space, time and participation

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spazio, tempo e partecipazione Teorie e pratiche dinamiche della comunicazione


Silvia Schiaulini “spazio, tempo e partecipazione Teorie e pratiche dinamiche della comunicazione” “space, time and participation Communication dynamic theories and practices ”

Elaborato finale per l’esame di laurea del 22 aprile 2009, Corso di laurea specialistica in comunicazioni visive e multimediali, Facoltà di Design e Arti, Università IUAV di Venezia Relatore Prof. Giovanni Anceschi Submitted on 22 April 2009 as the graduation output of the Graduate programme in visual and multimedia design, Faculty of Design and Art, University IUAV of Venice. Supervisor Professor Giovanni Anceschi

Composto in Foundry Form Sans (versione italiana), Foundry Form Serif (versione inglese) disegnati da David Quay nel 1999 per The Foundry. Set in Foundry Form Sans (italian version), Foundry Form Serif (english version) disegned by David Quay, in 1999 for The Foundry. Stampato su/Printed on Aralda avorio 80 gr/m2 (inserti/inserts) Aralda avorio 120 gr/m2 (testo/text) Stampato da/Printed by

Facoltà di Design e Arti

Tipografia Rabachin, Udine.

Corso di laurea specialistica

Aprile - April 2008

in comunicazioni visive e multimediali AA 2007/2008


spazio, tempo e partecipazione Teorie e pratiche dinamiche della comunicazione

space, time and participation Communication dynamic theories and practices


English

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Introduction Living typographical signs Typography, punctuation, communication and time toward a new digital orality.

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Existing only in time Works provided with the fourth dimension only.

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Energy in movement Kinetic works first steps towards the spectator.

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Astronauts and cosmonauts The conquest of space; dematerialization of art and disciplinary blur.

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Time forecast Criticism to the society of the spectacle and democratization of visual art through Debord and Fluxus’s work.

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The author is dead. Long live the author. Authorship in communication between expressivity and illegibility.

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Designed relations Interdisciplinary instruments for possible relational aesthetics in communication.

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Cooperative communication Proposals for a participative design: Experience design & co-design. Participative communication cataloguing.

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Bibliography


Italiano

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Introduzione Segni tipografici viventi Tipografia, punteggiatura, comunicazione e tempo, uniti verso una nuova oralità digitata.

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Esitere solo nel tempo Opere dotate della sola quarta dimensione.

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L’energia del movimento I primi passi delle opere cinetiche verso lo spettatore.

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Astronauti e cosmonauti Alla conquista dello spazio; dematerializzazione dell’arte e blur disciplinare.

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Pre-visioni del tempo Critica alla società dello spettacolo e democratizzazione dell’arte visiva attraverso l’opera di Debord e Fluxus.

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L’autore è morto. Viva l’autore. L’autorialità nella comunicazione, tra espressività e illeggibilità.

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Relazioni progettate Strumenti interdisciplinari per una possibile estetica relazionale nella comunicazione.

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Comunicazione cooperativa Proposte per una progettazione partecipativa: Experience design e co-design. Catalogazione della comunicazione partecipata.

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Bibliografia



“and what is the use of a book” thought Alice, “without pictures or conversation?”

“e a che pro un libro,” pensava Alice, “senza le figure e i dialoghi?”

Lewis Carroll

A person without imagination is like a teabag without hot water.

Una persona senza immaginazione è come una bustina di tè senza acqua calda.

Alan Fletcher


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Introduction

I hold the needle tightly between the thumb and the index of my left hand, in the right a string of white thread. After many attempts the thread is in the needle eye, I let it run on and start stringing the pearls, one by one, all different in material and colour, they slide lightly along the thread and stop at the final knot. The choice of the pearls, the wide research, the careful examination have taken long, but now while creating the necklace it is easy to find the most suitable chromatic composition; it is easy to let the pearls go down along the thread, you only need to hold the needle firmly.


Introduzione

Tengo l’ago stretto tra l’indice e il pollice della mano sinistra, con la destra la cima del filo bianco. Dopo molti tentativi il filo è nella cruna, lo faccio scorrere e comincio ad infilare le perle una per una, tutte diverse per materiale e colore, tutte scendono leggere lungo il filo e si bloccano al nodo finale. È stata lunga la scelta delle perle, un’ampia ricerca, un’attenta esaminazione ma poi nel momento di comporre la collana è facile indovinare la composizione cromatica più adatta, è facile farle scendere lungo il filo, basta tenere l’ago con convinzione.

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The communication and interaction designer as design director, has a combination of practical and specialised design skills, strategic know-how, abilities in complex problem solving, communication campaign planning, and developing and coordinating large projects, he is also capable of creating a series of communication events and managing their development and realization. The professional and researcher that is formed in this course is therefore a specialist able to move transversally.1 The communication designer described by Giovanni Anceschi, gives great responsibilities to those who want to belong to this category; but the attractiveness of this profession lies just in the hard work needed to achieve these requirements. I take the thread and the needle and I start my project trying to maintain the high profile this discipline requires. Therefore I choose to avoid either focusing on an exhaustive specific topic, or designing an artefact but to start an open multidisciplinary project that passes over times and subjectmatters and to consider the most interesting points carefully. The right way to start, as professor Giorgio Agamben teaches, is to ask ourselves intelligent and stimulating questions which have in themselves half of the answer you need. Bringing back a temporal dimension in the artistic or communicative work, does it imply interaction with the spectator-user? Is it possible to add the temporal dimension, the fourth dimension, to the three that communicative artefacts and art objects already have? Time as active dimension in communication is the subject-matter. Communication can be intended as signal transmission from an emitting source to a receiving one or as interactive exchange between two or more participants; communication meant as ‘mother’ discipline in designing an artefact; communication meant as fundamental and meaningful component of art. I think the participative aspect in art is the most interesting of all, aware of embracing a very strong critical point of view, reinforced after the study of the critic Angela Vettese’s approach, who sees art as communicating. I am even more interested in art as communication when I see that the issue of interactivity between the user and the work of art has been widely treated over the years. Interactivity increases the communicative potential of a work, and tests the perceptive possibilities free from the 1. Cfr. Giovanni Anceschi, Retorica verbo-figurale e registica visiva in Umberto Eco e al., Le ragioni della retorica, Mucchi Editori, Modena 1986. 2. Lucilla Meloni, L’opera partecipata. L’osservatore tra contemplazione e azione, Rubettino Editore, Catanzaro 2000.

authoritarian pervasive use of the media image, Lucilla Meloni writes referring to the work of the group Studio Azzurro.2


Designer della comunicazione e dell’interazione come regista, design director, in grado di affiancare a competenze progettuali pratiche e molto specializzate; un modo di intendere il progetto come attività strategica, capacità di risolvere problemi complessi, di pianificare campagne di comunicazione, di sviluppare e coordinare progetti a vasto respiro, di ideare sequenze finalizzate di eventi comunicativi e di guidarne la programmazione e la realizzazione. Il professionista e ricercatore è quindi una figura insieme specializzata e capace di muoversi in modo trasversale.¹ Il ritratto del designer della comunicazione descritto da Giovanni Anceschi mette grandi responsabilità sulle spalle di chi voglia rientrare nella categoria; ma è proprio nella difficoltà di possedere questi esigenti requisiti che risiede la bellezza di questa professione. Prendo ago e filo e comincio il mio progetto, cercando di tenere fede all’impegno che la disciplina di cui mi occupo richiede. Scelgo quindi di non focalizzarmi su uno specifico argomento e di esaurirlo, né di progettare un’artefatto, ma di cominciare un discorso multidisciplinare aperto che sorvoli tempi e materie, soffermandosi nei punti più interessanti con occhio attento. Il giusto modo di iniziare un progetto, come insegna il professor Giorgio Agamben, è quello di porsi delle domande intelligenti e stimolanti, la formulazione delle quali è già metà della risposta. Il riportare una dimensione temporale nell’opera (artistica o comunicativa) implica l’interazione con lo spettatore-utente? È possibile aggiungere la dimensione temporale, la quarta dimensione, alle tre in possesso dagli artefatti comunicativi? L’argomento del discorso è il tempo come dimensione attiva nella comunicazione. La comunicazione viene intesa come trasmissione di un segnale da una fonte emittente ad un ricevente o come scambio interattivo tra due o più partecipanti; comunicazione intesa come disciplina madre nella progettazione dell’artefatto; comunicazione intesa come componente fondamentale e significante dell’arte. Trovo l’aspetto partecipativo dell’arte come il più interessante tra tutti, consapevole di sposare un punto di vista critico molto forte, rafforzato nel tempo dallo studio dell’approccio della critica Angela Vettese, che vede l’arte come comunicare. L’arte come comunicazione mi interessa ancor di più quando capisco che il problema dell’interattività dell’utente con l’opera è stato trattato ampiamente nel corso del tempo. L’interattività aumenta il potenziale comunicativo dell’opera e verifica le possibilità percettive slegate 1. Cfr. Giovanni Anceschi, Retorica verbo-figurale e registica visiva in Umberto Eco e al., Le ragioni della retorica, Mucchi Editori, Modena 1986. 2. Lucilla Meloni, L’opera partecipata. L’osservatore tra contemplazione e azione, Rubettino Editore, Catanzaro 2000.

dal consumo autoritario e pervasivo dell’immagine mediale scrive Lucilla Meloni riferendosi all’opera del gruppo Studio Azzurro.²

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These statements, these themes, these considerations are my starting point. Unexpectedly a rich bibliography on this subject opens up: it includes texts of art criticism, essays on aesthetics, artists’ monographs and exhibition catalogues. Almost all of them published in the 1960s and 1970s: it seems that the interest in the user’s active role started and developed in the years of major political and social fervour in Europe. The work of art of the 1970s still offers interesting reflections to this day: in fact it spoke with a contemporary language that is peculiar to the artist, historicizing and revealing in the same way. The artist’s role has always been the one who by dividing and interpolating time is able to transform it and put it in relation with different times,3 the contemporary man. These questions that move art towards new horizons have been present, may be forerunners, in literature too. In The Open Work Umberto Eco starts his study on the vagueness of artistic forms from the analysis of Joyce’s experimental literature and Mallarmé’s editorial dream. Then he carries on with musical discourse, neorealist cinema, informal and kinetic art. I think that history cycles have brought these interests back, even if the dimension of the phenomenon is not comparable at all, as for spread and strength. The aim of the most interesting texts of the last decades has been the users’ active and aware behaviour but no longer from the artistic- aesthetic point of view, rather from a social-ecological one. In fact they are about ‘time’ as lifetime of an artefact and they encourage man’s responsible behaviour as the only solution for the future (ours and of the planet). As if the book participatory component could be the stimulus that leads the reader to action. I enjoyed combining these texts, movements etc., pointing out with interest the so many interferences between humanities and scientific disciplines, past and present, and I have tried to apply them to real projects. This text makes no claim to be exhaustive on this subject-matter but it is a collection of thoughts and works dealing with the concept of time connected to the active dimension of man and his artefacts. Through guide themes linked to the three spatial dimensions together with the temporal one, I propose non chronological routes throughout various disciplines, arts and personalities to explore how and why the work has changed and in which directions it is moving now. Communication fifth dimension, that characterizes the present in the artistic, literary and visual field, is a new 3. Giorgio Agamben, Che cosa è contemporaneo?, Edizioni Nottetempo, Roma 2008.

openness to the spectator and to design interdisciplinary collaboration.


Queste dichiarazioni, questi temi, queste riflessioni sono il mio punto di partenza. Inaspettatamente mi si apre una bibliografia vastissima sull’argomento che comprende testi di critica dell’arte, saggi di estetica, monografie di artisti e cataloghi di esposizioni. Tutti o quasi provenienti dagli anni sessanta e settanta: l’interesse per la dimensione attiva del fruitore sembra nascere e svilupparsi negli anni di maggior fervore politico e sociale in Europa. L’opera d’arte degli anni settanta porta ancora interessanti riflessioni per l’uomo d’oggi: parla infatti con un linguaggio contemporaneo proprio dell’artista, storicizzante e rivelatorio allo stesso modo, in grado di rimanere tale nel tempo. Il ruolo dell’artista è sempre stato quello di essere colui che dividendo e interpolando il tempo, è in grado di trasformarlo e metterlo in relazione con gli altri tempi,³ l’uomo contemporaneo. Questi interrogativi che muovono l’arte a nuovi orizzonti si sono mostrati altrettanto presenti e forse anticipatori nella letteratura. In Opera aperta, Umberto Eco fa partire la sua ricerca sull’indeterminazione delle forme artistiche proprio dall’analisi della letteratura sperimentale Joyciana e dal sogno editoriale di Mallarmé, per poi proseguire con il discorso musicale, il cinema del realismo, l’arte informale e cinetica. Mi sembra di intuire che la ciclicità della storia ci abbia riportato a questi interessi, nonostante la dimensione del fenomeno non sia minimamente paragonabile in quanto a diffusione e forza. I testi più interessanti nel panorama degli ultimi decenni hanno come obiettivo il comportamento attivo e consapevole del fruitore ma non più dal punto di vista artistico-estetico, quanto da quello sociale-ecologico. Parlano infatti, del tempo inteso come tempo di vita dell’artefatto e incentivano il comportamento responsabile dell’uomo come unica soluzione per il futuro (nostro e del pianeta). Quasi come se la componente partecipativa del libro possa essere lo stimolo che porta il lettore all’azione. Mi sono divertita a intersecare testi, movimenti e discipline completamente diversi tra loro, rilevando con interesse le interferenze che si creano tra discipline umanistiche e scientifiche, passate e odierne, e ho cercato di trovarne traduzione in progetti reali. Non è e non vuole essere un testo esaustivo sull’argomento ma una raccolta i pensieri e opere che trattano il concetto di tempo legato alla dimensione attiva dell’uomo e dei suoi artefatti. Attraverso dei temi guida legati alle tre dimensioni spaziali sommate a quella temporale, propongo dei percorsi non cronologici attraverso varie discipline, arti e personalità per esplorare come e perché l’opera sia cambiata e in quali direzioni 3. Giorgio Agamben, Che cosa è contemporaneo?, Edizioni Nottetempo, Roma 2008.

si muova nel contemporaneo. La quinta dimensione della

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A necessary behavioral change whose strength is a new attention towards the individual and his relationships. In the economic field Noreena Hertz calls it capitalism coop: a political paradigm based on the values of collaboration and collective interest that can develop in this period of crisis of the free market doctrine, when the necessary capital to promote the new is running out. The analysis of the route going from the first kinetic sculptures to co-design is long, but it follows a unique fundamental principle that thinks a collective collaboration for knowledge is necessary for a democratic behaviour. Openness becomes instrument of revolutionary pedagogics.4

4. Umberto Eco, The open work, trans. Anna Cacogni, Harvard University Press, Cambridge (Mass.), 1989.


comunicazione che caratterizza l’oggi in campo artistico, letterario e visivo è una nuova apertura allo spettatore e ad una collaborazione interdisciplinare progettuale. Un cambiamento comportamentale necessario il cui punto di forza è una nuova attenzione verso l’individuo e le sue relazioni. In campo economico Noreena Hertz lo chiama capitalismo coop: un paradigma politico basato sui valori della collaborazione e dell’interesse collettivo che può svilupparsi in questo momento di crisi della dottrina del libero mercato, quando cominciano a scarseggiare i capitali necessari per promuovere il nuovo. L’analisi del percorso che ha portato dalle prime sculture cinetiche al co-design è lunga, ma segue un principio fondamentale unico che riconosce una collaborazione collettiva alla conoscenza come necessaria per un comportamento democratico. L’apertura si fa strumento di pedagogia rivoluzionaria.4

4. Umberto Eco, Opera aperta, Bompiani, Milano 1962

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Living typographical signs Typography, punctuation, communication and time toward a new digital orality.

Who was he? An angel? A clairvoyant? Mephistopheles? Or the eternal spirit of adventure? The embodiment of ignorance that is waiting for us at the street corner? Or simply hope?¹ Hope of communication? Dino Buzzati takes us into a surreal situation where, owing to a telephone service strike some strangers meet in a dark space. Foresight of the present world of chat lines? It might really be about this; when Buzzati gives voice to the telephone users, he modifies or better he eliminates punctuation in his written text. When Franchina and Clara start their conversation, unaware of being listened to, they do not use a full stop, or a comma, or a breath, they almost form an unmediated overflowing of thoughts. Isn’t it the same also in the typed 1. Dino Buzzati, Lo sciopero dei telefoni in I capolavori, Mondadori, Milano 2005, first published on “Corriere della sera”, 14 aprile 1955.

writing of chat lines? As if you didn’t need to scan time, on the contrary


Segni tipografici viventi Tipografia, punteggiatura, comunicazione e tempo, uniti verso una nuova oralità digitata.

Chi era? Un angelo? Un veggente? Mefistofele? O lo spirito eterno dell’avventura? L’incarnazione dell’ignoranza che ci aspetta all’angolo? O semplicemente la speranza?¹ La speranza della comunicazione? Dino Buzzati ci porta in una situazione surreale in cui, causa uno sciopero telefonico, sconosciuti si incontrano in uno spazio buio. Preveggenza dell’attuale mondo della chat? Potrebbe proprio trattarsi di questo; quando Buzzati da voce agli utenti telefonici, modifica o, sarebbe meglio dire, annulla la punteggiatura nel suo scrivere. Franchina e Clara quando cominciano la loro conversazione, ignare degli altri utenti in ascolto, non mettono un punto, non una virgola, non un respiro quasi a formare un rigurgito di pensieri non mediato. E non è così anche nella 1. Dino Buzzati, Lo sciopero dei telefoni in I capolavori, Mondadori, Milano 2005, originariamente pubblicato in “Corriere della sera”, 14 aprile 1955.

scrittura digitata nella chat? Come se non ci fosse bisogno di scandire

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as if you wanted to reproduce the speed of thought, its immediateness, by eliminating all symbols that scan reading, as if we were looking for immediate communication. Punctuation marks become a surplus, a waste of time, a deviation from meaning, a moving away from freedom. In the same way James Joyce translates Molly Bloom’s thoughts into words by using the stream of consciousness. Umberto Eco sees Joyce’s Ulysses as the greatest example of ‘open work’ that gives an image of a precise condition of the existential and the ontological of the contemporary world. These two authors seem to implement a time and space extension opposed to the linear narration that characterized writing up to the end of the 20th century. As Edmund Wilson says: its force (Ulysses’) instead of following a line, expands itself in every dimension (including that of time) around a single point.2 He creates a spatiality similar to that of a town, where you can move and walk in every direction; starting the reading of this text from a central point doesn’t devalue the work itself, Joyce himself admits not writing in a linear way, but dealing with different parts simultaneously. The relationship between the work and the public, these authors wished, is perfectly explained by Henry Pousseur speaking about his musical work: As phenomena are not linked according to a consequent determinism, it is up to the listener to enter voluntary into a net of endless relations, to choose by himself […] his level of approach, his meeting spots, his reference scale; it is his turn now to use, at the same time, the largest amount of gradation and dimensions possible to make his instruments of assimilation dynamic, to multiply them, to widen them to extremes.3 These works seem to have a multiplicity of possible readings; the sense impressed on them by the author has the richness of the real world, the author himself would like them to imply the totality of space and time. At the same time by removing any pause, any time scanning one allows the work to contain them all. These authors’ aim is to avoid imposing the spectator a one-way sense. One of the first experimenters of typography expressive potentialities, of punctuation and of the white, is certainly the French poet Stéphane Mallarmé. Through the typographical play, new arrangements of the black on the page, he can suggest more than the mere meaning of words; playing 2. Edmund Wilson quoted in Umberto Eco, The open work, trans. Anna Cacogni, Harvard University Press, Cambridge (Mass.), 1989. 3. Henri Pousseur in Umberto Eco, The open work, op. cit.

with the disposition of the signifier, he enriches the whole meaning of a poem, defined by various factors and at the same time more undefined


il tempo, anzi come se si volesse riprodurre la velocità del pensiero, la sua immediatezza, eliminando tutti i simboli che scandiscono la lettura, come fossimo cercatori di una comunicazione immediata. I segni interpuntivi diventano un surplus, una perdita di tempo, un deviare dal significato, un allontanarsi dalla libertà. Allo stesso modo James Joyce traduce attraverso il flusso di coscienza, stream of consciousness, i pensieri di Molly Bloom. Umberto Eco vede proprio l’Ulysses di Joyce come l’esemplare massimo di opera aperta intesa come opera che da un’immagine di una precisa condizione di esistenziale e ontologica del mondo contemporaneo. I due scrittori sembrano attuare un’espansione spaziale e temporale in opposizione alla narrazione lineare che ha caratterizzato la scrittura fino al novecento. Come dice Edmund Wilson la sua forza (dell’Ulysses), invece di seguire una linea, espande se stessa in ogni dimensione (inclusa quella del tempo) intorno ad un singolo punto.2 Crea una spazialità simile a quella di una città, nella quale posso muovermi e camminare in ogni direzione; cominciare la lettura di questo testo da un punto centrale, non fa perdere il valore dell’opera, lo stesso Joyce ammette di non averlo steso in maniera lineare, ma di essersi occupato simultaneamente di più parti. La relazione tra l’opera e il pubblico auspicata da questi autori, viene perfettamente esplicata da Henri Pousseur parlando della sua opera musicale: Giacchè i fenomeni non sono più concatenati gli uni con gli altri secondo un determinismo conseguente, spetta all’ascoltatore di porsi volontariamente nel mezzo di una rete di relazioni inesauribili, di scegliere per così dire egli stesso [...] i suoi gradi di avvicinamento, i suoi punti di ritrovo, la sua scala di riferimenti; è lui ora a tendere ad utilizzare contemporaneamente la maggior quantità di gradazioni e di dimensioni possibili, di render dinamici, di moltiplicare, di estendere all’estremo i suoi strumenti di assimilazione.3 Queste opere sembrano contenere in sé una molteciplità di possibili letture; il senso che l’autore vi ha impresso ha la ricchezza del mondo reale, l’autore stesso vorrebbe implicasse la totalità dello spazio e del tempo. Allo stesso modo eliminare qualsiasi pausa, qualsiasi scansione del tempo permette all’opera di contenerli tutti in sé. L’obiettivo di questi autori sembra essere quello di non permettere che un senso unico si imponga allo spettatore. Uno dei primi sperimentatori delle potenzialità espressive della tipografia, della punteggiatura e del bianco, è sicuramente il poeta francese Stéphane Mallarmé. Attraverso 2. Edmund Wilson in Umberto Eco, Opera aperta, Bompiani, Milano 1962. 3. Henri Pousseur in Umberto Eco, Opera aperta, op. cit.

il gioco tipografico, nuovi tipi di disposizione del nero sulla pagina, egli può suggerire altro rispetto al solo

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because pregnant with many different suggestions. The poet thinks the character of suggestion is to be considered with great importance: suggesting as dreaming, discovering little by little, playing with meanings. Once again it is an open work that through suggestion poetics doesn’t use a categorical imperative towards the spectator but puts him in an active condition of interpretation. In the texts by Buzzati and Joyce the interaction with the reader can have two levels: the first deals with meaning, the openness to different interpretations, the second with style. The absence of punctuation, the lack of a sign system that once ruled reading can be seen as a freedom left to the reader, the freedom to establish the mode, the speed to move in the text. Almost as a town without road signs, and from here a description of the condition of thought itself, the innermost self that doesn’t censure or control itself autonomously but flows free in our minds.

In the case of Mallarmé, as in all expressive typography, punctuation marks, spaces included, maintain their conventional meaning and try to add a more immediate one, closer to the language of images. Joining two types of meaning can lead to the intuition of new ones. The reading of Mallarmé’s poems is anything but linear: a first meaning comes from the shape the poem has, from the arrangement of signifiers, afterwards others will come from the decoding of the typographical signs. In this case too, each reader starts his reading from different points since the orders above-below, right-left are completely subverted by the new sign arrangement on the page. Reaching the limits of experimentalism, Mallarmé, throughout his life, plans a work, he will never finish, called Livre, simply book, that wanted to be ‘summa’ of the world itself.4 The dynamic structure of this unfinished ambitious project is what we are interested in: the poet didn’t want to determine a fixed order of the book pages, letting them free to create new meanings according to their succession. He wanted, in this way, to translate on paper the infinite multiplicity of the absolute and pervade the work with the same casualness that runs the world. The work would not have assumed sure meanings, but through its combinations, it would have suggested always new meanings. We cannot omit quoting Apollinaire’s typographical experiments or Laurence Sterne and his novel The Life and Opinions of Tristram Shandy where he used to provoke by using asterisks, capital letters and dashes with the maximum 4. Umberto Eco, The open work, op. cit.

freedom, soon after the rules of their


significato delle parole, può giocare con la disposizione del significante in modo da arricchire il significato totale della poesia, definito da più fattori e allo stesso tempo più indefinito perché pregnante di più suggestioni diverse. Proprio il carattere della suggestione, il poeta ritiene sia da considerare con maggior importanza: suggerire come sognare, scoprire poco a poco, giocare con i significati. Di nuovo si tratta di un’ opera aperta che attraverso la poetica della suggestione, non usa l’imperativo categorico verso lo spettatore, ma lo mette in una condizione attiva di interpretazione. Nei testi di Buzzati e Joyce il livello di interazione con lo spettatore può essere visto a due livelli: il primo riguarda il significato, l’apertura alle molteplici interpretazioni, il secondo è stilistico. L’assenza di punteggiatura, il mancare di un sistema di segni che prima regolava la lettura, può essere vista come una libertà lasciata al lettore, un lasciare determinare al fruitore la modalità, la velocità con cui muoversi nel testo. Quasi come una città senza indicazioni stradali, e da qui una descrizione della condizione del pensiero stesso, il più intimo umano, che non si censura o regola autonomamente, ma libero fluisce nelle nostre menti.

Nel caso di Mallarmé, come in tutta la tipografia espressiva, i segni della punteggiatura, inclusi gli spazi, mantengono il loro significato convenzionale e cercano di aggiungerne uno più immediato, più vicino al linguaggio delle immagini. L’accostamento di due tipi di significati può portare all’intuizione di nuovi. La lettura delle poesie di Mallarmé sarà tutt’altro che lineare: un primo significato deriva dalla forma che sagoma la poesia, dalla disposizione dei significanti, successivamente ne verranno altri dalla decodifica dei segni tipografici. Anche in questo caso ogni spettatore incomincerà la lettura da diversi punti dato che l’ordine alto-basso, destra-sinistra viene completamente sovvertito dalle nuove disposizioni dei segni nella pagina. Spingendosi ai confini dello sperimentalismo, Mallarmé per tutta la sua vita progetta un’opera, che mai porterà a termine, chiamata Livre, semplicemente libro, la quale voleva essere summa del mondo stesso.4 Quello che ci interessa di questo ambizioso progetto infinito è la sua struttura dinamica: il poeta voleva non determinare un ordine fisso delle pagine del libro, lasciandole libere di comporre nuovi significati a seconda del loro susseguirsi. Voleva così tradurre su carta la molteplicità infinita dell’assoluto e permeare l’opera della stessa casualità che governa il nostro mondo. L’opera non avrebbe assunto significati certi, ma suggerito attraverso le sue combinazioni, significati sempre nuovi. Non si può non citare anche gli esperimenti tipografici di Apollinaire oppure 4. Umberto Eco, Opera aperta, op. cit.

Lawrence Sterne, nel romanzo Vita e

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usage had been established in the second half of the 18th century. Curious and interesting is Ernest Hemingway’s proposal that with his Blank Verse, a poem consisting of only punctuation marks and spaces, seems to tell us that words are a surplus, an excess of communication.5 On the contrary Filippo Tommaso Marinetti in his Manifesto tecnico della letteratura futurista asserts that freedom can be achieved only by abandoning dots and commas: The complex consecutio, the bulky framework of syntax […] must fall so as to let the image freely flash like a snapshot; punctuation too must be abolished to confer the text the varied continuity of a living style that creates itself, without the absurd pauses of commas and periods.6 To the use of punctuation marks Futurists preferred mathematical symbols, musical symbols, white space, various fonts and their weights to show a hierarchy of meanings. They were looking for new, more immediate and surely transversal ways to communicate the emphasis with which texts had to be pronounced and this was particularly important because they were proclaimed in public. As Mengaldo points out: Futurist texts exasperate both orality and graphicity: Asynctaxism itself is one thing on the written page, something else in the freedom of speech that makes it less provocative, more natural and expressive, setting it free from emotional, though rough, jolts. As for graphycity, we have seen its aspects, and here we add that the exploitation of ‘whites’ is much more important here in the absence of punctuation and strophic partitions. As for the variety of fonts: the movement obtained with this means (let’s only think about Marinetti’s bold types) has already a certain value and emphasis on the page, but it would be unthinkable without its function of sign system that suggests the graduation of emphasis and impressivity in the declamation of the text. Once again graphic exasperation and orality help each other.7 In Marinetti’s texts the typographical translation regards both orality and in a certain way action, in the gesture in the attitude. Mario Diacono revalues in this key, 5. Cfr. Ernest Hemingway, Nicholas Gerogiannis (ed.), Complete Poems, Bison Books, Winnipeg 1983.

Marinetti’s words contained in Les

6. Filippo Tommaso Marinetti, Interpunzioni in Manifesto tecnico della letteratura futurista, May 11, 1912.

He recognises there the strong

7. Pier Vincenzo Mengaldo, Il Novecento, Il Mulino, Bologna 1994.

mots en liberté futuristes.

subversion of rules, the typographical role expansion that these entail,


opinioni di Tristam Shandy gentiluomo, che usava provocare utilizzando asterischi, maiuscole e trattini con la massima libertà, poco dopo che le regole del loro utilizzo erano state stabilite nel secondo Settecento. Curiosa ed interessante è la proposta di Ernest Hemingway che con i suoi Versi sciolti, poesia composta solo con segni interpuntivi e spazi, sembra volerci dire che le parole sono un sovrappiù, un eccesso di comunicazione.5 All’opposto Filippo Tommaso Marinetti nel suo Manifesto tecnico della letteratura futurista, sostiene che la libertà possa essere raggiunta solo attraverso l’abbandono di punti e virgole: Deve cadere [...] la macchinosa consecutio, l’ingombrante traliccio della sintassi perché possa liberamente balenare l’immagine come un’istantanea; va pure abolita la punteggiatura, per conferire al testo la continuità varia di uno stile vivo che si crea da sé, senza le soste assurde delle virgole e dei punti.6 All’ utilizzo dei segni interpuntivi i futuristi prediligono l’uso di simboli matematici, di segni musicali, dello spazio bianco, di diversi caratteri tipografici e dei loro pesi per indicare una gerarchia di significati. Cercano nuovi modi più immediati e sicuramente trasversali per comunicare l’enfasi con cui i testi devono essere pronunciati, importanti soprattutto perché venivano proclamati pubblicamente. Come ci fa notare il critico Pier Vincenzo Mengaldo, il testo futurista estremizza sia l’oralità che la graficità: Lo stesso asintattismo è una cosa sulla pagina scritta, un’altra nella libertà della declamazione che lo rende meno provocatorio, più naturale ed espressivo, liberandolo per così dire dai salti emozionali, per quanto rozzi. E quanto alla graficità, ne abbiamo visto gli aspetti, e qui aggiungiamo che la valorizzazione dei bianchi è tanto più importante in assenza di punteggiatura e di partizioni strofiche. Per la varietà dei caratteri: la movimentazione ottenuta con questo mezzo (si pensi in particolare ai neretti e grassetti di Marinetti) ha un certo valore e rilievo già sulla pagina, ma non sarebbe concepibile senza la sua funzione di sistema di segni che indica la gradazione dell’enfasi e dell’impressività nella declamazione del testo. Ancora una volta, esasperazione della graficità e dell’oralità si danno una mano.7 Nei testi di Marinetti la traduzione tipografica riguarda sia l’oralità che in un 5. Cfr. Ernest Hemingway, 88 poesie, Mondadori, Milano 1993. 6. Filippo Tommaso Marinetti, Manifesto tecnico della letteratura futurista, brano Interpunzioni, 11 maggio 1912. 7. Pier Vincenzo Mengaldo, Il Novecento, Il Mulino, Bologna 1994.

certo qual modo l’azione, nel gesto e nel comportamento. Mario Diacono rivaluta in questa chiave le tavole marinettiane contenute in Les mots en liberté futuristes. Egli ci riconosce

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but most of all he considers these works as the introduction of writing as extralinguistic ‘démarche’ sign -› gesture -› object -› action, that is, they promoted it to the responsibilities of modern aesthetics.8 Up to the Futurists’ activity nobody had ever put Renaissance typography communication system in doubt, except Mallarmé’s important challenge in his Coup de dés. The dadaist nonsense is often wrongly compared to the futurist works: one can see it inserted in Marinetti’s work at a purely syntactic level but it is actually replaced by a hyper-realism of sensation. Beside the effects of a space-time simultaneity, of sound visual synthesis and of movement transcription, according to Diacono in the futurist pages there is the introduction of the typographical gesture that dissociates typography from the alphabet, at the same time it formalizes the typographical sign into an object, and lets the poetic text dissolve into action. In some pages, references to language completely disappear, Marinetti wants to create self illustrating words-objects, convert the typographical area into physical space. Many attempts have been made to give new and different meanings to typographical signs, as if these small black signs created by man, wanted to be something more than an univocal simple linguistic code.

Nowadays punctuation marks seem to be the protagonists, they are recycled and they are given new meanings. In 2000 the flexibility of usage is a ‘must’: it is required in punctuation too, so emoticons {;-)} are the new use of full stops, commas, parenthesis, etc. It is not a question of judging whether written communication is in a moment of crisis or not but it is essential to highlight its new modes, new forms to be able to foresee its new evolutions. Lynn Truss defines emoticons as the greatest (or most desperate, depending how you look at it) advance since the question mark in the reign of Charlemagne. 9 The new way of writing through the web is becoming part of everyday life for all of us. The speeding up of writing and reading at the same time, thanks to email, allows us not to worry about oversights and spelling mistakes, upper or lower case. Referring to the great fortune and diffusion of mass-media, television, cinema and radio, Walter Ong points out the evidence of a return to orality, a new 8. Mario Diacono, l’oggetto tipografia di marinetti, in Luciano Caruso e Stelio M. Martini (eds), Tavole parolibere futuriste II, Liguori, Napoli 1977. 9. Lynne Truss, Eats, Shoots & Leaves, Profile Books, London 2003.

phase similar to the one of ancient times: This new orality has striking resemblances to the old in its participatory mystique, its fostering


il forte sovvertimento alle regole, l’espansione del ruolo tipografico che queste comportano, ma più di tutto vede questi lavori come l’iniziazione della scrittura alla démarche extralinguistica segno-›gesto-›oggetto-›azione cioè la promuovevano alle responsabilità dell’estetica più attuale.8 Fino all’attività futurista nessuno ha mai messo in dubbio il sistema della comunicazione costituito dalla tipografia rinascimentale, tranne l’importante contestazione del Coup de dés di Mallarmé. Il nonsense dadaista viene spesso avvicinato erroneamente alle opere futuriste: si può vederlo inserito nel lavoro di Marinetti a livello puramente sintattico ma di fatto viene sostituito da un iperrealismo della sensazione. Oltre agli effetti di simultaneità spazio temporale, di sintesi visiva dei suoni e di trascrizione di movimento, secondo Diacono, nelle tavole futuriste c’è l’introduzione del gesto tipografico, che dissocia la tipografia dall’alfabeto, contemporaneamente formalizza il segno tipografico in oggetto, e avvia il testo poetico a dissolversi nell’azione. In alcune tavole i riferimenti al linguaggio scompaiono completamente, la volontà di Marinetti è quella di creare parole-oggetti che si autoillustrano, convertire l’area tipografica in spazio fisico. Sono stati molti i tentativi di dare nuovi e diversi significati ai segni tipografici nella storia, come se questi piccoli segni neri inventati dall’uomo vogliano essere di più che un univoco e semplice codice linguistico.

Ai nostri giorni i protagonisti sembrano essere i segni interpuntivi, sembrano riciclarsi e assumere nuovi significati. Nel duemila la flessibilità d’impiego è parola d’ordine: viene richiesta anche alla punteggiatura, ecco che le emoticon {;-)} sono il nuovo impiego di punti, virgole, parentesi etc. Non si tratta di giudicare se la comunicazione scritta stia o meno vivendo un momento di crisi ma è essenziale evidenziarne i nuovi modi, le nuove forme per magari prevederne nuove evoluzioni. Lynne Truss definisce le emoticon come il più grande (o disperato, a seconda dei punti di vista) progresso nella punteggiatura dai tempi del punto interrogativo sotto Carlo Magno.9 Il nuovo scrivere attraverso il web, entra a far parte della quotidianità di tutti noi. La velocizzazione della scrittura e allo stesso tempo della lettura, grazie alle e-mail, permettono di non preoccuparsi più di sviste ed errori ortografici, maiuscole o minuscole. Riferendosi alla grande fortuna e diffusione dei mass-media, televisione, cinema e 8. Mario Diacono, l’oggetto tipografia di marinetti, in Luciano Caruso e Stelio M. Martini (a cura di), Tavole parolibere futuriste II, Liguori, Napoli 1977. 9. Lynne Truss, Virgole per caso, Edizioni PM, Asti 2005.

radio, negli anni ottanta, Walter Ong ci fa notare come sia evidente un ritorno all’oralità, una fase simile a quella dell’antichità: [Questa nuova oralità]

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communal sense, its concentration on the present moment, and even its use of formulas.10 But let’s go back to our times. This community orality finds its full outlet in the world of television in the 1980s, while it is evident that ‘writing’ is the new phase nowadays: the new generation has a privileged relationship with the net, with e-mail, browsers, chat-lines and the mobile phone that is more often used for short messages than for calls. This is how written communication and punctuation as well, come to know new meanings: slashes and dots are cardinal elements in telematic syntax in the same way as the semicolon used in web addresses. Oral language and written translation seem to be in a continuous fight to assert themselves as distinctive of an age: a kind of continuous cyclicity. Tomàs Maldonado expresses his worries about the growing cyber jargon in on-line conversation. In Critica della ragione informatica he asserts that jargon constructions do not favour but on the contrary they hamper a free and useful communication. A system in which pictogrammatic aspects are mixed with alphabetic signifiers is created.11 Francesca Serafini points out in her text on punctuation: As the very first signs in protowriting were merely drawings, in this new age of writing, all the iconographic potential of commas, parenthesis and colons is appreciated.12 This general graphic dynamism is an answer to the real time of chat-lines. The new rhythms of communication internet has got us used to, require new forms of writing. The same concept of writing seems to have almost radically changed: once writing created a new code (different lexicon, hypotaxis, punctuation, different time tenses, etc.) while now it looks like a direct translation of oral language that cannot give up ‘smilyes’ to express sensations. As if to say, once words were used, now smilyes and parenthesis. Those who use punctuation as an expressive medium, the supporters of emoticons, often think that the signs on the keyboard have an ornamental 10. Walter J. Ong, Orality and Literacy: The Technologizing of the Word, Methuen & Co., London 1982.

function, merely graphic; they deprive

11. Cfr. Tomàs Maldonado, Critica della ragione informatica, Feltrinelli, Milano 1999.

bring them back to the essence of

12. Francesca Serafini, Punteggiatura: Storia, regole, eccezzioni Vol. II, RCS Libri, Milano 2001.

Punctuation is going now through

them of their codified meaning, they

simple drawings not signs any more.

a phase of instability. Before internet


ha sorprendenti somiglianze con quella più antica per la sua mistica partecipatoria, per il senso della comunità, per la concentrazione del momento presente e persino per l’utilizzazione delle formule.10 Riavviciniamoci ai giorni nostri. L’oralità comunitaria degli anni ottanta trova pieno sfogo nel mondo della televisione, mentre è evidente che oggi la nuova fase sembra essere quella della scrittura: le nuove generazioni hanno un rapporto privilegiato con Internet, con la e-mail, il browser, la chat e il cellulare che viene più spesso usato per gli short messages che per le chiamate. Ecco che la comunicazione scritta e quindi anche la punteggiatura conoscono nuovi significati: la sbarretta e il punto sono elementi cardinali della sintassi telematica, come il punto e virgola che divide gli indirizzi. Linguaggio orale e traduzione scritta sembrano essere in una continua lotta per affermarsi come caratteristiche di un’epoca: una certa ciclicità che non si ferma nel tempo. Tomàs Maldonado esprime la sua preoccupazione riguardo il cyber-gergo nascente nella conversazione on-line. In Critica della ragione informatica sostiene che le costruzioni gergali non favoriscano ma ostacolino una libera e proficua comunicazione. Nasce un sistema in cui si mescolano aspetti pittogrammatici con i significanti alfabetici.11 Francesca Serafini nel capitolo I tempi della rete del suo testo sulla punteggiatura sottolinea: Così come i primissimi segni di protoscrittura non erano nient’altro che disegni, in questa nuova era della scrittura, di virgole, di parentesi e di doppi punti si apprezza tutto il potenziale iconografico.12 Questo generale dinamismo grafico nasce come risposta al tempo reale della chat. I nuovi tempi di comunicazione a cui internet ci ha abituato richiedono nuove forme di scrittura. Sembra quasi che il concetto stesso di scrittura sia cambiato radicalmente: prima la scrittura creava un nuovo codice (lessico diverso, ipotassi, punteggiatura, tempi verbali diversi etc), mentre ora sembra una diretta traduzione del linguaggio orale che non riesce a rinunciare alle facce per esprimere le sensazioni. Come a dire: prima si usavano le parole, ora le faccine e parentesi. Chi usa la punteggiatura come mezzo espressivo, il grande sostenitore delle faccine 10. Walter J. Ong, Oralità e scrittura. Le tecnologie della parola, Il mulino, Bologna 1986.

(nome italiano delle emoticon) spesso

11. Cfr. Tomàs Maldonado, Critica della ragione informatica, Feltrinelli, Milano 1999.

una funzione ornamentale, puramente

12. Francesca Serafini, Punteggiatura: Storia, regole, eccezzioni Vol. II, RCS Libri, Milano 2001.

codificato, riportandoli ad essere

crede che i segni sulla tastiera abbiano

grafica; li spoglia del loro significato

semplici disegni, non più segni.

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the system was very conservative about admitting change or novelty, while everything new is welcome today. As a matter of fact a new way of writing and reading is beginning in which punctuation is not only a ruler of pauses, inflections, continuities and connections between words, but also an expressive medium. The interaction created between writer and reader through punctuation, is now replaced by real interaction in chat-lines. In the web world, the reign of interaction, of the clickable word, the user is not passive any more but he becomes director of his reading. The active user takes the ‘licence to kill’ or maybe re-qualify and give new semantic meaning to punctuation marks. Surfing the net, looking for digital comments to Dino Buzzati’s story I happened to come across the post of ADS, acronym for soul of the universe (user-id that urges me to go on reading). http://blog.tambuweb.it/2004/10/20/sciopero-dei-telefoni/

ADS

Don’t you share my idea that the visionary forerunner is EXACTLY talking about chat-lines? :))

2 comments 20 October 2004 at 20:32 signorinafelicita at least he was an optimist :o)

22 October 2004 at 15:05 utente anonimo Yes, it’ true     ! Or about forum... Kiss MJ


La punteggiatura vive ora una fase di instabilità. Prima dell’arrivo di Internet era un sistema ostico alle novità, mentre sembra che al giorno d’oggi ogni novità sia la benvenuta. Certo è che sta nascendo un nuovo modo di scrivere e leggere dove la punteggiatura non è più solo una regolatrice di pause, inflessioni, continuità e legami tra le parole, ma anche mezzo espressivo. L’interazione che si creava tra scrittore e lettore attraverso la punteggiatura, è sostituita oggi dall’interazione reale della chat. Nel mondo del web, regno dell’interattività, della parola cliccabile, l’utente non è più passivo ma diventa regista della sua lettura. L’utente attivo si prende la licenza di uccidere o forse riqualificare, risemantizzare i segni interpuntivi. Navigando in rete, cercando commenti digitali al brano di Dino Buzzati, mi imbatto nel post di ADS, acronimo usato per Animo dell’universo (user-id che mi spinge ancor di più a leggere il seguito). http://blog.tambuweb.it/2004/10/20/sciopero-dei-telefoni/

ADS

Non sembra anche a voi che, visionario precursore, stia parlando ESATTAMENTE delle chat? :))

2 comments 20 October 2004 at 20:32 signorinafelicita almeno era un ottimista :o)

22 October 2004 at 15:05 utente anonimo Si è vero     ! Oppure di un forum... Bax MJ

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Existing only in time Works provided with the fourth dimension only.

The art in which ‘time’ is the most explicit dimension is certainly music. As literature is made up of words and punctuation marks so music consists of notes and pauses: again black marks on white pages, arranged according to significant orders that create harmonic sense for the listener and the reader. Some musical signs, the clefs at the beginning of a stave come just from a gradual distortion of the Gothic alphabet, a clash between disciplines of the past. Musical signs themselves however express exactly duration, they don’t presume other meanings. They are ‘time’ written on paper. [As Umberto Eco says, establishing simple analogies is certainly dangerous but it is as dangerous refusing to find relations, for phobia to them: he also adds


Esitere solo nel tempo Opere dotate della sola quarta dimensione.

L’ arte di cui il tempo è la dimensione più esplicita, è la musica per certo. Come la letteratura è composta di parole e segni interpuntivi così la musica di note e pause: ugualmente segni neri su pagine bianche, distribuiti secondo ordini significanti che creano senso armonico per chi ascolta e per chi legge. Alcuni segni musicali, le chiavi che si trovano in apertura del pentagramma, derivano proprio da una progressiva alterazione grafica delle lettere dell’alfabeto gotico, lontana collisione tra discipline.I segni musicali però traducono proprio una durata, non sottintendono significati altri. Sono tempo messo su carta. [Come insegna Umberto Eco è certo che sia pericoloso stabilire delle semplici analogie, ma lo è altrettanto il rifiuto di individuare rapporti per fobia contro di essi;

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that an analogy is fully justified when it is a starting point for a study of the structural homologies of the various artistic forms. So I will follow this method.] Music is the only art of sounds that are not in nature and almost entirely created. Man created the articulation of thoughts by words. He created writings, he created the aeroplane and the locomotive. Therefore, why may he not create in painting and sculpture independently of the forms and colours of the world about him?¹ This question seems to find a perfect response in Kandinsky’s poetics, in his correspondence between music and plastic arts, and in his personal interpretation of art spiritual mission. The solution for him lies in the ability to apply the laws of harmony, music composition and of rhythm to painting, so as to reach music expressive potential. In fact Kandinsky is always fascinated by the force and the potential music has to strike our soul and, as Kupka, he believes that painting may reach similar results only when the mere imitation of nature is abandoned. He is urged to elaborate these theories in order to express his inner universe, driving force and dynamic element of any artistic creation. In Point Line to Plain he analyses plastic correspondences between the movement seen and heard in daily nature and a work of art inner vibration that can be reached through the analysis of the plastic elements. There is a strong will to set colour in motion as in music, but Kandinsky speaks of a movement far from narrative meanings, pure unmotivated movement whose aim is unknown: The simple movement, that nothing external seems to motivate, hides a huge treasure of possibilities.² It is just this field of possibilities that makes the work an open work not only metaphorically, not only open to the spectator’s interpretation but composed by the spectator’s physical and mental movement. Every fruition becomes then interpretation and performance. The work of art lives again in an original perspective. Kandinsky was already trying to give his works a sense of openness that will be acquired only years later thanks to kinetic art. In his map on movement in art Frank Popper puts Kandinsky with Tatlin, Klee and Switters in the field of the graphic effects of composition with materials that leads to the birth of kinetic art and so to the analysis of movement or spectator’s intervention. The artist leaves his work unfinished, in pieces, he doesn’t want to provide the solution but a wide 1. František Kupka, ‘Orpheism’ Latest of Painting Cults, in “New York Times”, October 19, 1913. 2. Wassily Kandinsky, Esseys über Kunst und Kunstler, Hatje, Stuttgard 1955.

range of almost infinite possibilities. In one of his musical compositions, Klavierstük XI, Stockhausen uses a


aggiunge anche che un’analogia viene pienamente giustificata quando è punto di partenza di una ricerca di omologie strutturali delle diverse forme artistiche. Continuo quindi con questo metodo d’indagine.] La musica è la sola arte dei suoni che non si trovi nella natura e che occorra creare quasi interamente. L’uomo ha creato le parole per articolare il pensiero. Ha creato la scrittura, l’aeroplano, la locomotiva. Perché dunque non può creare nella pittura e nella scultura, indipendentemente dalle forme e dai colori che lo circondano nel mondo?¹ Questa domanda sembra trovare perfetta risposta nella poetica di Kandinsky, nella sua corrispondenza tra musica e arte plastica e un’interpretazione personale della missione spirituale dell’arte. La soluzione per Kandinsky sta nel riuscire ad applicare le leggi dell’armonia, della composizione musicale e del ritmo alla pittura, per poter cosi raggiungere il potenziale espressivo della musica. È stato sempre affascinato, infatti, dalla forza e capacità della musica di colpire l’animo e come Kupka crede che per la pittura sia possibile raggiungere risultati simili solo abbandonando la mera imitazione della natura. La necessità che lo spinge ad elaborare queste teorie è quella di trovare il modo per esprimere il suo universo interiore, motore ed elemento dinamico di ogni creazione artistica. In Punto Linea Superficie analizza le corrispondenze plastiche tra il movimento visto e sentito nella quotidianità e la vibrazione interiore dell’opera alla quale si può arrivare attraverso l’analisi degli elementi plastici. C’è una forte volontà di mettere il colore in movimento come nella musica, ma Kandinsky parla di un movimento lontano da significati narrativi, puro movimento non motivato il cui fine non è conosciuto: Il movimento semplice che nulla di esteriore sembra motivare nasconde un immenso tesoro di possibilità.² È proprio questo campo di possibilità che fa dell’opera un’opera aperta non solo metaforicamente, non solo aperta all’interpretazione del fruitore ma composta dal movimento fisico e mentale dello spettatore. Ogni fruizione diventa quindi interpretazione ed esecuzione: l’opera d’arte rivive in una prospettiva originale. Kandinsky cercava già di dare alle sue opere un carattere di apertura che si raggiungerà solo anni dopo grazie all’arte cinetica. Nella sua mappa del movimento nell’arte, Frank Popper inserisce Kandinsky insieme a Tatlin, Klee e Schwitters nel tema degli effetti grafici di composizione di materiali che porta direttamente alla nascita dell’arte cinetica e quindi 1. František Kupka, ‘Orpheism’ Latest of Painting Cults, in “New York Times”, October 19, 1913. 2. Wassily Kandinsky, Esseys über Kunst und Kunstler, Hatje, Stuttgard 1955.

all’analisi del movimento o intervento dello spettatore. L’artista lascia la sua opera non finita, a pezzi, non vuole

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white sheet of music paper instead of the stave, on which he presents a series of note groupings the performer himself has to rearrange at his pleasure. In this way he creates an open combinatorial structure made up of harmonic groups that work independently of their arrangement. We are faced with a possibility of variations the composer has set free and that are interpreted by the performer when he enjoys the work. Denying a single privileged experience does not imply chaos in relations, but the rule that allows organization of relations.³ The spectator’s participation in the work has different levels of involvement. In a more metaphorical sense also the most traditional work of art can be seen as ‘open’; the artist produces a closed form with determined meanings and hopes they are understood by the addressee. However the work reading can start from a point of view completely different from the author’s and thus missing its original meaning but dealing anyway with fruition and interpretation. In the works that have been considered so far, on the contrary, the spectator’s reading cannot reach the meaning sought by the artist because the artist himself doesn’t want to have one, the artist wants the involvement of the spectator’s conscience to become part of the work itself. The solution is seen as desirable and actually anticipated, but it must come from the collective enterprise of the audience.4 The public then becomes part of the work of art.

The meaning of what we are doing is determined by anyone who sees or listens to it so John Cage defined his work with Merce Cunningham.5 A composer and a choreographer who upset post war America by performing in the best theatres a new music that was so difficult even if consisting of sounds and actions coming from the world live. Indiscrimination between sound and noise is at the base of Cage’s study whose work is progressively enriched with new concepts and experimentations. One of the strongest trends in his research is the interest for indeterminacy. If at the beginning only the sounds produced by prepared musical instruments were pervaded by chance, later chance will become part of the composition active process. Cage lets his choices of composition be determined by tossing a coin or by 3. Umberto Eco, The open work, trans. Anna Cacogni, Harvard University Press, Cambridge (Mass.), 1989. 4. Ibid. 5. Jean Yves Bosseur, John Cage, Editions Minerve, Paris 1993.

the use of unconventional structures so that the score will not give the performer instructions or orders but rather suggestions or even questions.


creare la soluzione ma una molteciplità possibilmente infinita di queste. In una delle sue composizioni musicali, Klavierstük XI, Stockhausen utilizza un foglio bianco al posto del pentagramma, sul quale propone una serie di gruppi che l’esecutore stesso dovrà mettere in successione a suo piacere; compone in questo modo una struttura combinatoria aperta composta da gruppi armonici che funzionano autonomamente dalla loro successione. Ci troviamo davanti ad una possibilità di varianti lasciate libere dal compositore ed interpretate dall’interprete nel momento stesso in cui fruisce l’opera. Il negare che vi sia una sola esperienza privilegiata non implica il caos delle relazioni, ma la regola che permette l’organizzarsi delle relazioni.3 La partecipazione dello spettatore all’opera ha diversi gradi di coinvolgimento. In un senso più metaforico anche l’opera d’arte più tradizionale può essere vista come aperta; l’artista produce una forma chiusa portatrice di determinati significati, desideroso che vengano compresi dal fruitore. La lettura dell’opera però può partire da un punto di vista completamente diverso da quello dell’autore non raggiungendo così il significato originario, ma trattandosi pur sempre di fruizione e interpretazione. Nelle opere che abbiamo finora preso in considerazione, invece, la lettura del fruitore non può raggiungere il significato cercato dall’artista perché l’artista stesso non ne vuole fermare uno, l’artista stesso vuole che il coinvolgimento della coscienza del fruitore diventi parte dell’opera stessa. La soluzione è attesa, auspicata, ma deve venire dal concorso cosciente del pubblico.4 Il pubblico diventa quindi parte dell’opera.

Il significato di ciò che facciamo è determinato da chiunque lo veda e lo ascolti, così John Cage definiva il suo lavoro con Merce Cunningham.5 Un compositore e un coreografo che hanno stravolto l’America del dopoguerra, portando nei più grandi teatri una musica nuova, così difficile seppur composta da suoni e azioni provenienti dal mondo in presa diretta. L’indiscriminazione tra suono e rumore è alla base delle ricerca di Cage, la cui opera nel tempo si arricchisce continuamente di nuovi concetti e sperimentazioni. Una delle più forti tendenze nelle sue ricerche è l’interesse per l’indeterminato. Se inizialmente permeati dal caso sono i suoni prodotti da strumenti musicali modificati, in seguito il caso diventerà parte del 3. Umberto Eco, Opera aperta, Bompiani, Milano 1962. 4. Ibid. 5. Jean Yves Bosseur, John Cage, Editions Minerve, Paris 1993.

processo attivo della composizione stessa. Cage lascia che le scelte di composizione vengano determinate attraverso il lancio di una moneta o

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Cage, like Kupka and Kandinsky, tries to define a relationship between his art, other arts and nature. After his studies in History of Art Cage comes to the conclusion that European pre-Renaissance art as well as oriental art did not try to move away from nature, on the contrary they were seeking a mimesis with it. European expressionism marked a divide between eastern and western thought: it is exactly from this that Cage wants to move away. Starting from a reasoning completely opposite to that of Kandinshy’s, Cage, also thanks to the influence of Indian philosophy, believes that art should look back to nature not in a mere aesthetic copy but in a reproduction of her manner of operation. The work he wants to reach is actually imitation of nature in her new way of being perceived (indeterminate, by chance procedures, without project) the one of the postmodern man. The artist does not seek the simple expression of his inner feeling any longer, now he tries to communicate the whole human consciousness and to lead the public to reach it. He pursues the idea of art far beyond individual expression, he seeks chance by giving up his control on the work, he gets rid of his personal taste to let sounds be themselves a work of art without purpose. This work is however an assertion of life not an attempt to bring order out of chaos nor to suggest improvements in creation, but simply to wake up to the very life we are living which is so excellent once one gets one’s mind and one’s desires out of its way and let it act of its own accord.6 Cage outlines this new function of art, the possibility to wake up spectators to true life stimulating them to a strong openness of mind and heart. The chance and indeterminacy that pervade Cage’s work, want to offer themselves as a valid way to face everyday life: let the course of events direct you, this is imperative. His concerts were among the most discussed; strong disapproval alternated with uncontrollable enthusiasm, the public, more often than not, stood up and left the hall before the concert ended, while on other occasions besides the applause of the audience the orchestra itself enjoyed performing the pieces. Not even in the approval of Cage’s work there is a constant. With his work he proposes a great number of new forms or ideas of music, from the prepared piano, a common piano with every kind of objects stuck in between strings to change the harmony, to his method of composing on transparencies that once random overlapped created musical structures that changed at every performance. 6. John Cage quoted in Calvin Tomkins, The Talk of the Town, “Cage”, in “The New Yorker”, March 29, 1982.

The simplest and strongest contribution that characterizes


attraverso l’uso di strutture non convenzionali dimodoché la partitura non darà più istruzioni o ordini all’interprete quanto piuttosto suggerimenti o addirittura interrogazioni. Come Kupka, come Kandinsky, anche Cage cerca di definire un rapporto della sua arte con le altre e con la natura. Dai suoi studi di storia dell’arte, Cage conclude che l’arte europea prerinascimentale come quella orientale non cercavano di allontanarsi dalla natura, quanto più al contrario cercavano una mimesi con essa. L’espressionismo europeo ha aperto una frattura tra il pensiero orientale e quello occidentale: è proprio da questo che Cage desidera allontanarsi. Partendo da un ragionamento completamente contrario a quello di Kandinsky, Cage, anche grazie alle influenze della filosofia indiana, crede che l’arte debba ritornare a guardare la natura, non in una mera copia estetica quanto in una riproduzione del suo modo di operare. L’opera alla quale vuole arrivare, è in realtà un’imitazione della natura nel suo nuovo modo di essere percepita (indeterminata, casuale, senza progetto) quello dell’uomo postmoderno. L’artista non cerca più la semplice espressione di un suo sentimento interiore, ora cerca di comunicare la consapevolezza umana intera, e di portare il pubblico a raggiungere questa stessa. Egli persegue l’idea di un’arte che vada al di là dell’espressione individuale, cerca la casualità attraverso l’abbandono del controllo sull’opera, si libera del proprio gusto personale per permettere che “i suoni siano se stessi”, l’opera senza scopo. Quest’opera rimane tuttavia un’affermazione di vita, non un tentativo di portare ordine nel caos, né di suggerire processi creativi, ma semplicemente di risvegliarsi a quella stessa vita che stiamo vivendo, che è una vita straordinaria purché si riesca ad espellerne la mente e i desideri e a lasciare che agisca come vuole.6 Cage delinea questa nuova funzione dell’arte, la possibilità di risvegliare gli spettatori alla vita vera attraverso lo stimolo ad una forte apertura della mente e del cuore. La casualità e l’indeterminatezza che permeano l’opera di Cage, vogliono porsi al pubblico come metodo valido per affrontare la vita quotidiana: lasciati orientare dal corso degli eventi, questo è l’imperativo. I suoi concerti furono tra i più discussi, alternano forti disapprovazioni con irrefrenabili entusiasmi, il pubblico il più delle volte si alzava ed usciva dalla sala senza attenderne la fine, mentre in altre occasioni oltre agli applausi dalla platea, accadeva l’orchestra stessa si divertisse nell’esecuzione dei pezzi. Non esiste una costante neanche nel gradimento dell’opera di Cage. Sono moltissime le nuove forme o 6. John Cage in Calvin Tomkins, Vite d’avanguardia: John Cage Leo Castelli Christo Merce Cunningham Philip Johnson Andy Warhol, Costa & Nolan, Genova 1983.

idee di musica che egli propone con le sue opere, dal pianoforte preparato,

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his work is the use of silence, not only as void in a continuity but as an element of composition that gains a structural function. Silence for Cage is an ensamble of not determined or organized sounds; the meaning we actually give to the term is a frame of mind: a situation without sounds doesn’t exist, our vital functions themselves are great producers. The symbolic work of this idea is the composer’s best known piece 4’33’’, first performed in 1952, whose title refers to the minutes and seconds needed for the performance. Cage proposes a piece made up of non-audible sounds, of silence: a silence divided in three movements in which the only action is the performer’s lifting and dropping the piano keyboard lid for three times. A span of time that, like Rauschenberg’s white canvasses are only waiting for time signs to settle on them, wishes to be filled by the sounds of reality, by the spectator’s clamour, by external whistles and noises. A work made up of silence, the musical translation of Vide by Yves Klein. The complete loss of the work-object.

The ‘dematerialization’ of the work has been going on in history up to our time. Tino Sehgal doesn’t want to produce anything. Or at least anything that could be perceived as a conventional physically existing work of art. He does not want to create tangible objects, nor is he interested in leaving any visible trace. His medium is immateriality.7 His work is not plastic but it is neither a happening nor a performance or an installation. His works are similar to Sol Le Witt’s guidelines, pervaded by truth, less open and certainly less material. In the historical rooms of Villa Reale in Milan, where the artist’s first exhibition in Italy took place, a dialogue started between the works of the modern art gallery, masterpieces of the 19th and 20th centuries and Tino Sehgal’s living works (only during the gallery opening times). By living works one means the gestures, the movements and dances he stages, or makes them performed by professional actors or museum guards that are paid to repeat the performance for the duration of the exhibition. There isn’t much undetermined in his work because his work doesn’t seem to exist: there is no certificate, no signature, all his works are sold on the basis of oral agreements, his exhibitions cannot be announced in advance with posters or brochures but simply through word-of-mouth advertising. Not a catalogue nor a photo. Sehgal’s work is a critical 7. Jens Hoffmann, This is Tino Sehgal, in “Parkett”, n. 68, 2003

reading of the relationship between


un semplice piano con oggetti di vario tipo incastrati tra le corde per mutarne l’armonia, ai suoi metodi di composizione su fogli trasparenti, che poi sovrapposti casualmente creavano strutture musicali differenti ad ogni esecuzione. Il contributo più semplice e più forte che caratterizza la sua opera è l’uso del silenzio, non solo come vuoto in una continuità ma come elemento di composizione che guadagna una funzione strutturale. Il silenzio per Cage è l’insieme dei suoni non determinati o organizzati; il significato che noi diamo al termine è in realtà una disposizione d’animo: non esiste una situazione priva di suoni, le nostre stesse funzioni vitali ne sono grandi produttrici. L’opera simbolo di quest’idea è il pezzo più conosciuto del compositore 4’33” eseguito per la prima volta nel 1952, il cui titolo si riferisce ai minuti e secondi necessari all’esecuzione. Cage propone un pezzo composto da suoni non udibili, da silenzio: un silenzio diviso in tre movimenti, in cui l’unica azione dell’esecutore è quella di sollevare e abbassare il coperchio della tastiera per tre volte. Un intervallo di tempo che come le tele bianche di Robert Rauschenberg attendono solo il posarsi dei segni del tempo, sembra desideri essere riempito dai suoni della realtà, dal vocio degli spettatori, dai fischi e dai rumori dell’esterno. Un’opera fatta di silenzio, la traduzione musicale del Vide di Yves Klein. La completa perdita dell’oggetto-opera.

La dematerializzazione dell’opera è continuata nella storia fino ai giorni nostri. Tino Sehgal non vuole produrre nulla. O perlomeno nulla che possa essere interpretato come opera d’arte convenzionale, fisicamente presente. Non intende creare oggetti tangibili, né gli interessa lasciare tracce visibili. Il suo medium è l’immateriale.7 La sua opera non è plastica ma non è nemmeno un happening o una performance o un’installazione. Le sue opere assomigliano alle direttive di Sol Le Witt, permeate dal vero, quasi meno aperte e sicuramente meno materiali. Nelle sale di Villa Reale a Milano, dove si è svolta la prima personale dell’artista in Italia, si è aperto un dialogo tra le opere della galleria di arte moderna, capolavori del XIX e XX secolo, e le opere vive (solo entro gli orari di apertura della galleria) di Tino Sehgal. Con opere vive si intendono i gesti, i movimenti e le danze che mette in scena o fa mettere in scena da custodi professionisti o attori, pagati per ripetere l’opera per tutta la durata di apertura del museo. C’è poco di indeterminato nella sua opera ma proprio perché la sua opera sembra non esistere: non un certificato, non una firma, tutte le opere vengono vendute su accordi orali, le sue esposizioni 7. Jens Hoffmann, This is Tino Sehgal, in “Parkett”, n. 68, 2003

non possono essere preannunciate

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the artistic object, the museum and society from their inside. The work ‘dematerialisation’ is complete anyway the artist manages to dominate the art system, to sell his works. Works that seem really sincerely offered to the public in their feasibility, in their dialogic force, rich of stimuli to reflection, not only artistic. Part of the work is the surprise, the dismay for the absence of a plastic form but the museum guard’s sudden singing instead. The work cannot be performed without the spectator’s presence. Also the spectator’s search in the various exhibition rooms, moving around the other artists’ works, is part of the work itself. Together with all this a discussion with the attendant of the last room who has to try to involve all visitors in a critical interpretation of what they have seen. The museum guard as the gallery managers, the agents and defenders of institutional and commercial art today, in his hands are turned into material to shape. With his work Sehgal wants to go beyond metaphysical void and beyond objectuality thanks to dance and theatre. For me it’s a matter of looking: what comes after emptiness, how can I create something beyond asceticism or pure negation? One element is certainly the empowerment of the viewer.8 This interaction doesn’t follow particular rules but it creates them. One is struck by the fact he does not distinguish clear boundaries between the spectator, the artist and the work itself. Sebastian Frenzel sees in Sehgal’s work the achievement of point zero of the white cube logic. Sehgal’s work is much discussed, it is especially criticized by the same system he mocks to whom he sells intangible works for incredible sums. But from the point of view of interaction with the spectator he seems to have a sincere interest and he really tries an active dialogue with the public, not metaphoric but real. Tino Sehgal includes the need of human presence in the work.

8. Sebastian Frenzel, Ceci n’est pas le vide, in “Taz”, June 2006.


con manifesti o brochure ma semplicemente attraverso il passa parola. Non un catalogo, non una fotografia. Sembra che l’artista si faccia carico di salvare o meglio salvaguardare l’oralità che fino all’avvento della stampa era l’unico mezzo di trasmissione del sapere. L’opera di Sehgal è una lettura critica dei rapporti tra oggetto artistico, museo e società, dall’interno di questi. La dematerializzazione dell’opera è completata ma l’artista riesce comunque a dominare il sistema dell’arte, a vendere le proprie opere. Opere che sembrano però offerte sinceramente al pubblico nella loro esperibilità, nella loro forza dialogica, ricche di stimoli alla riflessione non solo artistica. Parte dell’opera è la sorpresa, lo sgomento di non trovare una forma plastica ma l’improvviso canto del guardia sala. Senza l’ingresso dello spettatore nella sala, l’opera non ha atto. Anche la stessa ricerca che lo spettatore fa nelle numerose sale dell’esposizione, muovendosi tra le opere di altri artisti, è parte dell’opera stessa. A tutto questo si unisce una discussione con il guardasala dell’ultima stanza che deve cercare di coinvolgere tutti i visitatori a dare una lettura critica di quello che hanno visto. Il guardasala come il gallerista, agenti e difensori dell’arte istituzionale e commerciale oggi, diventano nelle sue mani materia da plasmare. Sehgal con la sua opera vuole andare oltre il vuoto metafisico, e oltre l’oggettualità grazie alla danza e al teatro. Per me è un modo di porsi: cosa viene dopo il vuoto, come posso creare qualcosa andando oltre l’ascetismo o la pura negazione? Una soluzione è sicuramente il coinvolgimento dello spettatore.8 Quest’ interazione non segue particolari regole, ma le crea. Ci colpisce soprattutto nel suo non distinguere confini netti tra lo spettatore, l’artista e l’opera stessa. Sebastian Frenzel vede attraverso il lavoro di Sehgal il raggiungimento del point zero of the white cube logic. L’opera di Sehgal è molto discussa, viene guardata con occhio critico soprattutto da quello stesso sistema dell’arte di cui si prende gioco, a cui vende opere intangibili per somme incredibili. Ma dal punto di vista dell’interazione con lo spettatore, sembra mostrare un interesse sincero e sembra cercare davvero un dialogo attivo con il pubblico, non metaforico ma reale. Tino Sehgal inserisce nell’opera la necessità della presenza umana.

8. Sebastian Frenzel, Ceci n’est pas le vide, in “Taz”, June 2006.

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Energy in movement Kinetic works first steps towards the spectator.

We know there is only one difference between plastic arts – painting and sculpture – and literature, at least according to what we are taught by philosophy professors. It is exactly that literature has to describe the objects it describes one by one in a sequence: for example if a novelist describes a man, a ram and a tree, he won’t present to the reader all of them at the same time but one after the other, the man first, then the ram or the tree. In a painting, instead, the spectator embraces at a glance, simultaneously a large number of objects, all those the painter likes to represent. So the painting or the statue, catches and fixes a moment of duration. It chooses a movement among movements, the most plastic of course, it immobilizes it and surrounds it of accessories that are, during the 1. Alfred Jarry, Le temps dans l’art, lecture at Société des Artistes Indépendants, Paris, April 8, 1902.

gesture, accessible to the same gesture and complete it.1


L’energia del movimento I primi passi delle opere cinetiche verso lo spettatore.

Sappiamo che c’è una sola differenza tra le arti plastiche - pittura e scultura e la letteratura, almeno secondo quello che ci insegnano i professori di filosofia. Ed è appunto che la letteratura è obbligata a far sfilare uno ad uno, in successione, gli oggetti che descrive: per esempio, se un romanziere descrive un uomo, un montone e un albero, non li presenterà tutti contemporaneamente al lettore ma uno dopo l’altro, prima l’uomo, poi il montone o l’albero. Al contrario in un dipinto lo spettatore abbraccia con un colpo d’occhio un vasto numero di oggetti simultaneamente, tutti quelli che al pittore è piaciuto rappresentare. Così il quadro, o la statua, afferra e fissa un momento della durata. Sceglie un movimento tra i movimenti, naturalmente il più plastico, lo immobilizza e lo circonda di accessori 1. Alfred Jarry, Le temps dans l’art, conferenza dell’ 8 aprile 1902 tenutasi presso la Société des Artistes Indépendants, a Parigi.

che sono, durante il gesto, alla portata del gesto stesso che completano.1

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Alfred Jerry tells us about the painting that uses its simultaneity as instantaneity, as Omar Calabrese would say. As the semiologist shows there are many ways in which temporality is inserted in plastic arts. At first mostly in a biblical religious theme, many artists choose the narrative by frames that, similarly to the pages of a book, propose images in succession; it also often happens that the narration comes in a single image by dividing the representative space also in its depth as a before and afterwards presenting the main subjects who are performing different actions, like in courtly Gothic painting of which The adoration of the Magi by Gentile da Fabriano, is a wonderful example. Movement then is a function of space as Jerry underlines quoting the literature example, but also space is a function of time as Calabrese demonstrates us. Therefore it ensues that time is a function of movement, as it is easy to demonstrate: being a distance, between a departure space and an arrival space, it reveals at the same time a temporality expressed in duration, from a departure time to an arrival time.2

Plastic arts do not only describe movement, but they become movement: the representation of movement is substituted by concrete movement. A new energy inspires painting and sculpture; there is nothing left to envy to literature. So Munari, Calder or Tinguely’s machines, but earlier also those of Duchamp or Gabo, cannot be feasible in a moment, they don’t catch a moment of duration but duration itself. Marcel Duchamp and Naum Gabo’s first experiments can be compared for many reasons, first of all that both artists don’t define their devices as works of art but simple exercises. Duchamp, cooperating with Man Ray, creates Rotative plaquesverre (optique de précision), a structure with glass plates painted in white and black that creates the illusion of volume when in movement: he does not want people to see any other thing than optics in his works.3 He is interested in the physiological illusion, the virtual volumes his machines produced, as a way of going beyond the painterly or retinal tradition of art. In creating an illusionary third dimension, or better inserting the duration of movement, Duchamp inserts time into the work, he creates the fourth dimension. Similarly, Gabo while producing his Kinetic Sculptures didn’t think that their kinetic rhythm could later become an artistic language. Thinking about movement and therefore about 2. Omar Calabrese, La macchina della pittura, Laterza, Bari 1985. 3. Cfr. Guy Brett, Marc Nash, catalogue of the exhibition Force Fields. Phases of the Kinetic, April 19 - June 18, 2000, MACBA, ACTAR, Barcelona 2000.

time in works of art, stirs the cultural background all over Europe. With the development and diffusion of cinema, dynamism becomes the


Alfred Jarry ci parla del quadro che utilizza la propria simultaneità come istantaneità direbbe Omar Calabrese. Come illustra il semiologo, sono molteplici i modi in cui la temporalità viene inserita nelle arti plastiche. Inizialmente soprattutto a tema biblico religioso, molti artisti scelgono la via della narrazione a riquadri, propongono delle immagini in successione, come le diverse pagine di un libro; spesso avviene anche che la narrazione avvenga in una sola immagine suddividendo lo spazio rappresentativo anche nella sua profondità come un prima e dopo, ripetendo i soggetti protagonisti nel compiere diverse azioni come nella pittura gotica di corte, ne è splendido esempio l’Adorazione dei magi di Gentile da Fabriano. Il movimento quindi è funzione dello spazio, come sottolinea Jarry citando l’esempio della letteratura, ma anche lo spazio è funzione del tempo, come ci dimostra appunto Calabrese. Ne deriva quindi che il tempo sia una funzione del movimento, come è facile dimostrare: essendo un tragitto tra uno spazio di origine ad uno spazio di arrivo, rivela al tempo stesso una temporalità espressa in durata, da un tempo di origine ad un tempo di arrivo.2 Le arti plastiche cominciano non solo a descrivere il movimento ma diventano il movimento: la rappresentazione del movimento è supplita dal movimento concreto. Un’energia nuova anima pittura e scultura; non c’è più niente da invidiare alla letteratura. Ecco che le macchine di Munari, Calder o Tinguely ma anche prima quelle di Duchamp o Gabo, non possono essere esperite in un solo istante, non afferrano un momento della durata ma la durata stessa. I primi esperimenti di Marcel Duchamp e di Naum Gabo possono venire affiancati per molteplici motivi, primo fra tutti entrambe gli autori non definiscono questi lavori opere ma semplici esercizi. Duchamp in collaborazione con Man Ray, crea Rotative plaques-verre (optique de précision), una struttura con pale dipinte in bianco e nero che, in movimento, danno l’illusione di un volume: desidera che non si veda altro che un interesse ottico per quest’opera.3 È interessato dall’illusione fisiologica, i volumi virtuali che queste macchine creavano come un modo di andare oltre, di superare la tradizione artistica retinica e pittorica. Nel creare una terza dimensione illusoria, o meglio inserendo la durata del movimento, Duchamp inserisce il tempo nell’opera, crea la quarta dimensione. Allo stesso modo Gabo mentre produce le sue Kinetic Sculpture non crede che il loro ritmo cinetico possa poi diventare un linguaggio artistico. La riflessione sul movimento e quindi sul 2. Omar Calabrese, La macchina della pittura, Laterza, Bari 1985. 3. Cfr. Guy Brett, Marc Nash, catalogo dell’esposizione Force Fields. Phases of the Kinetic, April 19 - June 18, 2000, MACBA, ACTAR, Barcelona 2000.

tempo nelle opere, smuove il clima culturale di tutta l’Europa. Con lo sviluppo e la diffusione del cinema, il dinamismo diventa tema

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main theme in drama, music, science and literature. James Joyce himself , who introduces the open work in literature, is sceptic about a dynamism in plastic arts, in his diaries he states that it is not wrong to say that sculpture is a static art since a sculpture can’t be presented in movement in space, being a sculptural work of art.4 The 20th century sculpture in particular is different from the previous centuries in its abandonment of the classical perspective elements, when the attention, whatever the point of view on the work was, focused on the global result. Architecture had followed the same route with the baroque building: giving up the façade perspective as the only point of fruition of the work. As Umberto Eco point out in his The Open Work, the nature of sculpture itself shows a strong openness of the work because it invites the spectator to move around it in order to know it in its whole tridimensionality. The curiosity that spurs the spectator in front of a classic structure is not comparable to the sense of unfulfilment we could feel if we were forced to a frontal point of view of a kinetic sculpture: classical sculpture invites us to imagine in its tridimensionality while the kinetic sculpture leaves us amazed in front of the number of possibilities it lets us imagine. Gabo and Tatlin propose sculptures whose perspectives change from side to side, and seeing one of them cannot reveal the complete form of the work. The difference between plastic arts and literature, that professors summed up as a fundamental feature of art, is not so evident now, the static coexistence of the whole work in the same moment is not respected any longer, the work can be enjoyed as a whole only with the spectator’s movement in space. This first type of movement together with the intent to get away from retinal traditions, leads Duchamp to the creation of his bicycle wheel, Calder to move his Stabile and Tinguely to create machines that interact with the spectator. Duchamp himself, referring to Gaston Bachelard and his book Le noveau Esprit Scientifique, with Denis de Rougement, says: What does he call movement, your fellow? If he defines it in opposition to rest, that doesn’t work, because nothing is at rest in the universe. So? His movement is nothing but a myth.5 There are only movements and stasis that relate one to the other: the movement of the elements of a work of art 4. Cfr. Frank Popper, Origins and Development of Kinetic Art, Graphic Society/Studio Vista, New York 1968. 5. Marcel Duchamp in Denis de Rougement Journal d’une époque, Paris 1969.

related to the frame, the pedestal or the static elements in which it is included, the movement of the


predominante nel teatro, nella musica, nella scienza e nella letteratura. Lo stesso James Joyce, che porta l’opera aperta in letteratura si trova però scettico rispetto a un dinamismo delle arti plastiche, nei suoi diari scrive: Non è sbagliato dire che la scultura è un arte statica, dal momento che un’opera d’arte scultorea non può essere presentata in movimento nello spazio restando un’opera d’arte scultorea.4 La scultura nel Novecento in specie, si differenzia da quella dei secoli passati per l’abbandono dei classici elementi prospettici, quando l’attenzione, qualunque fosse il punto di vista sull’opera, si focalizzava sul risultato globale. L’architettura aveva seguito lo stesso percorso con l’edificio barocco: l’abbandono della prospettiva frontale come unico punto di fruibilità dell’opera. Come ci fa notare Umberto Eco nella sua Opera aperta, la scultura già nella sua natura mostra una forte apertura dell’opera in quanto stimola lo spettatore al movimento attorno ad essa per poterla conoscere in tutta la sua tridimensionalità. La curiosità che muove il fruitore davanti ad una scultura classica però non è paragonabile al senso di inappagamento che avremmo se fossimo costretti ad un punto di vista frontale davanti ad una scultura cinetica: la scultura classica si lascia indovinare nella sua tridimensionalità mentre quella cinetica ci lascia sbigottiti davanti al numero di possibilità che lascia immaginare. Gabo o Tatlin propongono delle sculture le cui prospettive variano da lato in lato, e la visione di una di esse non ci può svelare la forma completa dell’opera. La differenza tra arti plastiche e letteratura che i professori sintetizzavano come una caratteristica fondamentale dell’arte non è più così evidente, la statica compresenza di tutta l’opera nello stesso istante non viene più rispettata, l’opera può essere fruita nella sua interezza solo attraverso il movimento dello spettatore nello spazio. Questo primo tipo di movimento unito alla volontà di allontanarsi dalle tradizioni retiniche, porta Duchamp a creare la sua Ruota di bicicletta, Calder a muovere i suoi Stabile e Tinguely a creare delle macchine che interagiscono con lo spettatore. Lo stesso Duchamp commentando il libro di Gaston Bachelard Le nouveau Esprit Scientifique, con Denis de Rougement, dice: Cos’è che chiama movimento il tuo amico? Se lo definisce in opposizione all’immobilità, allora non funziona perché non esiste nulla di immobile nell’universo. Quindi? Il suo movimento non è nient’altro che un mito.5 Ci sono solo movimenti e stasi relativi 4. James Joyce in Frank Popper, L’arte cinetica.L’immagine del movimento nelle arti plastiche dopo il 1860, Einaudi, Torino 1970. 5. Marcel Duchamp in Denis de Rougement, Journal d’une époque, Paris 1969.

l’uno all’altro: il movimento degli elementi di un’opera in relazione con la cornice, il piedistallo o l’ambiente

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spectator with respect to the work, the movement of the hand that’s drawing respect to the completed drawing. The work itself becomes dynamic, it moves according to a movement composed of two different origins: one inside the sculpture (or its openness to the one coming from outside) and the movement of the spectator. There will never be two similar movements in the fruition of a work, like rolling dices with infinite sides. The double movement spectator-work denies the repetition of a moment, the work becomes dominion of chance. The work that moves is not fixedly determined by the author, it will follow the flux of air currents in the case of Calder’s mobile, the spectators’ pressing in Agam’s case and the motor internal power in Tinguely’s machines. It is open to a field of possibilities, ambiguous in its behaviour. It is something like a model of the universe free to react to events. The artist’s need to avoid creating a single form, to avoid fixing a moment, seems to be a response to the general crisis of casualness. The modern man has to abandon the certainties of the two value logic for the logic of indeterminacy and discontinuity. In this historical period, we are in the mid 1950s, European artists are in front of two extremely opposed currents of thought: constructivist art, with its authorial principles that doesn’t accept the presence of the relative, of change, and the American informal that recognizes will unconscious expression as the only valid conduct. It is necessary to find a more suitable solution to modernity, less rigid and static, and thus movement is introduced together with the casualness it implies.

Many artists, joining this current that has its forerunners in Duchamp, Tatlin and Caldler, start to use the wheel as basic element for their sculptures. Tinguely, for example, creates machines powered by assembled tubes, small motors, wire and metal plates, his first automaton. These ideas seem to be Munari’s manifesto on mechanism put into practice where he highlighted modern society dependence on machinery and therefore the importance of inserting this element also in art. The artist has to be interested in machines and through some interpretations of them, speak to man. Machines reproduce themselves more quickly than men, almost as the most prolific bugs; they already force us to look after them, to waste a lot of time for their care, they have spoiled us, we have to keep them clean, feed them and let them rest,


statico che la contiene, il movimento dello spettatore rispetto all’opera, il movimento della mano che disegna rispetto al disegno compiuto. L’opera stessa diventa dinamica, si muove di un movimento composto da due diverse matrici: quello interno alla scultura (o la sua apertura a quello proveniente dall’ambiente esterno) e quello dello spettatore. Non esisteranno mai due momenti uguali nella fruizione dell’opera, come nel lancio di due dadi di infinite facce. Il passo è breve: il doppio movimento spettatore-opera nega la ripetizione di un momento, l’opera diventa dominio del caso. L’opera che si muove non è fissamente determinata dall’autore, seguirà il flusso delle correnti d’aria nel caso dei mobile di Calder, le spinte degli spettatori nel caso di Agam e la forza del motore al suo interno nelle macchine di Tinguely. Rimane aperta al campo delle possibilità, ambigua nel suo comportamento. Si tratta come di un modello dell’ universo lasciato libero di reagire agli accadimenti. La necessità dell’artista di non creare una sola forma, la non volontà di fissare un momento sembrano delle risposte alla generale crisi del piano della causalità. L’uomo moderno ha dovuto abbandonare le certezze della logica a due valori, in cambio della logica dell’indeterminato e della discontinuità. In questo momento storico, siamo a metà degli anni cinquanta, gli artisti europei si trovano si fronte a due correnti di idee estremamente opposte: l’arte costruttivista, con i suoi principi autoriali che non accetta la presenza del relativo, del mutamento e l’informale americano che riconosce come unica condotta valida l’espressione inconscia della volontà. Nasce la necessità di trovare una soluzione più adatta alla modernità, meno rigida e statica, ed ecco che viene introdotto il movimento insieme alla casualità che esso implica.

In molti inserendosi in questa corrente che vede i suoi precursori in Duchamp, Tatlin e Calder, cominciano ad usare come elemento base per le loro sculture la ruota. Tinguely per esempio crea delle macchine motorizzate dall’assemblarsi di tubi, piccoli motori, fil di ferro e placche metalliche, i suoi primi automi. Sembrano essere la messa in pratica delle idee del manifesto del macchinismo di Munari, dove si sottolinea la dipendenza della società moderna dalla macchina, e quindi l’importanza dell’inserimento di questa figura anche nell’arte. L’artista deve interessarsi alla macchina e attraverso delle interpretazioni d’essa parlare all’uomo. Le macchine si moltiplicano molto più rapidamente degli uomini, quasi come gli insetti più prolifici; già ci costringono ad occuparci di loro, a perdere molto tempo per le loro cure, ci hanno viziati, dobbiamo tenerle pulite, dar loro da mangiare e da riposare,

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examine them continuously, deny them nothing. In a few years we will be their slaves. Artists are the only ones that can save mankind from this danger. […] Today’s machine is a monster! The machine has to become a work of art! We will discover the art of machines! Manifesto del Macchinismo by Bruno Munari, 1952

Tinguely’s machines are almost anti-machines, they study the relationship between man and technology underlining alarming and ludic aspects. The work is presented as an attack, a gratuitous apolitical act, through which the artist tries to express his thoughts, without choosing whether to do it or not. We can say that Tinguely’s first attempt to affect the spectator is disenchantment, the attempt to make man, who is in a state of stasis, open his eyes. The machine as a work of art is set free from labour, it acquires a creative capacity in its movements. At Iris Clert’s gallery in Paris Tinguely realizes an interesting exhibition, Mes étoiles. Concert pour sept peintures, where the mechanistic and sound aspects join. Some elements of various shapes move asymmetrically on large black square panels, they create a great deal of sounds that can be adjusted by small switches placed on a control panel thus creating an actual metasynphony. The public seems to appreciate this kind of art so much that the concerts are broadcast on the radio. At the end of the 1950s the first Méta-matics are born, some machines for painting that are exhibited at Iris Clert’s gallery. As if it were a publicity launch of the latest trendy product, Tinguely commits himself in the exhibition advertising campaign, both with the classic flyer (launched from a plane in an imitation of D’Annunzio) and with more unusual means in art environment: the sandwich man. The Méta-Moritz, the smallest of the series, is coin operated as the simplest pinball machine: the ludic and participatory aspect becomes stronger and stronger in Tinguely’s work. The spectator first has to get the coins at the cash desk, then he can personally activate the work of art. The coins have Tinguely printed on one side and the Méta-matic on the other. The spectator chooses the colour of the felt pen and becomes the owner of the drawing. Méta-matic n°17 is presented at Paris Biennial in 1959. The machine is placed outside, the drawings produced on a long paper roll are cut and blown towards the spectators by a fan, while the motor fumes are collected in a balloon that slowly swells and a deodorant sprays may lily essence


visitarle continuamente, non far loro mancare nulla. Fra pochi anni saremo loro schiavi. Gli artisti sono i soli che possono salvare l’umanità da questo pericolo. [...] La macchina di oggi è un mostro! La macchina deve diventare opera d’arte! Noi scopriremo l’arte delle macchine! Manifesto del macchinismo di Bruno Munari, 1952.

Le macchine di Tinguely sono quasi delle anti-macchine, studiano il rapporto dell’uomo con la tecnologia, sottolineandone gli aspetti allarmanti e quelli ludici. L’opera si pone come un attentato, un atto gratuito, a-politico tramite il quale l’artista cerca di esprimere il proprio pensiero, senza poter scegliere se farlo o meno. Il primo tentativo di toccare il fruitore da parte di Tinguely, possiamo dire che sia quello del disenchantment, il tentativo di far aprire gli occhi all’uomo che si trova in questo stato di stasi. La macchina come opera d’arte viene liberata dal lavoro, acquisisce una capacità creativa nei suoi movimenti. Un’interessante esposizione è quella che Tinguely realizza nella galleria di Iris Clert a Parigi, Mes étoiles. Concert pour sept peintures dove all’aspetto macchinistico si aggiunge quello sonoro. Su dei grandi pannelli neri di forma rettangolare, degli elementi di varie forme si muovono asimmetricamente creando una grande varietà di suoni che può essere regolata tramite dei piccoli interruttori presenti su un pannello di comando creando così una vera e propria metasinfonia. Il pubblico sembra apprezzare questo nuovo tipo di arte tanto che i ‘concerti’ vengono trasmessi in radio. Alla fine degli anni cinquanta nascono le prime Méta-matics, delle macchine create per dipingere che vengono esposte nella galleria di Iris Clert. Come se si trattasse del lancio dell’ultimo prodotto di grido, Tinguely si impegna in una campagna pubblicitaria dell’esposizione, tanto con il classico volantino (in un dannunziano lancio aereo) quanto con mezzi meno usuali per il circuito artistico: l’uomo-sandwich. La Meta-Moritz, la più piccola della serie, funziona a gettoni come il più semplice biliardino: l’aspetto ludico e di partecipazione diventa sempre più forte nell’opera di Tinguely. Lo spettatore deve infatti prima procurarsi i gettoni alla cassa, poi può mettere personalmente in azione l’opera d’arte. I gettoni sono coniati Tinguely da un lato e Méta-matic dall’altro. Il fruitore dell’opera sceglie il colore del pennarello e rimane proprietario del disegno. La Méta-matic n°17 viene presentata alla Biennale di Parigi del 1959. La macchina viene collocata nel lastricato esterno, i disegni prodotti su un lungo rotolo di carta vengono poi tagliati e soffiati verso gli spettatori

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in the air. The spectators are amused and come in large number to see the work. The critics divide between fans and accusers, someone finds these machines an invention as the ready-made and others accuse Tinguely of betrayal of art itself. The dada poet Tristan Tzara exults: It is the end of painting, our aim has been achieved.6 The exhibition becomes show.

6. Tristan Tzara quoted in Pontus Hulten, Una magia pi첫 forte della morte, catalogue of the exhibition Jean Tinguely, Palazzo Grassi, Venice July - September 1987, Bompiani, Milan 1987.


da un ventilatore, mentre i fumi del motore vengono raccolti in un pallone che si gonfia lentamente e un deodorante spruzza essenza di mughetto nell’aria. Il pubblico si diverte e accorre numeroso per vedere l’opera. La critica si divide tra fan e accusatori, c’è chi trova queste macchine un invenzione pari al ready-made e chi accusa Tinguely di aver tradito l’arte stessa. Il poeta dada Tristan Tzara esulta: E’ la fine della pittura, il nostro obiettivo è raggiunto.6 La mostra diventa spettacolo.

6. Tristan Tzara in Pontus Hulten, Una magia più forte della morte, Catalogo dell’esposizione Jean Tinguely, Palazzo Grassi, Venezia luglio - settembre 1987, Bompiani, Milano 1987.

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Astronauts and cosmonauts The conquest of space; dematerialization of art and disciplinary blur.

Moscow, 1968, a man thanks to a device similar to a catapult produced after years of work, manages to launch himself in space from his bedroom. A short story told from an unforgettable installation by Ilya Kabakov, The Man Who Flew into Space from His Apartment. An installation that plays, joins irony and reality, makes us smile and for a moment believe in a fable, tells us of the wish of escaping from reality, that of the Soviet Union. It speaks of the dream of the space conquest, symbol of the cold war between the USSR and the USA, and at the same time deep desire of every artist: the work that is capable of sinthetizing the universe.


Astronauti e cosmonauti Alla conquista dello spazio; dematerializzazione dell’arte e blur disciplinare.

Mosca, 1986, un uomo grazie ad un congegno prodotto dopo lunghi anni di lavoro, simile ad una fionda, riesce a lanciarsi nello spazio dalla sua camera da letto. Piccola storia narrata da un’indimenticabile installazione di Ilya Kabakov, The Man Who Flew into Space from His Apartment. Un’installazione che gioca che unisce ironia e realtà, ci fa sorridere e per un attimo credere ad una favola e ci racconta il desiderio di fuga da una realtà quale quella dell’Unione Sovietica. Parla del sogno della conquista dello spazio, simbolo della guerra fredda tra URSS e USA, e allo stesso tempo desiderio profondo di ogni artista: l’opera che riesce a sintetizzare l’universo.

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- Calder wants to believe both in space and in non-space. How long his stabile (as mobile) will be able to fill in a given space without occupying it [...] with these new stabile ha has pushed the concept even further [...] - Where will Calder get to? - Perhaps when astronauts and cosmonauts with their primitive instruments go far enough in space to discover non-space, launched in another solar system only to meet themselves on their coming back, they will discover that Calder [...] working alone in peace at Saché and Roxbury, had already anticipated and fixed their experience.-1

These are James Jones’s feelings in front of Calder’s work, in front of a wire structure with some small coloured lights placed at the ends of these thin branches that are moved by air currents. Something so brittle and slow pushes our thought into the universe. It is not movement in itself that’s important but the intensity with which the work can reveal space, time and energy. As the critic Guy Brett asserts, the artist with his works creates models of the universe not different from those of a scientist: artistic models are intuitively born nevertheless they are not less valid. The artist reaches a kind of cosmic speculation through the study of reality and aesthetics structures. Besides the image of the universe structure, that is easy to see in Calder’s work as in many other artists, space means also void, nothingness, zero. The paradox of referring to ‘everything’ by nothing has been recurrent in eastern politics and philosophy while in the western world the same notion characterises the mid 20th century art as a new and inspiring idea.

The work Le Vide by Yves Klein upsets Paris in 1958 and finds a response in Arman’s Le Pleine few years later. Klein translates the idea of void in Iris Clert’s gallery completely empty, without any work, while Arman fills the gallery windows with rubbish. These are projects that want to amaze, upset the public. During Klein’s vernissage blue cocktails are served to all those present: the day after the opening everyone that drank the blue cocktail urinates blue. A work that with the maximum of irony manages to manifest itself in time and space and that through interaction with the public meets chance. Klein wants void to be seen as a zone with increasing pictorial sensitivity. In Le Vide there is no critical intent towards the gallery system, the spectator’s passivity or the 1. Jean Davidson in Alexander Calder, Calder: An Autobiography, Pantheon Books, New York 1966

infertility of modernist convictions. He translates in an exhibition (or


- Calder vuole credere sia nello spazio che nel non-spazio. Per quanto i suoi stabile (come i mobile) sono in grado di riempire uno spazio dato senza occuparlo [...] Con questi nuovi stabile ha spinto il concetto ancora più avanti.- Dove arriverà Calder?- Forse quando astronauti e cosmonauti, con i loro primitivi strumenti, andranno abbastanza lontano nello spazio da scoprire il non-spazio, spinti in un altro sistema solare solo per incontrare se stessi che tornano indietro, essi scopriranno che Calder [...] lavorando solo e tranquillo a Saché e a Roxbury, aveva già anticipato e fissato la loro esperienza.-¹

Queste sono le sensazioni di James Jones davanti all’opera di Alexander Calder, davanti ad una struttura in fil di ferro con dei piccoli vetri colorati all’estremità di questi sottili rami che si muovono con le correnti d’aria. Qualcosa di così fragile e lento spinge il pensiero nell’universo. Non è il movimento in se che è importante ma l’intensità con cui l’opera può rivelare lo spazio, il tempo e l’energia. Come sostiene il critico Guy Brett, l’artista con le sue opere crea dei modelli dell’universo non diversi da quelli di uno scienziato: i modelli artistici nascono intuitivamente ma non per questo sono meno validi. L’artista arriva ad una specie di speculazione cosmica attraverso lo studio delle strutture della realtà e quelle dell’estetica. Oltre all’immagine della struttura dell’universo che sembra facile vedere nelle opere di Calder come in quelle di molti altri artisti, lo spazio significa anche vuoto, nulla, zero. Il paradosso del riferirsi a tutto attraverso il nulla è ricorrente nelle politiche e filosofie orientali mentre nel mondo occidentale la stessa nozione caratterizza l’arte del ventesimo secolo come un’idea nuova e ispirativa.

L’opera Le vide di Yves Klein sconvolge la Parigi del cinquantotto, e trova risposta con Le pleine di Arman di qualche anno successivo. Klein traduce il vuoto nella Galerie Iris Clert completamente priva di qualunque opera, mentre Arman ne riempie la vetrina con della spazzatura. Sono progetti che vogliono colpire, sconvolgere il pubblico. Durante il vernissage di Klein vengono serviti cocktail blu a tutti i presenti: il giorno successivo tutti gli invitati urinano blu. Un’opera che con il massimo dell’ironia riesce a manifestarsi nel tempo e nello spazio e che attraverso l’interazione con il pubblico incontra il caso. Klein vuole che il vuoto sia visto come una zona di accresciuta sensibilità pittorica. In Le vide non c’è nessun intento critico nei confronti del sistema galleristico, della passività dello spettatore o all’infertilità 1. Jean Davidson, Una “forma umana” in Alexander Calder, Autobiografia, Marsilio Editori, Venezia 1984.

delle convinzioni moderniste. Egli traduce in un’esposizione (o meglio

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better non-exhibition) his idea of spiritual life linked to abstractionism studying it in the new cultural contest of the spectacle, an attempt to redeem spirituality with artistic means. Few years later, in 1960, under the guidance of Pierre Restany, Yves Klein, Arman, François Dufrêne, Raymond Hains, Martial Raysse, Daniel Spoerri, Jean Tinguely and Jaques de la Villeglé join to form the group Nouveau Realism. The cultural context in which the group works is divided between two opposed trends: on one side the historical facts that had just upset Europe and the whole world, on the other the rise of an aggressive and shameless consumerism. In the same years works such as Le Vide alternate with Mur de Barils de Pétrole – Le Rideau de Fer by Christo and Jeanne-Claude: a barricade of oil barrels in the centre of Paris block rue Visconti, a spectacular action, strong allusion to the recent wall in Berlin. Almost all these works move the work of art to a public space, leaving the classic museums. Tinguelly’s destructive machines live only in the spectator’s memory, even Klein’s fictitious books would not mean anything without the illusory relationship with the readers. The tendency to turn it into a show and the involvement of the public are evident in the ceremony of the group breaking up, Nello spazio della città in Milan in 1970. The ceremony stretches throughout the city: Christo has to wrap up the monument of Victor Emanuel II in piazza del Duomo, where Tinguely’s Victory, a huge phallic (auto destructive) structure, dominates, Raysse projects a luminous form in the skies of the same square, Niki de Saint Phalle practises his rifle shooting in the Galleria where also César practices his expansions. Arman distributes his mini-accumulations, while Rotella and Hains go on with the decollage meeting the disappointed demonstration of Fiat workers on strike, Spoerri prepares the last dinner for the group, creating personalized food for each artist. A complete fusion of artistic and everyday events enthusiastically enjoyed by Milan citizens. An unique show also for its provoking character that probably would not be accepted today. A group of strong collective identity based on strong personalities that attract one another. A group that produces events to which everyone contributes with his own poetic but also collective works that have collaboration as paradigm of the work itself. Spoeri patents his tableaux pièges so that anyone can realize them.

Collectivity in the 1960s is a strong component of European culture and this is demonstrated by the large number of groups such as International situationalists, the groups Cobra, Fluxus, GRAV and in Italy Gruppo 63, Gruppo T and Gruppo N.


una non-esposizione) la sua concezione di vita spirituale legata all’astrattismo indagandola nel nuovo contesto culturale dello spettacolo, un tentativo di riscattare la spiritualità con mezzi artistici. Pochi anni dopo, nel 1960, sotto la guida di Pierre Restany, Yves Klein, Arman, François Dufrêne, Raymond Hains, Martial Raysse, Daniel Spoerri, Jean Tinguely e Jaques de la Villeglé si uniscono a formare il movimento del Nouveau Realism. Il contesto culturale in cui il gruppo opera è teso tra due forti tendenze opposte: da una parte i fatti storici che da poco avevano scosso l’Europa e il mondo intero, dall’altra la nascita del consumismo aggressivo e sfrontato. Negli stessi anni si alternano opere come Le vide con opere come Mur de Barils de Pétrole – Le Rideau de Fer di Christo e Jeanne-Claude: una barricata di barili di petrolio nel centro di Parigi blocca rue Visconti, un’azione spettacolare, forte allusione al recente muro di Berlino. Quasi tutte queste opere portano l’opera nello spazio pubblico, uscendo dalla classica musealità. Le macchine autodistruttive di Tinguely non vivono che nella memoria dello spettatore, gli stessi libri fittizi di Klein non avrebbero senso senza il rapporto illusorio con i lettori. La tendenza alla spettacolarizzazione e il coinvolgimento del pubblico diventano evidenti nella cerimonia di scioglimento del gruppo, Nello spazio della città a Milano nel 1970. La cerimonia si snoda in tutta la città: Christo deve impacchettare il monumento ad Emanuele II in piazza del Duomo dove troneggia un’enorme struttura fallica La vittoria (che poi si rivelerà autodistruttiva) di Tinguely, Raysse proietta nel cielo della stessa piazza, Niki de Saint Phalle si esibisce nei suoi tiri a bersaglio nella galleria Vittorio Emanuele dove anche César pratica le sue espansioni. Arman nel mentre distribuisce al pubblico delle mini-accumulazioni, Rotella e Hains continuano con il décollage incontrando il disappunto di un corteo di operai della Fiat in sciopero, Spoerri prepara l’ultima cena del gruppo progettando cibi personalizzati per ogni artista. Un completo fondersi di eventi artistici e quotidiani a cui i milanesi partecipano con entusiasmo. Una manifestazione irripetibile, anche per il suo carattere provocatorio che oggi sembra non verrebbe mai accettato. Un gruppo forte di un’identità collettiva che si basa su personalità così forti da calamitarsi a vicenda; un gruppo che produce eventi in cui ognuno apporta la propria poetica ma anche opere collettive che si spingono fino ad avere la collaborazione come paradigma dell’opera stessa. Spoerri brevetta i suoi tableaux pièges dimodochè chiunque possa realizzarli.

La collettività negli anni sessanta è una forte componente della cultura europea ne è dimostrazione la nascita di un numero significativo di collettivi quali l’Internazionale situazionista, i gruppi Cobra, Fluxus, GRAV e in Italia il Gruppo 63, il Gruppo T e

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All of them produce works in strong contrast with both literary and artistic traditions but differently from the previous thirty years they are not defined avant-gards but neo-avant-gard experimentalists: Umberto Eco, speaking about Gruppo 63, says that his generation did not go to war, did not take part in the resistance and did not live the fascism but the liberation and economic growth: to the revolutionary gesture one wanted to substitute a slow experimentation [...] to the gesture that clarifies everything at once the proposal that doesn’t clarify anything yet, follows.2 The objective reality of the work is compared to that of goods, therefore there is strong interest in creating artistic forms such as situations, installations, happenings, places that can involve all the spectator senses. The work of art slowly disappears, the artist has new functions, he becomes an intermediary more than a creator, a proposer of open hypothesises, so at last the spectator is allowed to participate and complete the artistic process. The idea of art autonomy, museums, galleries, collectors, has belonged to the concept of art only since the 19th century after all, since bourgeois interests; these ideas are completely upset by a strong wish to go back to urban space. In the manifesto of the Groupe de Recherce d’Art Visuel one can read the artists’ purpose for an ongoing research and a production of works aimed at freeing plastic arts from tradition. They propose then to change the relationship between the artist and society, to eliminate the category of work of art and its halo of sacredness, to create reproducible works and to liberate the public from inhibitions and deformations produced by traditionalistic aestheticism, in favour of a new social and artistic situation. Journée dans la Rue, 19 April 1966, introduces art in the streets of Paris with various installations, looking for the reaction of the public. A questionnaire is handed to the pedestrian, with the following questions: Modern art-such it is found in the galleries, salon, museums- is it interesting, indifferent, necessary, incomprehensible, intelligent, or gratuitous? In your opinion, what sort of initiative has this been: one that could be described as publicity seeking, cultural, experimental, artistic, sociological, political or in no way it all? Could this initiative be extended and developed, for example in the Paris of year 2000? Were you present at this demonstration? Did you take part in it? Whatever may have emerged from this enquiry, it at least has the effect of 2. Umberto Eco, Il Gruppo 63, quarant’anni dopo, lecture for the 40th Anniversary of Gruppo 63 in Bologna, May 8, 2003.

making people aware of previously untried possibilities in spectator


il Gruppo N. Tutti questi producono opere in forte contrasto con le tradizioni sia letterarie che artistiche ma a differenza del trentennio precedente non si parla più di avanguardie quanto più di neoavanguardie e sperimentalismo. Umberto Eco, parlando del Gruppo 63, ci racconta come la sua generazione non abbia partecipato alla guerra, non abbia fatto parte della resistenza e non abbia vissuto il fascismo ma la liberazione e la rinascita economica: al gesto rivoluzionario si voleva sostituire la lenta sperimentazione, […]al gesto che chiarifica tutto in un colpo succede la proposta che al momento non chiarisce ancora nulla.2 L’oggettualità dell’opera viene paragonata con quella della merce, nasce quindi un forte interesse per la creazione di forme artistiche quali situazioni, installazioni, happening, ambienti che riescono a coinvolgere tutti i sensi dello spettatore. L’opera d’arte scompare lentamente, l’artista assume nuove funzioni, diventa quasi un intermediario più che un creatore, un propositore di ipotesi aperte, così finalmente allo spettatore è permesso di intervenire e completare il processo artistico. L’idea dell’autonomia dell’arte, i musei, le gallerie, i collezionisti non sono in fondo idee appartenenti al concetto di arte che dal XIX secolo, dall’interesse borghese; queste vengono completamente stravolte da un forte desiderio di ritorno nello spazio urbano. Nel manifesto del Groupe de Recherce d’Art Visuel si legge il proposito degli artisti per una continua attività di ricerca e per una produzione di opere guidate dall’obiettivo di liberare le arti plastiche dalla tradizione. Si propone quindi di trasformare la relazione tra l’artista e la società, di eliminare la categoria di opera d’arte e il suo alone di sacralità, di creare lavori riproducibili e di liberare il pubblico dalle inibizioni e deformazioni prodotte dall’estetica tradizionalista, in favore di una nuova situazione sociale e artistica. L’evento Journée dans la Rue, 19 aprile 1966, porta l’arte nelle strade di Parigi attraverso diverse installazioni che cercano la reazione del pubblico. Agli stessi passanti veniva consegnato un questionario le cui domande erano circa le seguenti: L’arte moderna - così come viene presentata in gallerie, fiere e museiè interessante, necessaria, incomprensibile, intelligente e gratuita? Secondo voi questo genere di iniziativa può essere definita pubblicitaria, culturale, sperimentale, artistica, sociologica, politica o niente di tutto questo? Immaginereste quest’iniziativa estesa o sviluppata, per esempio nella Parigi del duemila? Eravate presente alla dimostrazione? Ne avete preso parte? Qualunque risultato abbiano queste inchieste, il loro valore sta nel rendere 2. Umberto Eco, Il Gruppo 63, quarant’anni dopo, prolusione tenuta a Bologna per il Quarantennale del Gruppo 63, 8 maggio 2003.

consapevole il pubblico delle infinite tipologie di fruizione che non sono

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activity in the street. What is more important for the artist point of view is to catalogue the reaction of the spectator and draw conclusions.

The same interest is the basic point also for Italian research, as Gianni Colombo well explains: I have always asserted that my works had a self test feature: they were not made to obtain data but to free the spectator from his state of perception, making him aware of what concerned him, that is a condition of his existence.3 Also in the caption of Giovanni Anceschi and Davide Boriani’s Ambiente per un test di estetica sperimentale the same experimental boost is evident: The proposed project is an operation of experimental aesthetics; it wants therefore to be an instrument for possible research, and not a definite and concluded work of art. The intention is to highlight and statistically evaluate with tests, the content of aesthetic information of a planned visual message. More precisely one tries to establish at what level, of a particular type of visual communication, an aesthetic perception occurs; and consequently if and within what limits a certain complexity of the visual message, relative to the number of repertory elements and to the modulation complexity (frequencies, repetitions, rhythm scanning), is a function to the aesthetic content of the message.4 This environment can be used by one spectator at a time, a projection of coloured lights programmed in twelve different increasingly complex sequences is proposed. At the end of the first programme a second spectator enters and so on until the twelfth. The permanence time in the environment of each spectator is timed and it is considered an index of aesthetic perception. Anceschi and Boriani together with Gianni Colombo, Gabriele De Vecchi and Grazia Varisco in 1959 form Gruppo T, group for which the interest for interaction will be the main focus. In the statement at the first exhibition Miorama I at Peter gallery in Milan in 1959, the group members’ intents are clear: Every aspect of reality, colour, shape, light, geometric spaces and astronomic time, is the aspect of SPACE-TIME giving or better: different ways to perceive the relationship between SPACE and TIME. Therefore we consider reality as a continuous becoming of ‘phenomena’ we perceive in ‘variations’ since when a reality in these terms has replaced, in man’s conscience (or only in his intuition) 3. Lucilla Meloni, Gli ambienti del Gruppo T. Arte immersiva e interattiva, Silvana Editoriale, Milano 2004.

a fixed and unchangeable reality, we

4. Ibid.

reality in its terms of becoming.

recognize in arts a tendency to express


ancora mai state sperimentate.

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L’interesse di questi gruppi è quello di catalogare le esperienze e le reazioni del pubblico per poi trarne delle conclusioni.

Lo stesso interesse è alla base anche delle sperimentazioni italiane, come ben ci spiega Gianni Colombo: Io ho sempre sostenuto che i miei lavori avevano una caratteristica di autotest: non erano fatti per ricavare dei dati, ma per emancipare lo spettatore dal suo stato di percezione, rendendolo cosciente di quello che lo riguardava, che è una condizione della sua esistenza.3 Anche nella didascalia all’opera Ambiente per un test di estetica sperimentale di Giovanni Anceschi e Davide Boriani, è evidente la stessa spinta sperimentale: Il progetto proposto è un operazione di estetica sperimentale; vuole cioè essere uno strumento per una possibile ricerca, e non un’opera d’arte definita e conclusa. L’intenzione è di evidenziare e valutare, statisticamente per mezzo di tests, il contenuto di informazione estetica di un messaggio visuale programmato. Più precisamente si cerca di stabilire a quale livello di un particolare tipo di comunicazionale visuale si inserisce una percezione estetica; e conseguentemente se e entro quali limiti una certa complessità del messaggio visivo, relativa al numero degli elementi di repertorio, e alla complessità della modulazione (frequenze, ripetizioni, scansioni ritmiche) sia funzione del contenuto estetico del messaggio.4 Quest’ambiente è fruibile da un utente per volta, il quale verrà sottoposto ad una proiezione di luci colorate programmate in dodici diverse sequenze di complessità crescente. Terminato il primo programma potrà entrare anche un secondo spettatore, così via fino al dodicesimo. Viene cronometrato il tempo di rimanenza dentro l’ambiente di ogni spettatore, considerandolo come indice di percezione estetica. Anceschi e Boriani insieme a Gianni Colombo, Gabriele De Vecchi e Grazia Varisco nel cinquantanove si uniscono a formare il Gruppo T, gruppo per il quale l’interesse per l’interazione sarà centro dell’attività. Già nella dichiarazione presentata in occasione della prima mostra Miorama I nella galleria Pater a Milano nel 1959, gli intenti dei membri del gruppo sono chiari: Ogni aspetto della realtà, colore, forma, luce, spazi geometrici e tempo astronomico, è l’aspetto del darsi dello SPAZIO-TEMPO o meglio: modi diversi 3. Lucilla Meloni, Gli ambienti del Gruppo T. Arte immersiva e interattiva, Silvana Editoriale, Milano 2004.

di percepire il relazionarsi fra

4. Ibid.

quindi la realtà come continuo

SPAZIO e TEMPO. Consideriamo


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So we consider ‘the work ’as a reality made of the same elements that constitute that ‘reality around us’, the work of art itself needs to be in an ongoing variation.5 The work lives in space and time, in its same becoming. For this reason the object-work is not able to welcome all the aspects implied by the artist’s poetic. Gruppo T after a first production of kinetic works, passes on to formulation, projecting and realization of environments. The use of environments allows the artist to create works that involve the spectator and all his senses and once immersed in it he can only withdraw from the external world and live the proposed situation. They look like perceptive exercises that don’t admit a contemplative solution but only the participatory and involving one. If De Vecchi’s work Scultura da prendere a calci implies movement, the spectator’s gesture already in the title, the Grande oggetto pneumatico, signed by Gruppo T, called at first Ambiente a struttura variabile, is a work that takes all the space available in a gallery: an articulate polythene tube filled with air inflates and deflates rhythmically filling and emptying the exhibition space; the spectators are physically touched by the inflatable and move pushed by the work itself. Between these first works and ‘environments’ there is not much difference. The environment allows to insert a temporal programming of alternating situations, without pretension of irreversibility or total definition of the work but leaving it open to the perception of every single spectator. Programming, in fact, doesn’t exclude the intervention of chance: the planned work is projected but it incurs in the casualness of reality as the others, perhaps much more by inserting in its same definition the presence of the spectator. In the environment models of Gruppo T the silhouettes of the spectators are always present. Colombo’s Spazio elastico doesn’t seem so far from Grande oggetto pneumatico: a material element that tries to fill the exhibition space, that modifies the spectator’s movements. In the first case however, as it is an environment, also the space perception in which the spectator moves is modified: when the room is dark and twines are illuminated by a Wood lamp, the spectator reads only the twine grid not the environment containing it. For this difference this work is so distant from Duchamp’s Sixty Miles of String that took shape at Art of this century gallery: this tangle of twines prevented the spectator from entering the surrealistic room of the exhibition First Papers of Surrealism in 1942. The occupation of this space becomes 5. Lucilla Meloni, Gli ambienti del Gruppo T. Arte immersiva e interattiva, op.cit.

obstruction, Duchamp creates a


divenire di ‘fenomeni’ che noi percepiamo nella ‘variazione’ da quando una realtà intesa in questi termini ha preso il posto, nella coscienza dell’uomo (o solamente nella sua intuizione) di una realtà fissa e immutabile, noi ravvisiamo nelle arti una tendenza ad esprimere la realtà nei suoi termini di divenire. Quindi consideriamo l’’opera’ come una ‘realtà’ fatta con gli stessi elementi che costituiscono quella ‘realtà che ci circonda’, è necessario che l’opera stessa sia in continua variazione.5 L’opera vive nello spazio e nel tempo, nel suo stesso divenire. Per questi motivi l’opera-oggetto non riesce più ad accogliere in se tutti gli aspetti implicati dalle poetiche degli artisti. Il Gruppo T dopo una prima produzione di opere cinetiche passa alla formulazione, progettazione e realizzazione degli ambienti. L’utilizzo dell’ambiente permette all’artista di creare delle opere che coinvolgono lo spettatore e tutti i suoi sensi, immerso nel quale non può che estraniarsi dal mondo esterno e vivere la situazione proposta. Sono come esercizi percettivi che non ammettono una soluzione contemplativa ma solo quella partecipativa e involvente. Se l’opera di De Vecchi Scultura da prendere a calci implica il movimento, il gesto dello spettatore già nel suo titolo, il Grande oggetto pneumatico, firmato dal Gruppo T, chiamato inizialmente Ambiente a struttura variabile, è un’opera che occupa tutto lo spazio occupabile di una galleria: un articolato tubo d’aria si gonfia e sgonfia ritmicamente occupando e liberando lo spazio espositivo; gli spettatori vengono toccati dal gonfiabile fisicamente, si muovono spinti dall’opera stessa. L’ambiente permette di inserire una programmazione temporale delle situazioni che si alternano, senza pretese di irreversibilità o definizione totale dell’opera ma lasciandola aperta alla percezione di ogni singolo dello spettatore. La programmazione infatti non esclude l’intervento del caso: l’opera programmata è progettata ma incorre nella casualità della realtà come le altre, anzi forse in maggior modo inserendo la presenza del fruitore nella sua stessa definizione. Nei modelli per ambienti del Gruppo T, le sagome del fruitore non mancano mai. Lo Spazio elastico di Colombo non sembra cosi lontano dal Grande oggetto pneumatico: un elemento materico che cerca di riempire lo spazio espositivo, che va così a modificare il muoversi dello spettatore. Nel primo caso però dato che si tratta di un ambiente, verrà modificata anche la percezione dello spazio in cui lo spettatore si muove: quando la stanza è buia, i fili sono illuminati da una lampada Wood, il fruitore leggerà solo la griglia e non l’ambiente che la contiene. Questa è la differenza che rende quest’opera così profondamente lontana dal Sessanta miglia di filo di Duchamp che prese forma 5. Lucilla Meloni, Gli ambienti del Gruppo T. Arte immersiva e interattiva, op.cit.

alla galleria Art of this century: questo

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metaphor that is unsolved by modern art, it is not a perceptible and feasible universe. Two works so plastically similar but completely different in aims and meanings. The work of Gruppo T makes the presence of the spectator become meaning of the artistic act, necessary for the work accomplishment it enters even the title itself as in Spazio + linee + spettatore by Davide Boriani. The environment consists of a space equipped with photocells that record the presence of the spectator by a system of x, y, z coordinates. Three light rays coming from wall and ceiling projectors point every single spectator following his moves. New entries of spectators gives rise to a show of crossed light beams in movement.

The study of these technologies is necessary to these artists in order to find the means to express their artistic intuitions. It would be wrong to confuse interest in technologies with an idolatry for them: in this historical moment art and science seem to affect each other, leading them both to discover new boundaries. If the first man landed on the moon in 1969, real technical innovations had already occurred in the previous decade: the first television program in Italy arrives in the mid 1950s followed by a widespread diffusion of this medium in the following years that allows many Italians to watch the moon landing. Pamela Lee in her Chromophobia underlines that time and technology are twinned phenomena in that decade, the works of art provide special insight into this relationship as much as they model that relationship in turn. Collaborations between engineers and artists thrive and allow the project of important works that are able to translate the feelings of those years. These works seems to come directly from constructivist avant-gardes. One of the major merits of Bauhaus was to treat various disciplines with the same interest: architecture supremacy on applied arts disappears at the same time urbanism and industrial design appeare. In these projects that move freely from art to design one can perhaps see an anticipation of a contemporary tendency to discipline boundaries blurring. The studies of Gruppo T on their environments have the same strong planning character that emerges in Rafael Lozano-Hemmer’s work. Frequency and volume is an installation that lives only with the spectator’s presence: the body of the visitor, the moment he enters the environment, becomes an antenna that tunes in radio frequencies in real time. With his movement in the room he can tune in all the frequencies between 150 KHz and 1.5 CHz. Thanks to the use of a radio electric scanner, a projector, many antennae, a huge mixer, a video surveillance system Lozano-Hammer creates what seems


groviglio di fili non permetteva l’ingresso dello spettatore nella sala surrealista della mostra Prime carte del surrealismo nel 1942. L’occupazione dello spazio qui diventa ostruzione, Duchamp crea una metafora non risolta dell’arte moderna, non un universo percepibile ed esperibile. Due opere così plasticamente simili ma completamente diverse in obiettivi e significati. Il lavoro del Gruppo T porta la presenza dello spettatore a divenire significato dell’atto artistico, necessaria per il compimento dell’opera, fino ad entrare nel titolo stesso come in Spazio + linee + spettatore di Davide Boriani. L’ambiente consiste in uno spazio dotato di fotocellule che registrano la presenza dello spettatore attraverso un sistema di coordinate x, y, z. Tre raggi luce provenienti dai proiettori disposti sulle pareti e sul soffitto punteranno ogni singolo fruitore seguendone i movimenti. L’ingresso di nuove persone darà luogo ad uno spettacolo di fasci luminosi incrociati in movimento.

Lo studio delle nuove tecnologie è necessario a questi artisti per poter trovare i mezzi con cui esprimere le loro intuizioni artistiche. Sarebbe errato confondere l’interesse per le tecnologie con un’idolatria di esse: in questo momento storico l’arte e le scienze sembrano infatti influenzarsi a vicenda, portando entrambe a scoprire nuovi confini. Se il primo uomo a porre piede sulla luna fu nel sessantanove, le vere innovazioni tecnologiche erano già avvenute nel decennio precedente: la prima programmazione televisiva in Italia arriva a metà degli anni cinquanta seguita da una maggior diffusione del mezzo negli anni a venire che permetterà così a molti italiani di assistere all’allunaggio. Pamela Lee nel suo Chromophobia ci sottolinea come tempo e tecnologia siano fenomeni che camminano insieme negli anni sessanta, le opere d’arte forniscono una speciale analisi interiore di questa relazione, modellandola. Sono molte le collaborazioni tra ingegneri ed artisti che permettono la progettazione di opere importanti, che riescono a tradurre un sentire di quegli anni. La progettualità di queste opere sembra derivare direttamente dalle avanguardie costruttiviste. Uno dei più grandi meriti del Bauhaus fu quello di trattare varie discipline con lo stesso interesse: il primato dell’architettura sulle arti applicate scomparve nello stesso momento in cui nascevano urbanistica e disegno industriale. Si può forse vedere in questi progetti che spaziano tra arte e progettualità, un’anticipazione di una tendenza contemporanea che confonde i confini disciplinari. Gli studi del Gruppo T per i propri ambienti contengono un carattere progettuale tanto forte quanto quello che emerge nelle opere di Rafael Lozano-Hemmer. Frequency and volume è un’installazione che vive solo con la presenza dello

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to the spectators a small magic. They and their shadows projected on the wall become antennae. The presence of radio frequencies makes this work respond differently every time it is set up in different countries. The presence of this medium recalls the experimentations of Cage, one of the authors Hammer greatly admired. In spite of the interest in Cage and Duchamp and in their interest in inserting chance in the work, Hammer asserts that it cannot be of vital interest in the contemporary scene any more. After stating that the definition postmodern is dead he claims that ‘virtual’ is the new term for the contemporary. The technology, that leads to the virtual, must not be seen as ‘a tool but as ‘a second skin’, asserts the artist quoting Marshall McLuhan, as part of this world, not as a parallel world. I work with technology not because it is original, but precisely because it is inevitable and commonplace in our global society [...] I think the science of complexity, for example, offers us very fertile terrain for creativity. Unfortunately, the humanities continue to maintain a rather antiquated, almost 19th century vision of science in general.6 The new artistic movements, in all times, have always been related to scientific discoveries of their age, like the perspective during the Rainassance or Eugène Chevreul’s theory of colour for the Impressionists. The link that now seems so new is actually something that has gone with art for centuries: the definition Digital Art tries to close up in rigid categories a kind of art that cannot be categorized under the means used. Today the artist who chooses to produce pictorial works cannot ignore technological and scientific discoveries, otherwise, in doing so, he would deny a fundamental assumption for the understanding of society, but he can choose not to use them. The technical reproducibility of these works will noway deny their originality: the introduction of mechanical elements in the works of the 1960s brings a further element of casualness in the work as the author is often unable to control the working of the motors. A good example is the famous Homage to New York, when an explosion almost occurred inside the Museum of Modern Art. The movements of Tinguely’s machines are studied in accurate details by the author but when exhibited to the public they always present anomalous behaviours. The complexity and refinement of movement 6. José Luis Barrios, A conversation with Rafael Lozano-Hemmer, teleconference which took place in the Sala de Arte Público Siquieros (SAPS), Mexico City, on the 20th of April 2005.

that Tinguely gives to his sculptures combine with the unpredictable element he himself defines as


spettatore: il corpo del visitatore nel momento in cui entra nell’ambiente diventa un’antenna che sintonizza frequenze radio in tempo reale. Con il suo movimento all’interno della sala, può sintonizzare tutte le frequenze comprese tra i 150 KHz e i 1,5 CHz. Grazie all’uso di uno scanner radioelettrico, un proiettore, molte antenne, un gigantesco mixer, ed un sistema di video sorveglianza, Lozano-Hemmer crea quella che poi appare come una piccola magia. Lo spettatore e la sua ombra proiettata sul muro diventano un’antenna. La presenza delle frequenze radio fa si che quest’opera risponda differentemente ogni volta che viene allestita in un nuovo paese. La presenza di questo medium richiama le sperimentazioni di Cage, uno degli autori più ammirati dallo lo stesso Hemmer. Nonostante l’interesse per Cage e Duchamp e il loro interesse per l’inserimento del dato casuale nell’opera, Hemmer sostiene che non possa essere più di vitale interesse nella scena contemporanea. Dopo aver dichiarato morta la definizione postmoderno, sostiene che il nuovo termine assoggettabile al contemporaneo sia ‘virtual’. La tecnologia, che porta al virtuale, non deve essere più vista come uno strumento ma come una seconda pelle, sostiene l’artista citando Marshall McLuhan, come parte di questo mondo, non come un mondo parallelo. Lavoro con la tecnologia non perché è originale ma perché è inevitabile nella nostra società. [...] Penso che la scienza della complessità, per esempio, ci offra un terreno molto fertile per la creatività. Sfortunatamente le discipline umanistiche continuano a mantenere una visione della scienza in generale antiquata, da diciannovesimo secolo.6 I nuovi movimenti artistici nel tempo sono sempre stati in relazione con le scoperte scientifiche dell’epoca, come la prospettiva durante il rinascimento o la teoria del colore di Eugène Chevreul per gli Impressionisti. Il legame che oggi ci appare tanto nuovo è in realtà qualcosa che ha accompagnato l’arte nei secoli: la definizione Digital Art cerca di richiudere in ferree categorie un tipo di arte non categoralizzabile in base al mezzo usato. L’artista che oggi sceglie di produrre opere pittoriche non può ignorare le scoperte tecnologiche e scientifiche, altrimenti così facendo negherebbe un presupposto fondamentale per la comprensione della società, ma può scegliere di non usarle. La riproducibilità tecnica delle opere non ne negherà in alcun modo l’originalità: l’introduzione di elementi meccanici nell’opera degli anni sessanta porta un ulteriore elemento di casualità nell’opera dato che spesso l’autore non riesce a controllare il funzionamento dei motori. 6. José Luis Barrios, Intervista a Rafael Lozano-Hemmer, teleconferenza che ha avuto luogo nella Sala de Arte Público Siquieros (SAPS), Mexico City, 20th of April 2005.

Ne è un ottimo esempio il famoso Homage to New York, quando per poco si è sfiorata l’esplosione all’interno

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functional use of chance. In the same way with the introduction of the digital in the contemporary work a certain autonomy of the machine can occur, the artist defines an initial algorithmic condition and then waits for the result. This for me is a gratifying post-humanist message, a message that invites humility, but also one that marks a crisis in authorship and opens a wide problematic area, and I say Welcome! to that. With digital technologies I believe that the aura has returned, and with a vengeance, because what digital technology emphasizes, through interactivity, is the multiple reading, the idea that a piece of art is created by the participation of the user. The idea that a work is not hermetic but something that requires exposure in order to exist is fundamental to understand this “vengeance of the aura”.7 The events developed around one of Hammer’s first projects Re:Positioning Fear tell us how chance pervades these works and often affects the author’s future production. The initial idea is that of projecting the text of an on-line debate on the transformation of the concept of fear on the facade of a military arsenal. The debate theme is suggested to the author by a medieval painting, on show at Graz arsenal, that describes the three main fears of the population: the Turkish invasion, the bubonic plague and the infestation by locusts. The debate is projected in real time on the building façade together with the giant shadows of the passersby, seen by the author as a metaphor of fear. In Hammer’s expectation of course there is not the hypothesis that the passersby, fully regardless of the debate theme, will start to play with the shadows in a ridiculous pantomime. The size of these ‘shadows’, changing according to the figure’s distance from the projector, stimulate funny perspective plays. The installation was converted into an ad hoc carnival and nobody thought for a minute about fears, plagues or invasions. This was the most entertaining error of my career.8 The artist loses the control on the work both literary and poetically.

7. José Luis Barrios, A conversation with Rafael Lozano-Hemmer, art.cit. 8. Ibid.


del Museum of Modern Art. I movimenti delle macchine di Tinguely vengono studiati nei loro minimi dettagli dall’autore ma al momento della loro esposizione al pubblico presentano sempre comportamenti anomali. La complessità e ricercatezza dei movimenti che Tinguely da alle sue sculture si fondono quindi con l’elemento imprevedibile, definito da lui stesso come utilizzazione funzionale del caso. Allo stesso modo, attraverso l’introduzione del digitale nell’opera contemporanea, ci può essere una certa autonomia della macchina; l’artista definisce solo una condizione algoritmica iniziale e poi aspetta di vedere il risultato. Questo per me è un messaggio post-umanista, un messaggio che invita all’umiltà ma che parla anche della crisi dell’autorialità e apre alla problematica dell’aura dell’opera, ed il mio primo pensiero è Che sia il benvenuto! Con le nuove tecnologie digitali credo che l’aura sia ritornata, con vendetta, perché quello che queste tecnologie enfatizzano, attraverso l’interattività, è la lettura multipla, l’idea che l’opera d’arte sia creata nel momento della partecipazione dell’utente. L’idea che l’opera non si ermetica ma qualcosa che richieda una durata nel tempo per esistere, è fondamentale per capire questa vendetta dell’aura.7 Gli accadimenti che si sviluppano intorno ad uno dei primi progetti di Hemmer, Re: Positioning Fear ci insegnano come il caso permei queste opere, e spesso influenzi i progetti a venire dello stesso autore. L’idea iniziale è quella di proiettare su una facciata di un’architettura militare, i testi raccolti in un dibattito on-line sulla trasformazione del concetto di paura. Il tema del dibattito è stato suggerito all’autore da un quadro medioevale esposto all’arsenale di Graz che descriveva le tre principali paure della popolazione: l’invasione turca, la peste bubbonica e l’infestazione di locuste. Il dibattito viene proiettato in tempo reale sulla facciata dell’edificio unito alla proiezione dell’ingrandimento delle ombre dei passanti, viste dall’autore come una metafora della paura. Nelle aspettative di Hemmer non c’era certamente l’ipotesi che i passanti, completamente non curanti del tema del dibattito cominciassero a giocare con le ombre in una ridicola pantomima. La grandezza delle ombre stesse, che mutava a seconda della distanza della figura dal proiettore stimolava simpatici giochi prospettici. L’installazione è diventata un vero carnevale autogestito e nessuno più ha pensato a paura, piaghe o invasioni. È stato uno degli errori più interessanti della mia carriera.8 L’artista perde così il controllo 7. José Luis Barrios, Intervista a Rafael Lozano-Hemmer, art.cit.

dell’opera sia letteralmente che

8. Ibid.

poeticamente.

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Time forecast Criticism to the society of the spectacle and democratization of visual art through Debord and Fluxus’s work.

We are going to talk about rain and fine weather, but don’t think these are nonsense, because our existence depends on what the weather is like.

A heavy shower during a dérive, also in the Happy Quarter, will actually make us understand how important the weather is in our life. By dérive one means an experimental behavioural way linked to urban society conditions: the technique of a hurried passage through various environments. It is also used , more particularly, to denote the duration of the continuous exercise of this experience. A modern flânerie in the metropolitan environment, that wants to oppose the conventional leisure time allowed to alienated


Pre-visioni del tempo Critica alla società dello spettacolo e democratizzazione dell’arte visiva attraverso l’opera di Debord e Fluxus.

Parliamo della pioggia e del bel tempo, ma non si pensi che queste siano sciocchezze, poiché la nostra esistenza dipende dal tempo che fa.

Effettivamente un acquazzone durante una dérive, anche nel Quartiere Felice, ci farebbe ben capire quanto il tempo conta nella nostra vita. Per dérive si intende un modo di comportamento sperimentale legato alle condizioni della società urbana: tecnica di passaggio frettoloso attraverso vari ambienti. Si dice anche, più particolarmente, per designare la durata di un esercizio continuo di questa esperienza. Una moderna flânerie nell’ambiente metropolitano, che vorrebbe porsi in opposizione al tempo libero convenzionale permesso al lavoratore

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workers, opens instead to real true life, to casualness of meetings and places feasibility. This strange practice is elaborated by scholars of a strange discipline, psycogeography. Psycogeography is the study of the precise effects of the geographical environment, more or less consciously disposed, that directly affects people emotional behaviour. The instruments this science gives to those who want to practise dÊrive are maps of various urban centers, that are revised, with some arrows showing a possible route to follow. All these concepts are part of the Theory of new Urbanism. The new urbanism suggests a new idea of architecture: it is the simplest means of articulating time and space, of modulating reality and engendering dreams. It is a matter not only of plastic articulation and modulation expressing an ephemeral beauty, but an influential modulation in accordance with the eternal spectrum of human desires. Architecture is the only means of knowledge and means of action. This vision of time and space will lead to experimentation of behaviours in towns reserved for this effect, where symbolic buildings will be planned representing desires, forces and events past, present and to come. A rational extension of the old religious systems: in a certain sense everyone will live in their own personal cathedral. There will be rooms more conductive to dreams than any drug, and houses where one cannot help but love. The districts of this town could correspond to the whole spectrum of diverse feelings that one encounters by chance in everyday life: bizzarre district, happy district (reserved to houses), noble and tragic district (for good children), historical district (schools and museums), useful district (hospitals and stores). The inhabitants’ main activity will be continuous drifting and the changing of landscapes from one hour to the next will result in total disorientation. In a few years it would become the intellectual capital of the world and would be universally recognized as such.

Gilles Ivain elaborates the Theory of new Urbanism within one of the most important and foresighted movements of the 1960s, Situationalist International. One of the most unexplainable movements and difficult to understand, under the guidance of one of the most unexplainable and difficult to understand personalities of the 20th century: Guy Ernest Debord. But back to the International, that is presented as an artistic avant-garde, experimental research along a free construction of every day life, and a contribution to the theoretical and practical edification of a new revolutionary protest, writes Debord in 1963. International Situationalist is a political-artistic


alienato, aprendo invece alla vita vera, alla casualità degli incontri e all’esperibilità dei luoghi. Questa strana pratica viene elaborata dagli studiosi di una strana disciplina, la psicogeografia. La psicogeografia è lo studio degli effetti precisi dell’ambiente geografico, disposto coscientemente o meno, che agisce direttamente sul comportamento affettivo degli individui. Gli strumenti che questa scienza da a chi vuole praticare la dérive sono delle mappe di diversi centri abitati, rielaborate, con delle frecce che ci indicano un possibile percorso da seguire. Tutti questi concetti sono parte della Teoria della nuova urbanistica. La nuova urbanistica propone una nuova concezione dell’architettura: è il mezzo più semplice per articolare il tempo e lo spazio, per modellare la realtà e per far sognare. Non si tratta solo di articolazione e modellazione plastica come espressioni di una bellezza passeggera ma di una modulazione influenziale che si inscrive nella curva eterna dei desideri umani. L’architettura sarà mezzo di conoscenza e mezzo di azione. Questa visione del tempo e dello spazio porterà alla sperimentazione di comportamenti in città riservate a quest’effetto, dove saranno progettati degli edifici simbolici raffiguranti i desideri, le forze, gli avvenimenti passati, presenti e futuri. Un allargamento razionale degli antichi sistemi religiosi: in un certo senso ognuno abiterà la sua cattedrale personale. Ci saranno delle stanze che faranno sognare meglio di alcune droghe, e delle case dove non si potrà che amare. I quartieri di questa città potrebbero corrispondere alla catalogazione dei diversi sentimenti che si incontrano per caso nella vita: quartiere bizzarro, quartiere felice (riservato abitazioni), quartiere nobile e tragico (per i bravi bambini), quartiere storico (scuole e musei), quartiere utile (ospedali e magazzini). L’attività principale degli abitanti sarà la deriva continua, il cambiamento di paesaggio di ora in ora sarà responsabile dello spaesamento totale. Nel giro di qualche anno, una città che segue questi principi diventerebbe la capitale intellettuale del mondo.

Gilles Ivain elabora la Teoria della nuova urbanistica all’interno di uno dei movimenti più importanti e preveggenti degli anni sessanta, l’Internazionale Situazionista. Uno dei movimenti più inspiegabili e instoricizzabili e di difficile comprensione, alla guida del quale c’è una delle personalità più inspiegabili e instoricizzabili e di difficile comprensione di questo Novecento: Guy Ernest Debord. Ma torniamo all’Internazionale, che si presenta come un’avanguardia artistica, una ricerca sperimentale sulla via di una libera costruzione della vita quotidiana, e infine un contributo all’edificazione teorica e pratica di una nuova contestazione rivoluzionaria, scrive Debord nel 1963. L’Internazionale Situazionista è un movimento

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movement, or better it is a movement that cannot be defined with adjectives: it is not simply political, it is not artistic because it tends to overcome art, it is not ideologic because it aims at destroying ideologies. It is the negation and overcoming of all these things. It is a movement that proposes a revolutionary modification of culture present forms, that tries to wake up man from his passive state of spectator. A reading of consumer society one cannot avoid listening to, studying, understanding and revising. All art after Debord must take account of the results of his thought, to avoid becoming part of the society of the spectacle. The movement initially includes artist and intellectuals, it comes from the fusion of Lettrism International with International Movement for an Imaginist Bauhaus guided by Guy Debord and Asger Jorn respectively. The meeting point is the interest in the criticism of the everyday, developped by the sociologist Lefebvre and in Jean-Paul Sartre’s notion of ‘situation’. Aser Jorn and Pinot Gallizio are the best known artist of the movement, they both suggest new techniques: they include a capitalistic criticism in the work, Gallizio by selling his paintings to the square meter and Jorn by using already existing paintings on which he paints his modifications. Debord continues with the elaboration of social analysis and psycogeographical maps for the dérive. The cooperation between Debord and Jorn brings to the realization of a book Mémoires, composed of quotations only, no original text and decontextualized images: it is the first example of détournement, the action of re-using preexisting aesthetic elements, of past or present artistic production into superior construction of the environment. This text has a limited distribution, it is given to few friends, Debord himself asserts: I had felt my sober indifference towards the judgement of the public, as the latter was not even allowed to see the work. Debord has a similar attitude when planning his feature film Hurlements en faveur de Sade, of the same year. The second showing, after the first had been interrupted by the club managers, takes place in Paris Latin quarter, in a well known film club, and creates a great expectancy fostered by Serge Berna’s declaration: Ladies and gentlemen what we are going to present here tonight is a deeply erotic film. An unknown audacity up to now. A work that will mark an epoch in the history of cinema; cheese after pears. That’s all I can say for the moment, I leave the surprise to you. Debord’s cinematic debut is a feature film without images: his only support is the soundtrack . During the projection of the dialogues the screen is blank. The dialogues that last about twenty minutes, are dispersed in short fragments


politico-artistico o meglio è un movimento che non può essere definito mediante aggettivi: non è semplicemente politico, non è artistico perché tende al superamento dell’arte, non è ideologico perché si propone di abbattere tutte le ideologie. È la negazione e il superamento di tutte queste cose. È un movimento che propone una modifica rivoluzionaria delle forme attuali della cultura, che cerca di risvegliare l’uomo dal suo stato passivo di spettatore. Una lettura della società dei consumi che non si può non ascoltare, studiare, comprendere e rielaborare. Tutta l’arte dopo Debord deve tenere conto dei risultati del suo pensiero, per non diventare parte della società dello spettacolo. Il movimento inizialmente contiene in sé artisti e intellettuali, deriva dalla fusione dell’Internazionale letterista con il Bauhaus immaginista, guidate rispettivamente da Guy Debord e Asger Jorn. Il terreno d’incontro è l’interesse per la critica della vita quotidiana, sviluppata dal sociologo Lefebvre, e per la nozione di situazione derivata da Jean-Paul Sartre. Asger Jorn e Pinot Gallizio sono gli artisti più conosciuti del movimento, entrambe propongono nuove tecniche: inseriscono una critica capitalistica nell’opera, Gallizio vendendo la sua pittura a metro quadrato e Jorn utilizzando quadri già esistenti su cui dipinge le sue modifiche. Debord continua con l’elaborazione di analisi societarie e con l’elaborazione di mappe psicogeografiche per la dérive. La collaborazione tra Debord e Jorn porta alla realizzazione di un libro intitolato Mémoires, composto da sole citazioni, nessun testo originale, ed immagini decontestualizzate: è il primo esempio di détournement, il gesto del riproporre elementi estetici precostituiti, di produzioni attuali o passate delle arti, in una costruzione superiore dell’ambiente. Questo testo ebbe una piccola distribuzione, venne regalato a pochi amici, lo stesso Debord dichiara: Avevo sentito la mia sobria indifferenza nei confronti del giudizio del pubblico, poiché a quest’ultimo non era nemmeno più consentito di vedere l’opera. Simile è il comportamento di Debord nell’ideazione del lungometraggio Hurlements en faveur de Sade, dello stesso anno. La seconda proiezione, dopo che la prima è stata subito interrotta dai dirigenti del locale, avviene nel quartiere latino parigino, in un cineclub molto rinomato, creando una grande aspettativa alimentata dalla dichiarazione del presentatore Serge Berna: Signore e signori, quello che vi presenteremo questa sera è un film profondamente erotico. Un’audacia sconosciuta fino a oggi. Un’opera che farà epoca nella storia del cinema; il formaggio dopo le pere. È tutto quello che vi posso rivelare per il momento, vi lascio la sorpresa. Il film d’esordio di Debord consiste in un lungometraggio senza immagini: il suo unico supporto è costituito dalla colonna sonora. Durante la proiezione dei dialoghi, lo schermo è uniformemente bianco. I dialoghi, la cui durata complessiva non supera

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throughout an hour of silence. During the projection of the silences the screen is black and consequently the room too. The black sequences increased their duration, until the last one which lasted twenty-four minutes. When the lights went up there was an immediate babble of protest. People stood around and some made angry speeches. One man threatened to resign from the ICA unless the money for his ticket was funded. Another complained that he and his wife had come all the way from Wimbledon and had paid for a baby-sitter, because neither of them wanted to miss the film. These claims were so strange that one could think that Guy Debord himself was present in that moment, in the role of Mephistopheles, hypnotizing these average English people to numb them. The noise from the lecture room was so loud that it reached the next audience, queueing on the stairs for the second house. Those who had just seen the film came out of the auditorium and tried to persuade their friends on the stairs to go home, instead of wasting their time and money. But the atmosphere was so charged with excitement that this well-intentioned advice had the opposite effect. The newcomers became all the more anxious to see the film, since nobody imagined that the show would be a complete blank! From a distance, one could understand that Debord’s use of void and silence had affected the spectators’ nerves, stirring them to shout Hurlements en faveur de Sade.1 Debord himself underlines the film strong references to the letterist atmosphere of that period, but also some anticipations of situationalist positions as the use of detonasse sentences, taken from papers, from Joyce’s texts or the Civil Code, as derisive use of different writing styles. The film as the book Mémoires provokes the public trying to highlight how the passive condition of the spectator is necessary condition for the approval of the work. Debord succeeds in moving the public’s judgement without showing anything. After the description of these works, Debord’s thought may be more comprehensible in one of his exclamations: revolution is not in showing life to people but in bringing them to life. The second phase of Situationalist International is characterized by the refusal of artistic practice or better by the impossibility of separating art and politics, Guy Debord’s quotations are intentionally omitted in the notes, they are not written in italics and sometime modified according to the Situationist use of detournament. 1. Guy Atkins, Asger Jorn, the Crucial Years, 1954-64, Lund Humphires, 1977. The text refers to the London projection at Institute of Contemporary Arts in 1960.

that brought to Gallizio’s expulsion for artistic opportunism, to the separation of a group of Scandinavian artists and Asel Jorn withdrawal. For the Situationists the relation between


la ventina di minuti, sono a loro volta dispersi per brevi frammenti in un’ora di silenzio. Durante la proiezione dei silenzi lo schermo resta nero e di conseguenza anche la sala. I piani sequenza neri aumentano progressivamente la loro durata, sino all’ultimo di ventiquattro minuti. Quando le luci si riaccesero, ci fu un improvviso vocio di protesta. Le persone si alzavano e alcuni facevano discorsi ringhiosi. Un uomo minacciò le dimissioni dell’Istituto se il biglietto non gli fosse stato rimborsato. Un altro si lamentava di aver fatto, con sua moglie, il viaggio da Winmbledon e di aver pagato una baby-sitter perché nessuno dei due voleva mancare all’evento. Questi rimproveri erano talmente strani che si sarebbe potuto credere che Guy Debord stesso fosse presente in quel momento, nel ruolo di Mefistofele, ipnotizzando questi inglesi medi per intontirli. Il fracasso nella sala era così forte che gli spettatori che facevano la coda all’esterno per la proiezione successiva potevano sentirlo. Quelli che avevano appena visto il film uscirono e tentarono di persuadere i colleghi a tornarsene a casa piuttosto che sprecare il proprio tempo e il proprio denaro. Ma l’atmosfera era così elettrica che questo consiglio benintenzionato ebbe l’effetto contrario. Gli ultimi arrivati erano del tutto avidi di scoprire il film, lontani dall’immaginare che come spettacolo non c’era nulla da vedere! Da lontano, si poteva capire che l’uso fatto da Debord del vuoto e del silenzio avevano avuto un effetto sui nervi degli spettatori, incitandoli finalmente a lanciare “urla in favore di Sade”.1 Lo stesso Debord sottolinea i forti riferimenti del film all’atmosfera lettrista del tempo, ma anche alcune anticipazioni o posizioni situazioniste come per esempio l’utilizzo di frasi detournés, estratte dai giornali, dai testi di Joyce o dal Codice Civile, come impiego derisorio di differenti stili di scrittura. Il film, come il libro Mémoires, provoca il pubblico cercando di rendere evidente come ormai la condizione passiva dello spettatore sia condizione necessaria per il gradimento di un’opera. Debord riesce a muovere il giudizio del pubblico senza aver nulla mostrato. Dopo la descrizione di queste opere, forse il pensiero di Debord risulta più Le citazioni dei testi di Guy Debord non sono intenzionalmente messe in nota, spesso nemmeno evidenziate dal corsivo e a volte modificate, seguendo l’utilizzo situazionista delle frasi detournés. 1. Guy Atkins, Asger Jorn, the Crucial Years, 1954-64, Lund Humphires, 1977, Trad. it. in Guy Debord, (contro) il cinema, a cura di Enrico Ghezzi, Roberto Turigliatto, Il Castoro, Milano 2001. Il testo si riferisce alla prioezione londinese del film presso l’Institute of Contemporary Arts nel 1960.

comprensibile in una sua esclamazione: la rivoluzione non consiste nel mostrare la vita alla gente, ma nel farla vivere. La seconda fase dell’Internazionale Situazionista è caratterizzata dal rifiuto della pratica artistica o meglio dall’impossibilità di separare arte e

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author and spectator is only a transposition of the fundamental relationship between manager and executants the spectacle-spectator relation is is in itself staunch bearer of capitalistic order. The point is not to engage in some sort of revolutionary art-criticism, but to make a revolutionary critique of all art. Afterwards the major intervention of International is in May 1968 supporting the students’ protest. This protest made as its symbol Debord’s best known text La Société du Spectacle. A widespread essay in 1968, whose title was stamped in the minds of many but few seem to have read it, a visionary text only comparable to George Orwell’s 1984. There are books whose title soon becomes an embarrassing wreck, tattered by the abuse of journalism; there are books that let themselves scorched by the flashing metaphor that inspired them.2 Perhaps the problem of this essay was the too explicit and successful description of contemporary society, too exaggerated and easy for a world that is used to absorbing every form of protest and make it live again as spectacle. Debord develops from the theories of Marx’s Das Kapital, most of all from those on the fetishist character of goods, a historical prediction that doesn’t predict an armed revolution but the birth and development of a new consumer society: the criticism he makes to this world based on representation doesn’t tarnish spectacle but it almost favours its realization. As Carlo Freccero underlines: Criticism worked as those moral bans, those prohibitions that spark off curiosity and interest, that generate an unending and obsessive talk just about what one would like to remove or repress.3 At the time of consumerism birth, when it could still be called pre-consumerist world, Debord predicted the appeal that representation, the development of immaterial reality and spectacle illusionism, would have had. He goes beyond scientific socialism perceiving its limitations with relation to consumer society: if capitalism provided the worker with only enough to satisfy his primary needs, it would not allow him access to consumerism. The marxian analysis belongs to the first industrial revolution, when needs satisfy primary necessities. Today the fetishists, symbolic character of an object is more important than its use: goods are deprived of their material character and become abstraction. Also with regards to work, man is 2. Aldo Grasso, Radio e televisione, Vita e Pensiero, Milano 2000. 3. Carlo Freccero, Daniela Strumia, Introduzione in Guy Debord, La società dello spettacolo, Baldini&Castoldi, Milano 1997.

getting less and less active, he becomes contemplative. The media conclude the world


politica, che portò all’espulsione di Gallizio per opportunismo artistico, alla separazione di un gruppo di artisti scandinavi e dal ritiro di Asgel Jorn. Per i situazionisti il rapporto tra autore e spettatore non è che una trasposizione del rapporto fondamentale tra dirigente ed esecutore. Il rapporto che si stabilisce in occasione dello spettacolo è, per se stesso, portatore irriducibile dell’ordine capitalistico. L’obiettivo è quello di fare una critica rivoluzionaria di tutta l’arte, e non una critica d’arte rivoluzionaria. Successivamente il maggior intervento dell’Internazionale è quello del maggio sessantottino, al fianco della rivolta studentesca. Questa si fece bandiera del testo più conosciuto di Debord, La Société du Spectacle. Saggio di grande diffusione nel sessantotto, il cui titolo è poi rimasto impresso nella mente di molti, ma che pochi sembrano aver letto, di una visonarietà pari solo al 1984 di George Orwell. Ci sono libri il cui titolo diventa presto un’imbarazzante carcassa, sbrindellata dall’abuso giornalistico; ci sono libri che si lasciano strinare dalla folgorante metafora che gli ha ispirati.2 Forse il problema di questo saggio fu proprio la troppo esplicita e riuscita descrizione della società d’oggi, troppo esagerata e facile per un mondo che è abituato a inglobare ogni forma di contestazione e farla rivivere come spettacolo. Debord sviluppa dalle teorie del Capitale di Marx, soprattutto da quelle sul carattere feticcio della merce, una previsione storica che non prevede rivoluzioni armate ma la nascita e lo sviluppo della nuova società consumista: la critica che muove a questo mondo basato sulla rappresentazione non scalfisce però lo spettacolo, ne favorisce quasi la realizzazione. Come sottolinea Carlo Freccero: La critica ha funzionato come quegli interdetti morali, quei divieti che accendono la curiosità e l’interesse, che generano un discorso incessante e ossessivo proprio intorno a quello che si vorrebbe rimuovere o reprimere.3 Nel momento di nascita del consumismo, quando si poteva ancora chiamare mondo pre-consumistico, Debord ha previsto il fascino che avrebbero avuto la rappresentazione, gli sviluppi della realtà immateriale e lo sviluppo dell’illusionismo dello spettacolo. Supera il socialismo scientifico vedendo i suoi limiti in rapporto alla società consumistica: se il capitalismo fornisse al lavoratore solo il sufficiente a soddisfare le sue esigenze primarie, non gli permetterebbe l’accesso al consumo. L’analisi marxiana appartiene alla prima rivoluzione industriale, quando i bisogni soddisfano le necessità primarie. 2. Aldo Grasso, Radio e televisione, Vita e Pensiero, Milano 2000. 3. Carlo Freccero, Daniela Strumia, Introduzione in Guy Debord, La società dello spettacolo, Baldini&Castoldi, Milano 1997.

Oggi il carattere feticcio, simbolico, di un oggetto conta più che quello d’uso: la merce viene a privarsi dei

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dematerialization, they are pure spectacle delivered to our houses and become the world representation for the man who doesn’t feel the need to know the real world. In 1990, four years before Debord’s suicide, Milan Kundera in a chapter of his Immortality makes one of his characters speak about the theory of imagology, he himself has invented: it is the overcoming of ideologies and the overcoming of reality, it takes courage from his role, making it evident and accepted. Imagologues create systems of ideals and anti-ideals, systems of short duration that are quickly replaced but other systems but that influence our behaviour, our political opinion and aesthetic tastes, the colour of carpets and the selection of books, just as in the past we have been ruled by the system of ideologues.4 To explain what he means by overcoming of reality (virtual reality for Debord) he makes the example of the experience of knowledge of a grandmother, a person grown up in a world of ideologies. The kind of knowledge was completely personal, from bread recipes to the number of the dead in the village: nobody could have deceived our granny on practical matters that she could easily check. On the contrary today, the example of the employee who goes back home after an eight hour working-day and turns on the television, makes us easily see how mediated and untrue our knowledge is.

These new social theories, dated by now, are description of an evident reality that doesn’t upset us any longer. However I think that all the contemporary art tendencies I have outlined so far, are strictly connected, more or less voluntary, to this criticism of the consumer society and are often born from a reaction to it: the dematerialization of the work, the disappearance of aura, the will to involve the spectator, the will to leave traditional contexts, the interest for new disciplines.

One of Debord’s favourite sentences, used also as the title of one of his films, is the palindrome In girum imus nocte et consumimur igni, a sequence of characters that reads the same forwards and backwards. The film partly filmed in Venice, speaks about time as flowing, through the metaphor of water. The group Fluxus chooses its name for the same reason, with the meaning of being active and never still to avoid 4. Milan Kundera, Immortality, Grove Pr, London 1991.

time tyranny.


suoi caratteri materiali e diventa astrazione. Anche per quanto riguarda il lavoro, l’uomo diventa sempre meno attivo, diventa contemplativo. I media concludono la dematerializzazione del mondo, sono spettacolo puro portato nelle nostre case e diventano rappresentazione del mondo per l’uomo che non sente più la necessità di conoscere il mondo reale. Nel novanta, quattro anni prima del suicidio di Debord, Milan Kundera in un capitolo del suo L’immortalità fa parlare uno dei suoi personaggi della teoria dell’imagologia che egli stesso ha inventato: è il superamento delle ideologie e il superamento della realtà, si fa forte del suo ruolo rendendolo palese e accettato. Gli imagologi creano sistemi ideali a anti-ideali, sistemi che hanno breve durata e ognuno dei quali viene rapidamente sostituito da un altro, ma che influenzano il nostro comportamento, le nostre opinioni politiche e il nostro gusto estetico, il colore dei tappeti e la scelta dei libri, con la stessa forza con cui un tempo riuscivano a dominarci i sistemi ideologici.4 Per spiegarci cosa intende per superamento della realtà (realtà virtuale per Debord), ci porta a facile esempio l’esperienza di conoscenza di una nonna, di una persona cresciuta nel mondo delle ideologie. Il tipo di conoscenza è completamente personale, dalle ricette per il pane al numero di deceduti nel paese: nessuno è mai riuscito a ingannare la nonna su questioni pratiche che poteva verificare. Al contrario oggi, l’esempio dell’impiegato che torna a casa dopo otto ore di lavoro e accende la televisione, ci fa facilmente intuire quanto le conoscenze d’oggi siano mediate e spesso non vere.

Queste nuove teorie sociali, ormai datate, sono oggi descrizione di una realtà evidente che ormai non ci sconvolge più. Tutte le tendenze dell’arte contemporanea che abbiamo finora descritto sono strettamente legate, volontariamente o meno, a questa critica della società dei consumi e spesso nascono come reazioni ad essa: la dematerializzazione dell’opera, la scomparsa dell’aura, la volontà di coinvolgere lo spettatore, la volontà di uscire dai contesti tradizionali, l’interesse per le nuove discipline.

Una delle frasi preferite da Debord, utilizzata anche come titolo di un suo film, è il palindromo In girum imus nocte et consumimur igni, sequenza di caratteri che, letta a rovescio, rimane identica. Il film girato in parte a Venezia, parla del tempo visto come scorrimento, tramite la metafora dell’acqua. Il gruppo Fluxus sceglie il suo nome per lo stesso motivo, col 4. Milan Kundera, L’mmortalità, Adelphi, Milano 1990.

significato di rimanere in azione e

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Fluxus is an artistic group in line with the poetics (if one is allowed to call it so) of the first Situationalist International defined by Achille Bonito Oliva : […] the ecological zone of international experimentation that overcomes the tension towards the production of an aestheticism of things. Action painting, New Dada, Pop Art, Nouveau Réalism still constitute the polarity of a mentality that places its trust in the value of project making and of the historical linguistic process.5 Fluxus believes in nothing but reality, it chooses the principle of contradiction implying confrontation and not reconciliation. The group aims at reifying art and life, as an intuition of the world fast virtualization. This is possible only with the recovery of the object as real and no more as metaphoric memory. Art cannot take Duchamp’s provocations as a new planning method, but instead it has to become reality, it has to enter everyday life, to be aggregation method, to bring knowledge. Fluxus is one of the first artistic groups that in postwar time underlines how the phenomenon of commodification was acquiring identity and interpersonal relationships. Fluxus’s focus on reality, like that of Internationa,l leads to two completely different choices: Debord overcomes art while Fluxus takes it in real space. The group Fluxus is so heterogenous as for nationalities, disciplines and poetics that it couldn’t make use of planning imperatives. Being part of Fluxus does not limit the artists’ expressive modes but it includes them in a new global strategy. It is fundamental the respect for common intentions, the most important of which is the breaking off with the everyday gesture, meant as functional and economic, aimed at a purpose. The works of Fluxus artists are not saleable but feasible events. They are experiences that want to shake the public’s unconscious thanks to the force of the a-functional. Bonito Oliva again describes them as a mobile front of people that use a strategy of social contamination: the possibility of creating a series of chain reactions. In the group there is a strong insistence on the participation of the spectator, starting from a criticism of traditional concepts of identity and authorship. The concept of art as play enjoys in associating the discipline to something that is furthermost from the sacred aura of the work, ludic activity. In an official speech George Maciunas describes the newly born Fluxus with two words, art and amusement that: To establish artist’s nonprofessional, nonparasitic, nonelite status in society, 5. Achille Bonito Oliva, Gabriella De Mila, Claudio Cerritelli, Ubi fluxus ibi motus 1990-1962, Mazzotta, Milano 1990.

he must demonstrate own dispensibility, he must demonstrate self-sufficiency of


mai fermi per evitare una sopraffazione del tempo. Fluxus è un gruppo artistico in linea con la poetica (se è permesso chiamarla tale) della prima Internazionale Situazionista, viene definito da Achille Bonito Oliva come: […] zona ecologica dello sperimentalismo internazionale che supera la tensione verso la produzione di un estetismo delle cose. Action painting, New Dada, Pop Art, Nouveau Réalism costituiscono ancora la polarità di una mentalità che investe la propria fiducia nel valore della progettualità e del processo linguistico storico.5 Fluxus non crede più in niente se non nella realtà, sceglie il principio della contraddizione mediante il confronto e non mediante la conciliazione. Il gruppo si pone l’obiettivo di reificare arte e vita, come a intuire la veloce virtualizzazione del mondo. Questo è possibile solo attraverso il recupero dell’oggetto come realtà e non più come memoria metaforica. L’arte non può prendere le provocazioni di Duchamp come nuovo metodo progettuale, ma deve piuttosto diventare realtà, deve inserirsi nella vita di tutti i giorni, essere metodo di aggregazione, portare conoscenza. Fluxus è uno dei primi gruppi artistici che nel dopoguerra mette in evidenza come il fenomeno della mercificazione sta conquistando identità e rapporti interpersonali. La messa a fuoco della realtà di Fluxus come quella dell’Internazionale porta a due scelte completamente diverse: Debord supera l’arte, mentre Fluxus la porta nello spazio reale. Il gruppo Fluxus è così eterogeneo per nazionalità, discipline e poetiche che non può avvalersi di imperativi progettuali: appartenere a Fluxus non limita i modi espressivi degli artisti ma li colloca in un nuova strategia globale. Fondamentale è il rispetto delle intenzioni comuni, di cui la più importante è la rottura del gesto quotidiano inteso come funzionale ed economico, mirato ad un fine. Le opere degli artisti Fluxus sono eventi non vendibili ma esperibili, sono esperienze che vogliono scuotere l’inconscio del pubblico grazie alla forza dell’afunzionale. Sempre Bonito Oliva li descrive come un fronte mobile di persone che fa uso di una strategia del contagio sociale: la possibilità di creare una serie di reazioni a catena. È forte l’insistenza che il gruppo porta sulla partecipazione dello spettatore, partendo da una critica dei concetti tradizionali di identità e autorialità. Il concetto di arte come gioco si diverte ad associare alla disciplina quello che di più lontano esiste dall’aura sacra dell’opera, il ludico. In un discorso ufficiale George Maciunas, descrive l’appena nata Fluxus con due parole, arte e divertimento: Per stabilire lo statuto non professionale dell’artista nella 5. Achille Bonito Oliva, Gabriella De Mila, Claudio Cerritelli, Ubi fluxus ibi motus 19901962, Mazzotta, Milano 1990.

società, deve dimostrare la superfluità e l’onnicomprensività dell’artista, deve

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the audience, he must demonstrate that anything can substitute art and anyone can do it. Therefore, this substitute art-amusement must be simple, amusing, concerned with insignificances, have no commodity or institutional value. It must be unlimited, obtainable by all and eventually produced by all.6 Amusement, play is the only space open to the a-functional in today’s society. If man differentiates from the animal through work, the passage from homo faber to homo sapiens, he feels the need to infringe on work itself thanks to artistic urgency. But this art is nothing but play, feast, freedom from work. Art, play and transgression are the negation of work regularity, as representation of the futile. Art and play are forms of expression and activity that have their origin, their aim, their rule in themselves. Friedrich Schiller, German poet, dramatist and historian of the late 18th century writes: Man only plays when in the full meaning of the word he is a man, and he is only completely a man when he plays.7 He considered the conception of art meant as symbol of the idea, dynamic and active symbol for the liberation of man. For the poet real art is the only one that gives the greatest enjoyment. But the greatest enjoyment is the freedom of the soul in the living play of all its forces. Every man expects from the arts of fantasy a liberation from the restrictions of reality.8 Referring to Schiller’s theories, the artist Joseph Beuys considers that freedom in its pure form can be only found in ludic activities, that it cannot be compared to scientific freedom that has to subordinate to logic. Freedom comes from the creative will that is constitutive of man, Beuys carries out his thought of redescovery of man’s natural creativity and this mission becomes his work. Beuys’s artistic action looks for a new way to intervene on reality: We want a new way to intervene on environment and modify it, a way in which man can make use of his freedom in a full and radical way. Exactly as it happens in the field of art. Only the man in his self-determination is free. 6. Foster Hal, Krauss Rosalind, Bois Yve-Alain, Buchloh Benjamin, Art since 1900. Modernism, Antimodernism, Postmodernism, Thames & Hudson, London 2005. 7. Friedrich Schiller, Saggi estetici, Utet, Torino 1968. 8. Marino Freschi, L’utopia nel Settecento tedesco, Liguori Editore, Napoli 2004. 9. Joseph Beuys , La rivoluzione siamo noi, lecture at Palazzo Taverna, Incontri Internazionali d’Arte, Rome, April 12, 1972

Art meant in a ludic sense: this is expression of absolute freedom.9 Beuys carries on his attempt of giving art back to the everyday of Fluxus, he asserts the indistinction between artist and artisan and the need of the spectator’s cognitive intervention to complete the meaning of the artistic


dimostrare l’autosufficienza del pubblico, deve dimostrare che qualunque cosa può essere arte e che chiunque può farla. Quindi l’arte divertimento deve essere semplice, divertente e senza pretese, interessata all’insignificante, non richiedere alcuna abilità ne prove infinite, non avere valore commerciale o istituzionale. Il valore dell’arte-divertimento deve essere tenuto basso rendendola illimitata, prodotta in serie, accessibile a tutti e possibilmente alla portata di tutti.6 Il divertimento, il gioco è l’unico spazio rimasto aperto all’afunzionale nella società d’oggi. Se l’uomo si rende diverso dall’animale attraverso il lavoro, passaggio tra homo faber a homo sapiens, sente poi la necessità di trasgredire al lavoro stesso grazie all’urgenza artistica, seguendo il pensiero di Georges Bataille. Ma quest’arte non è nient’altro che il gioco, la festa, la licenza dal lavoro. Arte, gioco e trasgressione sono la negazione della regolarità del lavoro, perché rappresentazioni del futile. L’arte e il gioco sono forme di espressione e di attività che hanno la propria origine, il proprio fine, la propria norma in se stesse. Friedrich Schiller, poeta, drammaturgo e storico tedesco di fine Settecento scrive: L’uomo gioca solo quando è uomo nel pieno significato della parola ed è completamente uomo solo quando gioca.7 Egli considerava la concezione dell’arte intesa come simbolo dell’idea, simbolo dinamico e attivo per la liberazione umana. Per il poeta la vera arte è quella sola che procura il godimento supremo. Ma il godimento supremo è la libertà dell’anima nel gioco vivo di tutte le sue forze. Ogni uomo aspetta dalle arti della fantasia una liberazione dalle strettoie della realtà.8 Richiamandosi alle teorie di Schiller, l’artista Joseph Beuys ritiene che la libertà nella sua forma più pura si possa trovare solo nell’attività ludica, che non possa essere paragonata alla libertà scientifica che invece deve subordinarsi alla logica. La libertà deriva proprio dalla volontà creatrice costitutiva dell’uomo, Beuys si fa portatore di questo pensiero di riscoperta nell’uomo della propria naturale creatività, e fa di questa missione la sua opera. L’agire artistico di Beuys cerca un nuovo modo per intervenire sulla realtà: Vogliamo un modo nuovo di intervenire 6. Foster Hal, Krauss Rosalind, Bois Yve-Alain, Buchloh Benjamin, Arte Dal 1900. Modernismo, Antimodernismo, Postmodernismo, Zanichelli, Bologna 2006. 7. Friedrich Schiller, Saggi estetici, Utet, Torino 1968. 8. Marino Freschi, L’utopia nel Settecento tedesco, Liguori Editore, Napoli 2004.

sull’ambiente e modificarlo, un modo in cui l’uomo possa avvalersi, in modo pieno e radicale, della sua libertà. Esattamente come avviene nel campo dell’arte.

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act: a large part of his work consists of lectures or happenings that wouldn’t take place without the presence of the public. But one is even more interested in Beuys’s work as it is revealing for the spectator: he sees a revolutionary force in thought, a vital nucleus for the change that, however, has to start in an artistic cultural process. In his lectures the words he more often writes on the board are democracy, brotherhood, socialism, equality. He contests the delegation system that characterize politics and that does not leave decisional power to the collectivity, the national income administration in the hands of a few selected people and the concept of democracy used by some governments that lack so much in transparency that they do not deserve the use of it. This strong political character is perhaps his tightest link with the group Fluxus, a group he has always wanted to belong to. The link between his work and the emerging culture of the spectacle is evident in Bueys’s performative choice: through these events he wants to take away the subjects from productive participation to the spectacle world by using the spectacle itself, but in an a-functional way, as a means to take them back to natural creativity. The internationalism of Fluxus however is in contrast with Beuys’s specifically German character and also with his maddened eclecticism. The risk the artist runs is to fuel with too many legends his figure (among which false autobiographies) creating again the figure of the artist-bard that all the art of the 1960s had committed to destroy. The model Beuys adopts is strictly connected to the needs of a country as Germany, that is in a post-war period, that has to fly away from memory to be able to believe and live again. For Beuys performance is a return to the ritual, to the past, his interventions assume a strong symbolic character (for example How to explain paintings to a dead hare) in which it is difficult and sometimes impossible the intervention of the spectator to whom he asks unreserved trust. Yet in his lecture texts he often writes the requests of questions from the public: turning his person into show as a star is in clear contrast with his same democratic attitude. After being dismissed from his faculty position at the Art Academy of Düsseldorf for opening his classes to anyone who wanted to attend it, he transforms the news photos with the police into a work of art, simply by designating it as such. The game Beuys and the group Fluxus start with spectacle, is highly hazardous, it oscillates between criticism and the indiscriminate use of it, it confuses the public and sometimes it takes it back to the position of passive spectator. The Group in spite of professing a collective identity, and the demolition of the figure of the artist, sometimes it seems to be guided by strong figures like


Solo l’uomo che si autodetermina è libero.

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L’arte intesa in senso ludico: è questa l’espressione di libertà assoluta.

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Beuys persegue il tentativo di restituire l’arte alla quotidianità di Fluxus, sostiene l’indistinzione tra artista e artigiano e la necessità dell’intervento cognitivo dello spettatore per completare il significato dell’atto artistico: gran parte delle suo opere sono conferenze o happening che non avrebbero luogo senza la presenza del pubblico. Ma ancor di più l’opera di Beuys ci interessa in quanto si pone come rivelatoria per lo spettatore: egli vede nel pensiero una potenza rivoluzionaria, un nucleo vitale per il cambiamento che però deve avere inizio in un processo culturale artistico. Sulle lavagne delle sue conferenze, le sue parole più spesso scritte sono democrazia, fraternità, socialismo e uguaglianza. Egli contesta il sistema di delega che caratterizza la politica e non lascia potere decisionale alla collettività, la gestione del reddito nazionale in mano a pochi prescelti e il concetto di democrazia di cui si avvalgono alcuni governi così poco trasparenti da non meritarne l’uso. Questo forte carattere politico è forse quello che più lo avvicina al gruppo Fluxus, al quale ha sempre voluto appartenere. Il legame tra la sua opera e l’emergente cultura dello spettacolo è evidente nella scelta performativa di Beuys: tramite questi eventi egli voleva strappare i soggetti dalla partecipazione produttiva al mondo dello spettacolo utilizzando lo stesso spettacolo, ma in modo afunzionale, come mezzo per riportali alla naturale creatività. L’internazionalismo di Fluxus si trova però in contrasto con il carattere specificatamente tedesco di Beuys, ad anche con il suo esasperato eclettismo. Il rischio che corre l’artista è quello di alimentare con troppe leggende la sua figura (tra le quali le autobiografie false), creando nuovamente la figura di artista-vate che tutta l’arte degli anni sessanta si era impegnata a distruggere. Il modello che Beuys adotta è strettamente legato alle necessità di un paese, quale la Germania, che sta attraversando un momento postbellico, che deve sfuggire alla memoria per poter continuare a credere e a vivere. Per Beuys la performance è un ritorno al rituale, al passato, i suoi interventi assumono un carattere fortemente simbolico (ad esempio Come spiegare un quadro ad una lepre morta) nel quale diventa difficile e a volte impossibile l’intervento dello spettatore a cui chiede una fiducia incondizionata nei suoi confronti. Eppure nei testi delle conferenze viene trascritta spesso la sua richiesta di domande dal pubblico: la spettacolarizzazione della sua persona come star è quindi in netta opposizione con il suo stesso atteggiamento democratico. Quando venne rimosso dall’incarico di professore presso l’Accademia di Belle Arti di Düsseldorf, per aver 9. Joseph Beuys , La rivoluzione siamo noi, incontro a Palazzo Taverna, Incontri Internazionali d’Arte, Roma, 12 aprile 1972.

aperto le sue lezioni a chiunque volesse parteciparvi, egli trasforma le fotografie


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Maciunas, whose role is described by Dick Higgins in his A Child’s History of Fluxus: Once fame began to happen George Maciunas and the other Fluxus people had to figure out what to do next to keep Fluxus fun and working for everybody. George liked to be the boss; but he was smart enough to know that he couldn’t be boss and tell the Fluxus artists what to do, because they’d quit and they were mostly better artists than he was. So he became the chairman instead. That meant that he couldn’t tell people what they had to do, or what they must not do if they wanted to stay part of Fluxus; instead he could tell the world what Fluxus was, and anyone who wanted to do that kind of thing was Fluxus.10 In Higgins’s description a certain disappointment is evident because of Maciunas’s tendency to keep the control of the group, but he solves the problem by underlying this personality’s versatility. Maciunas and Higgins often work together, also planning some monographic text on Fluxus artists, printed by Higging’s Something Else Press. It is important the interdisciplinary attitude of the group that does not hyerarchize the arts but on the contrary, to dismantle all traditional conventions, raises the level of the so called minor arts. The purpose is to abolish culture classist character through the use of new forms of distribution of the work of art and the artist’s deprofessionalization, against the tide with regards to social division of labour that tends to specialize every single worker, making him unable to carry out a task autonomously. After Dadaism and the Russian avant-gardes also Fluxus hybridism expresses itself through visual communication with a special interest for typography. The perceptive-linguistic revolution of the group is expressed also with a choice of types and in the page-layout. Another influent avant-garde in this field is certainly Surrealism: the practice of obsolescence consisted in the indiscriminated recovery of past graphic elements seen as opposed to contemporaneity. Maciunas, with the modern Composer IBM, makes personalized business cards for every Fluxus artist, using a varied range of modern types among which stood up in sharp relief a 19th century font someone identified in Ptofil/Decorated 035. Also in this project the personalization of the single business cards seems to respond more to the artist’s 10. Dick Higgins, A Child’s History of Fluxus in Horizons: The Poetics and Theory of the Intermedia, Southern Illinois University Press, Carbondale 1979.

individualism than to the dissolution of the cult of subjectivity.


che gli vengono scattare con la polizia, in opera d’arte, nominandole come tali. Il gioco che Beuys e il gruppo Fluxus intraprendono con lo spettacolo, è di alto rischio, altalena tra la critica e l’uso indiscriminato dello stesso, disorienta il pubblico e a volte lo riporta alla posizione di spettatore passivo. Il gruppo nonostante professi un’identità collettiva, e la demolizione della figura dell’artista, a volte appare guidato da figure forti quali Maciunas, di cui Dick Higgins descrive il ruolo nella sua Storia di Fluxus per bambini. Quando il gruppo cominciò ad essere conosciuto George Maciunas e altri di Fluxus dovevano decidere come mantenere vivi il divertimento e il lavoro di tutti. George avrebbe voluto essere il capo; ma era abbastanza sveglio per capire che non poteva essere il capo e dire agli artisti Fluxus cosa fare, perché lo avrebbero abbandonato e perché erano degli artisti spesso più bravi di lui. Quindi decise di esserne il presidente. Significava che non avrebbe dovuto dire cosa fare agli altri, o cosa non avrebbero dovuto fare per rimanere parte del gruppo; poteva invece dire al mondo cos’era Fluxus, e che chiunque avesse fatto cose nel nostro modo, sarebbe stato Fluxus.10 Nella descrizione di Higgins è evidente un certo disappunto per la tendenza di Maciunas a mantenere il controllo del gruppo, ma risolve la questione sottolineando la versatilità di questa personalità. Maciunas e Higgins lavorano spesso insieme, anche progettando alcuni testi monografici sugli artisti Fluxus, poi stampati presso la casa editrice Something Else Press del secondo. Importante è la l’atteggiamento interdisciplinare del gruppo che non gerarchizza le varie arti ma anzi, per smantellare tutte le convenzioni tradizionali, porta all’innalzamento delle cosiddette arte minori. L’obiettivo è quello di abolire il carattere classista della cultura attraverso l’uso di nuove forme di distribuzione dell’opera, e la deprofessionalizzazione dell’artista, in controcorrente rispetto alla divisione sociale del lavoro che tende a specializzare ogni singolo individuo, non rendendolo più capace di portare a termine autonomamente una mansione. Dopo il Dadaismo e le avanguardie russe anche l’ibridismo di Fluxus si esprime attraverso la comunicazione visiva con un interesse specifico per la tipografia. La rivoluzione percettivo-linguistica del gruppo si esprime anche nella scelta dei caratteri e nell’impaginazione. Un’altra avanguardia di forte influenza in questo settore è sicuramente il Surrealismo: la pratica dell’obsolescenza consiste nel recupero indiscriminato di elementi grafici dal passato visto come 10. Dick Higgins, A Child’s History of Fluxus in Horizons: The Poetics and Theory of the Intermedia, Southern Illinois University Press, Carbondale 1979.

opposizione alla contemporaneità. Maciunas compone con la moderna

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In the typographical design of these cards, subjective individuality oscillates between the allegorical adornment and trademark, between the utopian abatement of the artist’s exceptionality by the group Fluxus and the rule of the business culture that dismantles any form of subjective experience.11 The figure of Maciunas as typographer is very interesting, as he shows us a new possible way to see or better not to see, to cross the boundaries between arts. In the large production of communicative artefacts of the group Fluxus, there are many posters, postcards, stamps and a great deal of newspaper heads, short lived magazines of great experimentalism. In his graphic design, Maciunas used the same principles of casualness and entertainment that guided the group’s events or festivals, always with the purpose of liberating everyday life from the control and rational rules. In a posthumous interview of the curator Riamundas Malasaukas, thanks to the help of the medium David Magnus, Maciunas underlines the importance of the spectator’s participation also in artefacts like magazines. To a practical question on the publication layout that will include the interview, Maciunas through the voice of Magnus answers: Take not necessarily the usual approach, apparently, the more eclectic. Present what it is that you have to offer. […] Yeah! There is an enthusiasm that will be expressed to the reader. The reader will pick up on that energy. It may be symbols. Little, tiny little letters, you know, but inside, that is energy. Don’t be limited. Not to limit it, again, in short, not to limit it to any one particular thing right here, right now. Your doubts, your concerns, your fears, whatever. Leave a little bit more to the imagination. They’ll thank you for it. You don’t have to explain everything. It doesn’t have to be verbatim. Because you want the reader to be a part of the process, you don’t want to just inform them. You want them to be a participant, much like the audience is the participant of the theatrical experience. You just don’t tell them. You share with them. Kind of what is going on right now. 12

11. Foster Hal, Krauss Rosalind, Bois Yve-Alain, Buchloh Benjamin, Art since 1900.op. cit. 12. Life after life, an interview with George Maciunas by Raimundas Malasauskas featuring psychic medium David Magnus published in “Dot dot dot”, January 2007.


macchina Composer IBM i biglietti da visita personalizzati per ciascun artista Fluxus, utilizzando una varia gamma di caratteri tipografici moderni tra i quali spicca per contrasto una font ottocentesca da alcuni individuata nel Profil/Decorated 035. Anche in questo progetto la personalizzazione delle singole business-card sembra rispondere più all’individualismo degli artisti che al dissolvimento del culto della soggettività. Nel disegno tipografico di questi biglietti, l’individualità soggettiva oscilla tra l’ornamento allegorico e il marchio aziendale, tra l’abbattimento utopico da parte di Fluxus dell’eccezionalità dell’artista e la regola della cultura aziendale che smantella qualunque forma di esperienza soggettiva.11 È molto interessante la figura di Maciunas tipografo, in quanto ci mostra un possibile nuovo modo di vedere o meglio non vedere, valicare i confini tra arti. Nella grande produzione di artefatti comunicativi del gruppo Fluxus, ci sono molti poster, cartoline, francobolli e moltissime testate, riviste di breve durata ma di grande sperimentalismo. Nella progettazione grafica, Maciunas faceva uso degli stessi principi di casualità e gioco che guidavano gli eventi o i festival del gruppo, sempre con l’obiettivo di liberare la quotidianità dal controllo e dalla regola razionale. In un’intervista postuma del curatore Raimundas Malasauskas grazie all’aiuto del medium David Magnus, Maciunas sottolinea l’importanza della partecipazione dello spettatore anche in artefatti quali le riviste. Ad una domanda pratica sull’impaginazione della pubblicazione che conterrà l’intervista, Maciunas attraverso la voce di Magnus risponde: Non utilizzare il solito approccio, apparentemente il più eclettico. Presenta quello che hai da offrire. […] Deve essere espresso l’entusiasmo al lettore. Deve poter appropiarsi di questa energia. Potrebbe essere nei simboli. Piccole, minuscole lettere che contengono energia. Non limitarti. Per non limitarlo, in breve, a circoscrivere una determinata cosa, al qui e all’ora. I tuoi dubbi, le tue paure, le tue preoccupazione, qualsiasi cosa. Lascia qualcosa di più alla sua immaginazione, ti ringrazierà, non devi spiegargli tutto. Non deve essere tutto letterale. Perché te vuoi che il lettore sia parte del processo, non vuoi solo informarlo. Vuoi che sia partecipe, come l’audience di uno spettacolo teatrale. Non devi dire. Devi condividere. Un po’ quello che sta accadendo a noi tre.12 11. Foster Hal, Krauss Rosalind, Bois Yve-Alain, Buchloh Benjamin, Arte Dal 1900. op. cit. 12. Life after life, Intervista a George Maciunas di Raimundas Malasauskas con il medium David Magnus pubblicata in “Dot dot dot”, January 2007.

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The author is dead. Long live the author. Authorship in communication between expressivity and illegibility.

In the 1960s and the 1970s art succeeds in getting rid of the same definition of the discipline, opening itself to contamination and intervention in many other fields, from technology to graphic design. What is happening, in the same period, inside the world of graphic design? The Swiss school modernism, based on rational principles is going to be cleared by the wave of American expressionism called Post Modern and by the movements Punk, NewWave and Decostruction.1 Trust in communication potentialities based on rational and strict dogmas, does no longer find a place 1. Cfr. Dario Russo, Free Graphics. La grafica fuori dalle regole nell’era digitale, Lupetti Editore, Milano 2006.

in the reflexions of the late 60s, when, as said before, society starts


L’autore è morto. Viva l’autore. L’autorialità nella comunicazione, tra espressività e illeggibilità.

Gli anni sessanta e settanta portano l’arte alla liberazione della definizione stessa della disciplina, aprendosi alla contaminazione e all’intervento in numerosi nuovi campi, dalla tecnologia alla grafica. Nello stesso periodo cosa sta succedendo all’interno del mondo del graphic design? Il modernismo della Scuola Svizzera, che si basava su una progettualità razionale, sta per essere sdoganato dall’ondata di espressionismo americano definito Post Modern, e dai movimenti Punk, New Wave e Deconstruction.1 La fiducia nelle potenzialità di una comunicazione basata su razionali e rigidi dogmi, 1. Cfr. Dario Russo, Free Graphics. La grafica fuori dalle regole nell’era digitale, Lupetti Editore, Milano 2006.

non trova più una sua collocazione nelle riflessioni della fine degli anni

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speaking a new language. A simple communication based on grids, sans serif typography, formal simplification is not sufficient; the new designers don’t seem to remember the reason of the birth of ornament abjuration, they prefer to use new technologies to deglamourize design rational culture and to create a new one based on personal expression. But in the same period new branches of the discipline develop: together with sociologists, designers start studying corporate images, a complete coordination of business communication. We must not forget the introduction of digital press and most of all computer aided design that allow design and technologies to merge into a strong alliance.

The reflexion-question that has been more often faced since the1970s is that of authorship, this seems the only one to succeed in stimulating a literature in the field of graphic design together with that of legibility. Two different trends that communication design can use as argumentation to support its own disciplinary validity. Always considered as handmaid of architecture, design finds its achievement and a widespread international acknowledgement. The same reflexions on the nature of the author, stimulated by Roland Barthes’s text and later by those of Michel Foucault, lead visual communication to a response that is definitively opposed to the artistic one. [Barthes claims that the birth of the reader must be at the cost of the death of the author, while Foucault imagines a time when it will not be important to ask who the author is.] While in the artistic field we assist to the dematerialization of the work, to the death of the author and the birth of a new attention to the role of the spectator, graphic design chooses to invent a new language, to fill the void left by the artist, to become author. Designers try to open the text significance to various interpretations, by formulating one by themselves through the manipulation of the signifier, hoping to encourage the participation of the reader in his search of meaning. Often the obtained result differs from that of the first avant-garde experimentations, as it submits meaning to the signifier: we don’t have a reading on two levels but they overlap, creating a summation that does not permit any type of reading apart from the expressive one. When questioned about the problem of the message loss of meaning, that the exasperation of a personal expression can bring in visual communication, Andy Altmann, of Why Not Associated, asserts that the reader, in sharing the designer’s aesthetic pleasure, will compensate for any difficulty in 2. Cfr. Rick Poynor, The designer as author, “Blueprint”, May 1991.

deciphering the text.2


Sessanta, quando come abbiamo detto la società comincia a parlare un linguaggio nuovo. Non basta più una semplice comunicazione basata su griglie, tipografia sans serif, semplificazione formale; i nuovi designer sembra non ricordino più il perché della nascita all’abiura dell’ornamento, preferiscono utilizzare le nuove tecnologie per smitizzare una cultura razionale del design e crearne una nuova basata sull’espressione personale. Ma nello stesso periodo si sviluppano nuove ramificazioni della disciplina: insieme ai sociologi, i designer cominciano a studiare l’immagine coordinata, una completa coordinazione della comunicazione aziendale. Non bisogna dimenticare l’avvento della stampa digitale e soprattutto della progettazione attraverso i primi personal computer che portano il design e le tecnologie a fondersi in una forte alleanza.

La riflessione-questione che più spesso viene affrontata dagli anni settanta fino ad oggi, e sembra essere l’unica che è riuscita a stimolare una letteratura nel campo del design grafico, insieme a quella sulla leggibilità, è quella dell’autorialità. Due diverse tematiche che il design della comunicazione può utilizzare come argomentazioni per sostenere la propria validità disciplinare. Da sempre disciplina ritenuta ancella dell’architettura, trova una sua affermazione e un vasto riconoscimento internazionale. Le stesse riflessioni sulla natura dell’autore, stimolate dal testo di Roland Barthes e in seguito da quelli di Michel Foucault, portano la comunicazione visiva ad una risposta decisamente opposta a quella artistica. [Barthes sostiene che la nascita del lettore presupponga la morte dell’autore, mentre Foucault immagina un futuro in cui non sarà più importante domandarsi chi è l’autore del testo.] Mentre nel campo artistico assistiamo alla dematerializzazione dell’opera, alla morte dell’autore e alla nascita della nuova attenzione per il ruolo dello spettatore, il design grafico sceglie di inventare un nuovo linguaggio, di occuparsi lui stesso del vuoto lasciato dall’artista, di diventare autore. I designer cercano di aprire il significato del testo a molteplici interpretazioni, formulandone loro stessi una attraverso la manipolazione del significante, nella speranza di incoraggiare la partecipazione del lettore nella ricerca del senso. Spesso il risultato ottenuto differisce da quello delle prime sperimentazioni dell’avanguardia, in quanto sottomette il significato al significante: non c’è più una lettura a due piani, ma i piani vengono sovrapposti, creando una sommatoria che non permette più nessun tipo di lettura se non quella espressiva. Interrogato sulla problematica della perdita di significato del messaggio che l’esasperazione di un’espressività personale può portare nella comunicazione visiva, Andy Altmann, dello studio Why Not Associated, sostiene che il lettore nel condividere il piacere estetico del designer compenserà la fatica spesa nella decifrazione del testo.2

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We can see that from this point of view the rational principles that guided International Typographic Style (Emil Ruder asserts that form distracts from the message content) are not overcome but simply denied. As Michael Rock underlines perhaps after too many years as faceless facilitators, designers are ready to speak out, eager to discard the internal affairs of formalism and branch out in foreign affairs of external politics and content.3 Josef Müller-Brockmenn’s rationalist approach tries to include graphic design among scientific disciplines supporting a scientific-mathematical approach to discover an order and a form closer to a truth one cannot contradict; from this point of view the designer has to submit to the will of the system and to withhold interpretation. Also Jan Tschichold asserts that the artists of the book have to hide their personality and put themselves as humble servers and not as masters of the text: In the book the responsible designer’s highest duty is to get rid of ambition and express himself.4 It is evident that this approach does not correspond to visual design needs where rational capacities are necessary but inadequate if not supported by a certain intuitive sensibility that is very close to the artistic one. The graphic work can never be the product of a neutral process, the designer always brings something extra: from personal taste to cultural sensibility, from social and political beliefs to aesthetic preferences. The reaction of the movements of the 1970s, but most of all of the 1980s, is to assert the legitimation of an individualism that for too long had been denied to designers. The new wavers are the first design personalities whose names are famous outside the design field. Neville Brody plans every single aspect of his book, proposes himself as a new author, with his own personal style and language: this attitude underlines that the graphic designer is not a simple communication channel but he is constituent element of the message meaning and that the designer can be a star as the artist and the writer. Especially in the 80s the popstarism phenomenon in communication helps the discipline to emerge as such, independent from the others; at the same time it goes against the tide with respect to the tendency to open to the spectator that is growing in other disciplines. A large part of this authorial graphic design does not disjoin from commercial aspects, on the contrary it answers to the client’s requests to create a mundane communication, 3. Cfr. Michael Rock, The designer as author, in “Eye”, n. 20, Spring 1996. 4. Jan Tschichold, The Form of the Book, Hartley & Marks, Canada 1997.

a shouted and spectacular one. In the advertising field new strategies arise, in the show business where a product


Vediamo che in quest’ottica, i principi razionali che guidavano l’International Typographic Style (Emil Ruder asserisce che la forma distrae dal contenuto del messaggio) non vengono superati ma semplicemente negati. Come sottolinea Michael Rock forse dopo troppi anni di anonimato, i designer si sentono pronti a parlare, ansiosi di allontanarsi dal formalismo e poter invece interferire in campi esterni ricchi di politiche e contenuti.3 L’approccio razionalista di Josef Müller-Brockmann cerca di inserire il design grafico tra le discipline scientifiche sostenendo un approccio rigoroso e matematico per scoprire un ordine e una forma che si avvicinano ad una verità incontraddicibile; dal suo punto di vista il designer deve sottomettersi alla volontà del sistema e trattenersi dall’interpretazione. Anche Jan Tschichold sostiene che gli artisti del libro debbano celare la propria personalità e porsi come umili servitori, non come padroni del testo: Nel libro massimo dovere del progettista responsabile è quello di spogliarsi dell’ambizione di esprimere se stesso.4 È evidente come quest’approccio non risponda alle esigenze della progettazione visiva, dove le capacità razionali sono necessarie ma insufficienti se non unite e supportate da una certa sensibilità intuitiva che si avvicina molto a quella artistica. Il progetto grafico non potrà mai essere il prodotto di un processo neutrale, il designer ci porterà sempre qualcosa di extra: dal gusto personale alla sensibilità culturale, dai credo sociali e politici alle preferenze estetiche. La reazione dei movimenti degli anni settanta, ma soprattutto ottanta, è quella di affermare la legittimazione di un individualismo che per troppo tempo era stato negato ai designer. I new wavers sono le prime personalità del design i cui nomi sono riconosciuti al di fuori dal settore. Neville Brody progetta ogni singolo aspetto dei suoi libri, si propone come un nuovo autore, con un suo stile ed un suo linguaggio personale: quest’atteggiamento sottolinea come il design grafico non sia un semplice canale di comunicazione ma sia parte costituente del significato del messaggio, il designer può essere una star come l’artista o lo scrittore. Soprattutto negli anni ottanta il fenomeno del popstarism nella comunicazione aiuta la disciplina a emergere in quanto tale e indipendente dalle altre; allo stesso tempo però va controcorrente rispetto la tendenza di apertura allo spettatore che va sviluppandosi nelle altre 2. Cfr. Rick Poynor, The designer as author, “Blueprint”, May 1991. 3. Cfr. Michael Rock, The designer as author, in “Eye”, n. 20, Spring 1996. 4. Jan Tschichold, La forma del libro, Sylvestre Bonnard, Milano 2003.

discipline. Gran parte di questa grafica autoriale non si disgiunge dagli aspetti commerciali, anzi risponde ad una richiesta della committenza di creare

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is not sold for its quality but for its fetishist aura; raising one’s voice is of primary importance respect to the message content. The types designed by Jonathan Barnbrook do not respect any traditional code but only one of his personal expressive styles; this important and eclectic figure in the present graphic panorama, succeeded in publishing a book titled The Barnbrook Bible. Barnbrook’s activity is defined as revolutionary and agit-prop even if he is often included in the commercial area and his personal language becomes the peculiar voice of many big companies. Barnbrook himself solves this contradiction by seeing his work as that of a saboteur of the commercial message: it is of no importance that his jerky language is hiding an advert, there is no sense in reading it any more.5 Individualism that seemed to be defeated for a new interest in collectivity, is still operating but without a monopoly in the artistic sector: Barnbrook is a popstar in the graphic field from which he continuously tries to evade, looking for cooperation with musicians, David Bowie, for example, or artists like Damien Hirst. The artist he chooses to work with is the leading member of the YBA, Young British Artists who mirror the cool Britain of the 1990s. I seize the opportunity to briefly describe an artistic group who follows this individualistic, almost entrepreneurial and surely auto-referential theory, to underline that not all art has given up the sacrality of the author. Hirst, together with Gary Hume, Tracy Amin, Marc Quinn and many others creates a bohemian art, aimed at provoking, that wants to oppose the conceptual and minimal art of the previous years and that mirrors the conservative culture of the moment, whose spirit of freedom and life was based on money.6 These artists’ purpose is to amaze and amuse, but most of all to use provocation as an end in itself, or in the market. Their works, so incorrect, are not only on the lips of the critics and experts but most of all on those of ordinary people impressed by the hazard to place a shark in formaldehyde or to create a human head made in real blood, and here it is, they are transformed into celebrities. An art that makes the public react thanks to its spectacular aspect but that doesn’t stir up any reflexion.

Authorship then can have different readings and lead to very different results. When authorial freedom coincides with the need of achievement of a not yet acknowledged professionalism, 5. Cfr. Rick Poynor, The designer as author, art.cit. 6. Cfr. Gregor Muir, Lucky Kunst: The Rise and Fall of Young British Art, Aurum Press, London 2009.

without any purpose of communication, a basic feature of both graphic and artistic work will be lost.


una comunicazione mondana, urlata e spettacolare. Nel settore pubblicitario nascono nuove strategie, nella società dello spettacolo dove non è più la qualità a vendere un prodotto ma la sua aura feticcia, diventa di primaria importanza avere il tono di voce più alto, rispetto al contenuto del messaggio. I caratteri tipografici progettati da Jonathan Barnbrook, non rispettano alcun canone tradizionale ma solo un suo personale stile espressivo; questa eclettica ed importante figura del panorama grafico attuale è riuscita a pubblicare un testo intitolato The Barnbrook Bible. L’attività di Barnbrook viene definita rivoluzionaria e agit-prop nonostante spesso sia inserita in ambito commerciale ed il suo linguaggio personale divenga la singolare voce di numerose grandi aziende. Lo stesso Barnbrook risolve questa contraddizione, vedendo il proprio lavoro come quello di sabotatore del messaggio commerciale: non ha più nessuna importanza che il suo convulso linguaggio nasconda il messaggio pubblicitario, ormai non ha più senso sia letto.5 L’individualismo che sembrava essere stato sconfitto in nome di un nuovo interesse per la collettività, è ancora proliferante senza più però un monopolio del settore artistico: Barnbrook è un’esemplare popstar nel campo della grafica da cui cerca continuamente di evadere, mediante collaborazioni con musicisti per esempio David Bowie, o artisti come Damien Hirst. Non a caso l’artista con cui sceglie di collaborare è il massimo esponente degli YBAs, Young British Artists che rispecchiano la cool britain degli anni novanta. Colgo così l’occasione per descrivere brevemente uno gruppo artistico che segue questa teoria individualista quasi imprenditoriale e sicuramente autoreferenziale, per sottolineare il fatto che non tutta l’arte ha rinunciato alla sacralità dell’autore. Hirst insieme a Gary Hume, Tracy Amin, Marc Quinn e molti altri creano un’arte bohemian, mirata alla provocazione, che vuole opporsi all’arte concettuale e minimal degli anni precedenti e che rispecchia la cultura conservatrice del momento, il cui spirito di libertà e vita era basato sul denaro.6 L’obiettivo di questi artisti è quello di stupire divertendo, ma soprattutto di creare una provocazione fine a se stessa, o fine al mercato. Le loro opere così scorrette portano i loro nomi non solo sulle bocche di critici ed addetti al settore ma soprattutto tra la gente comune impressionata dall’azzardo di mettere uno squalo sotto formaldeide o di creare un calco di una testa umana in sangue vero, ed eccoli trasformati in celebrità. Un’arte che comunque porta il 5. Cfr. Rick Poynor, The designer as author, art.cit. 6. Cfr. Gregor Muir, Lucky Kunst: The Rise and Fall of Young British Art, Aurum Press, London 2009.

pubblico a reagire grazie al suo aspetto spettacolare ma che non fomenta alcuna riflessione.

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This can occur in some projects called ‘artist’s book’, where one often finds also a low visual quality and absence of any applications, not even narrative. One does not want to condemn the whole genre but only those who use this product typology as a shield to defend projects that have nothing to say or express but a personal satisfaction, as Poynor says, the private satisfaction of making random graphic marks.7 The experimental use Mark Z. Danielewski makes of the artist’s book is noteworthy indeed. The text House of Leaves joins an hazardous, non-linear narrative and an amazing graphic layout: it is exciting for the reader going through his book of more than six hundred pages, one has to turn it, interpret it, notice the type used, translate and decode it. Synopsis is almost impossible for the plot complexity, one could say it is a false second edition of Johnny Truant’s work, in the diary form but presented in a non chronological form. Danielewski stirs the reader to move, first physically and then with his thought, in reconstructing the story; he dictates the reading speed through the text layout, in closely typed pages or completely blank. Typography is crossed out, right or left aligned, upturned, upside down, proliferating or empty foot notes to fill in, in other languages and other alphabets, types climb the page in a surprisingly way. Literature, music, poetry and typographic composition alternate dismantling the figure of the author in thousand fragments, letting the reader, lost among hints, become a character. Visual form and literary content express one in the other all through the text, not hiding the author’s attention to their relationship. Danielewski is visual and verbal author in he same way, but at the same time he makes a book in which he deconstructs the figure of the author, opening to the reader’s interpretation without worrying.

Authorship as personal expression is completely opposed to that of the activist movement where the social message, even if always spontaneous and not commissioned, transmits a clear program. These projects have a voice of their own, a message, an intentionality that lacks the autoreferentiality typical of the artist’s book. Groups like Act up, General Idea and Gran Fury propose graphic artefacts that are in function of a widespread distribution, often with the purpose of sensitizing the public to social interest issues, first of all AIDS. It is interesting to see how these groups, whose first production often consists of posters and 7. Rick Poynor, Authorship in No More Rules. Graphic Design and Postmodernism, Laurence King Publishing, London 2003.

billboards, are often analysed not as reference personalities for visual


La stessa autorialità quindi può essere letta in chiavi differenti e può portare a risultati molto diversi tra loro. Quando la libertà autoriale coincide con la necessità di affermazione di una professionalità non riconosciuta, senza alcuna intenzione di comunicazione, si perderà una caratteristica fondante sia della grafica che dell’opera artistica. Questo può accadere in alcuni progetti che rientrano sotto il nome di libri d’artista, dove spesso è facile riscontrare anche una bassa qualità visuale e l’assenza di qualunque applicazione, anche solo narrativa. Non si vuole in nessun modo condannare il genere intero ma solo chi si fa scudo di questa tipologia di prodotto per difendere dei progetti che non hanno nulla da dire o da esprimere se non una personale soddisfazione, come dice Poynor, the private satisfaction of making random graphic marks.7 L’uso sperimentale che fa Mark Z. Danielewski del libro d’artista è invece degno di nota. Il testo House of Leaves unisce un’azzardata narrativa non lineare ad una impaginazione grafica sorprendente: scorrere le sue più di seicento pagine diventa un’emozione per il lettore, bisogna ruotarlo, interpretarlo, prestare attenzione al carattere usato, tradurlo e decrifrarlo. La sinossi è praticamente impossibile data la complessità della trama, potrebbe dirsi una finta seconda edizione dell’opera, diaristica ma presentata in forma non cronologica, di Johnny Truant. Danielewski spinge il lettore a muoversi, prima fisicamente e poi col pensiero, nel ricostruire la storia; detta velocità di lettura attraverso la disposizione del testo, in pagine fitte o completamente bianche. La tipografia compare barrata, a bandiera a destra, a sinistra, rovesciata, ribaltata; le note a piè di pagina a volte numerossissime altre volte vuote, da compliare, in altre lingue, altri alfabeti si arrampicano sulla pagina in modi sorprendenti. Letteratura, musica, poesia e composizione tipografica si alternano, decostruendo la figura dell’autore in mille frammenti lasciando il lettore perso tra gli indizi diventare personaggio. Forma visiva e contenuto letterario si esprimono l’uno nell’altro lungo la durata di tutto il testo, non nascondendo l’attenzione che l’autore ha portato alla loro relazione. Danielewski è autore verbale e visivo in egual modo, ma allo stesso tempo produce un testo in cui decostruisce la figura dell’autore, aprendo senza preoccupazioni all’interpretazione del lettore. L’ autorialità come espressione personale è in completa opposizione a quella del movimento attivista, dove il messaggio sociale seppure sempre spontaneo e non commissionato, veicola un chiaro programma. Questi progetti hanno 7. Rick Poynor, Authorship in No More Rules. Graphic Design and Postmodernism, Laurence King Publishing, London 2003.

una loro voce, un loro messaggio, una loro intenzionalità che manca

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communication but are instead in an artistic current only for the fact that they do not belong to a commercial channel. [Part of the success of authorship in design wants to discredit the link, undisputed up to now, between visual communication and the commercial sector.] Aids crisis, Vietnam war protest, the threat of nuclear war, the German Wall, the sum of all these issues gives rise to a political and social activism that responds to the need of informing people and making them react. Act up, Aids Coalition to Unleash Power, undertakes a direct action to face the fast growing diffusion of Aids and it incorporates different groups, the most active of which, as for graphic production, is certainly Gran Fury. One of the first posters of the group consists of white typography on a black background, Silence = Death and a pink triangle, in memory of the gays deported in the concentration camps. These posters are created to inform the population about the increasing problem, to replace the absent government campaigns and those of the pharmaceutical companies that undervalue the problem for easy personal profit. The graphic design reminds that of 1968, born in the universities, often lithographed or photocopied, the colours used are few, the typography always sans serif and tones alternate between goliardic and dramatic. In another example a blood handprint on a white background is only accompanied by the black typography One Aids death every half hour. The group General Idea designs a poster that will be put up on all the subways of New York by Public Art Found, inspired by the revision of the famous Love Sculpture by Robert Indiana, in Manhattan: the simple substitution of the word love with aids, always in red Egyptian font but on a blue and green background, speaks about the lack of attention for the epidemic and of the metropolis itself. These projects, aimed at drawing the readers’ attention, the passersby, highlight an issue whose undervaluation has caused a worldwide diffusion. They also give social visibility to the gay community that is already developing its own identity. The authorship of these projects is plural, it is born from the collective work of a group of artists, this feature seems to clash with the meaning of the term authorship. The same problem occurs in the work of many English studios such as Tomato or Fuel.

Ellen Lupton and Abbot Miller are surely authorial, the first to act in support of the importance of writing for graphic designers, not to replace the figure of the writer, but as an instrument to improve their profession. They both cooperate for the achievement of the figure of design critic, they write


dell’autoreferenzialità caratteristica del libro d’artista. Gruppi quali Act up, General Idea e Gran Fury propongono degli artefatti grafici che nascono in funzione di un’ampia distribuzione, spesso con l’obiettivo di sensibilizzare il grande pubblico a delle problematiche di interesse sociale, prima fra tutti la questione AIDS. È interessante vedere come spesso questi gruppi la cui prima produzione è spesso quella di manifesti e billboard, non vengano analizzati come personalità di riferimento per la comunicazione visiva ma vengano fatti rientrare in una corrente artistica solo per il loro non appartenere ad un canale commerciale. [Parte del successo dell’autorialità nel design vuole sfatare questo legame finora indiscusso tra comunicazione visiva e settore commerciale.] La crisi dell’Aids, la contestazione della guerra in Vietnam, la minaccia della bomba nucleare, la divisione della Germania del Muro, la sommatoria di tutte queste problematiche fa nascere un attivismo politico e sociale che risponde alla necessità di informare e muovere le popolazioni a una reazione. Act-up, Aids Coalition to Unleash Power, intraprende un’azione diretta per far fronte alla veloce e crescente diffusione dell’Aids e ingloba dentro se diversi gruppi, di cui il più attivo in quanto a produzione grafica è sicuramente Gran Fury. Uno dei primi manifesti del collettivo si presenta come una tipografia bianca su fondo nero, Silence = Death ed un triangolo rosa, in memoria dei deportati gay dei campi di concentramento. Questi manifesti nascono dalla primaria esigenza di informare la popolazione del problema crescente, sostituendo le campagne governative assenti e quelle delle case farmaceutiche che sminuiscono la problematica per facili tornaconti personali. La grafica ricorda quella sessantottina nata nelle università, spesso litografata o fotocopiata, i colori usati sono pochi, la tipografia sempre bastone e i toni si alternano tra il goliardico e il drammatico. In un altro esempio l’impronta di una mano insanguinata su fondo bianco è accompagnata solo dalla tipografia nera One Aids death every half hour. Il gruppo General Idea progetta un manifesto che verrà affisso in tutte le metropolitane newyorchesi dal Public Art Found, che nasce dalla rielaborazione della famosa Love Sculpture di Robert Indiana, a Manhattan: la semplice sostituzione della parola love con aids, sempre in una font egiziana rossa ma su fondo blu e verde, parla dell’attenzione che manca per la malattia e della metropoli stessa. Sono progetti mirati ad attirare l’attenzione del lettore, del passante, mettono sotto gli occhi di tutti una problematica la cui sottovalutazione ha portato ad una diffusione a scala mondiale. Portano anche visibilità sociale alla comunità gay che sta sviluppando una propria identità. L’autorialità di questi progetti è plurale, nasce dal lavoro collettivo di un gruppo di artisti, proprio questa caratteristica sembra scontrarsi con il significato dello stesso

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for various magazines as Emigre, Eye and Print, they follow the publication of many texts as curators and art directors. Bruce Mau is another exponent of this authorial design current, he asserts that a new approach is necessary in design: collaboration between the client and the designer could enrich both simultaneously. However he does not know whether this means the death of design or the achievement of the designer-author or author-designer or all these three hypothesis at the same time. His authorship is not only putting aesthetic choices before content, but he is interested in a collaboration with other figures working in the visual message production of meaning: Mau works with clients that involve him in projects when they are first conceived, not only in the final part of visual translation of content, but since the beginning. If authorship has been an important element for the achievement of the graphic design as an autonomous discipline, now the moment has come to move beyond, to open to collaboration with other professional figures and then share authorship with the public. As an alternative to the figure of the design as author, Ellen Lupton proposes that of the designer as ‘producer’, the one Mau has followed in his career. In this model the designer finds opportunities to keep the technological means of production under control and share this control with the reading public: Lupton compares the designer to a producer who puts together the different figures’ abilities in a project whose authorship is shared. Giovanni Anceschi’s theory of film directing is not far from this vision: the designer must be able to lead the user, must plan an event capable to stimulate all sensorial registers.8 Also Robert Massin loves putting side by side the mise en page with the mise en scene: If we want to consider the page of a book as a scenic place, then, let’s go to the theatre: we have reached the third dimension; it is more a question of volumes than of surfaces; but we have to think that spatial problems here will find solutions not far from those within the graphic designer’s reach.[...] If, in this work, I wanted to go out of the narrow frame of the book to assimilate the mise en page with the mise en espace, and if, at the same time, I made of the graphic designer an architect, a set designer, a film director, a composer, it is because, in my opinion, there are no boundaries between these different disciplines, and those who practise them, must constantly be listening to the world, if they are interested in changing their procedures, and 8. Giovanni Anceschi, Il campo della sinestesia: conduttori e commutatori, in “Il Verri”, n. 27, febbraio 2005.

take advantage of every change to enrich their creations.[...]


termine autoriale. Lo stesso problema avviene anche nel lavoro di molti studi inglesi quali Tomato o Fuel. Autoriali sono sicuramente Ellen Lupton e Abbott Miller, i primi che hanno speso energia nel sostenere l’importanza della scrittura per i designer grafici, non affinché si sostituiscano alla figura dello scrittore, quanto come strumento per diventare migliori nella propria professione. Entrambe collaborano all’affermazione della figura del critico del design, scrivono per numerose testate quali Emigre, Eye, e Print, come curatori di esposizione e come direttori artistici seguono la pubblicazione di molti testi. Bruce Mau è un altro esponente di questa corrente autoriale del design, sostiene un nuovo approccio sia necessario nella progettazione: la collaborazione allo stesso livello tra committenza e designer arricchirebbe entrambe simultaneamente. Non sa però se questa nuova via porterà alla morte del design o all’affermazione del designer-autore o dell’autore-designer o a tutte e tre queste ipotesi contemporaneamente. La sua autorialità non si esaurisce nell’anteporre le scelte estetiche a quelle di contenuto, ma si interessa ad una collaborazione con le altre figure che si occupano della produzione di significato del messaggio visivo: Mau lavora con dei clienti che lo coinvolgono in un progetto nel momento stesso del suo concepimento, non solamente nella parte finale di traduzione visiva del contenuto, ma dalla fase iniziale di produzione del senso. Se l’autorialità è stata un elemento importante per l’affermarsi del graphic design come disciplina autonoma, ora è arrivato il momento di muoversi oltre, di aprirsi alla collaborazione con le altre figure professionali e successivamente di condividere l’autorialità con il pubblico stesso. In alternativa alla figura di designer come autore, Ellen Lupton propone quella di design come producer, la stessa che ha seguito Mau nel suo percorso. In questo modello il designer trova l’opportunità di tenere sotto controllo il mezzo tecnologico di produzione e condivide questo controllo con il pubblico stesso: la Lupton mette a confronto il designer con il produttore cinematografico che mette insieme le abilità delle diverse figure in un unico progetto la cui autorialità è condivisa. La teoria della registica di Giovanni Anceschi non si allontana molto da questa visione: il designer deve saper attribuire una forma alla scena, deve saper condurre l’utilizzatore, deve pianificare l’evento che sappia stimolare tutti i registri sensoriali.8 Anche Robert Massin ama avvicinare la mise en page con la mise en scène: Se vogliamo considerare la pagina di un libro come un luogo scenico, allora trasportiamoci nella platea di un teatro: abbiamo ottenuto la terza dimensione; 8. Giovanni Anceschi, Il campo della sinestesia: conduttori e commutatori, in “Il Verri”, n. 27, febbraio 2005.

è più una questione di volumi che di superfici; ma bisogna pensare che i

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Undoubtedly we have to surprise the reader with what he expects; but we can also shock him.9 After having established as discipline, graphic design can at last open to the others: the problem of architecture leadership is all Italian, it seems that in our country the evolution of the disciplinary hierarchy did not occur. Since the 1960s thanks to schools such as Bauhaus first and the Ulm school later, architecture supremacy on the other applied arts has left room to an equal interest for all of them, from urbanism to graphic design, from industrial design to interior design equal to art and architecture. The claim of autonomy of these so called minor arts allows a higher professionalization of the single figures. Article 4 of the Carta del progetto grafico dell’Aiap, Italian Association of design and visual communication, states: As in the 1930s one perceived that architecture had a leading role among design disciplines, and in the 1960s industrial design assumed a role of conceptual coordination, in the transition from production to consumption, in the 1990s it is graphic design to hold a strategic position inside design culture. Nowadays we assist to a new overturning: interdisciplinary boundaries are not so clear, they blur, interpenetrate, exchange methodologies, materials and knowledge.10 The new challenge for visual communication language is to embrace a multiplicity of methods, artistic and commercial, individual and collective. As Michael Rock asserts: While theories of graphic authorship may change the way work is made, the primary concern of both the viewer and the critic will be always directed to its content and communicative potential.11

9. Robert Massin, La mise en pages, HoĂŤbeke, Dijon 1991. 10. Cfr. Giovanni Anceschi, Confini: design e arte in AA. VV., catalogue of the exhibition Made in IUAV, 14 settembre - 2 novembre 2008, XI Biennale di architettura, Arsenale Novissimo, Dindi Editore, Udine 2008. 11. Cfr. Michael Rock, The designer as author, art. cit.


problemi spaziali qui troveranno delle soluzioni non lontane da quelle alla portata del grafico. […] Se, in quest’opera, sono voluto uscire dallo stretto quadro del libro per assimilare la mise en page con la mise en espace, e se, allo stesso tempo, ho fatto del grafico un architetto, uno scenografo, un regista, un compositore, è perché, secondo me, non esistono frontiere tra queste differenti discipline, e coloro che le praticano, devono tenersi costantemente all’ascolto del mondo, nell’interesse di cambiare le loro procedure, e di approfittare di ogni cambiamento per arricchire le loro creazioni.[…] Senza dubbio bisogna sorprendere il lettore con quello che si aspetta; ma si può anche scioccarlo.9 Dopo essersi affermata come disciplina, il design grafico può finalmente aprirsi alle altre: il problema della leadership del modello architettettonico è tutto italiano, nel nostro paese sembra che l’evoluzione della gerarchia disciplinare non sia avvenuta. Dagli anni sessanta in poi, grazie a scuole quali il Bauhaus prima e la scuola di Ulm in seguito, il primato dell’architettura sulle altre arti applicate ha lasciato posto ad un interesse paritario per tutte queste dall’urbanistica alla grafica, dal design del prodotto a quello degli interni uguagliate a arte e architettura. La rivendicazione dell’autonomia di queste arti finora definite minori permette una maggiore professionalizzazione delle singole figure. L’articolo quattro della Carta del progetto grafico dell’Aiap, Associazione italiana progettazione per la comunicazione visiva, afferma: Come negli anni Trenta si avvertiva quello dell’architettura come ruolo guida delle discipline del progetto, e negli anni Sessanta, nella transizione della produzione al consumo, il design industriale assumeva un ruolo di coordinamento concettuale, negli anni Novanta è il progetto grafico a collocarsi in posizione strategica dentro la cultura del progetto. Nel contemporaneo assistiamo ad un nuovo ribaltamento dei piani: i confini interdisciplinari non sono più netti, ma si sfumano, si compenetrano, si scambiano metodologie, materiali e conoscenze.10 La nuova sfida per il linguaggio della comunicazione visiva è quella di abbracciare una molteciplità di metodi, artistici e commericiali, individuali e collettivi. Come sostiene Micheal Rock: mentre le teorie dell’autorialità grafica influenzano il 9. Robert Massin, La mise en pages, Hoëbeke, Dijon 1991. 10. Cfr. Giovanni Anceschi, Confini: design e arte in AA. VV., catalogo dell’esposizione Made in IUAV, 14 settembre - 2 novembre 2008, XI Biennale di architettura, Arsenale Novissimo, Dindi Editore, Udine 2008. 11. Cfr. Michael Rock, The designer as author, art. cit.

modo in cui il progetto è realizzato, l’attenzione primaria sia del lettore che del critico sarà sempre rivolta al suo contenuto e al suo potenziale comunicativo.11

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Designed relations Interdisciplinary instruments for possible relational aesthetics in communication.

Since the beginning of the twentieth century, graphic design has created a language, has achieved professional authority, has ventured to overlap with other disciplines and allowed other disciplines to model its development. A special link between visual communication and visual art has always existed: if we look at visual art as a form of expression of society values, it is easy to understand its influence on the language the designer has to create to speak to the public at large, a revision of that of everyday life, that art tries to capture in its forms. The intrinsic link between the two disciplines is particularly evident in this period: many are the personalities whose work can be placed in an intermediate


Relazioni progettate Strumenti interdisciplinari per una possibile estetica relazionale nella comunicazione.

Dai primi del Novecento ad oggi, il design grafico ha creato un linguaggio, ha affermato l’autorevolezza della professione, si è permesso di sconfinare nelle altre discipline e ha permesso alle altre discipline di modellarne gli sviluppi. Un legame speciale è quello che è sempre esistito tra comunicazioni visive e arte visiva: se vediamo l’arte visiva come una forma di espressione dei valori della società è facile capire la sua influenza sul linguaggio che il designer deve creare per parlare al grande pubblico, una rielaborazione di quello della vita quotidiana che l’arte cerca di catturare nelle sue forme. L’intrinseco legame tra le due discipline in questo momento storico è particolarmente evidente: sono svariate le personalità la cui opera si situa in un campo intermedio

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field between art and graphic design. The mistake often made is trying to give borders, to define the two subjects, forgetting the interest in the work content and its communicative and social power. After all, the raw material used by the artist and the designer is the same and also the role society gives them today is similar: director, producer, stage designer, composer, programmer and we could add also DJ, called to organize, remix, give new function to existing cultural forms in new contents. Art in its development, started to move slowly, at first only in the spectator’s retina, then by means of small motors, sometimes only moved by wind gaining more and more speed until it left the galleries as in Daniel Buren’s white and green striped paintings, invaded towns as in Nouveau Realism’s experiments, until it created experiences involving all the spectator’s five senses. Gruppo T’s environments, GRAV’s experiments, Debord’s films but also Duchamp’s first ready made do not mean anything without the presence of the spectator. Today Marina Abramovic and Vanessa Beecroft’s performances, Rikrit Tiravanija’ dinners, Pierre Huyghe’s billboards, Sophie Calle’s projects do not live without the relationship with the spectator, but they also add something more: the relationship between the work and the space it takes and most of all the relations that will be established among the public. Relational art takes the last step towards the spectator. The spectator’s participation, theorized by happenings and performances, has become a constant of artistic practice: perhaps it is better to say that the relation between work and spectator is what makes an object a work of art, as Duchamp says ce sont les regardeurs qui font les tableaux. Nicholas Bourriaud in his essay Estetique relationelle, is the first to define this new trend in contemporary art: After its control over the relationships between humanity and divinity, and afterwards between humanity and the object, art concentrates on the sphere of interpersonal relationships, as the first works that have been produced since the early 1990s testify.1 The artist concentrates on the relationships his work will create with the public, or on the invention of models of society. Relational works welcome the attempt to establish intersubjective social gatherings, a new communication, outside consumption areas (bars, coffee houses, shops, etc.). Bourriaud believes that the widespread use of new communication technologies such as social networks is an answer to the growing need to find Nicolas Bourriaud,Relational Aesthetics, Les presses du réel, Paris 2002.

new spaces of conviviality: but what


tra arte e design grafico. L’errore che viene spesso compiuto è quello di perdersi nel cercare di confinare e definire le due materie, dimenticando invece l’interesse per il contenuto dei lavori, la loro forza comunicativa e sociale. In fondo la materia prima con cui opera l’artista e il designer è la stessa, e simile è anche il ruolo che oggi la società gli propone di occupare: regista, produttore, scenografo, compositore, programmatore e potremmo dire anche DJ, chiamato ad organizzare, remixare, rifunzionalizzare forme culturali esistenti in nuovi contenuti. L’arte nel suo percorso, ha cominciato a muoversi lentamente, prima solo nella retina dello spettatore, poi con piccoli motori, a volte solo col vento prendendo sempre più velocità, fino ad uscire dalla gallerie come nelle tele a strisce verde bianco di Daniel Buren, invadere le città come negli esperimenti del Nuoveau Realisme, fino a creare dell’esperienze che involvono tutti i cinque sensi dello spettatore. Gli ambienti del Gruppo T, gli esperimenti di GRAV, i film di Debord ma anche i primi ready made di Duchamp non hanno significato senza la presenza dello spettatore. Oggi le performance di Marina Abramovic e Vanessa Beecroft, le cene di Rirkrit Tiravanija, i billboard di Pierre Huyghe, i progetti di Sophie Calle non vivono senza la relazione con lo spettatore, ma aggiungono anche qualcosa di più: la relazione tra l’opera e lo spazio che occupa e soprattutto le relazioni che si instaureranno tra il pubblico. L’arte relazionale compie l’ultimo passo verso lo spettatore. La partecipazione dello spettatore, teorizzata dagli happening e dalle performance è diventata una costante della pratica artistica: forse è meglio dire che è la relazione tra opera e spettatore ciò che rende un oggetto opera, come dice Duchamp ce sont les regardeurs qui font les tableaux. Nicolas Bourriaud è il primo a definire questa nuova tendenza dell’arte contemporanea nel suo saggio Estetique relationelle: Dopo il dominio delle relazioni tra l’umanità e la divinità, e poi tra l’umanità e l’oggetto, l’arte si concentra sulla sfera delle relazioni interpersonali, come testimoniano le pratiche artistiche prodotte dai primi anni novanta.1 L’artista si concentra sulle relazioni che il suo lavoro creerà con il pubblico, o sull’invenzione di modelli di socialità. Le opere relazionali accolgono il tentativo di stabilire incontri intersoggettivi, una nuova comunicazione, al di fuori dallo spazio di consumo (bar, caffé, negozi etc.). Bourriaud crede che la diffusione di utilizzo di nuove tecnologie di comunicazione quali i social network sia una risposta alla crescente necessità di trovare nuovi spazi di convivialità: ma quello che questi mezzi possono fornire è solo l’illusione della 1. Nicolas Bourriaud, Estetique relationelle, Les presses du réel, Paris 1998.

comunicazione, la trasformazione della

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these means can offer is only the illusion of communication, the transformation of the society of the spectacle into a society of figurants. In an article titled The false myth of electronic democracy,2 Edmomdo Berselli brings the phenomenon of televoting to our attention: one of the simplest forms of participation that characterizes our times. Despite being a communication mechanism that may seem old fashioned, in fact it reminds us a world in black and white and curled telephone wires, it is widely used today thanks also to the possibility to vote via sms and Internet; the 1,900,000 voters for the final of the programme Amici, gives us an idea of the phenomenon. It should be clear that these are techniques to fill in the wide open void in the public space, to tear down political anxiety and also to look for an opportunity of vicarious participation: something similar to joining a discussion group on Facebook, it doesn’t matter if they are admirers of the fiction about De Vittorio or thoughtful lovers of Nero di Avola. What matters is saying something about oneself, adhering, but also sabotaging; being for or against, anyway being there and being visible.2 The great danger of illusory participation arises in a society that has transformed the everyday, everyday life into a prime-time show: the revaluation of life in its meanest aspects, Debord and Fluxus and a large part of the art of the 1960s had hoped, has turned into a show of the everyday, leaving the spectator passively on the sofa. The problem is no more that of defining art boundaries but to experiment art resistance ability inside the global social field. Bourriaud underlines that while in the past art linguistic developments focused on the relationship inside the artistic field, today what matters are the relationships outside it, in an eclectic culture where the work has to resist show business. The strength of relational aesthetic art is that it does not want to predict utopian changes, that can lead to easy disillusions, but to create daily micro-utopias: the criticism of society has proved vain because it has been absorbed and revised by society itself. With small revolutions in the everyday, mimetic but feasible, ordinary actions, art tries to reconstruct the texture of relations. These artists’ works stake the modes of social exchange. Most of the works of the 1980s focuses on the relationship with the media, experiments new languages and new channels, one example is Jenny Holzer’s work included in neon sign advertisements, with some incisive sentences such as Protect me from what I want, part of the Survival Series. Relational art looks 2. Edmondo Berselli, Il falso mito della democrazia elettronica, in “La Repubblica”, 24 marzo 2009.

for new communication outside the media, produces relational time-


società dello spettacolo in società di figuranti. In un articolo intitolato Il falso mito della democrazia elettronica, Edmondo Berselli ci porta all’attenzione il fenomeno del televoto: una delle più semplici forme di partecipazione che caratterizzano i nostri tempi. Nonostante sia un meccanismo di comunicazione che può sembrare antiquato, ci ricorda infatti un mondo ancora in bianco e nero e il telefono dal filo arricciato, è oggi ancora altamente utilizzato anche grazie alla possibilità del voto via sms e via Internet; parlano chiaro i numeri che vedono 1 900 000 persone votare per la finale del programma televisivo Amici. Dovrebbe risultare chiaro che alla fine si tratta di tecniche per colmare il vuoto spalancatosi nello spazio pubblico, per abbattere l’ansia politica, e anche per cercare un’opportunità di partecipazione vicaria: qualcosa di simile all’iscriversi a un gruppo di discussione su Facebook, non importa se di adoratori della fiction su Di Vittorio o di pensosi cultori del Nero di Avola. Quel che conta è dichiarare qualcosa di sé, aderire, ma anche sabotare, dichiararsi pro o contro, comunque esserci e farsi vedere.2 Il grande pericolo della partecipazione illusoria è nato in una società che è riuscita a trasformare il quotidiano, la vita di tutti i giorni, in uno spettacolo di prima serata: la rivalutazione della vita nei suoi aspetti più miseri, che aveva auspicato Debord insieme a Fluxus e gran parte dell’arte degli anni sessanta si è trasformata in spettacolarizzazione del quotidiano, lasciando lo spettatore passivo sul divano. Il problema non è più quello di definire i confini dell’arte, ma di sperimentare le capacità di resistenza dell’arte all’interno del campo sociale globale. Bourriaud sottolinea che mentre in passato gli sviluppi linguistici dell’arte ponevano l’accento sulle relazioni interne al campo artistico, oggi importanti sono le relazioni esterne, in una cultura eclettica dove l’opera deve fare resistenza alla società dello spettacolo. La forza dell’arte relazionale vuole essere quella di non predire utopici cambiamenti, che porterebbero a facili disillusioni, ma di creare delle micro-utopie quotidiane: la critica diretta alla società si è dimostrata vana in quanto è stata riassorbita e rielaborata dalla società stessa. Con delle piccole rivoluzioni nel quotidiano, mimetiche ma realizzabili, dei piccoli gesti, l’arte cerca di ritessere il tessuto delle relazioni. Le opere di questi artisti mettono in gioco i modi dello scambio sociale. La maggior parte delle opere degli anni ottanta si focalizza sul rapporto con i media, sperimentano nuovi linguaggi e nuovi canali, ne è esempio l’opera Jenny Holzer che si inserisce nei dispositivi pubblicitari delle insegne luminose, con delle frasi incisive quali Protect me from what I want, parte 2. Edmondo Berselli, Il falso mito della democrazia elettronica, in “La Repubblica”, 24 marzo 2009.

delle Survival Series. L’arte relazionale cerca una comunicazione al di fuori

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spaces, experiences that try to get rid of the constraints of mass communication ideology. In the American pavillion of the last Biennale in Venice, the floor of a small room is completely covered with little candies wrapped in the classic golden shiny paper: a carpet of bon bons. Visitors look at each other in amazement and are bewildered when someone picks them up, unwraps them, without any reproach from the guard: is one allowed to eat the work? In this installation the spectator is responsible for the work dissolution: Feliz Gonzales Torres tells us a reality, the work dematerialization and underlines the central position the spectator has now acquired in the work of art. His Candy pieces are steeped in reflexions about man’s social behaviour: fetishism, possession desire, accumulation, transgression. The experience offered by this work is strictly connected to the museum context, to the museum guard’s presence, and most of all to the presence of the other spectators. The artist himself, in an interview of Maurizio Cattelan, recognizes its importance: For most of the work I do, I need the public to become responsible and activate the work. Otherwise it’s just a formalist exercise.3 He goes on defining the role his work wants to have inside society also explaining why his first refusal to take part in Biennale changed: At this point I don’t wont to be outside the structure of power, I don’t want to be the opposition, the alternative. Alternative to what, to power? No, I want to have power. It’s effective in terms of chance. I want to be like a virus that belongs to the institution.4 His only possibility is to include his work in the capitalistic process so as to exploit its reproduction speed, and to stay within society, the only place where change can take place. Relational art is basically democratic: it is interested in the everyday, in the sense of not going beyond everyday worries, it confronts us with reality through fiction, the peculiarity of the world representation. As Bourriaud writes these works choose a formula that does not establish a priori a presence of the artist over the spectator but negotiate with him open relations, permeated by chance, not solved. The public then lies between the state of a passive consumer and that of witness, client, guest, coproducer until he becomes protagonist. The artist tries to create modus vivendi that allow fairer social relationships, 3. Félix Gonzalez-Torres, interview by Maurizio Cattellan in “Mousse”, n. 9, june - august 2007.

more intense, more fruitful relations.

4. Ibid.

Bourriaud doesn’t think his theory

It’s important to emphasize that


dai media, produce degli spazi-tempo relazionali, delle esperienze che cercano di liberarsi dalle costrizioni dell’ideologia della comunicazione di massa. Nel padiglione americano dell’ultima Biennale di Venezia, il pavimento di una piccola stanza è completamente ricoperto di piccole caramelle ricoperte dalla classica carta dorata e luccicante: un tappeto di bon bon. I visitatori si guardano con aria stupita e rimangono interdetti nel notare che alcuni di loro le stanno raccogliendo e scartando, senza alcun rimprovero del guardiasale: si può mangiare l’opera? In questa installazione lo spettatore è responsabile della dissoluzione dell’opera: Félix Gonzalez-Torres racconta una realtà, quella della dematerializzazione dell’opera e sottolinea il posto centrale che lo spettatore ha ormai acquistato nell’opera d’arte. I suoi Candy pieces sono intrisi di una riflessione sui comportamenti sociali dell’uomo: il feticismo, il desiderio di possesso, di accumulazione, la trasgressione all’autorità. L’esperienza che quest’opera offre è strettamente legata al contesto museale, alla presenza del guardiasale, e soprattutto dalla presenza degli altri spettatori. Lo stesso artista intervistato da Maurizio Cattellan ne riconosce l’importanza: Il mio lavoro richiede che il pubblico si assuma delle responsabilità e che attivi l’opera. Se questo non succedere per me il tutto si riduce ad un esercizio di stile.3 Prosegue poi definendo il ruolo che la sua opera vuole avere all’interno della società, spiegando anche il perché il suo primo rifiuto all’invito si partecipare alla Biennale sia cambiato: A questo punto non mi interessa più rimanere fuori dalle strutture del potere, non voglio essere l’opposizione, l’alternativa. L’alternativa a cosa poi? Al potere? No, anch’io voglio il potere. Serve averlo se quello che vuoi davvero è il cambiamento. Io voglio essere come un virus all’interno del sistema.4 Vede appunto come unica possibilità quella di inserire la sua opera nel processo capitalistico di modo da sfruttarne la velocità di riproduzione e da rimanere interno alla società, l’unico posto dove il cambiamento può avere inizio. L’arte relazionale è fondamentalmente democratica: si interessa del quotidiano nel senso di non trascenderne le preoccupazioni della vita di tutti i giorni, ci mette a confronto con la realtà attraverso la finzione, la singolarità della rappresentazione del mondo. Come scrive Bourriaud queste opere scelgono una formula che non stabilisce nessuna presenza a priori dell’artista sullo spettatore, ma negoziano 3. Félix Gonzalez-Torres, intervista di Maurizio Cattellan in “Mousse”, n. 9, giugno - agosto 2007.

con lui dei rapporti aperti, permeati

4. Ibid.

pubblico allora oscilla tra lo statuto di

dal caso, non risolti in partenza. Il

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can be applied only to art. He thinks it is a cultural trend peculiar to our period; virtual relations and globalization have produced this need to go back to face to face communication, as, at the same time, a do-it-yourself culture is born in the attempt to revaluate a relationship with the artefact. The research field is human relationships but also a revision of the relation with the object not the consumption object, and with local environment, in contrast with the levelling due to globalization.

This theme has brought some interesting debates also in the field of visual communication. In an article on the magazine Eye in 2006 Monika Parrinder and Colin Davies are the first who investigate relational aesthetics by analysing some visual communication and design works, with various examples. The experimental aspect of these projects is not of formal interest but social, a social interest different from that typical of social design or production about political activism. The designer is not the starting or ending point of a finished product but he is a semionaut who connects different spaces, times and narrations, creating their interrelations. Parrinder and Davies assert that the reflexion induced by relational aesthetics can be seen as an approach of the communication world to the immediate effects it has on the real world.5 Andrew Blauvelt is another design critic who has drawn attention on the production of participative and relational artefacts in graphic design. In his recent article published on Design Observer, Towards relational design, without referring to Bourriaud’s text he elaborates a vision that divides design in three main eras.6 The first, the ism phase, from the early 20th century to the 1960s, is a search for a specific discipline language and follows the principles of rationality, simplification and universality; the second phase, from the 1960s to the early 1990s is a period of exploration of design potentiality, it brings about the authorship issues and fills the form created in the first phase of contents. The third phase described by Blauvelt is the contemporary era, that of rationallybased and contextually-specific design. This new practice based on rational design includes performative, pragmatic, process-oriented and participatory elements. In the parlance of semiotics one passed from a first syntactic design to a 5. Cfr. Monika Parrinder, Colin Davies, Nicolas Bourriaud’s concept of ‘relational aesthetics’ may give designers a new set of tools in “Eye” n. 59, Spring 2006. 6. Cfr. Andrew Blauvelt, Towards relational design, in “Design Observer”, December 2008.

semantic one and finally to pragmatic design. Blauvelt, as Rick Poynor pointed out, makes a mistake in not quoting


consumatore passivo a quello di testimone, di cliente, di invitato, di coproduttore, fino a essere protagonista. L’artista si occupa quindi di creare dei modus vivendi che permettano l’instaurarsi di rapporti sociali più giusti, modi di vivere più intensi, delle relazioni più feconde. È importante sottolineare che Bourriaud non vede la sua teoria applicabile solo al campo artistico. Egli crede che sia una tendenza culturale propria di questo momento storico; le relazioni virtuali e il fenomeno di globalizzazione hanno prodotto questa necessità di ritornare ad un sistema di comunicazione faccia a faccia tra persone, come allo stesso tempo è nata la cultura del do it yourself, nel tentativo di recuperare anche un rapporto con l’oggetto prodotto. Il campo di ricerca è quello delle relazioni tra esseri umani, ma anche una riscoperta del rapporto con l’oggetto d’uso, non semplicemente di consumo, e con l’ambiente locale, in contrapposizione all’appiattimento dovuto alla globalizzazione.

Questa tematica ha portato qualche interessante discussione anche nel campo della comunicazione visiva. Monika Parrinder e Colin Davies sono i primi che indagano l’estetica relazionale analizzando delle opere di comunicazione visiva e design, portando numerosi esempi progettuali, in un articolo pubblicato sulla rivista Eye nel 2006. L’aspetto sperimentale che caratterizza questi progetti non è di interesse formale quanto sociale, ma un sociale diverso da quello che ha caratterizzato il design di pubblica utilità o la produzione legata all’ attivismo politico. Il designer non progetta più un prodotto finito, si trova invece ad agire come un semionauta che collega spazi, tempi e narrazioni diverse, crea la relazione tra questi. Parrinder e Davies sostengono che la riflessione a cui porta l’estetica relazionale possa essere vista come un avvicinare il mondo della comunicazione agli effetti immediati che produce sul mondo reale.5 Andrew Blauvelt è un altro critico del design che ha portato attenzione alla produzione di artefatti partecipativi e relazionali nel campo del design grafico. In suo recente articolo pubblicato su Design Observer, Towards relational design, senza riferirsi al testo di Bourriaud elabora una visione che divide il design in tre grandi ere.6 La prima the “ism” phase, va dal primo Novecento agli anni sessanta, rappresenta la ricerca di un linguaggo specifico della disciplina e segue i principi di razionalità, semplificazione e universalità; la seconda fase che va dagli anni sessanta ai primi novanta, è un periodo di esplorazione delle potenzialità del 5. Cfr. Monika Parrinder, Colin Davies, Nicolas Bourriaud’s concept of ‘relational aesthetics’ may give designers a new set of tools in “Eye” n. 59, Spring 2006. 6. Cfr. Andrew Blauvelt, Towards relational design, in “Design Observer”, December 2008.

design, da nascita alla problematica dell’autorialità e riempie la forma creata dalla prima fase di contenuti. La terza era che Blauvelt descrive è quella

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the French critic he often draws from in formulating his theory; he asserts that he choose not to quote Estetique relationelle, because it doesn’t offer a comprehensive theory that could possibly bridge the interdisciplinary gap between contemporary art culture and design practice. How can we speak about relational design starting from denying a profitable dialogue with the theories of contemporary art? The error that led Blauvelt to omit quoting Bourriaud is that he undervaluates the importance of a text that has influenced cultural debates for the last ten years, as few others could do, in particular a theory whose aim was to embrace a wider field than that of contemporary art. In an article, written in 2000, where he describes the new participatory aspects of graphic design without using the term relational, he is more intuitive. In Towards a complex simplicity Blauvelt brings self expression sublimation, typical of some works of Paul Elliman, Anne Burdick and Daniel Eatock, closer to that of the minimalist movement. In their work one often assists to a suspension of the designer’s decisional task, he leaves his work open to the intervention of the spectator and of chance.7 The process becomes concept, the systematic nature of a predetermined process generates the project forms. Blauvelt himself refers to the poetics of Sol Le Witt, conceptual artist, who saw the idea as a machine that produces art. Le Witt’s works are guidelines that become works only by the work of others, not by the artist. Graphic design projects are complete only with the spectator’s intervention, the definitive artefact is outside the designer’s control. The casualness in the process is expression of a reconsideration of the everyday; Blauvelt himself asks if this attempt to pay attention to life, to activate the spectator, to eliminate the extraordinary can cause the end of the society of the spectacle but he comes to the conclusion that this everyday will probably be absorbed by the spectacle itself, until one does not recognize it any more. Rick Poynor instead is skeptic about the matter, he believes there are few projects promoting social relations and they are not those identified in the above articles; he uses Claire Bishop’s thesis, a curator who believes that aesthetics is now being sacrificed on the altar of social change. Claire Bishop creates the term relational ‘antagonism’ opposed to Bourriaud’s aesthetics, stating that it is more important to show everything that is restrained when trying to support relational harmony. Poynor, in proposing the critics’ point of view again, points out that it is not enough to define 7. Cfr. Andrew Blauvelt, Towards a complex simplicity, in “Eye”, n. 35, Spring 2000.

democratic every kind of social


contemporanea, quella del relationally-based and contextually-specific design. Questa nuova pratica basata sul design relazionale include elementi di apertura al pubblico, di programmaticità, di esperibilità e di interazione. In termini semiotici si è passati da un primo design sintattico ad uno semantico per arrivare a quello pragmatico. Blauvelt pecca, come verrà fatto notare in seguito da Rick Poynor, nel non citare il lavoro del critico francese a cui però attinge molto nella formulazione della sua teoria; sostiene di aver deciso di non citare il testo Estetique relationelle, in quanto la teoria elaborata da Bourriaud non riesce a colmare il gap interdisciplinare tra l’arte contemporanea e la pratica del design. Com’è possibile parlare di un design relazionale cominciando dal negare un dialogo proficuo con le teorie dell’arte contemporanea? L’errore che ha portato Blauvelt non citare Bourriaud, è quello di non riconoscere l’importanza di un testo che ha influenzato il dibattito culturale degli ultimi dieci anni come pochi altri anno saputo fare, soprattutto una teoria che si proponeva di abbracciare un campo ben più vasto di quello dell’arte contemporanea. Più intuitivo è stato un suo articolo che risale al 2000, in cui senza usare il termine relazionale, descrive i nuovi aspetti partecipativi del graphic design. In Towards a complex simplicity, Blauvelt avvicina la tendenza di sublimazione dell’espressione che caratterizza alcuni lavori di Paul Elliman, Anne Burdick e Daniel Eatock, a quella del movimento minimalista. Nei loro lavori spesso si assiste a una sospensione del compito decisionale del designer che lascia il suo lavoro aperto all’intervento dello spettatore e quindi del caso.7 Il processo diventa concetto, la natura sistematica di un predeterminato processo genera le forme del progetto. Il riferimento che proprio Blauvelt porta, è quello della poetica di Sol Le Witt, artista concettuale, il quale vedeva l’idea come macchina che produce l’arte. Le opere di Le Witt sono delle direttive che divengono opere solo attraverso il lavoro di esterni, non per mano dell’artista. I progetti grafici dall’articolo raggiungono la loro finitezza solo tramite l’intervento dello spettatore, l’artefatto definitivo è al di fuori del controllo del designer. La casualità che entra nel progetto, è espressione di una riconsederazione dell’ordinario; lo stesso Blauvelt si domanda se questo tentativo di portare attenzione alla vita, di attivare lo spettatore, di eliminare lo straordinario possa mettere fine alla società dello spettacolo ma giunge anch’egli alla conclusione che questo ordinario probabilmente verrà assorbito dallo spettacolo stesso, fino a quando non lo riconosceremo nemmeno più. Rick Poynor rimane invece scettico riguardo l’argomento, ritiene che i progetti che promuovono delle relazioni sociali sono 7. Cfr. Andrew Blauvelt, Towards a complex simplicity, in “Eye”, n. 35, Spring 2000.

pochi e non sono quelli che i precedenti

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relation, but it is necessary to show how these encounters produce cultural value. The open question is ‘what type of relations, for whom and why are they produced?’ Poynor’s point of view starts from the assumption that participation is an illusion. Refusing the participative objective in art and communication means abandoning the attempt of giving back the spectator an active dimension. As the artist Paolo Rosa asserts: This is what often occurs in reality, whose complexity, whose difficult penetrability reduces many people to become spectators of a fiction world that revolves around them.9 If one tries to eliminate participation from communication we will go back to a kind of unidirectional imposed culture. One speaks about participation not only in the sense of spectator’s involvement but also as collaboration among disciplines: if modern art participates to the cultural communicative process it will be to the benefit of visual communication and culture itself. Arts take part in the construction and transmission of new communication languages; if global and democratic communication can be seen as utopian, its fragmentation into thousand small micro utopias can be instead a method for its achievement, or at least an attempt. The method of interstitial invasion of relational aesthetics reality tries to give an opportunity to create these moments of real communication to which both interlocutors take part. Creating an experience in the public and among the public is the aim of a communication that wants to move the spectator out of the seat in the world of the spectacle.

8. Cfr. Rick Poynor, Strained Relations, this article appears in the April 2009 issue of “Print”. Web-site anticipation. 9.Lucilla Meloni, L’opera partecipata. L’osservatore tra contemplazione e azione, Rubettino Editore, Catanzaro 2000.


articoli hanno individuato; si avvale delle tesi della curatrice Claire Bishop, la quale ritiene che l’estetica sia in questo momento sacrificata sull’altare del cambiamento sociale. Claire Bishop conia il termine antagonismo relazionale in opposizione all’estetica di Bourriaud, sostenendo che sia più importante mostrare tutto quello che si reprime nel cercare di sostenere l’armonia relazionale. Poynor ripropone il pensiero della critica, sostenendo che non basta definire democratico ogni genere di relazione sociale, ma che sia necessario mostrare in che modo questi incontri producano valore culturale. La domanda rimane aperta: che tipo di relazioni, per chi e perché vengono prodotte? Il punto di vista di Poynor parte dal presupposto che la partecipazione sia un’illusione.8 Il rifiutare l’obiettivo partecipativo nell’arte e nella comunicazione significa rinunciare al tentativo di ridare una dimensione attiva alla figura dello spettatore. Come sostiene l’artista Paolo Rosa: Questo è quello che spesso accade nella realtà, la cui complessità, la cui difficile penetrabilità riduce i molti a divenire spettatori di un mondo di fiction che ruota intorno.9 Se eliminiamo il tendere alla partecipazione nella comunicazione torneremo ad un tipo di cultura unidirezionale e imposta dall’alto. Si parla di partecipazione non solo nel senso di coinvolgimento dello spettatore ma anche come collaborazione tra diverse discipline: se l’arte contemporanea partecipa al processo comunicativo culturale sarà a beneficio della comunicazione visiva e della cultura stessa. L’arte partecipa alla costruzione e trasmissione di nuovi linguaggi di comunicazione; se la comunicazione globale e democratica può essere vista come utopica, il suo frazionamento in mille piccole microutopie può essere visto invece come metodo per il suo raggiungimento, o per lo meno un tentativo in questo senso. Il metodo di invasione interstiziale della realtà dell’estetica relazionale cerca proprio di dare l’opportunità di creare questi momenti di comunicazione vera in cui entrambe gli interlocutori sono partecipi. Il poter creare un’esperienza nel pubblico e tra il pubblico è l’obiettivo di una comunicazione che vuole scuotere lo spettatore dalla poltrona del mondo dello spettacolo.

8. Cfr. Rick Poynor, Strained Relations, articolo che sarà pubblicato in “Print”, April 2009. Anticipazione del sito della rivista. 9.Lucilla Meloni, L’opera partecipata. L’osservatore tra contemplazione e azione, Rubettino Editore, Catanzaro 2000.

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Cooperative communication Proposals for a participative design: Experience design & co-design. Participative communication cataloguing.

Openness is converted into an instrument of revolutionary pedagogics Umberto Eco, The Open Work

Whatever you choose to do don’t try to do it alone. We are all designers now. John Thackara

A behavioural change, epochal I would say, is needed in all areas, from politics to art, placed as extreme poles of a generic globalized culture. Its strength will be a new attention for human dignity and human rights a model that will have humanity as prime value. In the economic field Noreena Hertz calls it capitalism coop: political paradigm based on the values of collaboration and collective


Comunicazione cooperativa Proposte per una progettazione partecipativa: Experience design e co-design. Catalogazione della comunicazione partecipata.

L’apertura si fa strumento di pedagogia rivoluzionaria. Umberto Eco, Opera Aperta

Whatever you choose to do don’t try to do it alone. We are all designers now. John Thackara

Un cambiamento comportamentale, epocale vorrei aggiungere, è necessario avvenga in tutti gli ambiti da quello politico a quello artistico, messi come poli estremi di una cultura generica globalizzata. Il punto di forza sarà una nuova attenzione per la dignità umana e i diritti umani, un modello che metterà l’umanità come primo valore. In campo economico Noreena Hertz lo chiama capitalismo

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interest that can develop in this period of crisis of the free market doctrine, when the necessary capital to promote the new is running out.1 In architecture the prefix eco is often used, for example the ecomuseum planned by a team of professionals in collaboration with the inhabitants of the area in which the building will be made: towards museum democratization, the participation of the institutions we call museums, in the construction of new citizenship typologies and formation of new citizens.2

Two strong trends made the word ‘participation’ become a basic word in design: experience design, and co-design, designing in collaboration. Both of them focus on the human being and his needs, they belong to what one can define as human centered design. Richard Buchanan explains how design cannot be only the discipline interested in the aesthetics of cultural life but how instead it is responsible for bringing the highest values of a country into concrete reality, for the transformation of abstract ideas into specific form.3 It is the communicative artefact design that gives an answer to man’s needs and wishes, that helps him expressing ideas and exchanging information. Buchanan thinks it is important to give voice to the revolution that is taking place all over the world, that wants to give back to the definition of design quality moral and intellectual values in addition to the aesthetic and functional ones. Also Jorge Frascara focuses on design new qualitative value: aesthetic perspective must be supported by an interest in communication and in social meaning. The interests of new graphic design must concern the impact the communication of the massage has on the community, how this is affected by it and the impact on the environment. The artefact quality will be measured respect to the change it produces on public behaviour. In this article, about the nature of graphic design, Frascara underlines the importance of the temporal aspect of the communicative artefact fruition: reading and seeing are activities that occur in space and time, despite the 1. Cfr. Noreena Hertz, Goodbye Gucci. It’s the age of co-op capitalism, in “The Times”, February 25, 2009.

fact that the designer works in two

2. Cfr. Maurizio Maggi (ed.), Museo e cittadinanza: Condividere il patrimonio culturale per promuovere la partecipazione e la formazione civica, Istituto di Ricerche Economico-Sociali del Piemonte, Torino 2005.

of two-dimensional pieces, fruition

3. Richard Buchanan, Human Dignity and Human Rights: Thoughts on the Principles of Human-Centered Design, in “Design Issues”, n.3, vol. 17, Summer 2001.

dimensions or anyway in sequences

will take place in time. The artefact assessment therefore cannot be made at the end of its design process but only after being exposed to the public,


coop: un paradigma politico basato sui valori della collaborazione e dell’interesse collettivo che può svilupparsi in questo momento di crisi della dottrina del libero mercato, quando cominciano a scarseggiare i capitali necessari per promuovere il nuovo.1 In architettura viene usata la particella eco, per esempio l’ecomuseo progettato da un team di professionisti in collaborazione con gli abitanti del luogo che ospiterà l’edificio: una tensione alla democratizzazione della museologia, alla partecipazione delle istituzioni, che chiamiamo musei, nella costruzione di inedite tipologie di cittadinanza e nella formazione di nuovi cittadini.2

Due forti tendenze hanno portato la parola partecipazione a diventare fondante nella progettazione: experience design, il design dell’esperienza, e il co-design, il progettare nella collaborazione. Entrambe queste discipline mettono al centro dei loro interessi l’essere umano e le sue necessità, appartengono a quello che può essere definito human centered design. Richard Buchanan ci spiega come il design non possa essere solo la disciplina che si occupa dell’estetica della vita culturale ma come sia invece responsabile della traduzione dei più alti valori di una cultura o di una società in realtà, della trasformazione delle idee astratte in forme specifiche: è la progettazione di artefatti comunicativi e d’uso che rispondono alle necessità e ai desideri dell’uomo, che lo aiutano ad esprimere idee ed a scambiarsi informazioni.3 Buchanan ritiene sia importante dare voce alla rivoluzione che sta avendo luogo in tutto il mondo, che vuole riportare nella definizione di qualità di progettazione dei valori morali e intellettuali oltre che estetici e funzionali. L’accento sul nuovo valore qualitativo della progettazione viene posto anche da Jorge Frascara: la prospettiva estetica deve essere sostenuta da un interesse per la comunicazione e per un significato sociale. Le nuove attenzioni del graphic design devono riguardare l’impatto che la comunicazione del messaggio ha sulla comunità, il modo in cui influenza la stessa, e l’impatto sull’ambiente. 1. Cfr. Noreena Hertz, Goodbye Gucci. It’s the age of co-op capitalism, in “The Times”, February 25, 2009.

La qualità dell’artefatto comunicativo

2. Cfr. Maurizio Maggi (a cura di), Museo e cittadinanza: Condividere il patrimonio culturale per promuovere la partecipazione e la formazione civica, Istituto di Ricerche Economico-Sociali del Piemonte, Torino 2005.

che produce sul comportamento del

3. Richard Buchanan, Human Dignity and Human Rights: Thoughts on the Principles of Human-Centered Design, in “Design Issues”, n.3, vol. 17, Summer 2001.

verrà misurata rispetto il cambiamento

pubblico. Nel suo articolo di indagine sulla natura del design grafico, Frascara continua sottolineando l’importanza dell’aspetto temporale di fruizione dell’artefatto comunicativo: leggere

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in order to have the time to assess its effects on the community. As with the playwright [the most common image in communication literature NdT] or the composer, the designer produces artefacts (play or score) that come into full existence only when the dialogue with the audience takes place.4

The term experience design wants exactly to stress design fruition experience. Experience design studies the temporal dimension in which the user interacts with the product and tries to involve the user himself in the artefact design. Experience is seen as a moment between past and future, between memory and imagination, it lasts a moment and it is strictly conditioned by the two zones around it. The designer therefore has to consult the user in his design in order to let him describe his world, the place where the product will create the experience. Ronald Jones’s point of view is interesting, he likes to describe himself as an interdiscipinologist: in this type of design he sees the only escape for European economy collapsing under the low cost finished products of the eastern market. For Europe the only way to keep the market under control is to manipulate an re-invent processes basing them on new technologies and featuring interdisciplinary flexibility. This field has already been investigated by entertainment industry that succeeded in commercializing the experience.

Co-design brings the participative aspect in the design process, the audience is asked to collaborate with the designer not simply questioned on the matter. It is a matter of designing in a social context; democratizing the design process will stimulate a more aware audience able to protect itself from manipulations by media. Communication design is only a small microcosm in society that is important in the transmission of culture in all media channels. If today the designer’s role is closer to cultural production, his responsibility towards the community is even bigger. Sharing it with the community itself could allow the whole discipline to go beyond the meritocracy that characterizes the whole cultural process, by introducing for the first time a participative democratic character. Today’s society is based on a representation system that doesn’t mirror the population’s needs any longer. As Joseph Beuys stated, in one of his lectures in 1972, that any type of revolution must start from culture, and changing the 4. Jorge Frascara, Graphic Design: Fine Art or Social Science? in AA.VV. Design Studies. Theory and research in graphic design, Princeton Architectural Press, New York 2006.

rest will came afterwards: acting in the delegation system, according to Beuys, people give up their right to


e vedere sono attività che accadono nello spazio e nel tempo, nonostante il designer lavori in due dimensioni o comunque su sequenze di pezzi bidimensionali, la fruizione accadrà nel tempo. La valutazione dell’artefatto quindi non può essere fatta al termine della sua progettazione ma solo dopo la sua esposizione al pubblico, dimodochè si abbia il tempo di valutarne gli effetti sulla comunità. Come il drammaturgo [l’immagine più ricorrente nella letteratura sulla comunicazione N.d.T.] o il compositore, il designer produce artefatti (spettacoli, partiture) che raggiungono la loro piena esistenza solo quando il dialogo con l’audience ha avuto luogo.4

Il termine experience design vuole proprio porre l’accento sulla progettazione dell’esperienza della fruizione. Il design dell’esperienza studia la dimensione temporale in cui l’utente interagisce con il prodotto, e cerca di coinvolgere lo stesso utente nella progettazione dell’artefatto. L’esperienza è vista come momento intercalare tra il passato e il futuro, tra la memoria e l’immaginazione, dura un solo momento ed è strettamente condizionata dagli elementi che caratterizzano le due zone che la circondano. Il designer deve quindi interpellare l’utente nella progettazione proprio perché gli descriva il suo mondo, quello nel quale il prodotto andrà a creare l’esperienza. Interessante è il punto di vista di Ronald Jones, che ama definirsi interdisciplinologo: egli vede in questo tipo di progettazione l’unica salvezza per l’economia europea che sta soccombendo sotto la produzione a basso prezzo di prodotti finiti del mercato orientale. L’unico modo per l’Europa per riprendere il controllo del mercato è quello di manipolare e reinventare il processo di produzione, basandolo sull’utilizzo delle nuove tecnologie e caratterizzandolo di una flessibilità interdisciplinare. Questo campo è già stato largamente indagato dall’industria del divertimento che è riuscita a commercializzare l’esperienza.

Il co-design porta l’aspetto partecipativo nel processo di progettazione, l’audience è chiamata a collaborare attivamente con i designer, non è semplicemente interpellata sull’argomento. Si tratta di progettare nel contesto sociale; nel democratizzare il processo si stimolerà audience più consapevole che saprà proteggersi dalla manipolazione dei media. Il design della comunicazione è solo un piccolo microcosmo nella società, che ha voce però nella trasmissione della cultura 4. Jorge Frascara, Graphic Design: Fine Art or Social Science? in AA.VV. Design Studies. Theory and research in graphic design, Princeton Architectural Press, New York 2006.

in tutti i canali mediatici;

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political co-administration and self-determination, and therefore to democracy. Without entering the political-economical field but remaining in the cultural one, one has to recognize that for a democratic behaviour a collective collaboration for knowledge is necessary.

From persuasion to experience. The aim of visual communication can be seen as persuading an audience to adopt new behaviours through a two-dimensional artefact. The designer will have to know the existing behaviours; if he does not share the same culture with the audience, before the artefact production he will have to make a linguistic and behavioural study of the audience he wants to reach. This will occur if the right specificity of the public is recognized, if the interest is on the public present and past; no misunderstandings will occur if in the design method the user is not seen as a reader; but as a dynamic participant of the process. Ann Tyler elaborates a first categorization of design aims: inducing action, educating, creating an experience.5 In persuading the public to act, the designer creates a two-dimensional representation of the experience, with the promise that if one goes to a determinate place one will feel in a determinate way. The examples can be those of advertising posters of an exhibition, of a journey to new country, or investing in a new company. The chosen images will have to specify what the experience offers: investing just in that company will make me a participant of its values, the values represented in the chosen image. The educational intent is often visible thanks to some rhetorical artifices that try to make the communicative information true, not questionable. It is about data, numbers, diagrams, analysis and an omniscent tone without any subjective or emotional tone. The artefacts of this category are often in the shape of informative brochures or company budgets, but also those company logos studied to identify the company’s values with the aesthetic quality of the logo itself, belong to this category. As Ann Tyler points out, experience is one of the less frequent goals of visual communication, it consists in proposing or simply establishing the existence of new values that the user may decide to share or not. One can speak of experience of aesthetic values, as the experimentalism on the signifier of the alphabetic signs, and experience of social values, the manifestation of a value the audience is asked to carry out. This last experience defines the role of the 5. Cfr. Ann C. Tyler, Shaping Belief: The Role of the Audience in Visual Communication in AA.VV. Design Studies, op.cit.

public and makes it participant in the communication process. At the base


se oggi il ruolo del designer è riuscito ad avvicinarsi alla regia della produzione culturale, la sua responsabilità è ancora più grande rispetto la comunità. Il condividerla con la comunità stessa permetterebbe all’intera disciplina di andare oltre alla meritocrazia che caratterizza l’intero processo culturale, inserendoci per prima un carattere democratico di partecipazione. La società d’oggi è basata su un sistema di rappresentanza che comincia a non rispecchiare più le esigenze della popolazione. Come sosteneva Joseph Beuys, in una delle sue conferenze nel settantadue, qualunque tipo di rivoluzione deve cominciare dalla cultura, e poi si potrà pensare di cambiare il resto: agendo nel sistema della delega, secondo Beuys, si rinuncia al diritto di cogestione politica e di autodeterminazione, e quindi alla democrazia. Senza entrare nell’ambito economico-politico ma rimanendo in quello culturale, dobbiamo riconoscere che per un comportamento democratico è necessaria una collaborazione collettiva alla conoscenza.

Dalla persuasione all’esperienza L’obiettivo della comunicazione visiva può essere visto come il persuadere un’audience ad adottare nuovi comportamenti attraverso un artefatto bidimensionale. Sarà necessario per il designer essere a conoscenza di quelli esistenti; se il target a cui si rivolge non è quello a cui lui stesso appartiene, alla progettazione dell’artefatto dovrà essere anteposto uno studio linguistico e comportamentale dell’audience che si dovrà raggiungere. Questo avverrà se si riconosce la giusta specificità del pubblico, se ci si interessa al suo presente e al suo passato; nessuna incomprensione sarà possibile se nel metodo progettuale, l’utente non sarà visto come un lettore, ma come un partecipante dinamico del processo. Ann C. Tyler elabora una prima categorizzazione degli obiettivi del design: l’indurre all’azione, l’educare, il creare un’esperienza.5 Nel persuadere il pubblico ad agire, il designer crea una rappresentazione bidimensionale dell’esperienza, con la promessa che se il lettore si recherà in un determinato posto si sentirà in un determinato modo. Gli esempi possono essere quelli dei manifesti pubblicitari di una mostra, di un viaggio in nuove località o l’investire in una nuova compagnia. L’immagine scelta dovrà specificare cosa offre l’esperienza: l’investire proprio in quella compagnia mi farà partecipe dei suoi valori, i valori rappresentati nell’immagine scelta. L’intento educativo è spesso visibile grazie ad alcuni artifici retorici che cercano di rendere l’informazione comunicata vera, non discutibile. Si tratta di dati, numeri, diagrammi, analisi ed un tono onnisciente senza alcun tratto soggettivo o emotivo. 5. Cfr. Ann C. Tyler, Shaping Belief: The Role of the Audience in Visual Communication in AA.VV. Design Studies, op.cit.

Spesso gli artefatti di questa categoria, hanno la forma di brochure informative

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of all these possible aims there is always a particular attention for the message receiver, that can lead to his participation and interaction with the project.

After explaining these new design methodologies, it seems useful to sketch out a kind of categorization of artefacts and designers that move in this participative and interactive direction. A first category could include those projects whose final artefacts create a physical or cognitive interaction with the user. Another participative typology includes graphic design that relates the artefact to the place where it is shown to the user, and create interaction on time. Then the communicative artefacts that can create a relationship among the users. A special category could be the one that relates the public to production process of the artefact or of the information the artefact has in itself.


o bilanci aziendali, ma fanno parte di questa categoria anche quei loghi aziendali studiati in modo da identificare i valori aziendali con la qualità estetica del logo stesso. Come sottolinea Ann Tyler, l’esperienza è uno degli obiettivi meno frequenti della comunicazione visiva, consiste nel proporre o semplicemente constatare l’esistenza di nuovi valori che l’utente può decidere di condividere o meno. Si può parlare di esperienza dei valori estetici, come lo sperimentalismo sul significante dei segni alfabetici, ed esperienza di valori sociali, la manifestazione di un valore che l’audience è chiamata a esperire. Quest’ultima esperienza definisce il ruolo del pubblico e lo rende partecipe del suo ruolo nel processo di comunicazione. Alla base di tutti questi possibili obiettivi c’è sempre un’attenzione particolare portata al ricevente del messaggio, che può portare alla sua partecipazione e interazione col progetto.

Dopo aver illustrato queste nuove metodologie progettuali, sembra utile abbozzare un tentativo di categorizzazione degli artefatti e dei designer che si muovono in questa direzione partecipativa e interattiva. Una prima categoria potrebbe essere quella dei progetti in cui l’artefatto finale crea un’interazione fisica o cognitiva con l’utente. Un’altra tipologia partecipativa è quella in cui troveremo i progetti grafici che mettono in relazione l’artefatto con il luogo in cui è esposto all’utente, e creano un’interazione in intervallo di tempo. Seguono gli artefatti comunicativi che riescono a creare una relazione tra gli utenti. Una speciale categoria di progetti potrebbe essere quella che mette in relazione il pubblico con il processo di produzione dell’artefatto o dell’informazione che l’artefatto ha in se. Ad un ultimo livello troviamo gli artefatti progettati in collaborazione con il pubblico stesso.

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1. Physical and cognitive interaction with the user The wish to introduce a character of indeterminacy, casualness, non-projectuality in artefacts has equally interested both artists and designers. On the contrary, or as an answer to the modernist attempts to abandon subjectivity in favour of machine-like rationality, certain projects provide a framework for future indeterminacy leaving the user or the context to determine the total meaning.

One example is a poster by Paul Elliman for a conference on the work of the French writer Lautréamont, of 1993. The poster has a great formal simplicity: on a monochromat yellow background, six white boxes are inserted between the words “image”, “Maldoror” and “text” so as the conference audience can complete the sentence: a gesture that allows the project to generate a multitude of responses. The artefact completion is achieved only after the participation of the user who chooses, with the words written in the blanks, the final meaning. Paul Elliman is a British free lance designer, visiting professor in many universities such as Central Saint Martin College of Art and Design, University of London, Jan van Eyck Academie, he writes for many magazines as Eye, Idea Magazine and Dot Dot Dot, is the founder of the Wild School of communication design, a free web university.

Another project that plays with the user’s gestual expressiveness is the cd-cover of the album The information designed by Beck together with Matt Maitlande e Gerard Saint, of the Big Active London agency. The packaging of the album consists of a blank grid cover similar to graph paper and inside a random set of stickers designed by various illustrators and artists. The user is given the opportunity to personalize the album, by using the stickers or drawing by themselves: many users have seen in this simple call for interaction a further reason to buy the CD, in a moment of big problems for the recording companies with the illegal web dematerialized music. Beck himself was enthusiastic about the project, defining it a dream come true, it’s like getting to create 100 covers instead of one: There is no right or wrong way to do it, and that’s the point it’s everybody’s personal expression.6 For this project Big Active has won Design & Art Direction Global Award in 2007. 6. Dan Snierson, Design Beck’s album cover, in “Entertainment Weekly”, n. 906, November 10, 2006.

Brett Phillips includes Big Active among the best hundred designers


1. Interazione fisica o cognitiva con l’utente Il desiderio di introdurre un carattere di indeterminatezza, casualità, a-progettualità, negli artefatti ha ugualmente colpito artisti e designer. Al contrario o come risposta ai tentativi modernisti di abbandonare la soggettività a favore di un carattere più razionale dell’opera, alcuni progetti lasciano una finestra aperta all’indeterminatezza, lasciando che sia l’utente o il contesto a determinarne il significato totale.

Un esempio ne è il manifesto di Paul Elliman per una conferenza sul lavoro dello scrittore francese Lautréamont progettato nel 1993. Il poster presenta una grande semplicità formale: su un fondo monocromo giallo, sei rettangoli bianchi sono stati lasciati vuoti in mezzo alle parole stampate “immagine”, “Maldoror” e “testo” dimodochè i partecipanti alla conferenza completino la frase: un gesto che apre il manifesto ad una moltitudine soluzioni finali. Il completamento dell’artefatto è pienamente raggiunto solo dopo la partecipazione dell’utente, che sceglierà attraverso le parole scritte nei blancs, il significato finale. Paul Elliman è un designer free lance britannico, visiting professor presso numerose università quali il Central Saint Martin College of Art and Design, University of London, Jan van Eyck Academie, scrive per numerose testate quali Eye, Idea Magazine e Dot Dot Dot, è ideatore della Wild School of communication design, un’università sul web di libero accesso.

Un altro progetto che gioca con la gestualità dell’utente è la copertina dell’album The Information che lo stesso Beck ha progettato insieme a Matt Maitlande e Gerard Saint dell’agenzia Big Active di Londra. Il booklet contenuto nel cd, in copertina presenta solo una sottile griglia che ricorda quella della carta millimetrata, ed all’interno un set di adesivi disegnati da svariati illustratori ed artisti. All’utente è data l’opportunità di personalizzare dell’album, usando gli adesivi o disegnando direttamente di propria mano: in molti hanno visto in questa semplice richiesta di interazione un motivo in più per comprare il cd, in un momento in cui il mercato discografico ha delle grosse problematiche con la musica piratata e dematerializzata dal web. Lo stesso Beck si è mostrato molto entusiasta del progetto, definendolo un sogno diventato realtà, una copertina che ne contiene infinite: Non c’è un modo giusto o sbagliato per realizzarla, questo è il punto, è l’espressione individuale di ogniuno.6 Per questo progetto l’agenzia Big Active, ha vinto il Design & Art Direction Global 6. Dan Snierson, Design Beck’s album cover, in “Entertainment Weekly”, n. 906, November 10, 2006.

Award nel 2007. Brett Phillips inserisce Big Active tra i migliori cento designer

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of 2008, saying that the adjectives included in the brand actually represent the agency’s qualities; big because it includes specialists in various disciplines, active because every year it produces a large number of high profile projects, many in the recording field among which one cannot forget well known covers for the group Basement Jaxx.7

Billboard Light Bulb, that the agency Abbott Mead Vickers BBDO proposes for the Economist campaign, is a very simple interaction, not cognitive but of great effect. At the centre of the billboard with a red-economist background, a big three-dimension bulb lightens by means of a photocell that reacts each time someone passes by. Here interaction is not participation, it does not ask the user anything but it amazes him, and even if vaguely, it reminds the ludic character of the art of the 1980s or 1990s. This surprise aspect often makes the message itself less readable and accessible, but the artefact is more appealing for the public; an elastic business card, whose content can be read only by stretching it strongly, can only be one for a personal trainer.

The rent ads often affixed by students in university halls are another example of communicative artefact that interacts with the user and change on time: on one side of the poster there is the tenant’s telephone number, written on strips one can tear out. This type of anonymous graphics succeeds in solving with a simple expedient a common problem, gives to home seekers a quick and practical method to file the telephone numbers he needs.

7. Brett Phillips in AA.VV., Area_2 100 Graphic Designer, 10 Curators and 10 design classics, Phaidon, London 2008.


del 2008, sostenendo che gli aggettivi che ne compongono il brand rappresentano realmente le qualità dell’agenzia: grande in quanto comprende specialisti di svariate discipline, attivo perché archivia ogni anno numerosi successi spendibili nel tempo, molti nel campo discografico tra i quali non possiamo dimenticare le conosciutissime copertine della band Basement Jaxx.7

Si tratta di un’interazione molto semplice, per nulla cognitiva, ma di grande efficacia quella che propone l’agenzia Abbott Mead Vickers BBDO alla testata The Economist con il billboard Light Bulb. Al centro del cartellone pubblicitario a fondo rossoeconomist, una grande lampadina tridimensionale si illumina al transito di ogni passante tramite una fotocellula che ne rileva la presenza. Qui l’interazione non è partecipazione, non chiede nulla all’utente, ma lo sbalordisce, e anche se lontanamente, evoca quel carattere ludico dell’arte degli anni ottanta, novanta. Quest’ aspetto di semplice sorpresa spesso allontana dalla leggibilità ed accessibilità del messaggio stesso, ma rende l’artefatto più seducente agli occhi del pubblico; un biglietto da visita elastico, il cui contenuto può essere letto solo tendendo la superficie con forza, non può che essere quello di un personal trainer.

Gli avvisi d’affitto che spesso vediamo affissi nelle università dagli studenti sono un altro esempio di artefatto comunicativo che interagisce con l’utente e si modifica nel tempo: solitamente su un lato della locandina troviamo il numero di telefono dell’affittuario, scritto più volte su lembi staccabili. Questo tipo di grafica anonima riesce nel risolvere con un semplice espediente una problematica comune, fornisce a chi cerca casa un metodo veloce e pratico per archiviare i numeri telefonici da chiamare.

7. Brett Phillips in AA.VV., Area_2 100 Graphic Designer, 10 Curators and 10 design classics, Phaidon, London 2008.

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2. Relationship artefact-place, artefact-time The projects that try to relate the communicative artefact to the place where it is shown, are surely unique and expensive pieces. Leica campaign proposes again the exact photographic reproduction of the background on which the poster is affixed, where the material is zoomed twelve times; with a simple image the agency Advico Young & Rubicam succeeded in highlighting the particular characteristic of the product one wants to publicize, the 12x optical zoom of the latest model of digital camera.

The idea seems to be inspired by the series of billboards by Pierre Huyghe, in which the artist shows some billboards reproducing the action that is taking place behind them. The printed image however has been created ad hoc by Huyghe with the collaboration of real actors; in Chantier Barbès Rochechouart he asks a group of actors to perform as workers in a Paris construction site, he takes pictures of the scene and affixes them in a place where real building workers are at work. During the exposure of the work, passersby are faced with the real workers and their representation.8 Huyghe creates relation images by inserting life representations in advertising contexts: a praise of work and everyday life.

A project more connected to the surface on which it is affixed than to the place where it is exposed, The bubble project invaded the city of New York last year. How to turn advertisement billboards into art, is the description of Ji Lee’s work on ABC World News. Ji Lee starts by applying simple white bubbles on advertisement billboards, to encourage people to have a critical view of advertisements transforming it into criticism of itself. The bubble project gives a new readability and space to people’s thoughts about advertisement that succeeds in persuading only thanks to repetitiveness and ubiquity on the public spaces of the cities; it transforms these corporate monologues into open public dialogues. Ji Lee’s project has become a web site and has been exported all over the world, Italy included, with a success similar to the tv format.

8. Cfr. AA.VV., catalogue of the exhibition Pierre Huyghe, 20 aprile - 18 luglio 2004, Museo d’arte contemporanea del Castello di Rivoli, Skira, Milano 2004.


2. Relazione artefatto-luogo, artefatto-tempo I progetti che tendono a mettere in relazione l’artefatto comunicativo con il luogo in cui è esposto, sono sicuramente pezzi unici e costosi. La campagna della Leica, ripropone l’esatta riproduzione fotografica del fondo su cui il manifesto è affisso, dove il materiale è però ingrandito di dodici volte: con una semplice immagine l’agenzia Advico Young & Rubicam è riuscita ad mettere in risalto la particolare caratteristica del prodotto che si vuole pubblicizzare, lo zoom ottico da 12x dell’ultimo modello di macchina fotografica digitale.

L’idea sembra ispirarsi alla serie di cartelloni opera di Pierre Huyghe, nella quale l’artista espone dei billboard che ritraggono l’azione che sta avendo luogo alla loro ombra. L’immagine stampata però è stata creata ad hoc da Huyghe con la collaborazione di attori in posa; in Chantier Barbès Rochechouart, egli chiede a un gruppo di attori di recitare come se essi fossero degli operai in un cantiere parigino, fotografa la scena e la affigge nel luogo dove si trovano i veri lavoratori edili. Nel periodo di esposizione dell’opera, i passanti si trovano di fronte la scena dei lavoratori reali e la loro rappresentazione.8 Huyghe crea delle immagini di relazione inserendo delle rappresentazioni di vita in contesti pubblicitari: un elogio del lavoro e della vita quotidiana.

Un progetto legato alla superficie su cui si incolla più che al luogo in cui è esposto, The bubble project ha invaso per prima la città di New York l’anno passato. Come trasformare i cartelloni pubblicitari in arte, è la descrizione del lavoro di Ji Lee su ABC World News. Ji Lee comincia applicando dei semplici fumetti bianchi sulla cartellonistica pubblicitaria, per smuovere la gente a guardare con occhio critico la pubblicità e riuscendo a trasformarla quasi nella critica di se stessa. The bubble project da una nuova leggibilità e spazio ai pensieri che tutti noi proviamo di fronte all’advertising che riesce nel suo intento persuasivo solo grazie alla ripetitività e ubiquità della sua presenza sulle superfici delle nostre città; trasforma il monologo pubblicitario in un dialogo pubblico aperto. Il progetto di Ji Lee è diventato un sito ed è stato esportato in tutto il mondo, Italia compresa, con un successo pari a quello di un format televisivo.

8. Cfr. AA.VV., catalogo dell’esposizione Pierre Huyghe, 20 aprile - 18 luglio 2004, Museo d’arte contemporanea del Castello di Rivoli, Skira, Milano 2004.

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The graphic artefacts that have their own time dimension are few unless they have an interaction with the user. The projects here presented, in spite of developing in the paper two dimensions, have their own autonomy and change in time; the user to experience them completely has to repeat the contemplative action.

Lisbon Billboard by Stefan Sagmeister gradually disappears, slowly without any human intervention to modify its surface. This billboard exploits quick yellowing of the newsprint in the sun. Sagmeister tells how the simple exposure of the paper on his study roof in New York with some stencils reproducing the typography, created the billboard, later affixed in Lisbon. Through further exposure to the sun also the typography slowly faded away. Lisbon Billboard seems to be a poetic reflexion on the value of time made by time itself; a temporary communication. The headline says: Complaining is silly. Either act or forget: the billboard itself seems to have chosen to forget. The sentence Sagmeister has chosen is one of the twenty-ones Things I have learned in my life so far, a book with the projects to which he has found solution thanks to the notes in his personal diary. Sentences written down for himself that become installations, pages of magazines billboards, an infinitely personal transformed into an infinitely public, also because the final projects are always signed by the whole team that has realized them.9 The Lisbon Billboard in particular is realized for l’Experimenta Design of Bienal de Lisbon, with the collaboration of two typographers Matthias Ernstberg and Richard The.

The ludic aspect replaces the poetic and reflexive one, in the case of the Playboy campaign realized by Philippe und Keuntje, his billboard changes according to the weather thanks to the use of a new type of ink: the image that covers all the surface represents a woman’s chest in a white T-shirt whose transparency is shown when the paper is wet. The headline is Guys, pray for rain. A weather interaction. Other interesting experiments have been made, always for Playboy, on white billboards simple light plays play with female forms visible only for the more malicious.

9. Stefan Sagmeister, Things I have learned in my life so far, Abrams, New York 2008.


Rari sono gli artefatti grafici che vivono una loro dimensione temporale se non per mezzo di un’interazione con l’utente. I progetti qui presentati nonostante si sviluppino nelle due dimensioni del cartaceo riescono ad avere una propria autonomia, a cambiare nel tempo; il fruitore per poterli completamente esperire deve ripetere l’azione contemplativa.

Il Lisbon Billboard di Stefan Sagmeister scompare gradualmente, lentamente senza che nessun intervento umano ne modifichi la superficie. Questo billboard sfrutta il veloce ingiallimento della carta da giornale al sole. Sagmeister racconta come la semplice esposizione della carta sul tetto del suo studio di New York con degli stencil che riproducevano la tipografia, abbia creato il manifesto poi affisso a Lisbona. La nuova esposizione al sole ha lentamente ingiallito anche le parti tipografiche che sono gradualmente scomparse. Lisbon Billboard sembra essere una poetica riflessione sul valore del tempo fatta dal tempo stesso: una comunicazione a tempo determinato. L’headline recita Complaining is silly. Either act or forget (Rimpiangere è sciocco, meglio agire o dimenticare): il manifesto stesso sembra abbia scelto di dimenticare, cancellare. La frase scelta da Sagmeister è una delle ventuno Things I have learned in my life so far, le cose che imparato nella sua vita fin’oggi, un libro che presenta i progetti a cui ha trovato soluzione grazie alle annotazioni del suo diario personale.9 Frasi annotate per se stesso diventano installazioni, pagine di riviste, cartelloni, un infinitamente personale trasformato in un infinitamente pubblico, anche perché i progetti finali sono sempre firmati con i nomi di tutto il team che li ha realizzati. Il Lisbon Billboard in particolare è stato realizzato per l’Experimenta Design della Bienal de Lisboa, con la collaborazione di due tipografi, Matthias Ernstberg e Richard The.

L’aspetto ludico sostituisce quello poetico e riflessivo, nel caso della campagna per Playboy realizzata da Philippe und Keuntje, il cui billboard cambia a seconda delle condizioni meteorologiche grazie all’uso di un nuovo tipo di inchiostro: l’immagine che copre tutta la superficie rappresenta il busto di una donna in maglietta bianca, la quale trasparenza si manifesta quando la carta è bagnata. L’headline è Ragazzi, pregate perché piova. Un’interazione meteorologica. Altri esperimenti interessanti sono stati fatti sempre con Playboy su manifesti bianchi su cui semplici giochi di luci giocano con le forme femminili visibili solo per i più maliziosi.

9. Stefan Sagmeister, Things I have learned in my life so far, Abrams, New York 2008.

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In 1992 William Gibson in collaboration with Dennis Ashbaugh presented us a deep reflexion on the objects transience and the uselessness of our habit of digital filing, everything sooner or later will disappear. Agrippa, a book of death is a book containing a long poem on the themes of memory and loss, with a floppy disc enclosed. The main feature of the text is its caducity: the floppy disc file is programmed so that it is self destroyed after the first reading while the book is printed on a special photosensitive paper and once opened, for its ink an inexorable decaying starts.

Another case of anonymous design is the indication for osmizze or inns in the Carso of Triest or Slovenia. The osmizze are places where wine and food is sold and consumed directly in the producer’s house. In 1784 an imperial decree was issued that allowed anyone to sell food, wine and fruit must produced by himself in all the year long, provided that the osmizza was indicated with a branch in full view along the road and on the house, confiscation as punishment. These ivy, laurel or pine-tree branches become an information signal with two functions: they identify the place but most of all the branch fading green shows the quantity of goods that are still available in the osmizza, because the branch is never substituted after the opening. This indication is very important because the frasche are open only a few months a year. A signal that changes in time, autonomously and that with its changes gives an updated information in a local language that overcomes the language problems connected to the border.


Nel 1992 William Gibson in collaborazione con Dennis Ashbaugh ci regala una profonda riflessione sulla caducità degli oggetti e sull’inutilità della nostra foga di archiviazione digitale, tutto prima o poi scomparirà. Agrippa, a book of death è un libro che contiene un lungo poema sui temi della memoria e della perdita, a cui è allegato un floppy disk. La principale caratteristica del testo è la sua caducità: il file contenuto sul floppy disk è programmato in modo da autodistruggersi dopo la prima lettura; mentre il libro è stato invece stampato su un particolare tipo di carta fotosensibile e, una volta aperto, per i suoi inchiostri iniziava un inarrestabile decadimento.

Un altro caso di design anonimo riguarda l’indicazione per osmizze o frasche nel Carso triestino-sloveno. Le osmizze sono dei luoghi dove si vende e si consuma il vino e il cibo direttamente nelle abitazioni del produttore. Nel 1784 fu emanato un decreto imperiale che consentiva a chiunque di vendere generi alimentari, vino e mosto di frutta da lui stesso prodotti in tutti i periodi dell’anno, purché l’osmizza fosse indicata con una frasca in bella vista lungo la strada e sulla casa, pena la confiscazione. Questi rami di edera, alloro o pino, diventano un segnale informativo di doppia funzione: identificano il luogo ma soprattutto il grado di freschezza del verde indica la quantità di prodotti ancora in possesso dall’osmizza, dato che il ramo non viene mai sostituito dopo l’apertura. Quest’indicazione è molto importante dato che i locali sono aperti per pochi mesi l’anno, diversi per ogni produttore, e chiudono quando hanno terminato la vendita della loro produzione. Un segnale che cambia nel tempo, autonomamente e che con il suo mutare da un informazione aggiornata in un linguaggio locale ma che supera le problematiche di linguaggio legate al confine.

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3. Relationship among participants Scott Williams and Henrik Kubel’s project (A2/SW/HK) for the Turner Prize Exhibition, organized by Tate Britain, is a debated example in the quoted articles about the application of relational aesthetics to visual communication. In the last room of the exhibition, visitors have the possibility to exchange opinions, discuss and leave a comment: on a wall rows of loose leaf A6 writing paper are punched with little wooden pencils. The talking point has attracted Monika Parrinder’s attention because it was inserted in that particular exhibition, never accepted by the official art circuit over the years for its too irregular character. Rick Poynor’s opinion is completely opposed: he doesn’t see any element of discussion in that environment. Bringing the contemporary art discussion on post-it support, could be seen as an attempt to facilitate and involve the public in it: leaving an unsigned comment on a wall it’s much easier than answering to an interlocutor. This theory had a confirmation from those who could choose whether to use the microphone or the note: the English Culture Minister Kim Howells decides to leave on these small public post-it his negative comment on the exhibition.10

Gum election, Stefan Haverkamp explains, is a project that started in october 2008 for the American presidential election, often defined as guerrilla art project. [Name that shows how a commercial prejudice towards graphic design is still present] it is here presented because it represents the concept of dynamic interaction with the user and the consequent change in time of the artefact. The purpose of the designer was to draw the attention of New York citizens on the election of the 4th November 2008, creating a poster that involves the user through a strong imperative. The poster consists of two monochrome areas, red in the upper part and a blue in the lower one where the stylized faces of the two candidates appear. The typography says Who sucks the most? Vote with your gum. The poster-user interaction in this case is double: first the designer asks the users to print the poster and affix it in their town, proving with photos its development in time. The public facing the poster will decide whether to interact by reading it and acting afterwards. The headline encourages a gesture, sticking their chewing gums on the poster stands for a vote for one of the candidates represented, John McCain or Barack Obama. 10. Cfr. Nigel Morris, Conceptual bull: Culture minister and his critique of the best of British art, in “The Independent”, October 31, 2002.


3. Relazione tra i partecipanti

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Un esempio che è stato molto dibattuto negli articoli citati sull’applicabilità della teoria dell’estetica relazionale alla comunicazione visiva, è stato il progetto di Scott Williams e Henrik Kubel (A2/SW/HK) per la Turner Prize Exhibition organizzata dalla Tate Britain. Nell’ultima sala della mostra, i visitatori hanno la possibilità di scambiarsi opinioni, dibattere e lasciare un commento: su un’apposita parete sono disposti numerosi fogli A6 fissati con delle piccole matite di legno. Il talking point ha catturato l’attenzione di Monika Parrinder soprattutto perché inserito proprio in quella particolare mostra, da sempre molto dibattuta e mai appoggiata dal circuito artistico ufficiale per il suo carattere troppo sregolato. Il parere di Rick Poynor è altamente contrario: non vede alcun elemento che possa far sviluppare una discussione in quell’ambiente. Crediamo invece che il tentativo di portare un dibattito sull’arte contemporanea su post-it potrebbe facilmente disinibire il pubblico: un commento lasciato su una parete è molto più libero che una diretta interrogazione. La conferma è arrivata proprio da chi poteva scegliere se rivolgersi al microfono o all’appunto: il ministro della cultura inglese Kim Howells, decide di affidare ad uno di questi piccoli e pubblici post-it il suo giudizio negativo sull’esposizione.10

Gum election, come ci spiega Stefan Haverkamp è un progetto iniziato nell’ottobre 2008 in occasione delle elezioni presidenziali americane, spesso definito come guerrilla art project. [Appellativo che fa capire come un pregiudizio commerciale verso il graphic design sia ancora presente] Viene qui presentato in quanto rappresenta con immediatezza il concetto di interazione dinamica con l’utente e il conseguente cambiamento dell’artefatto nel tempo. L’obiettivo del designer progettista era quello di richiamare attenzione dei newyorkesi sulle elezioni del 4 novembre 2008, creando un manifesto che chiama in causa l’utente attraverso un forte imperativo. Il manifesto progettato è composto da due campiture, una rossa nella metà superiore e una azzurra in quella inferiore dove compaiono le stilizzazioni dei volti dei due candidati. La tipografia centrale recita Who sucks the most? Vote with your gum. L’interazione manifesto-utente in questo caso è duplice: in primo luogo il designer si rivolge all’utente chiedendo di stampare il manifesto ed affigerlo nella propria città, testimoniandone poi con delle fotografie il suo sviluppo nel tempo. Chi troverà il manifesto potrà decidere se interagirci leggendolo e successivamente agendo in risposta. L’headline incoraggia un gesto, l’attaccare la propria gomma da masticare sul manifesto equivale ad un voto per uno 10. Cfr. Nigel Morris, Conceptual bull: Culture minister and his critique of the best of British art, in “The Independent”, October 31, 2002.

dei due candidati rappresentati, John McCain o Barack Obama.


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4. The process revelation The main idea in some of Daniel Eatock’s projects could not be far from the one that induced Guy Debord to project a film completely without images. According to Eatock communication can’t consist of a mere matter of surfaces: I am interested in how graphic design can be dematerialized away from aesthetic to a process.11 In Blank Reaction, the designer proposes to tape record the reaction of an audience listening to a blank tape; by repeating the operation always with the same tape one would obtain a tape with stratified reactions. It is about a reflexion on the users’ cross reactions. With Utilitarian Poster instead he creates a generic format in which he guides the user through the steps of creating their own advertisement, it includes blanks to insert relevant information such as titles, images, data, contacts. The result will depend on the instrument and the data the user chooses for the compilation. The absence of interaction denies the piece its essential content.

Adbusting is a kind of street-art consisting of defacement or manipulation advertising billboard to change their original meaning from commercial to political. A clear example is the one Mr. Tailon has brought in Berlin underground. It consists of overlaying the image of boring advertisement of famous cosmetic brands one can see everywhere, with stickers from Adobe Photoshop’s interface panels. The aim of this action is revealing the long manipulation of the images of the models’ faces before being proposed to the public as natural beauty to anybody’s reach. The message is specific and strong, it reproduces the frame around the image while it is being modified on the designer’s computer.

11. Daniel Eatock in Monika Parrinder, Colin Davies, Nicolas Bourriaud’s concept of ‘relational aesthetics’ may give designers a new set of tools, in “Eye” n. 59, Spring 2006.


4. Rivelazione del processo L’idea che guida alcuni progetti di Daniel Eatock potrebbe avvicinarsi a quella che ha spinto Guy Debord a proiettare un film completamente senza immagini. Per Eatock la comunicazione non può essere ridotta ad una mera questione di superfici: Sono interessato a come il graphic design possa essere dematerializzato allontanandosi dall’estetica, verso un processo.11 In Blank Reaction, il designer propone di registrare su nastro le reazioni di un audience a cui si fa ascoltare un nastro vuoto; ripetendo l’operazione sempre con lo stesso nastro si otterrebbe un nastro di reazioni stratificate. Si tratta di una riflessione sulle reazioni incrociate degli utenti. Con Utilitarian Poster crea invece un generico format in cui rivela all’utente delle regole fondamentali per la composizione di un manifesto, lascia degli spazi bianchi e specifica quali informazioni inserirvi come titolo, immagini, data, contatti. Il risultato dipenderà tutto dallo strumento e dai dati che l’utente userà nella compilazione. L’assenza dell’interazione nega il contenuto dell’artefatto.

L’ Adbusting è un tipo di street-art che consiste nella deturpazione o manipolazione di cartelloni pubblicitari affissi per modificarne il messaggio originale da commerciale a politico. Un chiaro esempio è quello che Mr. Tailon ha portato nelle metropolitane di Berlino. I cartelloni pubblicitari di famosi marchi cosmetici vengono arricchiti da dei sagomati adesivi che rappresentano i comandi del programma Photoshop per il ritocco fotografico. L’obiettivo di quest’azione è lo svelare la lunga manipolazione a cui le immagini dei volti delle modelle vengono sottoposte prima di essere proposte al pubblico come naturale bellezza alla portata di tutti. Il messaggio è molto specifico e forte, riproduce la cornice che l’immagine aveva mentre veniva modificata nel computer del designer.

11. Daniel Eatock in Monika Parrinder, Colin Davies, Nicolas Bourriaud’s concept of ‘relational aesthetics’ may give designers a new set of tools, in “Eye” n. 59, Spring 2006.

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5. Co-designed projects Colors Notebook is a project born from an initiative launched by COLORS Magazine collaborating with the Pompidou Center in Paris and Reporters Without Borders, the association that gives voice to freedom of expression and defends journalists all around the world.12 This special issue of Colors Magazine, designed by Fabrica for Benetton, is completely white: it contains fifty pages to be filled with contents. Many copies are sent to famous personalities who are asked to express, to say everything they fell, with the promise to spread the messages afterwards. Chinese prisoners, people with mental disorders, Southafrican children, artists, astronauts but also common people receive the magazine and after filling it in with their messages they send it back to Colors that promises to organize a travelling exposition with these unique pieces and two volumes collecting the most interesting pages. The audience is involved, it has to elaborate the contents of a magazine that has always been synonym of free thought. Placing experience and social values communication as first aims has been the philosophy inspiring Colors since its birth. Tibor Kalman or Oliviero Toscani’s team has always succeeded in matching Benetton trademark with social images, leaving a high level of ambiguity unsolved. The formal devices, the images documentary quality define the audience’s role and also suggest the audience deeper engagement with the communication process. According to Ann Tyler the magazine first aim is not to persuade either to purchase or to adopt new values but to think about the existing ones; by altering the context and placing the image where the audience expects to see a product, the audience becomes uncomfortably aware of its role as an active participant in the argument.13

The communication on the problem of AIDS spent plenty of energy but with few results. Co-design techinque in this case can be useful; involving the population, one wants to communicate the importance of the problem, it helps in the creation of a proper language for that social area. This was the starting point that brought Audrey Bennet, Ron Eglash, Mukkai Krishnamoorthy and Maire Rarieya in Kenya to co-project an information campaign on the risks of HIV infection. The improvised designers managed 12. Colors Notebook, Project press folder diffused by FABRICA.

to highlight the key elements, the

13. Ann C. Tyler, Shaping Belief, art. cit.

local easthetics essential to define


5. Co-designed projects

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Colors Notebook è un progetto che nasce da un’iniziativa lanciata da COLORS Magazine in collaborazione con il Centre Pompidou di Parigi e Reporter Senza Frontiere, l’associazione che protegge la libertà di espressione e difende i giornalisti in tutto il mondo.12 Questo numero speciale del magazine Colors, progettato da Fabrica per Benetton, è completamente bianco: contiene cinquanta pagine da riempire di contenuti. Numerose copie sono state diffuse e inviate a specifiche personalità a cui si è chiesto di esprimere, di dire tutto quello che sentivano, con la promessa di poi diffondere il messaggio. Prigionieri cinesi, persone con disordini mentali, bambini sudafricani, artisti, astronauti, ma anche gente comune hanno ricevuto la rivista e dopo averla riempita con i loro messaggi l’hanno rispedita alla redazione di Colors che si è impegnata a organizzare una mostra itinerante con questi pezzi unici e due volumi di raccolta delle doppie pagine più interessanti. L’audience è chiamata in causa, deve elaborare i contenuti di una rivista la cui testata è sempre stata sinonimo di urlato libero pensiero. Porre l’esperienza e la comunicazione dei valori sociali come primo obiettivo è la filosofia che ha guidato Colors dalla sua nascita. Il team di Tibor Kalman o di Oliviero Toscani è sempre riuscito ad abbinare il marchio Benetton a delle immagini che documentano il sociale, lasciando un alto grado di ambiguità irrisolto. Gli strumenti formali e la qualità documentaristica delle immagini definiscono il ruolo dell’audience, portano le problematiche che nascono dal quotidiano a interpellare direttamente il pubblico. Per Anne Tyler il primo obiettivo del magazine non è quello di persuadere ne all’acquisto ne all’adozione di nuovi valori ma di portare una riflessione su quelli esistenti: alterando il contesto e mettendo un’immagine dove ci si aspetterebbe un prodotto, significa porre il pubblico in una situazione scomoda, renderlo consapevole del suo ruolo e partecipe all’argomento.13

La comunicazione sul problema dell’AIDS ha speso molte energie ma spesso con pochi risultati. La tecnica del co-designing in questo caso può essere molto utile; rendere partecipe la popolazione a cui si vuole comunicare l’importanza della problematica aiuta nella formulazione di un linguaggio appropriato per quell’area sociale. Questo è stato il punto di partenza che ha portato Audrey Bennet, Ron Eglash, Mukkai Krishnamoorthy e Maire Rarieya in Kenya a co-progettare una campagna di informazione sui rischi di 12. Colors Notebook, Cartella stampa del progetto diffusa da FABRICA.

contrazione del virus. Gli improvvisati

13. Ann C. Tyler, Shaping Belief, art. cit.

progettisti keniani hanno saputo


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the language to be used. According to this graphic design promoters there is an unexplored potential that could give the public the possibility to change, thorough one’s own efforts and ideas.14 This consideration arises from an observation on the agricultural development of the country. The green revolution of the 1960s induced to the replacement of the traditional crop rotation with specialized monocropping using chemical fertilizers and insecticides. Besides soil depletion this revolution brought about many other social problems such as women unemployment. In African countries in this period they are trying to reintroduce preindustrial agricultural techniques not as a romantic return to the past, but to try to save what remains of such a fruitful land. The American agricultural model exported and set in a new society without any adaptation, has created new problems: this method is often applied also to other disciplines. To avoid such problems it is important to pay attention to the context where a determined project will be inserted. To have a clear information transmission, receiver and transmitter have to share a code. The approach this group of researchers adopts implies the involvement of the local population in the artefacts design, supported by a constant consultation with American professors and students involved in the project. Both sides have essential knowledge to share for the project success; the result will be an hybrid cultural jam. Having posters produced in Kenya by Kenyans has a double meaning: it adopts an effective language for the population and reflects the audience’s personal identity.

14. Cfr. Audrey Bennet, Ron Eglash, Mukkai Krishnamoorthy, Maire Rarieya, Audience as Co-designer: Partecipatory design of HIV/AIDS Awareness and Prevention Poster in Kenya, in AA.VV. Design Studies, op.cit.


evidenziare gli elementi chiave l’estetica locale, essenziali per definire il linguaggio da utilizzare. Secondo i promotori di questo progetto nel graphic design c’è un potenziale inesplorato che potrebbe dare la possibilità di cambiare al pubblico stesso, attraverso i propri sforzi e le proprie idee.14 La considerazione nasce da un’osservazione storica dello sviluppo agricolo del paese. La green revolution degli anni sessanta, ha spinto all’abbandono della classica rotazione delle colture sostituita invece da monocolture alimentate da fertilizzanti e pesticidi. Oltre ad un alto impoverimento del terreno, questa rivoluzione ha portato anche molti problemi sociali, quali la disoccupazione femminile. Nei paesi africani in questi anni si sta cercando di reintrodurre le tecniche agricole preindustriali, non per romantica nostalgia, ma per cercare di salvare quanto poco è rimasto di una terra così feconda. Il modello agricolo statunitense esportato e impiantato in un’altra società senza alcun adattamento, ha portato alla nascita di nuovi problemi: spesso questa metodologia viene applicata anche in altre discipline. Per non incorrere in simili problematiche è importante prestare attenzione al contesto in cui si va ad inserire un determinato progetto. Per una chiara trasmissione di informazioni, il ricevente e l’emittente devono condividere un codice. L’approccio scelto da questo gruppo di ricercatori prevede la progettazione degli artefatti da parte della popolazione locale affiancata da una costante consultazione con i professori e studenti statunitensi coinvolti nel progetto. Entrambe le parti hanno delle conoscenze da condividere essenziali per la riuscita del progetto; il risultato sarà un ibrido incrocio culturale. Il far produrre manifesti in Kenia dai keniani ha un doppio significato: adotta un linguaggio efficace per la popolazione e riflette l’identità personale dell’audience.

14. Cfr. Audrey Bennet, Ron Eglash, Mukkai Krishnamoorthy e Maire Rarieya, Audience as Co-designer: Partecipatory design of HIV/AIDS Awareness and Prevention Poster in Kenya, in AA.VV. Design Studies, op.cit.

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Quotation are translated by the author when the text language is not the same as the title in the notes.

Le citazioni sono di traduzione propria quando la lingua del testo non corrisponde a quella del titolo in nota.


Acknowledgements

Ringraziamenti

I would like to thank all the people

Vorrei ringraziare le molte persone che

who helped and supported me

mi hanno aiutato e sostenuto in questo

in this long project.

lungo progetto.

For the important initial simulus

Per l’importante stimolo iniziale,

Daniel Eatock who helped me in

Daniel Eatock che mi ha aiutato

finding the right direction.

ad orientarmi nella giusta direzione.

Daniele Tonon e Sabrina Moretto for

Daniele Tonon e Sabrina Moretto

the useful, fast pace confrontations;

per i serrati e proficui confronti;

the prof. Chiara Antoniacomi for

la prof.ssa Chiara Antoniacomi

advices on the Enlish language; the

per i consigli sulla lingua inglese;

prof. Margherita Ciani for her help

la prof.ssa Margherita Ciani per l’aiuto

in the text editing; editor Laura

sull’editing del testo; la redattrice

Cerutti for her practical bibliographic

Laura Cerutti per i pratici suggerimenti

suggestions; the following are all

bibliografici; di seguito tutti coloro

those available for reading, discussing

che si sono prestati a letture,

and criticizing my work: Giulia

discussioni e critiche del e sul mio

Tollis, Stefania Fucci, Marialetizia

lavoro: Giulia Tollis, Stefania Fucci,

Cuppoletti, Elisa Cavagnis, Sergio

Marialetizia Cuppoletti, Elisa Cavagnis,

Brugiolo, Alessandra Cappelli.

Sergio Brugiolo, Alessandra Cappelli.

Special thanks to my parents who

Un particolare ringraziamento ai miei

have allowed me to complete this

genitori che mi hanno permesso

course of study and even if

di portare a termine questo corso

Umberto Eco asserts that thanking

di studio ed anche se Umberto Eco

one’s supervisor is poor taste,

sostiene sia di cattivo gusto ringraziare

I am grateful to professor Giovanni

il proprio relatore, sono grata al prof.

Anceschi for his trust in my project.

Giovanni Anceschi per la fiducia riposta nel mio progetto.

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