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Tutto_Misure n.2 - 2021 - Editoriale

Comunicare scienza

Cari Lettori, sembra che, grazie in parte all’effetto della campagna vaccinale e in parte all’aiuto del generale Estate, si inizi a intravvedere una luce in fondo al tunnel della pandemia da Covid-19. Sperando quindi che l’uscita sia davvero finalmente in vista, si può iniziare a riflettere su alcuni aspetti critici di tematiche a noi vicine, evidenziati da questo anno e mezzo di crisi. Uno di questi aspetti riguarda quanto sia difficile comunicare scienza, soprattutto al di fuori della comunità scientifica. Temo che, finora, si sia dato per scontato il lento maturare, all’interno della comunità scientifica, delle nuove teorie e, anche quando queste portano a risultati fruibili da tutti, l’inutilità di comunicarne i dettagli al grande pubblico limitandosi, al massimo, alle “istruzioni per l’uso”. È una visione molto pragmatica, forse figlia della difficoltà di esprimere concetti spesso astrusi semplificandoli senza troppo sacrificare il rigore scientifico, in modo da renderli comprensibili anche a chi non possiede il bagaglio di conoscenze matematiche e, più in generale, scientifiche necessarie per metabolizzarli. La storia del pensiero scientifico e di come questo sia diventato, in un tempo più o me - no lungo, parte del bagaglio culturale comune sembra avallare questa visione. Se a questo si aggiunge che le nozioni scientifiche non rappresentano il punto di forza delle conoscenze della popolazione italiana (e non solo), ben si comprende come la difficoltà di comuni care scienza sia tale da scoraggiarne financo i tentativi. Poi arrivano eventi improvvisi e imprevisti, che fanno nascere domande a cui solo la scienza, nell’immediato, può tentare di dare risposta. Il problema è che se la risposta non viene compresa, non solo le conseguenze dell’evento infausto rischiano di aggravarsi, ma vemgono pericolosamente minate la fiducia nella scienza e la credibilità della comunità scientifica. Una prima avvisaglia si è avuta nel 2006, con il terremoto de L’Aquila, in cui la Commissione Grandi Rischi, composta in gran parte da scienziati, finì sotto processo e fu condannata (salvo poi vedere quasi tutti i suoi componenti assolti in appello) per non aver saputo comunicare il rischio che un terremoto si verificasse, e non per non averlo saputo predire, come ha molto bene spiegato Veronica Scotti in un apprezzato articolo dell’IEEE Instrumentation and Measurement Magazine (V. Scotti, "The sentence in the L'Aquila earthquake trial," in IEEE Instrumentation & Measurement Magazine, vol. 17, no. 2, pp. 41-45, April 2014). La pandemia, con la sua globalità, non ha fatto altro che amplificare il problema e le giuste aspettative della popolazione. Ancora una volta si chiedevano alla comunità scientifica spiegazioni sulla malattia, indicazioni chiare sui comportamenti da seguire e, sperabilmente, previsioni su come e quando se ne sarebbe usciti. Ho volutamente scritto “indicazioni chiare” e non certe, come molti avrebbero sperato, perché proprio qui sta, secondo me, il nodo centrale di una comunicazione incapace di comunicare. È ovvio, soprattutto a noi che ci occupiamo di metrologia, che la certezza non esiste e che siamo condannati ad avere a che fare con l’incertezza. Ma non è altrettanto noto (anzi, è probabilmente del tutto ignoto), né al grande pubblico né ai decisori a cui quelle risposte andavano indirizzate. Cosa in realtà è successo è sotto gli occhi di tutti: spiegazioni confuse, previsioni violentemente contrastanti, indicazioni spesso contraddittorie. Perfino sui vaccini, che stanno dimostrando con i fatti la loro efficacia (che, ahimè, non significa totale assenza di controindicazioni), si sono avute indicazioni contraddittorie e disorientanti con il solo effetto di ritardare somministrazioni già in forte ritardo. Non me la sento di associarmi al coro di quelli che accusano di incompetenza gli scienziati (in larga parte virologi) intervenuti nel dibattito. Abituati a discutere le proprie teorie in consessi scientifici, dove si progredisce grazie alla diversità di vedute e le diverse posizioni vengono validate sulla base degli esperimenti eseguiti e ripetuti, e do - ve, in presenza di grande incertezza sui possibili scenari, si è portati a seguire le proprie inclinazioni nel privilegiare l’uno o l’altro scenario, ci si è probabilmente dimenticati che l’uditorio non parlava lo stesso linguaggio e non era in grado di interpretare le singole posizioni come raffigurazioni di eventi probabili (ma di cui si è colpevolmente omesso di stimare la probabilità) o, addirittura, come worst case scenario. Il guaio è che chi ascoltava ha interpretato le diverse posizioni come incapacità di dare risposte chiare e plausibili, ha perso fiducia nei singoli e, ciò che è peggio, nei risultati scientifici. Sorprende l’incapacità di immedesimarsi in chi ascolta (soprattutto quando ad ascoltare è un pubblico vasto ed eterogeneo) e di comunicare i concetti essenziali e importanti in modo elementare, tralasciando interpretazioni personali troppo spinte, utilissime in una discussione scientifica, ma altrove assai dannose. Sorprende soprattutto che siano caduti in questa trappola anche coloro che, in quanto docenti, dovrebbero aver imparato come trasferire concetti complessi in modo chiaro ed efficiente. Chissà se avremo imparato la lezione e imparato che le conoscenze da sole servono a poco se non si è in grado di trasmetterle con competenza, chiarezza e, soprattutto, con l’onestà intellettuale di distinguere, dichiarandolo, ciò che è un proprio punto di vista da ciò che viceversa risulta dalle conoscenze consolidate e dai dati sperimentali. Speriamo di non dover attendere la prossima catastrofe per verificarlo, perché se così fosse il rischio di un nuovo Medio Evo potrebbe non essere così remoto. Le buone misure sono un ottimo strumento per esorcizzarlo. Buona lettura!

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