Hic et Nunc 1
ÂŤOh se le mie parole fossero colori! male le loro tinte possono forse servire come contorni o come lievi accenniÂť Byron, Don Juan, Canto IV, stanza CIX
Š 2017 Toth Editore Palermo Promozione: Arsmultimediartgallery Website: www.toth.be Prima edizione, settembre 2017
2015 La complessità sta sempre più annunciando il proprio regno, coinvolgendo tutti i fenomeni che connotano quella che chiamiamo vita, dai livelli più elementari, biologici, che vanno rilevando sempre più profondità, modularità, intelligenza interiore, a quelli più intriganti che connotano la velocità del pensiero di connotare e denotare linguisticamente, dell'intelligenza di comprendere, aprendo le porte ha sconfinamenti nel sublime che arriva all'annullamento della materia (buchi neri) come sconfitta dell'essere che viene imploso e annullato nel non essere e in quello esploso di una suprema divinità (luce e trasparenza) come incipit e come terminus dell'uno e del tutto. Come dire, che appena esci dal limite del compartimento e delle monografia, nei quali si può situare la scalarità della bellezza e della misura, tutto diventa senza limiti e confini in un delirio etimologico che porta alla crisi di ogni stile, che non sia moltiplicato e frantumato cioè non stile, ma fenomenica dell'ignoto che non pone domande e non chiede risposte, ma appunto per questo pone alla ricerca, alla curiosità, alla sperimentazione, ad entrare nel nostro logos che è l'unico modo con cui noi possiamo accogliere il mondo e l'universo, confrontando la nostra limitata artificialità, che nel giro di dieci o quindicimila anni, potrebbe sparire da tutte le contaminazioni dai noi apportate nel mondo e fuori del mondo, qualora oggi, dico oggi, ma in qualsiasi oggi, possibile ed ipotizzabile la nostra attività umana dovesse
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cessare. Si tratta del carattere fondante dell'alchimia dell'universo, che si riflette nella storia, nella nostra storia difettosa e perdente per quanto si voglia, ma è l'unica che abbiamo e da essa dobbiamo ripartire ogni volta che vogliamo vedere di più e meglio. La linguistica come teoria generale della consapevolezza, come connotazione della lingua e dei linguaggi, nella dimensione teorica, si configura sempre più come qualità intrinseca del pensiero e come capacità di creare sintonie nelle poetiche e di entrare in assonanza con esse nella scienza, sempre più investita da una entropia, da una dinamica contraddittoria, che mette tutto in questione, sgretolando consolidate certezze e aprendo orizzonte ad un reale che perde solidità e diventa psicologismo, che è anche genetismo, cioè vedere, che è condizionato da saper vedere, un sentire, che deve adeguarsi ad un saper sentire e via dicendo, per il concettualizzare, per l'analizzare, per il fantasticare, anche perché sembra provato che il linguaggio, che subisce tante deviazioni dovute alle varie e diverse lingue, trova più vincoli e parentele di quanto possiamo immaginare ed è quello che permette la traduzione tra le varie parlate umane e tra diverse discipline conoscitive. Ora, sta avvenendo che mentre le parlate e le scritture contenute nell'odierna babele stanno cercando di connettersi, le linee delle ricerche si vanno facendo più frazionate e contaminate, in tutti i cambi, per il moltiplicarsi esponenziale delle
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incrementazioni di vita, date da astrazioni e memoria. Si tratta di un confronto doppio, a partire dal fatto che l'evoluzione della capacità comunicativa ed espressiva non è apprezzabile, in termini qualitativi e quantitativi negli ultimi trentamila anni, mentre si è dilatata la massa orizzontale, verticale e trasversale dei contenuti, sempre più critici, sempre più magmatici in querelle tra evoluzione antropologica e mutamento storico, con la possibilità di una maggiore capacità di apprendimento verso una lingua universale, a partire da Wilhem Von Humboldt e della sua affermazione, secondo cui il linguaggio comporta un uso finito di mezzi infiniti. (Naom Chomski, I confini di Babele). L'estetica rimane un punto di riferimento per tutti i tipi di comportamento, sia che siano autoriflessivi orientati sul sé, sul proprio corpo, sulla narcisistica riflessione dello specchio, se pure frantumato infranto, in mille accadimenti e in mille rivoli, sulla proiezione oggettuale, oppure sociale, corale, come exitu di complicazione verso l'altro da sé. Chiaramente, una cosa è la sua storia, un'altra è la sua attualità, perché una è narrazione, compunta e divertita e l'altra è applicazione al pensiero pensante e gli eventi che si accalcano nella società, nello spettacolo che essa di sé, cioè sulla società intera, che agisce e patisce con ideologie, alienazioni, automatismi e ribellioni, ammantandosi di estetica al plurale di differenziazioni continue e laceranti, anche nei momenti di festosità e solen-
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nizzazioni. L'estetica gioca al suo moltiplicarsi, come un’atmosfera di sembianti e simbolicità, che si scambiano continuamente i ruoli e i punti di vista anche perché alla tradizione attiva delle bellezze e delle seduzioni, si è venuta ad aggiungere quella grottesca dell’horror, come una coppia prolifica di inchieste enigmatiche sulla schizofrenia moderna, sulla lacerazione e sulla mascheratura di icone e idola, che sembrano spuntare dal nulla mentre emergono nell'incrociarsi tra mare, cielo, città, deserti come luoghi reali e metaforici di simulazione di commedia, di santificazione e scarnificazione. E nessuno può volersi sottrarre da questa dura legge del caos creativo che in certi momenti è veramente troppo, sia come caoticità che come creatività, forse perché la dismisura è la nuova forma della misura e ad essa dobbiamo fare domande e dare risposte. L'etica è diventata un'opzione instabile, che ognuno volge dalla propria parte, ma sempre in versione provvisoria, perché oggi si è accentuata l'etica verso la mutevolezza e di ogni comportamento verticalistico e di principio, in favore di un orizzontalismo dei comportamenti diventato positivo nei confronti delle ipotesi morali e conoscitive, in sostanza, quando più il sapere diventa frazionato, specialistico, il comportamento diventa metaforico, per cui tutto il sistema dei valori di riferimento diventa opinabile, sottoposto ad un continuo confronto, allo spostarsi degli orizzonti morali, al sistema delle
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relazioni interpersonali, a partire dal concetto di crisi dall'unione familiare, di concepimento stesso della vita, di artificializzazione della biologia e quindi della biografia… e quindi di altro ancora di possibile e di impossibile. La fantascienza, che prima apparteneva ad un improbabile, lontano, domani, oggi appartiene al presente, in un processo di accelerazione che sposta non solo i limiti e i confini, ma la stessa terminologia che li connota, facendo della storia un vettore velocissimo, perché ogni cosa che avviene, ogni pensiero che nasce, diventa subito imperfetto e quindi irrimediabilmente passato, modificando il concetto stesso di ricordo e quindi quello di memoria, presupponendo di voler raccontare, non più il passato, ma il caos e il futuro, dedicandosi alla predizione e alla divinazione. Tutto in un evidente paradosso, chiaramente, anche nel grottesco, nel burlesque, perché mentre prima i ruoli sociali erano stabili, immediati, riconoscibili, nell'attualità, tutto sta tornando a una medioevale commedialità, senza commedia e senza medioevo, con un tasso inesausto di paranoia, di avanguardismo, con un essere e un apparire, che diventano variabili indipendenti e fanno impazzire ogni bussola dell'etica, fondendo e confondendo i punti di riferimento. La storia è come un treno veloce che rallenta sempre più in vista della stazione, qualcuno come Francis Fukujama, ne aveva predetto l'arrivo definitivo, dovendosi però, poi smentire per il concorre di
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fatti non previsti e non prevedibili, che hanno fatto differenze più che omologazioni (vedi fondamentalismi religiosi) ma si tratta di una storia diversa, tanto da pluralizzarsi continuamente, in una saggistica dai mille volti e contorni, inverata da un equivoco sulla prima vera uniformità globale del mondo, la modernità, che è nata nei salotti di Parigi e di Milano, si è diffusa in tutto il mondo, avvolgendo, inglobando, modificando stili di vita millenari, aprendo tutti i problemi che ci assillano, ma nella consapevolezza che non esistano in assoluto, incorreggibile barbarie, ma complementari diversità. Il non mettersi d'accordo sul passato, non è un male, perché l'uniformità sarebbe la fine dei punti di vista e quindi un grande dogma, che affonderebbe le difformità e la stessa possibilità di tante originalità, di cui la modernità è etimologia e questo porta con sé tanti problemi di interpretazione, che impediscono l'affermazione delle convinzioni necessarie per dare unità alla diversità e di pensare alla diversità come una forma poliedrica dell'unità che l'homo sapiens, porta in dote da quando si è diffuso nel mondo e nelle enigma della sua origine. L'aver cancellato ogni finalismo, ogni filosofia conseguente, è stato deflagrante, perché i mezzi, gli strumenti, gli avvenimenti, sono diventati auto significanti, tautologici, svincolati da ogni utilità, che non sia del soddisfacimento delle immediatezze, mentre rimangono insoddisfatte tante domande di fondo radicale, destinate a restare tali o
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ad avere risposte capaci di saturarle. Non c'è che fare, incombe un'era di domande che rispondono a domande, ma non bisogna averne paura, perché è forse nel grande libro sempre aperto della natura, dell'universo, del ignoto, con pagine bianche, in continua proliferazione, che consiste il bello della vita. La modernità, dicevamo, come consapevolezza e come invenzione del futuro, del passaggio dal non essere all'essere, da un essere ad un altro essere, della costruzione della personalità, come defettibile punto di riferimento della ricerca, della sperimentazione continua, dell'allargamento del mondo, come sconfinamento e come conoscenza ulteriore, ritenuti come un limite da interpretare e superare, prima con lentezza, poi con scatto, da allargare da allungare in una modulazione che restringe il mistero, da un senso arcano dell'inconoscibile ad un più modesto non ancora conosciuto, in un parallelismo tra visibile del corpo e invisibile del suo pensiero. In essa sono avvenute continue trasformazione, con la separazione netta e definitiva del sapere, del sapere scientifico, dal credo e dalla fede, trasferiti in un punto in cui la ragione si trasfigura, come davanti ai misteri della vita e della morte. Il suo orologio, sempre in movimento, ha frantumato il senso comune dello spazio e del tempo, facendoli diventare pure indicazioni da accidente, perché nella sostanza si può accedere scientificamente a quella che una volta era una esclusiva area di miracoli, le
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cui gesta, se non stanno scomparendo certamente sono in crisi, emarginate, da modi di dire dell'alta cultura e dal suo lessico, se non addirittura da suo vocabolario. Illuminista, romantica, positivista, meccanicista, tecnologica, cibernetica, in continua trasformazione, la forma della cultura è cambiata con la velocità con cui nella luce cambiano le tracce impressionistiche, sul tono e sulla plasticità, fino ad essere nell'attuale dizione, diventate iperrealiste quanto astratte, materialiste quanto deiste, scientifiche quanto magiche. Naturalmente, niente è più quello che i trattati del sapere con la loro magistralità pensavano fosse per nunc et semper, ma tutto si disfà in un hic et nunc mentre non ha finito dell'essere fieri, cioè in divenire, inducendo i forti ad una maggiore forza, e gli schizofrenici ad una maggiore schizofrenia ma nel compendio di una società piena di individui se pure sempre più di massa. Il qui, l'hic, come indicazione di luogo, perde sempre di più di perimetro, diffondendosi sempre di più come area, diventata un luogo dei luoghi di tanta disseminazione di forme e contenuti, di tutti i generi, di tipo comportamentale, artistico e culturale, inverando lo schema, di Herbert Marshall McLuhan, del villaggio globale, che oggi possiamo chiamare metropoli generale, in cui tutto si omologa incessantemente, prendendo spunti di originalità ora ricca, perché progetta ad hoc, ora povera, perché aggiunta in maniera folkloristica, in una duplicità che rischia di produrre
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adattabilità “creativa”, puramente meccanica, o reazionarismo scomposto e regressivo anche violento. Il problema diventa quello dell'essenzialità, che vengono dall'alta cultura, adattabile, nella misura in cui essa (leggi anche o soprattutto al plurale), diventa costume, habitus modo di essere di apparire del film per tutti, del romanzo per tutti, cosi come la scoperta scientifica, della disciplinarità empirica, tattile, clinica, perché su questo si baserà la nuova libertà, la etica, la nuova estetica, che non voglia essere un cattivo o cattivissimo gusto, dovuto ad acculturazione distruttiva, dovuta o una perdita generalizzata di biologicità, in cui il nessuno di “uno nessuno cento mila” di Luigi Pirandello, non trionfi definitivamente. Sottocultura e controcultura, sono una grande trama vitale, al di là del giudizio che di esse si voglia dare, perché testimoniano di una resistenza ad una omologazione senza anima e bisogna che la pressione dell'alta cultura non le schiacci, pensando di fare del bene, mentre farebbe solo del male, ritenendole superflue e dannose, mentre possono essere una grande risorsa, per i colori del mondo, che possono diventare un arcobaleno intorno a tutti noi, che di questi, ma di tutti i ragionamenti, possiamo essere parte attiva, creativa, innovativa, oppure schematicamente oggetto di oggetto. L'ora, il nunc, si sta frantumando, nei nano secondi, come tutto si sta nanizzando, tanto che lo stesso attimo è diventato troppo lungo, nell'universo
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tutto connesso ad ogni attesa, come una perdita di speranza, una separazione del sé da sé, ogni frase tende a scombinarsi in un frammento, lontano da ogni ambizione e di definizione, così che vengono meno le grandi linee e tornano i segni di un linguaggio primordiale, che mette a dura prova la possibilità di andare alle nuove forme di comunicazione, un organismo vero e proprio, mentre il concetto di progresso smette di vivere e di far ridere, perché sempre di più il destruens ad ombra il costruens, tanto che ogni processo all'ordine del mondo appare reversibile, dagli effetti che vengono nascosti e ritardati dal pulviscolo dei grandi numeri, che contiene possibilità illimitate di nuove simmetrie, combinazione, appigliamenti, “nell’imperfezione”, nello sfrangia mento nella violenza. Non c'è più nessuna ingegneria di nuova società, ma un grande movimento verso il più, verso la produzione di spettacoli, di merci e di tante società mosse da una invisibile energia, che sta portando povertà, laddove c’erano ricchezze e ricchezze dove c'erano povertà, come una ondularità pazza, che agli eccessi di ricchezza associa indolenza e cupidigia orgiastica, nascondendo la malattia e il tramonto e alla voglia del dire del fare, porta solarità insperate, orizzonti di bellezza accumulazione di futuro. Un disordine che attornia tutto e tutti e dia cui nessuno può dirsi fuori. Un disordine con cui convivere. Convivere con il disordine, non significa condividere lo sfiorire della civiltà, nel
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disfarsi dei codici di riferimento e di comportamento, bensì attrezzarsi a fare dei codici stessi un punto di confronto, perché senza codici non c'è possibilità di nessuna creatività, che ha nell'invenzione i momenti della sua apoteosi, in mezzo a tanti ordini provvisori che sono come dei lieviti capaci di contraddire la stessa morte, a cui stando dando sempre più fili da torcere, in un inseguirsi di non finiti, che in realtà sono opere aperte ad altre (…). Il limite è appunto nella duplicità da un lato post-scientifico, posttecnologico, sempre più fortificato e dall'altro ad un disordine sociale esponenziale, come immaginato da Italo Calvino, da Palomar quando afferma "l’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se c'è ne uno è quello che è già qui, quello che abitiamo tutti i giorni che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne il primo riesce facile a molti: accettare l'inferno e diventare parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continuo: cercare e sapere riconoscere ogni cosa, chi e che cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno e fallo durare e dargli spazio". Si tratta veramente di uno squarcio, di una sapienza, di una difficoltà che è quella vera, quando orientarsi non è facile perché bene/male, aleggiano l'uno nell'altro e solo con un in più, un quid, che umano, tremendamente umano, se ne può uscire. Serge Latouche come Joseph Conrad, come Carlo Emilio Gadda, come Mario Sironi,
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come Pablo Picasso, tutti abitatori d'inferno, camminatori di un tempo astratto, hanno scoperto nell'unica coscienza dell'universo, l'intelligenza che vive in noi il principio di realtĂ , perchĂŠ l'altra essendo infinita e fuori dalla cronologia, non scompone passato presente e futuro e quindi non distingue fantasia, linguaggio, invenzione, arte, scienza, coscienza, quindi in noi il destino, in noi la speranza, se abbiamo detto e fatto nulla impedisce che ancora possiamo dire e fare. Per dare un senso al nonsens, non basta fare un collage della storia e delle sue narrazioni, ma impegnarsi, a fondo senza lasciarsi sviare dalla lunghezza dei tornanti della storia, dalla labiriticita degli antri, dalla diffusione dagli spettri della notte perchĂŠ se vogliamo se sappiamo sarĂ ancora luce nuova diversa, ma luce.
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Scripta I saggi contenuti in questo volume sono orientati alla ricerca di alcune definizioni etiche ed estetiche nel profondo del nostro agire nella società. L’arte e la letteratura sono viste come momenti insostituibili della vita e del pensiero umano, che appena ha risolto il problema della condizione materiale del proprio esistere, tende al bello e al bene. Il bello e il bene, costituiscono l’asse principale del pensiero comune, antropologico, storico. Non c’è dubbio che la nostra sia un’epoca di crisi della razionalità classica (o meglio del modo classico di conoscere e amare) e che si ponga con forza l’esigenza di un sapere nuovo, di tipo indiziario sostenuto essenzialmente dai semiologi (innanzi tutto da Roland Barthes) capace di recuperare l’astuta virtù conoscitiva di Ulisse. Sapere indiziario è quello dei cacciatori, e dei cercatori in genere, che inseguono le tracce delle prede e che riescono a leggere anche i più delebili segni lasciati sul «terreno». L’epoca del sapere sistematico, piramidale è definitivamente tramontata: ad essa è succeduta quella del sapere per saggio (nel senso etimologico di «prova» e di tentativo sommario). Il saggio è lo strumento minimale capace di sostenere delle argomentazioni su un tema specifico e sottolineare l’esigenza di approfondimento che non può essere più frutto di singola ricerca, ma concerto polifonico di tanti e di più punti di vista. La realtà quotidiana, con le sue molteplici e cangianti
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espressioni insegna anche ai più distratti l’esigenza di avere un ideale etico di guida e un dinamico senso estetico capace di fare da metodologia alla prassi. Spesso ci si accorge che la prassi è diversa da teorie e metodologie, ma senza che queste ultime il mondo finirebbe con l’apparire (e di fatto a tanti già appare) un cumulo di errori e di pazzie. L’idea di trovare una razionalità a tutto ciò che accade deve però significare una giustificazione dell’errore e non del crimine: la teoria non deve giustificare, deve solo comprendere: il senso morale deve dettare il comportamento pratico. L’unica forma di trattazione sistematica che mantiene una propria legittimità epistemologica è la storia (di cui non mancano i contestatori) nel cui alveo generale si possono collocare la storia della letteratura e la storia delle arti plastiche e figurative, come storia di «modi di formare» di ieri e di oggi. Il punto di raccordo tra il passato e il presente è costituito dalla città, luogo privilegiato delle civiltà occidentale: nella città si deve ritrovare l’equilibrio tra morale e bellezza, e perciò deve essere richiesto l’intervento dell’arte nello spazio urbano. La presenza dell’arte in questo ambito deve essere vista come completamento sociologico dello scavo psicologico della poesia sull’individuo. Certo c’è il problema che è sempre esistito, ma oggi più acutamente avvertito. La soluzione di questo problema si può avere solo con un grande sforzo di appropriazione totale della vita (quindi anche della produzione
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del linguaggio) e con il definitivo superamento delle alienazioni spirituali dovute alla bruttezza e alla banalità. Qui è grande la responsabilità della cultura critica che non si pone a sufficienza la questione di dire il massimo con il minimo scarto fra volontà e atto concreto. In proposito c’è un grande ritardo dovuto non solo alla fenomenicità condizionata dalla volgarità delle valenze deteriori della cultura massificata, ma anche e soprattutto allo stato di crisi di statuti metodologici venutisi consolidando nei secoli. Le avanguardie hanno contribuito molto a ciò, ma non sono state determinanti, perché la determinazione è venuta dalla morte dell’universo naturale e dal nascere dell’universo artificiale, che nell’ultimo secolo ha sconvolto modi di vita e annullato le coordinate spaziotempo della tradizione. Così sono nati nuovi bisogni e l’esigenza di formulare nuove risposte. Erich Fromm, uno dei più popolari studiosi dell’animo umano, nel suo Avere o Essere ha proposto la cultura dell’essere, come arricchimento dell’interiorità, in un luogo della cultura dell’avere, come appropriazione smodata di oggetti materiali: questo non significa negazione di bisogni materiali, ma solo una loro subordinazione rispetto ai valori tesi al superamento dell’egoismo e dl contingente. Il nostro rifiuto deve andare alla dittatura dell’avere (consumistico) e alla dittatura utopistica dell’ideologia della perfezione nella storia, ideologica antifrommiana per eccellenza. Con Fromm affermiamo l’esigenza di una cultura che
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spinga ad «essere di più» e prevalga sulla tendenza ad aver «avere di più» nella convinzione che, oggi più che mai, occorre contrastare l’eclissi dell’umano e che il “principale compito dell’uomo sia ancora alla luce se stesso”. Nella provvisorietà dei tempi che sono venuti ad accavallarsi, senza quella scansione tradizionale, che noi chiamiamo periodizzazione della storia, diventa sempre più ardito e difficile, non perdere le radici e trovarle è sempre più complesso, in quanto incombono soluzioni dell’intelligenza che fanno presagire un’attacco all’essere, alla sua nobiltà, mentre la fenomenica della moda diventa sempre più stringente e corrosiva. Senza voler assolutamente essere laudatore del tempo passato ed infelici attraversatori del tempo presente, bisogna pensare a nuove forme e a nuovi contenuti che, senza aver paura, terrore e panico, pensino all’uomo dell’avere come una fisica necessaria che sostenga l’uomo dell’essere come ad una metafisica suprema: in sostanza avere sempre il concetto di uomo come fine e mai come mezzo
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2000 Al prologo del secolo, che corrisponde a quello dei millennio, è consentito tracciare alcune linee di pensiero sulla definizione dell'arte nel contesto della cultura occidentale, sul rapporto tra la stessa arte e la cultura occidentale, sul rapporto tra la stessa arte e la cultura, inteso come dinamica di scambio sul concetto stesso di cultura che è mutato profondamente e continua a mutare, non solo nella percezione di studiosi e teorici ma anche nella coscienza comune, nell'esperienza della vita quotidiana. Un secolo di avanguardie, storiche e attuali, ha prodotto uno spazio di consapevolezza determinante per la formazione di nuovi linguaggi, per la strutturazione di una consapevolezza critica capace di superare razionalmente le divisioni anacronistiche di arte e non arte, i cui confini sono mobili e continuamente dislocati in posizione imprevedibili, mettendo in gravi difficoltà gli stessi concetti orientativi e di nomenclatura concettuale. I punti di partenza, in sostanza, fondamentali per vivere nella crisi e nella discontinuità , dovute all'obsolescenza mediatica di etiche ed estetiche, per la lettura delle differenze rispetto al passato e gli stessi concetti di tradizione e innovazione. Il modo d'essere dell'arte contemporanea, sia nell'accezione di pura ricerca, che in quella di applicazione al complesso mondo della produzione materiale, in continua trasformazione, in grado di influenzare l'universo culturale, emarginando
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ogni pigrizia di assolutezza, dell'essere sempre uguali a se stessi per immergersi nella provvisorietà come corrispondenza tra essere e divenire. Gli artisti che (come i poeti, gli scrittori, i musicisti) vivono il dramma dell'originalità, come schema generale dell'invenzione, sono esempio di libertà, di intraprendenza di ricerca, che non si ferma davanti all'ardimento più avanzato, alla eterodossia più blasfema, senza per questo rinnegare il concetto di classicità, che per noi occidentali è l'ineliminabile punto di partenza per ogni avventura erratica, di perversione e scandalo. D'altra parte ogni originalità, che dir si voglia, deve essere consapevole, deve partire dalla piattaforma consolidata della storia se non vuole smarrirsi nel suo labirinto interiore, senza possibilità di confronti e di straniazioni. Ogni altra via porta al puro caso, senza possibilità di nominazione, individuazione, ripetizione, rimanendo sempre nella cosa in sé, come insistenzialità materiale, senza consapevolezza e mai come critica e giudizio riflettente. Si tratta quindi di conservare, di imparare ad essere storici, quanto di innovare e travolgere, assumendo in sé il prodotto delle avanguardie, considerandone superato, però, lo spirito missionario e intollerante. Non esistono verità di cui mettersi a servizio, rivelazioni da commentare, perché lo storicismo ha esaurito ogni autorevolezza e altro non resta che vivere una pressante attualità in duplice relazione col passato e col futuro. Perché c'è un passato ricco di strade e indi -
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cazioni, c'è un presente enigmatico e un futuro tutto da costruire. Assumendo il sistema della moda come specularità avvolgente e il mercato come realtà virtuale (perciò realissima) del farsi e disfarsi delle forme, dei contenuti, delle autoreferenze, dei gusti, degli stili, può cominciare l'avventura nella giungla urbana, popolata di tribù tecnologiche e tribù antropologiche che congiungano i tempi dell'essere e del divenire, con grande parossismo che lascia intravedere di tutto, dall'età della pietra all'età delle stelle, in contemporanea, in sovrapposizione, in caotica contaminazione di uno nel tutto, di tutto nell'uno. Nella società occidentale, nel mondo dell'arte, lo stesso concetto di scandalo è superato: solo dei patetici si traggono indietro davanti l'opera di nominazione di Marcel Duchamp, ad un taglia di Lucio Fontana, ad un corpo d'aria di Piero Manzoni, ma anche per le arditezze di Marina Abramovic le anomalie di Jeff Koons, per le coreografie nude di Vanessa Beecroft. Vige finalmente un pluralismo magmatico, che recupera a pieno il concetto di singola espressione di qualità e sua etimologia, che accosta alla tensione lirica e poetica, la difficoltà alla trasmissione di ogni sapere e l'affascinante convivenza con l'ignoto. La costatazione che l'arte è più viva che mai, che conquista più gente, più tecniche, più materiali, più forme, è indice di un suo bisogno che si rinnova, che non si esaurisce ma trova motivazioni endogene ed esogene per manifestarsi in modi sempre sorpren-
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denti, ora per semplicità, ora per complessità. Nessuno riesce a fare a meno dell'arte, neanche quelli che ne sono apparentemente più lontani, perché nell'arte e negli artisti c'è lo stimolo alla vita come sogno e come realtà messe insieme, come tensione alla libertà, all'impresa ardita. In questo fecondo universo di trasformazione, diventa fondamentale il ruolo della formazione come preparazione alla versatilità, in quanto in essa nasce la ricchezza materiale e spirituale che è liberazione dalla povertà, anch'essa materiale e spirituale. Una formazione alta, oggi vuol dire attrezzatura teorica e tecnica al padroneggiamento delle persistenze, alla contemporaneità col nuovo, con lo sconcertante, con l'indicibile. Un ruolo di grande responsabilità che non deve negarsi a niente e nessuno. Un ruolo di grande consapevolezza che la dottrina della dotta ignoranza non vuol dire, nella maniera più assoluta, pressappochismo e casualismo, mentre la virtù utopistica dell'alta cultura è capace di speculare dialetticamente il rigore con lo spirito d'avventura, perché in ogni tempo e in ogni luogo c'è un Dedalo e c'è Icaro, anche se fra loro si somigliano, si tratta di saperli discernere, distinguere, nelle varia situazioni, nella consapevolezza che le teorie sono formulate per essere superate, le storie per essere studiate, gli enigmi per essere sciolti. Per essere performativo, un sapere nelle condizioni del tempo reale e del virtuale e avere un ruolo formativo attuale, deve essere aperto ad ogni arditezza, cri-
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tica, a considerare positiva la stessa perdita d'identità, che può essere recuperata e poi ancora perduta. A patto che non si smarriscano le genealogie, le derivazioni del sapere, che quando sono tali sono radici, sui cui si può innalzare ogni grande tronco, ogni eclettica frondosità. In sostanza un gioco tra continuo e discontinuo, nella conservazione del meglio e del valido, nella adeguazione di formule e strutture, nell'incorrotta apertura all'esperimento e alla prova. Radici sono necessarie per non lasciarsi andare alla furia dei sortilegi e delle magie che possiamo trovare in angolo, in ogni vetrina, in ogni schermo, in ogni svendita. Saldezze a cui legare le proprie invenzioni in modo da non farle svaporare nell'incertezza assoluta, per sentire il punto di partenza dell'uno e del tutto, in modo da poter combattere, senza la certezza di vincere, è ovvio, ma senza la disperazione dell'essere sballottati di qua e di là, del perdere e del perdersi irrimediabilmente. Perché radici, sono la storia delle cose, delle idee, delle persone, per comprendere la consistenza del linguaggio, dei linguaggi, che sono l'anima di ogni cosa che appare alla nostra coscienza, alla nostra intuizione, alla nostra irritata, acquiescente, sedotta, sensibilità. Una storia da servire in una tavola imbandita di diavolerie di ogni genere, diavolerie dalla vita breve, dall'obsolescenza rapida, dall'istantaneo, o quasi, passaggio del medesimo all'altro. Tanto scintillanti nell'apparire, nell'essere pubblicizzati, sospinte dell'eros della vi-
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sta e dell'udito verso la sensualità del tatto, dell'olfatto e del gusto, in un vortice del divorarsi, consumarsi ed evacuarsi. In una nevrosi che non conosce, soste, capaci di annullare l'identità delle cose e delle persone, in un “tutto invecchia” e “ tutto passa”, che non ha niente a che fare con il medioevale memento mori o gli elogi della morte, tutto rivolto com'è nel guado del passaggio, ormai inequivocabile seppure avvertibile in piccole e scandalose scosse, a cui seguiranno cataclismi e giudizi universali, dall'human al post human, con buona pace di chi può pensare di fermare la scienza e l'ingegneria. Il vero compito è quello di allargare le mente, dilatarla, oltre la nevrosi, oltre il delirio, nei campi dello sconosciuto, dell'invisibile, dell'indicibile, a partire dalla nostra massima prossimità che è il corpo in cui abitiamo, che sempre più si artificializza condizionando il modo di conoscere, amare, morire. Viviamo in un continuo regime di mutazione, metamorfosi, cambiamento, che non dà il tempo di confermarsi in uno stile, in una riconoscibilità, necessaria perché avvenga l'apprezzamento di una qualsiasi cosa, la sua catalogazione fra le cose che ci appartengono. Rischiamo di uscire dal contesto stilistico per entrare in un contesto generico, così come è avvenuto per l'artistico che è subentrato all'estetico. Il rischio è da evitare, non aggrappandosi a logiche e prodotti superati, bensì va affrontato con spregiudicata capacità manipolatoria legando e sciogliendo nodi di appartenen-
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za che si succedono rapidamente, come le identità in crisi, le parole carismatiche, le immagini simboliche. Il senso del tempo prima era schierato sulle ere, sulle dinastie, si è via via assestato sui secoli, per poi conoscere le rapide e le cascate degli anni, dei mesi, delle giornate scandite in ore, minuti, secondi per poi frazionarsi in centesimi, nei millesimi, aprendo irrimediabilmente a nuove metafisiche, dove si consumano tutte le certezze della vita materiale e appare l'irriverente enigma del giorno e della notte. Nel crepuscolo, dove tutto è possibile, l'apparire non coincide con l'essere e cambia continuamente la password che permette l'accesso alle enigmatiche, alle segretezze, alle nuove alchimie, capaci di far cose che alle vecchie non riuscivano, o riuscivano male. Siamo irrimediabilmente usciti dalla meccanica pensante degli acciai e stiamo stretti anche nelle leghe leggere e leggerissime, fra le opposte direzione del gigantismo e del miniaturizzato, con la crisi irrimediabile dell'umanesimo in tutta la sua articolazione storica, in tutta la sua terminologia, mitizzata, in tutta la sua estensione concettuale e formale. Non ci rimane che attrezzarci alla leggerezza, caricandoci di sale che si scioglie,eliminando i bagagli e le spugne che si impregnano e impediscono la dinamicità , il movimento in tutte le direzioni, la trasversalità , la contaminazione, in modo che l'aumentare della stanchezza corrisponda il diminuire dei pesi, in modo da agevolare i processi di apprendimen-
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to e sviluppare una rinnovata identità, basata sulla memoria, ma che non vive in memoria o in ricordo. Senza memoria e senza ricordo non c'è futuro e neanche un vero presente, è questo significa tradizione, esigenza di fare i conti con essa, non per liquidarla, in nome delle barbarie, ma per farla fruttificare nell'innovazione e nella radicale novità. Chi possiede una tradizione e non si fa imbrigliare dalla sua atmosfera suadente e gratificante, ha delle possibilità in più, nella disposizione inventiva dei segni, nel padroneggiare le imperfezioni del nuovo, necessariamente irritante nelle parti in cui lo sforzo di ricerca nel farsi del linguaggio, tutto rivolto narcisisticamente verso se stesso, non è incline alla comunicazione alla decodificazione. E c'è anche da dire che il fattore velocità crea ineffabilità e afasie, che non possono essere lette e comprese con i metri e le misure del passato, pena lo stravolgimento ideologico di ogni sperimentazione, di ogni verifica. Perché,mentre nel passato i linguaggi rimanevano stabili per periodi lunghissimi, ora accade il contrario e i non addetti ai lavori, che sono tutti gli altri, oltre i pochi coinvolti in uno specifico artistico, scientifico, letterario, restano fuori e restano indietro, senza neanche la speranza, delle credenza, del folclore. La post modernità, tante volte evocata o esorcizzata, si è concretizzata come taglio netto di ogni linearità, come avvolgimento di tutto in una attualità divoratrice, che qualifica ogni cosa come vecchia e da rottamare, generando
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una grande confusione prima solo intuita profeticamente dal dadaismo, dalla pop art e dall'arte povera ed ora vivente nel sex appeal e dell'inorganico e nella trasfigurazione dell'organico di Sterlac (che poi è il suo corpo sospeso in maniera sacrificale da vistosi ganci di macellaio per la propria voluttà sperimentale e l'altrui sadica sbalordimento) capace di azzerare il peso e il dolore, nell'autorigenerazione di Matthey Barney (che trasforma se stesso in macchina teatrale in bestia dell'assurdo) nelle straordinarie mediazioni di Studio Azzurro (che crea avvolgenti quanto inconsistenti modi virtuali nella diffusa body mod, che va al dal lifting totale, all'estremo piercing, al branding, fino ad arrivare al tongue split, al taglio della lingua, in modo da renderla diversa e biforcuta. Altro seguirà inevitabilmente. In una metropoli metafisica in cui cammineranno accanto finti selvaggi e pseudo argonauti, risuscitabili Savonarola e viziosi libertini, brigate di Manet e Morandi, con assassini nati, satanisti ed ermafroditi procurati,con un continuo vento a spazzare le dune di mostruose Hong Kong o Mexico City del disastro demografico, tra disboscamenti e grattacieli babelici, cervelli artificiali, trapianti di cuore suino e morti di fame. Sempre più s'avverte un senso di non appartenenza, di sradicamento, di balia, che Metaforicamente dispone all'appiattimento mimetico, all'acculturazione, alla demolizione, nella società del disordine di massa, della consapevolezza critica, dell'originalità po-
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etica, della complessa esistenza dell'individuo. Nell'essere in tanti in pochi spazi (e pochi in tanti) patisce l'individuo, quello che ha cognome e nome, che sono tutto e per tutto, l'apparenza e la realtà, con in mezzo la trasparenza, come vestito atipico della civiltà, che permette la comunicazione tra diversi, affrontando soffici vocabolari di traduzione dell'uno e nell'altro, contro il rischio dell'incomunicabilità, che s'ingrossa quando la forma non ha un suo contenuto identificabile e regna il flatus vocis, il flatus formae, mentre viene sgominato ogni progetto di costruzione del mondo. Si può dire che si tratta di un aspetto minimale, nei confronti della concezione del mondo che pretende d'essere intelligenza di tutti i processi storici, smascheramento di ogni psicologia personalistica. Tutti dobbiamo oggi concentrarci di stare al timone, nonostante la tempesta, nel mare della complessità e del disordine e stare nella crisi, senza pretendere di programmare, prevedere, indirizzare, ma paradossalmente, programmando, prevedendo, indirizzando. Rispunta il caso, dei dieci anni di Odissea, fra inganni e sfide, sortilegi e tempeste, eppure vissuti nella lotta contro ogni evidenza, contro ogni ordine nominale e procedurale, con uno spiccato senso dell'analisi, della critica e della sintesi. I dieci anni del nostro hic et nunc, dieci anni come sinonimo del tempo e di tutto il tempo, nel non sogno e nella non veglia descritta da Emil Cioran, come sinonimo di disperazione e creatività. A questo pun-
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to, l'elogio delle origini, ciascuno delle proprie, diventa d'obbligo, in quanto permette la saldezza della posizione, la conservazione di un mezzo per penetrare nel profondo ed estrarne gli umori salvifici, nei confronti dei veleni e delle droghe che fanno perdere il sonno e il senno. E se ogni viaggio comincia un passo, per quanto lungo esso sia, non farlo sbagliato è premessa e fondamento di un percorso creativo, per quanto non lineare e poi bisogna orientarsi e orientarsi, tante volte, incrociando i dati, mostrandone contatti e divaricazioni, contaminando la parola poetica col discorso scientifico, in modo che viva l'ispirazione del bello con la macchina dell'utilità, entrambe fuse nel box nero del desiderio, della libido, trasformato in grammatica e sintassi di linguaggi specifici, settoriali, ed in quello artistico che funziona da ombrello e da paradigma. Così come tutto, le arti che non sono fondate su presupposti mobili, non hanno possibilità di sfidare gli agenti dell'intolleranza, che agiscono dai quattro punti cardinali, mettendo a dura prova la prosecuzione della loro esistenza oltre l'istante e l'apparire, sia negli aspetti più dolci, più vicini a quella che sono ormai l'arcadia del passato (che a suo tempo è stato anche inferno) negli aspetti più amari e turbolenti di oggi, che agiscono come predatori e come imbrattatori, facendo di tutto un furto, di tutto un graffito. E non importa dove essi siano, perché siano, in quanto non esistono più zone riparate dalla New York spasmodica, dalla
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Madrid notturna, dalla Roma polverosa, tutto in un grande calderone che può cuocere dappertutto, anche se dà risultati diversi. Perché diverse sono le psicologie, le sociologie, le economie, le esposizioni alle onde elettromagnetiche che danno un smog speciale, che non si vede e per questo può agire indisturbato e può colpire dove più, dove meno, ma dappertutto. Sarà poi il caso a svelare il più del previsto o velare quanto si opponeva alla vista, il caso, da tanti chiamato fato, che fa girare la ruota e assegna i punti, non altri. Il concetto di città rimane il fondamento etimologico della civiltà, quindi adesso dobbiamo andare ogni volta che pensiamo alla conservazione come strumento dell’innovazione prefigurando una radicalità che non può mai venire meno man mano che si va avanti in orizzontale, in verticale e in trasversale ed anche in quello che sembra un richiamo del caos che in realtà è un senza codice che chiede a noi di darglielo perché non c’è una funzione esaurita della città, della metropoli, della megalopoli, che sono un continuo divenire per fare di più e maglio, sia nel concetto di natura che in quello di cultura, entrambe essenzialità umane che non posso e non devono rivoltarsi contro di noi, ma per questo il pensiero filosofico ed il pensiero critico, connessi alla comprensione e alla solidarietà, debbono rimanere attivi e vigili, perché è vero più che mai, che il sonno della ragione può generare mostri, grandi mostri.
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Tra Etica Ed Estetica In che cosa la tecnologia ha modificato la natura? E' questa una domanda che spesso ci si pone, e che può avere molteplici risposte. Possiamo certamente dire che la natura è stata profondamente modificate e influenzata dall'avvento della cibernetica e delle intelligenze artificiali, che hanno cambiato i canoni tradizionali del calcolo, della memoria e hanno ridotto, dimezzato, polverizzato i tempi per la soluzione di problemi scientifici e tecnologici. La rivoluzione tecnologica non è paragonabile a nessuna delle rivoluzioni precedenti, né a quelle delle grandi scoperte scientifiche; né a quella della rivoluzione dei traffici, dopo la scoperta dell'America; né a quella industriale, propriamente detta. Essa ha accelerato il tempo storico, dimezzato le distanze o addirittura le ha polverizzate, ha accelerato la produzione e la conformazione, in termini consumo, delle idee, delle mode, delle ideologie. Lo stesso concetto tradizionale di libertà viene ad essere profondamente modificato.Il tradizionale concetto di oppressione, solo in parte rimane inalterato e solo in paesi particolarmente arretrati dal punto di vista delle forze produttive umane e materiali. Oggi la libertà di scelta di un individuo o di una collettiva può essere manipolata da molteplici persuasori occulti, che indirizzano, vietano, impongono, rispettando solo in apparenza l'autonomia e la dignità dell'uomo. E dei valori spirituali cosa resta? Nella misura in cui
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l'uomo diventa, sempre più parte marginale del processo produttivo e nell'organizzazione sociale, egemonizzate dalla moda e dallo spettacolo e quindi sostanzialmente un consumatore, è un materialismo deteriore che viene ad imporsi e riempire lo spazio spirituale. Sostanzialmente è la merce, nel suo metamorfico apparire e trasformarsi e il suo consumo radicale, considerato come fine, che si costruisce come idolo, feticcio, che pretende una serie di riti e credenze le quali tendono sempre più ad occupare questo spazio. Questo è un serio pericolo, che si corre a livello di massa, qualora non dovesse avvenire un ribaltamento progressivo degli pseudo valori imperniati sul feticismo emanate dalle mercificazione, di un consumo che chiede altro consumo in un iter senza fine (…). La spiritualità rischia di divenire un momento individuabile solo in una limitata a ben indirizzata intellettualità, capace di scartare le suggestioni complesse ed avvolgenti di un tecnologismo e di un consumismo, privato ab imis di ogni capacità di infuturazione. Nell'epoca dominata dall'iper-macchinismo in senso generico e specifico, bisogna guardarsi in continuazione è quello insito nella tendenza alla subordinazione dell'uomo alla macchina o alla tendenza a considerarsi un suo prolungamento (sia nel momento del lavoro che nel momento del consumo voluttuario). A questo proposito mi sembra emblematico il rapporto che Cecilia, la protagonista di un romanzo di Elèmire Zolla, intrattiene con la propria
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automobile; un rapporto che non è più strumentale, ma carnale. E vale relativamente la critica di Umberto Eco che dovrebbe far risalire questo di tipo di rapporto distorto dell'uomo con l'oggetto materiale di primordi della civiltà, all'invenzione della clava, in quanto non tiene conto in maniera sufficiente, delle variazioni qualitative intervenute da allora. Non è possibile paragonare, infatti, un fenomeno d'estasi infantile dell'umanità (prima della civiltà classica, prima del cristianesimo, prima del rinascimento, prima della rivoluzione industriale e tecnologica) con un fenomeno di trasformazione biologica e antropologica, dovuto all'opacizzazione di valori spirituali spiritualmente noti e razionalmente codificati, non più capaci di fornire una griglia morale per il pensiero e per l'azione. Cioè di valori originati dalla capacità di fare della “macchina” un elemento volto alla umanizzazione dell'umanità, di cui è incerta l'origine e ignota la fine, capace di eliminare ogni forma di aliena zione, cosa che sappiamo essere molto difficile e possibile solo in una ipostasi assoluta di individualità socialità forme produttive… mentre tutto scorre e niente si somiglia, neanche quelle realtà idee e cose, che sono illusivamente allusive. Oltre ad una similitudine fenomenica e una simbologia molto superficiale e non strutturale, nulla accomuna ad esempio, il rapporto del guerriero omerico con la propria armatura e il rapporto di Cecilia con la propria automobile. Fra i due tipi di rapporti esistono una serie di abissi
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incolmabili: di status e di ruolo di progettazione e d'utopia. Cecilia che amoreggia fisicamente con la sua automobile (e non si tratta di un esempio limite), a mio avviso, è un campione determinato della nostra epoca, di una certa incapacità reattiva nei confronti di un universo semiotico che ha ormai rivolto le comunicazioni di massa in una massa caotica di informazioni che bombardano l'individuo e ne attenuano e spesso annullano ogni capacità di critica. I pericolo che si corrono qualora non si vada ad un critica generale e puntuale dell'attualità tipo civiltà di moda e spettacolo (inteso in senso ideologico e non in senso quantitativo) sono di carattere dirompente e possono anche condurre alla fine del concetto stesso di progresso e di sviluppo. Il maggiore dei problemi, rebus sic stantibus, è quello di reagire nella maniera più composta ed energica possibile ai processi di massificazione e irrazionalismo (va in questa direzione un progetto di moderna democrazia industriale alla maniera di Adriano Olivetti) evitando ogni catastrofismo apocalittico (tipo di reazionarismi militanti o latenti). Si dirige nel senso giusto ogni azione incisiva tendente a diffondere valori razionali e subordinare tutto ciò che è materiale a forti motivazioni etiche e morali, al superamento di ogni conflittualità, sia nella sfera del comportamento privato che in quella sociale, dando un forte sviluppo alla cultura, alla formazione, alla ricerca all'innovazione, equilibrando il forte impulso di libertà con la solidarietà, il dirit-
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to. Ciò non vuol dire, come in latenza sostenuto da Pier Paoli Pasolini, la cui voce, venuta a mancare tragicamente è ancora capace di provocare, ammonire, suggerire, non abbandono della società moderna nelle sue varie e ormai storiche modulazioni, non rifiuto della scienza, riassunzione di linguaggi esoterici, rifugio in entità storiche del passato e quindi irripetibili, possibilità di considerare ogni potere anarchico, quando non addirittura finire in un tetro cupio dissolvi, intenso come resa nei confronti della forza corruttrice del potere, ormai considerato immodificabile, con una sua inattaccabile logica, interna. Si tratta di dare vita ad un nuovo moto di rinascita, sociale e logica, che integri, al livello dello sviluppo attuale della società, gli antichi valori dello spirito, con il mondo delle intelligenze artificiali e dell'alta tecnologica, almeno nella misura in cui queste contribuiscono o possono contribuire, in modo decisivo, a risolvere i grandi problemi dell'umanità: fame, malattia, ignoranza, che sono grandi termini, di contenitori in cui si trovano cose diverse da paese a paese, da gruppo sociale a gruppo sociale, a causa dei differenti modelli di riferimento, delle diverse lingue e linguaggi, della non omologazione di società tanto diverse tra loro, quanto, oggi, a stretto contatto temporanei e quindi spaziale. In sostanza c'è bisogno di inaugurare un nuovo sistema di moralità ancorata a valori profondamente umanistici scaricati da quelle valenze ormai inerti ed incapaci di essere stru-
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menti di lettura della realtà presente e caricati di valenze conoscitive e morali in grado di dare soddisfazione ai bisogni creati da un mondo, dove una mancanza di valori fondati avrebbe lo stesso catastrofico esito della perdita della legge di gravità. L'uso della tecnologia deve essere al servizio dell'uomo e non contro l'uomo; e qui basta citare, uno per tutti, il caso degli psicofarmaci in gradi aumentare o diminuire la religiosità di un individuo. Ciò istituisce un nuovo concetto di violenza che non è identificabile, se mai lo è stata del tutto, con la brutalità immediata e fisica, che per altro non è nemmeno in regresso, ma deve essere vista in una eccezione molto vasta e multiforme. La violenza viene esercitata sull'individuo con i mezzi più raffinati e accattivanti al punto da risultare a volte anche di aspetto gradevole. Basti pensare alle nostre città che sono state trasformate in pubblicità, cioè il luogo di continuo persuasione e di continua degradazione sia fisica che morale, se è vero come è vero che in essa sta morendo quella accumulo di cultura e di frammenti morali che aveva fino ad ora retto un sistema di equilibri privati e pubblici, psicologi e sociologi. La ricostruzione dell'uomo libero deve partire dalla presa di coscienza di un dato di fondo: la tecnologia, la comunicazione, come forma attuale del lavoro intellettuale e materiale è un fattore ineliminabile e chi pensasse di farne a meno si dimostrerebbe estraneo alla realtà stessa. Però è legittimo chiedere che ci siano
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profondi mutamenti nella sua concreta utilizzazione, della medietà tecnologica non più come supporto dell'iperconsumo, ma produzione di beni durevoli e di macchine intelligenti che contribuiscano alla liberazione intellettuale e materiale dell'umanità. La nuova libertà deve potersi configurare come riscatto dai residui di ogni condizione servile, libertà razionale, protetta da ogni forma di arbitrio e autoritarismo. Bisogna rifiutare parallelamente ogni forma di neutralismo che riscopre i buoni tempi antichi e ogni forma di prosecuzione dell'odierno artificialismo, senza anima, senza metafisica, senza valori. Occorre cercare una nuova spiritualità, dell'uomo, che si configuri come processo continuo di ricerca di se stessi nei meccanismi del mondo, come adattamento alla velocità, come scarto della obsolescenza,come continua invenzione linguistica, come forza filosofica di governo e padroneggiamento di crisi. Condizione di tutto cioè una funzione dell'intellettualità e della cultura nel contesto della società. Quindi bisogna approfondire questa aspetto liberandolo dalle suggestioni del passato e dalle segmentazioni settoriali del presente, in una molteplice rivalutazione dell'uomo nella liberazione dall'irrazionale dominio della mercificazione. Il rifiuto dell'attuale situazione deve andare nel senso della costruzione di un nuovo ed integrale umanesimo inteso come complesso di valori culturali e morali da sostituire al vecchio umanesimo che ormai lascia troppi varchi al nichilismo e alla
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disperazione. Giovanni Grazzini a proposito a proposito di Salò o le cento giornate di Sodoma, ebbe a scrivere, “…non sono affatto sicuro che la ruffiana, che si getta dalla finestra non sia il simbolo della coscienza di Pasolini”, di quel Pasolini che, sulla scia di Marshall McLuhan, Lewis Mumford, Daniel Bell, Ivan Ilich, ipotizzava una società della convivialità e della felicità, come possibile alternativa alla fine del mondo. In tutto ciò c'è una persistente considerazione della civiltà come anti-natura e l'invocazione del ritorno di una società con strutture ridotte al minimo che faccia emergere il puro ed intatto uomo originario. E' certamente questo messaggio ambiguo, che sostituisce la forza della suggestione retorica alla analisi, le invocazioni ai progetti, i richiami apocalittici alle previsioni. L'Apocalisse, intesa come totalitaria paura dell'innovazione, percepita essenzialmente come rottura e disgregazione e l'integrazione come esaltata accettazione di tutto ciò che è nuovo e sofisticato, per dirla ancora con Umberto Eco, connota due aspetti vincenti del sistema; sfuggirli non è facile ma è obbligo qualora si voglia precorrere la difficile strada del superamento dell'attuale stato di cose. Altre vie in questo contesto non sono fondanti: bisogna darsi un progetto complessivo che dia una nuova misura di libertà che stabilisca i nuovi rapporti fra l'individuale e il collettivo, poiché tale rapporto è proprio dell'etica, all'etica deve far capo ogni progetto di rinnovamento civile, cosi come bisogna risolvere
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il problema dell'esteticità o non-estetica strutturale del sistema dell'informazione che, in ultima analisi, si identifica con quello dell'integrazione e dell'alienazione. Al fondo di tutto questo c'è certamente l'esigenza che individui e società nella complessità attuale, trovino in tutte le attività la giusta misura della libertà e la sappiano imporre come disciplina autonoma nei confronti di se stessi e degli altri. Nella coscienza, ormai largamente consolidata, che gli spazi di libertà, che sono mediati dal diritto all'errore, condizione necessaria per ogni ricerca, sono essenzialmente dinamici, condizionati e spinti da una atmosfera attualistica che diede la mutazione e se non l'ottiene si rivolta contro la libertà restringendola in ambienti influenti, di pura estetica generica. L'estetica generica è la manifestazione di automatismi con scarsa motivazione che si avvitano su se stessi, spingendo la libertà nei ghetti della controcultura senza avvenire, disperatamente felici o felicemente disperati. Si tratta di una grande sfida che la storia ha lanciato a se stessa, che noi abbiamo lanciato a noi stessi. Dobbiamo saperla raccogliere, superando il concetto pesante di cultura come bagaglio e assumendone uno leggero di cultura come continua capacità di apprendere, riflettere e inventare nuovi linguaggi, nuovi contenuti e nuove forme.
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Storia Letteratura Arte Il problema, della teoria e della concretezza, di scrivere storia della letteratura e storia dell'arte, rientra nel problema complessivo di scrivere storia in senso generale. Negli ultimi tempi, ma già da tempo, è ripreso il dibattito sulla definizione di storia in senso generale ed anche quello dei rapporti tra letteratura e storia della letteratura, tra l'arte e la storia dell'arte. I due problemi non sono scindibili, e sembra evidente che visti dall'angolazione storica, altro non sono che un momento della storia dell'umanità. La definizione di storia, la sua essenzialità, la sua contaminazione, è tutta riproposta in un quesito provocatorio da Jean Chesneaux con pamphlet di metodologia storica in cui si ripropongono i problemi del rapporto tra politica come modo di impostare i rapporti interindividuali e collettivi e storia come modo di narrare gli eventi e inverare e confermare una identità. Tesi fortemente problematiche quando postulano una indefinita storiografia collettiva e quando chiedono allo storico di “lasciarsi espropriare del suo territorio, per poi partecipare all'opera comune di riflessione soltanto su richiesta della collettività e in accordo con essa”. Affermazioni hanno fatto esclamare ad Emanuel Le Roy Ladurie su “Le Monde”, d'avere di fronte un nuovo Andrej Aleksandrovič Zdanov in mezzo a noi e che giorni cupi si preparerebbero per gli storici obbligati, prima di ogni ricerca, a chiede l'imprimatur di un potere supremo
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non meglio definito. Affascinante è la tesi secondo cui il movimento dello storico non è del passato verso il presente, ma al contrario, dal presente verso il passato, quando ricorda che non è mai detto che ad una determinata fase debba seguire necessariamente un'altra. La soluzione metodologica ai problemi posti da Chesneaux è quella che viene proposta da due storici, danno delle indicazioni che sembrano reciprocamente compatibili. Giuseppe Galasso è per il rifiuto drastico della storia partigiana, parziale, faziosa; respinge senza esitazioni la storia di parte, moralistica, serva della politica o di altro. Antonio Del Treppo, partendo dalla stessa esigenza, è per un rilancio del modello francese delle Annales, cioè di una immagine storiografica di estrema compostezza, con un forte apertura interdisciplinare e per l'attenzione ai fenomeni di lunga durata, di netta preferenza per il seriale, di sottolineatura del quotidiano e del ripetitivo,rispetto alla singolarità e alla grandiosità dell'evento considerando il primo come aspetto stilistico, il secondo come manifestazione di moda. In ogni caso è da rifiutare tendenza a vedere nel passato le linee di sviluppo rigido del presente e affidare alla storia la ricerca delle linee di ten denza di leggi che, determinando il presente ipotizzano quale sarà il volto del futuro. In ciò si gioca la differenza fra una concezione della storia senza direzioni né obbligazioni e capacità previsionali per il futuro, una concezione tecnologica di storicismo di
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nuovo conio che, credendo di conoscere il destino dell'umanità fa di tutto per condurla sulla strada giusta, anche a costo di comprimere la libertà e lo spirito creativo. Nel cammino umano non esistono sensi unici e destini fatali ed ogni possibilità di sviluppo è aperta: il fatto che si prenda una direzione, non vuole affatto dire che sia la direzione obbligatoria. La storia deve leggere la realtà del passato cercando di non sovrapporre i piani spaziali e temporali, in modo di vedere le cose nel presente come seguito a quello dell'epoca in esame. Ciò è necessario al fine di evitare deformazioni e aggiustamenti della realtà a fini giustificazioni o di interesse politico. La concezione storiografica degli annalisti garantisce più di ogni altra dalla possibilità di visioni unilaterali incapaci di distinguere la diacronia dalla sincronia, di comprendere cioè lo svolgimento dinamico della realtà economica, politica e formale nelle sue articolazioni, dalla possibilità di osservarla complessivamente nel momento in cui si è espressa e comunica solo con i documenti letterari, politici, religiosi, pittorici, architettonici. La conoscenza del passato deve essere fatta con strumenti filologici in grado di ripristinare la capacità delle varie epoche di parlare, con la propria voce e non con quella di chi la studia. Non c'è dubbio che nella conoscenza multilaterale del passato, la storia della cultura, cioè della forma religiosa, filosofica, scientifica, letteraria ed artistica si dimostra assolutamente indispensabile. Senza l'Iliade e il Parte-
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none, quale conoscenza si avrebbe della Grecia? Non si potrebbe parlare dell'età di Pericle, senza conoscere il Partenone. La conoscenza artistica è indispensabile. L'arte ci dice della storia e della civiltà di un popolo, delle cose in più. Delle cose che altrimenti rimarrebbero ignote, perché non possono essere dette dagli altri eventi e dalle altre discipline. E poi è chiaro che non è possibile la conoscenza se l'analisi non è fatta con attenzione rigorosa alla specificità ad alla singolarità, e con la capacità di collegare questa a tutto ciò che la circonda e la condiziona, e che essa a sua volta condiziona. La storia dunque è storia di forme, di personalità e del rapporto che c'è tra forme e personalità. Il legame fra forme e personalità non è di facile analisi in senso generale, ma è particolarmente difficile nel campo artistico, dove fra istituzione formale e prodotto artistico c'è un incontro-scontro non facilmente districabile. Se non si distingue fra istituzione e creazione si rischia di rimanere prigionieri di una realtà o negatrice del ruolo dell'individuo o negatrice del ruolo condizionante della società. Come si spiega allora l'immortalità di certe opere d'arte e la banalità di certe altre? Si spiega con la capacità di grandi artisti, Omero come Dante, Policleto come Michelangelo, di leggere nel fondo della mutevolezza della realtà e di rende questa strutturalità di fondo con coerenza, attenta ma non prigioniera del consenso del proprio tempo. E questo perché in ogni situazione oltre alla solidità di fondo c'è una
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mutevolezza superficiale, accattivante e lussureggiante capace di captare l'attenzione della personalità artistica debole, non in grado di penetrare oltre il momentaneo e l'occasionale. Si innesta qui la questione dell'attualità dell'opera d'arte, che è tale solo quando, dopo aver servito il proprio tempo, riesce a servire gli altri tempi, costituendo la memoria storica, il tesoro dell'umanità, a cui fornisce la possibilità di misurare le identità e le differenze, le immanenze e le transuenze. La storia dell'arte e della letteratura, in un ambito di questo genere, è lo studio delle permanenze e delle variazioni. Essa è parte della storia generale dell'umanità: vi è contenuta, ma non con un problematica che non si esaurisce in quella della storiografica generale. C'è differenza anche fra la storia delle arti visive (scultura, architettura) e quella della letteratura. La prima, legge delle opere che hanno una morfologia intraducibile, ma che nello stesso tempo non ha bisogno di traduzione, mentre la seconda si occupa delle letteratura di opere deformate dai mutamenti profondi che hanno interessato la parola o addirittura dalla morte delle lingue che le avevano espresse. Dinnanzi alla storia della letteratura sta il problema di tracciare la diacronia letteraria intensa come arte, relativamente distinta dalla sua storia sociale, dalle biografie degli autori o dalla valutazione delle singole opere. A confronto con un dipinto o con una scultura che si può cogliere con uno sguardo, l'opera d'arte letteraria è accessibile
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soltanto in una certe sequenza di tempo, sicché riesce più difficile intenderla come un insieme compatto; ma l'analogia con la musica dimostra che una tale struttura è possibile anche quando la si debba intendere e cogliere come sequenza temporale. Nella letteratura c'è un graduale svolgimento, dalle esposizioni pure e semplici alle opere d'arte profondamente organizzate e poiché il nesso della letteratura, la lingua è anche il mezzo della comunicazione quotidiana e delle scienze,risulta ben più difficoltoso isolare la struttura estetica d'un opera d'arte letteraria. Ma anche le altre arti hanno le loro questione di confine fra linguaggio formalizzato ed espressioni casuali, che nell'ambito dell'espressione verbale sono solo quantitativamente maggiori. Tenendo conto di queste difficoltà, Giorgio Bàrberi Squarotti sostiene l'esigenza di una storia letteraria che coinvolta in sé anche una storia delle istituzioni letterarie, dei rapporti con le altri, con le altre letterature e alla funzioni della letteratura. (Inchiesta sulla storia letteraria,Torino 1978, p. 14). Il suo centro deve essere la narrazione dei fatti letterari senza camuffarli e tanto meno ridurli a strumento di altre discipline considerate più importanti. E non essendo ben chiaro cos'è il poetico, sostiene che la storiografia ha come compito istituzionale la sistemazione di autori e istituzioni capace anche di aprire prospettive nuove di lettura per interi periodi ancora non ben conosciuti, come la letteratura barocca. Ma una cosa è ciò e un'altra cosa i
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discorsi di valore, la storia della letteratura si rapporta un problema di conoscenza e non di indicizzazione e celebrazione del poetico. Non, dunque, assenza della critica, ma diversità tra critica storica e critica di opere nate nel nostro ambiente culturale. Anche se il compito della storiografia non è immediatamente critico, non può prescindere dalla critica che è coscienza della diversità, filologia, valutazione, comparazione. D'altra parte la distinzione fra artistico e non artistico non risale ad epoche tanto remote ed è inerente all'uso strumentale o meno per cui nasce un oggetto. Noi sappiamo che l'arte, considerata, complessivamente, ha iniziato con il Rinascimento l'operazione di distacco dall'etica e dalla teologica; però anche in questa situazione la sua individuazione per quanto non lineare è possibile con relativo margine di approssimazione. George Kubler nella sua Forma del tempo, sostiene l'esigenza di definire le differenze fra lo storico, l'archeologo, l'etnologo. Il primo studia i prodotti espressivi e utilitari dell'uomo come sistema e complessità, il secondo studia le manifestazioni materiali della civiltà, il terzo studia le manifestazioni immateriali, in maniera analitica e particolare. Lo storico dell'arte distingue tra prodotti pratici e prodotti estetici e classifica questi ultimi secondo i tipi, le scuole, gli stili. L'antropologo e l'archeologo classificano le cose secondo gli usi a cui sono destinate, ma senza aver prima separato la cultura materiale da quella mentale, cioè le cose dalle
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idee. Nel quadro della modificazione delle forme, Kubler inserisce il problema della personalità creatrice. “L'accesso dell'artista alla storia può avvenire in modo propizio o in modo contrario. Ciò in rapporto all'accesso dell'artista alla linea storica, cioè nello stadio di sviluppo di una certa tradizione artistica: primo, medio o tardo periodo”. Da questo punto di vista, il genio universale del Rinascimento gli appare come un individuo di talento, che in un momento fortunato del grande rinnovamento della cultura occidentale, ha impresso la sua orma a numerosi sentieri e ha saputo procedere senza l'impaccio di quelle rigorose prove e ampie dimostrazioni che sarebbero richieste in epoca più tarda. Le differenze fondamentali tra due artisti sono quelle del momento del loro accesso ad una classe formale. Non ha senso stare a discutere se il talento di Leonardo sia stato superiore a quello di Raffaello. Anche Bernardino Luini e Giulio Romano erano dotati, a loro “mancò la fortuna, arrivarono troppo tardi quando il banchetto era finito”. (Kubler cit. pag. 16). Il contributo particolare dello storico dell'arte è quello di scoprire le molteplici forme del tempo, di mettere in luce un disegno che non era visibile a coloro che ne fecero parte. Thomas Stearns Eliot nelle pagine di Tradizione e talento, nega l'appartenenza di un'opera d'arte al passato. “Tutta la letteratura europea, da Omero in poi, ha un'esistenza simultanea e costituisce un ordine simultaneo”. Così nella storia della letteratura, non
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essendoci nulla da scoprire, non sarebbe una vera e propria storia, in quanto conoscenza del presente dell'onnipresente, di qualcosa che è eternamente presente, non c'è differenza tra ciò che è storico e passato e ciò che è storico, eppure in qualche modo sempre presente. In verità un'opera d'arte non resta immutata nel corso della storia, perché cambia il modo in cui è percepita, come reperto alto di una cultura, di un'epoca, di uno stile, è come oggetto d'affezione e di qualità per l'hic et nunc. Il concetto stesso di sviluppo, in una serie di opere d'arte appare particolarmente difficile. In un certo senso, ogni opera d'arte è una struttura discontinua rispetto alle altre e si può anche sostenere che non esiste sviluppo da un'opera ad un'altra e da ciò può nascere l'obiezione che non possa esistere una storia della letteratura, ma soltanto una storia degli uomini che scrivono. A questo tipo di posizione risponde Renè Wellek (La storia letteraria, Bologna,1956), sostenendo che per le stesse ragioni, dovremmo rinunciare ad una storia della lingua perché esistono soltanto uomini che pronunciano le parole a una storia della filosofia perché esistono soltanto uomini che pensano. Un siffatto estremo personalismo non può non condurre alla teoria che ogni opera d'arte sia totalmente isolata, il che, tradotto in pratica, giungerebbe a significare che essa dovrebbe essere insieme incomunicabile. Occorre piuttosto concepire la letteratura come un intero sistema di opere che, con il contri-
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buto di nuove opere, muta costantemente la propria articolazione e cresce. La trasformazione della letteratura è diversa dall'evoluzione biologica e non ha nulla a che vedere con l'idea di un progresso uniforme verso un unico modello. Resta da definire, in premessa, che cosa sia l'attualità, quali siano le sue caratteristiche e gli enigmi temporali che l'attraversano. Secondo Henri Focillon il passato non serve a conoscere l'attualità, in quanto l'attualità sfugge. Cos'è dunque l'attualità, oltre ad essere il gradino tra passato e futuro. Risponde Kubler (La forma del tempo) dicendo che “l'attualità è il momento d'oscurità tra il lampeggio e l'altro di un faro, l'istante di silenzio nel ticchettare di un orologio. Essa è l'intervallo intercronico quando niente accade. E' il vuoto che separa gli eventi. Eppure l'istante attuale è tutto quanto si può conoscere direttamente. Il resto del tempo emerge soltanto sotto forma di segnali che vengono trasmessi in questo istante attraverso innumerevoli stadi e numerosi vettori. La natura di un segnale è tale che un messaggio non è né qui né ora, ma là e allora. Se c'è un segnale l'azione è passata e non è situabile nell'ora, ma il suo impulso, la sua trasmissione avvennero allora”. In ogni evento, l'istante presente e il piano sul quale sono proiettati i segnali di tutto l'essere e nessun altro piano di durata temporale ci raccoglie universalmente in uno stesso istante del divenire. L'attualità continua a sfuggire perché “gli uomini non possono avere piena perce-
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zione di un evento finché non si è verificato, finché non è storia (…). L'attualità è l'occhio della bufera, è un diamante con un foro infinitesimale attraverso il quale i lingotti e le barrette del presente entrano nel passato. Per sentire il vuoto del presente basta pensare alla innumerevoli possibilità non realizzate ad ogni istante” (Kubler). Un'opera d'arte non è semplicemente il residuo d'un evento ma anche il segnale di questo, segnale che spingerà altri a ripeterla e a migliorarne la soluzione. Ogni opera d'arte può essere considerata come un avvenimento storico e allo stesso tempo come la soluzione faticosamente raggiunta di un certo problema. Che l'avvenimento sia stato originale o convenzionale, casuale o voluto, goffo o ben condotto, è cosa irrilevante. Il fatto importante è che ogni soluzione indica che c'è stato un problema al quale erano già state date altre soluzione e per il quale saranno probabilmente trovate ancora nuove soluzioni. Con l'accumularsi delle soluzioni, il problema cambia aspetto. Resta il fatto che la catena delle soluzioni mette in luce il problema. Si vengono a delineare le sequenze formali che possono essere definite come vera rete storica di ripetizioni gradualmente modificate di uno stesso tratto. I contorni dell'attività umana corrispondono quindi a quelli della totalità delle sequenze formali. Ogni oggetto attesta l'esistenza di un bisogno del quale esso rappresenta la soluzione, “persino quando l'oggetto in questione non è che una tarda copia
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di una lunga serie di prodotti approssimati”. I prodotti artistici che non creano una serie, neanche breve, sono inquadrabili nei confini della moda. (Su questo problema si è soffermato Roland Barthes nel suo Sistema della moda). “Una moda –dice Kubler– obbedisce a speciali esigenze alle quali restano impervie le più lunghe modificazioni. Una moda è la proiezione di una singola immagine di esteriorità resistente ai mutamenti della sua breve vita, effimera, aperta solo alla copia, non a variazioni fondamentali”. Le mode non appartengono a una concatenazione di soluzioni ma costituiscono classi di un solo elemento. Una moda è un lasso di tempo senza mutamenti sostanziali, differisce dalla sequenza in quanto non ha una dimensione temporale apprezzabile. Strettamente parlando, una classe formale esiste soltanto come idea, Essa è imperfettamente manifestata da oggetti primi dotati di grande potenza generatrice, quale ad esempio il già citato Partenone, le statue del portale di Reims, gli affreschi di Raffaello in Vaticano. Eppure esso è costruito su una forma arcaica sopravvissuta fino al tempo di Pericle, le statue del portale di Reims rappresentano il lavoro di molte generazioni. Sorge la domanda. Possiamo avere la certezza di trovarci davanti ad un oggetto primo iniziale? Gli oggetti primi –si può rispondere– corrispondono ai tratti primi o a intenti mutati, mentre le repliche non sono che moltiplicazioni di oggetti primi. È indubbiamente un oggetto primo,
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presentando molti raffinamenti che mancavano in altre opere della stessa serie. Con l'accumularsi di soluzioni concatenate si scoprono i contorni di una ricerca operata da numerose persone, una ricerca che ha per oggetto, nuove formule suscettibili di espandere il dominio del discorso estetico. L'opera singola è resa meglio apprezzabile e più comprensibile se non è presa isolatamente, ma inserita nel continuum dello sforzo concatenato. Presa questa posizione come la griglia critica complessiva, è chiaro che ogni grande ramo dell'arte richiede un temperamento diverso. La pittura e la poesia richiamano le nature solitarie. L'architettura e la musica attirano gli amanti della vita di gruppo. L'artista innovatore per eccellenza, come Caravaggio, è funzionalmente solitario. La sua rottura con la tradizione può essere o non essere nota alla folla, ma l'artista stesso sarà necessariamente cosciente dell'isolamento che essa causa. La nostra epoca è caratterizzata da una netta ambivalenza in tutto ciò che riguarda il mutamento. Tutta la nostra tradizione culturale sostiene valori durevoli, ma le condizioni della nostra attuale esistenza richiedono l'accettazione di mutamenti continui. Coltiviamo lo spirito di avanguardia e insieme ad esso il reazionarismo e l'atteggiamento conservatore che ogni innovazione produce. La storia di un'epoca consisterà nel delineare i mutamenti da un sistema di norme ad un altro. Così mentre un periodo è una sezione di tempo a cui si attribuisce un qualche tipo
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di unità, è evidente che tale unità può essere soltanto relativa, il che significa semplicemente che durante un certo periodo si è realizzato un certo schema di norme. Accettata la negazione dell'attualità e l'affermazione delle possibilità di fare storia della cultura e dell'arte, senza perciò avvalorare nessuna forma di determinismo storicistico o dialettico, resta il problema dei margini. Scrive Kubler, che di una questione generale, non è mai indispensabile conoscere le circostanze secondo cui una lingua si sviluppa. Il passo si rivela di grande importanza nel metter in rilievo l'autonomia strutturale della lingua rispetto al parlante, anche se in realtà la lingua si realizza come parole e dunque attraverso una conoscenza. L'autonomia strutturale, dice Cesare Brandi, non ne blocca tuttavia, lo sviluppo nel tempo, né impedisce cambiamenti anche profondi, come nel trapasso dall'indoeuropeo alle varie lingue, al greco, al latino, all'irlandese o nella filiazione delle lingue romanze dal latino, ma l'intelligenza del sistema e dello stesso decorso nel tempo non dipenderà dalla investigazione delle cause che hanno portato ad una determinata struttura o a sostanziali mutazioni fonetiche, grammaticali, sintattiche. Insomma il principio si applica tanto all'indagine sincronica che a quella diacronica. Recepire un tale principio nella linguistica, che è anch'essa disciplina storica, non può significare evincere un'eccezione per la sola lingua, dalla linguistica principio di autonomia di un sistema
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si può estendere ad altri campi, dove egualmente l'indagine semantica è portata a ricostruire un sistema di significazione. Con ciò viene messo in discussione il principio di causalità. La concatenazione causale, lungi dall'offrire il gradiente stesso della realtà, è solo un modo di lettura del sintagma storico a livello degli eventi. Non c'è, nel legame di causa ed effetto, un esito nuovo, come si asserisce nella totalità della struttura rispetto alle parti, ma solo vi si asserisce una dipendenza necessaria fra un antecedente e un susseguente; dipendenza che si può assimilare a quella che si intuisce fra la premessa maggiore, quella minore e la conclusione di un sillogismo. Alla limitazione del principio di casualità corrisponde allora una concezione discontinua della storia, la riduzione d'importanza della storia-racconto come storia di accadimenti, rispetto ai tempi lunghi della storia di una civiltà o di un periodo di una civiltà. Scrive Fernand Braudel in proposito: “La storia-racconto non solo non è un metodo o il metodo oggettivo per l'eccellenza. Può accadere che a volte certi punti d'incontro, certe scadenze diano l'illusione di una sincronia che nel profondo non esiste: l'architettura, come pittura o scultura si sviluppano con tempi diversi e il loro punto di caduta, come già quello di partenza, non coincidono con gli altri momenti della storia sociale, anche se possono essere assunti dalla società per scopi estrinseci. La storia politica come cornice inviolabile della ricerca storica viene ad
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essere violata: “politica e socialità, osserva Braudel, sono i due piani su cui occorre proiettare il corpo intero della storia, ma come nella geometria descrittiva saranno un riferimento, in questo caso gravitazionale, non una spiegazione”. Pur partendo da angolazioni diverse (quelle dell'etnologia), ad analoghe conclusioni giunge Claude Lèvi Strauss (Il pensiero selvaggio) egli contesta la supremazia della dimensione temporale su quella spaziale, denuncia i limiti di applicazione del principio di causalità e nega la possibilità di una storia globalizzante di una certa epoca. Mentre una storia globale, come s'intendeva fino ad ora, cercava di concentrare tutti fenomeni attorno al un nucleo unico, la nuova storia metterà in evidenza lo spazio della dispersione. In questo modo, secondo Michel Foucault, (L’archèologie du savoir, Parigi, 1969) i problemi principali diventano la costituzione di un corpus coerente ed omogeneo di documenti, la definizione del livello di analisi e degli elementi che gli sono pertinenti, la specificazione del metodo di analisi e la determinazione delle relazioni che permettono di caratterizzare un insieme. Tutti questi problemi, continua Foucault, fanno parte del campo metodologico della storia, e caratterizzano una mutazione epistemologica della storia, e caratterizzano una mutazione epistemologica ancora conclusa. L'esempio di questo tipo d'impostazione Foucault lo offre nei suoi lineamenti di storia della pazzia e nell'analisi della rivoluzione francese come un insieme
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complesso, descrivibile, di trasformazioni che hanno lasciato intatto un certo numero di possibilità, che hanno fissato, per un certo numero di altre, delle regole che sono ancora le nostre, che hanno stabilito egualmente delle possibilità esistenziali e formali che vengono a disfarsi o si disfano sotto i nostri occhi. Questo tipo di impostazione non è del tutto nuovo in quanto lo possiamo trovare già in uno scritto del 1928, in una lettera di Romàn Ò. Jakobson a Jurij N. Tynjanov. Secondo Jakobson, linguista, filologo e critico, la storia della letteratura e dell'arte, è caratterizzata da una serie di leggi strutturali e se queste leggi non vengono messe in chiaro, diviene impossibile stabilire scientificamente la correlazioni fra la serie letteraria e le altre serie storiche. Studiare le forme nella loro permanenza e nelle loro variazioni comporta l'acquisizione di una serie di strumenti teorici che ancora non sono definiti, per cui le manchevolezze delle attuali storie letterarie sono prima di tutto teoriche. A proposito Gèrard Genette dice che “è sbalorditiva l'inesistenza di qualche cosa come la storia della rima o della metafora o della descrizione (…). Il ritardo della storia riflette il ritardo della teoria letteraria… che almeno in questo campo deve precedere la storia poiché ne individua gli oggetti”. (Figure III). La storia letteraria (gran parte dei manuali di storia della letteratura, altro non sono se non monografie disposte in ordine cronologico) deve saper leggere in prospettiva genealogica sociologica e psicologi-
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ca (nell'istituzione e nell'invenzione, con le coerenze interne di forma e contenuto, sintetizzate nella lingua); arricchire cronache letterarie con qualche nuovo ingrediente storico, fonte inedita o biografica, non serve a nulla. Si deve affrontare la storia della “creazione” e quella della funzione artistica e letteraria, con strumentazioni adeguate, in grado di svolgere pienamente la propria opera di decostruzione e analisi prima e poi di ricostruzione e sintesi in modo da individuare le differenze, le analogie, le innovazioni, le persistenze. L'analisi storico-letteraria deve vertere sull'istituzione, quale si è configurata nel momento storicamente definito in cui si è costituito il testo mentre l'analisi psicologica pretende il porsi del critico nella tensione semiologica attuale. E pertanto deve muoversi tra la definizione del significante letterario e l'impegno soggettivo del critico, inteso a interpretare l'opera-segno come significazione dinamica e non come senso codificato per sempre. Nella convinzione che nella letteratura in particolare (e nell'arte in generale) non c'è nulla di definito, definibile e l'esigenza di scrivere la storia non deve essere un rifugio rassicurante contro gli imprevisti, ma l'esigenza di rompere da un lato il sistematismo e dall'altro l'atomismo, con l'apertura intellettuale necessaria a cogliere il nuovo e non sclerotizzarsi nel passato. Non esistono modelli astratti a cui uniformarsi, né indicazioni in tal senso da potere dare, esiste piuttosto il problema di accostare il senso comune alla
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creazione artistica di oggi, intendendo, per tale, il passato recente, come si è visto a proposito della puntualizzazione sulla natura dell'attualità, rompendo l'isolamento in cui l'artista lavora. Certo ciò non si può fare con il ricorso artificioso a prospettive culturali che tendano ad unità irripetibili, come quella del mondo greco o del mondo pre-galileiano in generale, bensì prendendo coscienza fino in fondo che il nostro tempo è un tempo non di epica ma di in certezza morale, etica e religiosa; l'arte non deve rappresentare metafore o utopie rassicuranti, bensì l'oscillazione di benessere e malessere: cioè la vita. Deve considerarsi superata la concezione della storia della letteratura, dell'arte, del costume, come strumento di adeguazione ad un certo conformismo sociale o nazionale e quindi di supporto alla storiografia politica. Caravaggio, Michelangelo, Alfieri, Foscolo, Borges, Solgenitzn, ci insegnano che l'arte è appassionato rigore e spirito di libertà: a questo deve tendere la storia della letteratura, spingendo alla conoscenza diretta e critica dell'opera. Ha scritto Louis Borges, lo scrittore che nel nostro tempo, più d'ogni altro ha incarnato lo spirito della scrittura colta, della narrativa: “Ignoro se la musica sa disperare della musica, se il marmo sa disperare del marmo, ma la letteratura è un'arte che sa profetizzare il tempo in cui non avrà più parola, che sa accanirsi contro la stessa essenza, amare la propria distruzione e corteggiare la sua morte”.
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Ricerca Artistica L'arte rientra nell'orbita di quell'analisi del concetto di crisi che investe l'era moderna avanzata, prossima a noi e vi rientra in quanto ricerca intesa a studiare la trasformazione globale dell'uomo e del suo modo di essere nel mondo. L'arte è coinvolta nella crisi globale della coscienza che è generata dal venire meno di punti di riferimento oggettivi e constanti come la natura, considerata ormai come rappresentazione della mente umana o la storia, non più considerata come costruzione teleologica. Lo dimostra l'innumerevole quantità e il continuo mutare dei riferimenti formali che caratterizzano la ricerca artistica, portando alla contemporaneità di tutti gli stili e al continuo sorgere ed obliterarsi delle correnti, che pero negano di essere tali. E' in un ottica di questo genere non appare affatto paradossale che un artista come Picasso possa sentirsi nello tempo vicino all'arte micenea, a quella azteca, a quella nera, a Raffaello e Velasquez. L'assenza di punti fissi di riferimento e la difficoltà di padroneggiamento della tecnologia elettronica, informatica, virtuale, trans biologica, rischia di fare diventare il nostro tempo come quello in cui si consuma il crepuscolo progettuale dell'antropologia biologica, a favore di un destino di automatismo post-antropologico e post-storico, riqualifica l'aspetto fondamentale delle condizioni necessarie e sufficienti della libertà, intesa come controllo critico del reale e del virtuale. La libertà
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come metodo e come fine è la condizione fondamentale per fare permanere l'umanità in fase storica, contrassegnata dalla consapevolezza e dalla intenzionalità, in un ciclo a spirale dove nessun evento ripete esattamente un altro, ed è possibile l’invenzione. L'invenzione è la caratteristica che accomuna, pur nella sostanziale differenza di mezzi e di procedure il progettare dell'arte da quello della tecnologia. Il criticismo che contrassegna tutta l'arte attuale, consiste nella verifica e nella rettifica dell'operare tecnologico dell'industria, della ricerca, della comunicazione, della preordinata serialità dei suoi atti, in una serialità composta da una successione intenzionata. Per fare ciò l'arte deve essere libera di esprimersi e di seguire tutte le vie e tutte le forme che ritiene opportune. Fondamentale e basilare è da questo punto di vista il rapporto fra l'arte e l'universo politico, mediale culturale, economico. Non è possibile un'arte libera senza che esistono condizioni di libertà nella società ed un rapporto critico e franco fra la cultura (consapevolezza dell'agire storico) e le istituzioni politiche museali, promozionali. La Libertà della cultura, per essere tale, deve poggiare su condizioni oggettive e non essere sottomessa agli arbitri della benevolenza del potere, di qualsiasi forma e tendenza. Quando la cultura non dispone di un autonomo spazio di intervento garantito dalla legittimità dell'esistenza di diversi punti di vista concepiti come opposizioni reali, non sintetizzabili dialetticamen-
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te, allora è esposta all'arbitrio del potere e perde irrimediabilmente le sue caratteristiche creative, assumendo quelle dispersive del conformismo e del dissenso. Mai in questi due ultimi casi viene perduta la possibilità di un reale criterio valutativo, perché in effetti le ragioni problematiche del fatto artistico e culturale cedono il passo ad una iperpoliticità che finisce inevitabilmente per soffocare la loro specificità, privilegiando il contenutismo, esasperandolo a scapito del primato formale. Nell'assenza di condizioni di libertà la cultura non ha nessuna possibilità di verificare la decadenza e la perdita della valenze di irriverenza, irritabilità, innovazione. Se viene ristabilita una condizione ancillare nell'arte che impedisce la possibilità del manifestarsi dell'errore, l'arte viene annullata, la possibilità di sbagliare prerogativa fondamentale, non può essere annullata senza con questo negare le basi stesse dell'epistemologia della cultura. La società moderna non deve sbagliare nell'impostare il sistema di rapporti da avere con gli intellettuali creativi che non limitino il loro intervento a diffondere quanto è già stato definito e formato. E' errato credere nell'utilità di un rapporto fiancheggiatore, piuttosto che vedere la potenzialità di un libero rapporto di dialogo, dove la cultura e l'arte non fanno propaganda e non sono sottoposte a ragioni ideologiche estrinseche alla loro intima natura. L'arte e la cultura devono fare la propria strada liberamente e di ciò si giova anche la politica che si preserva la pos-
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sibilità di avere uno specchio correttivo che non la rassicuri, la lodi, escludendola mortalmente dalla complessità e dalla caoticità. La libertà della cultura e dell'arte dai condizionamenti immediati e da quelli mediati si può avere solo in condizioni di reale pluralismo dove non sono date condizioni di stabile supremazia, ma c'è un libero gioco di forze reali che sì contrappongono e che nello stesso tempo hanno in comune l'accettazione delle regole della pluralità, oltre la tolleranza e della reciproca accettazione nella diversità. Perché è chiaro che la misura dell'oggettività reale della libertà dei moderni e della introiezione del pluralismo, si verifica sul piano concreto dello svolgimento storico come attuazione pratica della organicità delle concezione teoriche. Il rapporto tra cultura e società oggi si deve configurare come rapporto di scambio reciproco in grado di elevare la capacità di critica individuale e collet tiva dei processi evolutivi, creativi, innovativi. La cultura da parte sua deve rinunciare ai progetti di razionalizzazione che non tengono conto dell'uomo e deve mediate continuamente, ipotizzare, verificare, prima di fare progetti d'intervento sulla natura umana, che è storica, in continua ricerca di libertà. Ogni pretesa di cambiare autoritariamente e subdolamente la natura umana, non può che tramutarsi in un tragico disegno di offesa della reale umanità e di soffocamento dei suoi bisogni e delle sue aspirazioni reali in nome di improbabili vantaggi futuri. La società deve accettare e
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deve riconoscere la funzione anticipatrice propria della progettualità della cultura e dell'arte, deve abituarsi a non cercare solo certezze e consolazioni, ma cercare di penetrare la meravigliosa sfera dei pensieri che rimandano ad altri pensieri e dei problemi che rimandano ad altri problemi. D'altra parte che cosa sarebbe mai un'arte definitiva e una cultura definitiva, se non l'immagine stessa della morte e della dissoluzione. Una cultura ed una forma artistica disimpegnate dalla ricerca di ulteriori verità si trasformano inevitabilmente in arcaicità o in primitività alla Rousseau, senza vita e senza realtà, incapaci di seguire le stesse modifiche del senso comune. Una cultura ed un'arte impegnate esclusivamente nella diffusione della verità già trovate si escludono dalla problematica stessa della vita e se non sono protette da un potere estraneo, ma interessato alla loro sopravvivenza, sono condannate ad un ruolo marginale e poi scomparire. Tutto ciò indubbiamente ripropone la questione dei rapporti tra l'artista, l'intellettuale in genere, come singolo e come categoria sociale, con la società intesa nell'insieme dei rapporti di produzione materiale e spirituali. La situazione dell'artista e dell'intellettuale si pone oggi in modo diverso rispetto al passato recente. Il rapidissimo sviluppo di tecnologie sofisticate, che naturalmente comportano la produzione e la diffusione di comportamenti stereotipi, scompone le vecchie categorie analitiche di organicità, criticità, dissenso, ponendo problemi
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di difficile soluzione formale e concettuale. In via metodologica si può solo affermare l'esigenza dell'intellettuale di misurarsi con la ridefinizione del proprio ruolo, che poi concretamente significa anche capacità di controllare criticamente i processi di modificazione delle strutture e del costume. Su questa vita l'artista e l'intellettuale non trovano nessun cartello segnaletico e si devono orientare con spregiudicatezza e nello stesso tempo con prudenza. L'unico bagaglio concettuale che ancora dimostra una certa validità è quello derivato dalla grande tribolazione illuministica intesa come disposizione del pensiero ad aprirsi al nuovo inquadrato in una assiologia positiva, con il correttivo della verifica basato sull'incremento di vita e di personalità, pur non potendo contare sul concetto di falsificabilità, di cui dispone la scienza. Una cultura non consacrabile deve essere l'obiettivo di una azione intellettuale rivolta al superamento degli ancoraggi pre-scientifici che ancora caratterizzano tanta parte della cultura non fisico-matematica. Si tratta di un percorso di unificazione critica, basato sul riconoscimento dell'improduttività dei percorsi separati che sono nati dopo l'età di Galileo in cui tutta una parte del pensiero e della cultura si è rifiutata di abbandonare l'apriorismo razionalistico. Ciò ha portato di fatto ad un deresponsabilizzazione umanistica delle scienze sperimentali e all'improduttività della visione desiderante delle scienze umane, emblematica è la letteratura di L’Anti-Edipo, Gil-
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les Deleuze e Felix Guattari, disposti a trovare una logica ad ogni “follia” associativa, che trova una giustificazione nell'ambito di un sistema preesistente, anche correndo qualche rischio di caduta dallo scientifico al demoniaco. Indubbiamente oggi le condizioni della libertà intellettuale vengono a coincidere con le esigenze di libertà di tutti. Libertà non solo come proposizione di tipo garantistico, ma anche come diritto a strutture di partecipazione, di ricerca, di diffusione critica degli elaborati, che la renda concreta, non illusoria e manipolata. Le condizioni della “creazione” artistica rientrano pienamente in quest'ottica dinamica. Se infatti concordiamo con quanti sostengono la decadenza di scuole e tendenze, rivalutando il lavoro individuale, non pensiamo assolutamente ad un recupero della vecchia immagine del produttore isolato. L'assunzione di un nuovo significato della “creazione” individuale può essere considerata produttiva solo se è inserita nella struttura della tecnologia con la capacità di dirigerne e controllarne i meccanismi agenti sulla condotta umana. Altrimenti si rischia il ghetto e la marginalizzazione come pseudo alternativa ad integrazione che diviene vero e proprio stritolamento nell'ingranaggio. In sostanza è l'incombenza di una nuova forma di oppressione. Le condizioni dell'oppressione oggi non possono essere individuate esclusivamente nella violenza palese, ci sono anche quelle violenza nascosta invisibile, immateriale che e più pericolosa appunto perché
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meno percepibile dal punto di vista fenomenico. Le possibilità della libera creazione artistica sono condizionate dalle strutture d'informazione e di scambio che devono essere disponibili ad accogliere la ricerca e le idee critiche. La creazione di strutture leggere, malleabili, trasformabili, è la condizione essenziale per superare una delle forme più drammatiche della marginalizzazione: quella che prevede centri di creazione e irradiazione e centri di semplici ripetizione e riproduzione. Se non viene superata questa diversificazione aprioristica diventa illusoria anche la valutazione della individualità: perché l'individuo che opera nel centro creativo e d'irradiazione sarà sempre considerato normativo nei confronti degli altri. Ciò può sembrare paradossale ma è quanto puntualmente accade nella nostra situazione ed in tutte quelle (europee, americane) che hanno condizioni analoghe. Uno di questi aspetti che ancora dominano la prospettiva della produzione culturale e delle arti visive è quello della incidenza del mercato, su questo problema il dibattito si è negli ultimi tempi un poco attenuato ma vale la pena fare un cenno. Non c'è dubbio che affidare al mercato senza regole la responsabilità ultima nella selezione dei valori non è possibile per vari motivi. Primo perché non esiste un mercato spontaneo, ma sempre condizionato. Secondo perché tra le tante spinte e controspinte che lo caratterizzano, senza una critica puntuale e mediale, finiscono con il prevalere gli aspetti più le-
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gati al senso comune del più forte richiamano la cosa già consolidata. Quindi se da un lato possiamo dire che l'arte senza il mercato non è possibile, perché vengono a mancare gli spazi di libertà necessari anche se non sufficienti. Non possiamo dire che il mercato sia in grado di operare una verifica dei valori senza che intervengano dei correttivi in grado di impostare, anche se in maniera problematica, reversibile, nell'ambito di una dialettica stilistica ampia delle oscillazioni bizzarre del gusto, la questione del rapporto tra società, quindi dei molteplici punti di contatto tra l'opera d'arte e la cultura nella quale si inscrive, restituendo all'operato artistico una sua autonomia ed una sua specificità. Solo in una accezione pluralistica è possibile risolvere il problema del corretto rapporto tra la realtà e l'operare artistico, tra il senso e il significato, in mo do da consentire lo scioglimento di un nodo importante dell'arte in generale, che non è ancora riuscita ad affrontare in maniera adeguata il problema del senso dell'opera d'arte. Questo perché la sfera del significato è in qualche modo fuori dall'operare artistico in quanto tale, anche se si trova indicizzata e potenziata nel condizionamento metaoperativo che è alla base dell'operare. Bisogna arrivare alla saturazione della scissura che oggi esiste fra il linguaggio formalizzato dell'opera d'arte e il senso comune, ancora in gran parte rivolto verso una iconografia tradizionale e rassicurante. Per fare ciò occorre da un lato fare acquistare coscienza
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della autonomia del linguaggio dal non linguaggio e cioè tra il linguaggio e il qualcosa, che viene sottoposto all'azione di codificazione. Dall'altro lato solo così si può recuperare la capacità di comprendere i prodotti culturali della nostra epoca, come risposte alla crisi della presenza della coscienza, cioè come tentativi di risolvere, trascendendole, simbolicamente, le difficoltà della padronanza di sé e del proprio mondo vitale e sociale. Utilizzando gli apporti di molteplici scienze che si pongono il problema delle forme e della loro storia si potrà così, in un tempo necessariamente dilatato, percorrere esaustivamente il cammino dell'arte verso lo strato della leggenda collettiva e potersi quindi incontrare con il senso comune. Nello stesso tempo l'azione della cultura e dell'arte stessa deve muoversi per modificare i punti di riferimento collettivi dalla direzione totalmente storica, facendo in modo che la persistenza di una teleologica extra-storica possa marcare distintamente le caratteristiche che la sperano dall'universo dei bisogni concreti dell'umanità. Si tratta in sostanza di ridefinire il sistema dei rapporti tra il regno dell'oggettività necessitata, il regno dell'intelligenza progettuale e il regno dialettico della metafisica capace di sintesi degli opposti nell'arte, impossibile sul piano della storia. Questo elemento deve sempre permanere se si vuole restare nella sfera dei comportamenti coscienti e non si vuole cadere in una sorta di antropologia post-storica in cui la cibernetica sovrasta to-
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talmente l'uomo facendo concludere la fase della storia, innestando il meccanismo dell'irriflessivo. L'arte costituisce il momento specifico dell'azione del singolo, inglobante tutte le fasi della lavorazione, dalla ideazione fino alla realizzazione concreta e quindi si pone come elemento di misura della differenza di potenziale fra l'esistente e il progettabile, che poi è la molla della storia delle idee e delle azioni umane. In un atteggiamento rigoroso e critico nei confronti della storia della situazione umana, penso che sia fondato un atteggiamento ottimistico circa la sopravvivenza della coscienza sull'automatismo e quindi sulla sopravvivenza dell'arte. L'arte non è avviata alla fine. Se l'uomo rimarrà sul piano della storia, rimarrà anche l'arte che è invenzione umana e non già essere misterioso mandato da Dio e che avendo perduto il suo èlan vital, la sua indefinibile forza vitale, sarebbe condannata a perire necessariamente a causa della sviluppo tecnico e sociale, e non sarebbe rimasto altro che un involucro vuoto. Noi siamo convinti, d'accordo con Ernest Fischer, che l'arte libera di agire muova dal finito in tutte le direzione per dominare l'infinito, può perire soltanto se perisce l'umanità. Infatti l'uomo, divenendo uomo mediante l'intelligenza della fisica e della metafisica, la manipolazione della materia, la contemplazione del visibile e l'intuizione dell'invisibile, uscito dallo stato primitivo, trasformando la natura nell'arte, come incantatore, come creatore di una realtà sensibilmente sovrasen-
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sibile della realtà sociale, sarà sempre il grande mago, sempre Prometeo, che porta il fuoco dal cielo alla terra sempre Orfeo che sottomette la natura alla sua melodia. Perché l'arte l'uomo sintetizza l'aspetto più elevato dell'agire concreto, quello in cui esprime la massima libertà e non importa il fatto che questa massima libertà sia in realtà fortemente condizionata dal sistema linguistico e formale che non ammette di essere forzato oltre certi limiti. Ammette piuttosto spostamenti molecolari impercettibili e solo quando questi hanno fortemente dissestato il modello originario, avviene la catastrofe che genera un nuovo modello. Questo è uno schema storico che è ancora valido, perfomativo, anche se è arduo paragonare quello che è avvenuto nel Novecento, che sta avvenendo ancora oggi, accelerando in maniera vertiginosa gli stravolgimenti di materiali, forme, contenuti. L'evento miracoloso è l'apprezzamento dell'oggi e il contemporaneo amore per la storia, che sia Giotto, che sia Cimabue.
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Progettualità Il problema fondamentale dell'individuo odierno e della società, in cui cresce continuamente il fenomeno dell'interdipendenza, è quello del recupero di una dimensione estetica della vita, non immediatamente legata ai fenomeni di carattere produttivistico e di consumo. L'arte e gli artisti hanno il compito di recuperare questa capacità di fare del momento della presenza dell'individuo nella società e viceversa della società nell'individuo, un momento realmente attivo dei processi della fantasia, dell'invenzione, della critica. La via non è facile: né dal punto di vista concettuale, né dal punto di vista dell'applicazione costruttiva. Non è facile perché esige una rivoluzionamento dei ruoli e delle funzioni che, posto più volte come tema-problema, in verità non è cambiato come fatto di coscienza diffusa, nel senso doppio di coscienza del funzionamento delle strutture e di coscienza della soggettività interagente come pensiero e come azione, ma solo come fatto ideologico, e quindi in gran parte reificato. Dei motivi di questa situazione, necessariamente molteplici e variegati, ne accenniamo solo due: il primo inerente la rottura epistemologica galileiana; il secondo inerente lo scarto utopistico delle teorie rivoluzionarie o anche solo innovative. La rottura epistemologica galileiana ha confinato l'artista nello spazio ridotto dell'umanistica razionale, creatore
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d'inserti applicabili a spazi congegnati dall'architettura, dove il momento funzionale e programmatico prevale su quello progettuale. Nei secoli successivi alla nascita, galileiana e copernicana, delle scienze fisico-matematiche s'è consumato un processo di marginalizzazione dell'artista creativo, anche perché rimasto legato all'ancoraggio vetero-scientifico delle teorie razionaliste nate da Aristotele e da Tolomeo e poi codificate da Tommaso in una dogmatica priva di possibilità modificatrici. Merito delle correnti artistiche a tensione razionale del nostro secolo (futurismo, cubismo, costruttivismo) e del criticismo di tutta linea analitica è stato quello di proporsi la copertura dello scarto fra lo spirito estetico dell'arte e le esigenze formalizzate della ricerca tecnico-scientifica, sulla via della riunificazione della cultura auspicata negli anni '60, dalle correnti che sostenevano l'esigenza di inderogabile adeguazione con il livello dell'industria e non nel senso di adagiamento meccanicistico, ma come acquisizione di una capacità critica sugli effetti messi in moto dalla realtà della fabbrica su tutta la società. Infatti la caratteristica che distingue la nostra epoca e i nostri anni in particolare, è quella del superamento della parzialità industriale a favore di una totalità mediale, virtuale e della stessa industria intesa come leggerezza. Il mondo dell'industria è passato da momento coadiuvante della naturalità, dominata dalla manifattura e dai punti di riferimento fissi per la misurazione del tempo della vita
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degli oggetti materiali e del pensiero (dovuti alla cronologia rallentata della produzione e poi della diffusione e del consumo) a momento della comunicazione, della sostituzione, di ricostruzione della oggettività e della soggettività, quindi non solo condizionante ma addirittura unico. Da ciò deriva un capovolgimento dei rapporti tra possibilità e volontà, che mentre con il positivismo erano solo una caratteristica filosofica tesa a giustificare i rapporti sociali esistenti sulla base della considerazione della rigidezza della struttura, ma che in effetti non era tale, oggi ad una estrema complessità tecnica corrisponde una direzione criticistica del pensiero che si pone prima di comprendere e poi di modificare. I due termini esigono l'abbandono dell'utopia in favore di una riqualificazione dei principi epistemologici che giustificano l'oggi della struttura e della sovrastruttura, sapendone cogliere, nella varietà, gli aspetti unificati e garantendosi quindi uno spazio di intervento reale e dirigente. E si badi che il termine totalità mediale non significa necessariamente accentuazione della fenomenologia tecnologica su tutta la realtà, in maniera immediatamente percepibile e soffocante. Rimangono spazi di pressione minore e spazi di non percepibile pressione (come Ales il villaggio sardo, nativo di Antonio Gramsci e del Piano Collettivo di Giò Pomodoro), ma in tutta la realtà unificata da questo tipo di mercato, opera la stessa logica di assunzione e di scarto del meccanismo tecnologico complessivo che esige
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delle zone di espulsione funzionale alle esigenze delle zone di attrazione che si configurano come universo concentrazionario dalla logica ferrea, ma in fin del conti resistibile. La resistibilità è però condizionata dal superamento dell'ottica ideologico-affettiva in favore di un'ottica teorico conoscitiva. E' tipico della attuale formazione economico-sociale lasciare sopravvivere zone diverse a velocità ridotta, con debole potenzialità comunicativa su cui poi esercitare un controllo, questo sì di tipo ideologico, dando a questo termine un significato di sutura tra una situazione di fatto falsamente arretrata, ma in realtà sottosviluppata e modelli di comportamento unificati dalle esigenze dell'apparato tecnologico apparentemente assente. Si tratta quindi di considerare un concetto di tecnologia e di totalità mediale non come forma parziale che condiziona parzialmente l'esistenza, ma come prospettiva complessiva che mette in moto una serie di effetti che investono tutto l'universo produttivo, morale e culturale. Recuperare la dimensione estetica dell'esistenza, quindi significa recuperare una capacità conoscitiva della realtà che non si lascia nominare dalle vecchie forme dai vecchi nomi, dalle vecchie istituzioni. Per fare ciò bisogna orientare una capacità concettuale in grado di fare delle ipotesi critiche sul reale e sulla base di queste ipotesi passare ad una coscienza progettuale e costruttiva che non si limita ad essere costruzione di un margine di nuova alienazione, catalitico di un
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ulteriore espulsione dai contesti dove si produce, si consuma e si elaborano i modelli comportamentali, estetici, stilistici. L'arte può essere uno strumento valido per la comprensione del mondo che ci comprende, come incombente destino tecnologico e possibile antropologia post-storica. L'arte di sempre, ma quella contemporanea in particolare, articolata per molteplici differenze, diversità, espressioni, si caratterizza come fonte inesauribile di interrogativi su se stessa e sulla storia (intesa anche come cronologia, persistenza e mutazione delle forme). Da ciò deriva il suo aspetto preminente di tipo conoscitivo, capace di portare a superficie i momenti profondi o latenti della realtà che altrimenti andrebbero non conosciuti ed in definitiva perduti irrimediabilmente. L'arte oggi può fare queste in quanto la riflessione critico-analitica che ha fatto sui mezzi del proprio operare e sui moduli linguistici che le sono propri le consente di proiettarsi sull'oggettività circostante, con un'autonoma e rafforzata capacità di restaurare uno strato di leggenda comune, in grado di recuperare quel minimo-massimo di comunicazione capace di rompere l'isolamento dell'artista e farlo ridiventare, come Eschilo o Fidia, interprete dello spirito di fondo del proprio tempo e del proprio contesto sociologico. Quindi non si tratta di recuperare un supposto naturalismo linguistico, con un'estetica impregnata di etica e morale fondamentalmente autoritaria e formatrice, bensì di proporsi la fusione di aspirazioni
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e fantasia in un universo dinamico senza verità, cosciente di non potere mai arrivare alla verità, ma nello stesso tempo in constante sete di verità. L'arte si deve muovere, così come tutta la cultura umanistica, verso una acquisizione di responsabilità scientifiche e solo in questo modo potrà contrastare, da un ottica di coscienza, il meccanismo dell'automatismo materiale, cioè la regressione verso probabili stati di esistenza semi coscienti e sempre meno in grado di fare la critica dell'esistente. Di questo “mondo che ci comprende”, la struttura urbana è la componente fondamentale in quanto è il luogo dove si organizza il mercato metropolitano delle merci e degli strumenti sofisticati. Da qui la degradazione della città a pubblicità, come l'ha chiamata con intuizione analitica Lamberto Pignotti, a significare un tipo di destino programmatico del consumo che la produzione delle merci, di rapida obsolescenza affida alla struttura urbana. Quindi è fondamentale sul piano urbano che si gioca la partita per la sopravvivenza dell'uomo sul piano della storia. Per giocare questa partita (o con linguaggio militare, per combattere questa battaglia) è utile accettare l'invito rivolto da più parti, a sfuggire da un lato la metafisica dell'isolamento e dall'altro l'utopia della predicazione sociale, in favore di un intervento partecipativo dell'artista rivolto alla conquista di un'attualità e di una libertà che è la condizione stessa di ogni atto creativo estetizzante. L'artista si deve appropriare di quella che Mumford
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chiama la cultura delle città, cioè della stratificazione storica delle forme produttive che ha portato l'area urbana a diventare il luogo per eccellenza dove avviene l'incontro e lo scontro tra l'attività estetica e l'interesse immediatamente economico, funzionale. Pietro Consagra nella sua Città Frontale ha affrontato il problema del rapporto tra l'artista e la città, definendo gli spazi d'intervento, differenti da quelli dell'architettura e degli architetti, seppure nella disposizione concettuale analoga ai contributi di quanti come Le Corubusier, Frank Lloyd Wright, Alvar Aalto, che hanno sostenuto l'esigenza del ritorno alla scala umana, rifiutando la scala del sublime, come pura e semplice soluzione dei problemi della metropoli o della megalopoli. La reale potenzialità alternativa all'inevitabilità del sempre maggiore frazionamento del concetto di vita associata e quindi delle capacità di guidare i processi di modificazione della coscienza e della consapevolezza sta proprio nella funzione dell'artista che a differenza dell'architetto esprime, come figura oggettiva, al di là dei diversi livelli di coscienza, una delle funzioni dell'automatismo (si vedono tanti esiti del freddo razionalismo), si pone come possibilità di ignorare il potere delle potenti gerarchie e di esprimere esigenze diverse, orizzontali, comunitarie, in definitiva di valorizzazione dell'individuo, vicine a quelle di quanti sono oggettivamente, anche se non coscientemente, disponibili alle sperimentazioni della fantasia e dell'invenzione. Con-
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sagra lo chiama il potere delle gerarchie. Potere con la p maiuscola e in un importante passo della sua città frontale, intesa come opposizione rovesciamento dell'alternativa brutale tra le città che si estende comunque e dovunque (vedi Los Angeles) e della città di soffocamento babelico, a verticalismo ossessivo. Scrive che l'architettura non ignora il potere, anzi lo accetta considerando di riuscire a dividere, distinguere, dissociare lo strato di sopraffazione dallo strato delle necessità umane. Così si fa apprezzare nel mercato delle prestazioni come un prodotto pacifico che opera in modo chiaro, una collaborazione idilliaca, una guida illuminata, mentre in realtà prende parte alla modifiche della forma del mondo, a servizio di interessi di parte, per quanto legittimi essi possano essere. Fuori dal linguaggio allusivo si può dire che mentre l'arte contemporanea oggi si pone come fantasia, intendendo strutture oggettive e non macchinazioni demoniache e come cultura di crisi, da intendere nella preminente assiologia positiva di ricerca, l'architettura il cui impatto sulla vita, è immediato ed evidente, vive certamente forti forme di disagio, architetture snodate per funzionalità meccaniche a contenitori intercomunicanti che alludono a necessità di spostamenti veloci pneumatici: Kenzo Tange o il progetto della città piramide di Richard B. Fuller dove irrimediabilmente, in prospettiva mediata, la modifica dei modi di essere individuali e collettivi e dello stesso concetto di
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uomo, però non è la crisi in maniera generalizzata, altrimenti si spiegherebbero le mostruosità dell'architettura sui scala planetaria ma non si piegherebbero i molteplici esempi di creatività che nonostante tutto si diffondono, in occidente e nei quattro punti cardinali. Nonostante tutto l'architettura ancora sviluppa, in molte sue tendenza, una sua pericolosa, mitologia di prestigio e di potenza. La vera alternativa è nella continua ricerca e innovazione ardite, da un lato e rispettose della tradizione, dall'altro, l'unico modo di tenersi sospettosi, suscettibili, nervosi, insofferenti, evasivi, entusiasti, squilibrati, attenti, insofferenti, evasivi, entusiasti, squilibrati, attenti aggressivi, pigri, fantasiosi, liberi, inafferrabili. E se l'alternativa è nell'arte, la città espressa dagli artisti che siano architetti, designer, pittori, scultori, poco importa, non può che essere la traduzione nel concreto della fattibilità di un'ipotesi di fondamento oggettivo, diffuso sull'area d'interesse collettivo, della possibilità di sviluppo delle facoltà intellettive. Nel presente e nel futuro storico esiste ed esisterà sempre biunivocità tra città ed intelligenza che generi creatività, poeticità, spiritualità. Questo rivoluzionamento dovrebbe conseguirsi tra artista ed architetto con un loro iniziale avvicinamento intermedio e con un successivo, deciso accostarsi di quest'ultimo all'arte che si pone come problema la città. In quest'ottica salta via anche il vecchio concetto di fruitore come passivo recettore dell'epoca completa e viene a porsi l'esigenza di
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una vera e propria partnership con l'autore. D'altra parte non ha senso sostenere funzioni dinamiche ed inventive in corrispondenza speculare con soggetti storici già dati in modo definitivo. Nell'incontro tra arte e città si pongo due momenti concettuali a confronto: quello di storia e quello di attualità. La situazione storica dell'uomo significa svolgimento cosciente della vita, significa anche accumulazione di fantasia in re e quindi anche oggetto di critica, mentre l'attualità è l'attimo fuggente in cui nasce l'idea che genera il progetto come esigenza di fantasia ad re. I due momenti si integrano nel regno dell'invenzione, che si materializza come nuova assoluta realtà, che richiede l'implicita definizione di un rapporto d'identità rispetto ad ogni preconosciuta realtà, considerando il complesso delle esigenze pratiche come la materia realistica che costituisce ed organizza la potenza della forma artistica e rappresenta la condizione del suo esistere. L'arte si proietta nella città ad un duplice livello d'intervento, quello dell'assunzione di responsabilità sperimentale e quello della responsabilità conservatrice e di restauro. La responsabilità sperimentale è inerente la possibilità di avere eventi che non ripetano quelli precedenti e non ne siano il prodotto meccanico. A ciò porta invece l'assenza di manipolazione intenzionale dei materiali, la tecnica destoricizzata che si codifica come mito o deità, scoprendo nel suo ritmo ripetitivo una sorta di ritualità alienata. La responsabilità conservatrice di
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restauro è inerente la proiezione dell'attività estetica nell'area d'interesse dove agisce l'urbanistica. Di queste due responsabilità l'arte si rende conto rifiutando ogni autoritarismo estrinseco, della forma e della funzione, caratterizzandosi come work in progress: opera che è fatta in quanto è in fieri. Si tratta di una delle possibilità, per rimanere sul piano della storia, di scongiurare il destino l'inevitabile e mantenersi sul piano della intenzionalità come carattere ben distinto dal desiderio e dalla volontà. Desiderio e volontà costituiscono lo stadio della potenzialità che si può attuare ma possono anche diventare velo ideologico in assenza di una valida e controllata tecnica realizzatrice. L'intenzionalità richiama la fusione tra momento teorico e momento pratico dell'intervento sul piano della vita, intenso anche come momento dell'estetica. La possibilità di persistenza dell'estetica come funzione regolatrice di vita nell'era tecnologica è direttamente legata all'acquisizione di un concetto estensibile di qualità capace di dilatare, sul piano della grande quantità e della riproduzione seriale, le proprie caratteristiche, senza per questo disperderle nella banalizzazione e nell'insignificanza. Lo spazio urbano si presta a questa azione di qualità che deve tendere ad inserirsi negli interstizi lasciati dalla massa quantitativa, che pur avendo inderogabili meriti nel sanare vecchie ingiustizie ha finito per creare il nuovo terribile pericolo della coscienza ottusa. Artisti come Arnaldo Pomodoro, Giò Po-
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modoro, come Pietro Consagra, Danj Karavan, Fritz Wotruba, Pietro Cascella, hanno riscoperto nello spazio urbano e negli interventi progettuali sul territorio la possibilità di riannodare la comunicazione tra la qualità e la quantità, misurando quanto ampio è il solco scavato dall’azione del quantitativo sia come conformismo progressivo che come conformismo di conservazione. Solo partendo da queste considerazioni si possono comprendere le critiche fatte al progetto di Arnaldo Pomodoro per il Cimitero di Urbino e l'opposizione di Consagra, alla distruzione della città rupestre di Matera (siamo negli anni ottanta). Nel primo caso si trattava di un progetto tendente ad inserire un elemento nuovo in un panorama ricco di sedimenti estetici e storici, nel secondo caso si trattava di non ridurre a pura esigenza di servizi, l'uscita dalle caverne del popolo materano. In ambedue i momenti sono interessi estrinseci a quelli estetici ad opporsi al reinserimento di una logica integrale dell'uomo nell'uso del territorio. Come possa andare sulla via della unificazione tra senso comune e progettualità estetica lo ha dimostrato il Piano di Ales dove (anche giovandosi delle dimensioni ridotte). Giò Pomodoro ha promosso una democrazia artistica che ha portato alla costruzione di un ambiente estetico, superando l'autoritarismo dell'arte metaforica di memento e l'annullamento dell'artista come fattore individuale in nome di una pretesa armonia del linguaggio basso. S'è realizzato un fatto
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straordinario: un progetto estetico è diventato patrimonio realizzato da tutto il popolo che ha impresso la realizzazione il segno qualificante di una coscienza e di una intelligenza. E' chiaro che siamo su un piano completamente diverso rispetto a quello che vede lo scultore esporre in piazza i propri lavori come elementi che cercano di ritagliare un loro spazio linguistico a mezzo tra la mimesi e la rilevanza. La scultura in piazza rimane sul piano individuale e del frazionamento della comunicazione, in quanto non realizza nessun momento di intelligenza del meccanismo interno all'evento, ma rimane confinato all'espressione dell'assenso e del dissenso del gusto superficiale e ai margini della storicità, dibattuto tra l'integrazione entusiasta e l'apocalitticità millenaria dell'invocazione della natura. L'integrazione e il conformismo, esprimono il dramma dell'alienazione ideologica che si traduce in desiderio comandato dai sensi in cui l'intelligenza ha solo un marginale ruolo memorizzatore e visualizzatore, sostanzialmente assoluto da quello critico. Per comprendere la dimensione del dramma bisogna riflettere sull'assurda condizione della città che si sviluppa sotto i nostri occhi, avvolta in una coinvolgente logica particolaristica, unificata solo quantitativamente da esigenze di consumo che comportano un alto indice di obsolescenza di tutto l'universo dei prodotti. La meccanica che guida ciò è la quantità senza avvenire che si specchia in se stessa come immagine di morte.
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Nell'opposizione a ciò, bisogna superare le due logiche che presiedono ad attuare i programmi dell'individuale e del sociale, come punti di un tutto senza parti d'incontro e di scambio. Fra in dividuo e società non esiste la possibilità di sintesi dialettica,però esiste la possibilità di relazioni con scambi notevoli. E' questo il piano privilegiato della politica intesa nell'accezione etimologica di amore per la polis, che dopo tante demitizzazioni e successive mitizzazioni linguistiche, deve cominciare ad essere il momento di riqualificazione del gusto e della vita critica, nella possibile doppia congiunzione di critica del gusto e di gusto della critica, nel progetto. Le operazioni sul grande oggetto costituiscono il modo adeguato da parte della grande arte, di continuare a resistere e esistere pur nel crepuscolo di tanti valori travolti in Babele, in una progettazione artistica ed estetica dello spazio urbano si recupera un senso della vita, dei tesori di Delfi e di Minerva: la critica dell'esistente e l'immaginazione del futuro.
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Individuale Non Individuale Nell’epoca attuale dominata da un grande fervore di ricerca artistica il problema fondamentale è quello di stabilire un dialogo tra il mondo dell'arte e l'universo sociale articolato. Un grande compito spetta alla critica che si deve porre in una situazione intermedia tra l'arte ed il vasto contesto sociale. Ciò comporta una continua revisione concettuale del suo statuto esistenziale e dei suoi strumenti operativi. La critica non può avere una funzione ancillare nei confronti dell'opera d'arte, perché in questo modo oltre ad essere inutile è anche dannosa, in quanto devitalizza l'essenza problematica dell'arte stessa. La critica deve fare un discorso verticale sull'arte, deve scendere nelle motivazioni di fondo che determinano la nascita del fatto artistico e fare anche un discorso parallelo,indagandone anche i contorni estetici, filosofici, linguistici. Se non fa questo la critica non ha ragione d'essere. Stiamo parlando della critica che prepara i materiali per una riflessione sulle profonde ragioni dell'esistenza, non di quella che si colloca sui quotidiani d'informazione, di puro valore giornalistico, spesso ancorata a fattori di tipo pubblicitario. Linguaggio della critica e personalità del critico camminano assieme, non si può fare una scissione arbitraria dei due elementi, senza rompere un'unità che è di per sé significante, si pensi ad esempio alla scrittura di Bernard Beren-
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son, Roberto Longhi, Cesare Brandi, Giovanni Testori. Ogni critico porta avanti un proprio discorso e da quello, al di là dei riscontri immediati, si deve giudicare la sua azione, positiva o negativa nell'ambito del territorio dove lavora e dell'area culturale di cui è espressione. Se un critico avrà dato un serio contribuito alla formazione di un ambiente artistico selezionato e avrà dato il via ad un dibattito di ampio respiro, la sua attività potrà considerarsi positiva, se avrà fatto solo del piatto moralismo la sua presenza si dovrà considerare negativa o nulla. Oggi la situazione nel campo delle arti visive è molto confusa a causa dell'opera e delle presenza di folte schiere di dilettanti che disperdono la possibilità di creare operatori capaci di selezionare il lavoro dei professionisti da quello dei dilettanti o dei burocrati. Purtroppo tante forze che potrebbero contribuire un serio spartiacque fra ciò che è sistemazione storica delle forme o critica militante del magma presente e ciò che è arte ritarda o dilettantismo, si lasciano impantanare dal moralismo e dallo scandalismo. Ma per fare ciò bisogna chiarirsi finalmente le idee sulla critica, sul mercato, sulle gallerie, sulle istituzioni pubbliche, sulle tecniche attuali dell'arte e sulla loro storia. Una questione ancora aperta è quella della funzione della critica deve essere un discorso facile che deve spiegare i segreti dell'opera d'arte, altri sostengono che il discorso critico deve essere fondato dall'opera d'arte ma deve mantenere una sua auto-
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nomia. Pensiamo che la seconda posizione sia più ricca di prospettive che non la prima. S'introduce cosi la questione di una certa oscurità del linguaggio critico che sceglie di scendere dentro i problemi rispetto a quello che rimane in superficie. Per chi sostiene il pluralismo dei linguaggi non si tratta di prendere posizioni drastiche e assolutiste, ma solo di porre il proprio punto di vista sulla questione e contribuire allo sviluppo del dibattito in corso. Siamo per esempio convinti che la realtà sia maledettamente difficile e complicata. La critica si deve proporre di scendere nei meandri dell'opera d'arte, di studiarne la grammatica e la sintassi, cioè le determinanti della forma, collocarla nella storia delle forme, cogliendone, gli elementi di continuità rispetto alle precedenti e la presenza di innovazioni. Dal punto di vista culturale e metodologico le scelte possono essere molteplici. Quello che non può essere consentito è un uso della critica a scopi consolatori: la critica che ha una parola buona per tutti e immette tutto in una notte buia dove vanno perduti i contorni della specificità, di ogni possibile specificità cioè una confusione incapace di cogliere la complica rete di motivi filosofici antropologici morali di costume, teologici, politici, psicologici, sociologici, che ruotano attorno all'opera d'arte. Quindi non si tratta di una questione tra linguaggio facile e linguaggio difficile, bensì tra linguaggio autosignificante e linguaggio conoscitivo. Il linguaggio critico, cosi come quello scientifico o
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della sperimentazione poetica (poesia, narrativa, teatro), non può non tenere conto dell'esigenza di nominare la sfuggente realtà in atto, con nomi nuovi e con espressioni che tengano conto della rivoluzione (avvenuta ed in corso) nel campo della visualità espressiva e comunicativa, la cui dinamica non si lascia per nulla leggere da un asfittico e banale linguaggio naturalistico. Il linguaggio piattamente naturalistico di cui si rimpiange da più parti la morbidezza rassicurante non è più attuale in quanto linguaggio parziale, assorbito totalmente nelle superate espressioni romantiche o positivistiche. Il pericolo del tradizionalismo ripetitivo, che non è quello della tradizione formale, è di espellere l'esigenza di modifica considerando come massimo risultato posseduto, mentre il pericolo dell'unilateralità modificatrice e quello d'innamorarsi narcisisticamente di se stessa e non prevedere diversi equilibri. Il naturalistico, del concetto che l'arte si debba abbassare per rendere popolare la fruizione, invece di chiedere a tutti uno sforzo di ascesa, e di conquista intellettuale, è da considerarsi totalmente errato: oggi invece si può pensare che possa servire all'emancipazione umana soprattutto un'arte sciolta dal contesto etero diretto e uniformato della consumabilità la cui natura democratica ha soltanto funzione ideologica. Un'epoca problematica esige una scrittura problematica ed un'arte problematica (arte e letteratura di crisi) che devono sottrarsi al meccanismo reificante della massa
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caotica di informazioni e di immagini, e darsi un loro autonoma capacità d'azione culturale. L'alternativa si pone così tra la subordinazione e violazione delle norme, nella scelta per un linguaggio oppositivo contro l'accettazione di una lingua alienata e standardizzata. Ma non bisogna dimenticare che quanto più si va per vie senza sentieri, tanto più bisogna sapersi orientare rispetto ai punti cardinali: nel caso nostro ciò significa rigore delle coerenze all'interno della scelta fatta, perché l'alternativa si pone solo in via preliminare di definizione, superata dall'atto dello scrivere e del segnare, siamo alla materializzazione visuale e plastica della parola, e in uso che è rigore, applicazione decisa implacabile, determinata, irreversibile, assoluta. (Jacques Derrida, Della grammatologia, Milano, 1969). Linguaggio critico non può e non deve giustificare, il linguaggio depotenziato per dare sfogo ad esigenze di tipo pedagogistico, innestato in un modo di pensare fermo alle verità già trovate e divulgate: verità buone per don Ferrante di Manzoni, che spiegava tutto consultando l'elenco delle sostanze e degli accidenti previsti da Aristotele: questo elenco non prevedeva la peste, per cui, colpito dal male, in punto di morte non trovava di meglio che prendersela con la cattiva sorte che gli avevano riservato le stelle. Fuori da quest'ottica, sulla scia di Borges, riteniamo l'opera d'arte come codice cifrato mai del tutto decifrabile, sempre interrogabile dalla critica nella sua totalità significante ma conoscibile
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sempre relativamente. La grande opera ripete ontologicamente il grande mistero del mondo: la sua stessa provocazione metafisica, in quanto portatrice di un senso del mistero altro che è dato dalla stratificazione dei suoi contenuti, saldati in una sintesi irreversibile e dalla impalpabilità della forma, tanto invisibile, quanto strutturale e fondante del gioco poetico. E 'dunque molto importante fornire stimoli e sollecitazioni nei confronti dell'affascinante modo dell'arte posto sul limitare del finito e dell'infinito, del fisico e del metafisico. Stimoli indirizzati alla formazione di un gusto adeguato alle condizioni reali della nostra esistenza. Nel campo delle arti visive si sono avute vere e proprie rivoluzioni, ma a ciò non sembra avere corrisposto un adeguato sviluppo di sensibilità che sembra essere rimasta ancorata ai concetti del bello e del brutto. Ma il fenomeno non è uniforme né privo di contraddizioni. Scrive un proposito Gillo Dorfles: “La sensibilità dell'uomo della strada, oggi, spesso è molto acuta e sveglia, allorché si rivolge ad un oggetto prodotto dall'industria, ad un elettrodomestico, alla carrozzeria d'una automobile, ma appena dall'oggetto d'uso di passa all'oggetto artistico, il suo gusto s'incrina verso lontani ricordi scolastici,vaghe memorie e confronti con l'autentico passato artistico che sembra incombente e non superabile, fa sì che il pubblico consideri artistica la peggiore imitazione stilistica, il peggiore camuffamento d'un passato ormai defunto o qualche ambigua mo-
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dernizzazione decorativa”. Le parole di Dorfles sono una costatazione di fatto che deve essere spiegata rifacendosi all'ancoraggio più profondo della nostra cultura media che è poi quell'insieme di modi automatici, di comportamento, che vanno sotto il nome di senso comune. Non c'è dubbio che il senso comune sia ancora radicato nella convinzione che la pittura o la scultura debbano servire da illustrazione di una realtà o tipo sacro o tipo profano. Dall'altra parte, l'arte è stata per lunghi secoli la forma della rappresentazione, della realtà naturale, mitica o religiosa. Solo dal'700 in poi è iniziato il lungo viaggio delle arti visive verso una completa autonomia e verso la distinzione da altre discipline concettuali. Con l'impressionismo si è verificato il distacco dall'immagine, che è stato poi consolidato dalle varie correnti e tendenze che si sono succedute nel nostro secolo. Periodicamente si è verificato il ritorno alla poetica dell'immagine realistica,ma si è anche potuto verificare criticamente che il suo senso era completamente diverso e quando non era ancorata ad una rigoroso mondo d'invenzione, allora si tratta (e si tratta) di forme legate alle vicende della politica. E' chiaro che questa analisi vale per i paesi occidentali e per l'attuale arte giapponese e specularmente per i paesi del ex socialismo reale, mentre per gli altri paesi si devono fare considerazioni diverse, perché diversi sono i loro riferimenti storici e diversa è la loro problematica attuale anche nel campo delle arti
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visive. Il realismo, quando si è affacciato alla ribalta del nostro secolo, ha rivelato due fondamentali modalità: come metafora del potere o come citazioni di elementi inserire in un proprio, autonomo, discorso d'invenzione e di fantasia creatrice. Di queste due modalità quella in grado di dare esiti positivi è certamente la seconda: ciò conferma in sostanza che le arti visive si sono liberate, definitivamente (nella loro punte avanzate e libere) da ogni soggezione di tipo retorico e liturgico. Ma paradossalmente si trovano ad operare in una terra di nessuno, dove si trovano avversate da chi non può utilizzare a fini di potere, ma anche da parte di opinione pubblica che le osserva con scetticismo. Si può uscire da questa situazione? La domanda è legittima, ma la risposta non è facile. Non è facile perché oggi, nell'età della comunicazione visiva per eccellenza, i media che hanno larga influenza fra le masse, invece di esercitare una funzione pluralista, formatrice e critica, esercitano una funzione ambigua che sveglia il gusto solo nei settori immediatamente collegati con la produzione e la distribuzione, mentre lasciano in ombra o nel sospetto di velleitarismo la ricerca non immediatamente finalizzata. Questa ricerca deve essere osservata con lenti di un'estetica che sappia cogliere i dati momentanei delle moda e i moduli di una storia del gusto nel suo nascere e nel suo farsi. L'auspicio è quello che una nuova estetica (che ancora non esiste), deve nascere dalle condizioni del pensiero e
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dell'esistenza (che ne è determinata a sua volta lo determina) della nostra epoca, e deve coinvolgere tutti in un processo di aggregazione, visto non come passiva uniformità di idee, ma come possibilità da parte di tutti di impadronirsi del risultati delle ricerche visive ed artistiche (tutti in prodotti della cultura). Solo da ciò potrà nascere la capacità di un alto livello di critica, in grado di superare i due momenti ugualmente inefficaci dell'adesione passiva e timorosa e della ripulsa generata dall'incapacità di comprendere. Non si deve nascondere la difficoltà di un disegno del genere che va portato avanti sia sul piano della riflessione interna (degli strumenti che verificano la loro pertinenza) sia su quello della protezione esterna (cercando di coinvolgere quanta più parte dell'opinione pubblica). Per questo secondo aspetto si tratta di fornire non ipotetici ed inconsistenti codici di lettura di questa multiforme realtà sempre in movimento, bensì di stimolare un atteggiamento mentale di disponibilità verso operazioni che costituiscono in modo di riflettere sull'odierna condizione umana. Nell'attualità, la scrittura artistica, che pure è operazione strettamente umana e materiale, si propone di recuperare l'elemento fondamentale della libertà: lo spirito critico e creativo. Infatti, non è certo un caso che gli artisti sono fra i più strenui difensori degli spazi soggettivi e oggettivi della progettualità. Il dibattito sulle strutture, culturali ed artistiche non è nuovo, né si pone ovunque allo stesso modo. Infatti
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si pone a volte come funzionalizzazione di strutture esistenti e altre volte come creazioni di valide strutture pubbliche e private. Le strutture pubbliche devono assumersi l'onere di dare una continua informazione sulla realtà presente e sui dati storici, creando le condizioni per una diversa molteplicità dei rapporti tra arte e società: tutto ciò va fatto con programmazioni organiche capaci di creare confronti e verifiche, affinando le capacità di lettura e di critica della creatività, per formare una vera e propria coscienza artistica. La continua frequentazione, in spazi pubblici, giova sia agli artisti che al pubblico, facendo emergere nel continuo confronto pregi e difetti, analogie fra le opere proposte ed il senso comune o sue possibili (ed a volte necessarie) differenze. Le strutture private (le fondazioni, le case d'asta, le fiere specializzate, le gallerie d'arte) devono farsi carico di problemi culturali che superano la ristrettezza dell'ambito territoriale urbano, per proiettarsi nel contesto generale della produzione artistica e della sua prima presentazione criticamente mediata. D'alta parte oggi non è più concepibile la separazione tra strutture che fanno un'attività di mercato e strutture che fanno un'attività culturale. In specie nel campo delle arti visive, una concezione di questo genere è tempo che scompaia. I motivi che portano a questo tipo di considerazioni sono molteplici, non ultimo quello della sopravvivenza dello stesso mercato. Infatti non può esistere un mercato qualificato dove l'am-
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biente artistico è depresso e dove mancano strutture aperte ad accogliere criticamente il nuovo, chiedendo alla critica severità di metodo e profondità di strumenti analitici. Qui il discorso diventa delicato perché investe la capacità di individui e gruppi di rimettere in gioco se stessi e la volontà di guardare senza schermature ideologiche i problemi che si pongono sul tappeto. C'è oggi una separazione fra le varie strutture esistenti, che deve essere superata in una visione dinamica dei fatti della cultura nel suo complesso, nella convinzione che solo in questo modo si può creare una circolarità di informazioni in grado di avvicinare il senso comune medio alla condizione estetica in senso lato, intesa come teorica e tecnica. Secondo alcuni critici ed osservatori, le attuali condizioni delle arti visive sono di crisi a causa dei processi di mercificazione e reificazione dovuti ai meccanismi di mercato. Non c'è dubbio che il problema sia reale e che sarebbe da struzzi volerlo sfuggire. Però e altrettanto vero che il problema si può discutere e affrontare solo dopo averlo riconosciuto come tale e non lo si risolve con etichette ideologiche, le quali, fra l'altro, non sono in grado di dire come possa esistere una selezione dei valori artistici fuori mercato. E quando si dice fuori dal mercato si vuole intendere fuori dalla libertà di ricerca e dalla problematica che è tipica dell'area in quanto tale. Infatti non c'è dubbio che un mercato del tutto libero ed autonomo non è mai esistito e non esisterà
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mai,ci sono sempre stati dei condizionamenti e degli orientamenti: si tratta di far passare una forza di orientamento e di Guida (spregiudicata e problematica) che possa spazzare via l'enorme massa di materiale non valido che vi prospera facendo leva sull'insufficiente informazione e su stereotipi ancorati al già visto di un senso comune sclerotizzato, a cui le strutture educative ed i massmedia non riescono a dare informazioni valide sui processi innovativi in corso. Proprio in questo campo si registra un paradosso singolare per l'epoca dell'informazione di massa e cioè che la massa di informazioni in possesso del vasto pubblico è bassissima e tendete al grado zero dell'informazione. E' necessario intervenire nel caos dell’informazione (che poi in definitiva significa povertà) opponendo una progettazione culturale capace di sostituire i pregiudizi con i meditati giudizi. Se ciò non verrà fatto, non si avrà sufficiente pressione della pubblica opinione orientata a modificare le tendenze del mercato, ad avere qualificata committenza pubblica e neanche un migliore collezionismo privato: in sostanza non si avrà un miglioramento delle condizioni per la ricerca artistica. Perché non c'è dubbio che, pur tenendo conto dei precisi condizionamenti ambientali e del modo di vivere degli artisti in un preciso contesto sociale sul loro modo di formare, bisogna distinguere tra un bisogno di espressività (insita in ogni persona) ed una ricerca specifica che è patrimonio degli artisti professionisti. I
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due livelli (un po' dovunque) tendono a sovrapporsi con danno per la chiarezza di cui c'è bisogno nelle varie stratificazioni di critica, gallerie, istituzioni pubbliche. Fra l'altro, questo è il modo più adeguato per immettere elementi di regolamentazione diversa del mercato, che lo facciano uscire dai problemi in cui si dibatte. Nell'ambito di un progetto di sistemazione critica dei diversi modi di operare e di una valorizzazione di artisti marginali rispetto al mercato, è necessario tenere distinti gli aspetti di artisticità e di ricerca, avendo presente che in questo campo (come in quello del mercato) il problema è del tutto aperto. Il discorso riguarda i soggetti del fare artistico in interazione con le strutture: è aspetto nuovo, ma per molti versi è quello di sempre, anche se cambiano le modalità e le differenze tendono a fenomenizzarsi in maniera eclatante. In un'ottica generale si tratta di verificare il modo di fare arte, in vaste aeree culturali, senza privilegiare nessuna tendenza e nessun linguaggio in modo particolare e d'altra parte non potrebbe essere altrimenti nell'attuale momento culturale che si caratterizza proprio per mancanza di un linguaggio dominante in grado di imporsi sugli altri e operare in senso normativo. Si devono in sostanza proporre momenti di sintesi di una realtà che si presenta varia ed articolata al confronto di una carenza di strutture che non permette a questa multiforme realtà di valorizzarsi adeguatamente. E' questo il compito delle gallerie civiche d'arte
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moderna che devono incoraggiare il fenomeno della ricerca artistica tenendo conto delle specificità che caratterizzano gli artisti metropolitani e quelli della provincia. Occorre, da parte degli artisti e degli operatori culturali di questo settore, vivere la condizione particolare liberandola da ogni connotazione emotiva, in un'ottica di tipo conoscitivo in cui si possa rendere conto di quello che si deve ricevere e di quello che si può dare. In sostanza, si tratta di potere definire le analogie e le differenze e in posizione speculare con queste definire nello specifico le identità artistiche nella loro inseità. Non c' è dubbio, infatti che il modi di fare arte nelle varie territoriali riflette anche condizionamenti ambientali e territoriali, che ne definiscono le peculiarità. Si commetterebbe un grave errore di prospettiva se si analizzassero le differenze del modo di fare arte, come l'estrinsecazione palese di gap, della circolazione d'informazione. E' molto più concreto che le differenze vadano viste all'interno di una matematica del territorio capace di risignificare gli aspetti più vitali della tradizione culturale del magma delle strategie attuali ed attente a ciò che avviene nel panorama nazionale ed internazionale. Nell'attuale condizione è obbligo sfuggire anche alla dialettica che vede succedersi nei momenti di sviluppo economico la coppia razionalismo-omologazione e nei momenti di crisi di coppia misticismo-particolarizzazione. La via della universalizzazione dei linguaggi è strutturale al concetto stesso di civiltà
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e al concetto di sviluppo-progresso così come si sono venuti configurando storicamente. Il punto d'intervento dell'arte (dell'azione culturale in generale) deve essere quello della salvaguardia dei linguaggi particolari, visti come elementi che non possono che arricchire di connotazioni e valenze positive tutto l'universo dei segni. In altri termini quanto più una cultura regionale è ricca di stimoli e di sollecitazioni, tanto più è in grado di intervenire (dando e ricevendo) sulla scena nazionale ed internazionale, per proporre le proprie angolazioni particolari d'indagine. Negli ultimi decenni con la scesa in campo in modo decisivo dell'antropologia culturale è entrata in crisi tutta una ermeneutica e una modalità di distinzione tra belle arti ed arti minori, o tra arti utili ed arti inutili, con il solido ingresso della categoria ben più ampia di arti visive. L'attuale momento conferma questa dottrina egualitaria delle arti, introducendo un concetto di unità estetica che abbraccia tutte le manifatture umane. Non c'è dubbio però che nella peculiarità dell'arte occidentale non è possibile far coincidere, per estensione, alle arti figurative dei concetti nati per la descrizione e la classificazione degli oggetti di scavo (archeologici in senso lato) e delle culture primitive. Due elementi preminenti nel dato artistico sono la politicità e l'autonomia dell'arte della realtà. Nelle strategie artistiche del ultimi trent'anni si conferma l'autonomia dell'arte dalla realtà nei termini del rifiuto del discorso estetico di scivolare nel mondo dell'eti-
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ca prescrittiva, anche se questa rimane essenziale come reticolo morale complessivo di tutta l'azione umana post-antropologica. L'arte si configura sempre meno come rappresentazione e sempre più come presentazione di se stessa con proprie luci e con proprie ombre. E questo all'interno di una politicità che se vede l'arte in una giusta relazione dialettica con altri campi e discipline, la vede altresì vigile nella salvaguardia della propria autonomia che le permette di non scivolare nell'ideologia, cioè nella falsa coscienza. Il referenzialismo è considerato elemento subordinato del discorso artistico, quando non è programmaticamente eliminato a favore di un tendenziale tautologismo: questo perché viene considerato incapace di leggere le valenze della società contemporanea e di leggere la catena degli effetti messi in moto dalla sua dinamica. Tenendo presente la caratteristica sempre più interdisciplinare del mondo di operare nel campo visuale, la selezione della critica deve scegliere la prospettiva della presa di coscienza dell'arte, come evento auto insignificante e semanticamente autonomo. Lo sconcerto del senso comune davanti a tanta parte dell'arte contemporanea è la sconfitta della critica nella sua duplice funzione di testo, cioè di scrittura creativa autonoma e di interprete, cioè di strumento che vuole esprimere l'inesprimibile. La critica non può abbandonare il suo compito prometeico e sisifico nello stesso tempo, di fare uscire l'arte odierna dalle due premi-
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nenti forme di mistificazione che l'avvolgono: da un lato la sua situazione nel mondo del cabalismo ermetico e dall'altro lato la sua utilizzazione in forma ancillare e designificata. Ambedue queste forme di mistificazione tendono a fare prescindere il senso comune dalla costatazione che l'arte esprime il mondo anche se non riporta (riproducendole) le immagine del mondo. Con un apparente paradosso si potrebbe dire che le arti visive contengono il massimo in realtà,appunto perché afferrano il massimo di irrealtà, tenendo ad esprimere visibilmente l'invisibile. L'auto significazione (in termini di pensiero, immagine e vita autonome in un proprio tempo che sintetizza finito ed infinito) non vuol dire assolutamente estraneità dal mondo, anzi è proprio dalla mancanza di riferimenti causali col mondo che essa acquista la capacità d'essere discorso in grado di comprendere, il mondo. E' da questo che essa acquista nell'universo ludico la capacità strutturale di comprendere, di giocare e sfuggire all'eterno mito della caverna che tutti ci comprende e ci gioca. Le valenze dell'arte che si attardano nel referenzialismo, ma solo emotivamente e difettano concettualmente, sono sostanzialmente incapaci di comprendere che non esiste una naturalità naturale, come punto fisso di riferimento, ma che la stessa naturalità non è che costruzione artificiale della tecnica e della storia. Queste valenze attardate rientrano in una concezione ideologica (e quindi parziale) della realtà, prigioniere della falsa
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dialettica di ottimismo-pessimismo, fuori dalla concettualità sistematica attuale, che ha fatto giustizia delle superate concezioni filosofiche ottocentesche caratterizzate dal sistematismo dei penseurs, che appunto per aver voluto definire tutto, ponendosi come pensiero totale, oggi si propongono come schermatura che deve essere violata, nel senso della critica creativa della creazione critica. La dimensione fabulatoria della dialettica ottocentesca imperniata sulle contraddizioni, con la sua filosofia, della storia, impedisce la possibile saldatura fra l'arte contemporanea, formalizzata e metafisica e tanta parte del senso comune che dalle contraddizioni del presente trae motivi per cercare ideologie rassicuranti e totalitarie che lo sollevano dalla responsabilità di progettare l'atto e il futuro. Il termine contraddizione è utilizzato nel senso di una contraddizione reale, fatta di opposizioni, non implica una contraddizione logica e non richiede, per coglierla, una mitica logica diversa da quella fondata sul principio di non contraddizione. D'accordo con Mircea Eliade quando, a questo proposito, afferma che è “inutile lamentarsi di essere nati in una società industriale; bisogna tentare di vivere come esseri liberi anche in mezzo ai condizionamenti sociali, tecnici, psicologici più terribili”. Ciò vuol dire porsi nella stessa posizione anti-ideologica delle arti visive, posizione di ricerca linguistica e sperimentale, di recupero dell'individualità e di giusta considerazione dei condizionamenti
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ambientali. Che la libertà dell'artista, così come quella di tutti, non sia un libero arbitrio capace di tutto, è un dato assodato: tuttavia i condizionamenti oggettivi, la storia, la cultura, la società, se riescono a fare in modo che l'opera dell'artista ne sia un documento, non riescono ad impedire il suo intervento sul reale con una tecnica che lo presenta, e non con una rappresentazione a specchio. La libertà dell'artista è libertà di scelta dalle costrizioni del necessario: questa libertà si salvaguarda evitando le inutili ed impertinenti disquisizioni sulla sua essenza, ma imparando a riconoscerla nel pluralismo dei linguaggi e nell'assenza di estetiche normative. Nell'equilibrio tra soggetto individuale, cioè l'individuo artista e soggetto non individuabile,cioè la tesaurizzazione storica complessiva, c'è la possibilità dell'invenzione dinamica, scrittura e riscrittura, comunicazione e tautologia, lingua e parola, estetica e bisogno, che scarta i rapporti troppo stringenti fra economia, rapporti sociali, visioni del mondo e opere d'arte, come teorizza Arnold Hauser, ma più ancora Pierre Francastel e il determinismo biologico dei sociobiologici, Edward O. Wilson, Robert L. Trivers, secondo cui tutti o quasi tutti i comportamenti umani fondamentali sono riconducibili ad una matrice comune e tutte le scienze umane: psicologia, antropologia, economia, diritto, dovranno diventare branche della sociobiologia. Su questa problematica si deve anche registrare l'interessante voce di Jean F. Lyotard le cui tesi non
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mancano di destare perplessità in chi è parte dell'universo chiuso costituito dal marxfreudismo. Più comprensive appaiono le posizioni di studiosi come Ernest Gombrich, Rudolf Arnheim, Marcel Mauss, Lucien Lèvy Bruhl, Wilhem Worringer, Guido Calogero, Rosario Assunto, che partendo da diverse angolazioni e con diverse motivazioni, sostengono una concezione dell'arte come equilibrato contrasto di forze antagoniste, in tensione verso un affrancamento armonico da ogni sentimento unilaterale come da ogni unilaterale opinione dell'intelletto. Il superamento della rigidità concettuale delle correnti artistiche, in senso storico e il contemporaneo permanere, o addirittura ampliarsi, di diversi modi di utilizzare materiali, tecniche e strumenti, è palese, dimostrazione di ciò, e cioè: se permane un clima di libero confronto fra le tecniche e le estetiche (o più modestamente le teoriche artistiche) non ci sarà la sconfitta dell'umanità,resa marginale dall'estensione della tecnologia anche ai processi che prima sembravano esclusivi del soggetto individuale, l'artista, come ad esempio la possibilità di riproduzione seriale delle opere d'arte, senza che vada perduta l’originalità. Infatti è un dato accettato dalle posizioni concettuali delle arti visive“contemporanee” che l'elemento di fondo del fare artistico è il processo mentale che lo precede e di cui la tecnica non è altro che il mezzo di materializzazione concreta, per cui rimane valido il pensiero di Blaise Pascal, secondo cui nello spazio
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l'universo comprende l'uomo, ma esso col pensiero comprende l'universo. In questa dimensione l'arte non può che essere un modo autonomo e non finalistico di intervenire nel contesto sociale e reale, non facendosi condizionare da quella coppia dialettica che passa dall'ingiustificato ottimismo nei confronti delle capacità dell'ingegneria sociale del reale, ad una altrettanto ingiustificata repulsione che rimette in gioco i fanatici dell'apocalisse con i loro cassandrismi dominati dall'angoscia millenaristica. Studiare la storia dalle origini dell'uomo ai nostri giorni, significa fornire una serie di metodi che investono tutte le altre discipline conoscitive (filologiche, economiche, etno-antropologiche psicologiche, sociologiche, religiose) in modo da fornire un quadro di riferimento generale, entro cui inserire lo studio dei momenti specifici dell'opera materiale e spirituale. La letteratura, la filosofia, le arti visive, le scienze, devono essere studiate nel loro specifico, una volta che la storia sia in grado di fornire una griglia metodologica generale, capace di dare unità al molteplice. In questo modo si può agevolmente concentrare l'attenzione sulla lettura diretta dei testi letterari, sulla peculiarità del linguaggio figurativo, sui legami tra scienza e società. A proposito dell'importanza dell'istituzione di un solido quadro storico al fine di comprendere il cammino della civiltà e il vorticoso volgersi della vita sotto i nostri occhi, lo storico Fernand Braudel ha scritto che “non esiste oggi una civiltà che si compren-
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sibile senza la conoscenza del cammino da essa percorso, dei suoi più antichi valori, delle esperienze compiute. Una civiltà è sempre un passato, un certo passato ancora vivo”.E per fare ciò, non si tratta di raccontare tutto ciò che si può sapere a proposito della civiltà greca o del medioevo, ma tutto ciò che, nella vita di un tempo, resta efficace ancora oggi; cioè isolare, come dice ancora Braudel, tutti i punti nei quali si determina (in cortocircuito tra presente e passato, un passato spesso lontano anche decine di secoli. Da questo punto di vista la cultura italiana è ancorata ad una visione prospettica del passato che richiede un ritorno costante alle cifre, alle carte, alle date, ai documenti,in sostanza alla verifica dei casi concreti, contro ogni lusinga metafisica e ogni avventurismo della regione,senza sminuire lo spazio della fantasia dell'invenzione. Nonostante queste solide radici, oggi anche la storia è messa sotto processo sull'onda di una irragionevole iconoclastia che si propone di ridurre il suo spazio e annullare quello di discipline specifiche come la storia dell'arte. La negatività di un simile proposito balza infatti evidente se si pensa che, mentre in Italia, qualcuno ha coltivato perniciosi progetti, nell'Europa del centro-nord ed in America l'idea d'insegnare storia dell'arte e architettura si va estendendo e grande importanza viene data all'arte italiana e alle riflessioni critiche di storici dell'arte italiani, a parere di Kurt W. Forster “sarebbe un vero peccato se l'Italia do-
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vesse indebolire o abbandonare l'insegnamento di queste materie, in un momento in cui la necessità e l'urgenza di mantenere l'ambiente abitabile diventa sempre più pressante”. Per quanti ritengono indispensabile lo studio della civiltà artistica per comprendere il cammino dell'umanità, il problema non è quello di mettere in discussione la permanenza dello studio della storia dell'arte, ma di definire quale storia dell'arte debba essere considerata concretamente e con quali strumenti metodologici. Fra i due orientamenti che si confrontano per l'insegnamento della storia dell'arte a livello delle scuole secondarie, uno sostiene l'esigenza di non disunire il momento pratico dell'apprendimento delle tecniche, l'altro invece considera le sue esperienze (pratica dell'arte e storia dell'arte) del tutto autonome, anche se fra loro esiste una relazione: questo secondo orientamento ribadisce il carattere storico della disciplina. La storia dell'arte è essenzialmente materia cronologica e tale deve rimanere con una sua ampia autonomia metodologica basata sulla considerazione che tutti gli oggetti della produzione umana possano essere ridotti ad una lettura antropologica (come espressione della cultura materiale) ma non tutti gli oggetti possono essere letti nell'ambito di un'analisi di tipo storico artistico. Comunque è da ritenere importante un'apertura sul versante antropologico capace di riflettere sulla storia delle cose e dell'ambiente sociale. L'insegnamento della
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storia dell'arte deve mantenere le sue caratteristiche contro ogni assurda pretesa di de storicizzazione. Al più si può pensare ad una articolazione dei piani di studio in modo da unire ad uno studio di carattere generale, uno studio a carattere locale che proceda ad una ricognizione diretta dei nuclei storici della città dove si studia, in modo da rendere attivo il patrimonio ambientale,monumentale e artistico, che non è solo un documento del passato ma una realtà presente e in molti casi operante nel correre alla formazione delle nozioni di spazio e tempo, condizionando la vita sociale. Contestando l'impostazione di storici di tendenza sociologica come Arnold Hauser a Frederick Antal (che considerano l'arte come attività subordinata, riflesso e specchio dei valori e delle ideologie delle classi storicamente dominanti), si può sostenere che l'opera degli artisti ha contribuito e contribuisce non meno di quella dei filosofi e dei letterati alla costruzione della grande cultura. E' da considerare come storicamente falsa l'opinione che vuole la cultura artistica come cultura di minorum gentium solo per il fatto che si esprime in immagini piuttosto che in parole o numeri. Infatti si può senz'altro affermare che storicamente è stata rilevante la presenza della produzione artistica su tutta la dinamica dell'universo culturale. In specie nella situazione italiana si può senza dubbio sostenere che l'ideologia di Giotto non è riflesso di quella di Dante, che il Botticelli non è soltanto l'illustratore di Mar-
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silio Ficino e di Angelo Poliziano, che il pensiero religioso di Michelangelo dipende molto meno che non si creda da quello di Paolo III o di Juan de Valdes. Ma allora, come si spiega la subalternità dell'insegnamento della storia dell'arte rispetto ad altre discipline? La risposta la dà Cesare De Seta che la fa risalire semplicisticamente alla concezione scolastica della riforma gentiliana e del successivo ammodernamento dovuto a Bottai. In questa concezione solo il liceo classico aveva il compito di formare quadri dirigenti socialmente omogenei che avrebbero completato la loro formazione con gli studi universitari. La crisi attuale della storia dell'arte è dovuta al legame esistente con quella impostazione e con la crisi (dovuta alla crescita civile e alle profonde trasformazioni sociali del paese) che ha frantumato il modello elitario della scuola. La crisi dell'insegnamento della storia dell'arte si è acuita con la scaduta funzione del liceo classico. Oltre a questo motivo di carattere generale, De Seta individua un motivo intrinseco alla disciplina dovuto ad una sorta di isolamento che l'ha resa scarsamente permeabile rispetto al contributo delle scienze umane nel loro complesso. De Seta contesta la storia dell'arte costruita su maestri e sui capolavori, così come la storia costruita sulla figura dell'eroe e sul grandi accadimento, che non vuole assolutamente dire negare la rilevanza di un Tiziano o di un Lutero, l'assoluta rilevanza della battaglia di Lepanto e delle Cappella Sistina, piutto-
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sto implica lo studio dei meccanismi di mutamento del corpo sociale e della civiltà nella quale sono compresi Tiziano e Lutero, la battaglia di Lepanto e la Cappella Sistina. Questo compito spetta alle discipline umanistiche tra loro strettamente coordinate e ciò implica un superamento della separatezza attuale che spesso riduce l'insegnamento storico-artistico ad una parodia della raffinata articolazione specialistica della disciplina. Un contributo in questo senso, lo si deve a Ranuccio Bianchi Bandinelli interessato alla definizione dello statuto disciplinare della storia dell'arte, ma anche a definire i suoi rapporti con altre discipline necessarie per farla uscire da un certo nocivo isolamento. Così si legge in una pagina di Bianchi Bandinelli in proposito: “La storia dell'arte deve conservare la propria autonomia, in quanto rimane centrata sulla lettura formale dell'opera d'arte che sola può svelare... a quale interna dialettica fra l'artista e la sua opera, questa deve il suo aspetto definitivo, entro un dato rapporto di produzione, e quale sia in definitiva il suo contenuto. Essa solo può dire quale sia in definitiva il suo contenuto. Essa solo può dire quale sia la funzione di una data opera nello svolgimento storico delle tendenze figurative che prevale in un'epoca. Ma tutti questi elementi, tratti dall'adeguata lettura formale dello opera d'arte, rimangono pure e semplici costruzioni se non li poniamo in stretto contatto con la società umana del tempo, vista nella complessità delle sue com-
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ponenti”. Bianchi Bandinelli riconosce che “vi è innegabile oggi un maggior interesse per la storia sociologica dell'antichità che non per una storia dell'arte che sia fine a se stessa. Sia ben chiaro che si tratta di due cose diverse, ugualmente legittime, ma da tenere distinte anche se i risultati dell'una possono servire all'altra”. Infatti l'opera d'arte ha un proprio significato per indagare il quale è indispensabile un sistema specifico di lettura, un metodo che sveli il meccanismo della sua formazione tecnica, che renda espliciti i diversi valori nel tempo essa ha incarnato. La conoscenza dei fenomeni artistici è fondamentale per definire le caratteristiche di una data epoca. De Seta, afferma che “la cultura di un periodo di costruisce con l'arte non meno che col pensiero scientifico, politico, religioso “avanzando l'esigenza di una ricomposizione in unità delle diverse manifestazioni dell'attività umana”. La causa di una certa non-comunicabilità fra le varie discipline viene imputata alle storie speciali, che hanno artificiosamente diviso ciò che diviso non era. La storia speciale dell'arte se vuole contribuire a ricomporre in unità ciò che alla fonte era unito, deve non solo interpretare il senso delle opere che prende in esame, ma istituire un necessario legame con l'archeologia, l'urbanistica, la storia della cultura materiale; discipline che tutte quante contribuiscono a ricomporre l'identità antropologica dell'uomo moderno tutti i fenomeni culturali per essere letti correttamente devono essere visti
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nel loro tempo specifico e nel loro spazio storicamente determinato. Non tutti i fenomeni sono omologabili sia per portata intrinseca che per durata: vi sono fenomeni la cui durata si misura con la clessidra, altri invece col cervello elettronico, così come vi sono spazi angusti in una città cinta di mura ed altri che hanno estensione continentale. La dinamica tra queste diverse scale di misurazione, la loro ampiezza e loro durata sono mutevoli nel tempo e nello spazio; la loro articolazione, la loro scomparsa o permanenza interessa tutte le forme della vita associata. In quest'ambito, ad esempio, la concezione dello spazio prospettico rinascimentale è una struttura di lunga durata che si misura sul metro dei secoli; dopo Galileo a questo sistema succede un altro, e questo ha necessariamente delle conseguenze nella storia dell'arte. Se le strutture spazio-temporali sono decisive per intendere i profondi mutamenti della storia dell'umanità in generale, appare a maggior ragione chiaro che esse debbano essere considerate indispensabili nell'indagine sulle epoche storiche nelle quali l'arte si poneva come verità e metodo scientifico di conoscenza del reale. Il tempo e lo spazio di Giotto non è certo quello di Caravaggio, né quello di Picasso ma Giotto, Caravaggio, Picasso, devono essere visti nell'ambito di queste strutture, che sono poi in definitiva le coordinate stesse della storia. La relazione che si intuisce tra spazio storico e manufatto, sia essa tavola dipinta, arredo o ambiente ur-
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bano, alla luce di queste considerazioni, è molto stretta. Nella concezione della civiltà artistica le gerarchie hanno solo un valore conoscitivo: in essa convergere tutta la cultura materiale e lo studio delle manifestazioni dell'attività umana, nella progettazione, nella distribuzione e nel consumo. Le vicende del territorio nel suo complesso, dalla campagna alla città, si comprendono solo se inserite nello spazio, della storia posta oggettivamente come il quadro entro cui si rinvengono tutti i termini dell'attività umana, dalla più umile alla più raffinata: dal cucchiaio di legno della civiltà contadina alla saliera di Benvenuto Cellini. Il concetto di civiltà artistica genera l'esigenza di definire e risolvere il problema della storicità e della specificità dell'opera d'arte, cioè dei fatti artistici che si costituiscono in sistema, così come i fatti letterari si costituiscono nel sistema della letteratura. I sistemi della letteratura e dell'arte appartengono alla storia: tra la serie dei fatti artistici e letterari e quella dei fatti storici si può, di volta in volta, privilegiare il momento della continuità o quello della discontinuità, da intendersi come polarità dialettiche nel cui ambito operare con le opportune scelte. Filiberto Menna ha negato che esista una ragione teorica assoluta che possa fare scegliere il momento della continuità o quello della discontinuità, auspicando l'approfondimento di questa fondamentale tematica anche con l'aiuto della linguistica, della sociologia, dell'iconologia e di tutte le metodologie critiche che si occupano
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dei rapporti tra l'opera singola ed il contesto generale. Dalla situazione attuale dell'arte, viene un'indicazione di massima per la discontinuità che più del parametro opposto permette non solo di riaffermare il significato dell'arte e della storia dell'arte, ma di fare avanzare nel suo complesso lo studio dell'arte intesa come pratica significante e specifica. Un importante contributo a dipanare questa matassa ci viene offerto da Renato Barilli che, pur prendendo le debite distanze da ogni forma di storicismo, si di chiara contrario ad una certa mentalità anti-storica che confonde nella propria avversione storia con storicismo, dimenticando che storia non è storicismo. Scrive Barilli: “…tutto il nostro studio umanistico ha (un) taglio storicistico (…). Ora questo è un eccesso, ma sarebbe un accesso insalutare passare all'esterno opposto, cioè eliminare dappertutto il termine storia. Però è eccessivo dire che una disciplina o è storia o non esiste… l'idea è quella di conciliare diacronica e sincronica. La diacronia della storicità e la sincronia dello studio strutturale, semiotico, e in certi casi sociologico, psicologico dei fenomeni. Questa sarebbe la vita più salutare delle nostre discipline, o più in genere della cultura”. In merito alla questione aperta del grado di comprensività della storia dell'arte che induce a parlare spesso di arti al plurale, la definisce non di fondamentale importanza, anche se dietro le questioni nominali ci sono sempre questioni di carattere teorico da risolvere. In genere,
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infatti chi dice l'arte è portata a privilegiare certe pratiche artistiche, soprattutto la pittura e la scultura e anche l'architettura e ad ignorare invece altre pratiche artistiche sia pure sempre legate al settore visivo, il design, l'urbanistica, la pianificazione del territorio, la fotografia, la museografia, anche queste sono arti visive che rischiano di essere tagliate fuori dall'arte. L'interesse verso queste altre pratiche artistiche è posto sempre più all'attenzione degli studiosi dalla rilevanza che acquista nel modo stesso di organizzarsi della nostra società. Il design ad esempio rappresenta, nella situazione attuale, lo sforzo di creare oggetti belli su larga scala senza l'impronta di uno spirito personale, ma anzi l'opera nasce da un lavoro di gruppo. Questo tipo di operazione collettiva è sempre esistita nella storia ed ha rappresentato il modo con cui un'intera comunità ha lavorato allo scopo di migliorare la produzione, sia nel senso pratico che in quello estetico. Per analogia viene richiamato in mentre il rapporto tra la storia dell'arte antica e l'archeologia cioè una branca che tiene molto in conto la capacità di parlare degli oggetti materiali prodotti dalle comunità. Su questo rapporto si sono intrattenuti Bianchi Bandinelli e Andrea Carandini che distinguendo nettamente tra i due concetti in questione. L'archeologia che si avvale come fonte primaria, della documentazione materiale. Attraverso lo studio di questa e dei contesti in cui essa appare aggregata, è possibile procedere su basi sci-
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entifiche non soltanto allo studio dei rapporti di produzione, ma anche dagli aspetti determinati. Da ciò si può dedurre che la storia dell'arte antica è solo un aspetto dell'archeologia o meglio della storia dell'antichità. A proposito dei rapporti fra opera d'arte e oggetti d'artigianato nell'archeologia, Bruno D'Agostino afferma che quando l'artista emerge dalla compagine sociale come figura autonoma e rilevante, diventa apparentemente più facile distinguere gli oggetti di una storia dell'arte da quelli di una storia delle arti. Nel mondo antico, dove la figura dell'artista solo eccezionalmente emerge come fatto rilevante e dove la tradizione è valore preminente e l'innovazione è sospetta, la continuità tra la sfera dell'artigianato e ciò che si vuole a evocare nella storia dell'arte è quasi assoluta. In quest'ambito, una storia dell'arte concepita come studio di capolavori è un non senso. Naturalmente ciò non deve significare rifiuto della personalità e del capolavoro, che sarebbe un paradosso metodologico. Bisogna contemperare le due esigenze, come faceva Benedetto Croce quando, distinguendo tra poesia e non poesia, poneva la personalità creativa, capace di dare vita all'opera eccezionale, in posizione conclusiva rispetto ad un lungo processo di analisi filologica. Croce infatti tendeva a ricomporre nella grande opera gli apporti delle temperie culturali nella quale si era realizzata e questa distinzione-sintesi gli consentiva di isolare la poesia, come opera d'arte conclusa, da tutto il
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resto della realtà significante. Fra grandi opere ed opere minori bisogna instaurare un giusto rapporto di considerazione, perché è da queste ultime che viene il senso delle opere maggiori. Cioè introduce al problema del territorio e della sua considerazione complessiva come bene culturale. Occorre fare apprezzare tutta l'arte e perciò non è sufficiente conservare il Colosseo, l’Eretteo, tenere ben custodite le statue di Fidia e poi distruggere le innumerevoli memorie di antichità e di cultura che giorno per giorno emergono dal sottosuolo. Si tratta di progettare un'azione di recupero per la totalità dei valori culturali complessivi dell'ambiente in cui vive l'opera maggiore e di restituire al paesaggio urbano e perfino a quello rurale una propria dimensione di cultura. Inserire il concetto di bene culturale che per molti versi è un quid di cui bisogna svelare l'identità, tanto controverse, a volte antitetiche sono le definizioni che di esso si danno, nella irrisolta questione, se esso sia un bene in sé, oppure un bene in relazione ad un possibile uso strumentale. Il bene culturale è la sedimentazione storica territoriale costituita da oggetti progettati per la vita materiale ed estetica dell'uomo. Esso è bene comunitario che deve essere posto sotto tutela della comunità nazionale, con una gestione diretta che deve innanzitutto conservare i segni della propria storia se vuole progettare un presente ed un avvenire non costruito sull'effimero o sul falso rifatto. Una nozione di bene culturale, nota Andrea
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Emiliani, deve riconquistare gli spazi originari che motivi diversi hanno fatto trascurare, nascondere o addirittura perdere. Bisogna fare una grande opera d'identità, di soggettività e di genealogia per recuperare la nozione di bene culturale come bene comunitario e di identità che contribuisce alla ricchezza concettuale della vita. La depauperazione della nozione di bene culturale in un feticismo capolavori stico, che di fatto ha abbandonato il territorio al saccheggio su larga scala, non è da considerare assolutamente un fatto innocuo, bensì una degradazione rivelatrice di gravi carenze culturali e morali. Lo stesso Emiliani propone una analisi sulla situazione attuale. Dice in proposito: “E' l'intero paese in realtà che, colto nel vivo di un rischioso trapasso fra mondo della tradizione nuove dinamiche economiche, è costretto a gettare la propria storia alle ortiche, sulla spinta scomposta di mancante pianificazioni, di erosive conversioni industriali, di emigrazioni permanenti e infine di urbanesimi aggressivi, di massiccia speculazione. La storia della tutela, da questo punto di vista, può davvero tracciare un contribuito necessario per la riflessione storia una intera nazione alla resa dei conti”. Perché si vada verso una modificazione generale dell'atteggiamento della pubblica opinione verso il problema della tutela del paesaggio, occorre un intervento massiccio nel campo educativo, formativo, tecnico. Sostenitore dell'esigenza una moderna educazione ambientale è Leonardo
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Benevolo che, sulla scia di Bruno Zevi, popone di metterla in stretto rapporto con l'educazione artistica in generale. Secondo Benevolo il deterioramento del patrimonio artistico è la spia più precisa della degradazione ambientale e l'insegnamento della storia dell'arte, che deve sviluppare a livello di base l'interesse, a livello specialistico la capacità professionale per la conservazione del patrimonio artistico, deve mirare appunto a combattere questa degradazione e promuovere un ambiente migliore. La forma istituzionale della separazione della storia dell'arte dalla storia dell'ambiente che prosegue fuori dalla scuola nella segregazione del circuito di produzione, tutela e fruizione dei beni artistici dal resto dell'ambiente, è stata (e continua ad essere) appunto lo strumento di distribuzione dell'integrità dell'ambiente. A livello metodologico, molte sono le posizioni che tendono conto della molteplicità delle argomentazioni e delle concezioni metodologiche, che cercano di inserire delle guide, in un sentiero vasto e labirintico. La proposta che sembra più adatta ad un simile compito di orientamento nello studio della storia dell'arte così allargata e così responsabilizzata è quella di Renato De Fusco che si può sintetizzare nel concetto di riduzione culturale. Per riduzione culturale non si deve intendere uno sconto di conoscenza, ma una scelta critica rispetto alla quantità ed alla qualità, un ritorno alle strutture essenziali di una data esperienza. Una operazione del genere
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non può essere affidata ad un automatismo meccanico, ma ad una scelta critica del tipo e della natura della riduzione: in questo modo si otterrà un effetto d'amplificazione, cioè la possibilità d'estendere al maggior numero di persone la conoscenza di quelle che si ritengono le strutture essenziali della fenomenologia artistica. De Fusco suggerisce come metro del concetto di riduzione, la nozione di stile assunta nell'accezione weberiana di tipo-ideale, dove il concetto di stile è una costruzione che non rispecchia la fenomenologia del reale, ma costituisce un parametro per studiarla, salvo a modificarsi e correggersi se viene invalidata dall'esperienza dei fatti. La nozione di stile nell'accezione di tipo-ideale consente di operare ulteriori riduzioni. Infatti lo stile, ovvero un modello, una struttura un codice, è il momento teorico della conoscenza, l'altro è costituito dalle opere reali. Facendo riferimento al parametro stile/opere, alcune opere possono essere acquisite con paradigmatiche. Una storiografia così condotta per opere che contengono un ampio spettro di premesse formali, che si svilupperanno in molteplicità di modi e forme, è evidentemente di tipo specialistico, in quanto consente di studiare attraverso pochi casi l'intera o la gran parte dell'evoluzione del linguaggio artistico, guadagnando in profondità quello che si disperde in estensione. La dicotomia stile/opere permette di definire le opere emblematiche che incarnano un determinato codice e ne fissano la tipica
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espressione. Una storiografia condotta per opere emblematiche è anch'essa di tipo riduttivo, in quanto consente attraverso lo studio di pochi messaggi, di individuare vari momenti della struttura del linguaggio di una data esperienza artistica. Le opere paradigmatiche ci danno conto del trasformarsi dei grandi fatti espressivi, delle manifestazioni di arte emergente, quelle emblematiche rendono possibile il maggior numero di riferimenti sociali, politici, religiosi e forniscono il quadro dei fenomeni di artisticità diffusa. E' compito dello storico, individuare e scegliere sia i casi più paradigmatici che quelli più emblematici di una data epoca e quanto più saranno qualificate in tal senso, tanto più il numero delle opere da studiare sarà limitato e più ridotta sarà l'indagine storica. De Fusco, sulla scorta di questo tipo di premessa dà uno schema di manuale ipotetico che sia ampio al massimo possibile e nello stesso tempo non si disperda in mille e mille rivoli nozionistici. Ciascun periodo storico deve essere preso in esame con le implicazioni politiche, sociali, tecniche, linguistiche; la scelta, la classificazione, l'analisi delle opere paradigmatiche deve essere in numero limitato, ma sufficiente a fornire un'idea dei grandi eventi, della evoluzione del linguaggio artistico al fine di delineare la lingua interna del tipo d'esperienza artistica esaminata; sempre in riferimento al suddetto codice/stile si devono scegliere, classificare, analizzare le opere emblematiche, quelle che danno un'idea del
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clima culturale dell'epoca, della produzione media con tutte le sue applicazioni sociali, al fine di delineare la lingua esterna del settore artistico esaminato. Sul concetto di stile, che questo complesso di argomentazioni richiama, Meyer Schapiro propone un'analisi dal punto di vista, dell'archeologo, dello storico dell'arte, dello storico della cultura, del critico e dell'artista, negli aspetti inerenti la riconoscibilità , le corrispondenze interne, le connessioni tra forma interna e sentire collettivo, il giudizio di valore, la determinazione della qualità . Andare ad una archeologia del sapere, significa proporre l’adeguatezza dei mezzi ai fini che si vogliono conseguire, in una continua revisione che deve portare al potenziamento degli strumenti di analisi e di sintesi che necessariamente soffrono di una continua usura per cui non solo bisogna essere attenti alle performance ma anche ai meccanismi interni che la presiedono come a dire che la linguistica diventa razionalistica, ingegneristica, di un cantiere che non si conclude mai ma fa da grande specchio sia per gli enigmi che per le conoscenze.
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Estetica Cultura Critica Il tema della cultura, della sua definizione, in relazione alle condizioni del suo determinarsi, affermarsi e mutarsi, si riaffaccia nel dibattito teorico ad intervalli sempre più brevi. Negli anni sessanta del novecento, la querelle tra cultura umanistica e cultura scientifica, causata dalla invasione, in tutti i campi dell'agire umano, da parte delle macchine tecnologiche è portata avanti da Charles Percy Snow con il suo volume Le due culture, aveva suscitato un grande ed articolato dibattito, complessivamente dominato da un ottimismo attivo per il futuro. Alla fine degli anni settanta il tema è stato portato all'ordine del giorno dall'estendersi di controculture autodistruttive o parassitarie, giustificate dalla crisi endogena dei grandi sistema sociali, produttivi e di comunicazione. Negli anni Ottanta e Novanta si è riproposta la questione come tematica della mutazione continua, che invalida il concetto di acquisizione in termini quantitativi e stabili per orientarsi verso quello della qualità, della mutevolezza, della continua invenzione, della virtualità, dell'attualità. L'argomento è di quelli che interessano orizzontalmente e verticalmente, in quanto la cultura, lungi dall'essere un prodotto di lusso rappresenta il tessuto connettivo della società umana. Nella discussione degli anni sessanta, caratterizzata dalla contrapposizione radicale delle due culture, viste quasi l'una con-
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tro l'altra, vi era una forzatura, se per cultura si deve intendere quel processo di formazione tipico dell'uomo, con cui si migliora e perfeziona la qualità della vita. Certamente è innegabile che, mentalità, atteggiamenti generali, metodi di lavoro, differenziano gli umanisti e filosofi dagli scienziati e tecnici: dal medioevo in poi si è approfondita in occidente la distinzione tra cultura umanistica e cultura scientifica, l'una particolarmente attenta ai valori e ai fini della vita, l'altra essenzialmente incline a descrivere la realtà esistente e affrontare tecnicamente i problemi materiali della vita dell'umanità. In quel dibattito si auspicava, nella tensione estrema della polemica, il compimento di una scelta alternativa tra la cultura umanistica e quella scientifica. Successivamente le alternative sono divenute meno radicali, ma in compenso si è affermato un maggiore senso di dramma e di incombente tragedia, da parte di chi pensa al crepuscolo dell'uomo, mentre io penso che siamo appena all'alba (Francesco Barone, Il ruolo dell'intellettuale, “Civiltà delle macchine”, nn. 1-2. gennaio-aprile 1977, pp. 89-94. Il punto fatto da Barone, sul finire degli anni Settanta, è valido come momento di partenza nell'analisi di un concetto e di una condizione che viaggiano sul filo del rasoio di un vero e proprio cambiamento di status, dovuto alla crisi irreversibile del modello industriale pesante basato nell'acciaio e sulla durata apprezzabile e all'insorgere di un modello post moderno in cui l'invisibilità è diventata prota-
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gonista, travolgendo l'idea stessa di durata nel vortice, piÚ psicologico che oggettivo, del tempo reale. Il travaglio nell'acquisizione di una coscienza pluralistica della cultura testimonia da un lato la sua difficoltà concettuale ma soprattutto l'importanza del rifiuto dei dogmatismi assoluti). Al fine di meglio comprendere i termini odierni della questione (nelle differenze, ma anche nelle analogie) occorre necessariamente puntualizzare le definizioni stesse che si possono dare del concetto di cultura: definirla come stratificazione antropologica, come progetto storico nei suoi rapporti con le macchine, con la politica, con le masse, nel suo atteggiarsi fra razionalità e fantasia in un'epoca di transizione, nei rapporti con le controculture, nel ruolo degli intellettuali, i famosi chierici di Julien Benda. L'acquisizione importante del Novecento consiste nel superamento (travagliato) del termine cultura al singolare in favore del termine plurale culture, differenziato nei diversi periodi storici, nelle diverse fascie sociali, nelle diverse aree geografiche. L'utilizzazione del termine cultura risale al 1750, ad opera di intellettuali tedeschi che distinguevano tra kultur (cultura come fatto sociale) e bildung (formazione individuale). Fuori dall'area culturale tedesca si continua ad utilizzare il termine civiltà riferito ad arricchimento ed accrescimento sociale; il termine è derivazione latina, ma non ricorre nel latino classico: pare si sia formato in Francia con le lingue romanze derivate dal termine civiliser, mentre il corri-
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spondente in italiano civiltà è dovuto a Dante. Il termine cultura ha il sopravvento verso il 1850 con il significato specifico del senso insieme di attributi e di prodotti delle società umane che sono extrasomatici e trasmissibili con meccanismi diversi da quelli dell'eredità biologica. Il termine cultura utilizzato dai latini (colere) in riferimento alla coltivazione dei campi venne trasferito all'uomo come semina di informazioni pratiche e moraIi e considerato un bene assoluto, condizione stessa di libertà, tanto da fare affermare a Diogene Laerzio, nelle sue Vite da filosofi, che gli uomini in cui i vivi sono superiori agli incolti nella stessa misura in cui i vivi sono superiori ai morti. (Domenico Porzio, Le definizioni di cultura, ivi, pp. 19- Nel Medio Evo la genesi del concetto si è rifatta alla perfezione, le cui origini si attribuivano all'inizio del tempo: la verità era già rivelata e ad essa si era aggiunta nei secoli la saggezza umana, sena possibilità di ulteriori progressi. Il Rinascimento con la scoperta dell'humanitas di rese conto di poter raggiunger risultati importanti, senza essere però in grado di comprendere la differenza tra questi risultati e quelli del passato. Nel settecento si formò il convincimento che i moderni, potessero uguagliare e superare gli antichi: la determinazione di ciò che ebbe molteplici fattori tra cui la precisazione e l'affinamento del linguaggio, delle usanze, dei costumi, lo strutturarsi di una filosofia conscia dei suoi problemi e l'avvento dei lumi razionali. Voltaire nei suoi Saggi del
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1756 mise in risalto l'importanza dei costumi, del senso comune, inerenti, come matrice per lo sviluppo del concetto scientifico di cultura, dello scire per causas. L'indicazione volterriana venne recepita in Germania da Heder, Adelung, e Jenisch con l'assunzione di una metodologia d'indagine più storico-etnografia che filosofica. In questa direzione si pose, circa mezzo secolo dopo, il Klemm: il lui il termine cultura non significa più educazione, ma quel complesso, quella totalità che comprende le conoscenze, le credenze, l'arte,la morale, il diritto, il costume, e qualsiasi altra capacità e abitudine acquisita dall'uomo in quanto membro della società. Edward Burnett Tylor, nella sua celebre opera La cultura primitiva pubblicata nel decennio successivo a L’origine della specie di Darwin apparsa nel 1859, propone un concetto di cultura di tipo essenzialmente sociologico e antropologico. Secondo questa concezione la cultura non è solo consapevolezza critica ma anche comportamento in quanto tale. Il Taylor riconosce l'esistenza di una cultura primitiva in sé omogenea e strutturalmente diversa da quella dei popoli civilizzati. La posizione del Taylor è di tipo illuministico, ma mentre per la cultura illuministica lo stato selvaggio si configura come uno stato fondamentale asociale, la condizione limite dell'individuo isolato. Tylor riconosce ad esso una forma specifica di organizzazione della società primitiva. In ciò la sua posizione è analoga a quella del Klemm, vicina all'illuminismo, nel
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considerare lo sviluppo storico come passaggio da una originario stato selvaggio alla barbarie e dalla barbarie alla civiltà ma lontana nella esclusione illuministica della possibilità per i primitivi di produrre una cultura: Tylor riconosce che c'è una cultura primitiva così come c'è una cultura progredita. Nella sua teoria scrive Pietro Rossi nella introduzione al Il Concetto di Cultura (Torino,Einaudi, 1971) lo sviluppo della cultura non coincide più con il progredire della scienze delle arti, con lo sviluppo intellettuale ed estetico, prima di giungere a tale stadio l'umanità ha attraversato una organizzazione sociale primitiva, personificando i fenomeni naturali in entità mitiche e concependo l'universo come dimora di spiriti invisibile e attivi. L'ambito stesso del concetto di cultura viene allargato, nell'intento di comprendere lo stadio primitivo dell'evoluzione umana e poter collocare, accanto al sapere scientifico, alle credenze religiose, alle manifestazioni artistico letterarie, al diritto e alla morale anche i costumi e tutti i modi acquisiti in virtù dell'appartenenza ad una data società. Dal Klemm e dalla sua tesi dell'individualità del patrimonio culturale di ogni popolo, Tylor trasse l'indicazione di un concetto di cultura più vasto in cui rientravano anche i modi di vestire e di adornarsi, gli oggetti di culto, i mezzi di trasporto: cioè, sia i costumi che gli artefatti. In tal modo, egli dava la prima formulazione esplicita del significato totale di cultura come strumento fondamentale per comprendere il processo
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storico dell'umanità. La sua definizione di cultura non ebbe molto successo in un contesto inglese ed europeo in cui generalmente l'istruzione imperante era quella classica ed umanistica che vedeva sé stessa non come parte importante del patrimonio umano ma come tutto. La definizione accademica di cultura rimane ancora quella data Mattew Arnold (Dizionario di Oxford, 1893, alla voce cultura): cultura strumento per il perseguimento della perfezione totale,attraverso la conoscenza di quanto di meglio si è detto e pensato nel mondo. Nel 1920, Clark Wissler riprende la formulazione tyloriana di cultura come complesso di tutte le attività sociali nel senso più lato come il linguaggio, il matrimonio, il sistema di proprietà, l'etichetta, le industrie, l'arte. Quanto all'ambivalenza dei due termini cultura e civiltà li utilizza entrambi, optando poi per il primo, perché più libero da riferimenti che indicano gradi di progresso. In Germania, Weber propone il termine civiltà, per significare le attività oggettive, tecnologiche e d'informazione e il termine cultura quelle soggettive, cioè religiose filosofiche, artistiche (in pratica si ripropone lo schema della distinzione tra fatto individuale e fatto sociale). La questione, rimasta sempre aperta, è quella tra modello astratto e prodotto concreto, per cui oltre ad un problema linguistico relativo ciò che è accumulazione e irreversibilità storica e ciò che è altamente variabile, l'uomo, esiste un altro problema aperto tra le condizioni che permettono il verificarsi
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del fatto artistico e il fatto artistico in atto. La cultura allora, secondo tale distinzione, consiste in modelli astratti, poetici e filosofici e non comprende i prodotti culturali: il prodotto artistico non è propriamente cultura, mentre lo è il patrimonio di nozioni tecnico–artistiche, unito all'ingegno dell'artista, costituisce componente ineliminabile dell'opera d'arte. Bronislaw Malinowski ha sottolineato questa distinzione tra cultura e prodotto culturale, chiamando la prima cultura non materiale e la seconda cultura materiale. La cultura come modello astratto viene recepita attraverso un processo di apprendimento che rende possibile la sua trasmissione nel tempo e nello spazio: la sua sopravvivenza non è dunque automatica ma deve essere alimentata dalla società. La cultura differisce tanto dal prodotto culturale quanto dal mezzo di trasmissione culturale: un quadro o un libro si conservano da soli nel tempo, si può perdere la componente culturale come esempio è accaduto per la lingua latina e per quella greca: esse infatti sono sopravvissute come prodotto culturale ma i loro contenuti sono andati perduti e la trasmissione è stata interrotta (infatti noi ignoriamo il mondo dei romani e dei greci di parlare ed viverle). Le definizione di cultura date da Boas e Malinowski si situano tutte sulla scia di Taylor,ampliandone la capacità descrittiva e facendone emergere con più precisione gli elementi costitutivi, strutturali, stilistici, che fanno da stabilizzante originario alle emergenze origi-
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nali. Franz Boas e la sua scuola, ad esempio, insistono sulla differenza tra eredità biologica ed eredità sociale: la cultura non è trasmissibile con i meccanismi riproduttivi della specie umana, ma si acquisisce con l'apprendimento, rifiuta le spiegazioni deterministiche della cultura, perché la ritiene irriducibile a condizioni extraculturali. A suo avviso la cultura non è determinata dall'ambiente geografico, né dalle caratteristiche biologiche dei popoli, né dalla situazione economica perché è la struttura economica ad essere influenzata e dipendere dalle condizioni culturali. La posizione più netta di distinzione della cultura dalle condizioni esterne della società si deve al Alfred Kroeber, che si richiama alla distinzione spenseriana tra evoluzione inorganica, evoluzione organica ed evoluzione superorganica che genera il suo stesso determinismo, con la volontà e l'intelligenza, situando in quest'ultima la sede propria della cultura. Malinowsky identifica la cultura con l'eredità sociale ma sviluppa lo schema di Taylor dal singolare al plurale. Mentre Taylor ha sempre parlato di cultura, Malinowski parla di culture, non condividendo la tesi della uniformità della cultura presso tutti i popoli, ma proponendo la tesi di diverse cultura fra loro indipendenti, aprendo una problematica vastissima sui costumi, sugli usi che formano i linguaggi e distinguono le civiltà urbane, fondate sulla libertà dalle grandi società burocratiche, basate sulla sudditanza. L'interpretazione corrente vede nella cultura un
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insieme di modelli normativi, condivisi dai membri del gruppo: la cultura equivale ad un sistema di valori che diviene sistema di vita e guida al comportamento. Oggi, il concetto di cultura ha valicato i limiti dell'antropologia e delle scienze sociali per assumere una portata filosofica e più ancora, scientifica. Il termine cultura definito da tutti i possibili angoli di indagine, descrittiva, storica, psicologia, strutturale, genetica, ontologica, biologica, linguistica, semiologica, statistica, è entrato a far parte del repertorio corrente degli operatori sociali, degli psichiatri, degli psicologici, degli economisti, degli studiosi di diritto, dei filosofi logici ed estetologici. Intanto è ritornato prepotente, preannunciato dall'universalismo di Oswald Spengler e di Arnold Joseph Toynbee, il concetto di cultura espresso da Immanuel Kant nella Critica del giudizio, come rivalutazione delle possibilità di scelta fra alternative possibili. (Massimo Salvatori, La cultura come progetto, ivi pp. 27-32). La cultura è secondo Kant, proprio la capacità di scegliere i propri fini in libertà: perciò la cultura soltanto può essere l'ultimo fine che la natura ha ragione di porre al genere umano (non la sua felicità sulla terra o semplicemente il privilegio di essere il principale strumento dell'ordine e dell'armonia della natura esterna ed irragionevole). Insomma, Per Kant il grado di cultura in un individuo o in un gruppo sociale è determinato dalla consapevolezza nell'esercitare libere scelte. Ogni elemento limitativo della possibilità di scelta è uno
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ostacolo all'esercizio della cultura da parte dell'individuo o del gruppo. La cultura va messa quindi in relazione inscindibile con libertà intesa sia come potere operante in vista dei fini, sia come potere di operare in assenza di impedimenti esterni. Nella definizione kantiana è, dunque, implicito il rapporto tra cultura e libertà: la libertà come condizione di cultura, la cultura come fondazione di libertà. Esiste una possibilità di conciliazione tra il sociologismo antropologica di derivazione tyloriana e kantiana cultura della libertà? Secondo Massimo Salvatori la possibilità di conciliazione esiste proprio nelle culture cosiddette dominanti. Nelle culture che hanno dato vita alle civiltà complesse, si riscontra infatti la presenza dei fini, per cui una certa forza storica ha lottato con consapevolezza e la presenza di comportamenti automatici individuabili e collettivi che configurano le stratificazione antropologica. Condizione stessa, perché una cultura possa diventare dominante è la traducibilità dei fini liberi in comportamenti sociali. Lo storico Johan Hiuzinga nel suo saggio su La crisi della civiltà, afferma che ogni cultura presuppone il tendere verso una meta ideale, la quale è più che l'ideale di un individuo: è l'ideale d'una comunità, ma in quanto è un'aspirazione,la cultura esige assolutamente la pratica dell'ordine giusnaturalistico e della sicurezza dell'individuo dalla società e della società dallo stato. Dall'esigenza di quest'ordine nasce tutto quanto si chiama diritto. In quest'accezione noi pos-
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siamo parlare di cultura come sistema, unicamente quando la colleghiamo ad un gruppo sociale stratificato in grado di proporre obiettivi concreti e astratti, di breve e di lunga scadenza ed organizzare le strategia e le tattiche per il suo raggiungimento. La cultura non si può esaurire in aspetti particolari, ma deve essere un insieme di fini e di mezzi, un insieme di regole le quali devono avere la caratteristica della coerenza di fondo. Infatti dove esistono diversità di comportamenti e di visioni organizzative, là esistono diversi valori, diversi fini pratici, diverse interpretazioni teoriche del reale,che corrispondono a diverse culture: perciò, in concreto, nella storia esistono solo culture al plurale e il singolare può essere accettato solo in relazione ai caratteri formali della sua produzione. Collocare le culture nel tempo e nello spazio significa metterle in rapporto al mutamento storico e sociale. Le culture non sono eterne: esse nascono e muoiono in conseguenza della raggiunta e poi perduta capacità di interpretare il mutamento storico e proporre una organica organizzazione sociale. Un sistema culturale è la sintesi interpretativa di una determinata epoca, la sua stessa forza di coesione di vitalità: ma storicamente è avvenuto che certe culture dopo lunghi periodi di dinamismo hanno perduto le caratteristiche di elasticità, divenendo corpi rigidi ed inerti, in sostanza incapaci di ulteriori adattamenti, allora sono state poste in discussione e sostituite. Il grado di vitalità di una cultura che la
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fa sviluppare e non sostituire, è nella sua rinnovata capacità di interpretare e dirigere il mutamento storico. L'avvento della modernità ha introdotto nella storia della cultura un elemento qualitativo nuovo, che è dato dalla contrapposizione e dall'affiancamento dei progetti culturali delle classi dominanti con quelli delle classi inferiori che, per la prima volta nella storia, appaiono in grado di darsi una cultura e addirittura proporla all'intera società. Non sarebbe infatti possibile l'idea stessa di rivoluzione moderna senza un progetto culturale, di gestione o organizzazione sociale. Ogni rivoluzione sociale implica una rivoluzione culturale precedente. Nel concetto di rivoluzione culturale, oltre al sovvertimento, è presente la convinzione di poter interpretare praticamente il passaggio dal presente al futuro. La cultura è di per sé progetto, sia quando vuole mantenere lo stato dell'esistente, sia quando lo vuole cambiare. Essa è sempre proposta di certi fini a scapito di altri possibili, scelta di valori, fedeltà a modi di comportamento. Croce stesso parlava della cultura come orientamento e fede,volendo affermare che la cultura è un sapere che si organizza in vista di un modello etico. La cultura come progetto (cuore della posizione di Gramsci, che da quella crociana proviene, innestata in un filone virtuoso di materialismo storico e dialettico, che è cosa diversa dal materialismo meccanicistico e dalla vulgata del leninismo stalinismo, poi burocratismo del socialismo reale) porta a considerare i
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suoi rapporti con il sistema sociale:infatti la cultura non è solo conoscenza, essa è l'uso della conoscenza in base a certi valori economici, sociali morali, etici, politici. Ma senza un rapporto continuo con la realtà (nei suoi mutamenti e nelle sue permanenze) essa cessa di esistere e tende a divenire specchio deformante di ogni cosa, cioè ideologia. Le due deformazioni del rapporto tra cultura e sistema politico si hanno in presenza di due processi totalitari: quello delle politica che tende ad annullare gli spazi di autonomia della cultura e dirigerla a fini di potenza e di dominio e quello della cultura che nell'aspirazione ad espandersi verso una possibile totalità, rifiuta la libertà di critica come mezzo di controllo divenendo essa stessa dogmatica, come proposta di altre visioni della realtà e della storia. Una esemplificazione in questa direzione si può cogliere nella vicenda del marxismo in versione sovietica. Infatti esso ha perduto ogni residuo culturale per trasformarsi in strumento ideologico nelle mani del potere politico e come ideologica è diventato intollerante anche verso le parziali eterodossie, anche quando si manifestano, nel suo stesso ambito dottrinario. La totalità culturale che non è espressione di una supremazia emergente, di un libero confronto, non è altro che una funzione, del potere nella sua strategia di organizzazione del consenso intorno alle proprie scelte, alle proprie strategie, di sottomissione, di consenso. Inutile dire che gli uomini di cultura devo-
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no orientare le loro scelte verso i sistemi politici che pur non rinunciando ad una loro modo di esser definiti anche dal punto di vista culturale, mantengano aperti i canali della libera esperienza, del civile confronto, della critica dell'esistente, della libera, progettazione di fini e modelli, della tolleranza e del pluralismo, nei confronti di chi appare morfologicamente ed essenziale diverso. Maggioranza e minoranza non sono criteri assoluti per definire i rapporti tra culture, spesso le culture di minoranza non solo altro che culture a cui viene imposta coercitivamente una condizione di minorità (Alessandro Portelli, Le culture non egemoni, ivi pp. 45-52). In genere la cultura a cui viene imposta una condizione di minorità, è quella di un gruppo sociale subalterno che è costretto a cedere, anche dal punto di vista dei comuni, del comportamento e del linguaggio. Comunque, non si può stabilire un rapporto meccanico fra le condizioni dell'egemonia politica e quello dell'economia culturale, perché, fra l'altro, sarebbe a rimetterci con un corposo esempio, la storia dei greci sottomessi politicamente dai romani ma, a loro volta,vincitori della esile cultura filosofica degli abitatori dei sette colli. Certo, bisogna distinguere fra le condizioni dell'egemonia nell'età antica e pre-industriale in genere e quelle della nostra età, in cui le tecniche di manipolazione hanno raggiunto livelli elevatissimi e fortemente sofisticati. La cultura della borghesia moderna e della società complessa di tipo occidentale
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possiede molteplici strumenti per governare le culture dei gruppi minoritari, ma è anche vero che nel suo stesso seno si manifestano tanti gruppi e correnti tali da non giustificare una sua definizione unitaria. Parlare di una cultura borghese è giustificato in senso generale come determinazione storica di un fatto l'ascesa economica e politica della borghesia nel mondo occidentale e l'estendersi della sua influenza su tutto il pianeta. In senso analitico, così come non si può parlare di cultura ma bisogna parlare di culture con partizioni verticali ed orizzontali, bisogna parlare di culture della borghesia. Culture proprie in senso stretto e culture marginali che di solito ottengono sempre più spazi non solo di sopravvivenza e di libera espressione. In generale le culture borghesi sembrano aver preso coscienza dell'importanza di lasciare libero campo alle differenze etnico-linguistiche (non senza contraddizioni anche gravi). Il recupero e la difesa dei modi di espressione culturale dei gruppi minoritari è di fondamentale importanza per una dialettica della libertà umana. I gruppi minoritari vivono sia all'interno della stessa società moderna, borghese e pluralistica (avanguardie estetiche politiche, filosofiche, ma anche gruppi tradizionalisti e reazionari) sia fuori di essa (i neri e gli indiani americani, gli zingari). E' molto importante lasciare libero corso alle differenze, perché da esse scaturisce ogni possibilità di libertà e di dinamismo sociale. D'altra parte, già all'interno di uno stesso fatto
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culturale possono emergere spinte contraddittorie, a seconda del momento e delle intenzioni particolari in cui viene vissuto. Anche quando una cultura di minoranza o emarginata si rivolge al proprio passato solo per rimpiangerlo, già questo contiene un momento di identificazione speciale, diverso da quello egemone e può presupporre un recupero di attualità, in un imprecisabile futuro. Questa considerazione teorica ha guidato la revisione storica nelle analisi dei rapporti tra padroni e schiavi nelle piantagioni americane dell'ottocento. Se gli schiavi non si ribellavano ciò dipendeva dalla valutazione dei rapporti di forza e da una scarsa propensione al suicidio collettivo. L'opposizione al sistema schiavistico si svolse in forme segrete e minute, tali da permettere una griglia di rapporti interpersonali e comunitari capaci di mantenere una loro identità particolare, diversa da quella dei padroni bianchi. Soltanto la totale distruzione di una cultura, il genocidio (come quello tentato dai kmeri rossi del Pol Pot in Cambogia) o l'assorbimento completo (di cui è stata tragica testimone l'ultima guerra civile balcanica) può fare cessare le potenzialità segrete e palesi di opposizione. In questo senso il Luigi Lombardi Satriani definisce il folklore, cultura di contestazione che limita le possibilità di espansione delle culture dominanti e preserva la possibilità per culture ridotte ad uno stato di staticità di riprendere una funzione organizzativa in senso moderno. La persistenza di aree di autonomia cul-
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turale rispetto alla funzione avvolgente dei grandi modelli egemoni è fatto positivo, che deve essere però distinto dal revival,consumistico, volto a ripristinare per scopi commerciali e turistici i modi delle culture tradizionali e locali. La distinzione non avviene a livello dei contenuti recuperanti, ma a livello della gestione dei modelli comportamentali e nei rapporti di potere che si vengono a stabilire all'interno del processo di recupero. Anche il canto popolare può essere trasformato in merce, in prodotto per il mercato culturale e addirittura può essere rivenduto ai suoi stessi produttori mediante l'accattivante mediazione dei mass-media. La cultura delle classi popolari, in una società che voglia valorizzare tutte le potenzialità di un proprio armonico sviluppo, deve essere considerata per quello che è, diversità e opposizione, non compiacimento. La funzione dello studio, dell'uso, della ricostruzione delle culture non egemoni o delle minoranze etnico-sociali e linguistiche, deve consistere nell'organizzare lo sforzo per essere indipendenti sul piano materiale, avere strutture per la propria organizzazione, e concorrere alla dialettica delle posizioni complessive di un contesto culturale libero e pluralistico. Il problema delle culture di minoranza, introduce alla vasta questione delle controculture come forme oppositive specifiche, che si possono articolare all'interno delle eccezioni correnti nella definizione della cultura. Quando nel linguaggio corrente si parla di controcultura si allude
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a culture di categorie sociali determinate, minoritarie, con forti caratteristiche di originalità, separatezza, a culture giovanili, a pratiche di gruppi emarginati, a culture etniche e subalterne. (Umberto Eco, La controcultura, ivi, pp. 53-60). Le accezioni di definizione di cultura si possono comprendere nella partizione di quattro grandi categorie; estetica, morale, critica, antropologica. Chiaramente queste categorie corrispondono ad una culturologia teorica che non è immediatamente individuabile nel concreto esistenziale dei popoli, dove non esistono molteplici fattori di sovrapposizione e distorsione. La definizione di cultura estetica, si oppone alla scienza, alla politica, alle attività pratiche e produttrice. In quest'ambito la controcultura è rappresentata dall'azione politica, dall'economia e da tutto ciò che si distacca dalle istanze, del gusto e della sua storia. La cultura morale si definisce come istanza superiore contro la bestialità, l'ignoranza e il comportamento massificato, è cultura il possesso del sapere in tutte le sue accezioni, la controcultura in questo caso è costituita dalla pseudo cultura edonistica della massa. Una controcultura di tal fatta è espressione di gruppi sociali emarginati, sessuali, linguistici, che si esprimono in forme dissociate e indisciplinate e nel rifiuto del potere e dell'integrazione: la rappresentano nella varie colorazioni e sfumature, gli assenteisti delle fabbriche, gli auto riduttori, gli indiani metropolitani,i renitenti di leva, e nelle manifestazioni estreme, i vecchi cultori
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della P. 38 e gli appartenenti agli arcipelaghi terroristici. La nozione antropologica di cultura, comprende i riti, i miti, le credenze, i comportamenti quotidiani, le tecniche materiali e non prevede la possibilità di controculture: è sentita come estraneità profonda l'esistenza di altri modelli culturali che non si riescono ad assorbire. La cultura antropologica non sempre è esplicita, spesso si limita a funzionare: essa si concretizza nell'essere vissuta senza manifestare la consapevolezza critica del proprio esistere. Solo in presenza di un incombente modello alternativo la cultura antropologica diventa cosciente e sviluppa delle concettualità critiche. Senza un pericolo di questo genere la cultura antropologica si configura come modello di umanità immutabile (e tale è rimasto nei piccoli gruppi isolati che non hanno mai avuto il trauma del contatto con culture diverse; infatti in queste comunità non è mai cambiato nulla, la loro vita si svolge ed è organizzata come quella di tutta l'umanità dell'età della pietra). L'accezione antropologica di cultura l'abbiamo formalizzata sui primitivi, essa non è applicabile anche ai popoli complessi, arretrata, intollerante, violenta, anche perché in questo caso, in presenza di una stratificazione sociale ed intellettuale abbiamo fenomeni che sono contemporanei vissuti e criticati. Applicare il termine cultura alle più diverse manifestazioni della società contemporanea, non significa esimersi da una presa di posizione anche morale, ma significa tentare delle spie-
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gazioni che vadano più a fondo di una enumerazione computistica dei fenomeni superficiali. Parlare di una cultura della droga, per esempio, non significa desiderarne o auspicarne l'estensione, ma capire le sue cause di fondo e predisporre i rimedi. Lo stesso discorso può essere fatto per i casi di violenza politica, che si innestano su realtà di valori aberranti che però per quei oggetti valgono, spingendoli ad azioni delittuose. I fenomeni di violenza nella nostra società corrispondo ad esiti estremi di culture edonistiche e moralistiche che si saldano in un millenarismo rivendicativo, in cui la sacralità della vita viene annullata in favore di astratte mete ideologiche. Senza una disposizione analitica che associ sociologia, antropologia, ed altre scienze del comportamento collettivo, problemi come quello della droga e della violenza mistica verso sé stessi (suicidio collettivo di una setta americana in Guyana) e verso gli altri (violenza terroristica in paesi dove è ammessa e garantita l'opposizione politica) diventano alla lunga inspiegabili. Infatti, ci deve essere una carica sottoculturale particolare nella mente di un individuo che esce la mattina di casa per andare ad uccidere una persona che non conosce e che di nulla è colpevole se non di fare il proprio dovere al servizio della comunità, che dispone di ordinamenti liberi e controllabili democraticamente. Alle spalle di questa scelta c'è una realtà economica,una religiosità perversa, intollerante,una psicologica, che concorrono a formare
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dei valori attivi, funzionanti, per quei soggetti, in quel momento particolare della loro vita. Se non ci si pongono queste questioni in maniera analitica, enumerativa cartesiana, è difficile comprendere tutta una serie di correnti sotterranee di pensiero e di comportamento che possono o esplodere di colpo con grande danno sociale, oppure rimanere latenti allo stato di eversione endemica. I fenomeni sociali vanno compresi, con attente analisi che non si lascino sfuggire le componenti molteplici che si agitano sotto la superficie di un dato fenomeno. La cultura critica, si innesta sulla cultura antropologica e ne costituisce un momento più elevato: essa è definizione critica del modello dominante e capacità di riconoscimento per le dinamiche alternative, emergenti. La cultura critica è da intendere come permanente e positiva controcultura, nel senso di essere predisposizione metodologica al ricambio dell'esistente paradigma sociale, scientifico, estetico o morale. Il massimo livello della cultura critica si ha quando si arriva alla proposta di una eresia che non è solo capace di parziali contestazioni ma arriva a proporre un modello alternativo di sviluppo generalizzato (come è stato per l'eresia luterana e protestante che hanno costruito una società diversa e controcorrente rispetto a quella cattolica. Infatti, fra i modelli culturali non c'è parità di statuto, in quanto alcuni sono capaci di esprimere un ventaglio completo di esigenze e di risposte, mentre altri sono capaci di esistere solo
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come parzialità, prive di capacità rigenerativa, e altri ancora sono solo espressione di disperato modo di esistere e di inarrestabile tendenza all'autodistruzione. Dobbiamo sempre distinguere tra culture autosufficienti capaci di organizzare complessivamente la società civile, quella politica e la produzione economica, cultura autodistruttive, capaci di esprimere una suggestiva attrazione di tipo narcisistico e quindi incapaci di contenere una molteplicità morfologica indispensabile per la propria riproduzione e culture parassitarie, cioè dipendenti per la propria esistenza delle culture generaliste, a causa della propria improduttività sociale. Esempio di cultura autosufficiente, è la cultura borghese di matrice cristiana e derivata alla cultura dei liberi greci delle polis e del diritto romano che comprende in sé stessa gli elementi della propria riproduzione, in quanto si propone come valore a disposizione di tutti, anche di chi contesta o si pone in posizione di minoranza. Esempio di cultura autodistruttiva, è stata la cultura del regime Kmero in Cambogia, di quello nazista in Germania. Nel primo caso la cultura era aggredita da un pseudocultura di morte, che intendeva basarsi sulla distruzione totale del passato, cancellando tutto, dalla religione alla medicina, ogni cosa e ogni persona che impedisse di creare nel giro di un trentennio, un uomo nuovo tutto teso a fondare il regno ideologico della libertà totale, ma in realtà a creare una tetra esistenza collettiva di schiavi. Nel secondo caso il
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mito della missione, della superiorità, il nazismo e la distruzione di ogni cultura diversa, non ariana, non germanica conteneva i riti, i miti, i valori rovesciati della propria morte violenta. Esempio tipico della cultura parassitaria è la cultura della droga, che può vivere solo come, alternativa tollerata all'intorno di un modello vasto non generalizzato l'uso della droga. Le culture parassitarie sono sempre esistite all'interno delle società organizzate, come espressione di settori minoritari in posizione privilegiata o emarginata. Tipico esempio di ciò si ha nelle comunità che praticano la castità o nei gruppi omosessuali i quali per poter sopravvivere devono attingere elementi da una società non votata alla castità e con pratica preminente eterosessuale. Lo stesso discorso sui può fare per aspetti meno definiti dal punto di vista comportamentale e che non si presentano con l'evidenza dell'omosessualità e delle castità monacale: ci riferiamo all'assenteismo dal lavoro, all'esproprio proletario, alla cultura della felicità e a quella del desiderio. Queste culture possono sopravvivere solo perché c'è chi non si assenta dal lavoro, compra ciò che gli serve,modera il proprio desiderio e non pensa alla possibilità di una assoluta felicità. La stessa cosa si può dire per il problema del politico del privato: oggi si tende al privato, ma ciò se si manifesta in modi assoluti, non tenendo conto di un giusto equilibrio tra le due sfere, assume le vesti di un diverso comportamento parassitario. Una accezione così
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ampia della tematica culturale richiede un allargamento di significati del lavoro intellettuale per comprendere sia i prodotti mentali che quelli materiali. Il lavoro intellettuale nel Medio Evo e nel Rinascimento era rigorosamente distinto da quello meccanico: Dante era intellettuale, Masaccio no! Chiunque non lavorasse esclusivamente con l'intelletto era escluso da questa definizione ed entrava nella categoria dei meccanici. I letterati, per esempio, pur apprezzando il lavoro dei pittori non lo consideravano al loro livello, ma ad uno più basso. E' chiaro che oggi nessuno ragiona in questi termini e che con la concezione antropologica dei fenomeni culturali, se mai, il problema è di stabilire dei criteri validi alla distinzione tra la ripetizione e la creazione. In ogni lavoro è presente una quota di definizione intellettuale, la distinzione fra un momento meccanico del lavoro ed un momento intellettuale viene a crearsi rispetto alla qualità del prodotto e al suo inserimento creativo nella storia delle forme e del gusto. Da questo punto di vista è da considerare intellettuale ogni espressione che indica coscienza critica e trasformazione. Lo svolgimento di un ruolo e di un lavoro intellettuale, permette alla società storica di vivere una vita cosciente e disporre di prodotti che la significano concretamente dal punto di vista della capacità di apprezzare il passato, costruire il presene e progettare il futuro. Senza capacità della funzione intellettuale di attuarsi nella prassi più diversa, la società piombe-
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rebbe nell'assoluta staticità e si perderebbe la coscienza del fare. Il compito degli intellettuali è quello di esercitare una funzione progettuale e critica indirizzata al mantenimento e all'accrescimento degli spazi di libertà per tutta l'umanità. I prodotti della ricerca scientifica, i prodotti della ricerca artistica e poetica, devono servire a risolvere i problemi materiali dell'umanità e creare condizioni di godimento spirituale per una massa sempre maggiore. A questo fine si deve indirizzare anche la cultura politica che deve dirigere i propri sforzi nella ricerca di spazi di partecipazione attiva per tutti, facendo sì che, nello stesso momento, alla democraticità formale delle decisioni corrisponda una loro non vanificazione nella sostanza. In questo senso, dunque, è intellettuale anche chi contribuisce a rendere esplicito un problema di definizione di controcultura e lo porta alla luce. L'intellettuale è colui che trasforma la situazione, ma che al tempo stesso rappresenta la coscienza critica di queste informazioni. L'intellettuale è colui che trasforma la situazione, ma che al tempo stesso rappresenta la coscienza critica di queste trasformazioni. L'intellettuale (a differenza di chi vive immerso nella controcultura della droga o del rifiuto del lavoro) è colui che nella propria controcultura immette una quantità elevata di autocoscienza, capace di fargli comprende quale è il suo specifico compito nella società e quali sono le responsabilità, in quel preciso momento. Il nostro tempo è caratterizzato da una
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rapida mutazione sociologica dovuta ad un rapido modificarsi delle strutture produttive (all'entrata in crisi di tante forme nuove di lavoro che richiedono forzati assecondamenti esistenziali, non sempre compresi ed amati, spesso,anzi, fonte di disperazione e emarginazione). La definizione di crisi, tutto sommato,è la più capace di comprendere il senso generale della mutazione in corso, anche se il suo uso spropositato da parte di tanta saggistica l'ha in parte inabilitata ad esprimere un senso generale dell'essere, di una società, in una data epoca storica. Assistiamo da tempo ad un decadere di tutti i valori del vivere individuale e sociale, senza riuscire ad intravedere quale possa essere il modulo morale nuovo e capace di superare la depressione indotta dalle complessità labirintiche dell'iperrealismo dell'accadere, di un vero più vero del vero, da sembrare falso o irreale (…). Ciò deve essere compreso come un dato inevitabile della società dinamiche e globali che vedono incrociarsi costumi,abitudini, linguaggi, mettendo in crisi la stessa capacità del senso comune di stabilire le strutture su cui basare le emergenze spirituali, immateriali, conoscitive. E' vero, c'è un acuito senso di giustizia, ma non riesce ad esprimere condizioni teoriche e pratiche che la rendano traducibile al di là di fatti polemici, incapaci di divenire forza morale organizzata e permanente. Tornano di moda magia ed astrologia, spiritismo, macrobiotica, guru e sciamani, estasi ed ipnosi, hascisc, marijuana, oppio ed eroina.
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Sono fenomeni che solo marginalmente coincidono con una equilibrata ricerca della condizioni spirituali dell'esistenza e che se dovessero diventare fenomeni di maggioranza porterebbero alla fine catastrofica della società organizzata. Oggi non si accettano più modelli, si ricusano i condizionamenti, ignorando che l'uomo senza condizionamenti non può esistere, perché l'assolutezza è solo una proposizione teorica che nella realtà storica non è mai data in termini reali e concreti, se non come cosa impalpabile e senza significato. (Luigi Firpo, La cultura in epoca di transizione, ivi, pp. 83-88). Compito della cultura è quello di scegliere fra i condizionamenti i meno gravosi e nello stesso tempo quelli in grado di conservare la società nel massimo di libertà possibile e nel massimo di opzioni possibili sia per il presente che per il futuro. In sostanza, si tratta di immaginare un ventaglio di possibilità che, salvaguardando l'autonomia dell'individuo, configurando una struttura necessaria capace di sopportare il peso del nuovo. Le scelte esigono una lucida ragione e una conoscenza in grado di trovare direzioni e sentieri nella intrigata dell'alienazione e della disperazione. Compito fondamentale è quello che spetta alla scuola, la quale deve ripristinare il gusto per la disciplina mentale e per la nozione, immagine definita di un momento della realtà. La scuola in una società moderna e innovativa deve proporsi di formare alla critica, alla ricerca e alla meditazione. Non si può delegare la fun-
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zione educativa alla esclusiva determinazione della strada, dei fumetti e della noia, dei mass-media, delle discoteche, delle bande. Se prima abbiamo posto all'accento sull'esigenza di non liquidare i fenomeni culturali parassitari e dipendenti con atteggiamenti non analitici e mediativi, ciò non vuole affatto dire indifferenza verso l'esigenza di avere valori positivi, propositivi, etici. Nel dominio della cultura, i valori servono ad ispirare le scelte dei campi di ricerca, animando la capacità di dedizione, rendono lievi i sacrifici e le rinunce: ma bisogna stare attenti a non fare intralciare la strada della ricerca, dai pregiudizi che vogliono conoscere la meta prima di averla raggiunta, perché in questo modo si ha il passaggio nei domini dell'ideologia. L'ideologia è una tentazione perpetua dell'atteggiamento umano: essa risponde alla esigenza della schematizzazione utile alla comprensione e alla conoscenza, ma ben presto finisce per superare limiti della propria positività e fa rinsecchire la molteplicità della vita in aridi ideogrammi: si passa, così, presto, dall'esigenza di conoscenza a quella di giudizio moralistico. L'ideologo è mosso solo da impulso moralistico, non gli interessa comprendere il mondo, egli è solo impaziente di mutarlo: per lui ogni atteggiamento critico è un errore che serve a lasciare il mondo così com’è: le tesi e le ipotesi lasciano il posto agli slogan ed alle invettive. La cultura non è che lo specchio dilatato e l'anima corale della società e siccome la società è complessiva-
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mente in crisi, la cultura non può non risentirne. Uno dei fattori della crisi è dato dalla crescita della massa di informazioni, accelerata dalla rapidità della loro diffusione. La crescita vertiginosa dei dati della conoscenza crea una frustrazione ed un senso di impotenza: infatti non si riesce a tenere fronte a quanto stampato, diffuso oralmente, visivamente, dai potenti mass-media. Conseguenza inevitabile di ciò è un ampliarsi degli scompensi psichici dovuti alla parcellizzazione del sapere che perde le caratteristiche metodologiche per declassarsi a sottosaggistica, a particolare senza valenze conoscitive, che è appunto l'opposto della cultura generalizzante. Altra conseguenza della crescente massa di informazioni disponibili è la rapida obsolescenza di ogni sapere individuale: si calcola infatti che nel giro dieci anni tutte le conoscenze di un uomo di scienza vengano superate e il margine tende a ridursi ulteriormente, a dimezzarsi, a polverizzarsi. La radio, la televisione, ormai storia… l'uso dei satelliti di comunicazioni intercontinentale, la connessione multimediale 24/24, hanno dato all'informazione le caratteristiche di sempre maggiore simultaneità, fino ad arrivare ai tempi reali (assistere agli eventi nel mondo in cui si verificano). Ciò procura all'informazione un supplemento d'intervento, personale, audio video, di Facebook, di Twitter, di WhatsApp, dato dalla carica emotiva promossa dall'immagine e dal suono che inducono all'illusione, certo, ma quasi alla presenza
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reale. L'informazione istantanea e sensoria costituisce una continua insidia alla conoscenza meditata e selettiva. La pressione dei mezzi d'informazione crea degli scompensi e delle fratture sia in senso orizzontale che verticale all'interno della società: fratture di tipo generazionale che vanno ad accentuarsi e fratture fra i diversi gruppi sociali. I più esposti all'azione della massa d'informazioni suggestive e praticamente incontrollabili (si pensi al potere delle grandi agenzie di stampa internazionali dei network televisivi planetari e non ultima di internet, che sono in grado di divulgare in tutto il mondo una notizia in pochi secondi) sono le categorie sociali più deboli, i poveri, tutti coloro che non fanno parte dell'economia globalizzata, cioè la maggioranza nei paesi avanzati e la totalità negli altri, bersagliati nel loro fragile bagaglio culturale, nella minore esperienza di vita,nella maggiore sensibilità emotiva. Da ciò nasce tanto dell'estremismo giovanile, impastato d'immaturità, vitalismo, e sradicamento dalle tradizioni consolidate, desiderio di protagonismo. Frustrazione, violenza. L'organizzazione della società post industriale e post commerciale ha dato ai giovani tanti vantaggi, economici prima non immaginabili, ma nello stesso tempo li ha privati della presenza dei genitori spesso allontanati dalla crisi della famiglia e dallo sfrangiarsi di modelli comportamentali utili nel breve e nel medio termine dell'età evolutiva e non sostituiti sufficientemente dalle istituzioni istruttive ed educative.
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Le maggiori possibilità di evasioni, unite a questa mancata cura dei genitori, danno ai giovani un linguaggio particolare che li rende incapaci comunicare con i genitori: si viene così a perdere un canale di comunicazione che per secoli è stato in grado di filtrare sentimenti,esperienze e valori efficaci a costruire un sistema di riconoscimenti reciproci e legittimazioni. L'urbanesimo speculativo da mercatismo, senza urbanistica e senza città, con la distruzione degli spazi liberi e della convivenza in spazi omogenei e delle diverse generazioni ha operato l'espulsione degli anziani e l'annullamento della loro funzione educativa nei confronti dei giovani. L'eliminazione (o la squalifica sociale, che è la stessa cosa) degli anziani ha soppresso un importante fattore di tradizione che costituiva un efficacissimo correttivo frenante, capace di saldare la trasmissione di valori nell'arco di più di mezzo secolo. La produttività industriale, non più finalizzata ai bisogni ma al produttivismo delle graduatorie in tempo reale e dalle agenzie di rating internazionali, ha generato l'aberrazione del consumismo, il vuoto di educazione dei giovani, la messa al bando dell'esperienza, l'edonismo sfrenato, dei nuovi usi del corpo. Le giovani generazioni pretendono la felicità subito, con aggressività impazienza e spesso pagano un prezzo caro a tale impazienza: il prezzo della droga e della violenza. La capacità di lavoro della macchine automatiche e l'immissione dei robot nei cicli produttivi pericolosi, hanno messo in crisi il
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concetto stesso di lavoro: è tramontata, se non per una sparuta minoranza che identifica ancora con i valori della fatica e del lavoro creativo, la concezione protestante del lavoro e si è tornati a considerare il lavoro come maledizioni da cui liberarsi, o un miraggio da inseguire per tutta la vita. Avviene così che un fattore positivo come l'alleviamento o addirittura l'eliminazione della fatica fisica del lavoro, da fattore positivo, qual esso è, se recepito in modo caotico ed acritico si rivela fattore traumatizzante e fuorviante. Infatti non è ipotizzabile una società umana senza la presenza del lavoro: il lavoro fa parte dell'essenza umana, la fine del lavoro significherebbe la fine del mondo e dell'umanità in situazione storica. Il rischio grave sta nel mettere sullo stesso piano tutti i bisogni, che si vengono manifestando nella società civile e scambiarli per bisogni radicali, mentre a volte non sono altro che bisogni irrazionali generati da culture parassitarie che, qualora dovessero diventare patrimonio, di maggioranza, porterebbero alla regressione nel primitivo stadio della caccia e della pesca, con l'aggravante che non c'è più cosa pescare e cosa cacciare. L'illusione che si è fatta strada è quella di potere cambiare il lavoro in ozio, e addirittura quella che ritiene il rifiuto del lavoro un diritto perché il prodotto del lavoro viene espropriato dal produttore. Inutile dire che questa questione non si risolve mettendo in discussione il lavoro salariato e il lavoro in se stesso. Il rifiuto del lavoro
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è diventato una sorta di nuova etica, secondo cui tutto ciò che si può fare è lecito e nulla è dovuto: il divertimento può giustificare anche l'uccisione di una persona innocente: come è avvenuto a Roma dove un giovane somalo è stato bruciato vivo da un gruppo di declassati al solo scopo di divertirsi. Non si può assolutamente accettare tutto ciò. Occorre combattere la tendenza al parassitismo reciproco, la caccia ai privilegi, il dilagare dell'inefficienza, che penalizza i più deboli, in una situazione di benessere, ma che in un calo inatteso ed improvviso del livello di benessere, in società egoistiche e disabituate alla responsabilità, potrebbe portare ad esplosioni generalizzate di violenza sopraffattrice e allo scatenarsi delle spinte più demagogiche ed eversive. Non bisogna pensare che si possa uscire dai tunnel successivi che ci attendono, più numerosi di quelli presenti, con repentini rotolamenti indietro e con tentativi di ricorsi ad etiche decadute che fanno da falsa alternativa e molte e sedicenti liberazioni le quali in effetti non altro che istinti primordiali rivalutati, in folli corse di autodistruzione. Qualunque discorso sulla società, non può prescindere dalla definizione di una nuova etica e senza il ripristino di una speranza di salvezza, di benessere e felicità, da coltivare con il dialogo libero e franco, il solo capace di dare un senso globale dell'umanità: da questo punto di vista si può recuperare il valore di una esperienza religiosa non dogmatica, in favore della reciproca tolleranza e della
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capacità di rapportare il proprio bene con quello degli altri. Una conclusione sul problema della cultura e della sua definizione in rapporto ad una sua logica di mutazione, interna e in rapporto al vario determinarsi della società, con il prelevare ora di atteggiamenti razionali ora di atteggiamenti irrazionali, non può che essere provvisoria. In questa provvisorietà, attuale, i punti acquisiti e proponibili sono inerenti il carattere soffice della cultura comprendente tutto l'agire umano e la distinzione tra atteggiamenti coscienti e atteggiamenti vissuti automaticamente. Le discipline inscrivibili sono molteplici e sono classificabili in due ambiti fondamentali: il primo, relativo alle discipline economiche e sociali; il secondo, relativo a quelle etiche, ed estetiche della comunicazione. La distinzione non può essere fatta in relazione a giudizi di valore astratti, ma dal concreto determinarsi storico. Però è chiaro che un particolare apprezzamento deve andare alle discipline che fanno chiarezza nell'individuo e danno scopo alle comunità. In cima a tutto sta indubbiamente la poesia. Ma è chiaro che una cima è tale e rimane tale perché al di sotto di essa sono sistemati altri ineliminabili elementi materiali e spirituali. Rispetto a questo dibattito, tutto ancora attualissimo è venuto a deperire il concetto di bagaglio e di stabilità in favore di una costante dinamica, di un divenire che mette in prima piano la modificazione tellurica di forme e contenuti, per cui sapere è coscienza di non sapere, di dover ap-
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prendere per tutta la vita, senza essere mai approdati a un sistema compiuto. Perché non esiste più un sistema in senso tradizionale, con frasi principali, coordinate e subordinate, ma una giustapposizione di frammenti che cercano una composizione e non la trovano mai, per la semplice ragione che non esiste, né può esistere se non in una proiezione ad infinito, sempre più in là, sempre più in là. Una cultura in abito di paradosso, che diminuisce mentre dia accumula in maniera assoluta e si vitalizza, mentre perde le sue parte superate. In sostanza, sempre meno spessore, bagaglio, prodotto, sempre più spirito, ricerca, psicologica. Si pone così la questione dei giudizi, dei giudizi critici, dei giudizi formali, come strumentazioni della nuova lingua che si va a formare in mezzo a noi nella convinzione della provvisorietà e della transitorietà per cui, così come nessuna forma può essere considerata definitiva, così nessun pensiero che ad esso si ispira lo può essere nella conferma di un continuo farsi e disfarsi dei linguaggi che è sempre esistito, ma oggi sempre più è diventato ( e sempre più lo sarà) il segno dei tempi e quindi il nostro segno.
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Bisogni e Valori Nella situazione confusa che caratterizza la coscienza critica dell'esistere sociale ed individuale, l'opera di Agnes Heller rappresenta un momento di oggettiva chiarificazione. Nel volume Per cambiare la vita ha affrontato tutti i temi fondamentali del dibattito ideologico, morale ed etico del nostro tempo, con grande spregiudicatezza e senza ossequi formali di alcun genere, che non siano in rapporto con la verità e la consapevolezza critica, capace anche di ritornare sulle convinzioni precedenti e sottoporle a critica di fondo. Il suo pensiero di confronta liberamente con quello di György Lukács da cui prende le distanze, con quello di Jürgen Habermans, di Jean Paul Sartre e Gilles Deleuze, traendone argomenti per affrontare le questioni strutturali del vivere contemporaneamente, nella loro accezione individuale e sociale. La parte fondamentale del suo intervento è relativa al rapporto tra bisogni materiali e spirituali e valori concepiti come itinerario di libertà, per affrontare i quali introduce il suggestivo concetto di bisogni radicali. Per bisogni radicali, intende tutti quei bisogni nati nella società moderna in conseguenza del suo stesso sviluppo, ma che difficilmente possono essere totalmente soddisfatti, bisogni che rappresentano, da questo punto di vista, una molla formidabile verso i cambiamenti del modo di produrre la ricchezza, di distribuirla e di consumarla e sono un'alternativa alla teoria di Herbert Marcuse,
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sul nuovo ruolo storico degli emarginati contro tutti e alla stessa dialettica negativa di Theodor Adorno, che vede ogni cosa consegnata alla ferrea immutabilità. La teoria dei bisogni radicali fa dipendere la possibilità di cambiamento sociale dallo strutturarsi intorno ad essi di forze materiali divenute coscienti dell'esigenza di soddisfarli senza ledere altri bisogni, senza sfruttamento e senza manipolazione di altri. Si pone il problema della distinzione fra bisogni radicali e bisogni non radicali. Questi ultimi sono quelli puramente quantitativi, nella soddisfazione dei quali l'uomo diventa per l'altro un puro strumento. Sebbene auspichi la soluzione dei bisogni radicali, su altri bisogni puramente materiali, criticabili, non ritiene che esista un'autorità in grado di stabilire quali bisogni devono essere soddisfatti e quali no. Solo in caso di grave crisi sociale è possibile che la maggioranza della società, volontariamente, attraverso l'esercizio dei propri diritti di libertà, possa limitare temporaneamente la soddisfazione di alcuni bisogni materiali. E' chiaro che non tutti i bisogni possono essere soddisfatti anche in situazioni normali e non di crisi, perciò è necessario stabilire delle priorità che non negando la legittimità di alcun bisogno, facciano una graduatoria tra ciò che viene prima in quanto riguarda la necessità, e ciò che viene dopo in quanto riguarda il completamento. La necessità, riguarda la possibilità di far permanere la società di non distruggerla, molecolarizzandola e permetterne
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le funzioni elementari (situazione delle comunità povere), e progredire verso un completamento che riguarda i momenti superiori della vita ed è orientato verso l'aspetto estetico ed etico. Vengono respinte la definizione di irrazionali, applicata a certi bisogni: i bisogni di per sé non possono essere definiti né irrazionali né razionali, queste due definizioni possono valere solo per le procedure le loro appagamento. Fra i bisogni e valori non c'è contraddizione perché i bisogni si riferiscono sempre a valori e sono definibili solo a partire da valori. I valori devono avere la capacità di elevare l'uomo dallo stadio egoistico della particolarità a quella dell'individualità. Tuttavia non è pero produttivo l'atteggiamento di coloro che si pongono in posizione di disprezzo verso la particolarità, in quanto ci sono interi strati sociali che non riescono, a causa della loro condizioni di vita, ad uscire dalla situazione alienata del particolare e divenire soggetti individuali. In un atteggiamento essenzialmente conoscitivo e privo di rigidezze moralistiche, la Heller ribadisce il proprio rifiuto di tutto ciò che comporta l'uso strumentale della persona umana a scopo di piacere per un'altra. Ad esempio nel rapporto erotico fra le persone ritiene legittima qualsiasi esigenza, con l'eccezione di tutte quelle aspirazioni in cui l'uno per l'altro diventa un semplice strumento: ad esempio il sadismo. Grande importanza assume la possibilità di ripristinare la spontaneità e la capacità di giocare: occorre superare la cultura che im-
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pone sin da bambini di reprimere ogni spontaneità e che poi diventano norme restrittive per gli adulti (gli uomini per esempio non possono piangere quando sono tristi) e per quanto riguarda il gioco non si tratta di sostituirlo al lavoro, ma di intenderlo come suo completamento. Alla spontaneità dell'individuo deve corrispondere la mediazione delle istituzioni. Una società priva di mediazioni non è immaginabile, equivarrebbe ad una società priva di istituzioni. Occorre lavorare da un lato per nuove forme di mediazione e di organizzazione, dall'altro per la liberazione di alcune forme di spontaneità. Solamente un uomo più spontaneo riesce a riflettere e ad agire razionalmente nelle mediazioni: infatti l'uomo complessato che esprime nel pensiero i propri problemi psicologici inconsci e che non riesce a raggiungere lo stadio dell'argomentazione razionale, rappresenterà sempre il proprio particolarismo. Considera la soddisfazione di ogni bisogno radicale, un progetto la cui sintesi totale ipotizza la realizzazione di una società utopistica senza gerarchie, senza oppressione, senza sfruttamento. Lo stato ideale per la soluzione dei bisogni radicali nel loro complesso è individuato nel duplice sistema parlamentare e di autogestione. Se questo è l'obiettivo, però, non si fa illusioni sulla possibilità di poterlo conquistare immediatamente: esso non potrà non essere che l'esito di un processo storico di una lunga durata. Nessuna decisione deve essere presa da minoranza violente o con la ma-
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nipolazione delle coscienze (e peggio ancora con la dittatura): tutto deve essere frutto di libero consenso. A tal fine è necessario che i cittadini siano abituati sin dall'infanzia a partecipare attivamente alle decisioni comunitarie a discutere razionalmente. Non tutti i bisogni che si manifestano nella società sono riferiti a prodotti materiali e quindi non tutti sono collegati alla produzione materiale: alcuni bisogni sono riferiti alla produzione altri sono riferiti alla vita sociale (ed altri ancora sono riferiti all'individuo in senso stretto), fra i bisogni riferiti alla vita sociale il più importante è quello (già citato) del gioco. Il bisogno del gioco è innato alla umanità stessa, lo troviamo nelle epoche più remote: si può dire che gli uomini hanno sempre giocato. Chiaramente il gioco e il tempo del gioco sono condizionati dal lavoro e dal tempo del lavoro: se il lavoro è privo di senso anche l'uso del tempo libero è privo di senso. Analizzando più da vicino il problema dei bisogni qualitativi il tema si sposta, sulla nuova qualità della vita, come può risultare dalla immissione di nuovi valori, di una nuova socialità, di una nuova solidarietà. Non tutti però al problema danno una risposta avanzata, anzi taluni tradiscono nostalgie di tipo medievale, dogmatiche e magiche. E' dall'altra parte non è ipotizzabile che a una crisi di valori tanto grande, quale quella che noi viviamo, si possano dare risposte univoche: l'importante è non fare prevalere in maniera assoluta le unilateralità sia quello rivolte in avanti che
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quelle rivolte indietro. Le unilateralità possono esprimere la loro carica positiva di diversità, solo se sono inserite in un contesto sociale organico e critico. Ad esempio le comunità in cui non si lavora, che vivono in continuo vagabondaggio non possono pensare di generalizzare il loro comportamento: è impensabile una società in cui tutti si comportassero in quel modo: si assisterebbe in breve tempo ad una sua totale distruzione. La Heller non esime un suo equilibrio giudizio nei confronti del bisogno religioso e del suo rinnovamento emergente nella società contemporanea, il che testimonia di una maturità di pensiero notevole. A suo avviso, le radici del bisogno religioso sono le stesse di quelle del bisogno delle meditazione. Gli uomini hanno bisogno di credere in qualche cosa di non terreno che dia senso alla vita, bisogno che non può essere soddisfatto da nessun risultato positivo di tipo storico: si tratta del bisogno di immortalità connesso con il trauma della morte. Non esisterà mai una società capace di dare risposta al tema della morte e al trauma della perdita di persone care, perciò il bisogno religioso resterà valido finché la vita avrà senso. Da queste affermazioni si muove per auspicare una modifica della posizione del materialismo nei confronti della religione e per contestare la posizione di Ludwig Feuerbach secondo gli uomini sono religiosi perché non sono padroni delle proprie azioni, del proprio mondo e perche non riescono a trovare spiegazioni razionali alle disgrazie
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che li colpiscono, le questioni della validità umana delle religioni è connessa alla questione del comportamento etico. Le etiche tradizionali, entrate in gran parte in crisi, non riescono a rispondere ai nuovi bisogni, che devono essere accettati dal corpo sociale ma devono anche garantire (a differenze di quelle tradizionali) una buona autonomia di interpretazione all'individuo, al fine, fra l'alto, di non cadere nell'estraneazione, nell'indifferenza. Tre sono norme etiche fondamentali a cui si dovrebbe attendere: la prima è quella della comunicazione razionale secondo cui ogni convinzione deve essere basata sulla argomentazione: la seconda è quella che auspica la soddisfazione di tutti i bisogni umani eccetto quelli relativi al possesso, al potere e all'ambizione: la terza norma è quella del dovere sociale di sviluppare la ricchezza sociale in tutti i suoi aspetti. Queste tre indicazioni sono orientate nel senso di dare una indicazione generale alla società e nello stesso tempo di lasciare all'individuo un ampio margine di scelta, entro cui si può configurare lo stesso concetto di libertà. Infatti si dichiara giustamente preoccupata di salvaguardare la posizione dell'individuo; dal duplice pericolo del particolarismo e del suo annegamento sociale. Da questo deriva che ovviamente qualsiasi decisione, qualsiasi scelta etica concreta e individuale e ciò non significa però assolutamente che l'etica sia soggettiva. Infatti precisa la Heller, le norme con le quali l'individuo di deve confrontare sono di tipo
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storico e sociale: non ci deve essere un assoluto condizionamento della società sul singolo individuo, né di contro la sua assoluta libertà, si deve piuttosto parlare di relativa autonomia che permetta l'individuazione dei ruoli, delle funzioni e configuri il concetto di responsabilità. Contesta il concetto morale secondo cui l'obbedienza nei confronti di una situazione deve sostituire la decisione morale autonoma che ha come risultato una catastrofica estraneazione della coscienza nella istituzione che decide e riflette a posto dell'individuo. Su questo punto il suo pensiero è categorico: nessun genere di istituzione, di ideologia, di comunità, ci toglie dalle spalle il peso di costruire un nostro rapporto individuale verso i sistemi di valori, di doverci assumere la nostra responsabilità personale. La sua è una posizione contraria ad ogni morale di classe e ad ogni giustificazione di mezzi, anche per ottener fini ritenuti giusti. In sostanza viene negato ogni valore ai delitti storicamente necessari. Non è vero che il fine giustifica i mezzi, i mezzi trasformano il fine, fino a snaturarlo, cambiandone oggettivamente le connotazioni. Fini e mezzi sono strutturalmente connessi, inscindibili. Un ideale di libertà non si può perseguire con mezzi che calpestano la libertà e l'uguaglianza tra i gli uomini. Tutti i comportamenti individuali e sociali devono essere imperniati sul principio morale del controllo dei mezzi e dei fini perseguiti: la moralità ha infatti due aspetti, quello dell'intenzione e quello della conseguen-
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za. E' sbagliato pensare che il possesso di valori morali sia una limitazione di libertà, anzi bisogna dire che non può esistere libertà al di fuori della morale: libertà è sempre qualche cosa di positivo, quando invece ci troviamo davanti ad un atteggiamento negativo (libertà da qualche cosa siamo nell'arbitrio). Il concetto stesso di libertà contiene quello di regola, di pluralità, di reciproco riconoscimento. Lo stesso accade nelle questioni inerenti il rapporto tra presente e passato. La negazione completa del passato rappresenta una dipendenza dal passato maggiore di quanto non si la ridefinizione dei valori tradizionali, la loro accettazione o il loro rifiuto ragionato. Se si nega completamente il passato si finisce per esserne schiavi: la negazione si può fare solo con una riflessione consapevole sulla necessità di conservare una organicità di rapporto con la storia. La negazione è una importante spinta per la realizzazione di nuove forme di positività, in quanto libera spazi, psicologici e spazi reali, per l'innovazione dei modi di essere, per la modifica dei luoghi e delle forme di vita. Non si può avere un rapporto psicotico con le generazioni precedenti al punto da capovolgere tutto che esse hanno affermato. La comprensione delle vecchie forme di vita è necessaria ad un equilibrato progetto innovativo. Guai a farsi guidare dall'odio da furore iconoclasta, si ottiene il risultato opposto a quello desiderato: si rimane prigionieri del passato. Il nostro tempo è caratterizzato dalla creazione della in-
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dividualità nata dalla dissoluzione delle vecchie gerarchie e dalla dissoluzione delle vecchie comunità. La concorrenzialità esasperata trasforma spesso l'individualità in egoismo economico e da questo possono nascere desideri di potere che possono fare considerare superfluo ogni legame morale che non sia quello della volontà di dominio sugli altri: si tratta in pratica di gradazioni nei comportamenti definite bene dal Vautrin di Balzac e del superuomo di Friedrich Nietzsche. La gradazione egoistica che porta a fare ipocrita ossequio nei confronti della morale è da preferire alla posizione di rifiuto di ogni morale: è meglio parlare di virtù pur non agendo secondo principi virtuosi piuttosto che definire la virtù una inutile sciocchezza. La collocazione, al di là del bene e del male, è delittuosa contro l'umanità in senso assoluto in quanto non si pone contro questo o quello dei principi morali, ma contro la morale in quanto tale: una collocazione esterna al mondo degli uomini nella convinzione di potersi elevare al di sopra di tutti, in un ordine superiore. La consapevolezza dell'atteggiamento superoministico è assoluta in Riccardo III, nella sua determinazione ad essere sopraffattore: non si tratta certo di pretendere la totale bontà ma neanche il suo contrario,come sempre quella che si deve perseguire è una giusta via di mezzo che tenga conto delle debolezze umane e nello stesso tempo ponga le basi per una maggiore amorevolezza reciproca. Nella vita sociale, conflitti ne appaiono
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continuamente e ognuno deve saper decidere sulla base della propria responsabilità personale, assumendosi, le conseguenze delle sue decisioni. Un individuo indipendente è un individuo moralmente intransigente, capace di riflettere sulle implicazioni morali delle proprie azioni. come avviene nella seconda etica kantiana (quella formulata nella Metafisica dell’etica e ne La religione entro i limiti della ragione pura) che sostiene l'illegittimità dell'uso strumentale dell'umanità, che deve invece essere vista sempre come fine. Il bene ed il male non possono essere considerati come entità metastoriche, ma devono essere rapportati con i concetti di particolarità e individualità, categorie niente affatto sostanziali ed assolute, ma relative e determinate dagli eventi accaduti e dal loro concreto concatenarsi. Non rappresenta una soluzione all'esigenza di creare salde individualità, il volere prima trasformare il mondo e i sistemi istituzionali, credendo che poi debba necessariamente seguire un mutamento della personalità: così come non è razionale pensare che cambiando la nostra personalità il mondo possa poi cambiare. I due processi devono avvenire sincronicamente. La trasformazione del momento sociale e del momento individuale verso rapporti di sempre maggiore armonia e partecipazione non può avere come punto di conclusione la coincidenza: il singolo rimane sempre tale, la partecipazione del prossimo ai nostri sentimenti dolori, sofferenze, offese, non può esse-
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re che esterna. Ma la nostra personalità è una personalità sociale,capace di comunicare con altre personalità, anche perché i concetti mentali e il linguaggio sono frutti sociali. Il rapporto fra il singolo e la comunità non si svolge mai in piena armonia e partecipazione,esistono sempre momenti di conflitto magari acuto e tragico, ma questo (giustamente), non è considerato, necessariamente uno svantaggio. Nelle società tradizionali non si distingue nettamente tra il bene ed il male, questa distinzione è venuta a delinearsi solo con la nascita della società civile (cioè con la separazione della società dallo stato) che ha cercato il concetto di insoddisfazione. Nelle società tradizionali tutti si accontentavano di ripetere quello che avevano fatto i loro genitori, mentre ora il modo di vivere la vita è essenzialmente dinamico e nessuno si accontenta dei risultati raggiunti; l'insoddisfazione è direttamente proporzionale all'elevarsi del tenore di vita: il traguardo per tutti rimane un mondo armonioso capace di coniugare libertà e felicità. Libertà, ha detto Kant, non significa felicità, ma l'uomo libero merita di essere felice. La felicità continua e senza contraddizioni per tutti può essere auspicabile ma questo tipo di felicità, necessariamente riservata a pochi può essere dannosa, in quanto isola questa minoranza dalle altrui sofferenze che possono essere viste addirittura come una minaccia: sarebbe una felicità inumana. La felicità vera consiste nel saper vivere in contraddizione e nel rite-
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nere le gioie e le tragedie come fatti contingenti e superabili. Nelle società tradizionali gli uomini vivevano in uno stato di sicurezza dato da una caratteristica ripetitiva dalla vita: l'acquisizione di nuovi comportamenti fa perdere la sicurezza ed espone alla infelicità. I due comportamenti estremi in questo senso sono da un lato il rifiuto totale di tutte le tradizioni,che porta alla nevrosi inevitabile e viceversa l'accettazione di tutte le norme di vita date dalla tradizione che portano ad un dogmatico tradizionalismo: l'ottimo sarebbe il potere conciliare libertà e sicurezza. La famiglia, per esempio, ha rappresentato per millenni e millenni, una forma massima di sicurezza, mentre ora la sua crisi impone l'esigenza di trovare vie d'uscite alternative. Le possibilità alternative possono essere date dallo sviluppo di nuove forme di vita comunitarie che salvaguardano l'individualità e diano sicurezza come una volta la dava famiglia tradizionale. E' errato, invece, credere che dalla liberazione della famiglia tradizionale debba significare liberazione dei rapporti umani. Questa forma di liberazione e farsa e conduce a modelli di vita marginali ed improduttivi sia dal punto di vista morale che sociale. Non c'è nostalgia per la morale del mondo contadino, che deve essere rispettato storicamente, che era si una morale omogenea, ma era del tutto priva di libertà, mente l'obbiettivo a cui bisogna tendere è l'equilibrio tra comunità e individualità. Questo obbiettivo propone la definizione dei rapporti tra
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pubblico e privato, tenendo conto che la vita privata è una istanza sociale nel senso che i suoi modelli di riferimento vanno considerati come oggetto di interesse comune, il che significa che un cambiamento di tali modelli deve essere considerato molto importante e non questione secondaria nel processo di trasformazione generale. La vita privata è un astrazione ma anche una concretezza storica, determinata, a cui dobbiamo dare una serie di risposte in ambiti diversi, a partire da quelli estetici, inerenti l'arredamento della casa, i suoi mobili, la sua tecnologia, la sua vivibilità. La casa è il luogo della vita ed la cellula fondamentale perché esista la società e la famiglia, entrambe sono orientate ad una sempre una maggiore trasparenza e permeabilità perché le sue porte e le sue finestre sono aperte nel duplice senso dell'entrata e della uscita nel senso di una comunicazione che televisioni, telefoni, connessioni web, rendono sempre più a dimensioni di agorà, il concetto di vita privata deve essere analizzato sempre più in connessioni con la vita pubblica, trasformato come sarà dalle molteplici forme di telelavoro, di videocontrollo, di informatizzazione, tutte cose che modificheranno insieme alla vita privata anche il concetto di casa, di abitazione, da cui nasce il senso comune delle cose, ma anche il modello sociale, ma anche quello estetico.
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Dinamiche della Leggerezza Individualità. Qualcuno ha sostenuto, Pierre Lèvy, Jean Pierre Changeaux, Jean Baudrillard, che andiamo incontro ad un sistema avvolgente di discontinuità, di frammentazione, nonostante l'estensione della rete, di un sistema fitto e virtuale, di meridiani e paralleli che si sovrappongono a quelli geografici, in grado di costruire un'alterità dell'oggettività. Tutto questo in connessione con la mutazione genetica del concetto di cultura che passa dalla accumulazione, dalla stratificazione, alla messa in crisi, alla sovversione, al consumo di ogni teoria. Non è più considerato importante il sapere in sé, dato una volta per tutte, quanto il concetto secondo cui bisogna imparare continuamente, ribaltando il modello di memoria dal passato al futuro, valorizzando sempre più il presente come atto, come attimo, luogo ineffabile dell'essere i fieri. Così, mentre il concetto di accumulazione richiama l'organismo collettivo, la corrispondenza, la genealogia, quello di discontinuità richiama l'atomizzazione, la cellularità, la solitudine. Un nuovo tipo di singolarità, in cui l'individualità in assonanza con la rete, in quanto connessione, combinazione, scrittura, continua trama in divenire, porta all'annullamento del finale, come obbligatorietà e sua sostituzione, con un ventaglio ampio di possibilità. Opera aperta o totale disseminazione barocca nello spazio e nel tempo, nel gesto e nel segno, complice della crisi di identità, indice e ma-
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nifestazione della vita globale, sempre più globale, oppure una sola, con nome e cognome, codice fiscale, codice d'accesso telematico, codice credit card. Atomo e microcosmo, universo e totalità, paradosso dell'attualità e dell'identità, che più sono nel circuito della velocità, più sono in crisi. Perché la crisi è in sinonimo di vita entrata, nel post human, nel cyber, nell'internet, sempre meno bisognosa di braccia e di gambe, sempre più congegnata nella testa. Fine paradossale. Il concetto stesso di natura umana si avvita in uno stato di affermazione e negazione, che porta alla disgregazione di ogni residuo positivistico, proprio nel momento dell'affermazione totale del darwinismo e delle scienze ultra atomiche, capaci di entrare nei meandri dell'infinitamente piccolo, di ciò che ha un esistenza, più che fisica, concettuale, eppure capace di contenere i codici primordiali di quello che dopo essere stato homo homini lupus, si propone come homo homini deus, inverando quella intuizionedi deus sive natura, del panteismo de facto, che Giordano Bruno aveva intuito nell'affermazione degli infiniti modi e delle finitezza dei mattoni che costruiscono l'universo. Essere individuo, oggi, significa entrare in un percorso di scelte che richiedono intuizione, senso critico, rinnovata capacità di analisi e di sintesi, elezione del provvisorio a struttura concettuale, possibilità e realtà nello stesso tempo nella necessità di essere liberi, capaci di scegliere. Senza queste valenze, l'uomo non esiste, l'individuo come
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variante della specie, della cultura, come prevedibilità remota, non esiste, come non è esistito nelle culture extraeuropee, asiatiche, africane, precolombiane. L'uomo, l'individuo, è una invenzione recente, che data a Parmenide, Esiodo, Amos Primo, ma soprattutto a Socrate, Platone Aristotele, tutti figli di una società atomizzata, conseguenza di una società di agricoltura a pioggia, secondo quanto sostenuto da Karl August Wittfoghel. Il cristianesimo occidentale ha ereditato tutto e l’ha portato fino ai nostri giorni, continuando la civiltà greca e romana,permettendo la nascita della scienza, della modernità. E non è detto che questa invenzione debba durare per sempre:possono avvenire condizioni per la sua sparizione, per marginalizzazione incosciente, per progetti sempre possibili di uomo nuovo. La marginalizzazione, sempre in agguato è inerente alla nuove povertà, che sono intellettuali più che materiali e attengono alla possibilità o meno di aderire alla globalizzazione, che condizionano tutta la forma dell'essere, del divenire e quindi la stessa funzione storica. L'uomo nuovo, progettato da tutte le utopie, come uomo ad una sola dimensione,indirizzato ad un fine specifico, determinato, insensibile, con varianti nel superuomo e nel razzismo, in sostanza un mostro che una volta attuato potrebbe non avere i ripensamenti sentimentali dei replicanti di Blade Runner. Quest'uomo per fortuna è fallito nella storia millenaria dell'utopia della palingenesi, rimanendo legato alla psico-
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logia, all'emozione, alla follia, all'amore, alla superstizione, alla morte. Perché l'uomo esista, perché l'individuo esista, è necessario che possa scegliere di non essere inscritto in un essere dato, possa essere alto da ciò, da basso che era e non potersi stabilire, una volta per tutte, in un essere determinato (Ortega y Gasset, Aurora della ragione storica, Milano, 1994, pag. 220). Formazione. Luogo della discordia, campo di battaglia in cui si scontrano gli ecologismi con gli economismi, gli strutturalismi con i volontarismi. Luogo di assorbimento e della messa in evidenza della differenza intesa con potenza in atto, movimento, sconfinamento, contaminazione, codificazione. Un luogo sempre meno territoriale, virtuale, metafisico, che non può essere contenuto, ostacolato, perché soggetto ad una continua dislocazione orizzontale verticale, trasversale, con continui zig zag che confondono, affascinano, illudono, deprimono, sollevano, abbattono. L'artista è sicuramente la figura che più di ogni altra si trova a proprio agio in questa condizione, abituato com'è, a ciò che è contraddittorio, a sperimentare forme, materiali, contenuti, ad impegnarsi contemporaneamente nell'approfondimento e nella divulgazione della ricerca. Il suo lavoro è per antonomasia, avvolto in continue antinomie, forzato dalla sua stessa esigenza di originalità a non poter seguire maestri, se non nascondendoli, alternandoli, finendo per essere estraneo persino ignoto, a sé. Così ogni regola gli ser-
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ve come arma contro le regole,ogni stile come stravolgimento della stilistica, in una sua pericolosa, estremizzazione di forma simulatoria. Nell'abbandono del gusto e dell'ironia, come pratiche orma consunte e superate, trova la forza per immergesi nell'intuizione che è forma rapidissima della conoscenza, tanto rapida nella sua manifestazione fenomenica da sorprendere lo stato di coscienza, abituato al susseguirsi dei ragionamenti logici, tanto da farla apparire un prodigio. In effetti, l'intuizione ha qualche cosa di prodigioso, come la risposta immediata del computer ad un quesito, che altrimenti avrebbe richiesto tanto tempo, troppo tempo, quindi lo scoprimento dei meccanismi, procedurali. L'intuizione è artificio di natura, compilazione, analisi e sintesi, lungo una dorsale accidentata che moltiplica i luoghi di accesso e di uscita. Serve tuttora la scuola dei classici, nel senso originario del termine come ebbe ad utilizzarlo Aulo Gellio delle Notti Attiche, nella graduatoria dei ceti sociali, rispetto a cui i classici erano i primi in atto, dotati più degli altri, capaci di contribuire più, di dare la propri immagine ad ogni aspetto della città, di essere lo specchio dio ogni differenza, ma anche di corrompere di più, col rischio di divenire classicisti, mitizzarsi, divinizzarsi, impedire cambiamenti. La loro scuola deve essere palestra di abilità, perché tale è l'invenzione, manifestazione di ricchezza di penetrazione in tutti gli anfratti di divenire fantastico e renderli materializzabili. Storia, dunque, come studio delle
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irregolarità, della virtù, del genio, della creazione. Stimolo continuo ad andare oltre verso l'ignoto, verso ogni ignoto: plus ultra. Formazione con habitus a convivere con l'obsolescenza, prevista e imprevista, prevedibile e imprevedibile, per cui quando un costume, una rappresentazione, uno spettacolo, entrano in scena, sono già vecchi, sostituiti da una programmazione che figura gli anni che saranno attualità tra cinque, dieci, insinuando una fiction del sogno e della vita in modo inestricabile, seguendo un itinerario della strutturazione artificiale naturale virtuale dei minimi e nei massimi sistemi dell'esistenza, dalla vita singola, privata, semplice, a quella collettiva, complessa, di massa. Essere abituati a cambiare, vuol dire essere abituati a cambiarsi, a mutarsi d'abito e sostituirsi il cuore, a cambiare sembianze e riparare il cervello, fino al marchingegno totale in grado di porsi come discrimine tra la vita e la morte, per fare un passo verso l'immortalità. Tutto questo mentre una società giapponese sta lavorando (con esiti ancora top secret) ad un piccolo apparecchio da porre sul petto di una persona, per vedere stampigliata nei cristalli liquidi, data ed ora della morta. Data ultima s'intende, quella non plus ultra, mentre qualsiasi incidente la può anticipare. Formazione, rebus sic stantibus, rimane storia, consapevolezza del passato della discendenza, che crea i nomi delle persone e delle cose, la filologia per scendere sempre più nel profondo, l'invenzione per andare sem-
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pre più nel profondo, l'invenzione per andare sempre più nell'ignoto, da un greco della raffinatezza ad un inglese della comunicazione, passando per un italiano che parte dagli etruschi e arriva sino a noi. Che noi dobbiamo conservare come antidoto alla velocità necessaria, alla velocità emulatrice di luce e suono, esplosiva della stessa idea di conservazione di stile, di collezione. Conservazione, stile, collezione, sono figli di una relativa stabilità che permette di tenere il decoder satellitare sul tavolo fratino e l'antenna parabolica sulla torre di un castello medievale. Un giorno potremmo essere messi nella situazione di uscire dalla condizione di stile, conservazione, stabilità e guardare all'uomo di oggi (anni 2000) con lo stesso (stesso?) distacco con cui guardiamo all'homo erectus, considerandolo poco più che una simpatica scimmia. Non sappiamo dove scienza e tecnica ci porteranno, ma più saremo capaci di guidare il vettore del mutamento e più grande sarà il vettore, più di noi porteremo con noi, più ci assicureremo essere e tempo. Sistema. Il sistema della creatività è integrazione della diversità, della differenza, della divergenza con soggetti e temi che provengono da aree diverse, che s'incontrano e si scontrano, in un alto indice di dinamicità e di conflittualità, cercando ciascuno di prendere dall'altro, di sottrarre all'altro, ma avendo tutti il medesimo interesse a che il complesso delle funzioni venga mantenuto e ac-
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cresciuto. Stiamo parlando del sistema della creatività operante in economia di mercato in quanto il sistema tenta dal piano è fallito, dopo aver annullato le varie forme storiche di strutture e soggetti e senza essere riuscito ad evocarne altre. Nel sistema del piano, per esempio, l'arte semplicemente non è esistita. Questo sistema dell'arte, con rapidità sorprendente è riuscito ad assorbire tutti i cambiamenti manifestatisi nel corso di tutto il novecento primo dei quali, la mortalità metaforica degli artisti. La cui causa è da attribuire al compenetrarsi del sistema dell'arte con il sistema della moda, della stagionalizzazione che ha fatto il suo ingresso nei luoghi delle arti visive, pure e applicate, modificandone i ritmi selettivi e lo stesso concetto di conservazione, di collezione. Sempre più si colleziona il fenomeno istantaneo e non più la durata (come scommessa o come promessa). Esserci nell'hic et nunc, diventa imperativo per tutti gli operatori del sistema (storici dell'arte, critici,giornalisti, collezionisti, direttori di musei d'arte contemporanea, istituzioni dell'istruzione artistica, accademie e naturalmente gli artisti). Solo per pochissimi soggetti il gioco dura per più stagioni e per più anni, senza appartenere ad un gruppo forte, determinante. Questo vale in senso generale, nel contesto internazionale, che in quello nazionale, dove si sommano le forze e si sottraggono le debolezze. I forti vanno tra loro, si accompagnano. New York con Londra, Francoforte con Milano con Tokyo, con Shan-
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ghai; quelli di mezzo tra di loro, Barcellona, Lione, Roma, Colonia, Bologna; quelli deboli alla rinfusa, con la prospettiva di potere ascendere (difficile) o ulteriormente perdere quota (facile). Il sistema è, inesorabile, senza cuore, senza coscienza senza riconoscenza, come sa bene Parigi che era il centro dell'arte internazionale, oggi conta poco, pur avendo il Centro Pompidou, il Museo Picasso, che non sono poco, ma sono diventati poco. In Italia, gli elementi rilevanti del sistema delle arti, sono tutti di eredità, a cominciare dalla strutturazione per biennali, triennali, quadriennali, tutte in condizioni residuali anche se capaci di rinnovarsi. La triennale milanese, in quest'ambito, mi sembra in grado di segnare un'attività, uscendo dalla condizione di crisi di lunga durata che l'aveva vista ai margini delle motivazioni della sua esistenza. Oggi è in netto recupero progettuale, sistemico, in consonanza con la scuola di industrial design, fashion design, interior design, architettura, un comparto di modernità erede della tradizione rinascimentale che è giunta fino a noi caratterizzando i prodotti italiani, rendendoli individuabili e preferibili in ambito in internazionale. E' il segno di una vitalità milanese che in qualche modo si diffonde e lancia semi nell'area del centra sud, che hanno già dato qualche risposta, vedi caso napoletano del Madre. Biennale veneziana e Quadriennale romana, sono assimilabili alla Triennale, vivendo di una capacità culturale che è in sviluppo e punta il mondo della pit-
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tura, della scultura e di tutte quelle medialità che si sono venute aggiungendo a queste, con una complessità difficilmente omologabili tra di loro. Comunicazione. Nel sistema capitalistico, di mercato, la differenza tra aree forti e aree deboli è stata, ed è fattore di sviluppo, per cui non esistono ruoli che non siano intercambiabili, che non siano modificabili, anche ribaltabili come tutto ciò attiene alle condizioni generali dell'economia, della ricchezza, della sua distribuzione, del suo comunicare, dei consumi materiali e culturali. Come testimoniano, per la loro dinamicità e proliferare ricchezza, le aree del triveneto, quella emiliana e quella marchigiana, di Madrid, Lisbona, Dublino. Intanto occorre organizzare l'attualità, orientarla, renderla favorevole al lavoro degli artisti e tutti gli operatori legali e funzionali al sistema dell'arte. L'esigenza che si pone è quella di creare (e poi di entrare) in rete di reale e virtuale, in modo da essere vicini a quelli che sono lontani e vicini a quelli che sono già vicini, ma paradossalmente sono lontanissimi e sconosciuti gli uni agli altri. La vicinanza fisica non è un dato fondamentale, essa non è necessaria e non è sufficiente, è solo un dato tecnico, ciò che importa sono le strade della comunicazione, che possono essere paradossali per eccellenza, oppure formidabili strumenti di conoscenza e scambio. In assenza di adeguati strumenti comunicativi non c'è altro che la regressione, la ripetizioni, la schizofre-
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nia, che diventa frantumazione di potenzialità, distruzione di ricchezza, serbatoio per le aree ricche. Perché non esiste la staticità depressiva, esiste una duplicità dinamica che nella misura della mancata evoluzione, che diviene involuzione attaccata da un duplice fronte. Dall'esterno, da parte di chi le sottrae forze e da se stessa, perché attaccata dai propri stessi anticorpi. Una situazione drammatica sempre sull'orlo della tragedia che non ha soluzioni pre formate e pre costituite, ma solo percorsi intelligenti che si collocano nello stadio ultimo dello sviluppo saltando tutte le fasi costruttive precedenti. Gli esempio sono quelli che Corea e di Singapore, di un salto delle stelle alle stalle, muniti di élite intellettuali capaci di orientarsi nel microcosmo e nel macrocosmo, progettuali di strutture leggere e protagonistiche, dimentiche dell'acciaio e delle strutture ferree leggi positivistiche, lavorando di fantasia, di malleabilità, di enorme spirito di contraddizione, attrezzature necessarie per una dinamica di guerriglia adeguata al rizoma dell'attualità. Valori. Valori d'uso e valori di scambio, fanno da base a valori etici, morali, estetici, in un unicum che è estirpabile solo per via analitica, concettuale, in modelli e simulazioni artificiali. I Valori dell'arte ne fanno parte in maniera indelebile, sono connessi all'abitudine, ai segni, alle forme, alla lingua parlata, e scritta, ai comportamenti, ma non necessariamente alla conoscenza e alla consapevolez-
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za. E' necessaria un'attività maieutica, di linguaggio specifico, per tirarli fuori e farli diventare attivi e dinamici. In questo ambito, un compito fondamentale è quello che svolge la scuola, necessario ma non sufficiente, in quanto propedeutico, introduttivo che deve essere poi completato dalla società nella sua ricca articolazione e stratificazione. Là dove rimane estraneo alla ricchezza e alla complessità della società civile, il messaggio della scuole cade in terreno arido, pietroso, bruciato dal sole. L'arte si impara dai libri, ma la si conosce per frequentazione diretta in musei gallerie, mostre, collezioni e niente la può sostituire nei suoi valori plastici, cromatici, termici, viscerali, valori che nessuna foto, nessuna riproduzione possiede o se la possiede si tratta di altro. C'è una corporeità dell'arte che serve dell'innamoramento e serve all'amore e non ha sostituti. Vedere è sempre più un sostituto del puro vedere fisico, è un saper vedere. Così come lo è il toccare. Si può recuperare una mancanza. Ma non si può saltare senza avere una pedana e muscoli adeguati. Bisogna far vedere tutto quello che è stato fatto, ricorrendo a campionature, ad antologie, e selezioni, per poi correre, correre tanto, senza perdere il contatto con i primi. Bisogna farsi un cuore da leone per reggere ritmi e tempi. Non c'è al tra via. Oltre quella, c'è solo l'illusione o la disperazione. Le definizioni storiche, il concetto stesso di arte sembrano provenire da molto lontano, invece sono tutti abbastanza recenti e molte addi-
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rittura occasionali e non è sbalorditivo che abbiano già consumato la loro capacità performativa, per cui oggi si pongono questioni di nuova nomenclatura, di nuova definizione. Dalle avanguardie storiche in avanti, niente è stato più come prima, ogni identità s'è tramutata in fantasma di se stessa e c'è stata una continua dismissione di definizioni, per adeguare forme a contenuti, nella tensione di una linea analitica che ha sostenuto, di volta in volta, l'abolizione delle forme, l'abolizione dei contenuti, la teatralizzazione e la pura concettualizzazione. Comunque, si accentua la contaminazione dei linguaggi degli stili, delle tecniche, con la trasgressione, la trasversalità che mette insieme arcaicità e alta tecnologia, tradizione ed erranza. Oggi appaiano cose nuove che non hanno nome, che chiedono, di averlo; ad esse dobbiamo se non una risposta, almeno una reazione. Computer, video, virtuale, manipolazione, illusione ottica, ciò esige sempre nuove intenzioni verbali, che fermino per un attimo l'evento e lo facciamo diventare possibilità di memoria. Perché rimane intatta la capacità risolutiva della parola, al fine di comprendere, discernere, anche solo per un attimo. Tutto quello che non arriva alla parola, al segno, rimane torrente in piena, nel mezzo della piena sconvolto esso stesso e sconvolgente, la parola e il segno fanno da disagio della civiltà, per dirla con Freud, sempre attuale e sempre stupefacente. E' l'auto elogio della critica, che si compone di tante cose di storia
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come di fantascienza, di filosofia, e di poesia, di armonie prestabilite e di avventure nell'ignoto. Perché una cosa è chiara, spesso la critica sbaglia, eccede o difetta, mente, si confonde e tanto che è stato parola, viene espulso dalla mente che (ipnosi insegna) è sempre attuale, ma ciò che non suscita parola, non arriva da essa, inesorabilmente muore. Si tratta, dunque, di rimanere collegati con il cuore pulsante dell’invenzione della ricerca, senza cadere in nessun anacronismo, anzi, ascoltando lo scandirsi del tempo reale e con esso entrare in assonanza per potere affinare gli strumenti creativi della civiltà che, lungi dall’essere mitizzati dalle forme del passato, possono costituire presente e futuro. Certo, bisogna difendersi dalla trasparenza assoluta che diventa un’aggressione della feconda segretezza che fa di ciascuno di noi un individuo reale e sostanziale, avendo presente che non tutto si deve vedere, che non tutto si deve sapere e non solo per salvare uno spettacolare effetto sorpresa, quanto per salvaguardare nel futuro che è già in mezzo a noi, la cosa più antica a cui teniamo e che è la nostra biologia, fonte inesauribile della nostra biografia, a patto che si possa dire: sì, è proprio così!, ma anche: non pensavo proprio che potesse essere così!.
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Indice
2015
7
Scripta
19
2000
23
Tra Etica ed Estetica
35
Storia Letteratura Arte
45
Ricerca Artistica
64
ProgettualitĂ
76
Individuale Non Individuale
90
Estetica Cultura Critica
128
Bisogni e Valori
164
Dinamiche della Leggerezza
178
Finito di Stampare in eBook presso edizioni Toth Viale Regione Siciliana N.O., Palermo