentenza in cui il Consiglio di Stato il 27 luglio 2015 ha respinto il ricorso Lautsi ribadendo definitivamente quanto già in precedenza stabilito dalla VI sezione del Consiglio di Stato nel 2006, precisando altresì che il crocifisso debba restare nelle aule scolastiche perché trascende il puro significato religioso, e assurge a […] simbolo idoneo ad esprimere l’elevato fondamento dei valori civili (tolleranza, rispetto reciproco, valorizzazione della persona, affermazione dei suoi diritti eccetera) che hanno un’origine religiosa, ma che sono poi i valori che delineano la laicità nell’attuale ordinamento dello Stato.106 Per completezza accennerei al fatto che oggi dalla rimozione dei simboli religiosi dagli edifici pubblici si passa alla presenza si spazi pubblici “simbolici”, spazi urbani di passaggio e d'incontro che sono ad uso di tutti, come strade, piazze, parchi, ecc. in cui possono essere posti simboli religiosi o ateistici o agnosticistici. All’inizio dell’estate 2012, per esempio, a Bradford, in Florida, l’associazione “American Atheists” ha eretto il primo “public monument to secularism” (una panchina in aderenza ad una stele). Altro spazio pubblico altamente simbolico di una civiltà oltre che di una religione è quello conteso per la costruzione delle moschee. Nel 2009 i cittadini svizzeri hanno approvato con un referendum (nonostante la forte contrarietà del governo federale e della stessa 104

MAGRIS C., Il crocifisso, simbolo di sofferenza che non può offendere nessuno (07 novembre 2009), in www.coriere.it/editoriali al 04/08/2015. 105

14.

LOGGIA A., Ma le crociate del sindaco leghista sono a favore della chiesa? […],

106

CONSIGLIO DI STATO, Sez. VI, Sentenza n. 556, in www.overlex.com/ leggisentenza al 05/08/2015. 45


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chiesa cattolica) un emendamento all’art. 72 della loro Costituzione, stabilendo che “l'edificazione di minareti è vietata”, mentre in Italia non esiste un concordato tra lo Stato e la comunità islamica per la costruzione dei luoghi di culto ma la Corte Costituzionale nel 1995 ha precisato che la costruzione di luoghi di culto è stata riconosciuta come presupposto per la libertà religiosa. Anche la CEI nel maggio 2011 ha dichiarato: “dobbiamo garantire che i musulmani presenti nel nostro Paese possano coltivare la loro religione in maniera appropriata” e Mons. Ravasi già nel 2008 si era espresso favorevolmente alla costruzione di nuove moschee, “purché lo Stato vigili sulle effettive e legittime finalità religiose, e non si trasformino in luoghi per altri fini, data la multifunzionalità intrinseca delle moschee”107. Prima di alcune considerazioni sull’attentato al mensile Charlie Hebdo propongo una riflessione su un episodio risalente al 30 settembre 2005, ma altrettanto significativo verificatosi a Copenaghen. Il quotidiano Jyllands-Posten pubblica dodici illustrazioni satiriche sul profeta Maometto. In una di queste Maometto indossa, al posto del turbante, una bomba. Il 12 ottobre 2005 in Danimarca undici ambasciatori di paesi a maggioranza musulmana, offesi da questa rappresentazione del profeta, ai loro occhi blasfema, chiedono un incontro di chiarimento con il premier Anders Fogh Rasmussen, il quale però rifiuta, dichiarando che non rientra tra i suoi compiti «spiegare ad un gruppo di ambasciatori come funziona il nostro paese».108 Nel gennaio e febbraio 2006, alcuni giornali europei riprendono l'episodio ripubblicando e dando nuova enfasi alla polemica sulle vignette. Le reazioni di diversi Stati a maggioranza musulmana non tardano. A livello istituzionale, le reazioni spaziano dalle dichiarazioni pubbliche (il 3 febbraio del 2006 la Camera Alta del Parlamento del Pakistan approva all'unanimità una dichiarazione di condanna dei giornali europei) al richiamo degli ambasciatori da Copenaghen (come avviene per Arabia Saudita, Libia, Siria). A livello popolare, le reazioni sfociano nel boicottaggio dei prodotti danesi, nell'incendio di alcune ambasciate danesi (a Giacarta, Damasco, Beirut) e in manifestazioni popolari, talvolta anche represse dalle forze dell'ordine nel sangue (in Afghanistan, Somalia, Nigeria)109. 107

RAVASI G., Vaticano, Sì a nuove moschee ma con il controllo dello stato, in La Repubblica, 04/12/2008. 108 RASMUSSEN A. F, Official response of Prime Minister to 11 Islamic Ambassadors (21 ottobre 2005), in www.gfx-master.tv2.dk al 06/08/2015. 109

BISCALDI A., Relativismo culturale - In difesa […], 116. 46


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La posizione di molti leader, politici europei è ambigua, difficile da comprendere o, quantomeno, confusa. Il premier danese dapprima, in ottobre, rifiuta il dialogo con gli ambasciatori arabi, poi in una lettera indirizzata in gennaio ai paesi della Lega Araba, sotto il peso delle pressioni internazionali, pur difendendo la libertà di espressione, condanna «tutte le azioni volte a demonizzare alcuni gruppi in virtù del credo e dell'appartenenza etnica», infine, in febbraio, ribadisce di non sentirsi in dovere di chiedere scusa in quanto «un governo danese non potrà mai scusarsi a nome di un quotidiano libero e indipendente»110. In Svezia, in marzo dello stesso anno, il ministro degli esteri si dimette per aver ostacolato la pubblicazione on line delle vignette. In Italia, il 15 febbraio, il ministro per le riforme mostra sotto la giacca, in una intervista televisiva, una maglietta che riproduce una vignetta. Il 17 febbraio il consolato italiano a Bengasi viene saccheggiato e assaltato. Nella repressione da parte delle forze dell'ordine muoiono 11 manifestanti. Sulla base di questi fatti, in Europa il dibattito si concentra sul tema della libertà di espressione. L'opinione pubblica è compatta nel sottolineare il suo valore fondamentale nella nostra cultura. Giornalisti e intellettuali si impegnano a ribadire, in diversi modi, il principio volteriano «Non sono affatto d'accordo con ciò che dite, ma mi batterò fino alla morte perché nessuno vi impedisca di dirlo», secondo il quale esistono più verità e una delle conquiste fondamentali dell'Occidente consisterebbe nel permettere ad ognuno la possibilità di esprimere la sua. Innanzitutto dobbiamo riconoscere l'importanza della situazione in cui si colloca il problema. Il contesto è dato innanzitutto dal tipo di quotidiano, il Jyllands Posten, che ha ospitato quelle vignette, noto per il suo orientamento anti-immigrazione e antimusulmano. Inoltre gioca un ruolo rilevante anche la situazione storica presente, tale per cui «isolare la vicenda dalla temperie del dopo 11 settembre per iscriverla nella categoria, concepita come astratta e immutabile, della libertà di espressione è un' operazione alquanto sospetta» 111. In questo clima, fare la caricatura del profeta, anche se non è per noi una bestemmia in senso stretto, è certo un atto superficiale, banale, offensivo e aggressivo, che non necessita di scomodare né l'illuminismo né Voltaire. Proprio oggi che le migrazioni propongono con urgenza il problema della convivenza tra individui con riferimenti valoriali diversi, forse si renderebbe necessario ripensare quelle situazioni che possono porre

110

BISCALDI A., Relativismo culturale - In difesa […], 116.

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RIVERA A., Vignette o stereotipi. Le radici di un caso, in Liberazione, 18 febbraio 2006, 16. 47


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dei limiti estrinseci di opportunità politica all'esercizio di quei valori di libertà e di espressione comunicativa, che certo costituiscono i fondamenti della nostra identità culturale, ma le cui modalità andrebbero riformulate sulla base delle esigenze del presente. Da questo punto di vista è molto interessante la posizione del filosofo bulgaro Tzvetan Todorov il quale sostiene che l'idea e la pratica della tolleranza necessitano di due principi: uguaglianza e libertà112. Ora, si chiede Todorov, dove collocare il confine tra privato e pubblico? Un modo, già proposto a suo tempo da un filosofo del Seicento, Baruch Spinoza, consiste nell'interpretare l'opposizione tra privato e pubblico come quella tra pensare e agire. Si può e si deve disporre di una libertà totale di pensiero, ma le azioni non sono accettabili se si dimostrano dannose. Fin qui è facile essere d'accordo. Tuttavia, se la differenza tra pensare (nella testa) e agire (nel mondo) sembra semplice e chiara, le cose si complicano nel momento in cui si prende in considerazione l'espressione del pensiero, cioè la parola113. La parola ha un indubbio valore performativo. Dire è in molti casi fare qualcosa. Un ordine, una richiesta, una dichiarazione di guerra come d'amore, generano una serie di conseguenze, hanno il potere di trasformare la realtà. Si chiede Todorov: «Se un volantino mi dice che tutti i mali dei francesi provengono dal fatto che nel territorio ci sono troppi stranieri, in maggior parte maghrebini, debbo considerarlo un pensiero o un'azione?»114 Il parlare in questo caso è molto vicino ad una forma di azione: i propositi razzisti non sono solo incitamento all'atto, sono in sé stessi atti di violenza. Questo riconoscimento del potere delle parole di trasformare la realtà porta Todorov a riconoscere che se la censura è sicuramente indesiderabile, anche l'impunità totale della parola non lo è di meno. La libertà di espressione deve essere bilanciata dal principio di responsabilità verso i propri discorsi, dalla consapevolezza dei loro possibili effetti115 . Partendo da questo presupposto, il problema delle vignette antiislam nel 2005 come nel 2015, assume tutta un'altra fisionomia. Sicuramente dobbiamo continuare ad affermare che la libertà di espressione è per noi un valore irrinunciabile; altrettanto 112

TODOROV T., Le morali della storia, Einaudi, Segrate (MI) 1995, 212.

113

BISCALDI A., Relativismo culturale - In difesa […], 119.

114

TODOROV T., Le morali della storia […], 217.

115

BISCALDI A., Relativismo culturale - In difesa […], 120. 48


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sicuramente dobbiamo dimostrare consapevolezza del potere performativo e agentivo delle nostre parole e della responsabilità che da esso consegue. L’evento che ha marcato indelebilmente l’inizio del 2015 sono le stragi di Parigi, in cui hanno perso la vita 20 persone: 8 membri della redazione del settimanale satirico Charlie Hebdo, un loro ospite, il portiere e due poliziotti il 7 gennaio; una poliziotta l’8 gennaio; quattro clienti del supermercato Hyper Cacher di Porte de Vincennes il 9 gennaio, oltre ai tre terroristi. Le emozioni suscitate sono state molteplici. Esse contengono un tesoro prezioso, soprattutto quando segnalano l’attaccamento a qualcosa che riteniamo importante, o, ancora di più, vitale, come la libertà, il diritto alla vita o la solidarietà con le vittime. Hanno un potenziale enorme: riescono a metterci in movimento e farci reagire, come dimostrano le tante manifestazioni svolte. Nascondono però anche un’insidia: quella di farci perdere il lume della ragione, di innescare reazioni sconsiderate, come nel caso della criminalizzazione generica di intere categorie sociali (gli immigrati) o gruppi religiosi (i musulmani)116. L’emotività ha dunque bisogno di essere accompagnata dalla ragione, dal desiderio di comprendere la complessità. Anche la ragione ha bisogno delle emozioni, per non rimanere imprigionata nelle secche dell’astrazione e della rigidità dietro a cui si può celare il volto algido della violenza. Insieme ci possono guidare alla ricerca di soluzioni, magari imprevedibili in una prospettiva solo emotiva o solo razionale. Non è un compito semplice, richiede rigore e onestà, disponibilità a mettersi in discussione, a far emergere e nominare le resistenze e ad abbandonare i pregiudizi, di qualunque segno. E soprattutto richiede tempo. È innegabile che molte reazioni investono il rapporto con l’islam e con i musulmani, il significato e le possibilità di integrazione, i limiti della tolleranza e del diritto alla differenza, il confine fra accoglienza e buonismo, le regole di convivenza e il significato di uguaglianza in una società multiculturale e multi-religiosa, ma anche percorsa da divari e discriminazioni economiche e sociali. Già 25 anni fa il Card. Carlo Maria Martini preconizzava: Nasceranno via via nuovi problemi riguardanti la riunione delle famiglie, la situazione sociale e giuridica dei nuovi immigrati, la loro integrazione sociale mediante una conoscenza più approfondita

116

COSTA G., Oltre Charlie, in Aggiornamenti Sociali n° 2 (A. 66), Fondazione Culturale San Fedele, Milano 2015, 102. 49


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della lingua, il problema scolastico dei figli, i problemi dei diritti civili, ecc. 117 Per dare soluzione a questi problemi il Card. Martini additava nel suo discorso la necessità di insistere su un processo di “integrazione”, che è ben diverso da una semplice accoglienza e da una qualunque sistemazione. Integrazione comporta l’educazione dei “nuovi venuti” a inserirsi armonicamente nel tessuto della nazione ospitante, ad accettare le leggi e gli usi fondamentali, a non esigere dal punto di vista legislativo trattamenti privilegiati che tenderebbero di fatto a ghettizzarli e a farne potenziali focolai di tensioni e violenze. 118 Come sottolinea Giacomo Costa119 nel suo editoriale su Rocca di febbraio 2015, questo percorso è reso ancora più urgente per il fatto che quelli che fino ad alcuni anni fa potevano essere considerati “nuovi venuti” non siano di fatto più tali, ma anzi siano diventati nel tempo nostri concittadini, magari di seconda generazione, come i tre attentatori parigini. Non si tratta di sviluppare il dialogo interculturale e interreligioso genericamente intesi, ma di promuovere ed esigere un “confronto aperto” tra persone che appartengono a pari titolo alla stessa società. Il diritto e dovere di porre domande si accompagna necessariamente a quello di lasciarsi mettere in discussione dalle risposte: un dialogo in cui si assume a priori che una sola delle parti è chiamata a cambiare sarebbe destinato a durare ben poco. In questo percorso l’Italia ha forse un contributo da offrire. Nel 2007, a seguito di una iniziativa promossa dall’allora ministro dell’Interno Giuliano Amato, ha promulgato la Carta dei valori della cittadinanza e dell’integrazione, dove si legge che «Lo Stato laico riconosce il contributo positivo che le religioni recano alla collettività e intende valorizzare il patrimonio morale e spirituale di ciascuna di esse. L’Italia favorisce il dialogo interreligioso e interculturale per far crescere il rispetto della dignità umana, e contribuire al superamento di pregiudizi e intolleranza», e che « […] l’ordinamento tutela la libertà di ricerca, di critica e di discussione, anche in materia religiosa, e proibisce l’offesa verso la religione e il sentimento religioso delle persone» ed infine che « […] muovendo dalla propria tradizione religiosa e culturale, l’Italia rispetta i simboli, e i segni, di tutte le religioni. Nessuno può ritenersi offeso dai segni e dai simboli di religioni diverse dalla sua». Si tratta di una posizione di grande

117

MARTINI C. M., Noi e l’Islam: dall’accoglienza al dialogo, Centro Ambrosiano di documentazione e studi religiosi, Milano 1990, 24. 118

MARTINI C. M., Noi e l’Islam: dall’accoglienza al dialogo […] 32.

119

COSTA G., Oltre Charlie […], 103. 50


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equilibrio e concretezza, un terreno solido su cui appoggiare i passi che la storia ci chiede di compiere. Concludendo dobbiamo precisare che l’ambito del confronto tra cristiani e non cristiani a cui oggi spesso assistiamo, certo non privo di difficoltà, rappresenta la vera sfida per la costruzione di una cultura europea centrata sul dialogo che sappia essere fecondo partendo da un terreno comune. Questo terreno non può che essere quello che riguarda la “laicità”, quella che De Giorgi definisce come “laicità negativa con neutralità positiva”120 ; a due secoli di distanza, la sfida intellettuale e spirituale più alta si pone pertanto in termini differenti: non più “Cristianità o Laicità” ma “Laicità o Europa”. La neutralità, che dunque caratterizza la laicità positiva, configura lo spirito laico come un metodo e «non come corpus di dottrine e di convinzioni».121 Conviene però fare un'ulteriore distinzione relativa alla neutralità propria della laicità positiva: la neutralità può infatti essere intesa a sua volta sia in senso passivo-negativo, come eliminazione di ogni riferimento religioso o valoriale, oppure in senso attivo-positivo come «compresenza pluralistica e dialogante di tutte le posizioni religiose o valoriali, realmente professate in una società»122. In questo senso Fulvio De Giorgi propone una rilettura del concetto fondante di laicità come valore essenziale dell'identità civile europea, nonché premessa necessaria delle azioni etico-politiche in ogni Paese europeo. Secondo De Giorgi questa [laicità] si basa su tre principi irrinunciabili: 1)

libertà, come “libertà di coscienza” e come “libertà di culto religioso”;

2)

eguaglianza, sul piano del diritto tra tutte le opzioni spirituali e religiose;

3)

fraternità (nel senso di comportamenti pubblici non aggressivi) delle diverse comunità religiose tra loro e di ciascuna nei confronti dello Stato.

Pertanto è indispensabile il dialogo e la collaborazione tra credenti e non credenti in modo da “promuovere una convivenza riflessivamente illuminata” e appare urgente ripensare il concetto di laicità in quanto, come detto da Papa Francesco l’unica via possibile appare “la cultura dell’incontro” altrimenti tutti perderanno! E’ necessario ed auspicabile che si realizzi l'incontro tra cultura 120

DE GIORGI F., Laicità europea. Processi storici, categorie, ambiti, Morcelliana, Brescia 2007, 171. 121

DE GIORGI F., Laicità europea. Processi storici, categorie, ambiti […], 182.

122

DE GIORGI F., Laicità europea. Processi storici, categorie, ambiti […], 173. 51


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cristiana e cultura laica, tra senso morale e senso religioso intorno ai principi fondamentali di una “grammatica etica comune” aperta a Dio: solo muovendo dal primato della persona umana, condividendo la necessità della solidarietà, ricercando il sussidio della partecipazione responsabile di tutti e perseguendo il bene comune nella sua accezione più ampia, sarà possibile dare una risposta alle grandi sfide che il XX Secolo ci ha lasciato in eredità.

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