SOMMARIO
Nessia Laniado PIZZA!
Storia, segreti, ricette © Idealibri, Via San Tomaso lO, Milano Edizione Euroclub Italia divisione della Cartiere del Garda S.pA su licenza di Idealibri prima edizione 1989 Fotografie in bianco e nero: p. 35, Alinari; p. 55, A. Tondini/Focus Team/AFE; p. 61, Marco Viganò da "L'Etichetta", anno 5 n. 1 p. 41; p. 63, Lorenzo Amato. L'illustrazione di p. 205 è dell'Archivio E. Castruccio, Milano. T utti i diritti sono riservati. È vietata la riproduzione di testi e illustrazioni senza il permesso scritto dell'Editore.
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PREMESSA PREFAZIONE PROLOGO PANE E PIZZA NEL SEGNO DI CERERE QUANDO SI TINGE DI ROSSO UN PIATTO DA RE PIZZAIOLI E PIZZERIE DA NAPOLI A TUTIO IL MONDO . LA PIZZA DIVENTA DOC COME SI FA LA PIZZA INGREDIENTI E VALORE ALIMENTARE LE RICETTE La ricetta per la pasta Le classiche Il calzone Le regionali Le creative Le abusive Le estere 130 PIZZERIE INTERESSANTI INDICE DELLE RICETTE BIBLIOGRAFIA
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PREMESSA
Dal momento in cui abbiamo deciso di pubblicare un libro sulla pizza, ci siamo posti il problema della persona cui affidare la prefazione: il solito gastronomo? un napoletano eminente? qualche attore ben conosciuto? Il caso ha risolto ilproblema facendoci pervenire l'appassionato racconto di un pizzaiolo che ha deciso di diventare libraio senza scrollarsi di dosso la sua passione primordiale. Ci è parsa una buona idea premettere questo scritto quale prefazione al nostro lavoro. Per una volta la strada è stata percorsa in modo inverso: non un intellettuale che si diletta con la pizza, ma un pizzaiolo che si occupa di libri. L'Editore
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PREFAZIONE
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La pizza è un 'idea, pazza; forse un sogno e dà la gioia.
Nella mia carriera di pizzaiolo ho preparato circa duecentomila pizze. Per imparare a fare una pizza a regola d'arte mi ci volle un anno sotto la tutela di Giggino Cannatiello, napoletano verace nato a Porta Capuana e "docente" presso la Pizzeria Del Drago a Milano. Ero arrivato a Milano all'età di sedici anni da Montescaglioso, in Basilicata. Assunto come cameriere presso un ristorante, mi trovai a fare l'aiuto pizzaiolo in sostituzione di un ragazzo assente per malattia. Da allora, per molti anni, quasi per predestinazione, non abbandonai ilbanco del pizzaiolo. Il maestro mi iniziò alla conoscenza del forno insegna ndomi a riconoscere dal colore più o meno scuro delle mattonelle le temperature all'interno della cupola. Presto acquistai abilità nel manovrare le pale, in particolare quella di legno, che deve entrare e uscire dal forno come la lingua nella bocca di un serpente senza diventare un tizzone atro. Con la pratica appresi a fermare la giusta tonalità di rosso, indice di buona cottura, sul bordo rigonfio della pasta. Un giorno, nel piegarmi a prelevare la legna sistemata nel vano sotto ilforno, persi l'equilibrio e mi aggrappai alla pala metallica, rovente. Ildolore fu pungente. E lo sconforto altrettanto acuto. Ma il maestro sorrideva: avevo avuto il battesimo del fuoco, al quale nessun pizza iolo può sottrarsi. Mi si awicinò e disse: "Oggi sei diventato fornaio professionista; domani proverai a fare la pizza". Mi buttai all'opera. Le mie mani si muovevano in modo scoordinato, stesi la pasta con fatica e approssimazione, a stento riuscii a condirla e a tirarla sulla pala per infornarla. Quando cercai di controlla me la cottura, si aprì un
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buco dal quale colarono pomodoro e mozzarella che, bruciati dai mattoni roventi, riempirono il forno di fumo. Tirai fuori un amalgama indecifrabile, bianco, rosso e nero. Per coerenza mangiai il tutto, ma ero awilito. Il maestro sorrise e mi incoraggiò a continuare. Dopo un anno, controllare che la pizza cuocesse omogeneamente, rigirandola, awicinandola e allontanandola dalla fiamma, spostandola nei punti più o meno caldi del forno secondo il bisogno divenne maestria; accendere il forno un'arte. Potevo esibirmi davanti agli occhi attoniti dei turisti giapponesi facendo volteggiare in alto i dischi di pasta e riacchiappandoli al volo. Ero un pizzaiolo professionista! Ilsogno di un pizzaiolo è di aprire una pizzeria in proprio. Per me è andata diversamente, ho aperto una libreria. La scelta può sembrare senza nesso. In realtà come pizzaiolo ero riuscito a soddisfare ilbisogno primario di mangiare, come libraio cerco di soddisfare l'altro mio bisogno, quello di conoscere. Un libro sulla pizza unisce le due esigenze: è un viaggio culturale e gastronomico attorno a un piatto che pur essendo "fast" gode di una prestigiosa tradizione storica e nasconde inenarrabili delizie. Parola di pizzaiolo e di libraio! Antonio Nobile Montescaglioso, aprile 1988
11 L'ERUZIONE DEL VESUVIO DEL 1822.
PROLOGO
Napule fa' tu.
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E I n p !etani l'hanno fatto. Hanno trasformato in fav I I più banale realtà. Hanno appagato l'elusivo socn di Pulcinella che sotto i morsi della fame vaneggiava di potersi mangiare, alla fine del pasto, anche il piatto. Per secoli i lazzari hanno vissuto accompagnati dall'assillo della fame, racimolando un' elemosina, accontentandosi dei rifiuti della pesca. Ma ilpiatto pareva avere la malaugurata capacità di rimanere sempre vuoto, spettralmente bianco. La realtà ha superato il sogno quando il I?iatto è esploso di sapori, profumi e colori. E la pizza. Un disponibile, consolatorio, meraviglioso antidoto che con un solo boccone fa dimenticare le angherie dei potenti. Il modo più fantastico per soprawivere senza dover ricorrere alla monotona e malinconica essenzialità del pane. Mangiare il piatto in cui si mangia. La felicità del sogno awerato ha contagiato il mondo, che al pari di Pulcinella esulta, si commuove, si delizia, si sazia 'nnanze 'stu piatto ch'è primmo, sicondo, ch'è terzo, ch'è frutta, ch'è tutto! ch'è cena, ch'è pranzo, ch'è culazione; 'stu piatto ch'è o piatto d"e ricche barone, d"a povera gente, d"e diavole e sante, d"e grande scienziate, artiste, studiente ... cantava Giuseppe Cicala, poeta napoletano del secolo scorso. Vale la pena di ritrovare la strada che ha portato a questo capolavoro gastronomico. Di ripercorrere i molteplici tentativi che nel corso dei secoli l'uomo ha compiuto per creare un alimento definito "lievito della vita," "pezzo di sole al tramonto" o, per dirla con Pietro Mascagni, "istituzione: la più nobile, la più geniale, la più degna di essere considerata". Perché la pizza, nella sua semplicità, nasconde intrigantissime raffinatezze. Solo un pane. Ma è un pane condito, arricchito, colorato, incivilito: un unico, universale piatto in grado di ospitare i sapori del desiderio.
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PANE E PIZZA
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La storia della pizza è intimamente intrecciata all'avventura della trasformazione del cereale in pane. Nell'antichissimo libro cinese dei Mutamenti, l'I Ching, si racconta ilpassaggio dalla caccia all'agricoltura nella storia dell'umanità: "Quando il clan dei cacciatori fu passato sorse il clan del Divino Agricoltore". Egli spaccò un legno a vomere e piegò un legno a stanga e insegnò agli uomini di tutto ilmondo ilvantaggio di aprire la terra con l'aratro per cibarsi dei frutti del cereale. Frumento e orzo nel Mediterraneo, grano saraceno nell'Africa settentrionale, avena nelle regioni scandinave, riso in Oriente, segala nei paesi anglosassoni. La coltivazione dei cereali apparve quasi contemporaneamente tra tutti i popoli della terra. Da tutti vennero prescelti per essere la base dell'alimentazione dell'uomo. Da tutti, infine, vennero cotti o impastati in acqua salata, l'acqua del mare da cui è sorta la vita. In origine i chicchi venivano abbrustoliti su pietre roventi, ma il risultato non era entusiasmante. Qualcuno pensò allora di macinarli e di preparare con la farina così ottenuta un miscuglio che benevolmente si può descrivere come pane, ma che in realtà era una austera polentina. Per secoli, forse millenni, il porridge di cereali abbrustoliti, seguito da focacce di farina d'orzo e di frumento, rimase la massima espressione della gastronomia neolitica. Finché, sei mila anni orsono, in Egitto non ci si accorse che l'impasto di farina e acqua a volte veniva invaso da forze misteriose che lo facevano gonfiare. Fu così che gli egizi, scoperta la lievitazione, divennero primi panificatori dell'umanità. Subito cercarono di cuocere il pane con mezzi più adeguati delle arcaiche pietre roventi. Tentarono con larghi dischi di coccio, ma l'urgenza di aumentare la produzione richiese l'impiego di superfici ancora più ampie. Si legge, nei codici egizi, di un faraone che si lamentava del ca-
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po panificatore: aveva immagazzinato nei depositi soltanto 114.094 pani. I! piatto di coccio si trasformò in cono. AI suo interno si accendeva il fuoco mentre sulla parete esterna venivano disposti i pani, che necessariamente dovevano essere piatti e sottili per potervi aderire. Quando cadevano dalla parete del forno erano cotti da una parte: venivano allora raccolti e risistemati sul forno per ultimare la cottura. I! procedimento venne presto considerato inadeguato anche per i modesti standard igienici dell'antichità. L'idea del forno conico era però difficile da abbandonare. Si decise di rovesciare la base del cono: il fuoco fu applicato tutt'intorno e il pane venne disposto sulle pareti interne. Sorgeva a questo punto un altro problema: come recuperare il pane dal forno. Le difficoltà del meccanismo vengono rilevate in un papiro di Ramsete III:"I! fornaio inforna con la testa nel forno e intanto un suo figliolo lo tiene per le gambe. Guai se gli dovesse sfuggire di mano: il fornaio cadrebbe sulle pietre roventi". Nonostante questi problemi di stdtica, gli egizi divennero esperti panificatori. Se agli inizi era impossibile differenziare il pane dalle focacce, in epoche più tarde la distin-
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zi ne divenne un fatto acquisito: sedicimila pani buoni, tredicimila pani mediocri e quattrocento focacce erano il fabbisogno quotidiano di una città, secondo quanto ci è stato tramandato dallo scrittore egizio Eunanu. Nel 240 avanti Cristo si conoscevano oltre cinquanta varietà di pane, dolce, salato, al latte, all'olio, al miele, all'anice, all'uovo ...:tutti sono descritti in quello che viene considerato il primo trattato teorico sulla panificazione, redatto dal gr co Cri ippo di Thiana. Ma non ovunque si eran r iunti i livelli di greci ed egizi. l r mani, che pure avevano conquistato il mondo, quando i greci vennero tradotti a Roma come schiavi si accontentavano ancora di una frugale polenta di grano spezzato chiamata pulso Furono gli schiavi greci a impiantare nella capitale dell'impero una solida industria panificatrice, e dovette trascorrere molto tempo prima che i romani imparassero a differenziare la primitiva polentina di farina e acqua da pani, focacce, schiacciati ne, piadine. Di queste prime focacce, che stanno alla pizza come la plastilina modellata da un bambino sta alla creta dell'arti.sta, è rimasta( traccia in alcuni piatti. Nell'Appennino tosco-emiliano si preparano le tigelle, focacce di farina di frumento che derivano il nome dai dischi di argilla su cui venivano cotte. Parenti delle tigelle sono la yufka turca, la taguella dei tuareg, spesso a base di miglio, la burgutta eritrea. Gli indiani cucinano il chapati, un pane composto di farina integrale, sale e acqua. Viene impastato, lasciato riposare per mezz'ora, quindi cotto senza aggiunta di grassi sul tawa, una pentola che di norma viene usata con il lato convesso all'insù. Questa almeno è l'usanza più antica, che richiama la tradizione dell'arcaico forno egizio ma che, per inevitabili contrapposizioni etniche, non viene seguita dagli indiani musulmani, i quali usano il tawa con il lato convesso rivolto verso il basso. Un metodo di cottura pressoché identico a quello dei fornai egizi è tuttora praticato dai nomadi dell'Iran. Il loro pane sottile viene gettato in un forno ottenuto con un foro rotondo sca~ato nella pietra, che di volta in volta viene reso incandescente. Ad altre latitudini si trovano il banik degli esquimesi, una focaccia lievitata condita con grasso
di foca, o l'hannock degli scozzesi. Ma si può affermare che questi pani siano i progenitori dell'attuale pizza? C'è chi sostiene con uguale ragione che siano invece i padri della pastasciutta, e citano i testaroli lunigiani, larghi dischi di pasta di pane stesa sui testi (dal latino testum, coccio), tagliati quindi in forma di tagliatelle, cotti in acqua bollente e conditi con olio profumato e formaggio. Che cosa allora distingue la vera pizza dalla pletora di pani, paste e focacce che si incontrano in ogni angolo dell'universo gastronomico? Solo tre caratteristiche, fondamentali. La pizza deve essere di pasta lievitata. Deve essere condita solo sulla superficie e non nell'impasto. Deve essere cotta con tempi rapidissimi in un forno di temperatura molto elevata, meglio se con fuoco di trucioli e fascine di legna. Fatte queste premesse, è inevitabile che ci si limiti a raccontare esclusivamente la storia di una pizza: la napoletana, l'unica ad avere conquistato il mondo intero.
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NEL SEGNO DI CERERE
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"La pizza nacque a Eleusi" proclamò nel 196 7 dalle pagine del Rievocatore, periodico di cultura partenopea, Michele D'Avino, grecista e latinista di Portici. A Eleusi i greci celebravano Demetra, la Cerere dei romani, dea delle messi e del raccolto, simbolo di fecondità per la terra e principio di vita per gli uomini. Secondo il mito, Demetra giunse a Eleusi folle di disperazione per il rapimento della figlia Persefone andata in sposa al dio degli Inferi. Il silenzioso lutto della Grande Madre portò sulla terra carestia, morte, siccità. Zeus le restituì allora la figlia per sei mesi all'anno. E da allora, ogni anno, in primavera, con il ritorno di Persefone, torna la vita sulla terra. Nel tempio di Eleusi i greci rivivevano con riti segreti e iniziatici il ciclo della morte e della rigenerazione: erano i Misteri di Demetra, cui potevano accedere solo gli iniziati e di cui mai nessuno osò rivelare gli arcani. Ma il professor D'Avino non si arrende di fronte a questo muro di silenzio. Riferendosi a una lapide ritrovata nel monastero di Santa Maria Egiziaca a Forcella, dove si nomina una Tettia Casta Sacerdotessa di Cerere che offre alla dea "farina con acqua e frangente puleggio", tira la sua conclusione, lapalissiana: farina con acqua è la pasta per pizza, puleggio è il basilico: ecco la prima ricetta originale. Non tutti apprezzano l'entusiasmo del professore partenopeo; molti però ne condividono l'impegno nel trovare ascendenze auliche alla pizza. "A Pompei in Via dell'Abbondanza", scrive Roberto Minervini, "qualche bottega richiama al ricordo le nostre antiche e caratteristiche pizzerie con mensolette di pietra e gradinate per deporvi, tra l'altro, le scodelle del cacio e la cuccuma dell'olio, alias 'o pizzo'e ll'uoglio"'. A sua volta, l'archeologo Amedeo Maiuri non ha esitato a battezzare una statuetta pompeiana del Museo Nazionale di Napoli "il pizz i I "p r il LI P rti I r t1' i m nt . N n
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PERSEFONE
E IL DIO DEGLI INFERI; BASSORILIEVO REGGIO CALABRIA, MUSEO NAZIONALE.
DA LOCRI.
da escludere che in queste attribuzioni i due studiosi si siano fatti influenzare dal fatto di trovarsi in quella che nel corso dei secoli sarebbe diventata la patria della pizza. C'è allora chi, per cercare di stabilire le vere origini della pizza napoletana, si affida all'imparzialità dell' etimologia. Gaetano Valeriani, divulgatore di antichi usi e costumi napoletani, propende per un'origine ellenica e si riferisce al vocabolo greco pitta, che significa schiacciata o focaccia. Il dizionario del Galiani fa derivare pizza dal latino pistus, matterello per spianare, mentre D'Avino imbocca un t rz trad p r Il r I pizz I m nd I i I V dil ri li izz<1 (l N,1P ,Iì (' I ( 111/) 'i V 'nìv( Il hi nlt li
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placentari. Dal termine greco plax deriva il termine placenta, che significa superficie piana, schiacciata. Placentari, è la tesi del D'Avino, non potevano certamente essere, nell'antichità, i venditori di pane, che come mostrano le teche di Pompei e del Museo di Napoli si presentava invece alto e tozzo: erano dunque, già nel mondo classico, i venditori di pizza. Divagazioni cervellotiche. Per Alberto Cunsolo, siciliano, la pizza non ha nulla a che vedere con romani, greci o campani: sono gli arabi a importarla nel Meridione. Ciò spiegherebbe il primitivo modo di prepararla, intridendo la farina soltanto di acqua, senza alcun grasso, che è la maniera tipica dei nomadi di approntare le focacce. Il nome, poi, non avrebbe valenze elleniche né latine, ma solo un'umile origine onomatopeica. Pits farebbe la pizza nel momento in cui viene staccata dalla spianatoia, e pitta gli arabi chiamano il loro pane tondo e piatto. Da pits a pizza il passo, foneticamente parlando, è breve ma non convincente, se è vero che c'è chi non accetta neppure una lontana parentela tra la pizza e il pane del nomade arabo. G. Princi Braccini sembra aver trovato la spiegazione definitiva. Nell'articolo Etimo germanico e itinerario italiano di Pizza apparso negli Archivi di Glottologia Italiani sostiene che pizza non sia altro che "l'equivalente nel germanico d'Italia (gotico e/o longobardico) dell'antico alto tedesco blzzo-plzzo (tedesco moderno Bissen) documentato nelle accezioni di 'morso', 'boccone', 'pezzo', 'pezzo di pane', 'forma di pane', 'focaccia"'. Dove nasce Forse queste ipotesi fantasiose nascondono una verità e un messaggio: è inutile ricercare per quali vie la pizza sia arrivata a Napoli, se attraverso etruschi, latini, greci, arabi o tedeschi. Resta ilfatto che a Napoli ha trovato ilterreno dove fiorire e offrirsi a una tradizione di alimenti poveri ma essenziali, da consumare di vicolo in vicolo. E tengo caure, caure e pizze! E tengo c' '0 fungetiello e cu' 'alice! E bide sòreta che dice! Sòreta dice: E magnatela 'a pizza c'o fungetiello e alice!
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Così gridavano fino a non molti anni fa i pizzaioli ambulanti su e giù per le strade intorno al porto, contribuendo a fare della pizza la Signora di Napoli, interprete dei desideri più saporiti di guaglioni e lazzaroni. I lazzaroni, dallo spagnolo ldzaro, cencioso, povero come San Lazzaro, non erano semplicemente lumpen Proletariat: oltre alla miseria avevano uno stile di vita e una filosofia che sconcertavano e affascinavano gli osservatori stranieri. "Certo non si può dire che lavorino con l'impegno di un taglialegna tedesco. Ma perché dovrebbero farlo?", si domandava l'onesto Carl August Mayer, figlio esemplare delle calviniste e laboriose contrade nordiche: "gli abiti sono sufficienti dato il clima; il letto, sia esso un gradino o una panca, li soddisfa; gli scarsi guadagni bastano loro non solo per nutrirsi, perché sono sobri e non bevono, ma anche per divertirsi entro limiti molto modesti", il che consisteva principalmente nel consumare spaghetti e pizze. "È vero, infatti", scrive Matilde Serao nel Ventre di Napoli: "la pizza rientra nella larga categoria dei commestibili che costano un soldo, e di cui è formata la colazione, o il pranzo, di moltissima parte del popolo napoletano". Sessantamila lazzaroni che giornalmente divoravano pizza e spaghetti costituivano una solida base per !'industria locale e una enorme attrattiva turistica per i viaggiatori dell'Ottocento, che ritornavano a Londra, Parigi e Monaco portando !'immagine del maccheronaro, del ladruncolo, del pizzaiuolo, personaggi esclusivamente napoletani. Fino a non molto tempo fa, infatti, pizzaiuolo era un termine dialettale. "Salvatore di Giacomo", scriveva nel 1961 E. Renuzzi in Una lingua per gli italiani, "lo metteva in corsivo e usava la forma 'pizzaria', alla napoletana". Da pochi decenni pizza e pizzaiuoli sono diventati universali. A farli conoscere al mondo, insieme agli spaghetti, fu un altro protagonista, che con buona pace di filologi, etnologi, professori e sabotatori fu, questo sì, "inventato" a Napoli: il pomodoro.
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QUANDO SI TINGE DI ROSSO
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Quando giunse dalle Americhe in Europa, nel XVI secolo, il pomodoro non ebbe certo accoglienze trionfali. Era sospettato di legami pericolosi. Membro della poco simpatica famiglia botanica delle solanacee, visse per molto tempo imbarazzato dalla cattiva nomea dei suoi velenosi parenti: tabacco, mandragola e belladonna. La stessa sorte avevano subIto le altre solanacee. La forma selvatica della melanzana, infatti, per la sua somiglianza con la mandragola aveva già indotto gli studiosi a chiamarla mala insana. A sua volta la patata, ancora nel Settecento, veniva considerata adatta solo a "un gusto crudo e uno stomaco di cuoio"; mentre il peperone era sdegnosamente relegato al ruolo infimo e negletto di "rustico volgar cibo". Il pomodoro, significativamente, era stato chiamato dai botanici Lycopersicum, "pesca da lupi", portatore di veleno e infamia, e ancora nel 1585, quando venne pubblicato a Roma l'Herbario del Durante, viene descritto con distratta approssimazione come "una specie di melanzana". I testi di cucina del Cinquecento e del Seicento non lo nominano e fu solo nel Settecento che gli studiosi aggiunsero al selvaggio Lycopersicum l'aggettivo più innocente e casalingo di escu/endum, mangereccio. Fin allora, per secoli, sulle tavole dei potenti le vivande venivano servite con salse e condimenti a base di cannella, zucchero, diluvi di pepe, zenzero, ginepro, zafferano, garofano, noce moscata, aglio, aceto, mostarda di frutta combinati in modo tale da rendere difficilmente definibile il confine tra il dolce e il salato. Carni arrostite, torte, pasticci venivano associati ai sapori più eterogenei e presentati con decorazioni, trofei e dorature che dimostravano come valesse più la quantità di aromi e spezie introdotta in un piatto che non il loro matrimonio. Faticosamente il Medioevo ebbe fine anche in cucina. Si
recuperarono i sapori naturali accostando con più accuratezza gli alimenti. La gastronomia iniziò a essere considerata come una scienza vicina alla chimica, dove il miscuglio non è la vera combinazione. Il dolce e il salato si separarono, le spezie vennero usate con maggior criterio, i piatti si semplificarono, anche se per i più la base dell'alimentazione restò sempre la stessa: pochi cereali accostati a poche verdure. Cominciarono a essere ricordati con orrore" i cibi solidi e duri, i condimenti grossolani, l'unione di cose ripugnanti e strane, le bizzarie non ordinarie di cervello" (dalla prefazione al Cuoco Galante, 1773) che avevano costituito la cucina del passato. Si capì finalmente che l'arte non consiste nel far violenza alla natura delle cose snaturandole, ma anzi nel farla signoreggiare associandola a compagnie convenienti. La forza distruttrice delle spezie d'Oriente venne dosata e sostituita da nuovi frutti capaci di modificare, conciliare, associare, legare naturalmente i sapori. Il Cuoco Galante di Vincenzo Corrado, edito a Napoli, così recita: "I pomi d'oro sono di piacere. Per servirli bisogna prima rotolarli sulle braci o per poco metterli nell'acqua bollente per toglierii la pelle. Se litolgano i semi o dividendoli per metà, oppure facendoli una buca". Dopo di che vengono consigliati farciti al vitello, al burro o alle erbette, al riso o alla corradina, al pesce, alla salsa di tartufi, in crocchette, in frittelle, in budino o alla napoletana. Ma quest'ultima non è, come si sarebbe portati a pensare, la ricetta della "pommarola", bensì una variante di pomodori al forno. Il pomodoro sta iniziando la sua ascesa ma non è considerato il condimento dominante, se è vero che, ancora nel 1835, Alessandro Dumas scrive nel suo Curricolo: "La pizza è all'olio, al lardo, alla sugna, al formaggio, al pomodoro, ai pesciolini". Vent'anni dopo, in Usi e Costumi di Napoli e Contorni del De Boucard, si confermeranno le impressioni del romanziere gastronomo: "Le pizze più ordinarie, dette con l'aglio e con l'olio, hanno per condimento l'olio, e sopra vi si sparge oltre il sale, l'origano e spicchi d'aglio tritati minutamente, sopra qualche foglia di basilico. Alle prime spesso si aggiunge del pesce minuto, alle seconde delle sottili fette di mozzarella. Talvolta si
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sciavano fare; ma il popolo arguto lo aveva battezzato Don Pomodoro, per indicare che i pomodori entrano per tutto; quindi una buona salsa di questo frutto sarà per la cucina un aiuto pregevole". Non si sa chi per primo avesse sposato la pizza con il pomodoro: come spesso nei matrimoni d'amore, tutto avvenne alla chetichella, senza un grande cuoco che celebrasse il rito né un illustre studioso che ne promuovesse l'incontro. A poco a poco esenza dare nell'occhio, si iniziò ad associare il pomodoro a paste e pizze finché un giorno qualcuno cominciò a chiedersi perché mai ilpomodoro apparisse trionfante in ogni cucina. Le supposizioni più varie furono azzardate senza risparmio, le teorie più elaborate furono avanzate dai ricercatori più agguerriti, ma la spiegazione più bizzarra venne data dal chiarissimo professor Rognoni che, nella Coltivazione del pomodoro nella provincia di Parma, fece. luce su un particolare fin allora sfuggito alla considerazione di tutti, e cioè che ilpomodoro per la sua peculiarità di dare lavoro da aprile a settembre a donne, vecchi e fanciulli, un lavoro - precisa lo studioso - che si può dire continuo ma non faticoso, va esaltato per le sue "benemerenze" morali e sociali. Se a questa commendevole spiegazione aggiungiamo il motto di Brillat-Savarin, uno dei più grandi luminari della gastronomia, "la scoperta di un nuovo piatto rende più felice il genere umano della scoperta di una n\)ova stella", allora il pomodoro merita l'apoteosi. Perché grazie a esso di piatti ne furono scoperti non uno ma migliaia: basti per tutti la pizza Margherita.
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fa uso di prosciutto affettato, di pomodoro, di arselle, eccetera. Talora, ripiegando la pasta su di se stessa, se ne forma quel che chiamasi calzone". Fu tardi, solo alla fine dell'Ottocento che ilpomodoro entrò a dominare trionfalmente sul tricolore gastronomico. Lo dimostra l'Artusi (1891) quando cita l'aneddoto di quel prete di una città di Romagna che cacciava il naso dappertutto volendo mettere lo zampino in ogni affare domestico delle famiglie: "era, d'altra parte, un onest'uomo, e poiché dal suo zelo scaturiva più bene che male, lo la-
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UN PIATTO DA RE
Tebe dalle sette porte chi la costruì?
Ci sono i nomi dei re dentro i libri. Sono stati i re a strascicarli quei blocchi di pietra?
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Forse è lecito applicare i versi di Bertolt Brecht anche a quel capolavoro di gastronomia anonima e popolare che è la pizza. Fu urhe a introdurre la pizza sui tavoli dei ceti elevati; fu un altro re a consacrarne il prestigio; e fu una regina a regalare ilproprio nome alla più celebre di tutte le pizze, la Margherita. Quando entrò nei palazzi reali, la pizza a Napoli esisteva da tempo. "Era - come si racconta in Usi e costumi di Napoli e Contorni del De Boucard - ilsecondo piatto nazionale di Partenope", il primo essendo gli spaghetti. Questi si mangiavano nei giorni di festa, mentre la pizza era il piatto di tutti i giorni, un piatto unico, totale, che aveva al tempo stesso la monotonia dei cibi essenziali e l'inesauribile varietà di sapori e combinazioni che la fantasia popolare riusciva a conferirgli. Ecco la storia della sua ascesa al trono, così come gli scarni frammenti delle cronache ci permettono di ricostruirla. Si narra che nel 1762 Ferdinando di Borbone, sovrano a Napoli dal 1751 al 1825, avesse violato le regole dell'etichetta entrando inaspettatamente nella pizzeria di Antonio Testa, detto 'Ntuono, che aveva bottega alla salita Santa Teresa. Volle assaggiare le diverse varietà di quel piatto che tanto piaceva al suo popolo, e poco dopo, tornato a corte, lo descrisse con ispirate parole. La notizia si diffuse fulmineamente in tutta la città: il re si era degnato di entrare in una delle più umili botteghe di Napoli. Molti nobiluomini e nobildonne si affrettarono a imitarlo e fu così che la bottega di AntonioTesta divenne un locale alla moda. 'Ntuono sgombrò i lazzaroni delle pizze da du centesimi per accogliere i gran signori. Ma la regin , M .
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LA REGINA MARGHERITA DI SAVOIA, ALLA QUALE È STATA DEDICATA LA PIZZA PiÙ RICHIESTA, LA MARGHERITA.
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ria Carolina d'Asburgo, non condivideva il generale entusiasmo e mai permise che nella reggia entrassero piatti plebei. Ferdinando di Borbone si piegò al volere della consorte, adattandosi a frequentare le taverne per poter mangiare la pizza. L'insicurezza del suo carattere, confermata da questo episodio, è stata fotografata nella storia dall'incertezza del suo nome. Ferdinando è infatti citato nelle cronache come Ferdinando I in qualità di re delle Due Sicilie, Ferdinando IV in qualità di re di Napoli e Ferdinando IIIin qualità di re di Sicilia: tale garbuglio rende perdonabile la confusione sulla sua precisa attribuzione numerica in cui molti autori incorrono. Ilsuo successore, Ferdinando II,non ebbe invece alcun ritegno nel manifestare la predilezione per i piatti del suo popolo. "A Ferdinando II, napoletano in tutto - narra il De Cesare nella Fine di un regno - piacevano quei cibi grossolani dei quali i napoletani sono ghiotti: il baccalà, il soffritto, la mozzarella, le pizze e i vermicelli al pomodoro". Al contrario del suo predecessore, piuttosto che rinunciare alle proprie propensioni costrinse gli altri ad adattarvisi. Iniziò con i vermicelli. A quel tempo gli operai napoletani, per formare l'impasto degli spaghetti, pestavano con i piedi la semola e l'acqua. Il re, mal sopportando che i vermicelli si preparassero con i piedi e si mangiassero con le mani, convocò ilsuo consigliere Gennaro Spadaccini, Cavaliere dell'Ordine Costantiniano di San Giorgio, e gli affidò due compiti delicati: inventare un modo più igienico per fabbricare spaghetti e un modo più adeguato alle bocche reali per mangiarli. Dopo lunghe ricerche lo Spadaccini riuscì a presentare al sovrano un "onesto progetto per un novello e grande stabilimento di pasta con l'uomo di bronzo, per togliere l'uso abominevole di impastare con i piedi". Dopo l'entusiasmo iniziale i fondi della cassa reale si esaurirono: l'uomo di bronzo rimase fermo e gli operai napoletani continuarono fino agli albori del Novecento a servirsi dei piedi per fare la pasta. Il secondo compito venne invece risolto brillantemente. Molti sostengono infatti che fu Spadaccini a inv nt r I moderna forchetta a quattro punt, p di ff rr r
gli imprendibili vermicelli al sugo in quanto più corta ed agguerrita della forchetta allora in voga, a tre punte lunghe e affilate, che si usava per servirsi delle carni. Per la pizza le difficoltà furono infinitamente minori. Nel 1832 Ferdinando II fece costruire a Domenico Testa, figlio del grande 'Ntuono, un forno per pizze nel parco della reggia di Capodimonte, accanto ai magnifici forni costruiti dagli Asburgo per la cottura delle ceramiche. Da allora nei giardini di Caserta si potè mangiare con le mani la "volgare pietanza", piegata in quattro come facevano i lazzaroni, giacché, a differenza degli spaghetti, per la pizza la forchetta non venne mai definita d'obbligo. Con l'awento dell'unità d'Italia la benevolenza reale per i pizzaioli non subì flessioni. Quando Umberto I e la regina Margherita, in visita a Napoli, mandarono a chiamare il pizzaiolo Raffaele Esposito, detto Naso 'e cane, non erano motivati unicamente da ragioni gastronomiche. Prestandosi a gustare i prodotti tipici dei napoletani, i sovrani venuti dal nord avrebbero certamente registrato una impennata nei loro indici di gradimento presso la popolazione. Don Raffaele non stette a soppesare ragioni di opportunità politica, subito saltò sul calesse e corse alla reggia con la moglie R6sina Brandi. La regina assaggiò le varie pizze preparate da don Raffaele e, dichiarando di apprezzare soprattutto quella guarnita con la mozzarella, diede ordine di mandargli una lettera sormontata dallo stemma sabaudo: "Casa di Sua Maestà - Ispezione Ufficio di Bocca - Capodimonte, Giugno 1889. Pregiatissimo Signor Raffaele Esposito, Napoli. Le confermo che le tre qualità di pizze da Lei confezionate per Sua Maestà le Regina vennero trovate buonissime. Mi creda di Lei devotissimo Galli Camillo, Capo dei Servizi di Tavola della Real Casa." Queste tre righe di riconoscimento entusiasmarono ilpizzaiolo, che da quel giorno dedicò la sua pizza con la mozzarella alla regina, chiamandola Margherita. Le altre due pizze, sugna formaggio e basilico l'una, aglio olio e pomodoro l'altra, non entrarono nella storia se non it lli I n tr viv r qu in qu Il ign t h f mi
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PIZZAIOLI E PIZZERIE
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Chieiarsela a libretto: letteralmente "piegarsela a libretto", in senso traslato "sopportare e svignarsela". L'espressione avrebbe avuto origine ai tempi della dominazione spagnola a Napoli. I soldati spagnoli che stazionavano presso la Taverna del Cerriglio difficilmente restavano indifferenti di fronte alle profumate seduzioni delle pizze sfornate in quel locale. Ma l'indulgenza alla gola comportava un rischio: ai napoletani non piacevano quegli sbirri sempre affaccendati a riscuotere tasse o ammanettare onorati professionisti dell'arte di arrangiarsi. Per conciliare le esigenze del palato con quelle della sopravvivenza gli spagnoli introdussero il costume di mangiare velocemente la pizza in piedi, piegata come un libro, con un occhio attento a schivare la traditrice coltellata alla schiena. Si era nel XVII secolo, e questo frammento di cronaca ci assicura che a quel tempo la pizza veniva ancora preparata nelle taverne. Solo con iltrascorrere degli anni e l'aumento di popolarità della pizza si crearono i locali esclusivamente dediti alla sua preparazione. Qualcuno insiste nel voler dimostrare che autentiche pizzerie esistevano già al tempo dei romani, ma sono forzature volute per confermare l'inconfutabilità dell'origine napoletana della pizza. Forse è più saggio sostenere che le pizzerie, come la pizza, non abbiano una precisa data di nascita e che piuttosto siano cresciute sul secolare albero delle osterie e delle taverne finendo con inglobarle e trasformarle. Vincenzo Rovi, studioso di cose napoletane, afferma che la più antica pizzeria sia quella di Zi' Ciccia, creata agli inizi del Settecento nello slargo che si chiamò poi piazza Cavour. C'è chi indica in Antonio Testa il fondatore, nell'Ottocento, della prima pizzeria alla salita di Santa Teresa al Museo, e chi invece individua nel locale di Port'AIba il prototipo di tutte le pizzerie che ai primi dell'Otto-
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cento proliferarono nel triangolo compreso tra piazza Cavour, il Conservatorio e quella lunga via che taglia Napoli a metà meritandosi il nome di Spaccanapoli. Certo è che nella prima metà dell'Ottocento le pizzerie, intese come locali autonomi che servono soprattutto pizze, erano molte diffuse e già erano entrate a far parte del costume locale. Nel romanzo Ciccia, ilpizzaiolo di Borgo Loreto di Francesco Mastriani, pubblicato nel 1886 ma ambientato nella Napoli di cinquant'anni prima, si rive-
lano le astuzie dei nuovi ristoratori: "Il pizzaiolo è tutto occupato a battere e spalmare pasta, facendo quel rumore che è proprio dei pizzaioli e che essi rendono il più sonoro che possono per mostrare che il loro locale è frequentato da mane a sera e che la pasta non riposa un istante sul bancone". La leggenda tramanda i nomi dei grandi maestri: Pappone, Gigino acino 'e pepe, Vicienzo '0 pacchiano, Raffaele machiulel/a, Ciccillo '0 pazzariel/o. E, come in tutte le epopee, si ricordano le grandi famiglie: i Condurro, i Testa, i Brandi, i Pace, che ebbero in Ciro un audace innovatore. A lui viene concordemente attribuita l'invenzione della pizza giardinetta o a quattro strati, più conosciuta come la quattro stagioni. Per quei tempi fu un'invenzione geniale: permetteva di conciliare i diversi gusti di una famiglia che difficilmente si poteva permettere di acquistare più di una pizza. P'otto solde solamente
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Pe' 'na mamma è nu piacere; quando 'a sparte, fa accusÌ: 'A nennel/a cu' 'a pummarola '0 nennillo cu '0 ceceniel/o '0 cchiù gruosso cu 'o funcetiel/o l/'atu riesto s' 'o vede mammà. In tempi viziati dall'abbondanza i versi entusiastici di Giovanni Capurro possono far sorridere. Non così a Napoli, dove per decenni la pizza fu, come scrive Mario Stefanile, "cibo per poveri, pietanza per frettolosi, alimento per vagabondi; vivanda da piegarsi in quattro appena uscita caldissima e fumante da un fiammeggiante forno di arbusti e da mangiare così, magari in piedi e magari in un angolo di strada, sotto gli occhi di tutti". Contraddizioni dell'economia della miseria. Chi ha la dispensa stabilmente vuota non si mette neppure a cucinare, gli mancano gli ingredienti essenziali: olio, farina, sale. Soprawive giorno per giorno aggrappandosi alla zattera di salvezza di un cibo già pronto e a poco prezzo in cui spende i pochi spiccioli racimolati a stento dopo una giornata trascorsa a "faticare".
Dalle pizzerie stabili una rete di venditori ambulanti raggiungevano gli angoli più oscuri dei vicoli per offrire a tutti la possibilità di garantirsi il pasto quotidiano. "Il pizzaiolo che ha bottega" racconta Matilde Serao nel Ventre di Napoli, "nella notte fa un gran numero di queste schiacciate rotonde, di una pasta densa, che si brucia ma non si cuoce, cariche di pomidoro quasi crudo, di aglio, di pepe, di origano: queste pizze in tanti settori da un soldo, sono affidate a un garzone, che le va a vendere in qualche angolo di strada, sovra un banchetto ambulante e lì resta quasi tutto il giorno, con questi settori di pizza che si gelano al freddo, che si ingialliscono al sole, mangiati dalle mosche. Vi sono anche delle fette di due centesimi, pei bimbi che vanno a scuola; quando la prowigione è finita, il pizzaiuolo la rifornisce, sino a notte. Vi sono anche, per la notte, dei garzoni che portano sulla testa un grande scudo convesso di stagno, entro cui stanno queste fette di pizza e girano pei vicoli e danno un grido speciale, dicendo che la pizza l'hanno col pomidoro e con l'aglio, con la muzzarella e con le alici salate. Le povere donne sedute sullo scalino del basso, ne comprano e cenano, cioè pranzano, con questo soldo di pizza." Cheste songo 'e sotto 'o Vesuvio! Ne' 'è scurrita 'à lava 'e ll'uoglio! V'aggio fatto 'e pastiere! Ches~~ so' meglie 'chel/e d'ajere! Se l'ha magnata pure 'o cavaliere! 'A tengo càvera e chien'alice 'a pizza!
Brioscia! Brioscia! Mozzeca 'mponta! Na bbona marenna! Magnateve 'a brioscia! Erano le "voci" napoletane, "la tenera malinconia del vespro, la tristezza della notte, la letizia del solleone, la catena di piccole cose da sistemare fra ora e ora della propria giornata", scrive Mario Stefanile. "Una 'voce' gentile di venditore s'alternava a una 'voce' scialata altissima e rombante che la seguiva: e Napoli viveva al di là della barriera del silenzio, aperta in un suo linguaggio elementare e immediato che diventava canto, si faceva poesia e dolo-
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re, speranza, amore e incantesimo. Napoli visse delle 'voci' dei suoi venditori fin che credette alla logica metafisica della vita, alla forza del simbolo, dell'allusione, fin che mutava in metafore canore i suoi sentimenti e i suoi istinti, il gioco difficile di vivere da gran signori in una terra povera e avara". Jammo, jà, acalate '0 panaro, ca 'e tengo càvere, càvere 'e pizze! Vullente! Vullente! So' cu' ll'uoglio e 'a pummarola! 'E tengo pure cu' 'e cecenielle! Magnate!
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Così gridava Vicienzo '0 pacchiano, uno dei venditori più popolari, fermo all'imbocco del vicolo dopo aver attratto tutte le donne alle finestre con il suono spiritato della sua ocarina. Spesso, anziché vullente (bollenti) le pizze erano gelide. In quei casi c'era uno sconto: per un soldo si dava 'a mamma e 'a figlia, una fetta grande con l'aggiunta di una fettina più sottile. Le pizze seguivano, come i titoli in borsa, le fluttuazioni del mercato. Se la pizza 'a cecenielli (minuscole alici) scendeva di prezzo era segno che la pesca era stata abbondante; quando la pizza all'olio costava un grano, voleva dire che il raccolto delle olive non era stato esuberante. A chi non possedeva neppure la modesta somma necessaria per assicurarsi la pizza venivano concesse varie forme di credito. Ad esempio si faceva credito fino al giorno dell'uscita dei numeri del lotto, nella in'~onsulta speranza che qualcuno del quartiere vincesse per poter pagare la pizza a tutti. Oppure, in attesa della paga settimanale, si dava la pizza 'ogge a otto, cioè la pizza che viene mangiata oggi (non, come scrisse Alessandro Dumas, preparata otto giorni prima) e pagata fra una settimana segnando su un libretto bisunto il nome dell'acquirente. Succedeva che il napoletano ogni giorno l11angiava una pizza e ogni giorno ne pagava una, ma non pagava quella mangiata in giornata, bensì quella mangiata una settimana prima. Il debito diventava eterno e il pizzaiolo prosperava. "Queste pizze", scrive Giuseppe Marotta, "gonfie di fondente ricotta e non prive di qualche truciolo di prosciutto, si pagano soltanto fra otto giorni. Rendetevi conto che ciò stimola e incoraggia il consumatore. Molte cose pos-
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sono succedere in otto giorni, non esclusa la morte, senza eredi, dello stesso rosticciere; per questo e per altre ragioni, non dissociabili dal cielo e dalle pietre di Napoli, succede che stomachi di infima capacità per gli alimenti pagati alla consegna risultino in grado di contenere un impressionante numero di pizze dilazionate." Ormai la pizza ogge 'a otto è scomparsa, sia come forma di r dito, sia come specialità culinaria. Vero anello tra la pizza e il fritto misto, non c'è più nessuno che la propone rimane solo nel ricordo di alcuni anziani awentori. 'e vuote tengo tanta nustalgia 'a pizza fritta, 'a pizza a ogge 'a otto. Cu dcole, ricotta e muzzarella - robba senza magagna ndurata, quanno asceva d' 'a tiella abbuffata, pareva na muntagna!
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Nemmeno c'è più posto per il venditore ambulante. Da decenni quell'ornino si è slacciato il grembiulone, ha confinato tavolino, stufa, cestino, paletta e coltello in soffitta ed è scomparso nella folla dei fantasmi del tempo. Sono rimaste le pizzerie. Ma anche queste hanno subìto l'inevitabile trasformazione degli anni. Una accurata descrizione delle pizzerie ottocentesche ci è stata lasciata da Emmanuele Rocco, filologo e memorialista, in Usi e Costumi di Napoli e Contorni del De Boucard, nel 1853. "La bottega del pizzaiuolo si compone di un banco su cui si manipolano le pizze, sormontato da una specie di scaffale ove sono in mostra i commestibili, e ingombro di vasi contenenti sale, formaggio grattugiato, origano, pezzetti di aglio ecc., di una serie altresì più o meno estesa di camerini nei quali si mangia e che spesso hanno l'accompagnamento di una camera superiore dove si sta con più libertà; e di un forno sempre acceso che mai non sazia la bramosa bocca. Oltre alle pizze, vi si può mangiare tutto ciò che può essere messo in una tegghia o in un tegame e cotto nel forno. Ogni bottega ha i suoi posti avanzati, cioè dei venditori di piccole pizze di un grano o di grosse pizze tagliate in più pezzi sopra tavolini leggerissimi con cui cangiano agevolmente di luogo. Il grido ordinario di costoro è nu ra e una
I e meza (un grano un m zz) monotona cantilena del pizzaiuolo a miano: Na prùbbeca, na prùbbeca! I monelli o i fanciulli che vanno a bottega fanno colazione colla pizza. Più tardi, a misura che le pizze si fanno fredde, i pezzi si fanno più grandi per allettare il compratore. Poi il forno rimane quasi completamente in ozio fino alla sera, e si passa il tempo a intridere, a dimenare la pasta, a grattugiare formaggio, ad affettar muzzarelle, a tagliuzzare agli, a soffregar fra le mani l'origano per toglierne via gli steli, e mille altre operazioni preparatorie. Quindi s'incomincia a prowedere alle merende e alle cene dei fattorini e degli operai. Nelle ore più tardi compariscono dei plenipotenziari che hanno l'alta missione di ordinar pizze da portarsi in casa, e contemporaneamente qualche allegra truppa viene ad occupare i luridi camerini del pizzaiuolo." Oggi alle piastrelle bianche e ai tavoli con il ripiano in marmo si sono sostituite le pareti coperte di calce viva e i tavolini in formica. Le pizzerie dell'ultima generazione si rifanno a elaborati moduli liberty o ad architetture postmoderne. Sono soprawissuti invece i raduni chiassosi e un po' goliardici di chi vuole passare una serata senza intoppi di etichetta e preoccupazioni di portafoglio. "La pizzeria", affermaRossano Quiriconi, ideatore delle catene di pizzerie Calafuria e Malastrana, "è un locale per tutti dove si trovano a proprio agio Berlusconi e Mimì metallurgico, il Conte della Rovere e il signo'r Rossi, impiegato di concetto". I nuovi arredamenti, essenziali, non si rivolgono a un ceto particolare, sono aperti sia verso l'interno sia verso l'esterno e si traducono spesso in pareti a calce o con rivestimento in legno grezzo, piastrelle colorate, ampie vetrate che sottolineano e riprendono le tinte calde degli ingredienti base di una pizza: il giallo dell'olio, il rosso del pomodoro, il bianco della mozzarella, il verde del basilico.
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DA NAPOLI A TUITO IL MONDO
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Scriveva n I 1852 Carlo De Ferraris sulla rivista L'Omnlbu Fitt r s o: "Un giorno le quindici provincie al di qu ,I tt al di là del Faro, gareggeranno nell'introduzi n d!le pizzerie e de' pizzaiuoli ambulanti, e Napoli vrà la gloria di aver dato a tutto il Reame un piatto che non può non far gola". Ancora a metà Ottocento la pizza era dunque un fenomeno esclusivamente locale ristretto a Napoli e ai suoi più immediati dintorni. "Vedi~mo con compiacenza" continua il cronista dell'Omnibus "come la pizza cominci a estendere il suo dominio anch~ fuori le mura della città, e il pizzaiuolo è già uno degli ornamenti dei vicini paesi di Portici e Aversa." Quel che colpisce in queste righe è il contrasto tra la certezza che la pizza sia una grande invenzione gastronomica, vanto della cucina partenopea, e i1localismo delle prospettive, che rispecchia fedelmente le opinioni del tempo. Anche Matilde Sera o, infatti, nel Ventre di Napoli si dichiara convinta che la pizza sia un fenomeno strettamente napoletano e racconta, a scopo paradigmatico, il fallimento di un industiale napoletano che "un giorno, ebbe un'idea. Sapendo che la pizza è una delle adorazioni cucinarie napoletane, sapendo che la colonia napoletana in Roma è larghissima, pensò di aprire una piZzeria in Roma. Il rame delle casseruole e dei ruoti vi luccicava; il forno vi ardeva sempre; tutte le pizze vi si trovavano: pizza al pomodoro, pizza con muzzarella e formaggio, pizza con alici e olio, pizza con olio, origano e aglio. Sulle prime la folla vi accorse; poi andò scemando. La pizza, tolta al suo ambiente napoletano, pareva una stonatura e rappresentava una indigestione; il suo astro impallidì e tramontò, in Roma; pianta esotica, morì in questa solennità romana." Oggi le cellule cerebrali del buon De Ferraris impazzirebbero se potessero ascoltare le cifre attuali del consumo di pizza e sapessero che il termine pizzeria è la parola italia-
na più diffusa nel mondo. Solo negli Stati Uniti, la pizza mangiata ogni giorno potrebbe coprire un'area di trenta ettari: tale superficie è stata calcolata in base a undici miliardi di porzioni l'anno, pari a un consumo medio pro capite di dieci chilogrammi, un giro d'affari di due miliardi di dollari e un ritmo di sviluppo più rapido di quello dell'industria degli hamburgers. I francesi, i quali hanno progressivamente trasformato in pizzerie le brasseries di stile alsazianD che si erano moltiplicate tra le due guerre, contano oggi tremila pizzerie di cui settecento dislocate nella capitale mondiale della gastronomia. In Inghilterra, se parlate di pizza agli esperti britannici di catering, vedrete i loro occhi illuminarsi. La pizza, in fortissima espansione dal 1970, è infatti l'unico prodotto in grado di opporsi alla colonizzazione degli hamburgers. Perfino le arcigne associazioni britanniche dei consumatori ammettono che il successo della pizza is a good thing: in una delle recenti edizioni della Budget Good & Food Guide (Guida al buon cibo a buon mercato), una catena di Pizza Houses denominata Pizza Express è riuscita a ottenere una menzione in cui si giudicano "eccellenti" i piatti serviti. I quali, molto lievitati e poco cotti, secondo la ricetta americana, vengono presentati al cliente offrendogli la scelta della dimensione (piccola, media o grande), e del rivestimento (topping). Ogni topping (olive, capperi, peperoni, salame, wOrstel, sottaceti) costa circa 500 lire. Questo sistema viene adottato dalle tre maggiori catene di pizzerie, ognuna delle quali conta solo a Londra dai venti ai trenta locali accuratamente evitati dagli italiani. La Chicago Pizza Fadory, una catena americana, è specializzata in pizza "chicaghese": salsicce, peperoni, pasta molto lievitata, dimensioni enormi e prezzi altrettanto elevati, vicini a quelli delle rare pizzerie di stampo italiano, che sono invece considerate locali chic, come il Pizza Pomodoro in Beauchamp PIace o il Pizza on the Park a Knightbridge. Per il Giappone la scoperta della pizza è più recente: nel 1984 una delegazione del Comune di Kobe è giunta a Milano decisa a portarsi a casa, a qualsiasi prezzo, un autentico pizzaiolo italiano, mentre in Urss sono le cooperative
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