Antudo è stato un termine usato nelle prime fasi convulse del Vespro siciliano (1282) dagli organizzatori come segno di riconoscimento. Lo stesso termine venne utilizzato durante le rivolte siciliane del 1647, durante i moti del 1820, durante la rivolta antiborbonica del 1847 e durante il separatismo siciliano degli anni '40 del XX secolo e ripreso negli anni successivi da diversi movimenti autonomistici e indipendentistici nell'isola. Oggi questo termine (spesso sicilianizzato in antudu) viene nuovamente utilizzato.Antudo fu un famoso simbolo della sollevazione del Vespro, ed inizialmente usata come parola d’ordine dagli organizzatori della rivolta. Il termine Antudo, di dubbia origine, è stato spiegato dal famoso storico Santi Correnti nel XX secolo come incitamento: «ANimus TUus DOminus» e cioè il coraggio è il tuo signore (non i Francesi)!. Il 3 aprile 1282 veniva adottata la bandiera giallo-rossa, con al centro la Trinacria e che diverrà il vessillo di Sicilia. La bandiera venne formata dal rosso di Palermo e dal giallo di Corleone a seguito di un atto di confederazione stipulato da 29 rappresentanti delle due città. Antudo fu scritto anche nel vessillo.
Nel 1943 durante le tensioni del movimento separatista, legato al MIS ed alla figura di Andrea Finocchiaro Aprile la parola come al tempo del Vespro verrà utilizzata spesso. Dopo l'ottenimento dell'autonomia il movimento separatista iniziò ad eclissarsi, tuttavia il termine Antudo ha accompagnato tutti i movimenti e i partiti autonomisti e indipendentisti siciliani sino ai giorni nostri. L'indipendentismo siciliano (nnipinnintisimu sicilianu in lingua siciliana), o anche separatismo siciliano, è una corrente politica che propugna l'indipendenza della Sicilia dall'Italia e da qualunque altro Stato in generale. L'indipendentismo siciliano si basa sul principio secondo cui la Sicilia è una nazione che possiede una propria storia, una propria cultura e una propria lingua e sull'affermazione del fatto che la Sicilia non raggiungerà il suo massimo sviluppo culturale, sociale ed economico, qualora essa continuasse a far parte del sistema statale italiano o non avesse una propria arichitettura statale indipendente, responsabile e autonoma. Un altro caposaldo di tale corrente politica è la totale avversione per l'associazione a delinquere Cosa Nostra e per qualsiasi organizzazione di stampo mafioso. La mafia viene considerata dagli indipendentisti siciliani come uno strumento di dominio e di oppressione verso il popolo siciliano, utilizzato a propri fini dai popoli esterni alla Sicilia. Diverse organizzazioni hanno rappresentato in forma esplicita questa corrente politica, come il Movimento per l'Indipendenza della Sicilia, che nel 2004 ha ripreso l'attività, anche in termini di partecipazione elettorale, del Movimento Indipendentista Siciliano a sessantuno anni dalla sua nascita (1943), e il Fronte Nazionale Siciliano, di chiara ispirazione socialista e progressista, fondato nel 1964 e che ne rappresenta forse l'espressione più pura e coerente nel tempo, senza condizionamenti indotti da risultati elettorali o da calcoli tornacontistici. Mentre il MIS, pur avendo una sua struttura organizzativa con dirigenti e quadri, è un movimento ideologicamente trasversale, il cui operato è strutturato esclusivamente all'indipendenza della Sicilia e al processo preparatorio di decolonizzazione, sensibilizzazione, formazione e informazione, il FNS è un vero e proprio partito, con una gerarchia ben definita al suo interno, e pone come obbiettivi non solo l'indipendenza siciliana ma anche il federalismo e il confederalismo e comunque una collocazione del partito stesso entro il già esistente sistema politico italiano. Ciononostante, oggi il FNS agisce quasi esclusivamente come "gruppo di pressione" e centro di diffusione culturale. Comunque entrambi i gruppi indipendentisti intendono usare le regole del gioco democratico con l'obiettivo di conseguire, per via pacifica, il diritto all'autodeterminazione della Sicilia come mezzo per arrivare all'indipendenza. Esistono altri partiti o gruppi minori come il Partito del Popolo Siciliano e l'Altra Sicilia-Antudo, che non ammettono una vera e propria indipendenza ma una forte autonomia siciliana, con una politica rivolta ai siciliani all'estero e alla valorizzazione della lingua siciliana e della cultura tradizionale. Un capitolo a parte richiede il gruppo di pressione Terra e Liberazione, nato nel 1984 da una costola del FNS, che punta a una
politica di ispirazione marxista e internazionalista, cosa che però non gli ha impedito recentemente di aderire al Movimento per l'Autonomia. Vi sono inoltre altri gruppi minori, che talora appoggiano i due gruppi maggiori (MIS e FNS), composti prevalentemente da giovani, organizzati in licei o università. I più importanti sono la Lega Giovanile Separatista - Giovani Indipendentisti Siciliani (LGS-GIS) radicato in tutto il territorio siciliano, il FASG (Fronte di Azione Siciliano Giovanile) a Catania e il Comitato Giovanile Indipendentista a Palermo. L'indipendentismo siciliano attualmente è un movimento pacifico che rifiuta la violenza, al pari dell'impostazione delle origini, pur variata nel 1944, anno di nascita dell'Esercito Volontario per l'Indipendenza della Sicilia (EVIS), guidato in un primo tempo da Antonio Canepa, professore universitario antifascista di idee socialiste rivoluzionarie. La nascita di tale organizzazione, la cui esistenza non venne pubblicamente appoggiata dal MIS e anzi fu osteggiata da alcuni suoi dirigenti (soprattutto Antonino Varvaro), venne motivata quale risposta alla crescente «repressione coloniale italiana». In realtà la scelta era stata avallata dai vertici, tant'è che a Canepa succedettero a capo dell'Evis altri leader del Mis, come Attilio Castrogiovanni e Concetto Gallo, che "arruolarono" anche la banda di Salvatore Giuliano, e quella cosiddetta dei "Niscemesi". Sebbene l'idea d'indipendenza, nel senso moderno del termine, sia nata solo col Romanticismo, accompagnata da quella di Stato-nazione, furono molte le idee di emancipazione dell'isola siciliana. Il Vespro siciliano è considerato il progenitore dell'indipendentismo moderno, infatti fu un movimento di separazione dallo straniero che all'epoca era il francese angioino. Il tutto confluì nella creazione di un regno indipendente che sarebbe durato meno di un secolo e mezzo. Alla fine della sua indipendenza come regno, la Sicilia si trovò ad essere un vicereame spagnolo, il che causerà un profondo declino economico ed un malessere generale del popolo che viveva in miseria. Le rivolte del 1647 di Messina e quelle dell'anno successivo che si ampliarono in tutta l'isola, ebbe due personaggi di spicco: Giuseppe D'Alesi e Nino La Pelosa, che cercheranno di cacciare via i viceré (va ricordato che spesso molti di essi erano dei nobili siciliani) per istituire una repubblica indipendente, ma questa durerà solo per un breve periodo. Degna di nota la Rivolta antispagnola di Messina, tra il 1674 ed il 1678, la città dello Stretto si sollevò contro la dominazione spagnola. Messina ambiva a diventare una repubblica oligarchica e mercantile sulla falsariga di Genova e Venezia. La rivolta fu repressa nel sangue e la città ribelle venne dichiarata "morta civilmente". Il Di Blasi può essere considerato alla pari di Giuseppe D'Alesi e Nino La Pelosa un separatista repubblicano e non solo. Il martire palermitano fondò un'accademia linguistica siciliana per rivalutare la lingua dell'isola e per cercare di istituire una sorta di identità siciliana anche nei ceti sociali più bassi. Di Blasi, è affascinato dalle dottrine della rivoluzione francese e quindi cercherà in tutti i modi di fondare una repubblica siciliana, scoperto verrà decapitato nel 1795. Per la prima volta nella storia siciliana il separatismo, e non l'autonomismo, riesce a raggiungere la parte più bassa e povera del popolo. Tutto il secolo XIX è impregnato di ideali indipendentisti e nazionalisti; il popolo spesso organizza rivolte che si tramutano in rivoluzioni non appena coinvolgono la classe borghese dell'isola. La vera novità di questo secolo è l'impulso degli ideali romantici e nazionalisti che rapidamente permettono la nascità in tutta Europa di movimenti più o meno organizzati che promuovono l'idea di nazionalità e di liberazione nazionale. Se nel continente però questi ideali vengono "canalizzati" da una èlite o da una avanguardia borghese che permette di trasformare in fatti e prassi ciò che era un ideale popolare astratto, in Sicilia siamo di fronte a un vero e proprio movimento libero che di rado trova organizzazione e punti di riferimento stabili, anche per colpa di una classe politica che non ha mai saputo interpretare la volontà popolare o non ha saputo approfittare della situazione che poteva esserle favorevole. Questo, insieme alle continue repressioni dei sovrani di turno, spiega il fallimento delle rivoluzioni nazionali e l'intermittenza nel tempo dell'interesse nei confronti degli ideali nazionalisti siciliani. Sino al 1814, il Regno di Sicilia aveva mantenuto il proprio autogoverno, rappresentato dal Parlamento Siciliano, nonostante l'unione personale (ovvero unico Re per due Regni) con il Regno di Napoli del Re; esso riservava tuttavia maggiori attenzioni verso quest'ultimo, provocando grave malcontento nel popolo siciliano. Nel 1812, il Re Ferdinando I di Borbone, scappando da una Napoli occupata da Napoleone, si rifugia in Sicilia, ove ad attenderlo vi sono gli onori dell'occasione, ma non solo: i Siciliani chiedono a gran voce una Costituzione che sappia garantire una stabilità dello Stato e maggiore certezza di diritto. Spinto indirettamente anche dagli interessi economici che gli inglesi avevano sull'Isola, Ferdinando concede la Costituzione, di chiara ispirazione inglese, che ben presto diverrà esempio di liberalità per i tempi. Nel 1814, però, a seguito del Congresso di Vienna, il Re Ferdinando I di Borbone, compie un vero e proprio colpo di mano: riunisce Regno di Sicilia e Regno di Napoli sotto una sola Corona, cioè quella del neonato Regno delle Due Sicilie, eliminando il Parlamento Siciliano che dichiara de facto decaduto. La monarchia borbonica compie la sua restaurazione, non ripristina l'unione dei regni di Napoli e di Sicilia nello status quo ante 1789, bensì fa un
balzo indietro di cinque secoli e mezzo e restaura il regno di Carlo I d'Angiò .. L'atto viene visto dalla classe politica siciliana come un affronto verso quello che ininterrottamente, e da circa 700 anni, era stato un regno indipendente a tutti gli effetti. Quasi immediatamente ha inizio una campagna anti-borbonica, accompagnata da una propaganda dell'identità siciliana, soprattutto per voce delle èlites di Palermo. Ciò sfocia, nel 1820, ad una rivoluzione, a Palermo, che porta all'insediamento di un governo provvisorio, dichiaratamente separatista. Tuttavia, la mancata coordinazione delle forze delle varie città siciliane, porta all'indebolimento del potere del governo provvisorio (Messina e Catania osteggiarono la rivendicazione di Palermo a voler governare l'Isola), che ben presto decade sotto i colpi della repressione borbonica. Il fallimento di questa prima rivoluzione tuttavia non scoraggia le forze politiche sicilianiste, che riproveranno circa 20 anni più tardi. Nel gennaio del 1848, dopo una prolungata crisi economica, a Palermo, a Chiazza dâ Feravecchia, ha inizio una nuova rivoluzione indipendentista, capitanata da Giuseppe La Masa. Dopo sanguinosi scontri, La Masa, al comando dell'esercito popolare, riesce a scacciare la luogotenenza generale e gran parte dell'esercito borbonico dalla Sicilia, costituendo un «comitato generale rivoluzionario» dagli inizi di febbraio. Il comitato generale istituisce un governo provvisorio a Palermo; tra le felicitazioni generali e l'ottimismo, Ruggero Settimo, un liberale moderato appartenente alla nobiltà siciliana, viene nominato presidente. Ma all'ottimismo ben presto succederà la disillusione; le forze politiche in coalizione appaiono infatti assai in contrasto: vi è nutrita presenza di liberali moderati, contrapposta a democratici e a qualche mazziniano. I campi che accendono la miccia delle rivalità sono soprattutto l'istituzione di una Guardia Nazionale e del suffragio universale, entrambe sostenute soprattutto da Pasquale Calvi, membro democratico del governo. Scarse prese di posizione vi erano soprattutto su che linea di comportamento intraprendere verso il governo di Napoli e la possibilità di prendere o meno parte alla formazione dello Stato Italiano, quest'ultima sostenuta soprattutto dalla minoranza mazziniana. Intanto, nonostante l'appoggio concreto delle città siciliane al governo provvisorio di Settimo, le aree rurali diventano scarsamente controllate, e agitazioni contadine mettono in serie difficoltà le amministrazioni locali, che si ritrovano talvolta a chiedere aiuto all'esercito borbonico per ristabilire l'ordine. La repressione borbonica dell'estate del 1849, contro un governo provvisorio ormai instabile, decretava la fine dell'esperienza del 1848-1849 e la creazione di una frattura totalmente insanabile tra la classe politica siciliana e quella napoletana, gettando di fatto le fondamenta per l'appoggio alla spedizione dei mille, vista inizialmente come "ultima spiaggia" per poter liberarsi dai Borbone. Ma già pochissimi anni dopo la spedizione dei mille e l'annessione dell'Isola al Regno di Sardegna, scoppiano in tutta l'isola focolai di ribellione contro i "Piemontesi", nota come rivolta del sette e mezzo. Nella notte tra il 15 ed il 16 di settembre del 1866, circa 4 mila contadini dalle campagne circostanti Palermo, raggiungono la città, la assaltano e spingono la popolazione alla ribellione. Fonti governative, parlano di circa "40 mila uomini in arme". Alla rivolta partecipano anche ex-garibaldini, pentitisi d'aver appoggiato la spedizione per le gravi conseguenze portate alla Sicilia. La marina piemontese, coadiuvata da quella inglese, decide di reprimere la rivolta bombardando la città dal porto: il risultato è di oltre un migliaio di morti, ed i sopravvissuti vengono arrestati ed in alcuni casi condannati a morte. L'indipendentismo siciliano avrà un altro periodo di lustro, con questi due personaggi infatti si ebbero due grandi movimenti che propugnavano la separazione e la creazione di una repubblica isolana. Andrea Finocchiaro Aprile era il leader del MIS mentre Antonio Canepa era il comandante dell'EVIS, l'esercito separatista, che fu ucciso in uno scontro a fuoco con i carabinieri. Il separatismo a metà degli anni '40 coinvolse tutta l'isola, ma andò scemando con la concessione dell'Autonomia speciale che l'Italia diede alla Sicilia fino a scomparire nelle elezioni regionali del 1951.
Andrea Finocchiaro Aprile
Andrea Finocchiaro Aprile (Lercara Friddi, 26 giugno 1878 – Palermo, 15 gennaio 1964) è stato un politico italiano, esponente di primo piano del Movimento Indipendentista Siciliano (MIS).
Fu figlio di Camillo Finocchiaro Aprile, politico liberale e ministro di Grazia e Giustizia del governo Fortis. Iniziò la propria attività politica con l'elezione a deputato nel 1913 come liberale. Nel 1920 fu nominato sottosegretario alla Guerra e alle Finanze nel governo Nitti quindi, dopo il primo governo Mussolini, partecipò alla fase di normalizzazione del consenso popolare al nascente regime fascista. La sua figura in questo primo periodo appare controversa, prima liberale e poi fascista. Secondo alcuni si oppose allo stato fascista mentre, secondo altri, cercò addirittura un ruolo politico di primo piano, rivolgendosi direttamente a Mussolini per ottenere una nomina a senatore. Ma probabilmente l'episodio più oscuro della sua carriera fu quando, negli anni trenta, avrebbe denunziato, nel tentativo di far assegnare a sé l'incarico di direttore del Banco di Sicilia, l'allora dirigente Giuseppe dell'Oro perché ebreo. La denunzia non ebbe però gli effetti sperati e Finocchiaro Aprile fu costretto a ritirarsi dalla vita politica sino alla caduta del fascismo. Ritornò in politica dopo lo sbarco degli alleati nel 1943 fondando il Movimento Indipendentista Siciliano e collaborando poi con l'Esercito Volontario per l'Indipendenza della Sicilia (EVIS). Mantenne anche stretti contatti con i servizi segreti sia inglesi che americani, ufficialmente per cercare l'appoggio di queste nazioni nel processo d'indipendenza. Nel 1944 scampò ad un attentato nel corso di una manifestazione organizzata dal Movimento Indipendentista Siciliano a Regalbuto (EN) ma, nello stesso anno, fu arrestato per ordine del governo Parri. Il MIS nel 1944 arrivò a contare quasi mezzo milione d'iscritti. Ritornò libero nel 1945 ma, nell'ottobre dello stesso anno, fu nuovamente arrestato insieme al suo braccio destro Antonino Varvaro ed inviato al confino politico a Ponza dove rimase sino al marzo del 1946. Nel 1946 fu eletto deputato all'Assemblea Costituente nelle liste del Movimento Indipendentista Siciliano. Nel 1948, rifiutata la carica di Senatore di diritto, affrontò nuovamente le urne per le prime elezioni del Parlamento Repubblicano, ma non risultò eletto, ed il Movimento Indipendentista Siciliano perdette così ogni rappresentanza parlamentare. Successivamente, sarà membro di diritto dell'Alta Corte per la Regione Siciliana.
Sfaldatosi il MIS, si ritirò dalla politica attiva. Un effimero ritorno si verificò nel 1953, quando accettò, senza peraltro risultare eletto, di essere il capolista dell'Alleanza Democratica Nazionale, la cui lista, animata da esponenti liberali e centristi e promossa dal Partito Comunista Italiano, svolse la funzione di "antidoto" alla "legge-truffa" elettorale.
Antonio Canepa
« ...Iddio le stese d'ogni intorno i mari per separarla da tutt'altra terra e difenderla dai suoi nemici. La fece così grande di estensione, temperata di clima, fertile di suolo, da bastare non soltanto alla vita di più milioni di uomini, ma anche ai comodi, al lusso, ad ogni godimento, ad ogni industria, ad ogni commercio.... » (A.Canepa La Sicilia ai siciliani) Antonio Canepa, conosciuto anche con lo pseudonimo di Mario Turri (Palermo, 25 ottobre 1908 – Randazzo, 17 giugno 1945), è stato un politico italiano, patriota siciliano, professore universitario e comandante dell'Esercito Volontario per l'Indipendenza della Sicilia (EVIS).
Studiò presso i gesuiti a Palermo e quindi al collegio Pennisi di Acireale (CT). Si laureò in legge a Palermo nel 1930 discutendo una tesi su Unità e Pluralità degli Ordinamenti Giuridici. Aderì clandestinamente al partito comunista e fu un attivo antifascista. Venne arrestato il 17 giugno 1933 insieme al fratello e ad altri esponenti ma riuscì a ritornare in libertà fingendosi infermo di mente. Prima della seconda guerra mondiale fu professore di Storia delle dottrine politiche all'Università degli Studi di Catania, dove viene ricordato come severo docente universitario e autore di un ottimo testo sulla dottrina fascista. Parallelamente intraprese con lo pseudonimo di Mario Turri o prof. Bianchi una attività clandestina di opposizione al regime fascista.
Durante la guerra, partecipò al movimento di Giustizia e libertà dal 1941 al 1943 e fu una spia del servizio segreto britannico. Fra le operazioni svolte si ricorda l'attentato dinamitardo all'aeroporto di Gerbini (Motta Sant'Anastasia), in mano ai tedeschi, nel 1943. Quindi andò a Firenze. Tornato in Sicilia, aderì al Movimento Indipendentista Siciliano (MIS) e nell'aprile 1945 fondò il primo nucleo dell'Esercito Volontario per l'Indipendenza della Sicilia, propugnado la lotta armata contro lo Stato Italiano. Nel dicembre 1944 pubblicò La Sicilia ai siciliani, che fu il manifesto della sua idea. Scrisse tra l'altro:
« quando faremo la repubblica sociale in Sicilia i feudatari ci dovranno dare le loro terre se non vorranno darci le loro teste » Fervente sostenitore della riforma agraria, egli riteneva che l'idea indipendentista avesse una base popolare che si sarebbe immancabilmente rivelata in seguito, e sosteneva la necessità di essere presenti all'interno del separatismo per indirizzare positivamente queste forze popolari. Per questo era trattato con una certa freddezza dal resto del movimento indipendentista, più legato al latifondo . Organizzò i suoi volontari nelle montagne intorno Cesarò, ma la sua lotta durò pochi mesi. Antonio Canepa fu ucciso il 17 giugno 1945 in un conflitto a fuoco a un posto di blocco con i carabinieri alle otto del mattino, in contrada «Murazzu Ruttu» presso Randazzo (CT), sulla strada statale 120 proveniente da Cesarò (Me). Insieme a lui morirono il braccio destro, Carmelo Rosano (22 anni) ed il giovane Giuseppe Lo Giudice (18 anni). I fatti si sarebbero svolti così: la pattuglia formata da tre carabinieri (il maresciallo Rizzotto, il vicebrigadiere Rosario Cicciò e il carabiniere Carmelo Calabrese), intimò l'alt ad un posto di blocco ai guerriglieri che non si fermarono. Però il pessimo stato della strada ed il vetusto mezzo di trasporto (un motofurgone Guzzi 500) non permisero loro di scappare e furono quindi un facile bersaglio del fuoco dei carabinieri. Inoltre i separatisti lanciarono una bomba a mano, che per una serie di coincidenze esploderà nello stesso loro furgone. Nello scontro rimasero feriti anche i carabinieri Calabrese e Rizzato. La versione riportata invece dai Carabinieri differisce . Vi furono comunque delle circostanze oscure che hanno più volte fatto pensare ad un complotto. Dopo lo scontro a fuoco Canepa ferito, venne lasciato per ore senza soccorsi e così morì dissanguato; il fuoco dei carabinieri sarebbe stato rivolto direttamente agli uomini della pattuglia, anziché come previsto inizialmente dalla procedura sulle gomme del mezzo; non venne redatto un verbale ufficiale dai carabinieri e la ricostruzione dei magistrati si baserà poi sulle dichiarazioni dei singoli protagonisti; all'ospedale sarebbero stati chiusi nelle bare quattro guerriglieri dell'E.V.I.S. e solo in un secondo tempo e grazie al custode del cimitero ci si accorse che in una giaceva un uomo ancora vivo. Sul luogo dell'eccidio lungo la strada statale sorge il suggestivo «Cippo», monumento in pietra dedicato ai caduti dell'E.V.I.S. Antonio Canepa è stato sepolto nel cimitero di Catania, nel viale dei siciliani illustri, accanto a Verga e Angelo Musco.
In principio era il……VESPRO
sempre accora
« se i popoli suggetti, non avesse mosso Palermo a gridar "mora! mora!" »
mala signoria che
(Citazione dei Vespri dalla Divina Commedia di Dante) I Vespri siciliani sono un evento storico avvenuto nella Sicilia del XIII secolo. Dopo la morte di Corrado, la sconfitta di Manfredi a Benevento il 26 febbraio 1266 e la decapitazione di Corradino a Napoli 29 ottobre 1268, il Regno di Sicilia era stato definitivamente assoggettato a Carlo I d'Angiò. Il Papa Clemente IV, che già aveva incoronato Re di Sicilia Carlo nel 1263, sperava così di poter imprimere ulteriormente la propria influenza sul Regno dell'Italia meridionale, senza subire gli odiati veti che furono imposti dagli svevi. Tuttavia il Papa si renderà conto molto presto che in realtà gli angioini non manterranno le promesse e perseguiranno una politica espansionistica. Conquistato il Meridione d'Italia, Carlo pensava già a Costantinopoli. In Sicilia la situazione era particolarmente critica per una riduzione generalizzata delle libertà baronali ed una opprimente politica fiscale. L'isola, infatti, che fu sempre una fedele roccaforte sveva e resistette per alcuni anni dopo il tentativo di Corradino, ora era il bersaglio della rappresaglia angioina . Gli Angiò peraltro si mostrarono insensibili a qualunque richiesta di ammorbidimento ed applicarono un esoso fiscalismo praticando usurpazioni, soprusi e violenze. Dante Alighieri (che aveva 17 anni nel 1282) nel VIII canto del Paradiso, indica come Mala Segnoria il regno angioino in Sicilia. I nobili siciliani e soprattutto il diplomatico Giovanni da Procida riponevano le proprie speranze per una soluzione della situazione siciliana su Michele VIII Palaeologo, imperatore bizantino in contrasto con Carlo I d'Angiò, su Papa Niccolò III, che si era dimostrato sensibile e sul Re Pietro III d'Aragona. Il re d'Aragona era favorito in quanto la sua consorte Costanza era figlia di Manfredi ed unica discendente della dinastia sveva di cui la popolazione siciliana manteneva ancora il ricordo dello splendore raggiunto con il nonno, l'imperatore Federico II, tuttavia egli era impegnato dalla riconquista della parte della penisola iberica in mano ai mori. A fine 1280 accaddero due eventi storici importanti: morì Papa Niccolò mentre l'imperatore Michele era duramente impegnato da una coalizione dove vi erano fra gli altri gli Angiò e Venezia. I baroni siciliani iniziarono a organizzare una sollevazione popolare anche per dare un segno tangibile della loro forza e convincere Pietro, l'unico interlocutore rimasto a poter accorrere in aiuto dei siciliani. In questo contesto avveniva l'elezione di Papa
Martino IV il 22 febbraio 1281 su cui in Sicilia si riponevano le ultime speranze. Invece il Papa, che era francese ed era stato eletto proprio grazie al sostegno degli Angiò a cui era particolarmente legato, si mostrò subito insensibile ai siciliani. Le pressioni internazionali in realtà, celate o meno, erano molteplici data la instabile situazione politica europea di fine XIII secolo, la forte opposizione nei confronti dell'ingerenza papale e l'inarrestabile ascesa degli angioini, vassalli del pontefice,i quali ne erano al servizio assoluto. Carlo I d'Angiò era sostenuto oltre che dal Papa Martino IV, da Filippo III di Francia e dai guelfi fiorentini. Pietro d'Aragona, che rappresentava la possibilità di frenare l'espansione angioina invece aveva i favori oltre che di Michele VIII Palaeologo, di Rodolfo d'Asburgo, di Edoardo I d'Inghilterra, della fazione ghibellina genovese, del Conte Guido da Montefeltro, di Pietro I di Castiglia, della nobiltà locale e catalana e tiepidamente delle Repubbliche marinare di Venezia e di Pisa. Tutto ebbe inizio mentre si era in attesa della funzione del Vespro del 31 marzo 1282, Lunedì di Pasqua, sul sagrato della Chiesa dello Spirito Santo, a Palermo. A generare l'episodio fu - secondo la ricostruzione storica - la reazione al gesto di un soldato dell'esercito francese, tale Drouet, che si era rivolto in maniera irriguardosa ad una giovane donna accompagnata dal consorte, mettendole le mani addosso con il pretesto di doverla perquisire ; a difesa di sua moglie, lo sposo riuscì a sottrarre la spada al soldato francese e lo uccise. Tale gesto fu appunto la scintilla che dette inizio alla rivolta. Nel corso della serata e della notte che ne seguì i palermitani - al grido di "Mora, mora!" - si abbandonarono ad una vera e propria "caccia ai francesi" che dilagò in breve tempo in tutta l'isola, trasformandosi in una carneficina. I pochi francesi che sopravvissero al massacro vi riuscirono rifugiandosi nelle loro navi, attraccate lungo la costa . Si racconta che i siciliani, per individuare i francesi che si camuffavano fra i popolani, facessero ricorso ad uno shibboleth (cfr. Giudici 12,5-6), mostrando loro dei ceci («cìciri», nell'idioma locale) e chiedendo di pronunziarne il nome; quelli che venivano traditi dalla loro pronuncia francese, venivano immediatamente uccisi. Secondo la tradizione, la rivoluzione del Vespro fu organizzata in gran segreto dai principali esponenti della nobiltà siciliana. Quattro furono i principali organizzatori: • • • •
Giovanni da Procida, della famosa Scuola medica salernitana, medico di Federico II; Alaimo di Lentini, Signore di Lentini; Gualtiero di Caltagirone, Barone, Signore di Caltagirone; Palmiero Abate, Signore di Trapani e Conte di Butera.
Secondo I Raguagli Historici del Vespro Siciliano di Filadelfo Mugnos, nell'organizzazione della rivoltà questa fu la ripartizione: •
Ad Alaimo di Lentini fu assegnato il Val Demone con la città di Messina. A sua volta questi affidò:
Milazzo e le terre vicine a Natale Anzalone e Bartolomeo Collura; Castroreale a Bartolomeo Graffeo; il territorio da Patti a Cefalù a Tommaso Crisafi e Cefaldo Camuglia; il territorio da Taormina a Catania a Pandolfo Falcone; San Filippo a Girolamo Papaleo; Nicosia a Pietro Saglinpepe e Lorenzo Baglione; Troina a Iacopino Arduino. •
A Palmiero Abate fu assegnato il Val di Mazara e a sua volta questi affidò:
Trapani ed Erice ai fratelli; Marsala e le terre vicine a Berardo Ferro; Termini a Giovanni Campo; Enna, Calascibetta e altre terre ad Arrigo Barresi; Salemi, Polizzi e Corleone a Guido Filangeri; Licata a Rosso Rossi e Berardo Passaneto; Agrigento a Giovanni Calvelli; Naro a Niccolò Lentini e Lucio Putti. •
A Gualtiero di Caltagirone fu assegnato il Val di Noto, il quale si riservò di organizzare la rivolta in prima persona a Caltagirone, Piazza e Aidone. Affidò invece:
Mineo e alcune terre vicine al figlio Perotto; Catania a Pietro Cutelli e Cau Tedeschi; Lentini a Giovanni Balsamo e Lanfranco Lentini; Siracusa a Perrello Modica e Pietro Manuele; Modica, Ragusa e altri luoghi a Manfredi Mosca; Vizzini ad Arnaldo Callari e Luigi Passaneto; Noto a Luigi Landolina e Giorgio Cappello.
La prima fase del Vespro All'alba, la città di Palermo si proclamò indipendente. Ben presto, la rivolta si estese a tutta la Sicilia. Dopo Palermo fu la volta di Corleone, Taormina, Messina, Siracusa, Augusta, Catania, Caltagirone e, via via, tutte le altre città. Successivamente, gli insorti richiesero il sostegno del Papa Martino IV, affinché appoggiasse l'indipendenza dell'isola e la patrocinasse; tuttavia, il pontefice era stato eletto al soglio papale grazie all'appoggio dei suoi connazionali francesi e pertanto non accolse le richieste degli isolani, bensì appoggiò l'azione repressiva degli angioini. Carlo I d'Angiò tentò invano di sedare la rivolta con la promessa di numerose riforme; alla fine decise di intervenire militarmente. Secondo un cronista siciliano, Carlo I inviò in Sicilia una flotta con 24.000 cavalieri e 90.000 fanti. In realtà, tali numeri erano per l'epoca effettivamente esagerati: più accreditata è la stima del Villani, che parla di un totale di 5.000 uomini, di cui 500 provenienti da Firenze. A fine maggio 1282, l'esercito sbarcò tra Catona e Gallico (a nord di Reggio) iniziando l'assedio di Messina e bloccando di fatto l'intervento di Reggio a sostegno della città siciliana. La città dello Stretto era allora comandata da Alaimo di Lentini, che nominato Capitano del Popolo, organizzò la resistenza nella città. Il primo assalto navale fu il 2 giugno, respinto dai siciliani; indi sbarcò sulle coste di Messina il 25 luglio 1282, ben sapendo che non avrebbe mai potuto avanzare all'interno della Sicilia se non dopo aver espugnato la città sullo stretto. Il 6 e l'8 agosto si ebbe un assalto guelfo italo-francese alle spalle della città, dai colli, respinto dai siciliani. Alla guerra parteciparono tutti i centri dell'isola, tranne Sperlinga (EN), che divenne l'unico caposaldo angioino e dove i soldati si asserragliarono per circa un anno. Nel castello della cittadina infatti, si può ancora leggere di questa fedeltà: "Quod Siculis placuit, sola Sperlinga negavit" ("Ciò che piacque ai Siciliani, solo Sperlinga lo negò"). L'assedio di Messina durò fino a tutto il mese di settembre, ma la città non fu espugnata. Al periodo storico sono legate due leggende: il Vascelluzzo e Dina e Clarenza. Nel frattempo i nobili siciliani avevano offerto la corona di Sicilia a Pietro III d'Aragona , marito di Costanza, figlia del defunto Re Manfredi di Svevia. L'aver fatto cadere su Pietro III la scelta quale nuovo Re di Sicilia significava per gli isolani la volontà di ritornare, in certo qual modo, alla dinastia sveva, incarnata da Costanza. La flotta di re Pietro, comandata da Ruggero di Lauria sbarcò il 30 agosto 1282 a Trapani accolto da Palmiero Abate. L’insurrezione divenne così un vero conflitto politico fra Siciliani ed Aragonesi da un lato e gli Angioini, il Papato, il Regno di Francia e le varie fazioni guelfe dall'altra. Appena insediatosi Pietro nominò Alaimo di Lentini Gran Giustiziere, Giovanni da Procida, Gran Cancelliere e Ruggero di Lauria Grande Ammiraglio. Inoltre assegnò incarichi di primo piano ai suoi fidati Berengario Pietrallada, Corrado Lancia e Blasco I Alagona. Il 26 settembre 1282 Re Carlo, sconfitto, fece ritorno a Napoli, lasciando la Sicilia nelle mani di Pietro III. Ebbe inizio così un lungo periodo di guerre tra gli angioini e gli aragonesi per il possesso dell'isola. Nel novembre 1282 il Papa Martino IV lanciò la scomunica su Pietro ed i siciliani. Gli Aragonesi presero l'impegno di tenere distinti i Regni di Sicilia e di Aragona: il Re nominava un luogotenente che in sua assenza avrebbe regnato in Sicilia. Così quando Pietro fu richiamato in Spagna lasciò la luogotenenza ad Alfonso III d'Aragona e dopo questo verrà investito dell'incarico Giacomo II d'Aragona. Gli aragonesi però frustrarono quasi subito le aspirazioni dei siciliani, quando Pietro, finita l'occupazione dell'isola, sbarcò a Reggio Calabria e puntò a risalire la Calabria in direzione di Napoli. I malumori dei baroni siciliani sfociarono in ostilità aperta ed a farne le spese furono alcuni dei capi dei Vespri, come Gualtiero di Caltagirone, che il il 22 maggio del 1283 venne condannato al patibolo da Giacomo, figlio di Pietro e luogotenente di Sicilia; la condanna fu eseguita nel "piano di S.Giuliano" a Caltagirone.
Davanti a Malta, l'8 giugno 1283 si affrontarono per la prima volta la flotta catalano-siciliana di Ruggero di Lauria e quella angioina nella cosiddetta Battaglia navale di Malta. L'ammiraglio Ruggero inflisse un duro colpo agli angioini, che furono costretti alla fuga. Il Papa Martino IV, che sosteneva fortemente la causa angioina, scomunicò nuovamente Pietro nel gennaio, e quindi nel febbraio 1283. Il 2 giugno 1284, da Orvieto, indisse una vera e propria crociata contro il sovrano aragonese, avendo convinto Filippo III di Francia, dopo lunga trattativa, a prenderne il comando. La crociata contro gli Aragonesi si concluderà tuttavia con un disastro, in cui lo stesso Filippo III troverà la morte a Perpignan, il 5 ottobre 1285. Il 5 giugno 1284, e poi nel 1287, nelle due Battaglie navali di Castellammare, combattute nel Golfo di Napoli, la flotta aragonese con al comando l'ammiraglio Ruggero di Lauria vinse nuovamente quella angioina, comandata da Carlo lo Zoppo, che in occasione del primo scontro venne catturato e tenuto in prigionia nel castello di Cefalù rischiando la pena capitale. Giacomo, infatti, premeva per la condanna a morte, mentre il padre Pietro, tramite Alaimo di Lentini, spinse per cercare un trattato di pace; tale situazione costò la fiducia ad Alaimo. Quest'ultimo avrebbe pagato di persona con la deposizione da Giustiziere e l'esilio sino al 1287 quando Alaimo venne giustiziato. Il Papa Onorio IV, successore di Martino IV, pur mostrandosi più diplomatico del predecessore, non accettò la sollevazione del Vespro e l'11 aprile 1286 confermò la scomunica per il Re Giacomo di Sicilia e i vescovi che avevano preso parte alla sua incoronazione a Palermo il 2 febbraio 1286; tuttavia, né il Re né i vescovi se ne preoccuparono. Il re inviò addirittura una flotta ostile sulla costa romana e distrusse col fuoco la città di Astura. Nel 1288 Roberto d'Angiò venne catturato e tenuto in ostaggio dal Re Giacomo per costringere gli angioini a firmare un armistizio nel 1295. Nel 1291 Alfonso III d'Aragona firmò a Tarascon un trattato con Papa Niccolò IV e Carlo II d'Angiò che prevedeva l'espulsione del fratello Giacomo dalla Sicilia, ma l'accordo non ebbe alcun effetto nella guerra. Alfonso morì nel 1291 e Giacomo, suo successore salì quindi sul trono di Aragona lasciando la luogotenenza in Sicilia al fratello Federico che subito si mostrò molto attento alle istanze dei siciliani. Il Trattato di Tarascon rimase inapplicato e Papa Nicola IV colse l'occasione per lanciare una crociata contro il regno d'Aragona comandata da Carlo di Valois. Nello stesso momento erano in difficoltà anche gli angioni così Giacomo II di Aragona e con Carlo II d'Angiò cercarono con il Trattato di Anagni firmato il 12 giugno del 1295 una via d'uscita dal conflitto del Vespro. Il trattato avrebbe previsto la ritirata degli aragonesi dall'isola e la riconsegna agli Angiò. Così i siciliani si sentirono abbandonati ed in questo contesto il Parlamento siciliano, riunito al Castello Ursino di Catania, elesse a Re di Sicilia Federico disconoscendo Giacomo. Il piano di alleanze fu stravolto: da questo momento i Siciliani continuarono la lotta sotto la reggenza di Federico, contro sia gli Angioini che gli Aragonesi di Spagna del Re Giacomo.
La reggenza di Federico acuì però il malcontento di alcuni grossi feudatari fra i quali l'ammiraglio Ruggero di Lauria che si asserragliò prima nel castello di Aci e successivamente entro le mura di Castiglione di Sicilia, suo feudo impegnando gli aragonesi in un logorante assedio (1297). L'ammiraglio Ruggero passò quindi dalla parte angioina-aragonese di Spagna e vinse Federico il 4 luglio del 1299 nella Battaglia di Capo d'Orlando. Il 31 dicembre del 1299 durante la «Battaglia di Falconara», tentativo dei francesi di riconquistare la Sicilia e che venne combattuta fra Mazara del Vallo e Marsala, il generale aragonese Martino Perez de Roisviene vincitore fece prigioniero Filippo I d'Angiò figlio di Carlo II. Il 4 luglio del 1300 nella «Battaglia navale di Ponza» Ruggero di Lauria batteva nuovamente gli aragonesi facendo prigioniero Federico III e Palmiero Abate. Il re riuscì poi a fuggire, mentre Palmiero morì di stenti in prigionia pochi mesi dopo. Con la fine di Palmiero, scompariva l'ultimo dei promotori del Vespro, dopo Gualtiero e Alaimo che vennero giustiziati e Giovanni da Procida, l'unico, quest'ultimo a morire di morte naturale. Alla conclusione del XIII
secolo il regno di Trinacria iniziava ad essere logorato da fazioni che facevano capo alle principali famiglie nobiliari: • •
alla «fazione latina», legata al partito svevo-ghibellino appartenevano principalmente i Ventimiglia , i Chiaramonte, i Palizzi, i Lanza, gli Uberti; alla «fazione catalana», legata agli aragonesi appartenevano gli Alagona questi specialmente alla corte di Sicilia ed i Moncada maggiormente vicini alla corte di Barcellona , e Matteo Sclafani i Rosso ed inoltre si possono menzionare i Lentini anche se spesso vennero accostati alla casata angioina (Nel corso dei successivi anni '30 del 1300 si aggiungeranno a questa fazione i Peralta).
La guerra civile proseguirà ben oltre il Vespro, in questo periodo e con alcuni trattati si tentò invano di ricomporre la pace fra le fazioni. Il maggior trattato è del 4 ottobre 1362 che venne firmato tra le fazioni latina e catalana. La pace di Caltabellotta fu il primo accordo ufficiale di pace firmato il 31 agosto 1302 nel castello della cittadina siciliana fra Carlo di Valois, come capitano generale di Carlo II d'Angiò, e Federico III d'Aragona; tale trattato concluse quella che viene indicata come la prima fase dei Vespri. L'accordo limitava il regno di Carlo II al meridione peninsulare d'Italia ed il titolo di Re di Sicilia, mentre stabiliva che Federico continuasse a regnare in Sicilia, con il titolo di Re di Trinacria. Inoltre, prevedeva che Federico sposasse Eleonora , sorella del duca di Calabria Roberto d'Angiò e figlia di Carlo I. Infine, la pace prometteva che, alla morte di Federico il regno sarebbe tornato agli angioini. Grazie a questo accordo si avviò anche una ricongiunzione fra la corte aragonese e diversi signori ribelli come Ruggero di Lauria. L'accordo di Caltabellotta serviva a Federico per riorganizzare il proprio regno fortemente indebolito dai duri anni di guerra e ciò riusci al monarca sino a quando cercando di eludere il trattato di pace di Caltabellotta assegnò la corona di Re al figlio Pietro, evitando così di far ereditare la corona agli angioini come previsto dagli accordi. Pietro regnò così a partire dal 1321, ben quindici anni prima della morte di Federico (1336), e ciò provocò la inevitabile reazione angioina e la ripresa della guerra. Alla morte di Pietro (1342) succedeva il figlio Ludovico sotto tutela di Giovanni d'Aragona, perché di soli cinque anni. Fu probabilmente grazie alla diplomazia di Giovanni che si raggiunse un accordo con gli Angioini siglato nel Castello Ursino di Catania l'8 novembre 1347 e che andava a chiudere quella che viene definita la seconda fase dei Vespri. Tuttavia Giovanni contagiato dalla epidemia di peste perì ed il giustiziere Blasco II Alagona mal visto dal Parlamento siciliano non riuscì a far ratificare l'accordo. Così la guerra proseguì, con il debole regno di Sicilia nelle mani di Federico IV d'Aragona incalzato dall'esterno dagli angioini, che erano riusciti a riconquistare buona parte dell'isola e dall'interno dall'anarchia causata da vari e potenti signori ribelli. Nel 1349 Eleonora, figlia di Pietro II andava in sposa a Pietro IV d'Aragona in base ad un importante accordo che prevedeva la rinuncia della Spagna alle pretese sulla Sicilia. Una ulteriore ed importante svolta si ebbe nel 1356 quando il governatore di Messina, Niccolò Cesareo, in seguito a dissidi con Artale I Alagona, richiese rinforzi a Ludovico d'Angiò, che inviò il maresciallo Acciaiuoli. Le truppe, assistite dal mare da ben cinque galee angioine saccheggiarono il territorio di Aci, assediando il castello. Proseguirono quindi in direzione di Catania cingendola d'assedio. Artale uscì con la flotta ed affrontò le galere angioine, affondandone due, requisendone una terza, e mettendo in fuga le truppe nemiche. La battaglia navale, che si svolse fra la borgata marinara catanese di Ognina ed il Castello di Aci, fu detta «Lo scacco di Ognina» e segnò una svolta definitiva a favore degli aragonesi nella guerra del Vespro. Dallo Scacco di Ognina gli angioini non si sarebbero più ripresi tuttavia la guerra fra Sicilia e Napoli si trascinò sino al 20 agosto 1372 quando si concluse dopo ben novanta anni con il Trattato di Avignone firmato da Giovanna d'Angiò e Federico IV d'Aragona e con l'assenso di Papa Gregorio XI.
Rivoluzione indipendentista siciliana del 1848
La rivoluzione indipendentista siciliana del 1848 ebbe luogo in un anno colmo di rivoluzioni e di rivolte popolari che viene anche chiamato primavera dei popoli. La rivoluzione siciliana di quell'anno riveste un certo significato per le seguenti quattro ragioni: 1. Cominciò il 12 gennaio 1848, e quindi fu la prima in assoluta dei moti rivoluzionari che ebbero luogo in quell'anno; 2. Non meno di quattro rivoluzioni ebbero luogo sull'isola di Sicilia tra il 1800 ed il 1849 contro i Borbone, con quest'ultimo in particolare che diede vita ad uno stato indipendente che sopravvisse 16 mesi; 3. La costituzione che sopravvisse 16 mesi era molto progressista per quei tempi in termini liberaldemocratici 4. Fu in effetti il catalizzatore della fine del regno dei Borbone nelle Due Sicilie che ebbe luogo tra il 1860 ed il 1861 con l'unificazione italiana detta anche Risorgimento. Gli ex regni di Napoli e di Sicilia vennero riuniti dopo sei secoli di separazione nel 1815 al Congresso di Vienna per diventare il regno borbonico delle Due Sicilie. Entrambi i regni comprendevano i regni Normanni e Svevi di Sicilia durante il dodicesimo e tredicesimo secolo, e erano stati divisi in due dalla rivolta dei Vespri Siciliani nel 1282. Il nome “Due Sicilie” è effettivamente una conseguenza degli eventi storici che seguirono ai Vespri Siciliani. I semi della rivoluzione del 1848 furono gettati prima del Congresso di Vienna, nel 1812. Questo avvenne durante il tumultuoso periodo napoleonico quando la Corte Borbonica fu costretta a fuggire da Napoli e alloggiare tutta la corte reale a Palermo con l'assistenza della marina britannica. I nobili siciliani furono abili a cogliere l'opportunità per forzare i Borbone a promulgare una nuova costituzione per la Sicilia basata sul sistema Westminster del governo parlamentare, e fu infatti una costituzione alquanto liberale per quei tempi. In ogni caso dopo il Congresso di Vienna, Ferdinando IV di Napoli e III del Regno di Sicilia, immediatamente abolì la costituzione appena ritornato alla corte reale di Napoli. Vi è una forte connessione tra questa azione e le numerosi rivolte popolari che ebbero luogo fino all'inizio del cosiddetto Risorgimento.
La rivoluzione del 1848 fu sostanzialmente organizzata e centrata a Palermo. La natura popolare della rivolta era evidente per il fatto che manifesti e volantini vennero distribuiti tre giorni prima gli atti veri e propri rivoluzionari che ebbero luogo il 12 gennaio 1848. Il tempo d'inizio fu deliberatamente scelto coincidesse con il compleanno di Ferdinando II delle Due Sicilie, essendo egli stesso nato a Palermo nel 1810 (durante il periodo napoleonico descritto prima). Che porterà alla creazione dello Stato di Sicilia con Ruggero Settimo come capo del governo. I nobili siciliani furono immediatamente capaci di rispolverare la costituzione del 1812 che includeva i principi della democrazia rappresentativa e della centralità del Parlamento siciliano nel governo dello stato. A questo punto dovrebbe essere detto che il parlamento siciliano non era mai stato capace di controllare la ben fortificata città di Messina, che in definitiva sarebbe stata usata per riprendere l'isola con la forza. Avvenne nello stesso modo che la città di Messina resistette a lungo contro l'offensiva di Garibaldi sull'isola nel 1860. Nonostante la Sicilia vivesse per sedici mesi come stato indipendente, l'esercito borbonico riprese con la violenza il pieno controllo dell'isola il 15 maggio 1849. Il capo effettivo dello stato durante questo periodo era stato Ruggero Settimo (Ruggeru Sèttimu in sicilianu). Alla capitolazione ai Borboni, Settimo fuggì a Malta dove venne ricevuto con tutti gli onori di un capo di stato. Vi rimase in esilio per il resto della sua vita ed vi morì nel 1863. Alla formazione del nuovo regno d'Italia nel 1861, a Settimo venne offerta la carica di primo Presidente del Senato del, recentemente formato, parlamento nazionale, ma dovette declinare l'invito per motivi di salute. La rivoluzione che iniziò a Palermo fu una della serie di eventi simili in Italia, sebbene forse più violenta di altre. Essa si allargò rapidamente attraverso l'isola e nel resto d'Italia, dove costrinse Carlo Alberto, Re di Sardegna, a seguire l'esempio di Ferdinando II e promulgare una costituzione scritta frettolosamente. A somiglianza di questi eventi, disordini e rivolte avvennero in giro per l'Europa allo stesso tempo e possono essere considerate un assaggio delle future rivoluzioni socialiste.
Spedizione dei Mille La spedizione dei Mille è un episodio del periodo risorgimentale italiano, avvenuto nel 1860 allorquando un corpo di volontari, protetto dal Piemonte, al comando di Giuseppe Garibaldi, partendo dalla spiaggia di Quarto, in Liguria, sbarcò in Sicilia, presso Marsala, e conquistò il Regno delle Due Sicilie, permettendone l'annessione al nascente stato italiano.
A partire dal famoso incontro di Plombières con Napoleone III il 21 e 22 luglio 1858 e, soprattutto, dalla firma del trattato di alleanza difensiva fra Francia e Regno di Sardegna del 26 gennaio 1859, il primo ministro Cavour iniziò i preparativi per la liberazione del nord Italia e l'inevitabile guerra all'Austria. Il 24 aprile 1859 Cavour riuscì a farsi dichiarare guerra dall'Austria, con inizio delle ostilità il 27 aprile. La seconda guerra di indipendenza terminò l'11 luglio; i termini dell'armistizio di Villafranca riconoscevano al Regno di Sardegna la Lombardia (con l'esclusione di Mantova), ma non il Veneto, ceduto soltanto con la Terza Guerra d'Indipendenza. Già dal maggio 1859 le popolazioni del Granducato di Toscana, della Legazione delle Romagne (Bologna e la Romagna), del Ducato di Modena e del Ducato di Parma scacciavano i propri sovrani e reclamavano l'annessione al Regno di Sardegna, soprattutto grazie, secondo l'opinione di alcuni storici, alla sapiente azione di agenti provocatori pilotati dal Governo piemontese , mentre le popolazioni di Umbria e Marche subivano la dura repressione del governo pontificio, il cui esempio più sanguinoso fu il massacro di Perugia. Napoleone III e Cavour erano reciprocamente in debito: il primo poiché si era ritirato dal conflitto prima della prevista liberazione di Venezia, il secondo perché aveva consentito che i moti si estendessero ai territori dell'Italia centro-settentrionale. Lo stallo venne risolto il 24 marzo 1860, quando Cavour sottoscrisse la cessione della Savoia e del circondario di Nizza alla Francia ed ottenne in cambio il consenso dell'Imperatore all'annessione di Toscana ed Emilia-Romagna al Regno di Sardegna. Come disse Cavour all'emissario francese, i due erano divenuti "complici". Nel marzo 1860, quindi, restavano in Italia tre soli Stati: il Regno di Sardegna, con Piemonte (inclusa Aosta), Liguria, Sardegna, Lombardia (eccetto Mantova), Emilia, Romagna e Toscana; lo Stato della Chiesa, con Umbria (inclusa Rieti), Marche, Lazio (con l'intoccabile Roma) e le exclave di Pontecorvo e Benevento; il Regno delle Due Sicilie, con Abruzzo (inclusa Cittaducale), Molise, Campania (incluse Gaeta e Sora), Basilicata, Puglia, Calabria e Sicilia, a questi si può aggiungere la piccola Repubblica di San Marino che tuttavia si mantenne sempre distante da ogni spinta unificatrice. A questi tre stati indipendenti bisogna aggiungere l'Impero Austriaco di Francesco Giuseppe che ancora poteva essere considerato una potenza con forti interessi nella penisola italiana, poiché possedeva intere regioni come il Veneto, il Trentino e il Friuli, oltre al territorio mantovano. Non si dimentichi, inoltre, la Francia nell'ambiguo ruolo di potenza protettrice di Roma e principale alleato del Regno di Sardegna: un'ambiguità che permise a Napoleone III di mantenere una decisiva influenza sulle cose italiane, sino all'estremo giorno di vita del suo impero (battaglia di Sedan del 1870), e che sarà determinante nel 1860.
Napoleone III, difatti, impediva al Regno di Sardegna tanto un'azione contro l'Austria (col suo mancato sostegno), quanto un'azione contro Roma (con la sua esplicita opposizione). Restava, pertanto, ai piemontesi un unico bersaglio possibile: Napoli. Il Regno delle Due Sicilie, dunque, si presentava come un obiettivo, oltre che di primario interesse, anche facilmente conseguibile, e ciò per tre ordini di motivi. Prima di tutto, lo Stato duosiciliano era guidato da un monarca giovane e inesperto (Francesco II, succeduto al padre Ferdinando II solo il 22 maggio 1859, meno di un anno prima); in secondo luogo, il reame borbonico era divenuto una presenza scomoda per la Gran Bretagna, con la quale le relazioni, inaspritesi, nel 1836, con la "questione degli zolfi" , erano divenute decisamente cattive. Infine, il Regno delle Due Sicilie era caduto in una sorta di isolamento diplomatico e finì con il poter contare solamente sulle proprie forze. Almeno sulla carta, comunque, il regno meridionale era ancora lo stato più esteso e, teoricamente, più potente della penisola. Esso, infatti, poteva fare affidamento su un esercito (il più numeroso d'Italia) di 93000 uomini (oltre a 4 reggimenti ausiliari di mercenari) e sulla flotta più potente di stanza nel Mediterraneo (11 moderne fregate, 5 corvette e 6 brigantini a vapore, oltre a vari tipi di navi a vela) . Infine, come ammoniva Ferdinando II, era difeso "dall'acqua salata e dall'acqua benedetta" , cioè dal mare e dalla presenza dello Stato della Chiesa, che, protetto dalla Francia, avrebbe impedito ogni invasione via terra verso il sud. Particolare importanza ebbe nell'autunno-inverno del 1859 l'azione abbozzata da Francesco II, di concerto con Francesco Giuseppe, a sostegno delle rivendicazioni di Pio IX, di Leopoldo II di Toscana e dei Duchi di Modena e Parma per rientrare in possesso dei loro possedimenti in Italia centrale . L'iniziativa, infatti, si scontrava direttamente con gli interessi vitali di Torino e, di conseguenza, di Parigi, dal momento che Napoleone III, per giustificare la guerra all'Austria di fronte all'opinione pubblica francese, doveva annettere alla Francia i territori oggetto degli accordi di Plombières.
La ricerca di un casus belli Il Regno di Sardegna, però, necessitava di un casus belli presentabile per attaccare il Regno delle Due Sicilie. Questa era per lo stato sabaudo, che comunque non emise mai alcuna dichiarazione di guerra nei confronti del reame borbonico , una condizione indispensabile, dal momento che, fra gli imperativi che la politica europea imponeva al Cavour, v'era presentarsi sempre come lo strumento del ripristino dell'ordine. L'unico accadimento che avrebbe potuto soddisfare questa esigenza era una sollevazione dall'interno. Un tale evento avrebbe provato la disaffezione delle popolazioni alla Dinastia che governava a Napoli e, soprattutto, l'incapacità di Francesco di Borbone di garantire, in forme accettabili, l'ordine pubblico nei propri domini. La Sicilia, come dimostrava la storia dei trascorsi decenni, era terreno fertile, e i liberali meridionali, specialmente quelli rientrati dopo l'amnistia concessa dal giovane Re, lavoravano in tal senso già da tempo.
La situazione interna al Regno delle Due Sicilie Nel corso degli anni, erano state diverse le ribellioni che i Borbone avevano dovuto sedare: la rivoluzione indipendentista siciliana del 1820, la rivoluzione calabrese del 1847 , la rivoluzione indipendentista siciliana del 1848 e quella calabrese dello stesso anno , ed il movimento costituzionale napoletano del 1848. Dal punto di vista militare, fondamentale era stata la vicinanza con l'Austria. Per due volte, infatti, i Borbone avevano riguadagnato il trono in seguito all'intervento degli eserciti austriaci: nel 1815 l'austriaco Federico Bianchi sconfisse l'esercito napoletano di Gioacchino Murat, cognato di Napoleone, nella battaglia di Tolentino ed, ancora, nel 1821 l'austriaco Johann Maria Philipp Frimont sconfisse un secondo esercito napoletano, quello di Guglielmo Pepe, nella battaglia di Rieti e in quella di Antrodoco.
Stemma delle Due Sicilie Nel 1860, tuttavia, la situazione appariva di gran lunga più favorevole ai Borbone: sin dal 1821, infatti, all'esercito era dedicata costante attenzione economica da parte dei regnanti e, nel complesso, rinforzato da reparti composti da arruolati stranieri, appariva sicuramente fedele alla casa regnante. I liberali napoletani, comunque, non avevano forza sufficiente neanche ad imporre una costituzione, nemmeno dopo Solferino. Essi erano, però, presenti in buon numero nelle alte cariche dell'esercito e dell'Armata di Mare (che, infatti, non mostrò alcun fervore nel corso dell'intera campagna contro Garibaldi). Il popolo delle provincie continentali, invece, era generalmente vicino alla dinastia borbonica, come avevano clamorosamente dimostrato il successo del movimento sanfedista, che nel 1799 aveva rovesciato la Repubblica Napoletana, con strage dei giacobini del Regno, e la resistenza antifrancese del periodo 18061815. Tale vicinanza alla casa regnante sarà dimostrata anche successivamente dalle dimensioni della rivolta post-unitaria, definita semplicisticamente come un mero fenomeno di brigantaggio.
I mazziniani e la Sicilia L'unica delle forze opposte ai Borbone che mostrasse la volontà di scendere in armi, in quel 1860, era l'autonomismo siciliano. I ricordi della lunga rivoluzione del 1848 erano ancora vividi, la repressione borbonica era stata particolarmente dura e nulli i tentativi del governo napoletano di giungere ad un accomodamento politico. Inoltre, l'insofferenza non era limitata alle classi dirigenti, ma coinvolgeva, anche se con motivazioni ed obiettivi differenti, una larga fascia della popolazione cittadina e rurale: congiuntura pressoché unica nel corso dell'intero Risorgimento. A dimostrazione di ciò, infatti, vi sono le adesioni di volontari alle schiere garibaldine da Marsala a Messina, sino al Volturno. Molti dei quadri dirigenti della rivoluzione del 1848 (tra cui Rosolino Pilo e Francesco Crispi) erano espatriati a Torino, avevano partecipato con entusiasmo alla seconda guerra di indipendenza e avevano maturato un atteggiamento politico decisamente liberale e unitario. Proprio i mazziniani, invero, vedevano nella Sicilia insurrezionalista, nell'intervento di Garibaldi e nella monarchia sabauda gli elementi fondanti per il successo della causa unitaria . Il 2 marzo 1860, infatti, Giuseppe Mazzini scriveva una lettera ai Siciliani incitandoli alla ribellione e dichiarava: "Garibaldi è vincolato ad accorrere" . In particolare, Rosolino Pilo ebbe un preciso ruolo nel porre le basi per una nuova sollevazione in Sicilia. Sempre nel mese di marzo, questi, intenzionato a salpare alla volta dell'isola, si era rivolto a Garibaldi, prima chiedendo armi e poi invitando il nizzardo ad un intervento diretto al di là dello stretto . Garibaldi, però, si era tirato indietro ritenendo inopportuno qualsiasi moto rivoluzionario che non avesse avuto buone probabilità di successo . Il nizzardo avrebbe guidato una rivoluzione solo se a chiederglielo fosse stato il popolo ed il tutto fosse avvenuto in nome di Vittorio Emanuele II . Solo con il contributo delle popolazioni locali e l'appoggio del Piemonte, infatti, Garibaldi avrebbe contenuto il rischio di un fallimento, evitando risultati simili a quelli
avuti in precedenza dai fratelli Bandiera o da Carlo Pisacane . Pur non avendo ottenuto l'immediato sostegno di Garibaldi, il 25 marzo Rosolino Pilo partì comunque per la Sicilia con l'intento di preparare il terreno per la futura spedizione . Accompagnato da Giovanni Corraro, anch'egli mazziniano, il Pilo giunse nel messinese e prese immediatamente contatti con gli esponenti delle famiglie più importanti. In questo modo egli si assicurò l'appoggio dei latifondisti. I baroni, infatti, una volta sbarcato il corpo di spedizione, avrebbero rese disponibili le bande che erano al loro servizio, i cosiddetti picciotti . A Palermo, il 4 aprile, si accese la fiamma della rivolta con un episodio, subito represso , che ebbe tra i protagonisti, sul campo, Francesco Riso e, lontano dalla scena, Francesco Crispi, che coordinò l'azione dei rivoltosi da Genova . Nonostante il fallimento, l'accaduto diede il via ad una serie di manifestazioni ed insurrezioni tenute in vita dalla famosa marcia di Rosolino Pilo da Messina a Piana dei Greci, fra il 10 ed il 20 aprile. A coloro che incontrava lungo il percorso il Pilo annunciava di tenersi pronti "…che verrà Garibaldi". La notizia della sollevazione fu confermata sul continente da un telegramma cifrato inoltrato da Nicola Fabrizi il 27 aprile. Il contenuto del messaggio, non eccessivamente incoraggiante, accrebbe le incertezze di Garibaldi tanto da indurlo a rinunciare all'idea di una spedizione. Tale fu la delusione tra i sostenitori dell'impresa, che Francesco Crispi, che aveva decodificato il telegramma, sostenendo di aver commesso un errore, ne fornì una nuova versione. Quest'ultima, molto probabilmente falsificata dal Crispi, convinse il nizzardo ad intraprendere la spedizione .
La preparazione della spedizione Il ruolo di Cavour
Cavour riteneva rischiosa l'idea di una spedizione che considerava dannosa per i rapporti con la Francia, essenzialmente perché sospettava che l'obiettivo di Garibaldi fosse Roma. Il conte, pertanto, si sarebbe decisamente opposto ad essa, ma il suo prestigio era stato scosso dalle cessioni di Nizza e Savoia e non si sentiva abbastanza forte per manifestare il proprio dissenso . Per di più, Garibaldi, nonostante fosse vicino agli ambienti repubblicani e rivoluzionari, era, in tale prospettiva, già da tempo in contatto con Vittorio Emanuele II. Il nizzardo, infatti, a dispetto delle sue idee repubblicane, ormai da 12 anni aveva accettato di collaborare con Casa Savoia; d'altronde, le contingenze erano tali che lo stesso Mazzini poteva scrivere: "non si tratta più di repubblica o monarchia: si tratta dell'unità nazionale... d'essere o non essere" . Per Cavour, invece, Garibaldi, pur godendo dell'illimitata stima dell'opinione pubblica liberale italiana, era fonte di grandi preoccupazioni. Solo alla fine del 1859, infatti, questi si era portato in Romagna con l'intento di invadere le Marche e l'Umbria, rischiando di scatenare le ire di Parigi. Il nizzardo, però, rappresentava anche una "opportunità" , poiché attraverso di lui si sarebbe potuta originare la "provvidenziale" sollevazione dall'interno, che avrebbe sconvolto il Regno delle Due Sicilie e "costretto" il Regno di Sardegna ad intervenire per garantire l'ordine pubblico. Il conte, pertanto, decise di assumere un atteggiamento attendista ed osservare l'evolversi degli avvenimenti, in modo da poter profittare di eventuali sviluppi favorevoli al Piemonte: solo
quando le probabilità di un esito positivo della spedizione appariranno considerevoli, Cavour appoggerà apertamente l’iniziativa . In quest'ottica, il 18 aprile, in seguito ai moti anti-borbonici, Cavour inviò in Sicilia due navi da guerra: il Governolo e l'Authion. Ufficialmente i due vascelli avevano il compito di proteggere i cittadini piemontesi presenti sull'isola. L'effettivo incarico, però, consisteva nel valutare accuratamente le forze degli opposti schieramenti . Nello stesso tempo, il primo ministro piemontese riuscì, attraverso Giuseppe La Farina (che sarà inviato in Sicilia dopo lo sbarco, per controllare e mantenere i contatti con Garibaldi), a seguire tutte le fasi preparatorie della spedizione , finché egli stesso, il 22 aprile, non si recò a Genova per rendersi conto di persona della situazione . Gli ultimi accordi fra Cavour e Vittorio Emanuele II vennero presi in un incontro a Bologna, il 2 maggio. Nel frattempo l'organizzazione della forza di spedizione era in pieno svolgimento. Garibaldi, reduce dalla brillante campagna di Lombardia con i Cacciatori delle Alpi, aveva dimostrato le proprie capacità di capo militare, affrontando con un esercito leggero, costituito da volontari, un esercito regolare. Anche per questa spedizione, dunque, avrebbe fatto ricorso all'arruolamento di volontari disposti a combattere sotto la sua guida. L'armamento ed i quadri, qualora non attinti dai Cacciatori, sarebbero giunti dall'esercito piemontese, così come i finanziamenti. Le somme stanziate dal Piemonte per la spedizione, infatti, ammontarono a lire 7.905.607 e saranno computate nel bilancio del nuovo stato unitario . In ogni caso, l'origine dei fondi avrebbe potuto essere, comunque, attribuita alla sottoscrizione nazionale "per un milione di fucili", iniziata già il 18 dicembre 1859 e sostenuta dai comuni nazionalisti, i quali avevano già raccolto notevoli somme. Il corpo di spedizione, al momento della partenza da Quarto, era composto da 1162 uomini. I Mille provenivano prevalentemente dalle regioni centro-settentrionali e, tra essi, non c'erano solo italiani, ma anche combattenti stranieri. La compagine aveva anche un cappellano, Alessandro Gavazzi, che, criticando radicalmente l'istituzione del Papato, divenne protestante. Il più giovane del gruppo, imbarcatosi all'età di 10 anni, 8 mesi e undici giorni, assieme al padre Luigi, fu Giuseppe Marchetti, nato a Chioggia il 24 agosto 1849. Il 3 maggio, a Modena, venne siglato un primo accordo, attraverso il quale si rendevano disponibili ai garibaldini i due vascelli con i quali avrebbero raggiunto la Sicilia. In rappresentanza dello stato sabaudo erano presenti l'avvocato Ferdinando Riccardi e il colonnello Alessandro Negri di San Front, entrambi riconducibili ai servizi segreti piemontesi, avendo essi ricevuto l'incarico dall'Ufficio dell'Alta Sorveglianza politica e dell'Ufficio Informazioni della Presidenza del Consiglio dei ministri del Regno di Sardegna . Il giorno seguente, il 4 maggio, l'intesa fu formalizzata: veniva stipulato, con rogito del notaio Gioacchino Vincenzo Baldioli, nel suo studio di via Po a Torino, il contratto con il quale il Regno di Sardegna acquistava "in via temporanea" dall'armatore Rubattino (attraverso la mediazione di un dipendente della compagnia, Giovanni Battista Fauché) due vapori, il Piemonte e il Lombardo, facendone beneficiario Giuseppe Garibaldi (rappresentato nella circostanza da un suo uomo di fiducia, Giacomo Medici), mentre garanti del debito si costituivano il re sabaudo e il suo primo ministro . La sera del 5 maggio, meticolosamente sorvegliata dalle autorità piemontesi , la spedizione salpò dallo scoglio di Quarto, simulando, come da accordi, il furto delle due navi. Oltre al prezzo d'acquisto dei vascelli, infatti, alla società di navigazione Rubattino sarà anche riconosciuta, con decreto dittatoriale di Garibaldi del 5 ottobre 1860, la somma di 1,2 milioni di lire come risarcimento per la perdita del Piemonte e del Lombardo, valutati 750 000 lire, e del piroscafo Cagliari, valutato 450 000 lire (che era stato adoperato per la fallita spedizione di Pisacane nel 1857 e poi restituito all'armatore dal governo borbonico) . I volontari, che al momento della partenza ammontavano a 1162, erano armati di vecchi fucili e privi di munizioni e polvere da sparo. Secondo quanto riferito da Giuseppe Cesare Abba, infatti, i due vapori piemontesi avrebbero dovuto incontrarsi nella notte con alcune scialuppe che avevano il compito di rifornirli, ma non vi riuscirono a causa di misteriose e controverse circostanze . Da ciò conseguì la decisione di Garibaldi di fermarsi il 7 maggio a Talamone, dove recuperò, oltre alle munizioni, anche tre vecchi cannoni ed un centinaio di buone carabine presso la guarnigione dell'Esercito del
Regno di Sardegna di stanza nel forte toscano. Una seconda sosta fu effettuata il 9 maggio, nel vicino Porto Santo Stefano, per rifornimento di carbone. Formalmente Garibaldi ottenne armi e carbone poiché li aveva pretesi nella sua qualità di maggiore generale del Regio Esercito. Durante la sosta sulle coste toscane il nizzardo ordinò al colonnello Callimaco Zambianchi e a 64 volontari di distaccarsi dalla spedizione e tentare un'insurrezione nello Stato Pontificio. Zambianchi, dopo aver reclutato altri 200 uomini della zona, si inoltrò nel territorio papalino, causando alcuni saccheggi . Il colonnello pontificio Georges de Pimodan, venuto a conoscenza della presenza dei garibaldini, giunse a contrastarli presso Orvieto con una sessantina di carabinieri. Dopo un breve scontro, Zambianchi e i suoi uomini batterono in ritirata, poiché de Pimodan ebbe come supporto i contadini e si previde l'imminente arrivo degli zuavi . Cavour, preoccupato per l'eventuale reazione della Francia, alleata dello Stato Pontificio, dispose il 10 maggio l'invio di una nave nelle acque della Toscana e ordinò l'arresto di Zambianchi . Il colonnello dichiarerà che il suo vero obiettivo era l'Abruzzo . Il piano di Zambianchi sarebbe consistito nel distrarre le truppe borboniche, facendo loro credere che Garibaldi volesse attraversare i territori papalini per attaccare l'Abruzzo. Così facendo, il governo duosiciliano non sarebbe accorso a difendere le coste siciliane con tutte le sue forze, permettendo a Garibaldi di giungervi senza particolari complicazioni . Oltre ai 64 volontari staccatisi dal gruppo, 9 mazziniani abbandonarono la spedizione quando compresero che si sarebbe combattuto per la monarchia sabauda, mentre i restanti 1089 proseguirono nel viaggio. Nei giorni precedenti, tra il 7 e l'8 maggio, il comandante della marina sarda Carlo Pellion di Persano, alla guida di una divisione composta da tre pirofregate, aveva ricevuto da Cavour, tramite il governatore di Cagliari, l'ordine di arrestare la spedizione dei Mille solo se i legni di Garibaldi avessero fatto scalo in un porto della Sardegna, ma di non inseguirli se fossero stati incrociati in mare . L’11 maggio, in seguito alla richiesta del Persano di ricevere conferma degli ordini ricevuti, il conte di Cavour rispose con un telegramma ribadendo le disposizioni del governo piemontese . Oltre ai legni piemontesi, altre imbarcazioni solcavano le acque del Tirreno: infatti, il contrammiraglio George Rodney Mundy, vicecomandante della Mediterranean Fleet della Royal Navy, aveva ricevuto ordine, dal suo governo, di assumere il comando del grosso delle unità navali della sua flotta e di incrociare nel Tirreno e nel canale di Sicilia, effettuando frequenti scali nei porti duosiciliani, oltre che a scopo intimidatorio e di raccolta di informazioni, anche al fine di attenuare la capacità di reazione borbonica .
Lo sbarco a Marsala Lo sbarco a Marsala, avvenuto l'11 maggio 1860, ebbe come protagonisti i Mille della spedizione di Garibaldi, le navi della Real Marina duosiciliana e due vascelli da guerra della Royal Navy britannica. I garibaldini, a bordo dei vapori Piemonte e Lombardo, partiti da Quarto presso Genova, con l'appoggio delle forze liberali italiane e della monarchia sabauda, dopo più di cinque giorni di navigazione, entrarono nelle acque marsalesi riuscendo, nonostante l'intervento borbonico, a sbarcare e a prendere la città, dando avvio all'invasione del Regno delle Due Sicilie. La sera del 5 maggio, meticolosamente sorvegliata dalle autorità piemontesi , la spedizione guidata da Garibaldi salpò dalla spiaggia di Quarto, simulando, come da accordi, il furto dei vapori Piemonte e Lombardo. Dopo aver fatto scalo in Toscana, a Talamone e a Porto Santo Stefano, per rifornirsi di armi e munizioni, i garibaldini diressero verso la Sicilia. Per evitare navi borboniche, i due vapori, avevano seguito una rotta inconsueta (verso le Egadi), che li aveva portati fin quasi sotto le coste tunisine. Durante la notte del 10 maggio, il Piemonte, più veloce, aveva staccato il Lombardo, ma, prima dell'alba, i piroscafi si ricongiunsero in circostanze rocambolesche, giungendo, al mattino dell'11 maggio, fra Favignana e Marettimo dove furono individuati dal semaforo della punta della Provvidenza che segnalò la scoperta alle navi da guerra della Real Marina del Regno delle Due Sicilie; ma essendo le navi troppo lontane (20 miglia) non riuscirono ad impedire lo sbarco avvenuto verso le tredici e trenta dell'11 maggio.
I Mille, intenzionati a volgere verso Sciacca, puntarono poi a Marsala, poiché informati dall'equipaggio di un veliero inglese che il porto della città lilibetana non era protetto da vascelli duosiciliani. L'assenza di borbonici, confermata anche dal capitano di una paranza da pesca, Antonio Strazzera, convinse Garibaldi a dirigersi verso Marsala , dove i vapori piemontesi, che avevano inalberato il vessillo sabaudo , giunsero verso le tredici e trenta. Il Piemonte (dove era imbarcato Garibaldi) raggiunse il molo, attraccando in mezzo ad alcune navi mercantili inglesi, mentre il Lombardo si arenò in una secca nei pressi del faro , il che costrinse i suoi occupanti a raggiungere la spiaggia con le scialuppe. Anche lo sbarco del materiale (che si trovava perlopiù a bordo del Lombardo, nave di stazza maggiore del Piemonte) fu effettuato con l'aiuto delle barche presenti nel porto. Lo sbarco dei garibaldini fu favorito da diverse circostanze. Due navi da guerra inglesi, l'Argus e l'Intrepid, provenienti da Palermo, incrociavano al largo di Marsala ed entrarono nel porto della città siciliana circa tre ore prima della comparsa dei legni piemontesi . Non è ancora chiaro il motivo della presenza inglese in quel luogo. Già da tempo, comunque, altre imbarcazioni della marina militare britannica solcavano le acque del Tirreno nei pressi delle coste delle Due Sicilie: infatti, il contrammiraglio George Rodney Mundy, vicecomandante della Mediterranean Fleet, una divisione della Royal Navy, aveva ricevuto ordine, dal suo governo, di assumere il comando del grosso delle unità navali della sua flotta e di incrociare nel Tirreno e nel canale di Sicilia, effettuando frequenti scali nei porti duosiciliani a scopo intimidatorio e di raccolta di informazioni , cosa che avrebbe sicuramente attenuato la capacità di reazione borbonica . Garibaldi, nelle sue memorie, riconobbe che la presenza britannica giocò un ruolo rilevante nell'agevolare lo sbarco, affermando che:
« La presenza dei due legni da guerra inglesi influì alquanto sulla determinazione dei comandanti dei legni nemici, naturalmente impazienti di fulminarci, e ciò diede tempo di ultimare lo sbarco nostro. La nobile bandiera di Albione contribuì, anche questa volta, a risparmiare lo spargimento di sangue umano; ed io, beniamino di codesti Signori degli Oceani, fui per la centesima volta il loro protetto . »
Nonostante ciò, sempre nelle sue memorie, il generale chiarì che non c'era neanche un principio di verità nelle dicerie che gli inglesi avessero aiutato direttamente lo sbarco :
« Fu però inesatta la notizia data dai nemici nostri che gl'Inglesi avessero favorito lo sbarco in Marsala direttamente e coi loro mezzi . » In effetti, era diffusa la convinzione che i legni britannici avessero lasciato Palermo con il preciso scopo di favorire l'impresa del condottiero Nizzardo . Durante una riunione della Camera dei Comuni, infatti, il deputato inglese , sir Osborne, accusò il governo di aver favorito lo sbarco di Garibaldi a Marsala . Lord Russell rispose che le imbarcazioni erano lì, esclusivamente, per proteggere le imprese inglesi della zona, come i magazzini vinicoli Woodhouse e Ingham, e che non intralciarono le operazioni dei vascelli borbonici nel frattempo accorsi, i quali avrebbero potuto tirare sui garibaldini, ma non lo fecero . Lo spostamento degli inglesi da Palermo a Marsala fu, comunque, la dimostrazione dell'inefficienza della crociera protettiva in atto, infatti, le navi giunsero nel porto lilibetano senza venir intercettate dall'Armata di Mare duosiciliana .
Alcune navi da guerra borboniche, lo Stromboli, la Partenope ed il Capri, infatti, erano giunte, sebbene con sensibile ritardo, nel porto di Marsala . Con il grado di capitano di fregata, Guglielmo Acton, nipote di John e cugino di secondo grado di Lord Acton, era il comandante della corvetta Stromboli, mentre Francesco Cossovich e Marino Caracciolo avevano il comando, rispettivamente, della Partenope e del Capri . Il ritardo con cui Acton entrò nelle acque marsalesi è attribuibile a due discussi episodi. Il primo riguarda l'ordine, ricevuto dal capitano di origini scozzesi, attraverso una nota reale del 9 maggio, di muovere verso Tunisi . Probabilmente, i sistemi di informazione del governo borbonico furono ingannati da uno stratagemma della propaganda liberale che diffuse la notizia di garibaldini pronti a partire dalla città africana . Il secondo episodio, relativo proprio alla mattina dell'11 maggio, riguarda la decisione di imbarcare due cannoni, a bordo dello Stromboli, che portò via ad Acton almeno due ore di tempo, impedendogli, così, di intercettare il Piemonte e il Lombardo in altro mare: situazione che sarebbe risultata molto pericolosa per i vapori garibaldini . Giunto nel porto, il vascello di Acton non contrastò immediatamente lo sbarco dei Mille. Egli, infatti, tardò, anche, a bombardare i garibaldini, probabilmente perché incerto circa le intenzioni delle due navi da guerra inglesi: il capitano Winnington Ingram, al comando dell'Argus aveva segnalato la presenza sul molo di marinai britannici e chiesto ai napoletani di attendere che questi fossero reimbarcati prima di avviare le ostilità. Acton, con un atto di "cortesia internazionale", acconsentì . Gli indugi furono finalmente rotti dall'avvio di un poco efficace bombardamento dei moli che, però, fu presto sospeso da un nuovo intervento del comandante dell'Argus. Questi, accompagnato dal capitano Marryat, l'ufficiale al comando dell'Intrepid, e da Richard Brown Cossins, vice console inglese a Marsala, salì a bordo dello Stromboli e ammonì Acton dicendo che lo avrebbe ritenuto personalmente responsabile se il cannoneggiamento avesse danneggiato le vicine proprietà vinicole britanniche . Solo dopo aver rassicurato gli inglesi, l'attacco riprese, questa volta con l'ausilio delle bocche da fuoco dei vascelli Partenope e Capri, nel frattempo giunti nel porto. Proprio un ufficiale del Capri fu inviato a bordo dell'Intrepid per parlamentare con gli inglesi. Questi, in sostanza, domandò un intervento britannico, avanzando la richiesta che una lancia venisse fatta accostare alle navi piemontesi per intimar loro la resa. Naturalmente gli inglesi rifiutarono . Subito dopo il colloquio, l'Argus spostò il proprio ancoraggio andando a collocarsi in posizione più prossima ai magazzini di vino per poter meglio proteggerli . Il bombardamento si protrasse sino al tramonto, ma non consentì di ottenere alcun risultato, salvo colpire gli ormai deserti legni piemontesi . Il Piemonte fu catturato e rimorchiato fino a Napoli dallo Stromboli, mentre non si riuscì a disincagliare il Lombardo dal banco di sabbia in cui si era incuneato, pertanto, ritenuto irrecuperabile, fu lasciato nelle acque marsalasi . Le diverse perdite di tempo e l'azione rivelatasi sterile delle navi duosiciliane finirono, dunque, per consentire ai garibaldini di ultimare, quasi indisturbati, lo sbarco. Fatta eccezione per il cannoneggiamento dal mare, infatti, i napoletani non avevano altro modo per contrastare Garibaldi: la divisione era priva di truppe da sbarco, poiché, nei piani difensivi del governo di Napoli, i vascelli piemontesi avrebbero dovuto essere incrociati prima dello sbarco e colati a picco in mare . Inoltre, i comandanti dell'esercito borbonico, ignorando le segnalazioni dei servizi di informazione napoletani, appena un giorno prima dello sbarco, avevano fatto
rientrare a Palermo le colonne del generale Letizia e del maggiore d'Ambrosio, per far fronte al pericolo di una probabile insurrezione nella capitale siciliana . Questo cambiamento, però, fu fatale in quanto, al momento dello sbarco, non vi erano truppe di terra né a Marsala, né nei dintorni. Il fallito impedimento dello sbarco portò Acton, insieme ad altri, ad essere sottoposti ad inchiesta per il loro comportamento durante l'operazione difensiva. Il giudizio della commissione dell'Armata di Mare sulla sua condotta, e su quella degli altri comandanti napoletani, fu che essa era stata «irreprensibile». Nonostante ciò, Acton fu sospeso per due mesi, finché venne assegnato al Monarca in armamento presso il cantiere navale di Castellammare di Stabia.
Entrati in città, i Mille furono accolti freddamente dalla popolazione locale, tanto che il garibaldino Giuseppe Bandi poté scrivere che i marsalesi li accolsero «su per giù come si accolgono i cani in chiesa» . Il mazziniano Francesco Crispi, divenuto l'organizzatore politico di Garibaldi, prese immediatamente contatto con i rappresentanti del consiglio comunale marsalese, spingendoli a dichiarare che la casa reale dei Borbone aveva cessato di regnare sulla Sicilia e ad offrire al generale nizzardo la dittatura dell'isola . Garibaldi accettò senza indugio e, a Salemi, si proclamò dittatore della Sicilia in nome di Vittorio Emanuele Re d'Italia, compiendo il primo atto del suo governo dittatoriale . I garibaldini lasciarono Marsala e si inoltrarono rapidamente verso l'interno. A loro si unirono già il 12 giugno i volontari siciliani comandati dai fratelli Sant'Anna. I Mille, affiancati da 500 "picciotti", ebbero un primo scontro nella battaglia di Calatafimi il 15 maggio, contro circa 4.000 soldati borbonici. Qui, con un eroico gesto, Augusto Elia salva la vita al generale Garibaldi, riportando una grave ferita al volto. Dopo Calatafimi Garibaldi proseguì verso Palermo, per Alcamo, Partinico e Renne, giungendo in vista della città. Dopo qualche scaramuccia e varie manovre diversive verso l'interno, i garibaldini, il 27, giunsero a Palermo e si apprestarono ad entrare in città, ma prima dovettero attraversare il Ponte dell'Ammiraglio, presidiato dai militari duosiciliani. Dopo un duro scontro, le truppe borboniche abbandonarono il campo e rientrarono a Palermo, una colonna attraverso la Porta Termini, l'altra attraverso la Porta Sant'Antonino . Nei successivi scontri tra Porta Sant'Antonino e Porta Termini cadeva l'ungherese Luigi Tüköry, mentre furono feriti, fra gli altri, Benedetto Cairoli, Stefano Canzio e Nino Bixio. Francesco Crispi , riconosciuto come l'ideatore della Spedizione dei Mille.
Aiutati dall'insurrezione di Palermo, tra il 28 maggio ed il 30 maggio i garibaldini e gli insorti, combattendo spesso strada per strada, conquistano tutta la città, nonostante il bombardamento indiscriminato condotto dalle navi borboniche e dalle postazioni presenti presso il piano antistante Palazzo dei Normanni e il Castello a Mare. Il 29 maggio si aveva un deciso contrattacco delle truppe borboniche che, però, veniva arginato. Il giorno 30 maggio i duosiciliani, asserragliati nelle fortezze lungo le mura, chiesero un armistizio. Garibaldi, ormai padrone della città, si proclamò "dittatore" nominando un governo provvisorio in cui risaltava il ruolo di Francesco Crispi. Dopo un armistizio dal 30 maggio al 3 giugno, il giorno 6 giugno le truppe che difendevano il capoluogo siciliano capitolavano in cambio del permesso di lasciare la città e ottenendo l'onore delle armi. In quei giorni il porto di Palermo divenne un affollato crocevia dei più disparati personaggi, compresi molti cronisti di giornali inglesi ed americani, tra cui Ferdinand Eber, corrispondente del Times che entrò a far parte dei Mille con il grado di colonnello. Il 30 maggio sbarcò dal suo panfilo personale Alexandre Dumas con armi e champagne. Il 6 giugno arrivò Giuseppe La Farina, inviato da Cavour, che temeva i mazziniani, per prendere il controllo della situazione a favore del Regno di Sardegna, senza, però, trovare al momento un'accoglienza favorevole. Lascerà nelle lettere di quei giorni severi giudizi sui garibaldini ed il governo dittatoriale e continuerà a complottare per l'immediata annessione, fino alla sua espulsione. Durante il mese di giugno ai garibaldini si aggregarono altri volontari siciliani e quelli provenienti da altre parti d'Italia, i cui arrivi si succedevano quasi quotidianamente, inquadrandosi in quello che poi fu chiamato esercito meridionale. Il 2 ed il 3 giugno arrivarono a Catania, che intanto era insorta, due imbarcazioni con diversi volontari e rifornimenti provenienti da Genova, dopo un lungo viaggio che aveva toccato Malta. Il 7 giugno arrivarono 1500 fucili da Malta (forniti dagli inglesi). L'11 giugno sbarcò a Marsala una nave di rifornimenti (l'Utile) con 69 uomini al comando di Carmelo Aglietta, 1000 fucili e molte munizioni . Il 18 giugno sbarcò a Castellammare del Golfo la seconda vera e propria spedizione, proveniente da Genova e comandata dal generale Giacomo Medici, con tre navi, circa 3500 volontari, 8000 fucili moderni e munizioni Il 5 ed il 7 luglio sbarcarono a Palermo 1800 volontari comandati da Enrico Cosenz. Il 9 luglio su una vecchia carboniera arrivarono diverse centinaia di volontari. Il 22 luglio su due navi arrivarono a Palermo circa 2000 volontari, quasi tutti lombardi, al comando di Gaetano Sacchi. I garibaldini furono riorganizzati e verso la fine del mese di giugno mossero da Palermo, divisi in tre colonne, verso la conquista dell'isola. La brigata di Stefano Türr (poi comandata da Eber), con circa cinquecento uomini, s'incamminò per l'interno, Bixio con circa 1700 uomini verso Catania, passando da Agrigento, e Medici con Cosenz, al comando della colonna più importante, avanzarono lungo la costa settentrionale. Qui il 20 luglio le truppe borboniche vennero sconfitte nella battaglia di Milazzo, a cui partecipò lo stesso Garibaldi, giunto da Palermo. I garibaldini guidati da Medici giunsero a Messina il 27 luglio, quando già una parte delle truppe duosiciliane aveva lasciato la città . Il giorno seguente, giunse Garibaldi. Con la città in mano ai Mille, il generale Tommaso Clary, comandante dei borbonici, e Medici sottoscrissero una convenzione, che prevedeva l'abbandono di Messina da parte delle milizie borboniche, a patto che non venisse arrecato alcun danno alla città e che il loro imbarco verso Napoli non fosse molestato . Garibaldi aveva ottenuto così campo libero, e i soldati borbonici si reimbarcarono verso il continente. A presidiare la Real Cittadella, affacciata sul porto, rimase solo una piccola guarnigione che non tenterà alcuna azione bellica, ma che si arrenderà solo mesi più tardi. Il 28 luglio capitolarono anche le fortezze di Siracusa e Augusta. Così veniva completata la conquista dell'isola. Il 17 marzo 1861 Vittorio Emanuele II fu proclamato Re d'Italia, mantenendo, però, il numerale "II". Ciò sta ad indicare la continuità tra il vecchio stato piemontese ed il nuovo stato unitario: il Regno di Sardegna cambiava nome in Regno d'Italia conservando la propria identità statuale (ma moltiplicando il territorio in seguito all'annessione delle Due Sicilie e degli altri Stati della penisola). "Fatta l'Italia, bisogna fare gli Italiani": a questo motto - attribuito dai più a Massimo D'Azeglio, ma da alcuni anche a Ferdinando Martini - fu ispirata tutta la politica successiva alla spedizione dei Mille. All'indomani dell'unità, molte delle aspettative generate dalla spedizione dei mille furono deluse dallo stato unitario appena formatosi. Nelle Due Sicilie i contadini e gli strati più poveri della popolazione, dopo aver
inizialmente creduto che con Garibaldi le condizioni di vita sarebbero migliorate, si ritrovarono, invece, ad affrontare maggiori tasse e la coscrizione (servizio di leva) obbligatoria, con una conseguente diminuzione delle braccia in grado di sostenere una famiglia. Ne I Malavoglia di Giovanni Verga appare chiara la disillusione, seguita da una cocente delusione, della popolazione di fronte alla nuova Italia unita, attraverso i racconti della lunga coscrizione del giovane 'Ntoni, la morte del giovane Luca nella battaglia di Lissa e le nuove tasse . La cocente delusione di chi sperava che l'unità d'Italia avrebbe cambiato le sorti del Sud è ben raccontata anche nel romanzo di Anna Banti, Noi credevamo . Nel meridione continentale questo malcontento popolare sfociò nel movimento di resistenza definito brigantaggio. Lo stesso Garibaldi nel 1868 scrisse in una lettera ad Adelaide Cairoli: «Gli oltraggi subiti dalle popolazioni meridionali sono incommensurabili. Sono convinto di non aver fatto male, nonostante ciò, non rifarei oggi la via dell’Italia meridionale, temendo di essere preso a sassate, essendosi colà cagionato solo squallore e suscitato solo odio .»
La rivolta contro i Cutrara .L’avventura garibaldina aveva lasciato in Sicilia un clima di grande conflittualità, di cui approfittarono, come al solito, i “nobilotti” chiamati “cutrara”. I “cutrara” s’individuano negli approfittatori senza scrupoli ed in coloro che si dividono la “coltre” del dominio con i loro maneggi politici, che danno ricchezza e potere con il supporto della delinquenza organizzata, che i piemontesi occupanti chiamarono “mafia”, ma a cui si appoggiarono per mantenere un presunto ordine pubblico, decretandone così un salto di qualità. La scintilla di quei moti popolari contro casa Savoia, che la storia ufficiale ha deciso di ignorare, fu data dall’introduzione in Sicilia della leva militare obbligatoria, la cui legge fu pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del 30 giugno 1861. La norma, fin dall’inizio fu irrisa dal popolo siciliano, che non era avvezzo a questo arruolamento (che con i Borbone non esisteva), imposto da un esercito straniero per servire un ideale completamente avulso dal contesto isolano. Il servizio di leva, oltretutto, teneva lontani, per 7 lunghi anni, tanti giovani siciliani dalle loro famiglie e dalle loro terre, dalla cui coltivazione essi traevano il loro unico sostentamento. Partendo i giovani, per le famiglie che rimanevano era la fame e quindi la morte. Inoltre i figli dei ricchi “cutrara” pagando erano esonerati dal servizio militare, venendosi così ad instaurare un forte risentimento contro le classi privilegiate che si erano appropriate di tutte le terre demaniali e della Chiesa. Ne seguì che quasi tutti i giovani chiamati alle armi furono costretti a darsi alla macchia, preferendo alla coscrizione obbligatoria, la vita da perseguitati sulle montagne che sovrastano Castellammare del Golfo, piene di anfratti naturali e grotte. Ma non potendo vivere a lungo nel freddo e nei disagi di una vita senza scopo e da ricercati, i giovani renitenti alla leva, considerati disertori, decisero di inaugurare il 1862 insorgendo contro il vessatorio potere straniero. Radunatisi, armati come capitava, nella contrada Fraginesi, a sud-ovest dell’abitato di Castellammare, 400 giovani circa, verso le 2 del pomeriggio del 2 gennaio 1862 entrarono senza paura in paese preceduti dai due popolani Francesco Frazzitta e Vincenzo Chiofalo che portavano una bandiera rossa che poi piantarono su un muro del corso principale, indi assalirono l’abitazione di Bartolomeo Asaro che era il Commissario di leva e del Comandante della Guardia Nazionale Borruso: due emblemi dell’odiato governo che furono trucidati e le loro case bruciate. Ma la furia vendicativa dei piemontesi non si fece attendere e l’indomani, mentre un drappello di soldati si dirigeva verso Castellammare, due navi da guerra sbarcarono al porto centinaia di bersaglieri che diedero la caccia agli insorti mentre, dalle stesse navi, i cannoni sparavano maggiormente verso la montagna sovrastante il paese. Le truppe regie, nei loro frenetici rastrellamenti riuscirono a trovare soltanto in contrada “Villa Falconeria”, un gruppetto di gente che si era ritirato in quella campagna forse per non trovarsi coinvolto negli scontri che avvenivano in paese.
E qui i bravi bersaglieri piemontesi, non avendo altri sottomano, adempirono al loro “compito di giustizia” fucilando tutta quella gente, senza processo e senza tanti complimenti. Furono uccise 7 persone: •
Mariana Crociata cieca, analfabeta, di anni 30;
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Marco Randisi di anni 45, storpio, bracciante agricolo, analfabeta;
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Benedetto Palermo di anni 46, sacerdote;
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Angela Catalano contadina, zoppa, analfabeta, di anni 50;
•
Angela Calamia di anni 70, handicappata, analfabeta;
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Antonino Corona, handicappato di anni 70
e poi: •
Angela Romano di appena 9 anni.
Rivolta del sette e mezzo "Una tinta mattinata del settembre 1866, i nobili, i benestanti, i borgisi, i commercianti all'ingrosso e al minuto, i signori tanto di coppola quanto di cappello, le guarnigioni e i loro comandanti, gli impiegati di uffici, sottuffici e ufficiuzzi governativi che dopo l'Unità avevano invaso la Sicilia pejo che le cavallette, vennero arrisbigliati di colpo e malamente da uno spaventoso tirribllio di vociate, sparatine, rumorate di carri, nitriti di vestie, passi di corsa, invocazioni di aiuto. Tre o quattromila viddrani, contadini delle campagne vicino a Palermo, armati e comandati per gran parte da ex capisquadra dell'impresa garibaldina, stavano assalendo la città. In un vìdiri e svìdiri, Palermo capitolò, quasi senza resistenza: ai viddrani si era aggiunto il popolino, scatenando una rivolta che sulle prime parse addjrittura indomabile. Non tutti però a Palermo furono pigliati di sorpresa. Tutta la notte erano ristati in piedi e viglianti quelli che aspettavamo che capitasse quello che doveva capitare. Erano stati loro a scatenare quella rivolta che definivano "repubblicana", ma che i siciliani, con l'ironia con la quale spesso salano le loro storie più tragiche, chiamarono la rivolta del "sette e mezzo", ché tanti giorni durò quella sollevazione. E si ricordi che il "sette e mezzo" è magari un gioco di carte ingenuo e bonario accessibile pure ai picciliddri nelle familiari giocatine di Natale. Il generale Raffaele Cadorna, sparato di corsa nell'Isola a palla allazzata, scrive ai suoi superiori che la rivolta nasce, tra l'altro, "dal quasi inaridimento delle risorse della ricchezza pubblica", dove quel "quasi" è un pannicello caldo, tanticchia di vaselina per far meglio penetrare il sostanziale e sottinteso concetto che se le risorse si sono inaridite non è stato certamente per colpa degli aborigeni, ma per una politica economica dissennata nei riguardi del Mezzogiorno d'Italia". (Andrea Camilleri, Biografia del figlio cambiato, Edizioni Rizzoli - La Scala)
Così molto coloritamente Camilleri descrive l’inizio del “Sette e mezzo”. La rivolta davvero fu iniziata da squadre di contadini, circa
3 o 4000 uomini, provenienti dalle campagne circostanti Palermo. Erano guidate in buona parte da quegli stessi capisquadra che avevano partecipato all’impresa garibaldina del 1860. Una volta entrati in città, nella notte tra il 15 ed il 16 settembre 1866, rapidamente riuscirono a sollevare l’intera popolazione. La ribellione fu imponente, fonti governative parlano di 35-40 mila uomini in armi, e certamente se all’inizio essa fu indubbiamente una manifestazione esplosiva di malcontento e di protesta popolare la sua rapida diffusione la massiccia partecipazione furono certamente opera di una concertazione, da tempo preparata, di alcune forze politiche. Il mescolarsi della spontaneità popolare con la rivolta organizzata fu favorito dalla situazione economica disastrosa, come detto in precedenza, e dallo scoppio della terza guerra d’indipendenza che stava mostrando la debolezza dello stato savoiardo in seguito alle sconfitte di Custoza e di Lissa. La capacità di controllo della classe liberale che aveva appoggiato Vittorio Emanuele era ormai deteriorata, e non solo in Sicilia. Nella rivolta di Palermo insorsero contemporaneamente e di concerto sia l’opposizione di estrema destra, nobili e clero, che quella di estrema sinistra. I nobili della destra estrema ed il clero avevano come obiettivo la restaurazione borbonica e clericale, la sinistra estrema aveva come obiettivo la costituzione di uno stato repubblicano sul modello mazziniano. Tuttavia Mazzini, tanto per cambiare, se ne dissociò e addirittura la criticò. Essendo a conoscenza delle intenzioni dei repubblicani di Palermo, qualche mese prima (a conferma della lunga preparazione della rivolta) aveva scritto “un moto repubblicano, che conduce a far pericolare l’unità nazionale, sarebbe colpevole; un moto che restasse senza certezza che il resto d’Italia possa seguirlo, sarebbe un errore; un moto che restasse isolato, cadrebbe poco dopo nell’autonomismo, nello smembramento, nelle concessioni a governi e reggitori stranieri…” (Mazzini a Bagnasco in “Il precursore” Palermo 31 luglio 1865) e forse a pensarci bene non aveva torto. La caratteristica peculiare della rivolta del 1866 fu in ogni caso la contemporanea partecipazione della destra estrema e della sinistra. Indicativo è il fatto che la giunta rivoluzionaria aveva un presidente borbonico, il principe di Linguaglossa, ed un segretario mazziniano, Francesco Bonafede. Come sarebbe stato possibile conciliare queste due linee politiche non c’è dato sapere, vista la feroce repressione ed il fallimento della rivolta. Per sette giorni e mezzo Palermo restò in mano ai rivoltosi (da qui il nome “sette e mezzo”). E solo in seguito all’impiego di 40.000 soldati e soprattutto dei bombardamenti all’americana ordinati dal generale Cadorna, i sabaudi ebbero ragione dei rivoltosi. Si contarono miglia di morti e migliaia di prigionieri, ma non cifre ufficiali, forse il nuovo stato unitario se ne vergognava. Ma perché Palermo, una delle città più importanti d’Italia, una delle città che avevano anche favorito i sabaudi, consentendo lo sbarco di Garibaldi e favorendone l’avanzata, dopo solo 5 anni di governo si ribellò? Ed è questo un evento da considerare come regionale ed isolato o espressione di un malessere più diffuso? Certamente un peso notevole l’ebbe la nascita di un mercato nazionale e l’estensione su tutto lo stato unificato delle rigide leggi di Torino. A Palermo esplose quel fenomeno che già si era verificato in altre città europee, quel fenomeno che Hobsbawn ha chiamato “mob” dovuto alla difficoltà di passare ad una economia di tipo feudale, campagnola, assistita al capitalismo . Quello di Palermo fu il primo “mob” dell’Italia unita. Non solo questo però possiamo leggere in questa rivolta. Non meno importante è la sua valenza politica. Possiamo infatti affermare che ha avuto un ruolo nella formazione della classe politica italiana, in particolare nella storia della sinistra italiana. Il sette e mezzo, o meglio la parte di sinistra del sette e mezzo nasce dalla crisi del partito d’azione, dopo le sconfitte garibaldine in Aspromonte. L’evento portò il mazziniano Crispi, ad optare per la monarchia “la monarchia ci unisce e la repubblica ci dividerebbe” e questo strappo verso la destra fece nascere una sinistra intransigente ed estremista che guidata da persone come Friscia, Corrao, Bonafede, continuarono a lottare per l’ideale repubblicano, questa gente si staccò ben presto da Garibaldi e Mazzini e cercò, con poca fortuna, di agire da sola. Bakunin, che fu critico verso questi personaggi, non può tuttavia fare a meno di considerare il Mezzogiorno come luogo d’elezione per una rivolta del proletariato, perché terra ricca di emarginati, poveri ed oppressi. Non c’era alternativa: o briganti (e quindi mob) o rivoluzionari (estremisti sia della destra legittimista che di sinistra).
L’insurrezione fu un fatto estremamente grave, sintomo di una situazione malsana, e non solo in Sicilia. Fu ordinata, su proposta di Mordini, la prima inchiesta parlamentare della storia d’Italia. Si accertò che la situazione era critica e che l’unità nazionale, da poco raggiunta era in pericolo. Malgrado ciò non si tentarono miglioramenti, si soffocò, si andò avanti e si costruì uno stato sul fango. Ancora oggi “non” ne raccogliamo i frutti …
Il crollo economico in Sicilia Il Regno delle due Sicilie non aveva un elevato debito pubblico al momento della sua caduta, anche a causa della bassa quantità di investimenti in opere di modernizzazione; al contrario, il Regno di Sardegna ne aveva uno molto elevato anche a causa delle guerre sostenute contro gli austriaci. In seguito all'Unità d'Italia venne unificato anche il debito, facendo gravare anche sui contribuenti meridionali gli investimenti effettuati in Piemonte nel corso degli anni '50 del XIX secolo. I fondi del Banco delle Due Sicilie, che era la Banca nazionale del regno borbonico (443 milioni di Lire-oro, all'epoca corrispondenti al 65,7 del patrimonio di tutti gli Stati italiani messi insieme) vennero incamerati dal nuovo Stato italiano, concorrendo a costituire il capitale liquido nazionale nella misura di 668 milioni di Lire-oro. L'istituto fu poi scisso in Banco di Napoli e Banco di Sicilia, partendo con evidente perdita iniziale di competitività nei confronti delle imprese bancarie nazionali. Ad Unità realizzata, con le politiche liberiste del nuovo Regno d'Italia, a cui erano state estese le metodologie di governo proprie del vecchio Stato sabaudo, entrarono in crisi i principali settori produttivi delle regioni meridionali e della Sicilia, che perse i mercati tradizionali non reggendo più la concorrenza inglese e francese. La fiscalità, divenuta più gravosa rispetto a quella borbonica, finiva così col finanziare gli investimenti al nord Italia. Sulle spalle dei siciliani, abituati ad unica tassa sul reddito, che copriva tutte le spese pubbliche ed anche locali, si venivano a caricare le nuove tasse comunali, le nuove tasse provinciali, il "focatico" (che essendo una tassa di famiglia colpiva duramente le famiglie numerose), la tassa sul macinato (che affamava proprio i più poveri, quelli che, cercando di risparmiare macinando il proprio esiguo raccolto, incorrevano nella famelica imposta), la nuova tassa di successione ed altre cosiddette addizionali. Il nuovo Stato, peraltro, era ancor più restio dei Borboni ad investire in Sicilia: ad esempio, dal 1862 al 1896 vennero investiti per opere idrauliche al nord Italia 450.000.000 contro soli 1.300.000 in Sicilia. Mentre nel resto d'Italia si moltiplicavano le linee ferroviarie, la Sicilia ebbe la sua prima, brevissima, Palermo-Bagheria, solo nel 1863. La politica liberista dei governi unitari fu quella che aggravò maggiormente la situazione economica della Sicilia, ridotta così a colonia del Piemonte. Con la politica del libero scambio venne disincentivata la produzione della seta siciliana e del tessile locale, troppo frammentati, a vantaggio della grossa impresa del nord Italia e così avvenne anche per la locale industria alimentare; perfino i settori dell’industria pesante decaddero per mancanza di commesse e fondi. Se ne avvantaggiava soltanto la produzione del grano, del vino e degli agrumi, che venivano esportati durante la guerra di secessione americana. Anche questo durò soltanto fino al 1887, quando il cambiamento della strategia del governo italiano, da liberista a protezionista, e la guerra doganale finirono con l'assestare il colpo di grazia all'economia oramai essenzialmente agricola della Sicilia, privandola dei suoi mercati. Furono anni in cui avvenne un progressivo spopolamento, per fame, delle campagne. È proprio in questa serie di fattori che si individua da più parti il sorgere della mai più risolta questione meridionale. Le città relativamente più ricche, soprattutto quelle della costa orientale, con l'afflusso costante di gente in cerca di lavoro proveniente dall'interno, videro incrementare la loro popolazione e con essa i loro problemi sociali. La popolazione di Catania, che nel 1861 era di 68.810 abitanti, nel 1880 aveva già superato le 90.000 unità. In quest’ultima città erano avvenuti consistenti investimenti a partire dagli anni anni '70 del XIX secolo nel settore industriale della raffinazione dello zolfo, che si avvantaggiava della presenza del porto per la sua
commercializzazione. Iniziava anche lo sviluppo delle ferrovie a supporto della stessa, (infatti la stazione della Società per le Strade Ferrate della Sicilia venne costruita nella stessa zona delle raffinerie) e il 3 gennaio 1867 veniva aperto il tronco ferroviario Giardini-Catania della ferrovia Catania–Messina, il cui primo tratto era stato inaugurato l’anno prima . L'attività della Camera consultiva commerciale di Catania, che era nata nel 1853, in un contesto difficile qual era quello burocratico del governo borbonico, con le sue iniziative e le sue pressioni, promosse il potenziamento delle infrastrutture essenziali come le poste, le banche e i collegamenti marittimi e stradali (al tempo era ancora difficile la comunicazione via terra con Siracusa). Venne tentata, con la costituzione di una Società di irrigazione del Simeto del barone Spitaleri, la coltivazione del cotone in alcune zone della Piana di Catania e la coltivazione del riso, ma soprattutto quest'ultima si rivelò un'iniziativa fallimentare. L'attività imprenditoriale cercò allora altre alternative introducendo nelle aree più idonee, come quelle etnee e collinari della Sicilia orientale, la coltivazione su vasta scala degli agrumi, trasformando ampie zone fino ad allora coltivate a vigneto. Fu così che, mentre perdurava il brigantaggio e il malessere sociale, nascevano i primi fermenti di coscienza sociale e collettiva; nel 1892, dopo un congresso operaio a Palermo, nacquero i Fasci dei lavoratori. Presto venivano reclamate la divisione delle terre ai contadini e la soppressione dei "gabellotti". Nel 1893, tuttavia, scoppiarono gravi sommosse nell’isola; la componente anarchica sfociava in eccessi e ciò diede a Francesco Crispi, ex garibaldino siciliano divenuto capo del governo nel 1894, il motivo per scatenare una durissima repressione con lo scioglimento dei "Fasci".
La rivolta dei Fasci Siciliani , la strage di Marineo gennaio 1894
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Oltre cento anni fa (nel 1893) nelle campagne e nelle città di Sicilia, contadini, artigiani, intellettuali, ma soprattutto donne e uomini di ogni età, cominciarono ad unirsi nei Fasci dei Lavoratori, nel tentativo di sconfiggere la rassegnazione, di sfidare la mafia dei gabelloti ed il potere dello Stato che affamava la povera gente lavoratrice. Era un sogno di giustizia e di libertà che mirava a costruire, con la lotta giorno dopo giorno, il progetto di una società migliore. Fra coloro che aderirono ai Fasci dei Lavoratori, si distinsero le donne che aspiravano alla conquista, attraverso la solidarietà e la partecipazione, del benessere sociale. Tentavano di recuperare valori morali e sociali in grado di proporre alla collettività un senso nuovo della dignità umana. I Fasci siciliani furono tragicamente repressi dai mafiosi locali e dal governo nazionale. Si contarono più di cento morti, diverse centinaia i feriti e oltre tremila cinquecento rinchiusi nelle patrie galere. Per comprendere perché i fasci ebbero una tale diffusione nei centri rurali basta considerare le condizioni in cui versava, a trent'anni di distanza dalla forzata Unità, la classe contadina. In Sicilia giunse in ritardo, anche rispetto al Mezzogiorno continentale, la promulgazione delle leggi eversive della feudalità e, quando giunsero, queste leggi non vennero applicate per molto tempo. Benché i feudi fossero stati trasformati in allodi, cioè in proprietà private, non ci fu la formazione di una classe di piccoli e medi proprietari. Le terre vendute dai baroni in dissesto finanziario finirono per ingrandire ulteriormente i latifondi di altri ex-feudatari e di gabelloti arricchiti. Il latifondo, quindi, continuava a caratterizzare l'agricoltura e la struttura sociale siciliane. Inoltre, le condizioni dei contadini erano peggiorate per la perdita, in seguito alla eversione della feudalità, dei diritti comuni e degli usi civici. La situazione non mutò, anzi s'è possibile, peggiorò dopo la forzata unità d'Italia: Infatti, "la censuazione dei demani pubblici e dei beni ex-ecclesiastici non intaccò minimamente il latifondo" (M. Ganci, 1977), al contrario, contribuì a rafforzarlo poiché i terreni, concessi in enfiteusi o venduti, furono in massima parte accaparrati dai grandi proprietari terrieri e dai gabelloti. Chi erano i gabelloti? Questa figura era nata nel corso del XIX secolo, in seguito alla tendenza dell'aristocrazia siciliana di trasferirsi nella città di Palermo, cedendo le terre dell'interno, dietro pagamento di una gabella, a degli affittuari che vennero, per questo, chiamati gabelloti. Il
mercato delle gabelle, nella Sicilia centro-occidentale, era in gran parte controllato e gestito, da organizzazioni mafiose e molti gabelloti, erano affiliati a queste organizzazioni, così come lo erano i "soprastanti", uomini di fiducia dei gabelloti, ed i "campieri", i quali costituivano una sorta di polizia privata del feudo. I gabelloti, a loro volta, subaffittavano le terre ai contadini, ad un canone di gran lunga superiore alla gabella che erano tenuti a pagare ai proprietari. Essi speculavano sullo stato di bisogno dei "villani"; inoltre, spalleggiati dai campieri e dai soprastanti, ricorrevano alla violenza per tenere assoggettati i contadini e per far desistere i proprietari da eventuali aumenti degli affitti. Fu con questi sistemi che i gabelloti riuscirono ad accumulare il denaro che permise loro di acquistare le terre degli ex-feudatari e di partecipare alle aste dei beni ecclesiastici, impedendo di fatto la redistribuzione delle terre. Il gabelloto, divenuto latifondista, si faceva riconoscere dalla monarchia borbonica prima e sabauda dopo, un titolo nobiliare, di solito quello di barone; chi non ci riusciva si contentava di quello di galantuomo, con diritto al voto. Trent'anni dopo l'Unità d'Italia, e cioè nel periodo in cui cominciarono a sorgere i primi Fasci dei lavoratori, i rapporti sociali e di lavoro nel latifondo erano ancora basati sulle seguenti classi: i grandi proprietari terrieri; i gabelloti; i borghesi; i coloni; ed i giornalieri agricoli. I borghesi erano i piccoli e medi proprietari, cioè coloro che, in qualche modo, erano riusciti ad acquistare qualche ettaro di terra, in seguito al processo di vendita dei beni della Chiesa. Le condizioni dei borghesi erano difficili per via delle numerose tasse che li costringeva a ricorrere a prestiti usurari. I piccoli proprietari finivano pertanto col prendere a mezzadria altri terreni ed a dipendere, anch'essi, dall'economia del latifondo. La maggior parte dei grandi proprietari, come abbiamo già detto, preferiva cedere la propria terra, ai gabelloti. Costoro la subaffittavano ai coloni, sottoponendoli a contratti iniqui ed angarici. I patti colonici più diffusi, alla fine dell'Ottocento, nella Sicilia del latifondo erano la mezzadria, o metaterìa, ed il terratico. Con la mezzadria il proprietario o il gabelloto metteva a disposizione del colono la terra e anticipava le sementi, mentre il colono era tenuto a fare tutti i lavori necessari per la produzione; il raccolto veniva ripartito con vari sistemi. Nonostante le diverse varianti, alla base del contratto di mezzadria c'era sempre lo sfruttamento del colono da parte del proprietario o, più spesso, del gabelloto. Il contadino dell'interno, e in modo particolare il mezzadro che usava i suoi muli e la sua attrezzatura per lavorare la terra, era infatti indebitato in permanenza col gabelloto. Inoltre il contratto era verbale, cosa che dava adito ad abusi da parte del gabelloto. Della sua quota, il mezzadro doveva cederne una parte che il gabelloto distribuiva tra i campieri. Questi donativi erano in realtà tributi che il contadino pagava in cambio di protezione. Il terratico era, per il contadino, ancora più pesante e svantaggioso di quello di mezzadria. Mentre in quest'ultimo contratto il compenso dovuto al proprietario era proporzionato al raccolto, nel terratico il colono doveva corrispondere al proprietario una quota fissa, in denaro o in natura, indipendentemente dalla buona riuscita del raccolto; bastava, quindi, una cattiva annata per costringere il terratichiere a ricorrere all'usuraio o a vendere quel poco di cui disponeva. Il terratico fu imposto sempre più diffusamente nel corso del XIX secolo, in seguito alla liberalizzazione della proprietà dai vincoli feudali, e all'instaurarsi di una certa concorrenza tra i nuovi proprietari o tra i nuovi possessori. Costoro, approfittando delle condizioni sempre più misere dei contadini, i quali erano stati privati anche degli usi civici, riuscirono ad imporre loro questo contratto capestro. Una delle rivendicazioni principali dei Fasci sarà proprio la sostituzione del terratico con la mezzadria. Infine c'erano i braccianti, la classe la più numerosa dei contadini siciliani, i più poveri che non possedevano nulla e venivano impiegati nei periodi dell'anno dedicati alla semina ed alla raccolta del grano. i salari erano bassissimi in quanto, a causa del sistema della gabella e del subaffitto, spesso coloro che li pagavano erano anch'essi poveri: anche il metatiere faceva il bracciante quando non aveva lavoro nel suo campo. Nei periodi di lavoro, i braccianti si offrivano, tutte le mattine, sulle piazze dei loro paesi, sperando di essere ingaggiati dai campieri o dai sovrastanti dei feudi. Alla base della attiva partecipazione dei braccianti al movimento dei fasci, vi era quindi l'aspirazione alla terra e quella di vedere aumentate le loro misere paghe. Questa era quindi la situazione della Sicilia del latifondo, quella soprattutto centro-occidentale, al tempo dei Fasci. I primi Fasci Siciliani nacquero nella Sicilia orientale, a Messina e a Catania, ed erano essenzialmente di carattere urbano; anche l'attività del fascio di Palermo, d'altronde, nei primi mesi non riguardava che gli operai della città. Inoltre, accanto a questi ultimi ed ai contadini (coloni e braccianti) e borghesi del latifondo, troviamo nei fasci gli zolfatari, cioè coloro che
lavoravano nelle miniere di zolfo (nelle province di Caltanissetta e di Agrigento), ed i braccianti, delle zone costiere. La Sicilia orientale si trovava in una situazione economica migliore rispetto alla Sicilia centro-occidentale. Questa differenza era dovuta ad una maggiore divisione della proprietà terriera, e ad una più larga diffusione di aree a coltura intensiva, quali agrumeti, vigneti e uliveti. Anche nella Sicilia orientale, comunque, vi erano dei latifondi e, con questi, le figure tipiche che li caratterizzavano: La condizione operaia nelle principali città siciliane (Palermo, Catania e Messina) non era delle migliori. L'industria siciliana, sorta nei primi anni dell'Ottocento, alla fine del secolo era già in fase di esaurimento, in quanto, dopo l'Unità d'Italia, si trovò a dover concorrere con la fiorente industria settentrionale. A Palermo, nella seconda metà dell'Ottocento e nei primi quindici anni del Novecento c'erano i Florio che, come dice Massimo Ganci, erano l'unico esempio di grande borghesia industriale nella provincia di Palermo. Il loro potere economico si rivelò soprattutto nel campo enologico e dell'armamento navale (nel 1881, insieme ai Rubbattino di Genova, fondarono la "Navigazione Generale Italiana", la maggiore società armatoriale italiana). Ai Florio si deve anche la fondazione della fonderia Orotea e, nel 1896, del Cantiere Navale. Nell'ultimo decennio del XIX secolo, per quanto riguarda l'industria pesante, oltre a quelle dei Florio troviamo soltanto uno stabilimento meccanico e quello del gas. L'industria leggera si basava soprattutto sulla lavorazione dei prodotti alimentari, poco sviluppata e più simile all'artigianato che ad un'industria vera e propria. A Catania vi erano gli unici impianti di raffinazione e ventilazione dello zolfo. L'economia di Messina si basava invece sui traffici marittimi. Le attività portuali davano lavoro a un alto numero di operai e ad esse era legata la piccola industria. Nella città erano presenti numerose fabbriche per la produzione di vini, derivati di agrumi, pelli, pesce conservato e tessuti di seta. La produzione della seta, un tempo floridissima, alla fine dell'Ottocento era in decadenza. Complessivamente il potenziale industriale dell'Isola era basso e incapace di contrastare la concorrenza dell'industria settentrionale. Questa situazione influiva, chiaramente, sulla condizione degli operai, i quali, più che costituire una moderna classe sociale costituivano un ceto. Riguardo gli zolfatari, la loro situazione era simile da quella dei contadini del latifondo, anch'essi erano sfruttati, per lo più, da gabelloti mafiosi. I gabelloti delle miniere, al pari di quelli agrari, prendevano in affitto le miniere dai proprietari e sfruttavano il più possibile i "picconieri" e i "carusi". I "picconieri" estraevano il minerale di zolfo e venivano pagati a cottimo. I "carusi" erano ragazzi dai nove ai quindici anni che avevano il compito di trasportare, a spalla, il carico di minerale estratto fino all'imbocco della miniera, dove il picconiere, per contratto, doveva consegnare lo zolfo al gabelloto. Dopo questo breve descrizione sulle realtà economiche e sociali presenti nella Sicilia, alla fine dell'Ottocento, passiamo a parlare di quello che possiamo definire il primo movimento organizzato che si è contrapposto allo sfruttamento ed alla mafia che lo gestiva: il movimento dei Fasci Siciliani. È interessante notare come ancora oggi qualcuno sostiene che la mafia è generata dal sottosviluppo, senza rendersi conto che, al contrario, è la mafia che genera sottosviluppo. Le organizzazioni mafiose, ed i gabelloti, i campieri ne erano parte, tendono sempre a sfruttare qualunque potenzialità economica, presente nel territorio da esse controllato, a loro esclusivo vantaggio, impedendo, così, che queste potenzialità si traducano in effettivo sviluppo socioeconomico. I PRIMI FASCI URBANI Il primo Fascio siciliano, in assoluto, fu costituito a Messina, il 18 marzo 1889. Esso venne organizzato sull'esempio dei fasci che erano già sorti nell'Italia centro-settentrionale a partire dal 1871. Il Fascio messinese riuniva non i singoli lavoratori ma le società operaie della città. Dal luglio 1889 (cioè pochi mesi dopo la sua costituzione) al marzo 1892, il Fascio restò inoperante, a causa dell'arresto, e della condanna a due anni di reclusione, del suo fondatore Nicola Petrina. Soltanto con la nascita del Fascio di Catania, il 1° maggio 1891 sotto la guida di Giuseppe De Felice Giuffrida, il processo di formazione dei Fasci Siciliani poté dirsi veramente avviato. Il fascio di Catania era "una associazione-propaganda". Esso non reclutava solo "socialisti", ma permetteva a qualunque lavoratore di iscriversi liberamente alla associazione. De Felice preferiva questo sistema perché, per il momento si avevano "delle coscienze da formare, dei lavoratori da conquistare, della propaganda da fare, non dei socialisti da raggruppare". Una più chiara e netta definizione dei principi ispiratori e del programma dei fasci, si ebbe con la costituzione del Fascio
di Palermo, il 29 giugno 1892, e con la fondazione del Partito dei Lavoratori Italiani, il 4 agosto, a cui il fascio di Palermo aderì fin dall'inizio. Ma l'elemento scatenante per lo sviluppo dei Fasci nell'isola sarà l'incontro e l'unione di queste organizzazioni operaie con le masse contadine. Il punto di forza del movimento dei Fasci Siciliani, che lo rese temibile agli occhi del Governo e di tutti coloro che beneficiavano del vecchio sistema economico e politico, fu proprio costituito dall'unione, nella protesta, della città con la campagna. I Fasci conservarono fin quasi tutto il 1892, un carattere cittadino. La loro nascita costituiva il punto di arrivo di un lungo processo di maturazione della classe operaia che in Sicilia non costituiva piuttosto un "ceto". Mancava loro, un requisito basilare per la trasformazione in classe sociale, cioè la "coscienza di classe". Il processo di acquisizione di tale coscienza ebbe inizio nel 1860, anno in cui cominciarono a sorgere nell'Isola le società di mutuo soccorso. La prima sorse a Corleone, nel luglio del 1860. La seconda fu costituita a Palermo subito dopo. Via via, queste società si diffusero nel resto della Sicilia, nei primi anni in maniera sporadica, poi, soprattutto a partire dal 1875, sempre più velocemente. Le società di mutuo soccorso erano la forma più diffusa di organizzazione dei gruppi proletari più coscienti. Praticavano il mutuo soccorso fra i soci previo il pagamento di quote mensili, e fungevano anche da organizzazioni di resistenza, promuovendo scioperi e agitazioni per miglioramenti salariali nei luoghi di lavoro. Due tappe importanti, nella storia delle società di mutuo soccorso, vennero raggiunte nel 1875 quando sorse a Palermo la società dei tipografi che prevedeva nel proprio statuto il ricorso allo sciopero, quale mezzo per la difesa del salario e la costituzione di una cassa mutua, per assistere i soci nei giorni in cui si sarebbero astenuti dal lavoro e nel 1882, anno in cui fu attuata la riforma elettorale che allargava il suffragio a coloro i quali, compiuti i ventuno anni di età sapessero leggere e scrivere oppure pagassero una certa somma d'imposta diretta. Il requisito per il voto era pertanto considerato alternativo a quello del censo: in questo modo le popolazioni cittadine erano favorite rispetto a quelle delle campagne ove l'analfabetismo era dominante e la ricchezza latitante. Il diritto di voto agli operai era stata proprio una delle principali richieste avanzate dalle società di mutuo soccorso. Ma una volta ottenuto l'allargamento del suffragio, queste società si trasformarono in un serbatoio di voti per gli uomini politici sia di destra che di sinistra, grazie anche al trasformismo imperante. Sul piano politico, le società di mutuo soccorso dimostrarono una certa immaturità, mettendo in luce il fatto che, in Sicilia, il processo di formazione di una vera classe operaia non era ancora compiuto. Passi importanti, verso questa direzione, vennero però compiuti a Palermo: nel 1879, con la creazione della Confederazione delle 72 maestranze, un organo direttivo composto da tre rappresentanti per ogni società operaia rappresentata; e nel 1882, con la trasformazione di questa confederazione in Consolato operaio Un Consolato operaio sorse anche a Catania, nel 1883. Negli anni 1891-92 si tenne a Palermo una Esposizione Nazionale. Questa voleva essere una celebrazione dei successi dell'imprenditoria siciliana, ma finì, invece, per evidenziarne il nascente stato di crisi. A determinare questa crisi avevano contribuito: la crisi economica, dilagante in Europa sin dal 1874; il fallimento della politica di protezione doganale, adottata dal Governo italiano con le tariffe del 1887 ed il divario tra l'industria del Nord e quella del Sud. A causare la grande crisi economica, che da lungo tempo colpiva le nazioni europee, era stata, principalmente, l'invasione dei mercati da parte degli abbondanti ed economici prodotti agricoli americani (soprattutto del grano). In Sicilia la crisi era esplosa intorno alla metà degli anni '80. I primi prodotti ad essere colpiti erano stati il grano e lo zolfo. La viticoltura, invece, era entrata in una profonda crisi qualche anno dopo, in seguito alle distruzioni dei vigneti da parte della fillossera, ed alla guerra commerciale italo-francese. Una delle cause scatenanti di quest'ultima era stata l'adozione nel 1887, da parte del Governo italiano, di nuove tariffe doganali, per arginare la crisi economica. Alla base di questa politica protezionista, vi era l'alleanza degli esponenti del blocco agrario del Sud - dominato naturalmente dai grandi proprietari terrieri - con gli esponenti del blocco industriale del Nord. In Sicilia, gli unici a trarre giovamento, dalla svolta politica del 1887, erano stati i latifondisti, i quali avevano ottenuto l'inserimento, tra le misure adottate, di una elevata imposta sui cereali d'importazione. Secondo le previsioni del Governo italiano, le nuove tariffe doganali avrebbero dovuto promuovere l'imprenditoria di tutto il territorio nazionale. Ma, ben presto, il protezionismo si rivelò per quello che era: uno scudo economico per la borghesia imprenditoriale più forte, cioè quella settentrionale, con il sacrificio dell'industria meridionale; il ruolo del Sud, infatti, doveva essere quello di mercato per i
manufatti settentrionali ( M. Ganci, 1977). Con la scusa di visitare l'Esposizione Nazionale di Palermo, gli attivisti socialisti Carlo Della Valle e Alfredo Casati si fecero promotori, tra gli operai organizzati nelle numerose società operaie e di mutuo soccorso, della fondazione di una federazione operaia, sul tipo di quelle milanesi. L'idea venne subito bene accolta poiché gli operai palermitani si rendevano conto che le società mutualistiche allora esistenti non erano in grado di sostenere il loro malcontento e di trasformarlo in rivendicazioni economiche e sociali. Nacque così una federazione operaia che prese il nome di "Fascio dei Lavoratori di Palermo", basata sul modello della "Bourse du Travail" di Parigi. Come quest'ultima, il fascio di Palermo fu diviso per sezioni d'arti e di mestieri, ma, rispetto alla Camera del lavoro parigina, venne accentuata l'organizzazione "orizzontale", cioè la federazione delle associazioni tra di esse, il "fascio" che avrebbe rappresentato sul piano sindacale l'intera classe operaia. Essi si distinsero inoltre per il fatto che il programma doveva essere attuato non soltanto a beneficio degli associati, ma di tutta la classe lavoratrice. La nascita ufficiale del fascio di Palermo si fa risalire al giorno dell'inaugurazione del suo gonfalone rosso, avvenuta il 29 giugno 1892. Nella stessa data, probabilmente, venne eletto il comitato direttivo, presieduto da Rosario Garibaldi Bosco. Dopo il 29 giugno, a Palermo, numerose società operaie e di mutuo soccorso si sciolsero e consegnarono le proprie bandiere al fascio dei lavoratori e nel giro di due mesi, questo raggiunse la quota di 7.500 iscritti. Il 4 agosto 1892, Garibaldi Bosco partecipò, insieme ad altri rappresentanti dei Fasci Siciliani, al Congresso di Genova e, quindi, alla fondazione del Partito dei Lavoratori Italiani. Di ritorno da Genova, Garibaldi Bosco si convinse che, in Sicilia, il socialismo si sarebbe potuto diffondere ed avrebbe potuto trovare attuazione solamente attraverso l'organizzazione dei Fasci. Riguardo alla composizione di questi ultimi, egli sottolineava l'importanza dell'unione - nella lotta contro gli sfruttatori - della classe operaia con quella contadina. A partire dal settembre 1892, la nascita di nuovi Fasci, che fino ad allora era avvenuta ad un ritmo molto lento, cominciò a divenire più frequente. Tuttavia, ancora pochi erano i centri rurali interessati dal fenomeno. FORMAZIONE DEI FASCI RURALI Nelle campagne siciliane, prima dei fasci, vi erano state delle importanti esperienze associative, anche se non inserite in un quadro evolutivo, e non sostenute da un movimento di massa. Si trattava di una sorta di cooperative in cui un certo numero di contadini riunivano i loro mezzi per poter prendere in affitto un latifondo, per poi suddividerlo tra loro in proporzione dei mezzi di ognuno. Spesso questi sodalizi finivano male per prevaricazioni interne e la mafia ne approfittava per accrescere il suo potere. Tra i contadini siciliani non mancava, pertanto, lo spirito di associazione mancavano però l'istruzione e la capacità di gestione. Prima dei fasci vi erano state infatti molte manifestazioni di protesta, prive però di qualsiasi forma di organizzazione. Tutto questo, come sottolinea lo storico Francesco Renda, dimostra che fu soltanto con il movimento dei fasci siciliani che si realizzò, finalmente, l'unione tra la protesta generale, la lotta di massa e l'organizzazione. I fasci rurali cominciarono a sorgere con un ritmo travolgente soprattutto dal gennaio 1893, dopo la strage di Caltavaturo. Questo tragico avvenimento in verità fu soltanto il catalizzatore della reazione dei contadini. Le vere ragioni del dilagare dei fasci rurali vanno piuttosto ricercate nelle sempre più indigenti condizioni di vita delle masse popolari. Alle storiche cause di sofferenza e di malcontento si erano aggiunte infatti, dalla metà degli anni '80, gli effetti della crisi agraria causata, come abbiamo già detto, dalla forte concorrenza dei prodotti agricoli americani. In Sicilia il primo mercato a subirne le conseguenze fu quello del grano che subì un consistente calo di prezzo. Il Governo italiano cercò di arginare la crisi economica introducendo nuove tariffe doganali, tra le quali fu compreso un dazio protettivo del grano. Ciò scatenò la guerra commerciale con la Francia che bloccò l'importazione di vino. Alla crisi del grano si aggiunse così quella del vino, ed inoltre si aggiunse la fillossera che distrusse i vigneti. Altro settore agricolo siciliano piegato dalla crisi fu quello degli agrumi, il quale risentì sia della concorrenza d'oltreoceano sia della guerra di tariffe con la Francia. In questo settore la crisi fu ancora più dura poiché, nel periodo precedente, vi era stata una corsa all'affitto delle terre coltivabili ad agrumi, per via della maggiore esportabilità e questo aveva causato un aumento esagerato dei fitti delle terre e della produzione agrumaria. I coltivatori non avevano più come pagare i debiti. Al solito i grandi proprietari latifondisti, non risentirono gravemente della recessione economica, anche perché aiutati, notevolmente, dall'introduzione del dazio sul grano
mentre i gabelloti, si ritrovarono a pagare fitti alti. Su chi scaricarne il peso? Sui contadini, naturalmente rendendo ancora più gravosi i patti agrari allora in vigore, e diminuendo le già misere paghe dei giornalieri. Conseguenza diretta della crisi, fu, pertanto, un'ulteriore accentuazione della lotta di classe: da un lato i grandi proprietari latifondisti, i quali videro aumentare il peso della rendita fondiaria e vennero protetti dal Governo; dall'altro i contadini, sui quali pesava interamente il prezzo della crisi, in mezzo c'erano i gabelloti. Fu soprattutto contro questi ultimi che, nel 1893, i contadini si organizzarono per manifestare la loro protesta e la loro rabbia. Erano proprio i gabelloti i più diretti, e visibili, responsabili delle loro tristi condizioni: i grandi latifondisti se ne stavano ben lontani. LA STRAGE DI CALTAVATURO Alla base della strage di Caltavaturo vi fu il mancato indennizzo dei contadini per la perdita degli usi comuni in seguito alla eversione della feudalità. In breve i fatti andarono così: il duca di Ferrandina (che possedeva a Caltavaturo 6.000 ettari di terra), si era finalmente deciso a concedere una aliquota dei propri terreni - quale liquidazione degli usi civici - al comune di Caltavaturo. Gli amministratori, però, invece che ripartire queste terre tra i contadini li concessero in gabella ed in affitto a dei prestanome dei borghesi, e talvolta anche senza il ricorso a prestanome, come per esempio nel caso del segretario comunale Antonio Oddo, che teneva da otto anni in affitto terre del comune (da S.F. Romano, 1959).
Cinquecento contadini, stanchi di questa usurpazione e angariati dai patti agrari e dalla crisi, all'alba del 20 gennaio 1893 "occuparono" alcune terre di proprietà comunale e cominciarono a lavorarle. Mentre stavano zappando, sopraggiunsero i militari e i contadini decisero allora di ritornare in paese, per manifestare dinanzi al Municipio e per esporre le proprie ragioni al sindaco. Ma quest'ultimo risultò irreperibile. Stanchi per la vana attesa, decisero di ritornare ad occupare i terreni demaniali, ma trovarono la strada sbarrata dalle forze dell'ordine. "Improvvisamente, senza preavviso di squilli di tromba od altro, una scarica di fucileria sulla folla lasciava undici morti e quaranta feriti, alcuni dei quali, trasportati all'ospedale di Palermo, morivano nei giorni seguenti" (S.F. Romano, 1959). La notizia dell'eccidio fece inorridire l'intera nazione (si dice!). Il fascio di Palermo manifestò subito la propria solidarietà con le vittime. Esso, inoltre, convocò un'assemblea tra i soci, durante la quale si sottolineò l'urgenza della propaganda socialista fra i contadini, e si aprì una sottoscrizione, che ben presto diventò nazionale, a favore delle famiglie dei caduti. A Caltavaturo, coloro che avevano partecipato alla manifestazione del 20 gennaio costituirono un fascio dei lavoratori e tra gennaio ed aprile sorsero, come funghi, numerosi fasci rurali (soprattutto nella Sicilia centro-occidentale), sia a causa dello sdegno suscitato dall'eccidio sia per l'opera di propaganda avviata, in campagna, dal fascio di Palermo. Alla manifestazione tenutasi in aprile a Caltavaturo parteciparono anche i presidenti dei fasci di Corleone e Piana dei Greci che diventeranno ben presto i più attivi e importanti della Sicilia del latifondo. Il fascio di Corleone era stato costituito nel settembre 1892, ma le sue attività ebbero inizio soltanto il 9 aprile 1893, giorno della sua inaugurazione ufficiale. Presidente fu eletto colui che ne era stato il principale fautore: Bernardino Verro. Il dirigente corleonese si fece subito promotore della costituzione di nuovi fasci nei paesi vicini; diresse gli scioperi e le lotte contadine che, sin dalla primavera, si svolsero nel circondario e divenne uno dei capi indiscussi del movimento dei fasci. Il fascio di Piana dei Greci sorse il 21 marzo 1893, sotto la presidenza di Nicolò Barbato. un medico
che, negli ultimi tre anni, aveva fatto propaganda socialista nelle famiglie contadine del suo paese. Il sodalizio corleonese e quello di Piana divennero il punto di riferimento dei fasci sorti nei paesi vicini. Riporta Massimo Ganci che quello di Piana dei Greci fu il Fascio più maturo e più democratico di tutta l'Isola. Le decisioni venivano prese dopo lunghe discussioni alle quali partecipavano tutti, e alla fine si votava. Il 1° luglio 1893, il sodalizio contava già 2.500 uomini e 1.000 donne! Uno dei segni più evidenti della maturità e della democrazia di questo fascio fu proprio la presenza femminile (che, comunque, non fu un'esclusiva di Piana). Durante l'inaugurazione del fascio di Corleone, si riunirono le delegazioni di numerosi altri fasci e si delinearono i punti di un programma di rivendicazioni. Tali punti vertevano essenzialmente sull'aumento dei miseri salari dei braccianti, e sulla modifica dei vessatori patti agrari cui erano sottoposti i contadini. Basandosi su tali rivendicazioni, vennero avviati, ai primi di maggio, i primi scioperi agrari a Campofiorito a Corleone e a Piana dei Greci. Con le prime agitazioni iniziò anche la reazione delle autorità di Pubblica Sicurezza e, quindi, le prime denunzie all'autorità giudiziaria ed i primi arresti. Verro e Barbato vennero denunziati per "grida sediziose" e "come eccitatori di tumulti, per associazione a delinquere e per aver preparato stragi e saccheggi" (S.F. Romano, 1959 ). Tra gli arrestati vi fu anche Nicolò Barbato, tradotto in carcere il 12 maggio ma rilasciato il 20 giugno, in seguito al grande scalpore suscitato dal suo arresto. Le numerose denunzie e gli arresti dei dirigenti e di numerosi soci dei fasci di Corleone, Piana dei Greci e San Giuseppe Jato riuscirono nell'intento di far cessare questa prima ondata di agitazioni. Intanto in maggio il numero delle organizzazioni era già arrivato a 90 ed il fascio di Palermo, sotto la guida di Garibaldi Bosco, ritenne opportuno affrontare il problema della loro organizzazione e del loro coordinamento a livello regionale. Inoltre, bisognava chiarire, una volta per tutte, il loro indirizzo politico. A tale scopo furono organizzati due congressi regionali, che si tennero a Palermo nei giorni 21 e 22 maggio 1893. Secondo le idee del comitato promotore di questi congressi, i Fasci dovevano diventare, oltre che delle organizzazioni di carattere cooperativistico e sindacale, anche delle sezioni socialiste. Grazie alla pregiudiziale socialista, come auspicava il Bosco, si riuscì a smascherare i fasci apocrifi, cioè quelli che erano, in realtà, esclusivamente strumenti elettorali in mano ai borghesi. Da questi due congressi scaturirono, inoltre, altri due elementi che si sarebbero rivelati molto importanti per il movimento dei fasci. Uno fu il legame organizzativo che si stabilì tra fasci cittadini e quelli rurali, e quindi tra il movimento operaio ed il movimento contadino. L'altro elemento fu l'attenzione e l'entusiasmo con i quali si discusse del ruolo che le donne siciliane potevano, e dovevano, avere all'interno dei fasci. La loro partecipazione fu infatti massiccia e significativa. Le donne così come i ragazzi, partecipavano attivamente alle manifestazioni ed alle agitazioni dei fasci, anche dove non erano iscritte, e furono sempre nelle prime file. A volte erano proprio loro a sollecitare i mariti all'azione. Le donne presero parte anche agli scioperi agrari d'autunno che, come vedremo, si svolsero imponenti nelle zone del latifondo: una donna, Caterina Costanza, venne arrestata nella zona di Piana dei Greci in quanto promotrice dello sciopero del 30 ottobre; a Villafrati vennero arrestate sei donne, poiché, insieme ad altre quattro, si erano recate, armate di bastone nei terreni di un signore del luogo per convincere i braccianti che vi lavoravano a scioperare. Fu proprio la partecipazione dei ragazzi e delle donne che diede al movimento quel carattere di massa che lo distinse. Ovviamente, l'adesione femminile non lasciò indifferenti le autorità. I ben pensanti e molti giornalisti gridarono allo scandalo, al rilassamento dei costumi, all'allontanamento dalla Chiesa..... I contadini, infatti, sia uomini che donne, pur continuando a credere ai dogmi della religione cattolica, ed a conservarne il culto ne rifiutavano, non a torto, le istituzioni e le autorità che rimanevano fedeli alleate dei ricchi proprietari. La loro "chiesa" divenne il fascio. Sembrò quindi naturale, soprattutto nei centri rurali, tenere nella sede dell'organizzazione un crocifisso ed un'immagine del Santo protettore del paese o portare in giro, nelle manifestazioni, crocefissi e rappresentazioni della Madonna e dei Santi. In realtà, i dirigenti dei Fasci, nelle loro propagande, facevano leva sul sentimento religioso dei contadini per suscitare in loro entusiasmo e passione per il socialismo, inteso però non come attesa messianica di un futuro migliore, ma come impegno concreto, attivo, di ogni essere umano per costruire una società migliore. I contadini prendevano così coscienza dei propri diritti ed erano pronti a lottare per conquistarli. Sia nei Fasci rurali che in quelli delle città, si tenevano periodicamente delle riunioni domenicali, durante le quali si leggevano i giornali, si discuteva dei principi del socialismo, delle proprie condizioni di vita, delle rivendicazioni da avanzare, di come organizzare e condurre uno sciopero o una agitazione. Queste
riunioni costituivano una novità per i contadini e per i minatori. Esse contribuirono allo loro istruzione e alla loro educazione morale e intellettuale. Soprattutto contribuirono a far loro acquisire la consapevolezza dei propri diritti. Consapevolezza che si manifestò compiutamente nelle rivendicazioni avanzate, dai contadini, al congresso di Corleone del 30 luglio 1893, e nelle richieste formulate dagli zolfatari, del nisseno e dell'agrigentino, nel congresso che si tenne a Grotte in ottobre. LA CONQUISTA DEI POTERI PUBBLICI La via scelta nei congressi di maggio, per il miglioramento delle condizioni di vita di tutti i lavoratori, fu quella legalitaria. Per ottenere il riconoscimento dei propri diritti, per l'attuazione degli ideali socialisti e per essere, finalmente, i protagonisti e non le vittime del sistema politico, le classi lavoratrici non dovevano ricorrere alla rivoluzione ma alle libere elezioni. Il 9 luglio, giorno designato per le elezioni, a Catania, a Messina, a Caltanissetta, a Piana dei Greci e in altri centri minori, vennero presentate, per la prima volta, liste socialiste, composte sia da "fascianti" poco noti sia da candidati già molto conosciuti quali: De Felice a Catania; Petrina e Noé a Messina; Barbato a Piana dei Greci. I risultati premiarono il lavoro svolto dall'intera organizzazione regionale. Oltre ai candidati di spicco, furono eletti anche numerosi operai, contadini, artigiani. Alla base di questo successo c'erano principalmente: le peggiorate condizioni di vita di gran parte della popolazione ed il crescente malcontento. Sull'onda dell'entusiasmo, crebbe il numero degli iscritti e si costituirono nuovi Fasci. I giornali del tempo e le autorità affermavano che il numero degli iscritti ai fasci, ammontava a circa 300.000. Ma, come affermò in seguito Garibaldi Bosco, questa cifra era superiore a quella reale, ed era stata gonfiata dai dirigenti dei fasci per far credere al Governo di disporre di forze ingenti, contro le quali al Giolitti non conveniva agire con la forza. Più vicina alla realtà, anche se approssimata per difetto è invece la stima fatta, nei mesi di ottobre e novembre, dal direttore generale di P.S. Sensales, giunto in Sicilia a fine settembre per svolgere, su ordine del Giolitti, un'inchiesta sui Fasci. Secondo tale stima in Sicilia c'erano 70.553 iscritti ai Fasci. Gli scioperi intrapresi nel maggio '93 dai braccianti e dai mezzadri dei circondari di Corleone e Piana dei Greci, come abbiamo detto prima , erano cessati a causa delle numerose denunzie ed agli arresti dei contadini e, soprattutto, dei dirigenti dei Fasci. Le agitazioni ripresero il 23 giugno, con lo sciopero dei mietitori del fascio di Prizzi, i quali richiedevano un aumento del salario. Ma gli scioperi agrari più consistenti e diffusi si ebbero subito dopo il congresso dei fasci della provincia di Palermo, che si tenne a Corleone il 30 luglio '93. I "Patti di Corleone" non intendevano rivoluzionare i rapporti di proprietà allora esistenti, ma, più semplicemente miravano alla modifica degli iniqui contratti di affitto da parte dei gabelloti. Dal congresso di Corleone uscirono anche altre importanti rivendicazioni: aumenti salariali per i braccianti; divisione dei beni demaniali; affitto diretto dal proprietario del terreno, in modo da eliminare la figura intermediaria del gabelloto, fonte solo di aggravi per il contadino e di potere e ricchezza per la mafia. Gli scioperi ebbero inizio nei primi giorni di agosto. Da Corleone e da Piana dei Greci si estesero in diversi comuni dell'entroterra palermitano ( Bisacquino, Villafrati, Chiusa Sclafani, Contessa Entellina, Roccamena, Belmonte Mezzagno), e agrigentino (Casteltermini, Acquaviva Platani, Santo Stefano di Quisquina ed altri centri minori). I contadini si astenevano dal lavoro dopo aver compiuto i lavori di mietitura e di trebbiatura, e convincevano anche i pastori, e tutti i salariati, a fare altrettanto. A settembre i coloni si rifiutarono di prendere i terreni a mezzadria alle solite condizioni, chiedendo che venissero applicati i Patti di Corleone. I proprietari delle terre e i gabelloti, all'inizio, si opposero categoricamente e, convinti di poter controllare e interrompere questa agitazione con gli stessi strumenti che si erano rivelati efficaci per gli scioperi di maggio, si rivolsero alla forza pubblica e alla "forza privata". A Corleone i proprietari terrieri cercarono, inutilmente, di convincere Bernardino Verro a desistere dalla sua attività offrendogli un compenso di quindicimila lire, se avesse accettato di farsi da parte, o una fucilata, in caso contrario. Il Verro, inoltre, il 12 settembre, fu diffidato dal Sottoprefetto. Le amministrazioni comunali dove si svolgevano le agitazioni, intanto, richiedevano rinforzi militari ed erano accontentati. Tuttavia lo sciopero, al quale, secondo stime ufficiali, parteciparono ben 50.000 contadini, nonostante questi episodi, procedette in maniera composta e senza dare luogo ad incidenti che potessero autorizzare l'intervento della polizia o della magistratura. Per sostenere a lungo lo sciopero, alcuni Fasci costituivano i monti frumentari e raccoglievano offerte di denaro, per aiutare i braccianti. I contadini alla fine, grazie soprattutto alla compattezza, alla tenacia e alla maturità dimostrata,
riuscirono a fare cedere la maggior parte dei proprietari. Una prova del successo dell'agitazione contadina, può ravvisarsi nello stato di allarme in cui entrò il Governo in seguito al dilagare dello sciopero agrario. Conseguenza diretta di tale stato di allarme fu l'inasprimento dell'atteggiamento ostile e persecutorio che il Presidente del Consiglio aveva iniziato ad assumere nei confronti dei Fasci a partire dal maggio 1893. Risalgono infatti a questa data i primi provvedimenti governativi contro i Fasci. A spingere Giolitti ad intraprendere questa linea politica, furono le incessanti pressioni provenienti dai proprietari terrieri, dai sindaci, dai funzionari di P.S. Alle incessanti richieste di scioglimento dei fasci Giolitti rispondeva di non ritenere necessari i mezzi eccezionali ma aggiungeva: "I mezzi che la legge concede li adopererò tutti inesorabilmente". A maggio egli inviò una circolare alle autorità di polizia invitandole alla più stretta sorveglianza e alla denunzia dei dirigenti dei Fasci; e a giugno promosse un'inchiesta amministrativa per indagare se vi fossero pregiudicati tra gli iscritti ai Fasci, in modo da colpire, in caso di riscontro positivo, i sodalizi in quanto associazioni per delinquere. Scrive Francesco Renda che alla base della titubanza mostrata dal Giolitti nel ricorrere ad un provvedimento eccezionale di scioglimento dei Fasci vi era la precarietà della maggioranza che appoggiava il suo governo e non certamente, aggiungo io, un rispetto per i contadini e le loro rivendicazioni. Anche in autunno, quando, in seguito all'allarme suscitato dallo sciopero agrario, sempre più insistenti si fecero le richieste di provvedimenti straordinari, Giolitti, invece di sciogliere immediatamente i Fasci, preferì prendere tempo, inviando nell'Isola il direttore generale di P.S. Sensales. Oltre tutto, in ottobre, come abbiamo visto, sempre più sindaci, preoccupati per le agitazioni in corso, richiedevano l'invio di soldati nei loro comuni. Spesso però il rafforzamento militare piuttosto che evitare i conflitti ne diveniva un fattore scatenante, in quanto le autorità facevano abuso delle truppe a loro disposizione, esagerando i pericoli di qualunque manifestazione organizzata dai Fasci. Alla fine dell'esaltante sciopero agrario dell'autunno, comunque, il movimento dei Fasci Siciliani non si trovò ad affrontare soltanto la violenta repressione scatenata dal Governo, ma anche l'inaspettato cambiamento della politica agraria del Partito del Lavoratori Italiani! A settembre si era svolto, infatti, il congresso di Reggio Emilia, durante il quale si erano gettate le basi ideologiche e politiche del Partito Socialista Italiano. A Reggio Emilia i socialisti italiani decisero che il partito doveva: "essere attento solo alle esigenze del bracciantanto agricolo di tipo capitalistico, e non preoccuparsi punto né dei contadini piccoli proprietari né degli stessi mezzadri ed affittuari che sono anche essi, come i contadini coltivatori diretti, destinati a scomparire, travolti dalla trasformazione in senso capitalistico dell'agricoltura"; di conseguenza Il movimento dei Fasci siciliani, che è al contempo di braccianti del latifondo, di contadini senza terra, di mezzadri, coloni, piccoli affittuari, ed anche di strati di contadini piccoli proprietari, in una impostazione di tal genere non trova posto, anzi è considerato come un corpo estraneo da guardare con diffidenza" (F. Renda). A favore degli oltre 50.000 contadini siciliani, che da oltre un mese stavano scioperando per l'attuazione dei Patti di Corleone, non venne espressa, da parte del congresso, alcuna parola di solidarietà; anzi venne manifestata contrarietà per le rivendicazioni stesse degli scioperanti, in quanto a sostegno e non contro la mezzadria. Altro deliberato del congresso di Reggio Emilia, che sancì definitivamente il distacco dal movimento siciliano, fu quello che stabilì che il Partito Socialista Italiano doveva rompere qualunque tipo di legame con i partiti affini e con i singoli che non fossero formalmente socialisti. Questo in Sicilia volle dire la rottura degli stretti legami che fino ad allora il Partito aveva avuto con il movimento dei Fasci, alla cui direzione non vi erano esclusivamente militanti socialisti e al quale erano iscritte persone che, in base alle disposizioni adottate a Reggio Emilia, non potevano più fare parte del Partito. Il movimento dei Fasci Siciliani venne così abbandonato a sé stesso, proprio mentre si accingeva ad affrontare i suoi momenti più difficili. I dirigenti nazionali del partito socialista, tranne qualche comunicato di solidarietà, non si occuparono più della situazione siciliana. LE MANIFESTAZIONI CONTRO LE TASSE Dopo l'abbandono da parte del partito socialista , il movimento dei Fasci siciliani cominciò a perdere compattezza e lucidità. Le prime agitazioni che i dirigenti dei fasci non riuscirono a controllare furono quelle contro le ingiuste e opprimenti imposte comunali. Queste lotte si svilupparono in maniera massiccia e tumultuosa al termine dello sciopero agrario, in seguito all'entusiasmo da questo suscitato. Ad essere colpiti dalle esose tasse comunali non erano solo i contadini ma tutti i ceti ad esclusione delle classi abbienti, che ancora, con l'eccezione di qualche
comune ove la lista socialista aveva vinto le elezioni amministrative di luglio, dirigevano le amministrazioni comunali, e lo facevano a proprio esclusivo vantaggio. La tassa comunale sul bestiame, ad esempio ed è solo UN esempio, veniva in gran parte a pesare sui ceti più umili, poiché l'importo che doveva pagare chi possedeva bestie da tiro e da soma, gli animali da lavoro del contadino, era maggiore rispetto a quello che era tenuto a pagare chi possedeva vacche e buoi o cavalli da corsa , cioè i ricchi proprietari. Ma ad angariare piccoli proprietari, artigiani, contadini e lavoratori in genere, erano soprattutto le imposte indirette, che in Sicilia avevano un gettito nettamente superiore a quello delle imposte dirette. Tra le prime, l'aggravio che più di tutti opprimeva ed esasperava il popolo, era senz'altro il famoso "dazio consumo": nei comuni aperti si poteva fare entrare liberamente la merce ed il dazio si pagava al momento della vendita al minuto, ricadendo di conseguenza esclusivamente sui consumatori; nei comuni chiusi il dazio si applicava invece su tutte le merci che entravano in paese, cosicché tutti pagavano lo stesso importo ma, i commercianti, potevano rifarsi sul consumatore al momento della vendita. In ogni caso, erano i ceti più poveri a sopportarne il peso. In più i cittadini non ricevevano, come contropartita delle gravose tasse pagate, i servizi pubblici cui avevano diritto, poiché alla "servitù economica" si aggiungeva la "servitù amministrativa In base alla riforma elettorale del 24 settembre 1882, infatti, il diritto di voto era riconosciuto a coloro i quali pagassero una data somma di imposta diretta o sapessero leggere e scrivere. Questa legge consegnò le amministrazioni comunali in mano al "ceto civile", cioè a quel ceto di piccolo-borghesi di cui facevano parte anche i gabelloti ed i "mafiosi" che , una volta acquisito il diritto al voto, strinsero una alleanza politica con i latifondisti, diventandone i galoppini elettorali e ricevendone in cambio "favori e privilegi". Il sostegno dei mafiosi fu ricercato dai vari gruppi politici, sia per intimorire gli avversari sia poiché essi controllavano un congruo numero di voti. Gli unici sconfitti in ogni tornata elettorale erano sempre le classi povere prive del diritto di voto e, quindi, oggetto di tutti i soprusi e le angherie dei gruppi dirigenti locali. L'assoggettamento delle masse popolari non era solo economico, ma generale. Il Sindaco, che veniva nominato dal Governo, poteva facilmente limitare la libertà dei cittadini più ribelli, visto che era lui a rilasciare i certificati di moralità ed a informare il pretore riguardo le persone da sottoporre alle ammonizioni. Egli poteva sostituire l'ufficiale di polizia, assumendone le funzioni e potendo anche, in alcuni casi, effettuare gli arresti. Il Sindaco, inoltre, nella tutela dell'ordine pubblico si avvaleva dell'aiuto delle guardie campestri. Queste non erano altro che gli ex campieri dei feudi che, a partire dal 1866, erano stati organizzati in corpo di polizia municipale, dipendente dal Comune. Le guardie venivano in gran parte reclutate fra i pregiudicati ed i mafiosi del luogo, ed erano addetti di fatto alla tutela delle proprietà del sindaco e dei suoi amici latifondisti: ebbero un grande ruolo nella repressione violenta del movimento contadino. In alcuni comuni esse erano pagate direttamente dai proprietari terrieri; in altri comuni, invece, venivano pagate con i soldi di tutti i contribuenti, per quanto i loro servigi fossero rivolti soltanto ai gruppi dirigenti ed ai proprietari, mentre, al contrario, le masse erano solo vittime della loro violenza ed oppressione. Molteplici furono, dunque, i motivi di malcontento che stavano alla base delle agitazioni che si svilupparono alla fine del 1893. Uno dei motivi per i quali i dirigenti dei Fasci non riuscirono ad avere un totale controllo dell'agitazione fu anche conseguenza del fatto che al contrario di quelle precedenti, questa coinvolgeva svariate categorie sociali: braccianti, contadini poveri, operai disoccupati o sottoccupati delle città, artigiani, commercianti, piccoli e medi proprietari. Per di più, traducendosi in manifestazioni contro i municipi, l'agitazione in alcuni paesi fu strumentalizzata dalla fazione politica borghese avversa al gruppo politico al potere in quel momento; a volte entrarono in opera agitatori e provocatori con il preciso compito di trasformare le manifestazioni pacifiche in disordini, in modo da fornire il pretesto alla forza pubblica per intervenire. Una delle prime dimostrazioni contro le tasse si svolse in agosto a Belmonte Mezzagno, in provincia di Palermo. La mattina del 12 agosto una cinquantina di donne si radunò davanti al palazzo municipale per protestare contro le tasse e l'amministrazione comunale. L'indomani una delegazione di donne si recò alla caserma dei carabinieri per chiedere l'abolizione del dazio, la destituzione del Sindaco e lo scioglimento del Consiglio comunale. Il 15 agosto, 600 contadini e contadine sfilarono per le vie del paese. Questo pacifico corteo fu fatto sciogliere dal sindaco: tutte le donne presenti alla manifestazione furono arrestate, ed alcuni uomini furono tradotti al carcere di Misilmeri. Il 24 dicembre successivo il Fascio di Corleone organizzò un'assemblea per discutere contro i metodi
seguiti dall'amministrazione comunale nella distribuzione delle tasse. Alla fine dell'assemblea circa 4.000 persone si riversarono sulla piazza del Municipio. Bernardino Verro, su sollecitazione dell'ispettore di polizia, invitò la folla a sciogliersi, e la manifestazione si concluse pacificamente. In qualche centro della Sicilia orientale le agitazioni contro le tasse assunsero subito un carattere tumultuoso. A Siracusa, il 10 ottobre una manifestazione di protesta (per la mancata attuazione delle riduzioni di tasse,che l'amministrazione aveva promesso alla cittadinanza) degenerò in tumulto e fu saccheggiato il palazzo municipale (calmato il tumulto la Giunta approvò i provvedimenti promessi). A Floresta, in provincia di Messina, il 22 ottobre fu assaltata la caserma dei carabinieri. Con il passare dei giorni la situazione cominciò a degenerare in tutta la Sicilia. I dirigenti dei fasci, prima ancora che si arrivasse alle devastazioni e agli eccidi, condannarono i primi disordini e gli eccessi delle popolazioni. Ma a partire da dicembre, come vedremo, i tumulti divennero sempre più numerosi e molte dimostrazioni contro i municipi, per l'abolizione delle tasse e dei dazi consumo, si trasformarono in tumulti. I dirigenti dei fasci non riuscirono a controllare il movimento che si allargava rapidamente e in modo disordinato. La sommossa popolare a questo punto diventò un facile pretesto per la liquidazione definitiva del movimento dei fasci ed in alcuni centri rurali, la rivolta fu repressa nel sangue. A sparare sulla folla non furono soltanto le truppe ma anche le guardie campestri al servizio dei proprietari terrieri e dei capi mafiosi. GLI ECCIDI Intanto Giovanni Giolitti, travolto dagli scandali bancari, il 28 novembre 1893 si dimetteva dalla carica di Presidente del Consiglio. In verità Giolitti non aveva fatto praticamente nulla per eliminare, o quanto meno ridurre, le cause del malcontento popolare. Perfino gli stessi funzionari statali nei loro rapporti indicavano chiaramente quali erano le cause delle agitazioni, ravvisandole principalmente: nelle miserabili condizioni di vita dei lavoratori e dei contadini, dovute alla concentrazione delle proprietà terriere in mano di pochi, agli iniqui contratti agrari, ai miseri salari dei braccianti e dei minatori, alle angherie dei gabelloti. A tutto questo si aggiungeva, come scriveva nel suo rapporto del 22 novembre il Questore di Palermo, la cattiva e privatistica amministrazione dei municipi. Ma Giolitti non comprese o non volle comprendere, la portata politica e il carattere innovativo del movimento dei Fasci, ritenendolo un movimento esclusivamente economico teso ad ottenere soprattutto un aumento dei miseri salari. Non mise in atto, alcun provvedimento legislativo che mutasse le condizioni economiche e sociali delle masse popolari siciliane. L'atteggiamento tenuto da Giolitti nei confronti del movimento dei Fasci non accontentava neanche la classe abbiente, che criticava sia la sua riluttanza a ricorrere ad un decreto di scioglimento dei sodalizi sia la disposizione data alle truppe di non usare le armi da fuoco contro i dimostranti. Caduto Giolitti vennero meno quei freni da lui posti alla repressione del movimento e durante la crisi ministeriale che seguì le sue dimissioni iniziarono a verificarsi gli eccidi delle masse popolari siciliane. La serie di eccidi iniziò a Giardinello il 10 dicembre e continuò sotto il nuovo Governo dell'ex-siciliano Crispi fino alla proclamazione dello stato d'assedio, avvenuta il 4 gennaio 1894. "A Giardinello il 10 dicembre una dimostrazione contro le tasse e contro la condotta del Sindaco si concluse con 11 morti e numerosi feriti. "Il 17 a Monreale una dimostrazione contro i dazi fu repressa con le armi e si ebbero numerosi feriti; il 25 dicembre, a Lercara una dimostrazione contro le tasse fu repressa lasciando sul campo 11 morti e numerosi feriti. A Pietraperzia il 1° gennaio un'altra dimostrazione contro le tasse costò 8 morti e 15 feriti. Lo stesso giorno a Gibellina ci furono 20 morti e numerosi feriti. Il 2 gennaio a Belmonte Mezzagno, 2 morti ed il 3 a Marineo 18 morti e molti feriti. Due giorni dopo a Santa Caterina si ebbero 13 morti e numerosi feriti" (S.F.Romano, 1959). Secondo il calcolo di Napoleone Colajanni, i dimostranti uccisi furono non meno di 92, mentre tra le truppe vi sarebbe stato un solo morto. Se una parte dei morti in quei disordini fu dovuta all'intervento delle truppe che usarono le armi a fuoco, un'altra parte fu dovuta ai gruppi di guardie al servizio dei capi mafiosi dei comuni. Ad essere condannati a lunghi anni di carcere o all'ergastolo per gli eccidi non furono però le guardie campestri, la cui colpevolezza era certa, bensì i contadini e le contadine! Il 3 gennaio 1894, quando ormai il movimento di protesta era stato sconfitto dallo Stato e dalla Mafia, venne convocato il Comitato Centrale per decidere il da farsi e per la prima volta venne rivendicata ufficialmente la liquidazione del latifondo. Fino ad allora il movimento dei Fasci si era battuto soprattutto per la modifica dei patti agrari e per gli aumenti salariali. L'appello si chiudeva con
una esortazione ai lavoratori affinché continuassero ad organizzarsi, ma pacificamente, senza ricorrere ai tumulti poiché con questi non si "raggiungono benefizi duraturi" (S.F. Romano, 1959) LO STATO D'ASSEDIO Il 4 gennaio venne affisso in tutti i paesi della Sicilia un Decreto Reale che proclamava lo stato d'assedio nell'Isola. Aveva così inizio la seconda fase della repressione, quella in cui si procedette alla liquidazione definitiva del movimento dei Fasci siciliani. Di questa seconda fase fu arbitro assoluto il generale Morra di Lavriano, nominato dal Crispi commissario straordinario con pieni poteri militari e civili. Il suo primo atto fu l'ordine di arrestare i membri del Comitato Centrale e i dirigenti più importanti dei Fasci dell'Isola. De Felice, Petrina, De Luca, Montalto, Ciralli e Maniscalco vennero arrestati il 4 gennaio; Bosco, Barbato e Verro il 16 gennaio. Gli arresti colpirono anche i contadini e tutti coloro, professionisti e studenti, che avevano partecipato alle dimostrazioni o semplicemente di simpatizzare per il movimento. In 70 paesi furono attuati arresti in massa. Circa 1000 persone furono inviati al confino senza nessun processo. L'11 gennaio il generale Morra di Lavriano dispose con un editto l'arresto e l'invio a domicilio coatto "degli ammoniti e della gente malfamata". Con questo editto il numero delle persone colpite dalla repressione governativa aumentava in maniera logaritmica. Le persone arrestate o inviate al domicilio coatto in virtù di questo decreto furono 1.962 e tra di esse 361 erano della provincia di Catania e 135 della provincia di Messina, vale a dire di due province dove non si erano registrati tumulti. Naturalmente fu applicata rigorosamente "la sospensione delle guarentigie individuali sancite dallo statuto del Regno, cioè la libertà individuale, l'inviolabilità del domicilio, la libertà della stampa, il diritto di riunione e di associazione". Ciò portò allo scioglimento di tutte le associazioni operaie (compresi i Fasci) e di tutte le cooperative, ma non disturbò il "circolo dei nobili" ed il "casino dei civili" (da non confondere con le case di tolleranza). Si procedette anche ad una revisione delle liste elettorali in base ai desiderata delle amministrazioni comunali. L'8 gennaio furono istituiti tre tribunali militari (Palermo, Messina e Caltanissetta) dove si svolsero tutti i processi contro i presunti responsabili dei tumulti e delle stragi. Le accuse mosse agli imputati si basavano sulle dichiarazioni dei sindaci, delle guardie campestri, dei carabinieri ecc.. Per rendersi conto della loro attendibilità basta considerare che un sordomuto fu imputato per aver emesso "grida sediziose" durante i tumulti di Misilmeri. Col movimento dei Fasci i siciliani si erano battuti contro gli agrari latifondisti, contro la mafia, e contro lo Stato. Ma erano in troppi e tutti dalla stessa parte. Le dure sentenze del tribunale militare di Palermo, scatenarono le reazioni di molti. "Già la sera stessa del 30 maggio 1894, molti studenti si radunarono a Palermo davanti al teatro Bellini e diedero vita ad un corteo cantando l'inno dei lavoratori; il giorno dopo, all'università, votarono un durissimo ordine del giorno contro le condanne e decisero di non presentarsi alle elezioni per protesta (...) La mattina del 31 una grande folla si radunò davanti al carcere per solidarizzare con i capi contadini detenuti, mentre il 1° giugno numerose barchette circondarono al porto di Palermo la nave "India", che stava trasportando verso un lontano penitenziario De Felice, Barbato, Verro, Montalto,Pico e Benzi" (D. Paternostro, 1994). Il 14 marzo 1896 il nuovo governo Di Rudinì, concesse l'amnistia ai condannati dai tribunali di guerra per i fatti del '93-94. Fu mantenuto però il divieto di ricostituire i Fasci del lavoratori e qualunque organizzazione dello stesso tipo. Con un provvedimento del settembre 1896 fu sciolta anche la federazione "La terra" di Corleone, fondata da Bernardino Verro, che per sfuggire alla condanna si rifugiò in America, dove continuò a fare propaganda tra gli emigrati siciliani. Sarebbe tornato, Bernardino Verro non era "uomo che scappa", e sarebbe morto.... ammazzato. I provvedimenti del Governo tuttavia non poterono cancellare l'esperienza dei Fasci dalle menti e dalle coscienze delle masse contadine siciliane. Le rivendicazioni economiche e sociali dei Fasci sarebbero state riprese dai successivi movimenti di organizzazione della classe contadina che avrebbero interessato la società siciliana fino agli anni Cinquanta.
L'emigrazione Il sottosviluppo, l’analfabetismo, l’alta mortalità infantile e la malaria, uniti alle spaventose e disumane condizioni di lavoro nelle zolfare, disseminate in tutte le province medio-orientali della Sicilia, e all’estrema miseria dei villaggi di pescatori delle zone costiere, fecero sì che il governo nazionale, a partire dal 1882,
incentivasse l’emigrazione verso il nord America, soprattutto verso gli Stati Uniti e verso il Brasile e l’Argentina nel sud America. Le statistiche affermano che tra il 1871 e il 1921 quasi un milione di siciliani abbiano lasciato l’isola. Gli ultimi decenni del XIX secolo vedevano la regione ancora priva di infrastrutture viarie e ferroviarie efficienti. La compagnia ferroviaria Vittorio Emanuele, concessionaria per le costruzioni e l'esercizio ferroviario nell'isola, era in forte ritardo sul programma, tanto che dovette intervenire direttamente lo Stato per la prosecuzione di molti lavori. Le linee ferroviarie realizzate, più che per collegare i centri urbani, erano realizzate spesso con un lungo percorso che teneva conto solo degli interessi commerciali degli investitori, spesso stranieri; così per andare da Palermo a Messina si doveva passare da Girgenti e Catania. La linea Palermo-Trapani era funzionante dal 5 giugno 1881, con i suoi 195 km, ma passando per Mazara del Vallo e Marsala, si faceva quasi il doppio del percorso. Ancora nel 1885 questa linea rappresentava un terzo di tutta la rete sicula; solo nel 1937 Trapani venne raggiunta direttamente. Alla lunga, tutto il sistema ferroviario risultò essere stato progettato e realizzato solo in funzione del trasporto ai porti d'imbarco dello zolfo, dei vini e degli agrumi, con effetti per la mobilità e per lo sviluppo che perdurano fino ad oggi. In più, per scopi clientelari, i percorsi venivano allungati o deviati per raggiungere il fondo o la tenuta di Baroni e latifondisti. Lo sviluppo del commercio dei filati a Catania attirava immigrati da tutta la provincia; oltre 20.000 tessitori ormai lavoravano nelle filande del capoluogo, e il Banco di Sicilia vi aprì la sua prima filiale. Un rapporto del 1887 di Gentile Cusa registra ciò evidenziando l'assenza di emigrazione verso l'estero dal catanese, a differenza del resto della Sicilia. Verso la fine del XIX secolo, anche grazie all'apporto di capitale straniero e ai finanziamenti delle banche si svilupparono, nel sud della Sicilia e a Catania, raffinerie di zolfo e industrie chimiche ad esso collegate, attività molitorie, come i grandi Mulini Prinzi di Catania, che importavano grano ed esportavano farine; il cotonificio De Feo che impiegava oltre 480 addetti e nel 1897 produceva 1500 kg di filati al giorno; estesa era anche la produzione di mobili e di carrozze. La fine del secolo vide anche la costruzione della Ferrovia Circumetnea, che trasportava merci e viaggiatori dalle zone attorno all'Etna verso Catania e il suo porto, contribuendo all'export dei vini etnei tramite il porto di Riposto. Vennero anche approntati progetti di linee tranviarie a servizio delle zone minerarie, come la tranvia a vapore Raddusa Scalo-Assoro Scalo- Sant'Agostino e la Porto Empedocle-zolfare Lucia. La produzione del "fiore di zolfo", cioè lo zolfo raffinato, ebbe il suo massimo nel 1899, quando la produzione siciliana raggiunse gli 8/10 di quella mondiale, grazie alle estrazioni massicce condotte nella Sicilia interna, soprattutto nelle grandi miniere dei bacini di Lercara, del nisseno e dell'agrigentino, di Floristella e di Grottacalda e delle altre miniere dell'ennese. Non era comunque ricchezza per tutti: la massima parte dei guadagni andava ai proprietari e agli investitori della "Anglo-Sicilian Sulphur Co." mentre la grande massa di surfarara, donne e carusi versava in uno stato di miseria e sfruttamento ai limiti della schiavitù. Alla fine del secolo XIX infatti erano attive oltre 700 miniere che impiegavano una forza lavoro di oltre 30.000 addetti le cui condizioni di lavoro tuttavia rimanevano al limite del disumano . In questo clima si svilupparono i Fasci, che vennero repressi duramente dal governo di Francesco Crispi. Gli anni di fine secolo videro la nascita e lo sviluppo anche in Sicilia delle prime organizzazioni sindacali e l'inizio di scioperi per ottenere più umane condizioni di lavoro. Proprio gli zolfatari, più di tutti, parteciparono alla costituzione dei Fasci dei lavoratori: nel maggio 1891 si costituì il Fascio di Catania, nell'ottobre 1893 a Grotte, paese minerario in provincia di Agrigento, si tenne il congresso minerario. Al congresso parteciparono 1.500 fra operai e piccoli produttori. Gli zolfatari chiedevano di elevare per legge a 14 anni l'età minima dei carusi di miniera sfruttati fin da allora come schiavi, la diminuzione dell'orario di lavoro (che era praticamente dall'alba al tramonto) e il salario minimo. I piccoli produttori chiedevano provvedimenti che li affrancassero dallo sfruttamento dei pochi grossi proprietari, che controllavano il mercato di ammasso ricavandone, loro, tutto il profitto.
I Fasci tuttavia vennero sciolti d'autorità dal governo Crispi all'inizio del 1894, dopo che, negli scontri con l'esercito, erano morti oltre un centinaio di dimostranti in un solo anno. Nel 1901 le unità lavorative raggiunsero il livello massimo di trentanovemila con 540.000 tonnellate di minerale di zolfo estratto.
«I
moti dei Fasci sono per noi come una propaggine del moto del 1860, inteso come "rivoluzione incompiuta". » ( Mario Rapisardi ) All'inizio del secolo XX, la Sicilia si affacciava con grave carenza di infrastrutture (la maggior parte della rete ferroviaria interna venne infatti realizzata a partire dalla statalizzazione delle ferrovie dopo il 1905 e terminata alla soglia degli anni '30 quando il settore minerario era già in crisi profonda).
Quando nel marzo del 1919, Benito Mussolini fonda a Milano i “ Fasci da Combattimento “, nessuno è in grado di prevedere come quel gesto sancirà l’inizio di un lungo e doloroso periodo buio della storia del paese. Il giornalista e reduce di guerra nato a Predappio, intende sostituire il concetto di democrazia, con quello di “Trincerocrazia”, ovvero una sorta di dittatura esercitata dagli uomini provenienti dalla trincea. Dal 1920 inizia la scalata al potere del fascismo, costellata di cruenti pestaggi ad operai e socialisti in sciopero in tutta l’Italia del nord e del centro. L’intero mondo politico e la polizia, chiudono gli occhi dinanzi alle sparatorie, agli atti vandalici e alle tristemente note inoculazioni forzate di olio di ricino ( spesso mortali ), con cui le squadre nere colpiscono ogni forma di opposizione. Un processo che culmina con la marcia su Roma dell’ottobre del 1922, data che da il via al ventennio fascista e al crollo definitivo di ogni modello di Democrazia in Italia. Il Fascismo e la Sicilia I proprietari terrieri appoggiarono il fascio, ben contenti di poter stroncare i movimenti operai e socialisti, ma il fascismo in Sicilia, come nel restante Sud Italia, non conquistò mai la base del popolo. La politica siciliana e le sue clientele erano svincolate da ideologie, e la mafia provvedeva da se a fermare con buoni risultati i moti dell’epoca. Quando il Duce andò al potere, in genere i mafiosi si unirono al treno fascista, ma in forma di genetico opportunismo. Sorgono consigli comunali e provinciali definiti “ fascista mafiosi “, oppure si parlava di una “ mafia fascisticizzata “. Mussolini avverte che la sua popolarità nell’isola è priva di un adeguato appoggio della gente comune; tra mafia e regime s’instaura un clima di tolleranza reciproca che consenta di garantire il controllo del territorio ad entrambe le parti, tanto che esponenti dell’elite mafiosa vengono nominati nelle sfere dell’esecutivo. Il delicato equilibrio è destinato a spezzarsi: il governo fascista è accusato di risultare troppo morbido verso il potere mafioso ed il crimine che in Sicilia continua a dilagare; gli viene additato inoltre, di non soddisfare i bisogni di sviluppo economico dell’isola. Per questi e altri motivi, si avvicina il momento in cui il Duce sceglie di avviare una “crociata” contro la mafia ed il potere politico che la proteggeva.
La propaganda fascista aggredisce la mafia Molti storici sono concordi nello stabilire che gli esiti della visita di Mussolini in Sicilia del maggio 1924, furono determinanti nel portare al limite la pazienza fascista verso la mafia. Dietro alle gesta festose del popolo, gli esponenti locali si mostrarono freddi e irriguardosi al cospetto del Duce, trattandolo con la stessa sufficienza che riservavano ai politici di Roma: una arroganza data dal predominio locale indisturbato. Dietro alla propaganda di un regime dalla “ ferrea rettitudine morale “, impegnato nel debellare il paese da tutte le piaghe, socialismo o mafia che fossero, Mussolini intendeva colpire ogni forza politica non allineata a se. Un sistema perfetto per coglierle al volo l’opportunità di dare una lezione alla mafia e fornire un immagine di esecutivo “ forte e pratico “. L’ultima goccia che fece traboccare il vaso, giunse dall’appoggio che i mafiosi diedero ai politici locali per sconfiggere i fascisti nelle elezioni regionali dell’agosto del 1925. Nel resto del paese intanto, la dittatura aveva preso il sopravvento: Giacomo Matteotti, leader del partito socialista, era stato rapito e ucciso da squadre fasciste, e l’intero Stato Liberale reagì in modo inconsistente. Viene sferrato l’attacco militare A Palermo, nell’ottobre del 1925, viene nominato prefetto Cesare Mori. L’uomo su cui cadde la scelta di Mussolini per sferrare l’attacco militare alla mafia, aveva alle spalle una lunga carriera nelle forze dell’ordine. Aveva combattuto la criminalità siciliana in gioventù, per poi salire la scala gerarchica con incarichi di prestigio come questore di Torino ( celebri le repressioni verso le manifestazioni operaie ), e prefetto di Bologna, dove si distinse per aver replicato con forza anche alle squadre fasciste. Il risoluto Mori, definito anche “ l’uomo con il pelo sul cuore “ parte dal presupposto che la mafia in Sicilia non è una organizzazione con riti e cerimonie, ma “ un modo peculiare di vedere le cose “. Sostiene cioè, che la sua forza sta nello sfruttare la “ vulnerabilità e la credulità al centro della mentalità siciliana…gente semplice, non di rado infantile, mansueta ma incline ad ingannare…mafia che per sopravvivere cercava di farsi credere una organizzazione…”. La ricetta di Mori è che per battere la mafia “ occorre che lo stato fascista fosse più mafioso dei mafiosi”. Una chiave di lettura alquanto discutibile, ma che sarà alla base dei teatrali atti di forza che verranno. L’assedio di Gangi ( gennaio 1926 ), paese sulle Madonie ritenuto covo di clan mafiosi, è il primo di una serie. Seguiranno rastrellamenti a tappeto e arresti di massa. Gli uomini d’onore vengono radunati in cerimonie propagandistiche dove giurano fedeltà al fascismo e alla nazione. Dietro alle migliaia di arresti, si cela il coinvolgimento di molte persone oneste, ma questo era un effetto collaterale di cui non preoccuparsi. Alcuni mafiosi catturati tenteranno di mediare con i soliti sistemi ma Mori proclama che “ l’aria è cambiata “. Mori intende far colpo sul popolo, ma l’intera manovra è diretta a indurre al tradimento i proprietari terrieri, per costringerli a denunciare la manovalanza mafiosa che avevano fin lì protetto. Molti padroni furono felici di liberarsi di gabellotti sempre più sfrontati. Un azione di forza e non di giustizia Nei decenni a venire, soprattutto dopo la seconda guerra mondiale, il giudizio storico sull’atteggiamento del fascismo nei riguardi della mafia, fu tema di scontri ideologici e strumentali. La destra italiana ha sempre rivendicato il merito di aver sconfitto la mafia nel corso del ventennio fascista. L’impressione complessiva alla luce dei documenti e degli eventi che emersero man mano che la nube del conflitto mondiale si diradò, lasciando sul terreno le cicatrici di una società distrutta dalla guerra, fornisce conclusioni diverse. L’azione di forza scatenata da Mori e dal regime, non fu seguita da una condotta che avesse a cuore il senso di giustizia. Vennero istituiti processi dalle dimensioni mastodontiche, per lo più censurati alla stampa, all’interno dei quali si regolavano i conti in funzione delle convenienze della propaganda. Al primo posto vi era l’immagine di esecutivo distruggi mafia di cui Mussolini aveva bisogno, e il clima intimidatorio con molte sentenze di colpevolezza a senso unico, divennero un comune denominatore. Personaggi di spicco morirono misteriosamente in carcere, con il sospetto che ciò avvenisse per celare collusioni mafiose di gerarchi fascisti.
L’etichetta di mafioso fu utilizzata per togliere di scena avversari, per compiere vendette e regolare antichi rancori. La mafia in sostanza non fu eliminata come sostenuto, ma ne venne militarmente tenuto a freno il suo braccio armato, e addomesticata con la corruzione che preservò i nobili in grado di accattivarsi il regime con il denaro e i favori. Un comportamento che impedì il passo fondamentale in grado di spezzare le redini culturali della mafia: trasmettere alla gente di Sicilia un senso dello Stato che la strappasse alla cultura mafiosa, e togliesse di scena chi quel tipo di potere avrebbe instaurato nuovamente nel dopo guerra. Cade il silenzio sulla Sicilia Nel corso degli anni trenta, il fascismo dichiarava di aver “ufficialmente sconfitto la mafia”. Continuarono le retate ed i processi ma la cronaca nera scomparve quasi dalla stampa. I sospettati venivano velocemente spediti in esilio dopo accertamenti superficiali. Le amministrazioni pubbliche siciliane divengono la dimora di “ grigi funzionari fascisti “. Su tutta l’isola cala il silenzio, abbandonandola al dilagare della corruzione e delle lotte intestine. In questo stato di assenza di rumori, la mafia sopravvisse quasi in dormiveglia. I suoi esponenti costretti al confino, emigrarono negli Stati Uniti, dove andarono ad nutrire le file di una organizzazione in crescendo dall’inizio del ‘900. Molti "capibastione" che il fascismo aveva mandato al confino come mafiosi, erano stati messi dopo il luglio 1943 al comando dei paesi dalle truppe alleate, si infiltrarono nei ricostituiti partiti italiani. Lo statuto speciale siciliano, emanato da Re Umberto II il 15 maggio 1946 (quindi precedente alla Costituzione della Repubblica italiana, che lo ha recepito con la legge costituzionale n. 2 del 1948), diede vita alla Regione Siciliana, prima ancora della nascita della Repubblica Italiana. L'Autonomismo fu un modo per svuotare il movimento separatista, guidato dal Movimento Indipendentista Siciliano, che all'indomani dello sbarco alleato era uscito dalla clandestinità in cui era stato sotto il periodo fascista, chiedendo l'affrancamento della Sicilia dallo Stato Italiano, e che ebbe anche un'organizzazione paramilitare, l'E.V.I.S. (Esercito Volontario per la Indipendenza Siciliana) guidato da Antonio Canepa. Svanì quasi subito invece l'idea che la Sicilia divenisse uno stato federato agli Stati Uniti d'America. Quando gli Stati Uniti riuscirono a bloccare la minaccia di Mosca e di Tito sul Nord-Est dell'Italia, questi abbandonarono a se stessi l'E.V.I.S e il M.I.S. Non restò altro che partecipare alle elezioni al primo Parlamento regionale nel 1947, e alle politiche, nel 1948, per il Parlamento Nazionale, dove ottenne alcuni seggi (Andrea Finocchiaro Aprile, Attilio Castrogiovanni). Il primo governo regionale del 1947 fu formato con un monocolore DC, con il sostegno esterno dei Monarchici e dei liberali. Ben presto la speranza autonomista di uno sviluppo delle condizioni economiche dell'isola, portata avanti da presidenti della Regione come Giuseppe Alessi e Franco Restivo si rivelano illusorie. La storia politica di sessant'anni di autonomia speciale in Sicilia, e dei suoi governi, ha vissuto momenti di vivacità, che hanno portato a definire la politica siciliana una sorta di "Laboratorio politico", e altri più bui. Il 30 ottobre 1958 quando Silvio Milazzo della DC venne eletto presidente della Regione Siciliana con i voti, all'Assemblea regionale siciliana, dei partiti di destra e di sinistra, contro il candidato ufficiale del suo partito. Nel suo primo governo ci furono insieme esponenti del PCI e del MSI, "in nome dei superiori interessi dei siciliani", dissero il segretario regionale del PCI Emanuele Macaluso e il capogruppo all'Ars del Msi Dino Grammatico. Silvio Milazzo, fu subito espulso dalla DC, diede poi vita con un gruppo di deputati regionali a un nuovo partito politico, Unione Siciliana Cristiano Sociale, che ottenne 10 deputati all'Ars nelle elezioni regionali del 1959. Milazzo il 12 agosto 1959 formò un secondo governo, dove però non entrò più il MSI. Grammatico nelle sue memorie definì quella prima fase del milazzismo come una "Rivolta siciliana", che non avrebbe più avuto nella seconda fase. Questo secondo governo ebbe allora un sostegno variegato, dalle sinistre, ai monarchici, ai vertici di Sicindustria, allora guidata da Domenico La Cavera, faccendieri come Vito Guarrasi e Graziano Verzotto, fino a esponenti vicini alla mafia. Ideologhi in quella fase furono Ludovico Corrao e il deputato nazionale Francesco Pignatone. L'esperimento di Milazzo, dopo un altro breve governo, entrò in crisi nel febbraio 1960, quando un suo esponente, Benedetto Majorana della Nicchiara, fu convinto dai maggiorenti DC ad accettare la carica di presidente della Regione, al posto di Milazzo. Crisi dovuta anche a uno scandalo, con un tentativo di corruzione denunciato da un deputato DC, cui furono promessi 100 milioni per votare a favore del governo.
Gli anni '60 sono contraddistinti dai governi di centro sinistra e dalla nascita della "Regione imprenditrice". Si trattò di una fase politica che pone al centro di tutto l'intero apparato dei partiti di allora, chiamato a gestire discutibili iniziative industriali. Con la nascita della Sofis, la prima società finanziaria pubblica costituita in Italia, nata proprio negli anni del milazzismo, la Regione acquisiva quote ed azioni di società nate già fuori da logiche di mercato. Si trattava, in particolare, di aziende in difficoltà economiche e spesso sorgevano imprese solo per usufruire dei finanziamenti erogati dalla Sofis. intorno alla metà degli anni '60, e quindi nell'epoca del centrosinistra, vengono istituiti quattro enti economici regionali: l'Ente minerario siciliano, Ente siciliano per la promozione industriale, l'Azasi e l'Ente Sviluppo Agricolo). Tra gli anni 60 e '70 avvenne una delle più grandi speculazioni edilizie della storia siciliana, il cosiddetto sacco di Palermo. Durante tale periodo alcune borgate vennero inglobate da un'espansione edilizia dissennata e abnorme, spesso promossa dalle collusioni tra mafia e politica (ne sono un chiaro esempio le relazioni tra il sindaco di allora Salvo Lima e l'assessore ai lavori pubblici Vito Ciancimino, entrambi democristiani, e l'emergente mafia corleonese) e furono letteralmente distrutti numerosi reperti artistici e architettonici di grande interesse. Interessi politico-mafiosi che portarono a decine di omicidi eccellenti, come quello dell'allora presidente della Regione Piersanti Mattarella, nel gennaio 1980. Ma l'autonomia ebbe anche aspetti positivi: nel 1992 l'Ars approva, prima del parlamento italiano, la legge per l'elezione diretta di sindaci e presidenti della provincia. I governi di centro sinistra si succederanno per un trentennio, tra alterne vicende, fino alla tangentopoli siciliana, che vedrà negli anni 1992-1995 inquisiti oltre la metà dei 90 deputati dell'Assemblea regionale siciliana, compresi il presidente della Regione, il DC Rino Nicolosi, e quello dell'Ars Paolo Piccione del PSI (che anni dopo verrà prosciolto). Fino al 1996, quando viene eletto il primo presidente di una coalizione di centrodestra, Giuseppe Provenzano, ma nel 1998 con un ribaltone diventa presidente Angelo Capodicasa, primo ex PCI alla guida della Regione. Nel 2001 la prima elezione diretta del presidente della Regione, che vedrà il CDU Salvatore Cuffaro, superare l'ex sindaco di Palermo Leoluca Orlando. Nel 2006 Cuffaro, passato all'UDC, sebbene rinviato a giudizio per favoreggiamento, viene rieletto, superando Rita Borsellino. Nel gennaio 2008 dovrà dimettersi per la condanna in primo grado a 5 anni. Il presidente del 57º governo della Regione, eletto il 14 aprile 2008 è Raffaele Lombardo, leader di un partito autonomista, l'MPA, che ha sconfitto Anna Finocchiaro del PD.
Il resto e’ storia dei giorni nostri , ma se questo non vi basta …..
Autonomia speciale « La
Sicilia, con le isole Eolie, Egadi, Pelagie, Ustica e Pantelleria, è costituita in Regione autonoma, fornita di personalità giuridica, entro l'unità politica dello Stato Italiano, sulla base dei principi democratici che ispirano la vita della Nazione. La città di Palermo è il capoluogo della Regione. »
(art. 1 dello Statuto Siciliano) L'Autonomia speciale è quella particolare forma di governo della Regione che fu concessa il 15 maggio 1946 alla Sicilia da re Umberto II di Savoia, disciplinata da uno Statuto speciale (art. 116 della Costituzione Italiana), che la ha dotata di una ampia autonomia politica, legislativa, amministrativa e finanziaria. Grazie allo Statuto autonomistico, la Regione Siciliana ha competenza esclusiva (cioè le leggi statali non hanno vigore nell'isola), su una serie di materie, tra cui beni culturali, agricoltura, pesca, enti locali, territorio, turismo, polizia forestale . Ogni modifica allo Statuto, trattandosi di legge costituzionale, è sottoposta alla cosiddetta procedura aggravata, cioè a una doppia approvazione, a maggioranza qualificata, da parte delle Camere.
Per quanto riguarda la materia fiscale, la totalità delle imposte riscosse in Sicilia dovrebbe rimanere, infatti, sul territorio e ogni anno lo Stato Italiano sarebbe tenuto a fornire un ammontare da stabilirsi, con piano quinquennale, di denaro pubblico proveniente dalle altre Regioni per finanziare la Sicilia, così come stabilito dall'art. 38 dello Statuto della Regione Siciliana, articolo, come quelli di tutta la parte economica-finanziaria, ancora oggi non applicato, tant'è che vi è un conflitto istituzionale perenne fra Stato e Regione Siciliana. L'Italia, ancora oggi, conferisce ogni anno solo una anticipazione forfettaria, per cui la Regione Siciliana vanta da decenni crediti mai saldati dallo Stato. • • •
Lo Stato verserà annualmente alla Regione, a titolo di solidarietà nazionale, una somma da impiegarsi, in base ad un piano economico, nella esecuzione di lavori pubblici. Questa somma tenderà a bilanciare il minore ammontare dei redditi di lavoro nella Regione in confronto della media nazionale. Si procederà ad una revisione quinquennale della detta assegnazione con riferimento alle variazioni dei dati assunti per il precedente computo.
Altro aspetto importante è contenuto nell'art. 37 dello Statuto della Regione Siciliana: 1. Per le imprese industriali e commerciali, che hanno la sede centrale fuori del territorio della Regione, ma che in essa hanno stabilimenti ed impianti, nell'accertamento dei redditi viene determinata la quota del reddito da attribuire agli stabilimenti ed impianti medesimi. 2. L'imposta, relativa a detta quota, compete alla Regione ed è riscossa dagli organi di riscossione della medesima. (Anche questo articolo non è stato sinora attuato ed inoltre le tasse dei siciliani confluiscono nella Tesoreria Unica Nazionale e solo una parte di esse viene poi ristornata alla Regione Siciliana. Vi è, quindi, ancora un conflitto costante per la parte finanziaria fra Stato e Regione per la mancata applicazione dello Statuto Siciliano dopo tanti decenni. Allo Stato attuale, alla Sicilia che produce 90% di tutto il petrolio italiano con i suoi pozzi e le sue raffinerie, non rimane nulla in quanto le Industrie petrolifere hanno sede legale a Milano e pur estraendo in Sicilia, pagano le tasse in Lombardia. Alcune prerogative statutarie non sono a oggi applicate, in quanto mancano le corrisponendenti Norme di attuazione dello Statuto che devono essere emanate dalla Commissione paritetica Stato Regione. L'organo legislativo è composto dall'Assemblea regionale siciliana, quello esecutivo dal Presidente della Regione e dalla Giunta di Governo, composta da 12 assessori regionali, che dal 2001 possono anche non essere deputati (così si chiamano, unici in Italia secondo la Consulta, i consiglieri regionali in Sicilia). Dal 25 maggio 1947 ad oggi si sono susseguite XV legislature, inizialmente della durata di quadriennale, mentre dal 1971 è quinquennale. L'Assemblea si compone di novanta deputati eletti a suffragio universale diretto dagli elettori siciliani ogni cinque anni. Dal 2001 il presidente della Regione non è più eletto dall'Assemblea Regionale Siciliana, ma direttamente dei cittadini. Il presidente del 57° governo della Regione, eletto il 14 aprile 2008, è Raffaele Lombardo. Originariamente lo Statuto prevedeva anche una Alta Corte con poteri giurisdizionali, che giudicava della costituzionalità delle leggi regionali e delle leggi e dei regolamenti dello Stato nei confronti delle norme dello Statuto e limitatamente alla loro applicazione sul territorio siciliano, ma nel 1957 la Corte Costituzionale la dichiarò decaduta e le competenze assorbite dalla stessa . In Sicilia, inoltre vi è il CGA (Consiglio di giustizia amministrativa) che nell'isola ricopre le funzioni del Consiglio di Stato, oltre a delle sezioni autonome della Corte dei Conti, giurisdizionali e di appello.
Fonti : wikipedia – brigantino –il portale del sud
www.centrostudinaturalisticinazionesiciliana.com