L'ora Panda#3

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INSERTO INFORMATIVO DI AVVERTENZA EXTRATERRESTRE_ cit: http://it.wikipedia.org/wiki/Extraterrestre

Extraterrestre è un aggettivo che indica qualsiasi oggetto di provenienza esterna al pianeta Terra. Può essere riferito a del materiale come ad esempio i meteoriti o a forme di vita estranee alla Terra. L’esistenza (presente o passata) di forme di vita extraterrestre è al momento solo ipotetica, dato che non sono mai state trovate chiare prove di organismi o microorganismi al di fuori della biosfera terrestre. Alcune meteoriti mostrano tracce che somigliano a microorganismi primitivi, ma le prove non sono ancora conclusive. Nella cultura popolare l’extraterrestre - detto anche alieno - è visto soprattutto come un ipotetico essere dotato di intelligenza proveniente da un altro pianeta, ed è un personaggio descritto all’interno di innumerevoli opere di fantascienza, ma anche in resoconti di misteriosi avvistamenti - mai del tutto provati - da parte di persone di ogni nazionalità (si veda la voce UFO). Possibili basi e origini di vita extraterrestre Rappresentazione artistica di una ipotetica forma di vita basata sul silicio Tutta la vita sulla Terra è basata su carbonio, idrogeno,azoto e ossigeno, e questo fatto potrebbe essere una costante anche per quanto riguarda altri pianeti alieni. Ci sono però altri elementi chimici che potrebbero ipoteticamente costituire la base per la vita, come ad esempio il silicio o l’azoto. Il punto di vista secondo il quale il carbonio è necessariamente la base di tutta la vita sugli altri pianeti, in quanto le sue proprietà chimiche e termodinamiche lo rendono di gran lunga superiore a tutti gli altri elementi, è stato soprannominato sciovinismo del carbonio. Lo studio scientifico sulla possibile base biomeccanica della vita extraterrestre è noto con il nome di esobiologia o xenobiologia. Per alcuni la vita nell’universo è nata e si è evoluta autonomamente in punti diversi, differenziandosi. Mentre per altri, sostenitori della teoria detta panspermia, la vita è stata generata da un unico tipo di spore che hanno provveduto a una base comune per ogni specie su ogni pianeta.

Sull’esistenza di forme di vita aliene È possibile che già nell’antico Egitto, in Babilonia e presso il popolo sumero si credesse nell’esistenza di vita extraterrestre. Anche nell’Antica Grecia, nel VII secolo a.c., alcuni filosofi intuirono che nell’infinita estensione dell’universo sarebbe stato possibile imbattersi in altri mondi popolati. Diogene Laerzio riferisce ad esempio come Anassagora ritenesse la Luna abitata. Nella sua opera De Rerum Natura (circa 70 a.C.), Lucrezio speculava apertamente della possibilità di vita su altri mondi. Ai giorni nostri, alcuni sostengono che gli alieni visitino regolarmente il nostro pianeta. Gli UFO sarebbero i loro mezzi di trasporto su cui a volte portano alcuni umani per studiarli. Alcuni attribuiscono il fenomeno dei cerchi nel grano direttamente all’azione extraterrestre (fulmini globulari, sfere di luce o BOL). Più realisticamente l’unico contatto possibile con la vita extraterrestre all’interno del sistema solare sarebbe quello con ipotetici microorganismi su altri pianeti e sulle loro lune. Anche se questa fosse l’unica possibilità, potrebbe comunque essere pericolosa date le possibilità di contagio da batteri particolarmente aggressivi di origine extraterrestre (basti pensare che gli Indios d’America sono stati falciati a milioni dalla banale influenza europea), questo pericolo è comunque remoto dato che eventuali batteri o virus alieni avrebbero quasi certamente una biochimica così diversa dalla nostra da risultare innocui. Comunicare con gli extraterrestri Come ci viene mostrato in opere di fantascienza quali ad esempio Contact di Carl Sagan, se anche incontrassimo una forma di vita intelligente, dovremmo tener conto di alcune difficoltà tra cui: • superare la notevole distanza interstellare per scambiare i messaggi • stabilire se gli alieni siano abbastanza evoluti da poter comunicare con noi (e viceversa); • trovare un linguaggio comune per poterci comprendere.


_Cecilia Matteoli


_Emanuela Marchetti








_Emanuela Marchetti


_Mutismo sciamanico_Francesca Avena


_Dreamlog_Francesca Avena


Spesso per te tutto il Creato è nella disposizione casuale dei tuoi pensieri: la perfettibile funzionalità dell’Occidente la schiacciante violenza del sole d’agosto l’incerto deteriorare dell’obiettività la labirintica complicatezza del Modernismo in letteratura la moltitudine delle città nei locali affollati il desiderare sempre l’entusiasmo da se stessi il tenere sempre vivo l’interesse l’omnipresenza totalizzante dell’ideologia la facilità evocative e furba dell’elencare in poesia il vitalismo esplorativo e sensuale di Whitman lo sguardo stupefatto dei turisti il loro fotografare le cose sbagliate la metamorfosi del destino e altri concetti obsoleti l’impronta indistinta della matrice sull’anima l’acquosa e accattivante dispersione in internet il colore triste e arido dei palazzi la visione pietrificante della bellezza la melliflua ma satiresca memoria di gioventù la tensione insita nello scrivere il sorriso deperito dell’età il governo della morte l’incauta amministrazione del cuore gli irreparabili errori nel crescere i fumi oscuri della civiltà industriale il vuoto angoscioso delle campagne gli audaci accostamenti nel vestire le geometriche scie degli aerei nel cielo lo sguardo interrogativo di chi non è presente a se stesso la finitezza granulare degli spray sui muri ciò che distrae nelle forme fisiche in alcune persone i mille giorni a covare vendetta il grido disperato di Andromeda il criptomarxismo sociale in Star Trek l’educazione eroica di sé e di pochi altri l’ansia che vuole strangolare la vita gli assenti ormai già troppo lontani la traduzione della realtà in merce e della merce in farsa la penetrante gioia che suscita una domanda sincera


il pomposo e radiante trionfalismo di fine inverno l’atmosfera gitana di Barcellona la costante lamentosa del disagio le infinite esplorazioni di oltre oceano e nell’Altro le mille interpretazioni di uno spartito il guardare spensierato dalla finestra l’essere permeabili alle radiazioni i pallidi e spenti sorrisi nel mercanteggiare il senso di meraviglia nel guardare il cirillico l’inutile angheria polemica contro la vita la religione delle Lettere in Harold Bloom l’ingiusficato sguardo grave e severo della mattina la cultura del sogno il manipolare la coscienza le luci in declino esponenziale l’attesa decennale della propria redenzione in nomi delle costellazioni la perfezione d’Oriente il mistero dei segni e dei significati il risveglio al suono dei rondoni poco dopo l’alba i momenti preziosi custoditi con gelosia la benefica iperfisica di Copelandia il sensibile diniego delle forze il tramare instabile delle intenzioni l’allagamento del dubbio in adolescenza il gocciolio della pazienza il grigiume del cielo e dell’umore la molestia della comunicazione fallita l’ingrossarsi in me di una inesatta teoria critica l’austerità di Aalto, Loos e van der Rohe il dormire, mangiare e cercare un Senso il feedback negativo dopo la speranza il viaggio glorioso di Ibn Battuta il lento dilagare dell’edera sui muri il tossico tasso alcolico degli amici dal collo lungo l’irredimibile colpa dell’abuso degli affetti la regale statura della coscienza la fugace liberazione del “qui e ora” la gentile presenza di qualcuno e il contrario le felice luccicanza di George Clinton l’ardire d’intenzione di una notte d’amore


la muta malinconia del gesto solitario in azione la promessa del desiderio potenziale leggere i poeti, che tendono e vedere più di quello che c’è l’ossessione medievale per i simboli la memoria storica degli alberi la massoneria in Mozart, Duke Ellington e Count Basie l’imperativo del “do or die” la furia della “berserksgangr” in guerra le milioni di note in Bach l’intimità anomala tra l’uomo e la macchina la mistica della radio la necessità del dovere e viceversa lo sciogliersi delle luce durante il tramonto la vorticosa dinamica del jazz la tossicità del nuovo l’archetipo epico del sangue il perpetuo fluire dei sensi le labbra di corallo di alcune ragazze l’energico fervore di quelli che fanno girare il mondo il sordo ribollio del dolore amoroso le prove incerte del principiante la massiccia e rassicurante presenza dei libri la seducente musica indiana il roccioso piano blues suonato fortemente il mito frenetico di New York il sottostimare la vertigine della Modernità la speranza che si cova nel petto il titanismo solare di Philippe Petit la decostruzione delle rovine la voragine del capitale e del lavoro l’ipnotica vista sul cosmo l’arena dell’amore come un massacro la tragica scuola della vita il ritmo, il battere e levare, il controtempo e la sincope l’anima bibliomaniacale e sediziosa di G. la tentazione costante della fuga lo strisciante sospetto del fallire il lustro sempreverde dello Spirito la ricorrente amarezza nel risveglio la luce dimessa del Nord Europa i frammenti di musica che portano sempre una lacrima al tuo occhio


l’identità tra Roma e il Potere il riutilizzo degli elementi il culto della sensibilità la brama del sesso la nozione che nessuno mi restituirà mai il tempo perso l’inquinamento e la violenza che il linguaggio fa a se stesso la fondamentale importanza di non prendersi mai troppo sul serio la comunicazione tra noi soltanto nei limiti delle convenzioni la solitudine che cresce con gli anni la chiusura e staticità del clientelismo la perversione delle abitudini costanti il rischio insito nel non fare la saggezza dell’ironia, suprattutto se anglosassone il guardare il collo delle ragazze l’esprimere giudizi per poi pentirsene l’indifferenza davanti alla banalità di Sole e Luna il lusso sfrenato degli Abbasidi e il loro chiedersi non tanto “perché?” quanto “perché no?” la sospetta tensione apologetica che il pensiero Postmoderno ha nei confronti di bulimia del consumo, plutocrazia, egoismo e iper-realtà la disperante assenza di disciplina nella gestione di se stessi l’ingrandirsi del dolore quando è consapevole della propria natura l’ellissi che compie l’Eterno Ritorno la correlazione speculare tra il tuo inconscio e materia oscura nello spazio il nostro presunto debito a Cristo e quello che si nasconde nell’ombra e c’è sempre dell’altro... ------“It hits me”: the night before it happened and it came from the back of beyond. “can you take it?” “this is you, lover...” drifting with caution, winter burns of perennial freight: to be born in the purple, so to speak. _Thomas Bugno


_Isoterismo sufi_Francesca Avena


_Ipnotismo musulmano_Francesca Avena


_Cecilia Matteoli



_Cecilia Matteoli


_Thomas Bugno



_Cuordt_ Cecilia Matteoli _ Emanuela Marchetti


_Maicol & Mirco


_a cura di Archivio Caltari


L’ALIENAZIONE La mia mano non mi appartiene più. È extracorporea, extraterrestre. Con sottofondo di milonga si estrania da me. Questa mattina, verso le sei, mi sono svegliato in preda a un crampo, il mio avambraccio era ancora addormentato. Ma il resto di me era già sveglio. Ho subito cercato di ricordare l’oggetto del mio sogno per giustificare quella improvvisa e incomprensibile estromissione: ricordo che nel sogno ero avvolto in un tessuto freddo (una camicia di lana di vetro) nel mio ufficio governato dal lancinante, assordante basso sibilo del PC. Tutto il mio lavoro era dover fare copia e incolla su un documento. Ero da solo e la mia convinzione confortata dalla luna del mio desktop. Il satellite era grande e periferico, tanto da risultare perfetto, sbilenco nella sua circolarità, assoluto. Nel sogno sono certo di essere sempre rimasto vigile. Conscio dell’irreale quanto del vero, mentre tentavo di liberarmi dal giogo, intuivo che il lenzuolo si era avvolto intorno al braccio come un sudario constrictor, dandomi l’illusione di essere prigioniero. Ma di che cosa? Della camicia. Mai colletto fu più rigido nella vita di un impiegato. Sentivo nel dormiveglia la mia mano morire, allontanarsi dal centro della mia consapevolezza, quella che la scienza medica definisce propriocezione. Il braccio ha smesso di appartenermi. Freddo, cianotico, rigido come un pezzo di cera dura, lontano da fare rabbia, pesantissimo, insostenibile. Poi mi son svegliato deciso a scongiurare l’intollerabile. Dovevo riprendermelo. Tutta la forza esercitata dell’altro braccio, quello mio, quello buono, non bastava a sollevare quello dormiente, come noi a pretendere di staccarci dalla terra montando su noi stessi. Ma come si fa? È un proposito destinato alla frustrazione. È stata lotta vera durata fino allo sfinimento. Poi come per un’ispirazione ho alzato lo sguardo. Il satellite di luce era lì, ammiccava al corpo estraneo, il mio exbraccio destro. E lo ha acceso. Lo ha fatto splendido più di prima ma definitivamente morto, e lontano. Ho poggiato i piedi sul pavimento tiepido. Mi sono alzato, staccato, me ne sono emotivamente disfatto. E l’ho visto abbandonato sul lenzuolo, abbagliante sotto la luce, quasi funebre nella sua nerità di carne dissanguata. Piccole bocche come i crateri di venere, la dissoluzione della carne, il suo sperdersi, il rimaneggiarsi. Braccio satellitare, creatura di polvere, figlio dello spazio extraterrestre, testimonianza di non vita, corpo lontano da casa. Come E.T. Il PC era acceso in camera. Mi sono seduto sulla sponda del letto. Osservavo le dita scure, le unghie violacee, e un lieve enfiarsi della carne. Sono rimasto a guardare quel pezzo di carne senza vita, come i bambini guardano i morti durante la veglia funebre, sperando fanciullescamente di poter annunciare ai parenti che si sono sbagliati, che nonno è vivo, un battito traditore di ciglia, prima che gli mettano quell’osceno coperchio, il sipario metallico su un proscenio di ruggine. _Eros Tumbarello


Eppure l’assurdo bambino che vive dentro di me ha visto “il nonno” muoversi. Un leggero movimento, un impercettibile slegarsi di dita. L’arto ha preso a spostarsi, a trascinarsi sul lenzuolo, spingendosi con le dita, poi indicandomi il satellite con l’indice della nostalgia. L’arto è rimasto indeciso, forse in attesa di un mio cenno. Ma cosa potevo fare io se non assentire? Come dire di aver capito? Il linguaggio delle mani non è lo stesso degli occhi o delle lingue che sbattono sul palato. Le mani parlano alle mani con gesti di cinema. Le dita cercano segni di dita. L’indice chiama pollice, il mio, alzato all’americana. Come non aspettasse altro, l’arto si è alzato e con il pollice ha premuto tasto Control e con l’indice tasto V, sostenuto a mezz’aria dal vento notturno che accarezza con note di tango questa notte inconciliabile. E volando va a congiungersi al plenilunio del mio desktop.

_Illustrazione di Silvia Santirosi


Una persona che conosco ha fatto una cosa strana. Dopo essersi procurato tanti piccoli cuori vivi della grandezza di un lampone, li ha collegati al sistema circolatorio in vari punti del proprio corpo. E poi li ha fatti pulsare. Questo perché, mi ha spiegato, i dottori avevano scoperto che nel petto, non si sa per quale regola caotica della distribuzione delle imprevedibilità della natura, aveva un cuore di gomma rossa, lucida e tonda. Che sì, palpitava, ma solo per rispondere a impulsi naïf. Così mi ha raccontato. . . ( )( )( )

Oggi a pranzo eravamo io, l’Oroscopo, lo Stomaco, il Dono della parola e i Piedi di piombo. Dovevamo metterci d’accordo per la serata. . . [ ][ ][ ]

_Conrad _illustrazioni di Valeria Carrieri


_ Valeria Carrieri


La mano del diavolo Ho cominciato a disegnare con la sinistra. Erano solo scarabocchi, grosse teste rotonde con gli occhi fuori delle orbite, corpi geometrici come forme di legno impilate senza incastri. Con la sinistra giravo la matita veloce sul foglio a tracciare spirali, coloravo uscendo dai contorni sostenendo che, contorni, non ne avevo, non righe nere intorno alle mani o alla testa, non righe spesse intorno alla casa o al cane. Ero seduta davanti all’esagono celeste per i bambini dalla “pi” alla “esse”, classe milleenovecentosettantotto. Volevo fare un ritratto del mio cane triangolare, le orecchie tese verso l’alto come antenne, il muso lungo e brizzolato. Ho sentito nel naso la naftalina della suora, ho visto la sua ombra allungarsi sul foglio. Con le dita lunghe ha preso un pennarello di quelli grossi che servono a fare meno fatica, mi ha colpita sulle nocche. Ho lasciato cadere la matita voltandomi temendo di affondare nel grembiule. Stai usando la mano sbagliata, mi ha detto. Mettila dietro la schiena, ha aggiunto. Mettila da sola o te la metto io, mi ha intimato. Con la mano incastrata tra la sedia e la colonna vertebrale mi chiedevo come fare a disegnare. Continua, mi ha detto. Ho alzato la spalla per sciogliere l’incastro e lei mi ha appoggiato la mano sull’osso, aperta, ferma. Con l’altra, ha aggiunto. Ho preso la matita con la destra e non riuscivo a impugnarla se non avvolgendomi intorno e la mina correva sul foglio senza che riuscissi a controllarla. Non va bene, hai sprecato della carta. Chiedi scusa, mi ha intimato. Ho chiesto scusa e lei si è appoggiata più forte e più stretta e mi ha detto di alzare la voce, scusa, ho ripetuto, ancora, scusa, a dio, scusa dio, e adesso riprova. Ho premuto la matita sul foglio, la mina ha iniziato a sbriciolarsi come cenere. Cosa stavi disegnando? Mi ha chiesto. Il mio cane. Continua, mi ha detto, senza allentare la presa. Non riuscivo a riunire il muso alle orecchie, non riuscivo a tirare una riga diritta senza arrivare al celeste del tavolino. Per chi è il disegno? Mi ha chiesto. Per la mamma. E tu vorresti regalare una schifezza così alla mamma? Mi ha detto. Vedevo tutto annebbiato. Il foglio si è bagnato e la carta è diventata grigia e molle. La suora mi ha pinzato ancora più forte le dita al grembiule alla spalla alla carne. Mi ha sollevata come i pescatori fanno con i pesci, solo che io ero il verme. Sapevo cosa fare.


Mi sono messa in ginocchio nell’angolo, e sentivo che gli altri bambini chiedevano, perché? La sinistra è la mano del diavolo, ha detto, e tutti mi arrampicavano la schiena con gli occhi per cercarne le tracce, qualcosa di rosso, qualcosa di duro, qualcosa di appuntito. Tra le mie lenzuola solo i pirati e io dalla testa ai piedi, fin sopra i capelli, nessuno mi deve potere toccare per sbaglio o per voglia se dormo, da sveglia o nel sogno. Il diavolo stava dentro al muro, aleggiava come una diapositiva proiettata trafiggendomi di luce. Il braccio era scoperto e lui l’ha preso, l’ha tirato, vieni, vieni dentro al muro, mi stringeva molto forte, mi scaldava con il fuoco nell’astuto tentativo di portarmi a rinunciare a un altro pezzo di coperta. All’intervallo ho schiacciato le formiche. Gianluca mi ha chiesto, cosa fai? Le sto addormentando. Posso aiutarti? Certo. Corro intorno a mia madre che sta preparando la cena. Stai seduta, fai la brava, mi dice. Posso aiutarti? Le chiedo, prendo un coltello. Lascia stare, non hai niente da fare? Mi chiede. No. E allora fammi un disegno, mi dice, si asciuga le mani nel grembiule e strappa un foglio, me lo porge. Posso scriverti invece una poesia? Ascolto la mezzaluna segare i sedani sul tagliere di legno. Stasera si mangia il minestrone.

Chiara Reali


AELITA, REGINA DI MARTE «Anta... Adeli... Uta... », è il 4 dicembre del 1921 e le radio intercettano un messaggio incomprensibile. Anche l’ingegnere M.S. Los’, che sogna da sempre di abbandonare la Terra, ode quelle parole da un centro radio sovietico e questo lo fomenta a terminare la costruzione della sua navicella spaziale a forma di pallone. Il messaggio proviene da Marte, dove la regina Aelita con un telescopio gigante getta occhiate furtive alla Terra per osservare la vita degli umani, le loro relazioni. Dalla Torre dell’Energia Radiante vede le corazzate di marina, le carovane nei deserti, il traffico di Times Square e si innamora di Los’. Intanto l’ingegnere e il suo amico Gusev, un ex soldato ormai senza lavoro, partono per la traversata spaziale. Così, con le visioni di questo racconto, Aleksej Nikolaevic Tolstoj, lontano parente del più celebre Lev, inaugura la tradizione fantascientifica dell’Unione Sovietica, prima con Aelita (1922) e poi con L’iperboloide dell’ingegnere Garin (1925), suggestionando la popolazione russa al punto che molte bimbe nate in quegli anni, presero il nome della regina di Marte. Poco più tardi, il regista Jakov Protazanov, contando su un sicuro successo, manipolò il romanzo traendone un film. L’intento di Aelita, prima libro e poi film, era ovviamente propagandistico e nelle scene marziane il film dispiega in pieno il suo messaggio. Mentre Aelita si fa insegnare da Los’ il significato di un bacio, Gusev esporta la Rivoluzione d’Ottobre sul pianeta rosso, incitando i suoi abitanti, ormai ridotti a robot da un regime tirannico, a ribellarsi: «Compagni, contate solamente su voi stessi... Riunitevi in una Unione Marziana dei lavoratori con le Repubbliche Sovietiche Socialiste». Profetiche le scene in cui i lavoratori vengono costretti in frigorifero quando di loro non c’è necessità: anticipazione delle desolanti conseguenze del lavoro interinale. Non si tratta della vita su Marte, naturalmente, ma della vita in Russia. Nelle scene terrestri l’atmosfera è di un realismo estremo ed è protagonista la periferia di Mosca durante la Nuova Politica Economica post-rivoluzionaria. Si racconta anche dell’evasione erotica in un momento in cui si sperimentavano la natura e il significato delle relazioni interpersonali. Gli splendidi costumi in stile cubista e futurista delle scene marziane, invece, vennero realizzati dagli allievi del Teatro Kamerny, ovvero dall’avanguardia costruttivista, come i pungiglioni riflettenti del cappello di Aelita e la spirale di quello della sua ancella, i vestiti di tubi plastici di Gor, custode dell’Energia del pianeta, e gli abiti delle sentinelle, rese uguali a robot. E gli scenari, le porte che si aprono come diaframma di macchina fotografica, le colonne che si incurvano a mo’ di costole di una cassa toracica, avrebbero ispirato di lì a poco il Fritz Lang di Metropolis. Tuttavia l’impiego di artisti d’avanguardia, troppo lontani dalla classe laboriosa, fu giudicata un affronto dai conservatori e il film fu ritirato dalla circolazione. Nella versione integrale il film aveva una durata di due ore, oggi è reperibile la versione ridotta a settanta minuti. _Giusi Palomba


_Antonio Caruso _illustrazione di Marta Muschiata


TORNO SUBITO In bici per le strade del quartiere, stavo cercando rifugio nei versi di Massimo Ferretti, e volevo ritrovarci anche una sommossa femmina, vacillando tra furore e timidezza. Non è cambiata la natura della mia fuga, è sempre una tensione, delinquente e irragionevole. Quella volta era ottobre, mi perdevo tra milioni di appunti alle parole di un altro, al solito trascurando le mie; addosso un affanno tendente all’horror vacui, ma a tenere la schiena dritta erano precise intenzioni: volevo un cantuccio isolato, un pergolato, scomparire in un angolo remoto; appresso avevo fogli, sigarette e poche spiegazioni. Le ruote rallentarono pure nel cuore del Pigneto, ma i tavoli all’aperto erano pornografia, il disgusto trasudato mi guidò senz’appello fino a qualche traversa più in giù. Mi andai a scegliere una sedia traballante dal laziale infame, e un piatto di pasta in cui il bello è non trovarci niente di speciale. Da bere un eretico bianco della casa. Il cameriere coi denti storti mi disturbò spesso, chiedendomi che cosa stai studiando. Non studio, correggo bozze, ma non importa. (Come dirlo: sono scappata, mi sono assentata, ho accannato tutto. Mi sono rifiutata. Cosa ti è intollerabile? I doveri/gabbia, il disco orario, l’aridità negli sguardi dei potenti, mi sottraggo al compromesso con forza centrifuga, alla ricerca dell’estremo opposto. Rifiutare è il bisogno di andare aldilà dell’intollerabile. Se il rifiuto è una reazione, la mia è un precipitato: per una questione di ecologia, lascio disponibile di me solo una traccia sintetica che basti per tutto. Un segnale, un indizio facile, un cristallo di senso. Per il resto, non fatemi inventare troppe scuse. Non chiamatemi al cellulare. Torno subito.) Agli altri tavoli gente che aspettava di incantarmi, di guarirmi come sempre. Un assortimento umano che assicurava amarezza, vitalità, disperazione e grazia in una volta sola, meraviglioso colpo d’occhio dalla prospettiva di un anonimato da tarda mattinata. E ritrovai tutto e me stessa, nel tepore dei versi di Ferretti. In questa trattoria di gente stanca Dove mangiare significa reagire, dove la grazia di una dattilografa si percepisce nel tono delicato d’un piatto di fagioli chiesto tiepido, dove un viaggiatore analfabeta emancipato per via dello stipendio spiega a una turista anacoreta che il rialzo dei biglietti ferroviari dipende tutto da questioni atlantiche non ho ragione d’essere contento se il cameriere lieto della mancia, leggendo la commedia del mio viso m’ha detto che ho una maschera da negro?

_Giusi Palomba_ Illustrazione di Davide Bignami


Foglio letterario a vocazione metropolitana, Laspro «si nutre di suole consumate e copertoni usurati, vibra solo se in movimento», come dice Cristian Giodice in una intervista offerta proprio all’Archivio Caltari. Scorci di vita, dialoghi urbani a ritmo blues, incorniciati dalle illustrazioni di Nicola Ritiroti, raccontano le strade, il tempo, le relazioni, in costante confronto col lettore, che ad ogni numero è chiamato a mettersi in gioco con “L’aspro cimento”.

Impugnate pennarelli, acquerelli e makeup, lettori e lettrici riottose genderqueer! Girls are not chicks e Girls Will Be Boys Will Be Girls Will Be... sono libercoli da colorare, disegnati così male che un bimbo te li tirerebbe dietro, abituato com’è ai fantasmagorici cartoni d’oggidì. Pregiudizi e confini di genere sarebbero gli obiettivi da abbattere a colpi di pervinca, magenta e terra di siena, l’importante è uscire da qualsiasi tipo di bordo. a cura di Caltari _illustrazione centrale di Ioana Anagnos


_Cecilia Matteoli



_Cecilia Matteoli


_Thomas Bugno


_Silvia Pellegrini


_Thomas Bugno


_Moez


_Thomas Bugno



_Cecilia Matteoli


_Cecilia Matteoli


_Emanuela Marchetti Questo volume è stato stampato presso la tipografia 5M, Roma. Maggio 2010 Š ßberbitte all rights reserved


3â‚Ź

Primavera / Estate 2010


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