Ameno - An Essay on D.I.Y and Self Publishing

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“If you want a thing done well, do it yourself.� Napoleon Bonaparte quotes (French General, Politician and Emperor, 1769-1821)


Do it yourself (or DIY - fai da te) è un termine usato in relazione al costruire, modificare o riparare qualcosa senza l'aiuto di esperti o professionisti. La frase "fai da te" entra nel linguaggio comune negli anni '50, riferita alla costruzione/miglioramento della propria abitazione in maniera indipendente. Negli ultimi anni, il termine DIY ha ampliato il proprio significato arrivando a coprire un'ampia gamma di significati. Viene associato con i movimenti di Alternative Rock, Punk Hardcore e piÚ in generale per la scena musicale indipendente, i network Indymedia, le stazioni radio private, e le Zine community. Sotto questo punto di vista, il DIY è strettamente collegato all'Ars & Crafts Movement, in quanto offre un'alternativa all'enfasi della cultura consumistica sul relazionarsi ad altri per risolvere i propri bisogni.


La Discussione di Martin Lutero sul potere e l'efficacia delle indulgenze, meglio nota come 95 tesi, sfidò gli insegnamenti della Chiesa cattolica romana sulla natura della penitenza, l'autorità del papa e l'utilità delle indulgenze. Secondo la tradizione, Lutero affisse le 95 tesi sul portone della Chiesa di Wittenberg, il 31 ottobre 1517. Esse accesero un dibattito teologico che terminò con la nascita della Riforma protestante. Lutero trova inammissibile che la salvezza potesse essere garantita da un obolo scrisse cosi le 95 tesi e invito il principe a una discussione sulla natura del perdono. Si creò ben presto una scossa religiosa che incontrò anche quella politica. La stampa a caratteri mobili, consentì la stesura e la diffusione in migliaia di copie delle tesi luterane e dei successivi scritti.

Nel 2004 è stato trovato il water su cui Lutero scrisse le sue 95 tesi, un sedile di pietra di 30 cm collocato in una spoglia nicchia nel muro della sua casa. Il monaco pare infatti soffrisse di costipazione cronica e quindi passasse molte delle sue ore più costruttive al gabinetto.


L'Arts & Crafts Movement fu una corrente stilistica internazionale originatasi in Gran Bretagna e fiorita tra il 1880 e il 1910. Fu fondato dall'artista e scrittore William Morris (1834-1896) nel decennio 1860/1870, emerso dal movimento della Fratellanza Pre-Raffaelita e ispirato dagli scritti di John Ruskin (1819-1900). Influenzò architettura, design domestico e le arti decorative, usando forme semplice e uno stile di decorazione di stampo medievale. Professava sincerità verso i materiali, artigianato tradizionale e riforma economica. L'Arts & Crafts Movement iniziò come una ricerca del design e della decorazione autentica, e come reazione contro gli stili derivati dalla produzione industriale.

Gli oggetti che venivano prodotti erano semplici nella forma, senza decorazioni superflue, spesso mettendo in mostra il processo di creazione sotteso. Seguivano l'idea di "fedeltà ai materiali", preservando ed enfatizzando le qualità del materiale usato. Spesso recavano patterns ispirati alla flora e alla fauna britannica molto popolari nelle tradizioni vernacolari della campagna inglese. Molti designer del movimento creavano i loro studi in aree rurali, riscoprendo antiche tecniche di produzione. Furono fortemente influenzati dal Revival Gotico (1830-1880) ed erano interessati verso tutto quello che riguardava il medioevo, come si deduce dalle forme piene e i colori forti spesso citati nei loro lavori. Credevano in un valore morale dell'arte.


Noi sottoscritti siamo progettisti grafici, direttori

artistici, lavoratori e comunicatori visivi, cresciuti in un mondo in cui l’apparato pubblicitario e le sue tecniche ci sono stati insistentemente presentati come l’uso più remunerativo, più efficiente e desiderabile dei nostri talenti. Molti professori ed esperti del settore promuovono e diffondono questa fede che è premiata dal mercato e divulgata da una marea di libri e pubblicazioni. Spinti in questa direzione, i grafici usano le loro abilità ed immaginazione per: vendere cibo per gatti, designer-caffe, diamanti, detersivi, gel per capelli, sigarette, carte di credito, scarpe da tennis, tonificatori, birra leggera e fuori-strada. Il lavoro commerciale è sempre stato redditizio e molti grafici finiscono per fare unicamente pubblicità. È così che il lavoro commerciale è diventato il modo in cui il mondo vede il nostro lavoro. Consumiamo tempo ed energia nell’inventare la domanda di cose che sono inessenziali nel migliore dei casi. Per molti tra di noi non sta bene questa visione del design. I progettisti che dedicano i loro sforzi soprattutto alla pubblicità, il marketing, e lo sviluppo di marche stanno sostenendo ed implicitamente appoggiando un ambiente mentale così saturo di messaggi pubblicitari che sta cambiando il modo in cui il cittadino-consumatore parla, sente, risponde ed interagisce. In parte stiamo tutti partecipando alla stesura di un codice per la creazione di un discorso pubblico del tutto riduttivo e smisuratamente nocivo.

Edward Wright Geoffrey White William Slack Caroline Rawlence Ian McLaren Sam Lambert Ivor Kamlish Gerald Jones Bernard Higton Brian Grimbly John Garner Ken Garland Anthony Froshaug Robin Fior Germano Facetti Ivan Dodd Harriet Crowder Anthony Clift Gerry Cinamon Robert Chapman Ray Carpenter Ken Briggs Jonathan Barnbrook Nick Bell Andrew Blauvelt Hans Bockting Irma Boom Sheila Levrant de Bretteville Max

Bruinsma Siân Cook Linda van Deursen Chris Dixon William Drenttel Gert Dumbar Simon Esterson Vince Frost Ken Garland Milton Glaser Jessica Helfand Steven Heller Andrew Howard Tibor Kalman Jeffery Keedy Zuzana Licko Ellen Lupton Katherine McCoy Armand Mevis J. Abbott Miller Rick Poynor Lucienne Roberts Erik Spiekermann Jan van Toorn Teal Triggs Rudy VanderLans Bob Wilkinson

Esistono iniziative e attività più degne delle nostre abilità e del nostro talento nel risolvere problemi. Crisi ambientali, sociali e culturali senza precedenti richiedono la nostra attenzione. Molti interventi culturali, campagne di marketing sociali, libri, riviste, mostre, attrezzi educativi, programmi televisivi, cinema ed altri progetti di design-informativo richiedono urgentemente la nostra attenzione ed aiuto. Proponiamo un’inversione delle priorità a favore di altre forme più utili, più durevoli e più democratiche di comunicazione - un mind-shift che si allontana dal marketing di prodotti, verso l’esplorazione e la produzione di nuovi generi di significato. Il dibattito si restringe; dobbiamo espanderlo. Il consumismo regna incontestato; deve essere sfidato da altre modalità e altre ottiche, espresse, in parte, attraverso le lingue e le risorse visive del design. Nel 1964, 22 progettisti hanno firmato l’appello originale che le nostre abilità fossero messe a disposizione di una causa più utile. Nel 2000 altri 33 professionisti internazionali hanno rinnovato questo appello.

FIRST THINGS FIRST MANIFESTO


È a pro po senza fa sito della batta gli cc antipatie ia delle corpo a tra persone c razioni, o , smussa che chie n una re gli sp nè ama igoli, cre dono d to nè od i a passion iato da amputa nessuno ndo un ammas e altale ti dalle nante p s . o Oggi, p capire i idee, da strategie e r b a lla pass is t ic o di merc a g m ni del gr r il proprio lavo ente ione pe in ato e inn fo r a m ro e n e se rson de alzatori ogni me nza pensiero, s pubblico, di rim i clienti di valore ale, e sono sta e dia, arc t azionar hitettura nza passione, c uovere le io. I crea i relegati ad u he non s , design n ruolo tivi, ogg arà e grafic i, lavora a sono no per f di ser vitù clien stati ar quad rare i co telistica, por ta tori di nti. Tibor Ka lman (Ex Dire ttore Di Colors)


Il graphic design, di tutte le arti, è quella onnipresente. Risponde, di volta in volta, a bisogni personali e pubblici, abbraccia preoccupazioni sia economiche che ergonomiche, ed è alimentato da svariate discipline tra cui arte e architettura, filosofia ed etica, letteratura e linguaggio, scienze e politica e performance. Il graphic design è ovunque, tocca ogni cosa che facciamo, ogni cosa che vediamo, ogni cosa che compriamo: è nei cartelloni e nelle Bibbie, sulle ricevute dei taxi e sui siti web, sui certificati di nascita e sulle cartoline di auguri, sulle istruzioni nell’aspirina e sulle paginone spesse dei libri per bambini. La grafica è la grossa freccia direzionale sui cartelli stradali, è la tipografia frenetica e

fuori fuoco della sigla di E.R., è il logo verde acido dei New York Jets e la prima pagina monocromatica del Wall Street Journal. È il cartellino che penzola dai vestiti nei negozi, il francobollo sulle lettere, i manifesti di propa-

ganda fascista e i depliant che butti senza guardare. È quello che fa sembrare le compagnie di raffinazione del petrolio invitanti e pulite, che rende il sugo che compri al supermercato come fosse cucinato dalla nonna, che rende i preservativi scadenti cool comprando un immagine su GettyImages. Il graphic design è una complessa combinazione di parole e immagini, numeri e classifiche, fotografi e illustratori che, per svolgere il loro compito, richiedono il pensiero lucido di una persona intelligente che sappia orchestrare questi elementi in modo che arrivino a comporre qualcosa di unico, o utile, o divertente, o sorprendente, o sovversivo, o in un qualche modo memorabile. La grafica è un’arte popolare e un’arte pratica, un’arte applicata e un’arte antica. Semplicemente, è l’arte di visualizzare le idee.

Jessica Helfand


G N I M M J A E R U L T CU

Il Culture Jamming è una strategia sfruttata dai nuovi movimenti sociali che consiste in un meccanismo tramite il quale l'attivista tenta di distruggere o sovvertire le istituzioni culturali dominanti o le campagne pubblicitarie delle corporazioni. Spesso infatti, viene visto come una forma di subvertising. La maggior parte delle azioni di culture jamming sono volte a smascherare i meccanismi politici che governano la cosiddetta "cultura commerciale", in modo che le persone che ne subiscono l'influenza inconsciamente possano considerare anche solo momentaneamente la vera natura dell'ambiente in cui vivono. I jammers reinventano marchi, definizioni di moda e immagini dei prodotti per sfidare l'idea di cosa è "cool" e cosa non lo è, insieme alle idee che riguardano

la concezione malsana di "libertà di consumo" (io sono quello che compro). Spesso le azioni mirano a una riconfigurazione dello spazio pubblico, appropriandosene in quanto teatro degli happening messi in scena, o si manifestano come reazione alle convenzioni sociali esistenti. I Culture jammers sono un network dissociato e globale di artisti, scrittori, ambientalisti, economisti ecologici, insegnanti dell'alfabetizzazione dei media, sinistroidi rinati, ecofemministi, antiprogressisti, disturbatori dei college, catalizzatori della confusione nelle università, incorreggibili, insoddisfatti e acerbi imprenditori. Siamo idealisti, anarchici, tattici della guerriglia, burloni, poeti, filosofi e punk. La pratica del Culture Jamming (interferenza culturale) consiste nel trarre

spunto dalle campagne dei grandi marchi internazionali stravolgendone il messaggio originario attraverso l'ironia, il paradosso e lo straniamento. Lo scopo è quello di evidenziare le strutture del potere e valori socialmente, ecologicamente e culturalmente negativi che si annidano nel mondo della comunicazione e in particolare nei messaggi pubblicitari delle grandi corporations globali. Esempi famosi includono le modifiche dei cartelloni pubblicitari ad opera dei BLF (Billboard Liberation Front: "Fare pubblicità significa esistere. Il nostro fine ultimo è che ogni cittadiano abbia il proprio personale e originale cartellone pubblicitario (...) Fino a quel giorno continueremo a fare tutto ciò in nostro potere per incoraggiare le masse a manipolare la pubblicità e farne


un progetto personale" - questo è l'unico modo per annullare l'efficacia della pubblicità) e di Ron English, e gli street party e le proteste organizzate dai Reclaim the Streets. Talvolta i culture jammers agiscono trasformando i mass media in modo da produrre un commento ironico o satirico sulla natura di questi, usando il sistema di comunicazione originario del medium preso in considerazione (The Yes Men). Il culture jamming è una forma di disobbedienza che gioca sulle emozioni dell'osservatore e dei passanti. Obiettivo è il rilascio del processo inconscio che entra in azione quando la maggior parte dei consumatori vedono una pubblicità famosa, creandone un detourneament (variazione di un lavoro esistente nella quale il nuovo prevede un ribaltamento del significato del primo).

Gli attivisti che usano questa strategia fanno leva sulle emozioni personali che scaturiscono dalla meme comune. La reazione che si spera di generare è un cambiamento del comportamento ed una conseguente azione politica. Sono generalmente 4 le emozioni che vengono stimolate: shock, paura, vergogna e rabbia. La speranza è che, tra queste, si annidi il motore di un vero cambiamento sociale. L'unità di base nella quale viene trasmesso un messaggio nel culture jamming è detta meme. Le memi sono immagini condensate che stimolano associazioni visuali, verbali, musicali o comportamentali che le persone possano poi imitare e trasmettere ad altri. Il termine venne coniato dal genetista Richard Dawkins, ma venne poi usato da critici culturali come Douglas Rushkoff, che descrive le meme come "virus dei media". Le mene infatti

vengono viste come geni che possono saltare da un ceppo all'altro, replicandosi o mutando nella trasmissione esattamente come fanno i virus. Le più utilizzate nel CJ sono ovviamente quelle di uso più comune, come gli archi dorati di McDonald's o il baffo NIke, per spronare la gente e forzarla a ripensare ai propri costumi alimentari o al senso che danno alla moda. Ad esempio, Jonah Peretti nel 2001 su nikeid.com (sito Nike nel quale è possibile customizzare a propria scelta alcuni modelli di scarpe) tentò di farsi spedire un modello con all'interno del baffo Nike laterale la scritta "sfruttamento del lavoro" (sweatshop, letteralmente fabbrica di sudore), pubblicando sul proprio blog il botta e risposta delle mail scambiate con Nike riguardo al rifiuto di produrre un paio

G N I M M A EJ CULTUR


di scarpe del genere (Peretti infatti non infrangeva nessun punto del regolamento). Il blog ebbe un'esplosione di contatti e la faccenda diventò di dominio pubblico, portando per qualche giorno l'attenzione generale sul problema dello sfruttamento del lavoro nelle fabbriche Nike sparse per il mondo. Azioni come queste spronano l'opinione pubblica a mettere in discussione che il consumismo sia giusto e buono, che la cultura che ne deriva sia l'unica possibile e che non esistano metodi di produzione alternativi e altri stili di vita, più umani, possibili. Vengono anche organizzati eventi "di massa", i più famosi e partecipati indetti dal collettivo canadese Adbusters, come il "Buy Nothing Day", la "Digital Detox Week", sit-in virtuali e proteste sulla rete, la produzione di subvertisements piazzati in spazi pubblici, e la creazione e la produzione di placejammings in cui gli spazi

condivisi vengono riconsegnati alle persone e la natura reintrodotta nei contesti urbani. La forma più efficace di disturbo rimane l'uso di forme (emme) già largamente riconoscibili per trasmettere il messaggio, in modo che una volta che l'osservatore viene forzato a guardare un'immagine ribaltata di ciò che ritiene ordinario, è impossibile non pensare alle implicazioni e ai meccanismi che vengono mostrati, spesso in maniera shoccante. Un subvertisement a danno di Calvin Klein, diventato un cult mondiale, mostra un'immagine della campagna Obsession raffigurante una bulimica che vomita in un bagno.

G N I M M A EJ CULTUR


Gli Stati Uniti hanno più riviste letterarie di qualunque altra nazione - non ho controllato esattamente quante ce ne sono in Sudafrica o in Egitto o in una serie di altri paesi, ma penso che vi fiderete lo stesso - e non ho idea di quale sia il motivo. Da noi esstono probabilmente più di un centinaio di riviste letterarie di alta qualità, di alta qualità nel senso che sono rilegate come veri e propri libri e prodotte secondo i migliori standard di editing, impaginazione e realizzazione tipografica. Quasi ciascuno dei cinquanta stati ha la propria rivista - dalla Mississipi Review alla Alaska Quarterly Review, e devo ancora vederne una di cui i rispettivi concittadini non possano andare fieri. Poi ovviamente ci sono le capofila indipendenti, le riviste che da decenni aprono nuovi territori e scoprono nuovi scrittori: la Paris Review, Callaloo, Epoch, StoryQuarterly, Conjuctions, Grand Street. Aggiungeteci una valanga di new entries, tutte di eccellente livello: Open City, 3rd Bed, Pineldboyz, Fence. Oltre a queste esistono non meno di venticinque ottime riviste finanziate da college o università - dalla Kenyion Review a Ploughshares - insomma credo di aver reso l’idea. E queste sono solo le riviste migliori! ce ne saranno almeno un altro migliaio che vengono create con mezzi più limitati e raggiungono risultati più moddesti.

Storicamente gli Stati Uniti nutrono una vera passione per il fenere del racconto breve, ed è stupefacente il fatto che così tante riviste riescano a farsi strada. Allora che bisogno aveva il mio paese di vederne nascere un’altra? In realtà non c’era nessun buon motivo. La sola giustificazione che posso dare è che, innanzitutto, lo consideravo semplicemente un progetto interessante, una nuova forma da esplorare, qualcosa che avrebbe tenuto lontani me e certi miei amici da una vita di meschino vandalismo e critica astiosa espressi tramite minuscoli quotidiani. In secondo luogo, c’era effettivamente una sottile nicchia ancora libera in quel campo tanto affollato: ossia, nonostante la gran quantità di pubblicazioni, restavano comunque alcune forme letterarie che stranamente non sembravano abbastanza rappresentate. In particolare, c’era solo un ristretto numero di riviste dove erano ben accette la narrativa e la saggiustica sperimentali, e in pratica non esisteca nessuno spazio che desse ospitalità alla letteratura umoristica. Perciò è da lì che abbiamo cominciato. In realtà, McSweeney’s è nata in un perodo durante il quale avevo raggiunto una completa fase di stallo su altri fronti a cui avrei dovuto dedicarmi, e trascuravo ogni dovere che presumibilmente avevo nei confronti della patinata rivista newyorkese che mi stipendiava.


Ero impiegato presso un periodico dal target maschile, per il quale in teoria avrei dovuto ideare e scrivere lunghi articoli, codsa che praticamente non facevo; viceversa, stavo cercando di finire il mio primo libro. Ma contemporaneamente rimandavo, ogni giorno e ogni notte, il lavoro su quel mio primo libro, e non volendo dare l’impressione - soprattutto a me stesso, immagino - di totale inconcludenza, ho cominciato a pensare a una nuova rivista trimestrale. Mi ero trasferito da San Francisco a New York l’anno prima, e il mio primo contatto con il patinato mondo delle riviste patinate era stato per molti versi uno shock. Diversi scrittori che conoscevo si vedevano rifiutare a destra e a manca la pubblicazione di ottimo materiale, o commissionare pezzi che, una volta scritti, non vedevano la luce per ogni possibile motivo: erano troppo lunghi, troppo complicati, troppo legati all’attualità, troppo slegati dall’attualità, o ponevano troppa enfasi su una gigantesca lumaca luccicante. Ho cominciato a chiedermi se fosse possibile fondare una nuova rivista, composta dagli articoli che le altre avevano scartato: un trimestrale di racconti e saggi rimasti orfani. Nel frattempo, mi sono messo a giocherellare con i caratteri tipografici e la composizione delle copertine. Era già un po’ che collezionavo e studiavo pamphlet ottocenteschi e frontespizi di libri antichi, e durante un viaggio a Cuba ne avevo raccolto decine di esemplari, fra i classici spagnoli e testi medici francesi e tedeschi: perciò ho iniziato a impostare il look della nuova rivista su quei volumi antiquati. Il primo scopo che mi proponevo era di semplificare la grafica. Avevo visto troppi splendidi articoli e racconti subire tagli brutali per lasciare posto agli elementi grafici: fotografie, illustrazioni, citazioni in corpo ingrandito, perfino vignette. Volevo che in questa nuova rivista non ci fossero limiti allo spazio e alla libertà concessa agli autori. Per contrasto con il design aggressivo di tante altre pubblicazioni, la nostra quasi non avrebbe fatto uso di immagini, e si sarebbe limitata a impiegare un unico carattere, di stile

classico: nella fattispecie, il Garamond 3.

Il Garamond 3 è sempre stato il mio carattere di stampa preferito, perchè è bello da vedere in ogni sua variante: corsivo, maiuscoletto, maiuscolo, con una maggiore spaziatura fra le lettere, giustificato o allineato da una parte. Più o meno nello stesso periodo, un una piccola galleria di Chelsea ho visto la mostra di un fotografo di nome Peter Garfield. Nelle sue foto comparivano casette ad un solo piano che sembravano volare a mezz’aria, cadere dal cielo come se Dio stesse gettando via dal paradiso le sue abitazioni difettose. Erano immagini incredibili. Ho comprato il catalogo, che raccoglieva, fra l’altro, l’intervista di uno storico dell’arte italiano all’autore e una serie di immagini che documentavano il processo di realizzazione delle foto delle case cadenti. Veniva spiegato in grande dettaglio che le case erano state sollevate mediante elicotteri militari e scaricate su lotti di terreno inutilizzati; in quelle immagini, Garfield e la sua troupe avevano l’aria seria e determinata, e indossavano elmetti da cantiere.


L’unica parte del catalogo che mi sembrava un po’ sospetta era una riga scritta in piccolo sul retro della copertina, che recitava le seguenti parole: STAMPATO IN ISLANDA. Quando alla fine ho conosciuto dipersona l’autore, mi ha spiegato, ridendo della mia credulità, che avevo abboccato in pieno a una elaborata bufala. Non c’era mai stato nessun elicottero, nessuna casa era mai stata gettata veramente dal cielo. Le casette, mi fece vedere, erano modellini, alti una

delle lettere da una persona che si firmava Timothy McSweeney, e che sosteneva di essere nostro parente (da nubile, mia madre si chiamava Adelaide McSweeney). Nelle sue lettere, che erano sconclusionate e regolarmente inquietanti, in genere iseriva sempre orari di treni e di aerei, e vaghi itinerari: prometteva sempre che uno di quei giorni sarebbe venuto a trovarci - per una riunione di famiglia!

decina di centimetri, che lui aveva lanciato in aria e fotografato nel giardino di casa. In effetti, mi disse, le uniche parole vere in tutto il catalogo erano quelle che mi avevevano insospettito di più: il libro era stato stampato proprio in Islanda. E così quella tipografia, la Oddi Printing di Reykjavik, è diventata la tipografia della nuova rivista prima ancora che cominciassi a lavorarci sul serio. Subito dopo è venuto il nome. Quando ero piccolo, la mia famiglia riceveva periodicamente

E così il nome di una rivista che accogliesse i racconti e i saggi emarginati dalla famiglia della letteratura rispettabile - posto che ne avessero mai fatto parte - è diventato Timothy McSweeney’s Quarterly Concern [L’attività trimestrale di Timothy McSweeney]. E anche se il primo numero conteneva in effetti parecchi pezzi che erano stati rifiutati in altre sedi, ben presto abbiamo abbandonato quel raggio d’azione ristretto e dal secondo


numero in poi abbiamo pubblicato materiale che per la maggior parte era stato scritto appositamente per noi. Una volta messo a punto l’aspetto generale degli interni della rivista, abbiamo cominciato - all’epoca il nostro staff era composto di due o tre persone - a manipolare anche la forma esterna. Ogni numero cercava di superare il precedente, di reinventarsi. Il primo numero era piuttosto semplice, nel secondo la complessità della copertina raddoppiava, nel terzo quella della copertina del secondo era triplicata, con l’aggiunta di un breve racconto di David Foster Wallace stampato sulla costa del volume. Per ogni numero andavo in aereo da Brooklyn a Reykjavik, chiedendo di volta in volta alla tipografia se era possibile fare una certa cosa. SI poteva fare una sovracoperta in quadricromia? SI poteva realizzare un numero fatto di quattordici librettini diversi, raccolti in una scatola di cartoncino? Invariabilmente i tipografi dicevano di sì, e la ricercatezza di ogni numero diventava una specie di sfida: quasi sempre sentivamo di dover superare noi stessi. Quindi al numero quattro, la scatola coi librettini, ha fatto seguito il numero cinque, un vero e proprio libro cartonato con quattro versioni diverse della copertina e tre sopracoperte a colori. Il numero sei comprendeva, allegata in omaggio al volume, una colonna sonora su cd ad opera dei They Might Be giants, in cui ogni canzone era destinata ad accompagnare un brano della rivista. Il numero sette era composto di un altro gruppo di libretti, stavolta tenuto insieme da una copertina di cartone e un elastico gigante. A che scopo tutti questi preziosismi nella realizzazione? Ogni numero doveva offrirci nuove sfide; dovevamo metterci a lavorare a ogni numero come se fosse il primo, o l’ultimo. E ogni numero doveva diventare un oggetto degno di essere posseduto. Pensavamo cioè - e continuiamo a pensarlo - che i libri devono essere belli, e che, se sono belli, è più probabile che la gente voglia conservarli, metterli in mostra, toccarli e tornare ad aprirli più volte. Noi siamo innamorati dell’aspetto tattile dei libri, e cerchiamo di ricompensare degnamente i lettori che amano tenerli in mano, conservarli, appoggiarli a terra e contemplarli.


Finora questa introduzione ha descritto soltanto l’aspetto esterno di queste riviste, che - lo ripetiamo sempre - è secondario risptto a quello che accade nelle pagine degli scrittori che abbiamo avuto la fortuna di pubbicare. Ma i due aspetti non sono facili da separare. In parte, il motivo per cui siamo stati in grado di attirare tanti ottimi scrittori è che il contesto in cui appare la loro opera è esteticamente gradevole, e le garantisce - anche qualora sia di carattere umoristico - un certo livello di dignità. Detto questo, ci riteniamo veramente fortunati ad aver avuto fin dall’inizio il piacere di impaginare e stampare materiale creato da tanti dei nostri autori preferiti, scrittori che consideravamo un nostro mito già molto tempo prima che ci venisse anche soltanto l’idea della rivista: gente come George Saunders, Lydia Davis, Rick Moody, Jonathan Lethem, William T. Vollmann e David Foster Wallace. E accanto a loro siamo stati lieti di pubblicare i primi racconti di scrittori che cominciavano appena a farsi conoscere, o che hanno ottenuto notorietà proprio in seguito all’apparizione sulle nostre pagine, scrittori come Paul collins, Rebecca Curtis, Ann Cummins, Arthur Bradford e la stessa Zadie Smith, che era già molto nota quando le nostre strade si sono incrociate, ma che ancora

non aveva mai scritto racconti. Mi rendo conto che prima o poi dovrei definire in maniera chiara e orgogliosa l’estetica unificante che sta alla base di McSweeney’s, o addirittura stilare un rigido elenco di caratteristiche che approviamo o disapproviamo nella narrativa. Ma benchè nel corso degli anni possiamo aver mostrato determinate tendenze, in generale la nostra opinione è che non c’è strumento più efficace per privare l’arte di vitalità che un’estetica unificante o una qualche specie di manifesto che nel giro di pochi mesi viene a noia ai suoi stessi autori. E anche se i primi numeri erano più coerenti nella forma - o quanto meno coerenti nella loro insofferenza verso la forma tradizionale - i numeri più recenti si sono concentrati su racconti più lunghi, ben scritti, anche se tradizionali nella struttura. Il numero undici raccoglie sia pezzi tradizionali che sperimnetali, e comprende un estratto da un romanzo in cui una scimmia parlante aspira ad essere gesù - il tutto affuancato da un dvd in cui leggono il proprio materiale autori che vanno da Joyce Carol Oates a T.C. Boyle.


Stampa Alternativa è una casa editrice romana fondata nel 1969 sull'esempio delle Alternative Press americane e inglesi. Guidata da Marcello Baraghini, personalità autorevole quanto polemica del mondo culturale italiano, la casa editrice è storicamente nota per la collana Millelire, che ha inaugurato il rilancio in Italia delle edizioni supereconomiche. Ai suoi esordi, Stampa Alternativa si propone come un'agenzia di controinformazione e un centro di servizi su tematiche fino ad allora ignorate sia dalle forze istituzionali, sia dai movimentiv che si autodefinivano rivoluzionari: sessualità, droghe, energie rinnovabili, viaggi e, più in generale, qualità della vita. Gli opuscoli vengono messi in vendita al prezzo politico di 300-500 lire. Fin dai primi anni settanta, la casa editrice si distingue per diverse iniziative provocatorie, come la distribuzione della Press Card, una tessera da fotogiornalista rilasciata per una cifra irrisoria a chiunque ne faccia richiesta. vvLa tessera attesta a chi la possiede lo status di fotogiornalista corrispondente di Stampa Alternativa, agenzia regolarmente

registrata presso il tribunale di Roma. Ancora oggi, inoltre, la casa editrice offre

la possibilità, a chiunque voglia dar vita a una pubblicazione, di usufruire dell'etichetta supplemento a Stampa Alternativa, per aggirare le norme che richiedono la presenza di un giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei giornalisti per risponderne penalmente. Nel 1975 viene pubblicato il volume Contro la famiglia. Manuale di autodifesa per minorenni, che vende oltre 60.000 copie; l'uscita del libro semina panico e indignazione. Il senatore del Movimento Sociale Italiano, Mario Tedeschi, direttore del Borghese, inaugura la campagna elettorale televisiva additando il libro al pubblico ludibrio. I comitati civici raccolgono firme in quasi tutte le parrocchie italiane per o t tenerne il sequestro. Per questo libro il direttore di Stampa Alternativa Marcello Baraghini subisce un lungo processo e viene


condannato a 18 mesi senza i benefici. Tutte le copie reperibili vengono sequestrate ma il libro sarà riproposto vent'anni dopo, nel 1995, in occasione dei 25 anni della casa editrice. Nel 1987 a Stampa Alternativa si affianca Nuovi Equilibri Srl, come società operativa per consentire la miglior produzione e commercializzazione dei libri, che nel corso degli anni si trasforma in Piccola Società Cooperativa. Nei primi anni ottanta fa la sua comparsa una collana chiamata Sconcerto; si tratta di volumi quadrati ideati da Giacomo Spazio e creati su misura per poter contenere al loro interno un vinile. Vengono pubblicati, in particolare, brani di musicisti appartenenti alla cosiddetta New Wave, ancora poco conosciuti in Italia, come The Cure e Smiths. All'interno del volume sono presenti biografie, testi e traduzioni in italiano. La collana viene affiancata da una serie dedicata alla musica italiana, accompagnata alla rivista Vinile e interamente dedicata all'underground nostrano. La rivista è ideata da Giacomo Spazio e condotta da GigiMarinoni, Giacomo Spazio, Laura Mars e Carlo Albertoli. Giacomo Spazio poi ideerà anche la casa discografica indipendente Vox Pop.

What’s gong on? Stampa Alternativa 1980


Con la scomparsa del vinile, la collana viene sostituita dai Sonic Book, con intenti analoghi ma accompagnati da un CD. Millelire è una collana di libri proposta a partire dal 1989. I Millelire, libri che hanno rivoluzionato il mercato editoriale, come si legge sulla Piccola Enciclopedia Garzanti del 1993, si presentano come opuscoli con una veste scarna e priva di orpelli, al prezzo di 1000 lire (circa 0,52 euro). Il successo editoriale è enorme: nel solo decennio novanta vengono vendute 20 milioni di copie, di cui 2 milioni soltanto di Lettera sulla felicità di Epicuro, presentato con un breve commento critico e con il testo a fronte in greco. Altro libro di grande successo è Papalagi. Discorso del capo Tuiavii di Tiavea delle Samoa, un trattato etnologico pungente e sagace sulla civiltà e i falsi miti degli Occidentali; secondo alcune interpretazioni il testo sarebbe in realtà un falso realizzato da Erich Scheurmann, che lo avrebbe diffuso in Europa spacciandolo per una sua traduzione di un vero discorso del capo samoano. Copertina catalogo StampaAlternativa Millelire 1992


Nel 1994 la collana è stata insignita del premio Compasso d'oro per la comunicazione e la grafica. Nel 2002 questi libri, che per oltre un decennio hanno rivoluzionato il mercato editoriale, hanno cessato la produzione, continuando tuttavia ad essere venduti nelle strade e nelle piazze. I primi Millelire, quelli della fine degli ottanta, vengono ora riproposti come e-book liberamente scaricabili. L'esigenza di pubblicare insieme diversi libri Millelire suggerisce l'idea di creare appositi contenitori. La prima di queste serie ha come titolo Giallo, nero e mistero: dieci volumetti di genere noir firmati da autori quali Loriano Macchiavelli, Marcello Fois, Andrea Pinketts. Il contenitore viene chiamato Marlboro, dal pacchetto della nota marca di sigarette a cui si ispira.[2] La proposta riscuote grande successo e apre la strada ad altre raccolte, il cui contenitore si presenta come parodia di scatole di prodotti di consumo; fra questi, va ricordata la raccolta Internet, curata da Roberto Cicciomessere e Agorà Telematica, con un container che richiama il tetrapak del latte e i Settebelli, un ammiccamento provocatorio ad un famoso nome dell'industria di profilattici, per proporre sette classici della storia dei Millelire. Con la medesima modalità viene data alle stampe nel

1995 l'antologia Cyber punk, che raccoglie racconti inediti di autori italiani e alcuni saggi dedicati alla narrativa cyberpunk. I libri sono contenuti in un cofanetto che rimanda alla confezione di famose barrette di cioccolato. Altro elemento innovativo: all'interno è presente un floppy disk con un ipertesto di Fabio Gadducci e Mirko Tavosanis e il browser per navigare in internet Netscape 1.0. Copie di questi cofanetti vengono richieste da importanti musei di tutto il mondo e sono oggetto di ricerche e tesi di laurea. In Giappone diventano autentici oggetti di culto, e Stampa Alternativa è protagonista di uno speciale sul maggior quotidiano locale. Il direttore editoriale Marcello Baraghini viene invitato in qualità di docente di marketing per un giorno presso l'Università di Tokio. Nella primavera del 2005 viene promossa l'iniziativa Libera Cultura, volta a promuovere la circolazione libera delle idee e della produzione editoriale indipendente con licenze che ne possano consentire la massima diffusione e condivisione. Vengono riproposti in formato elettronico diversi titoli cartacei editi da Stampa Alternativa sotto licenze Creative Commons, liberamente scaricabili in formato pdf dal sito della casa editrice.


Marcello Baraghini è ideatore e animatore del Festival Internazionale della Letteratura Resistente, giunto alla quinta edizione, che si svolge ogni anno a settembre nel borgo medioevale di Pitigliano, in provincia di Grosseto. L'edizione del 2008, intitolata Matti chiari, si è svolta dal 3 al 6 settembre ed è stata dedicata a Franco Basaglia, a cui si deve l'introduzione in Italia della legge 180/78, che portò all'abolizione dei manicomi.

Epicuro, Lettera sulla Felicità Catalogo Millelire 2 milioni di copie vendute solo negli anni ‘90


1. Del Do and dell’It Yourself *

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Il movimento DIY riguarda l’uso di qualsiasi cosa ti capiti tra le mani per modellare la tua identità culturale, la tua versione di qualsiasi cosa pensi manchi all’interno della cultura mainstream. Puoi produrre il tuo giornale, registrare un album, pubblicare il tuo libro - il fascino di tutto ciò è che chiunque può essere un artista o un creatore. Lo scopo è essere coinvolti. Fin da quando, a quindici anni, mi sono innamorata degli ideali lo-fi, ho esplorato la scena underground DIY con un entusiasmo senza limiti. Al posto del blando consumismo pop che domina ogni cosa e le biografie best-seller delle celebrità che riempiono gli scaffali delle librerie è eccitante realizzare che c’è un numero in costante aumento di menti creative e indipendenti che ci credono abbastanza da andare contro e decidono di produrre musica, arte, riviste e letteratura veramente unica - che sia intesa per essere venduta o meno.


Non c’è niente che batta il momento in cui vai ad un concerto dove per la prima volta vieni esposto ad uno spettro completamente nuovo di idee e di suoni e di altri artisti con una concezione simile di musica, o di quando ti imbatti in una zine che si occupa di un argomento di cui avresti sempre voluto sapere di più, che è sovversivo, irriverente, intelligente e soprattutto divertente. I giornalisti, i critici, possono dirti che l’avvento di X-Factor, Got Talent, Amici stanno uccidendo l’industria musicale, ma se stanno cercando la creatività stanno semplicemente guardando nel posto sbagliato. Gli amatori, i pionieri del DIY, i musicisti veramente “casalinghi”, scrittori e stampatori continuano a cercare modi freschi e originali di esprimere sè stessi attraverso l’arte. Sono creativi perchè è quello che li interessa e che li eccita, il processo in sè, non la promessa di fama e celebrità. Il fatto che alcuni artisti underground arrivino al mainstream non è importante. La scena DIY continua ad essere un covo in fermento di nuovi artisti e nuove idee. Fondamentalmente, le opportunità per una produzione culturale amatoriale sono sempre esistite, per tutti quelli guidati da uno spirito indipendente in cerca di rappresentare ciò che la cultura mainstream non permetteva loro. Tuttavia negli ultimi anni, con l’avvento dei media digitali a sostitutire i vecchi sistemi carta-e-colla per produrre fanzines per le bands, flyer per i concerti etc. queste opportunità si sono espanse in nuovi e imprevedibili modi. Oggi praticamente chiunque può pubblicare i propri scritti su un blog, usare una tecnologia print-on-demand per produrre piccole edizioni di libri, condividere la propria musica attraverso MySpace, o scrivere qualcosa di sè stessi su facebook. La produzione di media amatoriali corre attraverso vie completamente nuove e le


persone hanno la possibilità di condividere le proprie creazioni o una visione della propria vita (anche inventata), con una enorme e spesso invisibile audience. I benefici sono potenzialmente immensi. Io stessa ho scoperto un numero incredibile di bands e scrittori online che non avrei mai trovato in nessun altro modo.

Il problema è che molte persone confondono il metodo della comunicazione; gli strumenti per esprimersi, con l’atto della creatività stessa. Il fatto che tu abbia la possibilità di postare un tuo scritto su un sita o condividere una nuova canzone con la massa non significa necessariamente che sia buona. A dispetto delle nuove opportunità che presenta internet, non riesco a capire se sia un output indipendente che incoraggia nuove idee. Da un lato, le persone possono trovare risorse già pronte da usare per trasmettere le proprie idee. Dall’altro, i network dei social media fanno sempre e comunque parte di network di Mass media e non possono essere completamente indipendenti. I media mainstream hanno semplicemente realizzato che il consumatore oggi vuole creare da sè la propria forma di media e hanno sviluppato una piattaforma ad hoc da sè o investito in modelli esistenti. È diventato semplice “fare da sè” ma è fuori discussione che un po’ del fascino amatoriale e dell’appeal della produzione e distribuzione creativa si sia persa in questo processo di aggiornamento - insieme al messaggio politico sotteso. (Nonostante ovviamente esista un grande potenziale in questa forma di produzione dei media e ammiro coloro che ne fanno un uso creativo e chi li sfrutta come alternativa ai networks tradizionali).

In termini di nascita di una cultura DIY, è interessante che, sebbene in milioni abbiano abbracciato le nuove tecnologie e la produzione di contenuti online sia divenuta parte delle loro vite - e questo è un genere di persone che non ha mai visto una zine fotocopiata o un 7 pollici auto-registrato - la vecchia scuola continua a prosperare. Internet ha fatto in modo che la cultura DIY sia divenuta più accessibile e meno elitaria ma, soprattutto, non ha scalfito il fascino senza tempo di una zine fatta in casa o di un demo a 4 tracce. Per molti il lo-fi è si è confuso con l’alta tecnologia. La distribuzione online fa in modo che le produzioni lo-fi trovino un pubblico, ma le tradizionali attività lo-fi sono aumentate. Dopo aver scaricato musica online, i fan cercano di approfondire la loro esperienza e quindi è aumentato considerevolmente il numero di eventi e festival. Le etichette indipendenti rendono la loro musica disponibile online ma rilasciano al contempo vinili e edizioni da collezione. Gli scrittori di zines celebrano gli strumenti base come la carta e la penna e continuano a produrre le loro zine e a distribuirle attraverso il sistema postale tradizionale. Molti artisti addirittura evitano l’opzione di una registrazione digitale per preservare un suono DIY autentico. La cultura del fai da te si sta evolvendo - abbracciando ma anche fornendo alternative alle nuove tecnologie. È questo il modo in cui questa cultura ha sempre funzionato. Quando ho iniziato ad investigare le origini dell’etica DIY, ho scoperto simili metodi di lavoro e echi dello stesso stile attraverso diverse comunità che si ripetevano sempre.


2. Della rivista detta Fanzine *

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Le zines sono pubblicazioni non commerciali a bassa circolazione, prodotte e distribuite direttamente dai loro creatori. Generalmente lo scrittore di zines non è uno scrittore professionista, nè viene pagato per i propri sforzi, quindi chi è esattamente e perchè lo fa? L’appeal alla base della crazione di questi “magazines” fatti in casa è facile da capire - l’opportunità di scrivere quello che vuoi e di intercettare un’audience interessata, senza restrizioni di sorta. I contro sono evidenti - il tempo che serve per produrre una zine e i costi che ci stanno dietro. La maggior parte degli zinester raramente riesce ad ammortizzare le spese. Fredric Wertham, uno psichiatra di New York, si interessò al fenomeno delle fanzine nei primi ‘40 mentre faceva delle ricerche sui legami tra psicologia e letteratura. Inizialmente il suo lavoro si concentrava sugli effetti negativi che la cultura


popolare poteva avere su un individuo. Divenne presto molto rispettato sull’argomento e fu invitato per un intervento prima che la commissione del Senato si riunisse per dibattere sulla delinquenza giovanile negli anni ‘50. Verso gli anni 70, cominciò a spostare la sua attenzione verso le sottoculture del fumetto. Cercò di capire perchè le persone stavano cominciando a pubblicare le proprie zines invece di leggere i magazines commerciali. Ma invece di criticarne il lavoro, cominciò ad essere intrigato dai fondatori di fanzines, dalla loro mancanza di motivazioni commerciali e dalla loro celebrazione dello scrittore amatoriale. Più tardi pubblicò il frutto di queste ricerche in The World of Fanzines ed è accreditato come una delle prime persone interessate nella psicologia della scrittura amatoriale. L’uomo che mise in guardia l’America dai pericoli della cultura pop divenne uno dei primi accademici affascinati dalle pubblicazioni underground. Nel suo libro, spiega come “le Zines danno voce alle persone anonime. L’idea di base è che qualcuno si sieda, scriva, collezioni, disegni o editi un sacco di materiale del cui sia coinvolto o interessato, fotocopi o stampi alcune copie e lo distribuisca. Il processo di creazione di una zine è estremamente diretto, e rimane sotto il controllo dello scrittore per tutto il tempo. Infatti l’aspetto eccezionale del tutto è che esiste senza nessuna interferenza dall’esterno, senza nessun controllo dall’alto, senza nessuna censuram senza supervisione o manipulazione. E non è solo una questione di forma, è il cuore di quello che sono le fanzines”. Agli scrittori di fanzines viene sempre chiesto di che cosa scrivono. E se hanno qualcosa da dire, perchè non inviano il looro materiale a un magazine o a un giornale? Le ragioni sono varie quante le copie che producono. Alcuni scrittori cercano di

scacciare un senso di noia o di solitudine. Alcuni vogliono sentirsi parte di una comunità più grande. Alcuni vogliono discutere le proprie ossessioni. Altri vogliono “validare” la propria vita e far capire agli altri il proprio modo di pensare. Altri ancora usano le zines come un mezzi per distribuire informazioni e risorse agli altri. I soldi sono raramente una motivazione per cominciare a pubblicare, spesso i budget disponibili sono molto bassi e ciò che viene prodotto viene venduto per poco o niente. In realtà molti non riescono a coprire nemmeno i costi di stampa, e sembra strano che che qualcuno voglia investire tempo e denaro in questi progetti di carta. Eppure, dopo aver iniziato a stampare, il processo diventa una droga. Hai un supporto per esprimere le tue idee e sperimenti la bellezza di disegnare fisicamente il layout che le contiene, mettere tutto insieme ed avere un prodotto finito. Fin dagli inizi nella comunità fantascientifica degli anni ‘30, le zines sono state scambiate tra di loro, e lo scambio reciproco continua ad essere una pratica comune. Ciò fa in modo che sia gli scrittori che i lettori riescano ad evitare i canali commerciali e idealisticamente invertire il processo fino ai tempi in cui lo scambio di beni era ben più comune di quello monetario. Si è così sviluppato un codice, un etichetta, che include il baratto, scrivere lettere personali e recensire il prodotto degli altri personalmente. vLa zine, inoltre, è vista diversamente da un prodotto commerciale: somiglia più ad un regalo che a un prodotto vero e proprio, bypassando come fa lo scopo del profitto. Il flusso di zines, ed il network di persone che si è svilupapto attorno, richiama il contatto umano, connettendo fisicamente le persone tra di loro, condividendo il senso di solidarietà e di interessi nella cultura indipendente alternativa. Lo stile di scrittura di questi


supporti è diventato una cultura di per sè. Lo scrittore di zines scrive a proposito di altre zines, e spesso ospita interviste di altri scrittori. Alcuni, come Aaron Cometbus e Pete Dishwater sono diventati delle celebrità all’interno di questo mondo. Lavorando lontano dal mondo delle corporations, che divide la popolazione tra categorie demografiche attentamente ricercate, gli zinester formano la propria rete attorno alle singole identità. Molti creano le proprie zines come una reazione conscia contro la società consumista, adottando il principio DIY secondo il quale sei tu che dovresti creare la tua personale esperienza culturale. Ed è questo il messaggio che passano ai propri lettori - tu puoi crearti il tuo spazio - a differenza del messaggio trasmesso dai mass media, che incoraggia le persone a consumare, le zines incoraggiano le persone a prendere parte e a produrre qualcosa per sè stessi. A differenza di un grande magazine commerciale, chi produce ha la libertà di farlo come vuole quando vuole, senza pressioni da deadlines. Sono una forma temporale di media, compaiono e spariscono, possono uscire per appena un numero e svanire subito dopo. Non mirano a colmare una nicchia commerciale disponibile nel mercato ma semplicemente quello di cui si vuole parlare al momento. Come per molte altre culture underground, un senso di possessione ossessiva permea questo tipo di cultura. Se una zine si trasforma in un magazine mainstream cominciano a piovere le critiche, spesso queste operazione vengono viste con sospetto e bollate come “tradimenti” verso la propria anima amatoriale, che è uno dei principi più celebrati all’interno delle comunità. Ma l’ethos di tutto ciò si concentra davvero nella produzione di una forma amatoriale di media? È interessante guardare le


origini della parola “amatore” che, nonostante spesso portino con sè connotazioni negative, derivano dal latino amor: un approccio del genere è quindi più una forma di comunicazione personale e non necessariamente deve far rima con stanchezza, mancanza di professionalità e di talento. Durante gli anni ‘60, i primi quotidiani auto pubblicati e i magazines politici erano un’importante forma di giornalismo, spesso in contrasto con i media restrittivi dell’epoca. E lo stesso può essere detto delle zines pubblicate agli albori del punk alla fine degli anni ‘70 che si scagliavano contro la mancanza di visibilità del movimento nei canali musicali commerciali: il ruolo delle zine mano a mano diventa quello di provvedere a fornire una radicale alternativa alle pubblicazioni tradizionali. Nonostante parecchie eccezioni, le zines tendono ad essere scritte da una popolazione medio-borghese, bianca, durante l’adolescenza o i primi ventanni. Molti hanno sfidato questo assunto producendo pubblicazioni radicalmente differenti o affrontando il tema direttamente, ma avere il tempo e la libertà di mettere insieme il materiale stesso è un privilegio che non si può discutere. Non a caso, le zines spesso vengono criticate per essere una forma elitaria di media. Puoi avere accesso alle informazioni che vi sono contenute solo se sai esattamente dove guardare, a che persone parlare o leggendo su flyers di un qualche happening o comprando una zine a un evento, tuttavia quella delle zine sembra essere nonostante tutto l’esperienza culturale partecipativa perfetta. Su Notes from Underground Zines and the Politics of Alternative Culture, Stephen Duncombe scrive: “Gli zines writers celebrano la persona comune in un mondo di celebrità, i perdenti in una società che ricompensa i migliori e i brillanti.”

ambizione di Dishwasher Pete era semplicemente quella di lavari i piatti in ogni stato americano, e di scrivere a riguardo. Questi scritti sono diventati la sua zine. Nel numero 7, Pete è in un cafe a Boulder, nel numero 8 in un conservificio di pesci in Alaska, nel numero 9 in un ristorante nel New Hapshire e nel numero 11 in ristoranti in Montana, California e Ohio. Non volendo che la responsabilità di un impiego lo facesse sentire troppo legato ad un posto, decise di viaggiare attraverso la nazione lavorando temporaneamente in qualsiasi città, rinnovando il topos del grande viaggio americano, glorificato dai primi pionieri, dagli autostoppisti, dalla generazione beat e dagli hippy ma come perso nel malessere diffuso delle nuove generazioni. Dishwasher Pete è una celebrazione della forza lavoro nascosta, degli studenti del liceo che lavano i piatti nei retrobottega, che celebra e glorifica documentando la storia del lavaggio dei piatti, dagli avvenimento storici ai riferimenti letterari all’atteggiamento delle persone nei confronti di questI ultimi, cercando di darne quel senso di serietà che - come dire - un po’ manca. Col tempo, è diventato una specie di guru tra i lavatori di piatti.


Ama il suo lavoro e regolarmente trova altri che lo apprezzano nonostante siano circondati da persone che continuano a dire loro di farsi una carriera. Sotto molti aspetti, è il tipico giovane scrittore di Zine, che spesso lavora in postacci, senza la voglia di ‘vendere sè stessi’ ad un datore di lavoro e disposti a lavorare il minimo possibile per tirare avanti, ma con la voglia di fare qualcosa di diverso e, attraverso una zine trovano il modo di farlo. Possono scrivere dei loro pensieri ed esplorare le esperienze quotidiane trovando un pubblico spesso catturato dalla lettura. Dishwasher Pete, descrivendo i dettagli della sua vita, le persone che incontra, i metodi che scopre per passare il tempo al lavoro, ha creato una zine che affascina chiunque cominci a leggerla. La popolarità di Dishwasher Pete trascende il normale mondo underground delle zines, e come molti dei migliori esempi di queste, è riuscito a raggiungere il pubblico popolare.

Aaron Cometbus è seguito come un culto. Visto da molti come il Jack Kerouac dei nostri giorni, produce una zine chiamata Cometbus; un resoconto autobiografico di un giovane ragazzo punk, che viaggia attraverso l’America nelle case di altrettanti punk. La zine ottenne successo nell’ambiente per l’evidente talento di Aaron nella scrittura. Cometbus venne fondata da Aaron nel 1983 a soli tredici anni. Da allora, ha continuato a scrivere della propria vita, dei suoi amici e della scena punk rock.

Nel giugno del 1996 è stato invitato al David Letterman Show, mandando un sostiuto - sempre lavapiatti - perchè troppo timido per partecipare al programma. Nonostante questo, è stato ufficialmente il primo scrittore di zine ad essere invitato in televisione.

Inizialmente stampata in una tiratura di 500 copie dal posto di lavoro di un amico, non poteva immaginarsi dell’impatto che avrebbe avuto nè della lunga vita (continua ad essere stampata ancora oggi), o dell’effetto positivo sulla scenza zine. Voleva soltanto connettersi con la scena punk che lo circondava a Berkeley. Come per molti altri, la zine gli sembrava un mezzo efficace per ottenere accesso alla scena musicale. Scrivendone una infatti, puoi ottener un accesso diretto alle band ed un mezzo per comunicare con altri con gli stessi interessi. Tuttavia, a differenza di altri, Cometbus presto si distaccò dal concentrarsi unicamente sulla musica e cominciò ad includere racconti, saggi e diari di viaggio. Scoprì che scrivere delle vite delle persone e collezionare le loro storie era un importante contributo alla scena di cui era felice di fare parte.


Iniziò a prendere nota dei dettagli della propria vita all’interno della comunità punk - i viaggi attraverso la nazione, l’esperienza di vivere in squats, il mangiare dai cassonetti e delle sue avventure durante i concerti, colmando il gap tra le punk zine e le personal zine. Come nelle migliori storie, cominciò a scrivere dei tempi importanti della vita - innamorarsi, l’importanza dell’amicizia e la battaglia per vivere una vita che sia giusta per te. La zine divenne un mezzo per registrare la propria vita, le cui pagine fotocopiate e disegnate a mano sembravano una lettera a un amico che i fan bramavano di leggere.

Quasi contemporaneamente alla nascita dell’hardcore, e precisamente nel 1982, Tim Yohannan fonda una propria etichetta discografica dandole per nome quello del programma radiofonico che conduceva dal 1977: Maximum Rocknroll. L’occasione è un LP compilation con ben 47 gruppi dell’area nord californiana intitolato Nothing quiet in the eastern front. Allegato all’LP, Tim Yohannan decide di aggiungere una fanzine: esce il numero zero di Maximum Rocknroll (spesso abbreviata come MRR). È una data storica: nasce quella che negli anni verrà comunemente denominata come "la bibbia del punk". Stampata in tipografia (cosa piuttosto rara nell’universo di fanzines a tiratura locale e fotocopiate che tutto il mondo aveva e conosceva), si autofinanzia con le inserzioni pubblicitarie. Queste ultime sono accettate solo dalle etichette indipendenti e d.i.y. escludendo sin dagli inizi le major. MRR diverrà presto di notevoli dimensioni (sulle 120 pagine a numero) ed avrà una cadenza mensile. Tra le sue pagine si possono trovare numerose inserzioni di etichette DIY, interviste a gruppi, scene reports da tutto il mondo (articoli scritti dai diretti interessati sulle etichette, fanzines, gruppi, collettivi e via dicendo presenti nel proprio paese), oltre ad un gran numero di recensioni di dischi DIY.


Ma soprattutto trovano posto le columns: articoli curati dai vari collaboratori di MRR riportanti le loro opinioni su vari argomenti. Assieme alle lettere dei lettori, le columns saranno un importante forum per lo scambio di idee e il dibattito all’interno della scena. Sin dagli inizi MRR diventa "una specie di collante, un primo fondamentale passo per scoprire quante realtà vi sono in giro nel mondo. Appena ci si avvicina a questo immenso mondo sotterraneo e super underground basta comprare una copia di MRR per trovare centinaia di indirizzi utili, irreperibili altrove". Già in queste parole si travisa però quello che MRR diverrà negli anni, provocando anche delle importanti defezioni come quella di Kent Mc Lard di cui si parlerà più avanti. "Nella sua ambizione di essere una fanzine per tutti, è diventata una fanzine per nessuno" infatti "sulle pagine di MRR ampio spazio è dedicato a qualsiasi stupida piss punk band e tutto ciò mi fa sempre sentire perso in una palude con soli pochi validi spunti". L’autore di questa critica, che arriva a paragonarlo alla famosa rivista "Rolling Stone" riassumendo l’opinione generale che ha oggi la scena DIY di MRR, col termine piss punk si riferisce a tutti quei gruppi che attitudinalmente si rifanno al primopunk 77. Tale sottocultura punk è la più distante e la meno interessata alla politicizzazione del movimento ed è proprio per questo (per i suoi atteggiamenti troppo spesso maschilisti, provocatori ed arroganti) ne è stata esclusa. Identificati anche come drunk punk o più spesso col termine punk 77 ricalcano, essendone spesso il prodotto, l’immaginario comune e modaiolo dei punx (creste, borchie eccetera) rendendo esplicita la loro non appartenenza al movimento. Per gli stessi motivi si è deliberatamente deciso di non rivolgere la propria attenzione verso altri movimenti sviluppatisi

all’interno del punk (gli skinheads e la Oi! Music, i punk rockers interessati ad un genere melodico commerciale e dai testi superficiali e via dicendo) in quanto nulla hanno in comune col DiY. Lo stesso termine punk verrà sempre meno utilizzato, sostituito prima da hardcore e crust e, più recentemente, da DiY. Le ragioni del "successo" di quest’ultimo termine vanno ricercate nel fatto che esso non connota un genere musicale, ma un’attitudine.


Non è da dimenticare, infatti, che la pratica dell’autoproduzione (in alcuni ambienti sfruttata come primo passo verso un contratto con una grossa indipendente o major) si può travisare in svariati generi e movimenti generati dal punk, ma non solo. Oggetto di questa tesi è in ogni modo la cultura del DiY e non la semplice pratica dell’autoproduzione, elemento certo distintivo ma che appunto viene vissuto come unica pratica accettabile e possibile per sottrarsi ai vincoli che il mercato discografico impone. Tutto ciò è indissolubilmente legato ad un’attitudine di stampo anarco pacifista che comporta scelte radicali e che non può essere dissociata dall’autoproduzione in quanto costituiscono un corpo unico.

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3. Dei predecessori di suddetta pratica *

Le zines non iniziarono con internet, nè con le riot grrrl che aspiravano a una rivoluzione femminista nei ‘90, nè con le punk zines dei ‘70, nè con i chapbooks degli anni ’50, ma con le fanzines di fantascienza prodotte negli anni ‘30. Le moderne zines coprono ogni argomento immaginabile dalla muscia, alla politica, alla letteratura, allo sport e ai viaggi - ma all’inizio esisteva solo un genere: la fantascienza. Fu durante gli anni ‘20 che i magazines di fantascienza cominciarono a comparire nelle edicole americane. Per la prima volta, i fan del genere potevano leggere storie inedite in pubblicazioni stampate professionalmente (a cui ci si riferisce con il termine “prozines”) come il celebre Amazing Stories dell’inventore e uomo d’affari lussemburghese Hugo Gernsback. Pubblicato inizialmente nel 1926, fu uno dei primi veri magazines di fantascienza, il cui scopo era quello di far trasmettere ai

lettori una conoscienza di base della scienza reale attraverso le storie raccontate. Venne chiamata “fizionscienza”, una combinazione di scienza e fizione, che più tardi diventò “sciece fiction”, o sci-fi, o fantascienza. Nonostante le informazioni scientifiche fossero spesso rudimentali, il amgazine venne reso popolare dall’inclusione di scrittori come Jules Verne, HG Wells e Edgar Rice Burroughs.


Gli editori di Amazing Stories presero una decisione importante e radicale per i tempi, che divenne il punto di partenza per le zine: decisero infatti di ospitare pagine di corrispondenza all’interno della pubblicazione, invitando i lettori a contribuire e offrire feedback, stampando non solo i nomi ma anche gli indirizzi di chi spediva queste lettere. Ciò fece in modo che i fans cominciassero a comunicare gli uni con gli altri, all’inizio scrvendo lettere su queste pagine e facendo partire dei dibattiti, poi scrivendosi reciprocamente uno con l’altro e condividendo le idee indipendentemente dal magazine. Era la nascita dei club di corrispondenza, con il preciso intento di presentare i fans l’uno con l’altro e dando agli entusiasti la possibilità di scambiare i propri punti di vista e le proprie storie via posta. Quello che era l’hobby isolato di un amante della fantascienza cominciò a diventare una community di fans. Seguendo lo stesso corso delle community musicali indipendenti sorte tra gli anni 70 e 80 attraverso le pagine di riviste rock come Maximumrockandroll, gli appassionati di fantascienza degli anni ‘20 in breve tempo cominciarono ad organizzarsi in gruppi in tutta America. A quel punto, quando club come The Science Correspondance Club, fondato da Walter L Dennis a Chicago e sponsorizzato da Amazing Stories cominciarono ad avere un certo seguito, l’ovvio passo successivo per i sci-fi fans fu quello di scrivere la propria versione dei magazines che stavano leggendo. Queste riviste amatoriali non solo tentarono di replicare lo stile di quelle a cui si ispiravano, ma crearono un nuovo modo di raccontare le stesse storie: prodotte in piccole tirature - stampate con un mimeografo (o ciclostampa, una rudimentale macchina per la duplicazione basata sul principio degli stencils), erano poco


costose sia per la produzione che per la distribuzione. Queste riviste vennero chiamate “fanmagazines” o “fan-mags”, che attorno agli anni ‘40 venne declinato in “fanzines” da uno degli scrittori più popolari - Louis Russel Chauvenet. La prima di queste fanze fu The Comet, prodotta da Roy Palmer per il Science Correspondance Club nel Maggio del 1930. È considerata da molti la prima fanzine di tutti i tempi e tutto sommato uscì con costanza per svariati anni (più tardi venne rinominata Cosmology). Ispirati dalla fitta rete che si stava formando, nel frattempo molti altri seguirono l’esempio di Palmer. Ancora una volta attraverso le pagine di riviste tradizionali un altro gruppo, The Scienceers, venne fondato nel Bronx NY da Mort Weisinger. Usando ancora una mimeografo come tecnica di produzione, gli Scienceers fondarono una nuova fanzine, che riscosse un enorme successo diventando presto conosciuta nell‘ambiente e non: The Time Traveller. Tra i primi abbonati figura un giovane ragazzo dell’Ohio, Jerome Siegel, che si ispirò a quest’ultima per fondare la propria fanzine, Science Fiction, nel 1932. Siegel più tardi unì le proprie forze con quelle dell’illustratore Joe Shuster per creare uno dei supereroi della DC Comics più famosi di sempre: Superman. In breve tempo gli autori di Science Fiction ottennero un grande successo, che li obbligò a passare ad una stampa professionale a causa dell’aumento di tiratura, e portò i suoi editori Mort Weisinger e Julius Schwartz alla ribalta nel mondo professionistico della fantascienza, aprendogli le porte delle notizie sulla scena fornite direttamente dagli uffici delle grandi riviste. Erano diventati professionisti a loro volta. Più tardi Julius Schwartz lavorò all’aggiornamento dell’immagine di Superman e Batman quando divennero protagonisti di pellicole cinematografiche.

Questo trend di sci-fi zines pubblicate indipendentemente crebbe per parecchi decenni, continuando per tutti gli anni ‘40 e ’50 con un aumento impressionante delle testate e del pubblico, nonostante il dispendio considerevole di tempo e denaro necessari per produrre ogni numero e distribuirlo, e rimanere comunque attaccati ad un target alternativo e ristretto. Le motivazioni in fondo sono le stesse che spingono ancora oggi a pubblicare una fanzine: la maggior parte degli autori aspira, un giorno o l’altro, a diventare uno scrittore professionista - e tutti sono convinti che la produzione di una fanzine rispettata serva da trampolino per arrivare a coronare questo sogno, cosa che tra l’altro spesso succede. Per esempio, Ray Bradbury (Farenheit 451) e Arthur C Clarke (2001 Odissea nello Spazio) emersero dal gruppo newyorkese The Futurians, attivo dal 1938 al 1945. Altri semplicemente si godevano l’esperienza di scrivere di ciò cui erano appassionati su una piattaforma dalla quale condividere le proprie storie. Per altri invece il fattore più importante era era il senso di comunità che quest’esperienza regalava, spesso generato da un interesse accademico piuttosto che da un’esigenza di appartenenza a un gruppo: queste persone erano intrigate dalla natura stessa del loro essere un fan e dalla loro relazione col genere di cui scrivevano. Andy Sawyer, curatore della Science Fiction Librarian all’Università di Liverpool, fa notare questo aspetto: “La peculiarità del fanatismo fantascientifico, che per quanto ne sappia non si presenta nelle altre forme di fanatismo, è che gli appassionati di fantascienza iniziano presto a scrivere non tanto della fantascienza in sè, ma dell’esperienza di esserne un fan. La fantascienza era come l’acqua nella quale i fan nuotavano, ma la cosa interessante era il fanatismo in sè, le sue idiosincrasie


individuali e collettive”. Definisce questi fan “comunicatori ossessivi” che sentono un bisogno irrefrenabile di scrivere le proprie impressioni su carta, di scriversi l’uno con l’altro, di unirsi a gruppi (cfr situazione contemporanea di Internet), qualsiasi scusa era buona per parlare della propria passione. La pubblicazione di fanzine divenne un hobby. Si sviluppò dall’iniziale documentazione di genere, dettagliandone ogni interesse e stranezza, al più amplio significato di comunicazione. Gli appassionati di fantascienza avevano realizzato che la scrittura di una fanzine era il modo perfetto di parlarsi l’uno con l’altro. E seppure dal punto di vista degli argomenti non sembra abbiano niente in comune con quelle che seguiranno, le fanzine di fantascienza furono il primo passo importante nella storia delle zine. Fu qui che cominciò il giornalismo amatoriale, nel senso che i fans cominciarono a realizzare di poter scrivere dei propri interessi e partecipare nei media. Sotto molti aspetti, le fanzine di sci-fi sono simili a quelle di oggi: sono prodotte con tecnologie economiche e accessbili e cercano di riunire un largo gruppo di persone con un interesse specifico. Ilona Jasiewicz, della storica fanzine londinese Radium Dial è d’accordo con questi paragoni: “Le moderne zines probabilmente derivano dalle zines di fantascienza, è vero, come è vero che la cultura zine attrae outsiders e fanatici, nonostante negli anni ‘30 e ’40 probabilmente era un fenomeno addirittura più marginale e underground, ignorato dalla cultura tradizionale. Si possono stilare paragoni di questa atmosfera di sviluppo delle proprie passioni anche con la scena musicale underground: il mainstream ha ignorato entrambe, quindi le persone coinvolte hanno creato la propria rete di newsletters, riviste, club, convenzioni etc..”.

Il concetto di fanzine più tardi si espanse ad altri gruppi di persone e ad altri fan di altri media, come musica, fumetti, film, con gli stessi meccanismi. Nel tempo, la fanzine si affrancò dall’essere una pubblicazione scritta da fan per altri fan e si sviluppò nel concetto di oggi di zine, un’importante fenomeno di pubblicazione indipendente che ha provveduto ai bisogni ideali delle comunità di scambio di idee.

• Degli artisti e della zine Gran parte degli artisti visuali del ventesimo secolo hanno riconosciuto le zines come un mezzo di resistenza culturale, in quanto incarna il significato politico di creare da te il tuo lavoro e di distribuirlo personalmente. Questo fu ciò che venne realizzato dagli scrittori di zines sci-fi - il potenziale dello sviluppare la tua alternativa culturale in maniera sostenibile, usando le zine come strumento primario di comunicazione. Molti artisti credevano, e credono, che l’individualità sta nel processo creativo piuttosto che nel consumo passivo, e la maggior parte dei movimenti artistici del ventesimo secolo, in opposizione al mondo delle pratiche artistiche tradizionali come la pittura, cominciarono a seguire la strada che presero precedentemente gli scrittori indipendenti. I dadaisti, i gutaisti, i Fluxus e i movimenti situazionisti, per esempio, presero molte idee dal mondo della stampa indipendente. I membri di ogni gruppo realizzarono che se potevano riprodurre le proprie opere facilmente e senza costi eccessivi, sareb-


bero stati in grado di raggiungere un’audience molto più ampia che avrebbe dato loro la possibilità di una collaborazione di massa al movimento. Durante la prima metà del XX secolo, i progressi tecnologici nell’industria della stampa diedero agli artisti nuove opportunità di distribuire il proprio lavoro da sè, giocando con le immagini di massa e facendolo in modo da reinventare costantemente il medium nel quale stavano lavorando. Molti si fecero portatori di un ideale utopico nel quale l’interazione tra l’artista e il pubblico diventasse vitale e lo spettatore fosse messo al centro del processo artistico. Sperimentando quest’idea tramite l’uso della distribuzione di massa delle immagini, tramite il concetto di fly posting - l’affissione illegale di manifesti negli spazi urbani (che sarebbe poi diventato la base della a venire street art) - e la produzione di matrici di stampa di gomma (rubber stamp) che potessero essere usate per produrre immagini multiple. Questo genere di tecniche erano concepite per far cambiare completamente la percezione dell’arte come elitaria, sostituendola con una nuova immagine universale ed accessibile. Gli artisti cominciarono a realizzare che non avevano bisogno di operare all’interno del mondo tradizionale dell’arte, ma potevano invece coesisterne all’esterno, svuluppando una rete globale all’interno della quale distribuire la propria opera.

Durante il primo decennio del ventesimo secolo, i dadaisti cominciarono a creare quello che può essere considerato il layout di base delle moderne zine. Il Dadaismo (il cui nome deriva dalle sillabe pronunciate dai bambini quando ancora non sanno parlare) fu un movimento internazionale radicale sia in letteratura che in arte, che mirava a distruggere completamente i legami con la tradizione e a devastare sistematicamente la cultura e la civiltà. Le sue origini possono essere trovate nel Cabaret Voltaire, un piccolo bar/ club aperto da Hugo Ball ed Emmy Hennings nel 1916 a Zurigo, in Svizzera, in cui gli artisti erano liberi di uscire dagli schemi precostituiti e di creare opere che contestavano la guerra in atto in quegli anni. Pur non avendo grandi disponibilità economiche, utilizzarono la stampa alternativa per diffondere ideali controversi, per far sentire la propria voce e per scuotere le sensibilità borghesi del mondo dell’arte. Attivi dal 1915 al 1922, i dadaisti sperimentarono follemente tecniche come il collage, il detournement (la pratica del sovvertire l’immaginario collettivo) e l’appropriazione (rubando pezzi di design dalla cultura tradizionale e adattandoli secondo i loro bisogni). Il movimento spaziò dalla Svizzera a Parigi, berlino, L’Europa dell’Est e New York, dove gli artisti più giovani come Marcel Duchamp, Tristan Tzara e Francis Picabia vennero incantati da questi nuovi ideali. Sperimentando con diverse immagini e materiali i dadaisti cominciarono a produrre piccoli libri: zine artistiche contenenti colages e stampe gommate che potessero essre riprodotte e distribuite.


Il Self Publishing era molto popolare e riviste come Cabaret Voltaire, Dada, 291, 391 e New York Dada erano distribuite, disegnate e stampate dagli artisti stessi. Molte di queste tecniche sarebbero state in seguito adottate dal movimento surrealista per le proprie pubblicazioni, e più tardi i situazionisti le utilizzarono per le loro. Le tecniche visuali che questi artisti hanno usato nei loro libri d’arte e nelle riviste a venire, più di sessant’anni dopo ricompariranno nello stile “cut&paste” delle punk zine degli anni ‘70. Lo stile editoriale adottato dai dadaisti influenzerà poi anche tutte le generazioni future degli scrittori di zines, come nelle tipiche lunghe, farneticanti colonne degli editoriali, insieme a tecniche come il detournement e l’appropriazione (indebita) continueranno ad essere capisaldi dello stile. Negli anni ‘60, la rivista Oz suscitò scalpore alterando le strisce a fumetti di Rupert l’orsetto, e le riot grrrl degli anni ‘90 utilizzeranno spesso elementi della cultura mainstream riadattando pubblicità dalle riviste femminilo o capovolgendo gli stereotipi delle immagini di Barbie; questo genere di sovversione della cultura prestabilita è uno dei modi che le sottoculture hanno per ritagliarsi uno spazio proprio all’interno del mainstream. I dadaisti svilupparono un design e uno stile di scrittura molto accessibile, in linea con il loro programma e che più tardi si adattera anche a tutto quello che verrà dal punk in poi: il testo segue direzioni non convenzionali, sopra a collages e attorno alle immagini, l’umorismo è abusato ovunque sia in forma di satira tagliente o di scherzi stupidi, l’autoreferenzialismo è molto comune, le stesse tecniche e forme verbali e visuali che andranno a riempire le pagine di Sniffin’ Glue in Inghilerra nel ‘77 e Maximumrocknroll dall’inizio degli anni ‘80 fino ad oggi.

Allo stesso modo dei dadatisti, il gruppo conosciuto come “ I n te r n a z i o n a l e Situazionista” fu anch’esso un pioniere di molte delle caratteristiche e degli stili che verranno nelle future zines. Movimento artistico e politico parigino, fu concepito per ridefinire completamente i confini dell’arte del ventesimo secolo: volevano che le persone vedessero l’arte non più come un attività specializzata ma piuttosto come parte della vita di ogni giorno. vIl primo gruppo di situazionisti venne creato in Italia, a Cosio d’Arroscia il 28 luglio del 1957, tramite la fusione di due gruppi minori, il Movimento Internazionale Lettrista (a sua volta branca dei Radicali Lettristi) e il Movimento Internazionale per un Bauhaus Immaginista. Più tardi, si unì a loro anche la Società Psicogeografica Londinese. I precedenti movimenti anti-arte come i dada, i surrealisti e fluxus possono esserne considerati i “genitori” putativi dei situazionisti. L’opera situazionista è caratteristicamente astratta e di difficile comprensione, ma comunque supportata da un principio di diffusione delle idee attraverso l’auto-pubblicazione: pubblicare i propri principi su supporti cartacei era infatti l’unico modo per fare in modo che le loro parole non venissero male interpreate. Guy Debord, figura centrale del movimento, venne influenzato nell’adottare la tecnica dell’autopromozione dai


lettristi, che capirono subito la necessità - per un gruppo o per un singolo - di distribuire il proprio lavoro in maniera indipendente. Nel 1948, i lettristi distribuirono posters nel quartiere latino di Parigi recanti la scritta “12,000 Ragazzi Si Riprenderanno le Strade per Fare la Rivoluzione Lettrista”. Volevano diffondere una ribellione giovanile, ma la cultura alternativa dei decenni successivi ancora non era nata. Oltre a pubblicare dodici numeri della rivista Internationale Situationiste, stamparono e distribuirono parecchie altre pubblicazioni, passandole di mano in mano e spedendole a persone scelte a caso dall’elenco telefonico. Ogni numero era accompagnato da una nota anti-copyright che riportava “Tutti i testi pubblicati in Potlach possono essere riprodotti, adattati o citati senza nessuna menzione della fonte”. Volevano che i lettori sentissero la loro opera più propria, e non appartenente ad uno scrittore lontano. Ciò diventerà un’ideale chiave a cui, anni dopo, molti scrittori aderirono, dai quotidiani radicali degli anni ‘60 alle punk zines. Nelle culture underground, gli scrittori hanno da sempre cercato di creare un contatto più stretto con i propri lettori. Nonostante il movimento non abbia mai avuto più di 25 o 40 membri allo stesso tempo e venne dichiarato finito nel 1972, l’impatto dell’Internazionale Situazionista sull’arte indipendente venne largamente riconosciuto e la sua influenza si può sentire ancora oggi, sia in termini di stile visivo, di attitudine ribelle e nei modi di distribuzione.


Alla fine degli anni ‘40, un gruppo di giovani scrittori cominciò a considerare l’autopubblicazione come un modo per distribuire il proprio lavoro al pubblico. Questo gruppo di scrittori divennero i “Beats” - donne e uomini che, in una america post-bellica sempre più conservativa, descisero che l’unica alternativa di vita era rifiutare la società e scrivere. Il loro successo d i v e n n e enorme, Sulla Strada di Jack Kerouac e L’Urlo di Allen Ginsberg sono diventati presto dei cult, sebbene sia meno risaputo che questi autori oltre a scrivere pubblicavano e promuovevano da sè la propria opera. Gli autori Beat sono spesso romanticizzati e considerati icone culturali per la loro indole ribelle, ma quello che li rendeva veramente diversi da chi li aveva preceduti non era solo il talento o l’atteggiamento, ma la totale adozione di un’idea di auto promozione attraverso metodi indipendenti di pubblicazione. Questo interesse nel selfpublishing in realtà si sviluppo più per necessità che per scelta: il loro stile infatti non trovava riscontri nella comunità letteraria, nè dagli editori nè dalle riviste: ottenere una stampa era un problema più che serio. Il poeta Gary Snyder, ad esempio, vide le sue poesie costantemente rifiutate dal Poetry Magazine. Interessato alla cultura e nella poesia Giapponese e Cinese ed in uno stile personale votato al misticismo, divenne una figura di

ispirazione per tutti gli scrittori beat. Li introdusse agli insegnamenti dello Zen Buddhista, alle bellezze dei territori americani e presto la sua figura venne catturata da Jack Kerouac. Numerosi campeggi e passeggiate in sua compagnia - o in compagnia di personaggi a lui ispirati sono state documentate nelle memorie e nei racconti beat. Robert Duncan fu un altro scrittore che ebbe difficoltà nel riuscire ad avere il proprio lavoro pubblicato. Il suo saggio “LOmosessuale nella Società” suscitò svariate controversie. Pubblicato nell’agosto del ‘44 sulla rivista di sinistra Politics di Dwight Macdonald’s, descriveva le difficoltà incontrate da un gay nelle comunità ebraiche e afroamericane nella società contemporanea. L’argomento fu dichiarato troppo borderline per essere pubblicato. Collezionando rifiuti su rifiuti, molti scrittori decisero di creare da sè i propri supporti editoriali e i propri canali, nel tentativo di raggiungere senza intermezzi il pubblico che speravano di toccare. Steve Clay, che scrisse esaustivamente delle pratiche di auto pubblicazione del periodo nel suo libro “A Secret Location on the Lower East Side”, realizzò l’importanza di azioni del genere: “Si può sicuramente affermare che senza lle riviste auto pubblicate la maggior parte degli scritti di questi autori non avrebbe mai visto la luce, nè avrebbero visto la luce tutti quei racconti che proprio da qui hanno iniziato a svilupparsi nella loro forma finale”. La strada della pubblicazione indipendente più tardi si rivelò essere quella giusta sia per Snyder che per Duncan. Il loro lavoro apparve su numerose pubblicazioni indipendenti e Snyder ottenne a breve successo per il suo primo libro Riprap, pubblicato nel 1959, e vinse nel 1975 un premio Pulitzer. Per Duncan, la reputazione di poeta affermato arrivò durante gli anni 60 grazie a 3 collezioni,


The Opening of the Field (1960), Roots and Branches (1964) e Bending the Bow (1968). Senza le operazioni di stampa alternativa, questi autori non sarebbero mai riusciti ad arrivare al successo. Un’altra opzione per vedere i propri lavori stampati era quella di produrre i propri chapbooks (pubblicazioni molto economiche prodotte in piccole quantità), orientati verso un pubblico ristretto e mimeografati. Rilegati approsimativamente, questi tascabili a metà tra un libro e una rivista venivano generalmente finanziati e pubblicati dagli scrittori, con il semplice scopo di rendere il proprio materiale pubblico. Questo genere di pubblicazioni è spesso considerato l’antenato delle zine letterarie pubblicate oggi dagli scrittori. Nonostante i diversi stili da cui provenivano, dalla critica sociopolitica alla poesia sperimentale, questi scrittori generalmente si supportavano a vicenda e cominciarono a pubblicare i racconti l’uno all’altro. Era importante vedere il proprio lavoro e quello dei propri contemporanei pubblicato, far sentire la propria voce tra di loro e tra tutti gli Americani che sentivano lo stesso scontento verso l’esperienza culturale offerta dai media tradizionali. Verso la metà degli anni ‘40 cominciarono ad apparire le riviste ideate dai beats. Nonostante sembrassero molto radicali per l’epoca, l’idea di queste riviste non era completamente originale. Seguivano da vicino il modello delle “piccole riviste” come Little Review and Poetry, pubblicata in America ed Inghilterra nei primi anni del ‘900. Questo genere di promozione collettiva che si può trovare sia nei primi modernisti del XX secolo che nei beatniks, può essere ulteriormente ricondotto nella letteratura americana al lavoro di scrittori

del XIX secolo come Ralph Waldo Emerson, Walt Whitman (che auto pubblicò la prima edizione della sua collezione di pesie Leaves of Grass nel 1885) e Emily Dickinson che collezionò i suoi poemi in singoli libretti ancora una volta auto pubblicati. Questi scrittori sono riconosciuti dai beat stessi per aver avuto una diretta influenza sia sullo stile ed i temi trattati che sul trend del self publishing. Yugen, The Floating Bear Newsletter, Measure e The Black Mountain Review furono, tra le altre, le riviste più famose dell’epoca beat. Per la prima volta, erano gli scrittori ad avere il controllo: Jack Kerouac, Diane di Prima, Philip Whalen, John Weiners, Gregory Corso e LeRoi Jons non solo contribuirono ma impaginarono queste nuove riviste. Steve Clay disse: “Per una volta, grazie all’auto pubblicazione del loro materiale, i giovani scrittori erano consciamente celebrati come nuovi talenti letterari piuttosto che rifiutati all’istante ed etichettati come troppo ribelli e contestatori”.


4. Delle recenti evoluzioni digitali

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Il Web Journal Un recente sviluppo nella storia del self-publishing è stato l’uso di internete da parte delle persone a scopo di produrre siti che, alla stessa maniera delle personal zines, esaminano e descrivono la vita dell’autore. Questo tipo di pubblicazioni nacque più o meno in concomitanza con l’evoluzione di Internet da medium di nicchia a medium di massa. Le pagine personali venivano create da chi voleva parlare di sè, della propria famiglia, dei propri interessi. Questo trend mano a mano si sviluppò, e parecchi siti cominciarono a prendere il formato dei cosiddetti “diari online”. È presente in genere uno sguardo intimo sulla vita di chi scrive, che se all’inizio può spaventare, in quanto condividere pensieri personali e dettagli della tua vita in un forum pubblico del


genere può sembrare azzardato, è diventato in pochi anni uno degli usi più popolari di internet. La chiave del successo di questi diari è sostanzialmente la semplicità con cui vengono prodotti. Persone che non avrebbero mai osato scrivere una zine cartacea, possono avere ora un proprio sito con un’audience invisibile potenzialmente enorme. Non molti anni fa, per ottenere qualcosa del genere sarebbe stato necessario un programmatore specializzato, mentre oggi esistono aziende specializzate nel fornire interfacce utente ridotte all’osso per fare in modo che ognuno possa produrre da sè tutto ciò di cui ha bisogno con una conoscenza minima dei pc. E mentre sempre più persone vivono una vita piena di impegni, alcuni trovano utile aggiornare i propri amici su cosa stiano facendo.. Nonostante tutto diventi di pubblico dominio, questo genere di comunicazione è diventato una delle nuove forme del “privato”. Nonostante una grossa percentuale dei web journals sia occupata da descrizioni di vita mondana e vita comune, alcuni di questi sono meravigliosamente idiosincratici, praticamente come tutte le buone zine stampate. E sebbene un lettore debba sorbirsi una gran parte di siti inutili prima di arrivare alle gemme, uno dei beniefici di internet a discapito delle zine è la pubblicazione istantanea del contenuto e l’archiviazione di tutti quelli precedenti. E soprattutto, da una grande opportunità per creare relazioni tra scrittore/lettore grazie ai commenti e alle mail, sia che esse provengano da amici, nemici, o sconosciuti. E come per ogni forma precedente di self publishing, presto nascono comunità attorno a questo nuovo genere di scrittura confessionale. I journals sono collegati tra loro tramite gruppi di amici o interessi simili, creando così forti community, ansiose di leggere cosa stanno scrivendo gli altri: in questo

modo gli scrittori diventano automaticamente anche l’audience. Durante la fine degli anni ’90, la rapida diffusione in popolarità di questi diari online significò l’inizio di una serie di conferenze dedicate: la prima di queste fu il JournalCon a Pittsburgh, Pennsylvania, nell’ottobre del 2000, che mise assieme tutti i primi supporters di questo mezzo per alcuni giorni, per la prima volta insieme per discutere di questo nuovo trend nel self publishing. I journals online non sono interamente una nuova branca del self publishing. L’idea di pubblicare i propri pensieri, idee e dettagli sulla propria vita esisteva nel mondo delle zine da decenni, come ad esempio nel caso delle Personal Zine. Detto questo, internet regala un medium di gran lunga più accessibile e bisognoso di molti meno sforzi sia da parte dello scrittore che da quello del lettore. Laddove esistevano poche centinaia di personal zines, ora parliamo di centinaia di migliaia di diari online.


Il blog Il blog, o weblog, è un fenomeno relativamente recente cresciuto in maniera esponenziale (solo nel 1998 erano attivi solo poche decine). Il termine fu coniato nel 1997 da Jon Berger, che lo usò per decrivere quei pochi ma aggiornati siti prodotti per raccontarne la vita dei creatori. Spesso usati come fogli di brutta, questi siti contenevano post degli autori ordinati per ordine cronologico inverso (cioè il più recente per primo), e collegati ad altri siti che lo scrittore sentiva di raccomandare. Jesse James Garnett, curatore del blog Infosit, cominciò a creare una lista di siti simili al proprio. La crescita fulminea del fenomeno blog è illustrata proprio da questa lista, che all’inizio del 1999 contava solo ventitre siti. Cominciò ad inviare la sua lista all’amico Cameron Barnett, che cominciò a pubblicare la lista

su Camworld nel novembre del 1998. Altri bloggers iniziarono ad inviare sia a Infosit che a Camworld le proprie liste, rendendoli definitivamente un archivio comprensivo di tutta la comunità che ruotava attorno ai weblog. Peter Merholz annunciò, sempre nel 99, che aveva intenzione di pronunciare il tutto “web-blog”, che inevitabilmente venne contratto in “blog”, mentre lo scrittore divenne “blogger”. Il trend esplose a tal punto che divenne impossibile tenere traccia di tutti i nuovi siti che stavano nascendo. Sin dall’inizio la parola ‘blog’ è stata quasi sempre intercambiale con ‘web journal’. Infatti, chi scrive non include solo informazioni sulle proprie attività online ma anche sulla propria vita. Il formato blog può venire facimente usato come diario online o come outlet creativo. Ci sono blog praticamente su ogni argomento immaginabile, dal personale al politico. Uno dei primi e più famosi esempi di blog politico è www.andrewsullivan.com , che ospita il blog del giornalista e scrittore angloamericano Andrew Sullivan, ex dipendente del NY Daili News che realizzò il bisogno di riportare indipendentemente le notizie riguardanti il conflitto in Iraq in corso, e che per finanziare questa sua missione è riuscito a raccogliere fondi dai propri lettori per più di 15.000$. Per molti diventato un punto di riferimento sull’informazione riguardante il conflitto iracheno, la qualità del suo lavoro venne riconosciuta anche per merito di un Utne Independent Press Award. Blog del genere sono un chiaro esempio del giornalismo indipendente di qualità, ma il blog è davvero uno sviluppo del giornalismo alla maniera dei quotidiani radicali degli anni ’60? Primo, i blogs sono nati apparentemente per dare la possibilità a chiunque di pubblicare notizie riguardanti sè stessi. Ovviamente questa è una premessa idealistica, ma che ha il suo peso.


Il problema con molti blogs è che, nonostante si prefiggano di riportare le notizie in maniera imparziale, essendo stati creati per esprimere opinioni personali e diari di vita, spesso l’intento viene contaminato. Quindi, pur lavorando come una forma di media partecipativo, non possono essenzialmente essere definiti come una forma di giornalismo. Questo tipo di scrittura confessionale - tipico delle zine e dei blog - si è spostato dall’underground fino a diventare un’attività tradizionale. Amy Prior scrive: “Era qualcosa di underground che è diventato mainstream. Proabilmente ogni teenager oggi ha una web zine. Ed è merito della cultura zine. Voglio dire, è esattamente lo stesso stile di scrittura.” La Prior è convinta che questo trend dei blog faccia parte della nuova ‘cultura della confessione’. In un periodo in cui le persone stanno facendo esperienza di un senso di alienazione sociale, ed in cui sempre più puntano a diventare celebrità, il web journal e il blog colmano entrambe le necessità.



È

Fai-da-te: l’arte dell’arrangiarsi conquista la fascia medio alta della società Usa

finito sul Financial Times, edizione Usa, il caso di una signora dell’Upper East Side di Manhattan che al suo compleanno ha chiesto come regalo al marito - invece del solito “banale” gioielli di Tiffany - un kit completo da muratore-idraulicoelettricista. Perforatrice Black&Decker, astuccio con cacciaviti di ogni misura, martello, chiave inglese, pinze. sarà un effetto dell’ultima crisi economica, che ci ha resi tutti più attenti alle spese. Sarà il fatto che gli artigiani a domicilio sono sempre più rari, esosi, spesso incompetenti. Ma c’è qualcosa di più importante. In America ti accorgi che una tendenza sta diventando “cultura dominante” quando conquista la dignità dell’acronimo. Ed ecco che il vecchio “do it yourself” (fai-da-te) improvvisamente si dice DIY. Ti accorgi che una nuova generazione se n’è impadronita quando a questa attività sociale viene consacrato un sito internet che comincia con “wiki”. Ed ecco Wikihow, il manuale universale di consigli online su come costruire, modificare, aggiustare. Sul modello di Wikipedia, è fatto dal basso, corretto, aggiornato costantemente da una miriade di collaboratori entusiasti, volontari e gratuiti. L’anno scorso Wikihow ha avuto 171 milioni di visitatori da 241 paesi. In America non poteva mancarci la dimensione religiosa: è nata la chiesa apposita, con sito churchofcraft.org, perchè il recupero della manualità ha anche una dimensione spirituale, diventa un modello etico. Il fai-da-te è sempre esistito. All’origine era l’unica dimensione dell’attività umana. Tutti facevano un po’ tutto per millenni, prima che le civiltà si diversificassero fino a raggiungere quella struttura complessa per mestieri e quella stratificazione di specialismi che Adam Smith nel Settecento battezzò “la divisione industriale del lavoro”. Anche dopo, il fai da te è rimasto nelle consuetudini, per necessità: nelle società contadine, fino all’Italia degli anni 50, la scarsità di risorse e la parsimonia obbligata dei nostri progenitori contribuivano

a mantenere in vita un know how artigianale in ogni nucleo domestico. Poi è arrivato il benessere diffuso, la società dei consumi. Il fai da te è stato consercato in una nicchia: un hobby fra tanti, come i collezionismi o la caccia, con i suoi appassionati, i suoi negozi, le sue riviste. A rilanciarlo culturalmente ci provarono gli hippy negli anni 70, in segno di rivolta contro il capitalismo, e per una voglia di ritorno alla natura. Oggi però il DIY diventa “mainstream”, come si dice qui in America: cioè tendenza di massa, dominante. Le tre massime fondamentali sono: “Grow your own, make your own, make do and mend”. Cioè: coltiva da te (nell’orto domestico), fabbrica da te, arrangiati e aggiusta. La novità è nelle fasce sociali e generazionali che si avvicinano al fai-da-te: da una parte i ceti medio-alti. inclusi manager e liberi professionisti in cerca di una valvola di sfogo antistress; dall’altra parte i ventenni e i trentenni che abbracciano questo stile di vita per motivi ideologici (l’ambientalismo) e per necessità, perchè le loro aspettative di reddito non sono opulente. Il boom del DIY suscita controversie accese. Tra i critici più aspri c’è Andrew Keen, che nel saggio The Cult of Amateur denuncia il trionfo del dilettantismo come una forma regressiva, di imbarbarimento culturale. Per lui il fai da te è parte di un trend generale: una pseudo democratizzazione dilaga attraverso Internet, YouTube, Wikipedia, tutti si credono di saper fare tutto, e così il vero saper fare si svaluta, si banalizza. All’estremo opposto Charlie Leadbeater, l’autore di The Pro-Am Revolution con un sottotitolo eloquente: “Come gli entusiasti stanno cambiando la nostra società e la nostra economia”. La sua tesi è la seguente: il XX secolo fu plasmato dagli specialismi, dalle professionalità. Il XXI secolo appartiene a un nuovo mondo di “dilettanti istruiti”, che uniscono le loro energie, le loro idee e le loro passioni attraverso dei network nati dal basso, e rivoluzionano ogni attività umana, compresa la politica. Intanto non trascurano di darsi consigli su come ristrutturare l’appartamento, aggiustare il computer, fare uncinetto o coltivare zucchine.


DIY dal Punk al Web 3.0

DO IT YOURSELF DAL PUNK AL WEB 3.0 di Giulia Simi Che la società dei consumi, con i suoi lunghi tentacoli fatti di marketing, comunicazione e advertising, abbia spesso inghiottito pratiche controverse e rivoluzionarie, nate ai propri margini e risputandole fuori anni dopo come very cool attitudes, non è una novità. Basti pensare alle numerose pubblicità che in questi anni presentano uomini e donne dalla dubbia e sfuggente sessualità, coprendoli di un alone di fascino, mistero, attrazione, erotismo. Chissà cosa penserebbe Urs Lüthi , controverso protagonista del travestitismo nell'arte performativa degli anni Settanta, sapendo che trent'anni dopo avrebbe potuto passare decine di volte al giorno in televisione con uno sguardo languido e un bel cocktail in mano. Si sa, la società cambia, i costumi evolvono e il marketing attende solo il momento giusto per sfoderare le sue armi migliori: avanzi di rivoluzioni artistiche e sociali ricondizionate, ovvero svuotate della loro carica sovversiva e rese semplicemente, innocuamente, “trendy mood”. E' successo così che il web 2.0 ha riscoperto e portato alla ribalta il "Do it yourself" dalle origini punk. Hey user, why don't you do it yourself your web pages, your blog, your community, your web life? Non male come idea. La voglia di creatività, di personalizzazione e di individualismo è ormai lo psicomotore dei nostri tempi. Desiderio di emergere, paura di sparire nella massa. E' così nella vita (cosiddetta) reale, rimane così anche in quella virtuale. E allora perché avere una pagina web come tutti gli altri se posso permettermi, senza sforzo aggiuntivo, di averne una creata e inventata da me, aggiungendo al risultato il divertimento della costruzione, e rinnovando quindi la mai sopita sindrome da mattoncini Lego? Lo hanno capito bene le aziende web 2.0 , che sulla personalizzazione degli spazi virtuali e la (presunta) libertà degli utenti-autori stanno puntando molto, anzi moltissimo.


DIY dal Punk al Web 3.0

Inutile elencare numerosi ed evidenti esempi che sono sotto gli occhi di tutti: da Flickr a Myspace , da Youtube a Facebook , fino ad arrivare alle ultime invenzioni come Ning , sorta di meta social network che offre agli utenti la possibilità di inventare, creare e gestire community ad hoc. Una corsa sfrenata alla conquista dell'utente che si gioca tutta sul richiamo alla libertà e all'autonomia. Ecco che Netvibes , aggregatore da oltre 10 milioni di utenti unici mensili, lancia il suo DIY universe , progetto ad alto tasso di personalizzazione. L'utente crea, gestisce, controlla. Si potrebbe dire: è libero. Ma fermandosi un attimo e cercando di andare al fondo di queste pubblicizzatissime pratiche di presunta autonomia, scopriamo il grande inghippo:: la mancanza di controllo e potere sugli strumenti di creazione, in questo caso il codice di architettura e di sviluppo. Ovvero, prendo il do it yourself e ne aspiro via la vera carica sovversiva: la realizzazione e il controllo degli strumenti. Nel punk significava liberarsi dalle major ( DIY not EMI ), in questo caso potrebbe significare uscire dalla scia dei grandi monopoli come il classico Google-Yahoo. Ma il Do it yourself della Google generation è un burattino senza fili. E allora ben venga il web 2.0 , con i suoi strumenti di fascino e seduzione, la sua capacità di farci sentire tutti web designer e artisti della rete (un po' di autostima, seppur falsa, non guasta mai di questi tempi), ma anche scrittori, filmaker, fotografi e quant'altro. Basta ricordare, tra un blog e una tag cloud, che la libertà non la regala nessuno e che il DIY è molto più che un widget o una pagina web da personalizzare. Scoprire nuovi linguaggi e nuove forme e spazi di espressione, questo è il faticoso, difficile ma autentico DIY. Non scorre tra le morbide, patinate, luminose pagine web 2.0 da 100 milioni di utenti mensili, ma tra i network meno popolati e meno accattivanti di artisti , attivisti , hacktivisti. Tra un invito su Facebook e un commento su MySpacericordiamoci di buttarci un occhio. Il web 3.0 potrebbe partire da lì.


What is Web 2.0

DIY dal Punk al Web 3.0

What is Web 2.0 By Tim O’Reilly

Lo scoppio della bolla dot-com nell’autunno del 2001 ha segnato un punto di svolta per il web. Molte persone sono giunte alla conclusione che il web sia stato assolutamente sopravvalutato, quando, di fatto, le bolle e le conseguenti crisi sembrano essere una caratteristica comune di tutte le rivoluzioni tecnologiche. Le crisi tipicamente segnano il punto in cui una tecnologia in crescita è pronta a prendere il posto che le spetta, al centro del palcoscenico. Tra i diversi pretendenti si distinguono quelli che hanno veramente successo, e si comprende il motivo di tale successo. Il concetto di "Web 2.0" ebbe inizio con una sessione di brainstorming, durante una conferenza, tra O'Reilly e MediaLive International. Dale Dougherty, pioniere del web e Vice Presidente di O'Reilly, fece notare che, tutt’altro che “crollata”, la rete era più importante che mai, con nuove interessanti applicazioni e siti che nascevano con sorprendente regolarità. Inoltre, le società che erano sopravvissute al collasso sembravano avere alcune caratteristiche in comune. Poteva essere che il collasso delle dot-com avesse segnato un punto di svolta per la rete, tale che un richiamo all'azione come "Web 2.0" potesse avere senso? Concordammo con questa analisi, e così nacque la Conferenza Web 2.0.

Nell'anno e mezzo trascorso da allora, il termine "Web 2.0" ha decisamente preso piede, con oltre 9,5 milioni di citazioni in Google. Ma c’è ancora un grande disaccordo circa il significato di Web 2.0: alcuni lo denigrano, considerandolo un termine di marketing, alla moda ma insignificante, mentre altri lo accettano come il nuovo standard convenzionale. Nel nostro brainstorming iniziale, abbiamo formulato il significato che per noi ha il concetto di Web 2.0 attraverso degli esempi:


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La lista continuava a lungo. Ma cosa ci ha portato a identificare e a definire un’applicazione "Web 1.0" e l’altra "Web 2.0"? (Il tema è scottante perché il termine Web 2.0 è diventato così diffuso che le società ora lo stanno utilizzando un po' a sproposito, senza comprenderne effettivamente il significato. La domanda è particolarmente difficile in quanto molti di queste startup che si circondano di paroloni sono decisamente non Web 2.0, mentre alcune delle applicazioni che abbiamo identificato come Web 2.0, quali Napster e BitTorrent, non sono nemmeno vere applicazioni per il web!). Abbiamo provato a sbrogliare i principi che, in un modo o in un altro, si sono dimostrati alla base delle storie di successo del web 1.0 e delle più interessanti tra le nuove applicazioni.

sanguinosa con Microsoft. Inoltre, due dei nostri esemplari iniziali del Web 1.0, DoubleClick e Akamai, erano entrambi dei pionieri nel trattare il web come una piattaforma. Spesso non lo si pensa come “web service” ma, in effetti, l’ad serving fu il primo web service ampiamente diffuso e il primo "mashup" (per usare un altro termine molto utilizzato negli ultimi periodi) di largo utilizzo. Ogni banner pubblicitario è erogato in maniera trasparente da due siti web, che forniscono un’unica pagina all’utente su un altro computer. Anche Akamai tratta il network come una piattaforma, e a un livello più profondo dello stack, costruendo una cache trasparente e una rete di distribuzione dei contenuti che diminuisce la congestione della banda.

Il Web Come Piattaforma Come molti concetti importanti, il Web 2.0 non ha confini rigidi ma, piuttosto, un centro gravitazionale. Si può visualizzare il Web 2.0 come un insieme di principi e di procedure che collegano un autentico sistema solare di siti che dimostrano questi principi, o parte di essi, a una distanza variabile da tale centro. Per esempio, nella prima conferenza sul tema Web 2.0, nell’ottobre 2004, John Battelle e io, nel nostro discorso di apertura, elencammo una serie di principi preliminari. Il primo di questi principi fu "Il web come piattaforma". Però quello era anche il grido di guerra dell’eroe del Web 1.0, Netscape, che crollò in fiamme dopo una battaglia

Ciò nonostante, questi pionieri hanno fornito utili contrasti, grazie ai quali chi è arrivato successivamente ha potuto sviluppare ulteriormente la propria soluzione allo stesso problema, comprendendo qualcosa di più profondo sulla natura della nuova piattaforma. Sia DoubleClick, sia Akamai sono stati pionieri del Web 2.0; comunque possiamo anche vedere come sia possibile mettere in atto altre possibilità utilizzando gli ulteriori design pattern del Web 2.0.


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Sfruttare l’Intelligenza Collettiva Il principio centrale che sta dietro al successo dei giganti nati nell'era del Web 1.0 che sono sopravvissuti per guidare l’era del Web 2.0 sembra essere questo: che hanno abbracciato la potenza del web per sfruttare l’intelligenza collettiva: L hyperlinking è il fondamento del web. Quando gli utenti aggiungono nuovi contenuti e nuovi siti, questi vengono integrati alla struttura del web dagli altri utenti che ne scoprono il contenuto e creano link. Così come le sinapsi si formano nel cervello, con le associazioni che diventano più forti attraverso la ripetizione o l'intensità, la rete delle connessioni cresce organicamente come risultato dell'attività collettiva di tutti gli utenti del web. Yahoo!, la prima grande storia di successo in internet, nacque come un catalogo, o una directory di link, un'aggregazione del lavoro migliore di migliaia e poi milioni di utenti del web. Sebbene Yahoo! da allora si sia spostato verso un business basato sulla creazione di contenuti di molti tipi diversi, il suo ruolo come portale per il lavoro collettivo degli utenti della rete rimane il centro del suo valore. Il fattore di successo di Google nel campo delle ricerche, che rapidamente l’ha reso il leader indiscusso di mercato, è stato il PageRank, un metodo che utilizza la struttura dei link, anziché semplicemente le caratteristiche di una pagina web, per fornire risultati di ricerca migliori. Il prodotto di eBay è l attività collettiva di tutti i suoi utenti; come il web stesso, eBay cresce organicamente in risposta all’attività degli utenti. Il ruolo della società è quello di

mettere a disposizione un contesto in cui tale attività possa aver luogo. Inoltre, il vantaggio competitivo di eBay viene quasi interamente dalla massa critica di acquirenti e venditori, che rendono chiunque tenti di offrire servizi simili significativamente meno interessante. Amazon vende gli stessi prodotti che vendono i suoi concorrenti, come Barnesandnoble.com, e riceve le stesse descrizioni del prodotto, le stesse immagini di copertina e gli stessi contenuti editoriali dai suoi fornitori. Ma Amazon ha fatto della partecipazione degli utenti una scienza. Conta su un numero sempre maggiore di recensioni da parte degli utenti, invita a partecipare in vari modi su virtualmente qualsiasi pagina e, ancora più importante, usa l’attività degli utenti per produrre risultati di ricerca migliori. Mentre una ricerca sul sito Barnesandnoble.com molto probabilmente porterà ai prodotti della società o ai risultati sponsorizzati, Amazon porta sempre al "più popolare”, un calcolo in tempo reale basato non solo sulle vendite, ma anche su altri fattori che gli insider di Amazon chiamano il “flusso” intorno ai prodotti. Considerando la sempre maggiore partecipazione degli utenti, non sorprende che le vendite di Amazon superino quelle dei concorrenti. Ora, le società innovative che seguono queste intuizioni, e che forse le estenderanno ulteriormente, stanno lasciando il segno nel web: Wikipedia, un enciclopedia online basata sull’improbabile idea che ciascuna voce possa essere aggiunta da qualsiasi utente web, e modificata da qualunque altro, è un esperimento radicale di fiducia, che applica alla


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creazione di contenuti il detto di Eric Raymond (coniato originariamente nel contesto del software open source), secondo cui “con molti occhi puntati addosso, ogni bug diventa una bazzecola”. Wikipedia è già nella lista dei primi 100 siti web, e molti ritengono che sarà tra i primi dieci a breve. Questo rappresenta un cambiamento profondo nelle dinamiche della creazione di contenuti! Siti come del.icio.us e Flickr, due società che hanno ricevuto grande attenzione negli ultimi tempi, hanno fatto da pionieri per un concetto che alcuni definiscono "folksonomia" (in contrasto con tassonomia), uno stile di categorizzazione collaborativa dei siti che utilizza parole chiave liberamente scelte, che spesso sono definite tag. Il tagging consente di ottenere quel tipo di associazione multipla e in sovrapposizione che il cervello stesso utilizza, anziché delle categorie rigide. Nell esempio canonico, una foto Flickr di un cucciolo può essere “taggata” sia come "cucciolo", sia come "carino" - consentendo di trovarla lungo gli assi naturali generati dall’attività degli utenti. I prodotti per filtrare lo spam in modo collaborativo, come Cloudmark per esempio, aggregano le decisioni individuali di chi usa la posta elettronica in merito a cosa è spam e cosa non lo è, superando i sistemi che si basano sull'analisi dei messaggi stessi. È una verità scontata che le società che vantano i più grandi successi in internet non fanno pubblicità dei propri prodotti. La loro adozione è guidata dal “marketing virale”, cioè dalle raccomandazioni che passano direttamente da un utente a un altro. Potete quasi arrivare alla conclusione che se un sito o un prodotto si basa sulla pubblicità per farsi conoscere, non si tratta di Web 2.0.

Persino gran parte dell infrastruttura del web, compreso il codice di Linux, Apache, MySQL, e Perl, PHP, o Python usato in molti server web, si affida ai metodi di peer-production dell’open source; in essi stessi si trova un esempio di intelligenza collettiva creata dalla rete. Ci sono più di 100.000 progetti di software open source elencati su SourceForge.net. Chiunque può aggiungere un progetto, chiunque può scaricare e utilizzare il codice, e nuovi progetti migrano dalle periferie al centro come risultato del fatto che gli utenti li utilizzano, un processo di adozione organico del software che si affida quasi interamente al marketing virale. La lezione: Gli effetti del network derivanti dai contributi degli utenti sono la chiave del predominio del mercato nell’era del Web 2.0

Il Blog e la Saggezza delle Folle Una delle caratteristiche più pubblicizzate dell’era del Web 2.0 è la crescita dei blog. Home page personali sono state pubblicate sin dall inizio del web, e i diari personali e gli editoriali quotidiani sono popolari da molto prima. A cosa è dovuto allora tutto questo scalpore? Semplificato al massimo, un blog non è altro che una home page personale nel formato di un diario. Ma come fa notare Rich Skrenta, l’organizzazione cronologica di un blog “sembra una differenza insignificante, ma definisce un sistema di erogazione, una pubblicità e una catena del valore


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completamente differenti". Una delle cose che hanno fatto la differenza è una tecnologia che si chiama RSS. RSS è il progresso più significativo nell’architettura fondamentale del web da quando i primi hacker hanno capito che le CGI potevano essere utilizzate per creare website supportati da database. RSS consente non solo di collegarsi a una pagina, bensì di “abbonarsi” ad essa, ricevendo un avviso ogni volta che la pagina viene modificata. Skrenta lo definisce il “web incrementale”. Altri lo chiamano “live web”. Ora, naturalmente, i “website dinamici” (cioè siti basati su un database con contenuti generati dinamicamente) hanno sostituito le pagine web statiche più di dieci anni fa. Quello che è dinamico nel live web non sono solo le pagine, ma anche i link. Un link a un weblog punta a una pagina in continuo cambiamento, con un "permalink" per ogni singolo inserimento e una notifica per ogni cambiamento. Un feed RSS è quindi molto più potente di un link, sia esso un bookmark o un link a una singola pagina.

L’Architettura partecipativa Alcuni sistemi sono progettati per incoraggiare la partecipazione. Nel suo articolo, The Cornucopia of the Commons, Dan Bricklin indica che ci sono tre modi per realizzare un ampio database. Il primo, dimostrato da Yahoo!, è di pagare le persone perché lo facciano. Il secondo, che prende ispirazi-

one dalla comunità degli open source, è di cercare volontari che realizzino lo stesso compito. L'Open Directory Project, un concorrente open source di Yahoo, ne è il risultato. Ma Napster ha dimostrato un terzo modo. Avendo come default la possibilità di mettere a disposizione automaticamente qualsiasi pezzo musicale che viene scaricato, Napster ha consentito a ogni utente di contribuire all’aumento del valore del database condiviso. Questo stesso approccio è stato seguito da tutti gli altri servizi di condivisione di file P2P. Una delle lezioni chiave dell’era di Web 2.0 è questa: gli utenti aggiungono valore. Ma solo una piccola percentuale di utenti si prenderà la briga di aggiungere valore all’applicazione in modo esplicito. Perciò, le società Web 2.0 impostano di default sistemi per l’aggregazione dei dati degli utenti e per la costruzione di valore come effetto collaterale del normale utilizzo dell'applicazione. Come indicato in precedenza, tali sistemi migliorano con l’aumentare del numero di utenti. Mitch Kapor una volta affermò che “architettura è politica”. La partecipazione è intrinseca in Napster, è parte della sua architettura fondamentale. Questa visione dell'architettura può essere considerata alla base del successo dei software open source anche più dei frequentemente citati appelli al volontariato. L’architettura di internet, e il World Wide Web, così come i progetti di software open source come Linux, Apache, e Perl, è tale che gli utenti che perseguono i propri interessi “egoistici” costruiscono un valore collettivo come conseguenza auto-


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matica. Ognuno di questi progetti ha un piccolo nucleo centrale, meccanismi di estensione ben definiti e un approccio che consente a chiunque di aggiungere qualsiasi componente ben funzionante, facendo crescere gli strati più esterni di quello che Larry Wall, il creatore di Perl, definisce “la cipolla”. In altre parole, queste tecnologie dimostrano gli effetti della rete, semplicemente attraverso il modo in cui sono state progettate. Questi progetti possono essere visti come aventi una naturale architettura partecipativa. Ma, come Amazon dimostra, con sforzi continui (oltre a incentivi economici quale il programma Associates), è possibile sovrapporre questa architettura a un sistema di cui normalmente parrebbe non far parte. Se una parte essenziale del Web 2.0 riguarda lo sfruttamento dell’intelligenza collettiva, trasformando il web in una specie di cervello globale, la blogosfera è l’equivalente di un chiacchiericcio mentale costante nel proencefalo, la voce che tutti sentiamo nella nostra testa. Può non riflettere la struttura profonda del cervello, che spesso è inconscia, ma è l’equivalente dei pensieri consci. E in quanto riflessione del pensiero conscio e dell’attenzione, la blogosfera ha iniziato ad avere un potente effetto. Innanzitutto, dato che i motori di ricerca utilizzano la struttura dei link per prevedere quali pagine saranno utili, i blogger, essendo gli utilizzatori di link più prolifici e tempestivi, hanno un ruolo sproporzionato nel dare forma ai risultati dei motori di ricerca. In secondo luogo, considerato che la comunità dei

blog è tanto auto-referenziale, i blogger che prestano attenzione agli altri blogger aumentano la loro visibilità e il loro potere. Anche la "camera dell'eco" che i critici denigrano è un amplificatore. Se si trattasse semplicemente di un amplificatore, i blog sarebbero poco interessanti. Ma come Wikipedia, il blog sfrutta l’intelligenza collettiva come una specie di filtro. Entra in gioco qui quella che James Suriowecki chiama “la saggezza delle folle”, e così come PageRank produce risultati migliori dell’analisi di ogni documento individuale, l’attenzione collettiva della blogosfera seleziona il valore. Sebbene i media tradizionali possano vedere i singoli blog come concorrenti, l’aspetto più snervante è che la concorrenza è in realtà con la blogosfera come insieme. Non si tratta solo di una concorrenza tra siti, bensì di una concorrenza tra modelli di business. Il mondo Web 2.0 è anche il mondo di ciò che Dan Gillmor chiama “noi, i media”, un mondo in cui “il pubblico”, e non alcune persone dietro le quinte, decide ciò che è importante. li di avviso delle possibilità della nuova piattaforma.


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Design Pattern di Web 2.0 Nel suo libro, A Pattern Language, Christopher Alexander definisce un format per la descrizione concisa della soluzione di problemi architetturali. Egli scrive: "Ogni pattern descrive un problema che avviene di continuo nel nostro ambiente, e poi descrive il nucleo fondamentale della soluzione a quel problema, in modo tale che potrete usare questa soluzione un milione di volte senza farlo mai nello stesso modo". 1. The long tail I piccoli siti rappresentano il grosso del contenuto internet; nicchie ristrette rappresentano il grosso delle applicazioni internet possibili. Perciò: fate leva sul customer-self service e sulla gestione dei dati algoritmici per raggiungere l’intero web, le periferie e non solo il centro, la lunga coda e non solo la testa. 2. I Dati sono il Prossimo Intel Inside Le applicazioni sono sempre più guidate dai dati. Perciò: Per un vantaggio competitivo, cercate di possedere una fonte di dati unica e difficile da ricreare. 3. Gli Utenti Aggiungono Valore La chiave per un vantaggio competitivo nelle applicazioni internet è il grado in cui gli utenti sono in grado di aggiungere i propri dati a quelli che voi fornite. Perciò: Non limitate la vostra “architettura partecipativa” allo sviluppo del software. Coinvolgete i vostri utenti sia implicitamente, sia esplicitamente nell’aggiungere valore alla vostra applicazione.

4. Gli Effetti del Network di Default Solo una piccola percentuale di utenti si prenderà la briga di aggiungere valore alla vostra applicazione. Perciò: Impostate di default un sistema per aggregare i dati degli utenti come effetto dell'utilizzo della vostra applicazione. 5. Some Rights Reserved. La protezione della proprietà intellettuale limita il riutilizzo e previene la sperimentazione. Perciò: Quando i benefici vengono dall adozione collettiva e non dalla restrizione privata, assicuratevi che le barriere all'adozione siano basse. Seguite gli standard esistenti e utilizzate le licenze con il minimo di restrizioni possibili. Progettate per l’"hackability" e la "remixability." 6. L’eterno Beta Quando i dispositivi e i programmi sono collegati a internet, le applicazioni non sono più manufatti software, bensì servizi in continuo sviluppo. Perciò: Non inserite più nuove funzioni in versioni monolitiche ma, al contrario, aggiungetele regolarmente come parte della normale esperienza dell’utente. Impegnate i vostri utenti come collaudatori in tempo reale e dotate il servizio di strumenti di controllo così saprete come la gente usa le nuove funzioni. 7.Cooperazione, Non Controllo Le applicazioni Web 2.0 consistono in una rete di data service che collaborano. Perciò: Offrite interfacce per i web service e syndication dei contenuti e riutilizzate i data service degli altri. Supportate modelli di programmazione leggeri che consentono sistemi di abbinamento non rigidi.


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8. Il Software a Livello Superiore del Singolo Dispositivo Il PC non è più l’unico dispositivo che consente l’accesso alle applicazioni internet e le applicazioni che sono limitate a un solo dispositivo hanno un valore inferiore rispetto a quelle che sono connesse. Perciò: Progettate dall’inizio la vostra applicazione perché sia in grado di integrare servizi su dispositivi portatili, PC e server internet.


COME FUNZIONA UNA CASA EDITRICE Che cos’è l’editoria?

ATTIVITÀ INDUSTRIALE CHE HA PER OGGETTO LA PUBBLICAZIONE DI LIBRI, DI PERIODICI, DI INFORMAZIONI, ANCHE RADIOFONICHE TELEVISIVE” L'editoria è un'attività culturale, basata sulla scelta la cura dei contenuti trasformati in oggetto fisico fino al lettore. L'editore è quindi l'artefice della trasformazione della scrittura in un qualcosa di largamente fruibile.

Johann Gutenberg (Johann Gensfleish) nel 1455 ca. conclude la stampa della "Bibbia a 42 linee". Il fondatore dell'industria editoriale moderna è Aldo Manuzio che nel 1494 a Venezia inizia la sua attività di tipografo ed editore e, in breve, stampa e distribuisce opere in greco e latino. Nel 1515 Ludovico Ariosto in una lettera indirizza al Doge di Ferrara, pone il problema del rispetto dei “Diritti d’autore” delle proprie opere 1622 il bimensile Nieuwe Tijidinghe di Anversa è la prima gazzetta a periodicità regolare. 1796 Aloys Senefelder a Monaco di Baviera sperimenta la litografia. 1839 nascita della dagherrotipia 1840 prime macchine piano/cilindriche utilizzano lastre di zinco 1850 Firmin Gillot mette a punto un sistema di riproduzione delle immagini al tratto, poi verso il 1890 primi clichés a retino 1910 Freiburger Zeitung è il primo periodico illusrtato stampato con sistema rotocalcografico 1930 ca. si sviluppa il fotogiornalismo


Ufficio Commerciale / Pubblicitario Contatta sponsor e inserzionisti pubblicitari, propone pubblicazioni e iniziative speciali, coordina la rete vendita

Editor Responsabile editoriale della casa editrice / redazione: decide il programma editoriale, supervisiona il lavoro del caporedattote, art director e dei capiservizio, si confronta con la dirigenza della casa editrice e i responsabili degli altri uffici nei comitati editoriali dove vengono indicate le direttive principali dell’azienda

Ufficio Marketing Realizza i conti economici dei prodotti, decide il posizionamento sul mercato, verifica vendite/resi, gestisce le promozioni sul punto vendita

Redazione È composta dalle figure professionali che impostano, realizzano e seguono la produzione della pubblicazione

Ufficio Stampa Promuove le pubblicazioni sui diversi media, organizza le presentazioni con gli autori, le inaugurazioni delle mostre e tutte le inziative che mettono in contatto la casa editrice con il pubblico

Ufficio Tecnico Coordina tutte le fasi produttive della pubblicazione controllando che rispondano alle normative tecniche della casa editrice

Presidente / Amministratore Delegato

Ufficio del Personale Gestisce le risorse umane

Controllo di Gestione Gestisce le risorse economiche, verifica i costi di produzione

Ufficio Informatico / Assistenza Tecnica Progetta e gestisce la rete informatica aziendale, l’acquisto e l’installazione hardware e software, l’aggiornamento del personale alle nuove versioni dei programmi e dei sistemi operativi, la corrispondenza all’uniformità della casa editrice dei documenti informatici prodotti dalle diverse redazioni

Ufficio Iconografico Gestisce il patrimonio iconografico dell’editore, organizzandolo, archiviandolo e rivendendolo a terzi. Commissiona e produce i servizi fotografici

Ufficio Contratti Realizza i contratti degli autori, fotografi, illustratori e in genere di tutti i collaboratori della casa editrice


Editor / Direttore Responsabile Responsabile editoriale della casa editrice / redazione

Autore / Giornalista Redige il testo e descrive l’apparato iconografico

Fotografo / Illustratore Crea le immagini della pubblicazione

Capo Redattore e Redattore Verifica testo e fonti, corregge e uniforma il testo secondo le regole redazionali della casa editrice

Responsabile di Produzione Definisce il calendario della produzione procedendo a ritroso dalla data di pubblicazione prevista, verificando la corretta consegna dei materiali e l’avanzamento dei lavori

Art Director (Responsabile Grafico) Progetta la forma grafica della pubblicazione o ne assegna la realizzazione, indica la direzione artistica dell’iconografia, coordina e segue l’esecuzione dell’impaginazione e di tutte le fasi di controllo fino alla stampa finale

Grafico Impagina la pubblicazione seguendo il progetto grafico e le indicazioni dell’autore, seleziona le immagini confrontandosi con l’AD, segue la fase di prestampa verificando la qualità delle foto sulle prove colore fornite dal fotolitista chiedendone le correzioni e vista le cianografiche

Photo Editor e Ricercatore Iconografico Coordina la produzione dell’apparato iconografico della pubblicazione, segue il fotografo dal preventivo iniziale alla consegna e archiviazione degli originali, ricerca ed acquista le immagini dalle agenzie fotografiche

Impiegato Tecnico / Gestore di Commessa Gestisce la produzione del prodotto, dalla commessa alla stampa, coordinando i diversi fornitori: fotolitista, stampatore, distributore

Fotolitista Cura tutta la prestampa della pubblicazione: acquisisce gli originali delle immagini e ne corregge la cromia, ritocca le foto, produce le prove colore (digicromalin, prove al torchio) chiude i pdf per la stampa

Fotoincisore Realizza l’imposition e Incide le lastre da stampa direttamente dai pdf (CTP), a v olte è interno alla fotolito

Stampatore Stampa la pubblicazione

Rilegatore Confeziona il prodotto stampato e fa le operazioni di finissaggio: monta le sovraccoperte, inserisce i libri nei cofanetti, applica adesivi e fascette promozionali e altro


1_L’editor propone al comitato redazionale un’idea editoriale

1_L’autore propone all’editore un contenuto editoriale

2_Analisi del prodotto e della concorrenza

2_Presenta del testo o delle immagini a seconda del contenuto della pubblicazione

3_Scelta del formato e calcolo del possibile sviluppo di numero pagine, foto e battute e

4_Conto economico: primo giro di verifica

5_Progetto Grafico con foto e testi finti: scelta della gabbia della tipografia

6_Inizio stesura testi

7_Inizio raccolta immagini

3_Analisi del prodotto e della concorrenza

4_Scelta del formato e calcolo del possibile sviluppo di numero pagine, foto e battute

5_Conto economico: primo giro di verifica

6_Progetto Grafico con foto e testi finti: scelta della gabbia e della tipografia


1_Timone

13_Chiusura PDF per stampa

2_Conto economico: secondo giro per approvazione definitiva

14_Invio della miniatura della copertina del libro e della scheda di commento con dati tecnici e prezzo definitivo all’ufficio stampa per la promozione su stampa e web

3_Prima revisione dei testi e impaginazione di un capitolo con testi e foto vere

4_Verifica: cosa funziona e cosa non rispetto al progetto: modifiche

5_Impaginazione 1^ bozza volume

6_Prime prove colore, correzioni ritocchi e invio per nuove prove

7_Verifica grafica/redazionale su 1^ bozza

8_Primi bozzetti copertina

9_Correzioni e impaginazione 2^ bozza

10_Prosegue correzione e ritocco immagini

11_Scelta copertina: esecutivi e prove colore

12_Ultima verifica redazionale e grafica dell’impaginato

15_Imposition dei pdf e produzione della cianografica di controllo

16_Correzioni in ciano e visto si stampi

17_Incisione lastre

18_Stampa (visto avviamento macchina)

19_Confezione e allestimento

20_Distribuzione nei punti vendita



Creative Commons (CC) è un'organizzazione non profit dedicata all'espansione della portata delle opere di creatività offerte alla condivisione e all'utilizzo pubblici. Essa intende altresì rendere possibile, com'è sempre avvenuto prima di un sostanziale abuso della legge sul copyright, il ricorso creativo a opere di ingegno altrui nel pieno rispetto delle leggi esistenti.

Le licenze di tipo Creative Commons permettono a quanti detengono dei diritti di copyright di trasmettere alcuni di questi diritti al pubblico e di conservare gli altri, per mezzo di una varietà di schemi di licenze e di contratti che includono la destinazione di un bene privato al pubblico dominio o ai termini di licenza di contenuti aperti (open content). L'intenzione è quella di evitare i problemi che le attuali leggi sul copyright creano per la diffusione e la condivisione delle informazioni.

Il progetto fornisce diverse licenze libere che i detentori dei diritti di copyright possono utilizzare quando rilasciano le proprie opere sulla Rete. Il progetto fornisce anche dei metadata RDF/XML che descrivono la licenza ed il lavoro che rende più facile il trattamento automatico e la ricerca delle opere concesse con licenza creative commons; viene anche fornito un Founder's Copyright[1], il quale è un contratto che vorrebbe ricreare lo spirito del concetto originale di Copyright così come introdotto dai padri fondatori nella costituzione americana.


Le licenze Creative Commons sono state anticipate dalle licenze Open Publication License (OPL) e GNU Free Documentation License (GFDL). La GFDL è intesa principalmente come una licenza per la documentazione software, ma è anche in uso per progetti che non riguardano strettamente il software, come la stessa Wikipedia. La licenza OPL è ora defunta, e il suo stesso creatore suggerisce di non utilizzarla. Sia la OPL che la GFDL contenevano delle sezioni opzionali che, nell'opinione dei critici, le rendevano meno libere. La GFDL si differenzia dalle licenze creative commons nella sua richiesta che i lavori licenziati con essa vengano distribuiti in una forma "trasparente", ad esempio non usando formati proprietari e/o segreti. Creative Commons è nato ufficialmente nel 2001 per volere del professore Lawrence Lessig, ordinario della facoltà di Giurisprudenza di Stanford (e in precedenza anche di Harvard) e riconosciuto come uno dei massimi esperti di diritto d'autore negliStati Uniti. Lessig fondò l'organizzazione come metodo

l'opera prima di distribuirla. È più difficile per l'autore dimostrare la paternità dell'opera, nel caso in cui qualcuno applichi successivamente il diritto d'autore, e a limite accusi di averlo violato quanti fruiscono l'opera stessa. Rispetto alla licenza, prevale la legislazione, che nei Paesi di diritto latino prevede che resti l'obbligo di citare l'autore, e che i diritti morali sulle opere siano per questi irrinunciabili.

addizionale per raggiungere il suo scopo nel suo caso di fronte alla Corte Suprema degli Stati Uniti, Eldred v. Ashcroft. Il set iniziale delle licenze creative commons fu pubblicato il 16 dicembre 2002[2]. Al progetto fu conferito il Golden Nica Award durante il Prix Ars Electronica nella categoria Net Vision nel 2004. A marzo 2009, è stata rilasciata la prima versione per la licenza Creative Commons 0. Con questa licenza, l'autore rinuncia a qualunque diritto sull'opera, che può esere utlizzata da tutti, in qualunque modo, per sempre e senza condizioni. Scompare pure l'obbligo di citare l'autore. La legislazione, al momento, non prevede che vi sia un ente preposto dove l'autore possa depositare

In Italia L’Istituto di Elettronica e di Ingegneria dell’Informazione e delle Telecomunicazioni (IEIIT organo del CNR – consiglio nazionale delle Ricerche) offre la propria collaborazione a International Commons per realizzare una versione italiana delle licenze CC. Marco Ricolfi del Dipartimento di Scienze Giuridiche dell’Università degli Studi di Torino è il project Lead del gruppo di lavoro che si è assunto questo compito.


Ogni paese ha un proprio sistema giuridico. Il gruppo di lavoro per il progetto creative Commons Italia, ha dovuto capire la funzione delle licenze CC nel sistema giuridico Americano, per potere fare un confronto con quello italiano e cercare di adattare a quest’ultimo le licenze. Un punto di partenza è stato dato da una prima traduzione delle licenze, realizzata dall’avvocato milanese Antonio Amelia. Oltre al gruppo di lavoro, è stato importante l’intervento della community, nata a sostegno del progetto. È il 2003, l’anno in cui Lawrence Lessig annuncia a Torino l'inizio ufficiale del lavoro di traduzione e adattamento delle licenze Creative Commons. Il gruppo di lavoro delle Affiliate Institutions CC Italia è formato da Marco Ricolfi, Marco Ciurcina, Massimo Travostino, Nicola Bottero, Samantha Zanni, Alessandro Cogo e Juan Carlos De Martin; parteciperanno ad alcuni incontri anche Lorenzo Benussi e Alberto Gilardi. L'interazione con la comunità avverrà prevalentemente tramite la mailing list e unwiki.

Il 2004 vede la nascita delle bozze 1.0 e 2.0 della traduzione in italiano delle licenze e della loro pubblicazione su wiki per permettere una libera discussione. La presentazione delle licenze Creative Commons italiane avviene il 16 dicembre a Torino presso la Fondazione Giovanni Agnelli. Nel gennaio del 2005 Juan Carlos De Martin, ricercatore presso l'IEIICNR di Torino e docente presso il Politecnico di Torino, viene nominato Lead Creative Commons Italia mentre Il prof. Marco Ricolfi assume il ruolo di coordinatore scientifico del gruppo di lavoro giuridico CC Italia. Il 29 aprile 2006 viene presentata la versione 2.5 delle licenze Creative Commons italiane. Nel 2005 e 2006 vengono organizzati degli incontri nazionali Creative Commons Italia su diversi temi (multimedia, editoria, musica, archivi, open access).


Tu sei libero di riprodurre, distribuire, comunicare al pubblico, esporre in pubblico, rappresentare, eseguire e recitare quest'opera di modificare quest'opera

Alle seguenti condizioni Devi attribuire la paternitĂ dell'opera nei modi indicati dall'autore o da chi ti ha dato l'opera in licenza e in modo tale da non suggerire che essi avallino te o il modo in cui tu usi l'opera. Se alteri o trasformi quest'opera, o se la usi per crearne un'altra, puoi distribuire l'opera risultante solo con una licenza identica o equivalente a questa.

di aggiungere materiale inerente Non puoi usare quest'opera per fini commerciali.

Non puoi alterare o trasformare quest'opera, ne' usarla per crearne un'altra.


Ognuna di queste quattro clausole individua una condizione particolare a cui il fruitore dell'opera deve sottostare per poterne usufruire liberamente. Dalla combinazione di queste quattro clausole nascono le sei licenze attualmente in uso:

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CC BY-ND CC BY-SA CC BY-NC-ND CC BY-NC-SA


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• o: tra il dire e il fare


trovare un nome.

Molto probabilmente la parte più complessa di tutto il processo che porta alla creazione di un’immagine comune del progetto. Cercando di evitare tutto quello che sarebbe ridondante legato al mondo del DIY (fai da te e proverbi e modi di dire annessi e connessi), l’idea era quella di rifarsi piuttosto ad un sentimento comune che raccogliesse al suo interno l’anima del progetto. I tentativi sono stati tanti quanto fallimentari: FAPER3 (orrendo ma anglofonicheggiante), PROME, PRMT in un tentativo di evocare la

figura di Prometeo (io ti faccio vedere come, e tu conquisti il mondo), Premiato Boicottificio, e via dicendo. Poi, la luce. Quale fosse il minimo comun denominatore di tutti i prodotti in realtà era palese: fondamentalmente, sono cose di cui si poteva fare a meno. Il mondo delle cose di cui si poteva fare a meno, di tutto ciò che esce dal necessario in una visione della vita razionalmeccanica (la musica, la danza, un sacco di arte in generale, il sesso protetto, la settimana enigmistica, il surf) è il mio mondo, o quantomeno

il mondo che tengo che emerga e dimostri quanto l’inessenziale sia fondamentale per condurre una vita felice. Anzi, eliminamo l’obbligatorio. Il passaggio è abbastanza logico. Cose di cui potevi fare a meno. Ameno. A-


moodboard. Ovvero, una mappa di riferimenti visivi per tenere d’occhio da dove parti. In realtà l’ho sempre trovato un passaggio più confusionale che altro per chi crea, anche se

per fini di presentazione fa sempre la sua figura. Per farla breve, è una sorta di albero genealogico il cui ultimo discendente è il tuo logo.

Logo dei Black Flag Logo di Warp Records, etichetta di musica elettronica Inglese

Spilla dei Minutemen

Adesivo Santa Cruz, famoso marchio di tavole da surf

Logo di TROMA, casa di produzione di film splatter a basso costo


SST Records, celebre etichetta indipendente californiana

Alva Skateboards, il marchio delle tavole di Tony Alva

Un logotipo massonico H端sker D端, band hardcoker californiana

Adesivo dei Germs, altra hardcore punk band americana


Graffiti Research Lab, collettivo internazionale di Writers

DEVO, band new wave americana


Frigidaire, magazine di controcultura e fumetti che annoverava tra i collaboratori Andrea Pazienza, Stefano Tamburini, Alberto Mattioli, Tanino Liberatore


Prometeo mentre subisce la pena per aver donato il fuoco agli esseri umani. Questo personaggio mitologico rievoca molti dei concetti alla base del DIY.


roughs. Prove tecniche di logo. Schizzi raccolti tra i blocchi, alla ricerca di un segno unico che tenendo conto dei

riferimenti del moodboard sintetizzi sia il nome che l’anima del progetto.




trovare un logo atto III. Dai roughs a Illustrator, qui alcune delle prove di branding per quello che diventerà Ameno. Sono presenti alcuni dei loghi venuti prima (PRMT, Ù ovvero il tasto che sbagli a premere quando vai a capo), FARPER3 e WESELF (contrazione collettiva di yourself), e tutti i loghi di Ameno quando l’idea era quella di dare un’immagine fluida del marchio per non adeguarsi ai canoni imposti dal sistema delle Corporations. Forse un po’ troppo no global come intuizione.

PRMT

ù Design House



Logo legato alla prima idea di fare riferimento al mito di Prometeo

Prome

Prmt



a

-

a

-

a

-

a

-

Ameno



Prime versioni ed evoluzioni del logo che diventerĂ definitivo.


il logo.

Logo in forma definitiva. Marchio Creative Commons. Approfondirò il tema in seguito.


Riduzione a 75%, 50% e 25% Applicazione su fondo nero.


Chalet NewYorkNineteenSeventy Aa Bb Cc Dd Ee Ff Gg Hh Ii Jj Kk Ll Mm Nn Oo Pp Qq Rr Ss Tt Vv Ww Xx Yy Zz 1234567890/()?!$&* Alfabeto Tipografico di Riferimento per il Logotipo


Alfabeti Tipografici di Riferimento per il testo

DTL Nobel T Regular Aa Bb Cc Dd Ee Ff Gg Hh Ii Jj Kk Ll Mm Nn Oo Pp Qq Rr Ss Tt Vv Ww Xx Yy Zz 1234567890/()?!$&* DTL Nobel T Light

DTL Nobel T Bold

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ameno XI:XXX

ANIMAL WALL MOUNTS 2010 BY-NC-SA

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Banner del logo con Creative Commons License. Se non specificato diversamente, questo è l’unico modo di visualizzazione del marchio.

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Etichette relative ai prodotti. Sostituiscono il tradizionale Colophon


Biglietto da visita che fa a meno dei contatti

Tshirt


Tatuaggio, per il fan accanito

Applicazioni su carta.


Prodotti di cui potevi fare Ameno


fronte

A4 aka aquattro è un casuale di liberazione grafica fuoriuscito in numeri numero uno. È, fino ad ora, l’unica fanzine propriamente detta prodotta da Ameno. L’unico scopo fino ad ora conosciuto di A4 è quello di eliminare la componente clientelistica del graphic design e liberarne le forme secondo criteri sconosciuti persino agli autori. Viene prodotto in una quantità massiccia (si tratta fondamentalmente di un’unica pagina fotocopiata f/r), e distribuito in strada (leggi: appoggiato e/o donato al passante). Suggerisce al lettore di essere riprodotto nuovamente fotocopiandolo, o dà la possibilità di essere scaricato in formato pdf e successivamente stampato e/o modificato.

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retro-poster aperto

Holes è un libro minuscolo sui buchi. Buchi di serratura, buchi del groviera, buchi nel muro, buchi di proiettile. L’entrata è un buco e l’uscita pure. Anche la rilegatura è un buco, anzi è un buco trapassato da un fermacampione ottonato, che una volta rimosso sdogana il libro dalle pagine e lo trasforma in un poster-colabrodo. Holes è ottenuto usando un particolare metodo di rilegatura che trasforma un qualsiasi foglio A4 in un mini-book di 16 pagine, con copertina, retro copertina e un retro sfruttabile a dimensione intera.

pagine interne

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pagine interne Stats è un libro sulle statistiche. Le statistiche, le ricerche di mercato, gli studi di settore sono la nuova letteratura neorealista contemporanea: Stats li celebra in quanto tali. 0 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15

Presentato come un unica lunga pagina ripiegabile, Stats possiede un fronte diviso in pagine ed un retro che riporta una lunga tabella, che nella prima edizione conteneva il tempo necessario ad accumulare l’energia sufficiente per scaldare una tazza di caffè espressa in urla umane, mentre nella seconda riporta i dati riguardanti la disposizione delle ore di sonno medie di una persona durante la vita. I materiali cartacei necessari sono un foglio A3 di carta comune ed un cartoncino 220 grammi formato A4. Il resto è lavoro di colla e forbici e squadra.

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tabella retro

copertina

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Animal Wall Mounts è un omaggio a quella forma d’arte sottovaluta e incompresa quale è è il feticcio di avere una testa animale appesa ai muri di casa. Ogni soggetto presente nel libro viene celebrato da una poesia che ricorda le fasi salienti dell’esemplare quando ancora non era limitato a fissare il soggiorno da sopra un camino. Le foto sono prese in prestito da The Mad Moose, punto di riferimento per la rigogliosa comunità di collezionisti di questo genere di amenità. Animal Wall Mounts è rilegato con ago e filo interdentale (probabilmente uno dei fili da rilegatura più resistenti in commercio) tramite una tecnica chiamata Fold Stitch.

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una pagina interna

ANIMAL WALL MOUNTS 2010 2010 BY-NC-SA


ANIMÆ è un libro di immagini animate, che sfrutta semplici principi ottici del diciannovesimo secolo come il Thraumatrope e lo Zoethrope per simulare l’effetto del movimento su semplici immagini divise in 6 fotogrammi, sovrastampate e mascherate da un acetato che ne maschera 5 fotogrammi alla volta. Grazie al movimento di questo, il lettore può ammirare il movimento ottico che ne consegue. Stampato su semplice carta A4, cartoncino e acetato per inchiostri laser.

copertina

copertina

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copertina

copertina

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XI:XXX

XI:XXX è un libro sulle 11.30. In sostanza, per una settimsana, alle 11:30 circa di mattina e di sera, ho scattato una foto POV (ovvero dal mio punto di vista). Quindi, XI:XXX diventa una specie di diario a orologeria di una settimana a New York. Certe volte dormivo (foto nere), altre facevo il ragÚ, altre guardavo per terra. I materiali sono carta comune, cartoncino, ed una rilegatura Pamphlet Stitch con ago e filo.

copertina

XI:XXX 2010 BY-NC-SA


pagine interne

XI:XXX 2010 BY-NC-SA


RANDOM è un libro sulle possibilità compositive del caso sotto l’aspetto visivo. Inizialmente partito come primo progetto di tesi, si è poi ridotto alla forma del libro self published. Costruito come una galleria di immagini autocomponibili miscelate a testi sull’argomento (scritti di John Cage, citazioni dall’I-Ching, B.S. Johnston, e dal programmatore di AARON, il primo computer in grado di disegnare casualmente l’estetica artistica umana), RANDOM cerca anche nella struttura di suggerire la tesi casuale mediante la libera associazione dei contenuti al suo interno. All’interno della copertina sono state inserite 9 carte ispirate ad un gioco da tavolo della Germania Est del 1979 in cui, qualunque fosse l’ordine con cui queste carte venissero giustapposte, l’immagine totale risultante fosse quella di un paesaggio continuo.

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pagine interne. ogni pagine è a sua volta suddivisa in due parti orizzontali per favorire la sovrapposizione con altre pagine all’interno e comporre nuove immagini ed associazioni mentali.

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pagine interne. ogni pagine è a sua volta suddivisa in due parti orizzontali per favorire la sovrapposizione con altre pagine all’interno e comporre nuove immagini ed associazioni mentali.

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le carte allegate. in randoms è presente la versione a stampa digitale. nella prima edizione, le carte erano stampate in serigrafia a due colori ed un retro serigrafato su tessuto rosso.

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(e sitografia)


LIBRI • Amy Spencer, DIY - The Rise of Lo-Fi Culture, Marion Books 2008 Luther Blissett - Totò, Peppino e la guerra Psichica 2.0, Einaudi Tascabili 2000 Michele Spera, Abecedario del Grafico - La progettazione tra creatività e scienza, Gangemi Editore Carolyn Christov-Bakargiev, Arte Povera, Phaidon 2005 B.S. Johnston, The Unfortunates, New Directions 2007 Adrian Shaughnessy, How to be a graphic designer without losing your soul, Lawrence King 2005 Racter, The Policeman's Beard is Half Constructed, Warner Book 1984 Noam Chomsky, Edward S. Herman, La fabbrica del consenso, Il Saggiatore 1998


Marshall McLuhan, Gli Strumenti del Comunicare, Il Saggiatore 1964 Foster, Krauss, Biois, Buchloch, Arte dal 1900, Zanichelli 2002 Berardi, Pignatti, Magagnoli, Errore di Sistema, Feltrinelli 2003 Dave Eggers, The best of McSweeneys, Minimum Fax 2004 Guy Debord, La SocietĂ dello Spettacolo, Baldini&Castoldi 1979 Kalle Lasn, Design Anarchy, Adbusters Publishing 2006 Gianluca Lerici, L'arte del Prof. Bad Trip, Shake Edizioni 2007 Michele Mordente, Stefano Tamburini - Banana Meccanica, Coniglio Editore 2008 Andrea Milano, DIY: Culture di Resistenza e Azione Diretta, tesi di laurea 2006


SITI • Wikipedia, l'enciclopedia libera (http://it.wikipedia.org/wiki/Pagina_principale) DIY Artifacts: Fan Art, Music Zines, and DIY memorabilia (http://www.flickr.com/groups/11724500@N00/) Graffiti Research Lab Archive (http://graffitiresearchlab.com/) The Do-It-Yourself Craft Movement (http://crafts.suite101.com/article.cfm/the_doityourself_craft_movement) Instructables - Make, How To, and DIY (http://www.instructables.com/)


Etsy - Your place to buy and sell all things handmade (http://www.etsy.com/) Autopubblicazione - Lulu (http://www.lulu.com/it) Youtube, DIY or DIE (http://www.youtube.com/watch?v=rDE5vvs1WxY) Do it Yourself America (http://www.wk.com/wke/show/diy) RIP! A Remix Manifesto (http://downloadzoneforum.net/index.php?showtopic=113943) STEAL THIS FILM (http://www.stealthisfilm.com/Part2/)


MAKE: technology on your time (http://makezine.com/) MAXIMUM ROCKNROLL (http://maximumrocknroll.com/) Adbusters (https://www.adbusters.org/) Fanzine Italiane Associazione di Promozione Sociale (http://www.fanzineitaliane.it/) Stampa Alternativa (http://www.stampalternativa.it/) SST and Cruz Records (http://www.sstsuperstore.com/)


Indice.


1.1 1.2 1.3 1.4 1.5 1.4 1.5

Introduzione Il caso Lutero Arts & Crafts First Things First Manifesto Tibor Kalman on Design Jessica Helfand on Graphic Design Culture Jamming

1.6 McSweeney's 1.7 Marcello Baraghini: Stampa Alternativa

1


2 Self Publishing 2.1 Del Do and dell'It Yourself 2.2 2.2.1 2.2.2 2.2.3

Della rivista detta Fanzine Dishwasher Pete Cometbus Maximum Rocknroll

2.3 2.3.1 2.3.4 2.3.5 2.3.6

Dei predecessori di suddetta pratica Degli Artisti e della Zine Dada Situazionist Internation I Beat

2.4 Delle recenti evoluzioni digitali 2.4.1 Il Web Journal 2.4.2 Il Blog 2.5 DIY & 2.0 2.5.1 Il culto del DIY 2.5.2 Dal Punk al Web 3.0 2.5.3 What is Web 2.0

2


3 Metodologia Progettuale 3.1 Come funziona una casa editrice 3.2 Creative Commons 3.3 3.3.1 3.3.2 3.3.3 3.3.4 3.3.5 3.3.6 3.4 3.4.1 3.4.2 3.4.3 3.4.4 3.4.5 3.4.6 3.4.7 3.4.8 3.4.9

Parte Do Trovare un nome Moodboard Roughs Trovare un logo atto III Il logo Applicazioni Prodotti di cui potevi fare Ameno A4 Holes Stats Animal Wall Mounts Animae XI:XXX Randoms Randoms' House of Cards Un sito da fare Ameno

3


4. Bibliografia e Sitografia 5. Indice 6. Thank You

456


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