UDUVICIO ATANAGI
LA BAMBINA CADAVERE
La bambina cadavere – Uduvicio Atanagi
Pubblicato nell’antologia Strane Visioni 2, Edizioni Hypnos, 2019
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Certe volte mio padre si alzava dalla sedia con la faccia cambiata, si faceva serio, stringeva i denti fino quasi a spezzarseli. In quel momento la stanza diventava più nera, la gola mi gonfiava così tanto che l’aria non ci passava più, cominciavo a fischiare. Mentre si alzava, si udiva il rumore della sedia che graffiava per terra e sembrava che urlasse, mia madre sbiancava e poi indietreggiava verso il lavandino cercando un oggetto tipo un mestolo oppure un coltello. Mio padre era grosso e aveva le mani grossissime. Quando afferrava mia madre per la gola, la alzava da terra, io rimanevo immobile, facevo il suono di un’aragosta bollita viva, ma provavo a sopprimerlo per non farmi sentire. La guardavo e lei mi guardava, la faccia le diventava ogni secondo più rossa. Poco dopo mi nascondevo sotto al tavolino e allora vedevo i piedi di mio padre con le scarpe laccate. Accanto vedevo il piede di mia mamma con il calzino giallo che ciondolava a qualche centimetro dal pavimento, una ciabatta era in terra, l’altra rimaneva sospesa, sembrava sempre che sul punto di cadere ma in qualche modo rimaneva lì in bilico a penzolarle giù dalle dita. Delle volte mia mamma diventava così rossa che sembrava esplodesse e la faccia cambiava tutta, gli occhi si gonfiavano fino quasi a scoppiare come in quei film di fantasmi, e io lo sapevo che voleva piangere ma non ci riusciva perché le lacrime non le passavano dai tubicini degli occhi. Falla almeno piangere, volevo dire, stringila meno, babbo, ha il collo nero! Però non dicevo niente, anche io avevo problemi di buchi e passaggi, a quel punto non fischiavo nemmeno più, diventavo bianco, aspettavo.
Quando mio padre la metteva a terra, quando lei cominciava a tossire e a sbavare allora uscivo fuori di corsa. L’aria era sempre freddissima, anche se era estate, e poi intorno era sempre buio anche se era sera o mattina. Tornavo a respirare, prima gracchiando, poi la gola ricominciava a funzionare normale. Allora guardavo le stelle, oppure ascoltavo gli insetti che facevano le loro cose per terra. Mi piaceva toccare la terra e sentirla bagnata sotto, mi piaceva perché fuori era secca e dentro era bagnata e io lo sapevo che se scavavi un po’ ci trovavi anche l’acqua e anche i vermi, e che se era la fine del mondo la potevi anche bere, e i vermi li potevi mangiare. Un giorno, dopo la mia fase aragosta, dopo la fuga e le stelle sentii uno psssst provenire dal bosco. Pensai che fosse un animale o che magari l’avevo sentito solo io, era tipo una cosa che fanno le orecchie quando non respiri per tanto. Poi sentii ancora psssssssst e poi sentii pssss pssss. Dentro mia madre urlava e mio padre piangeva, oppure piangevano tutti e due. Fu quella la notte che conobbi la bambina cadavere.
La trovai sotterrata a metà dietro a un cespuglio, all’inizio si vedeva male e pensai che fosse un sacchetto della spazzatura o la carcassa di un cervo, però nel buio si intravedeva un pallore e quel pallore prendeva la forma delle sue gambe, il suo volto bello bianchissimo, i capelli neri simili alle alghe del mare. Vieni qua, mi disse, tirami fuori. Io avevo paura ma ero anche eccitato, nell’aria c’era odore di marcio, un odore terribile che si appiccicava alle narici come le caccole, che poi ti restava addosso e lo sentivi ogni volta che ci annusavi le mani. Mi avvicinai come un gatto che caccia, mi misi a scavare e piano piano la tirai fuori.
Dovevo stare attento perché in dei punti era morbidissima e se la stringevi ti ci entravano dentro le dita, avevo paura di farle male. La bambina cadavere era morta da almeno una settimana o anche di più, però per qualche motivo non era mortissima perché parlava, e era anche bella. Cioè bella come può essere una bambina morta, però io quando la guardavo sentivo il cuore che batteva più forte e nella pancia tutto un casino che non avevo mai sentito prima, sentivo l’elettricità, ecco, quella cosa lì che io la chiamo elettricità. Cosa ci fai qui? Le domandai incuriosito. Mi hanno ammazzato, mi disse lei, e fece un broncio, me lo ricordo perché aveva le labbra gonfie, carnose che in dei punti erano rotte ma erano belle lo stesso. La notte che la conobbi la aiutai a tirarsi su, si muoveva anche da sola ma piano, mi disse che quando c’era qualcuno strisciava sotto le foglie, mi disse anche che non si ricordava bene le cose, forse il cervello era rotto e poi era convinta che dentro ci fossero i vermi. Il problema più grande era l’odore, puzzava tanto da far vomitare, però io le stavo vicino lo stesso perché non volevo che lo capisse. Quella sera parlammo di un sacco di cose, parlammo dei mostri e del bosco, parlammo del buio e lei mi disse che non le faceva più paura come quando era viva. Cioè, mi faceva paura, disse, specialmente quando sono morta. Sono stata dei giorni nel buio terrorizzata da ogni rumore, dalle zampette degli animali che mi giravano intorno. Poi non ero sicura di essere morta, perché mi ricordo poco, so che mi hanno fatto male, mi hanno toccata da tutte le parti, anche dentro, so che mi bruciava fortissimo e poi ho sentito male alla gola, poi nulla.
Comunque, a forza di stare nel buio mi sono accorta che non succede niente, per quanto tu abbia paura, poi quello che ti immagini non arriva, rimane solo quel vuoto, quel nulla, e alla fine diventa normale… Forse ci sto quasi meglio, disse poi. Perché di giorno mi bruciano gli occhi e mi sembra che il caldo mi squarti la pelle. Mi disse che casa sua le mancava, però non ci voleva tornare. Mi disse che non capiva perché era così, non gliene fregava nemmeno più di ciò che le avevano fatto, anche se delle volte se l’era sognato, o si svegliava di soprassalto e per un attimo urlava. Parlammo per un’ora, forse per due, poi mi accorsi che era tardissimo, dovevo andare a casa o i miei genitori si sarebbero arrabbiati. Prima di andare esitai, le dissi che sarei tornato, glielo giurai. Lei mi guardò con gli occhi scuri che luccicavano dentro al buio. La salutai con la mano, quando raggiunsi il giardino mi sentii disperato e cattivo. La immaginai lì da sola, in mezzo all’oscurità col bosco crudele che fa i rumori del bosco, gli animali che cacciano, lo scricchiolio delle foglie. Quella notte non riuscii a dormire, mi svegliai di continuo, quando poi mi addormentai feci dei sogni terribili dove tutto era morto e in tutto l’universo rimanevo solo io che piangevo.
Quando babbo strangolava mamma a lei le rimanevano sempre dei segni sul collo, sembrava che avesse tipo una malattia e io delle volte rimanevo a guardare quei segni, poi mi guardavo le mani e mi immaginavo di avere le mani di babbo. La cosa positiva è che mamma aveva tanti foulard, li indossava prima di uscire e la rendevano ancora più bella. Ne aveva decine, forse cento, ne comprava di nuovi ogni mese. Erano lucenti e profumati, ce n’erano alcuni
coloratissimi, altri coperti di fiori, altri ancora con delle ancorine oppure con dei disegni di cose del mare. Il giorno dopo il mio incontro con la bambina cadavere, Mamma mi portò in giro con lei per negozi. Mi disse che ero distratto, mi disse di stare tranquillo e che quelle cose non sarebbero successe mai più. Io sbuffai, me lo diceva sempre e poi succedevano sempre, perché le cose cattive quando iniziano poi non finiscono mai. Andammo insieme al supermercato e mentre mamma pagava nascosi nel piumino una di quelle mascherine che si mettono contro lo smog. Quella sera i miei genitori non litigarono, appena venne buio dissi che andavo a giocare in giardino, loro annuirono davanti alla televisione che gli colorava la faccia di blu, li guardai un attimo prima di uscire, stavano seduti distanti, con la testa fissa verso lo schermo, erano rigidi come se i muscoli fossero sempre contratti, mi chiesi se davvero fossero vivi, se non fossero morti anche loro.
Grazie alla mascherina l’odore della bambina cadavere diventava più sopportabile, avevo preso anche una borsa dell’acqua calda perché mi era venuto in mente che poteva aver freddo. Quando mi vide le si accesero gli occhi, poi però ritornarono tristi. Le chiesi se stava bene e lei mi disse che non lo sapeva. Provai a metterle addosso la borsa ma la sua pelle fece un rumore strano e dei pezzettini caddero a terra. Rispetto alla sera prima la bambina cadavere sembrava deperita, e allora ci domandammo se magari doveva mangiare. Tornai in casa per prendere delle merendine che avevo in cucina, poi gliele detti. Non riusciva a masticare bene, disse che quando le mordeva era come
mangiare la sabbia, abbandonammo così l’esperimento del cibo e le merendine le mangiai io, mamma voleva che dimagrissi ma secondo me non ero tanto grasso, e anche la bambina cadavere disse che due merendine non potevano farmi niente di male. La conoscevo da poco ma per me era già la cosa più importante del mondo, e mentre mi innamoravo di lei mentre l’elettricità mi elettrificava la pancia, allora mi venne in mente che magari stava morendo, che sarebbe scomparsa, perché del resto era morta e magari poteva proprio morire del tutto. Sentii un dolore allo stomaco e penso che lei se ne accorse, perché mi sfiorò la mano e mi disse, che cosa succede? Niente, dissi io e provai a farle un sorriso. Aveva le mani ghiacciate, tipo la neve, il freddo mi restò sulla mano per tutta la notte. Sdraiato nel letto me la poggiai sulle guance per sentire quel gelo che era il suo gelo, anche l’odore che aveva diventò bello perché era suo. Mi addormentai che battevo i denti, l’inverno mi scivolava dentro, quando toccava il cuore però si trasformava in calore. Più tardi sentii mio babbo alzarsi, poi urlare, lo sentii giù che colpiva il muro e piangeva. Forse si era spaccato di nuovo le mani, succedeva ogni tanto e il giorno dopo senza dire niente arrivava con le nocche gonfie o con le dita fasciate. Io comunque avevo perso il sonno, rimasi un po’ con gli occhi a cercare le forme nel buio, il poster di Dracula mi sembrava si muovesse, facesse le smorfie, pensai che il giorno dopo dovevo toglierlo, poi non lo tolsi mai. Invece mi alzai e mi affacciai alla finestra, intravidi qualcosa… era lei. Se ne stava in piedi, la sua bianchezza che sfumava nel buio, si appoggiava a un albero per reggersi in piedi, i capelli neri si muovevano nel vento leggero.
Sembrava che aspettasse qualcosa, forse era venuta a cercarmi? No, era qualcosa d’altro ciò che voleva, qualcosa che io non potevo capire. Mi chiesi che cosa pensava, mi resi conto di quanto fosse sola, di quanto fosse perduta, capii che era anche più sola di me, desiderai vederla felice, desiderai non perderla mai.
Decisi che la bambina cadavere doveva annoiarsi, tutto quel tempo nel bosco senza niente da fare doveva essere di una noia mortale. La sera dopo mi organizzai e le portai un sacco di giornalini che avevo e le lasciai anche il Game Boy. Le dissi di stare attenta a non romperlo, lei annuì. Era gentile, anche se delle volte più che gentile sembrava che non fosse nemmeno lì, che ci fosse una cosa tra lei e il mondo e che lei provasse a parlare attraverso questa cosa che le annebbiava la vista, mutava le forme. Le lessi le storie dei giornalini di mostri, e poi ci raccontammo delle altre storie inventate da noi. Quella notte era più felice, rideva, a un certo punto si alzò e si mise a fare finta di essere uno zombie che mi voleva mangiare. Io risi tanto che mi venne il dolore alla milza e le fitte alla pancia. Poi però lei smise di colpo, sembrò stanca, la gamba, disse, mi fa male la gamba. Si stese a terra e io mi avvicinai piano. Posso? Le domandai, lei annuì seria. Avvicinai il viso alla coscia di un lucore spettrale, e non riuscivo a non guardare in mezzo alle gambe. Portava solo le mutandine ingiallite di terra, e io intravedevo qualcosa, quella cosa che non avevo mai visto ma che sapevo che avevano tutte le donne. Diventai rosso, poi però questa elettricità nuova si trasformò di colpo in un fulmine nero, mi si arrampicò per la gola.
Le gambe si muovevano da sole, palpitavano dall’interno. Ci poggiai il dito e sentii morbidissimo, poi bagnato. Ero dentro di lei, l’indice aveva bucato la carne e sotto la carne una infinità di cose più piccole si agitavano cieche, vogliose. Vermi, dissi. La bambina si mise una mano sopra la bocca. Capimmo che aveva iniziato a marcire. Passammo il resto della notte a togliere i vermi, le affondavo le dita nella coscia, e poi afferravo le larve per la testina o per il corpo o per quello che é. Quando le stringi scopri che invece che morbide sono dure, sotto le dita ti fanno il solletico. Mi venne anche da ridere, la guardai e lei mi fece un sorriso perché era buffo anche per lei, perché secondo me il solletico a lei glielo stavo facendo io. Poi la sua espressione mutò, la gioia durò poco, era triste, confusa. Anche se l’avevo davanti, anche se la mia mano era dentro di lei mi sembrò che fosse lontana, in un posto dove io correvo, correvo ma non potevo raggiungerla mai.
Passai dei giorni alla biblioteca di scuola a studiare come prevenire i vermi, provammo col sale e le gambe le diventarono rigide, ma i vermi sembravano meno. La bambina diceva che li sentiva dentro, anche vicino al cuore, io mi immaginai il suo cuore nero tumido e marcio, fu quella sera che all’improvviso la abbracciai, le scoppiai a piangere addosso. Non te ne andare, le dissi. Ti prego non mi lasciare. Lei non rispose, poggiò a fatica la mano sulla mia schiena, era così fredda che la sentivo anche attraverso la maglia. Chiusi gli occhi, mi buttai col viso contro la spalla di lei, tutto divenne prima del colore della carne, poi del colore del buio.
Mentre mi accarezzava i capelli immaginai i suoi occhi che fissavano l’oscurità, le luci di casa mia che si riflettevano nel nero delle pupille.
Dopo quella notte le nostre conversazioni si fecero più rare, più che altro stavamo in silenzio e io lo vedevo che la bambina morta mi nascondeva qualcosa. Sembrava sempre stanca, disse che aveva cominciato a mangiare la terra, che la faceva sentire meglio, disse che era come se la terra la stesse chiamando, e che la notte certe volte sentiva le voci, voci che non poteva spiegare, alcune luminose altre buie, e poi come una musica, una melodia incessante che saliva dal mondo e anche da un’altra parte che però non le riusciva spiegare. Mi arrabbiai, poi mi riempii di tristezza. Volevo azzittire quelle voci lì e prendere a calci la musica, volevo che restasse con me, qui, che non mi lasciasse mai. Mi ritrovai a stringere i pugni, a guardare le ombre che formavano un'altra tonalità di buio nel buio, alle mie spalle sentivo le grida che arrivavano da casa mia, mio padre che sbatteva la porta dell’auto e poi accelerava veloce, mia madre che urlava e poi silenzio, e dopo il silenzio i singhiozzi. La notte dopo ritornai e la bambina non ebbe alcuna reazione. Lentamente mi avvicinai, non mi aveva sentito e sembrava che non mi vedesse, aveva gli occhi girigogoli, privi di luce. Le passai una mano davanti, poi ancora. No, mi disse lei. Non ci vedo più niente.
Babbo, dissi in macchina mentre mio padre mi portava a scuola. Dove vanno le persone quando muoiono? Lui mi guardò, aveva gli occhi rossi e sotto dei solchi viola. Nella luce del mattino lo vidi come non lo avevo mai visto, lo vidi vecchissimo, ma non come se fossero passati degli anni. Come fosse passato qualcos’altro, qualcosa che ti consuma molto più forte del tempo. In cielo, disse lui dopo un lungo respiro. Ma tu come fai a saperlo? Domandai. Lui mi guardò di nuovo con un’espressione che era vuota ma era come se il vuoto provasse a nascondere una tristezza e poi un dubbio, un interrogativo che nemmeno lui riusciva a sbrogliare. Lo vidi ritrarsi, ingrigire, capii che non sapeva che cosa dire. Erano tutte bugie, era come Babbo Natale che io ci avevo creduto per anni e invece non esisteva. Ma tutte le persone muoiono? Chiesi ancora. Purtroppo sì, disse lui. Ma non devi avere paura. Ma tutte tutte? Sì, disse. Credo di sì. Cosa ti è venuto in mente? Mi domandò poi. Hai paura, cioè che io… che con tua madre… Questa volta fui io ad azzittirmi. Perché picchi mamma? Domandai. Non so bene se lo dissi e con cosa lo dissi ma in qualche modo le parole risuonarono dentro l’auto, anzi diventarono l’unico suono, una cosa di metallo che vibra da tutte le parti.
Improvvisamente tutto divenne più forte, amplificato da un altoparlante invisibile, il vento, la strada, i nostri respiri. Babbo non disse niente, mi guardò, sorrise, poi fece un broncio. Rispose tipo con i polmoni e con lo stomaco, con le ossa e la carne. Quando scesi dall’auto lo guardai ancora in faccia, provò di nuovo a sorridere ma gli venne fuori una smorfia, si morse le labbra, gli occhi sembrarono più vivi perché luccicavano, una goccia accelerò per la guancia, si fermò a ciondolare dal mento senza cadere, me la immaginai sulla lingua, mi immaginai il sapore salato, un po’ amaro.
Quella sera arrivai al cespuglio con le merendine e un gioco di guerra da tavolo, il gioco cadde a terra e i dadi non li ritrovai più, persi anche il maggiore Killfish e la sua armata di uomini pesce, anche le merendine caddero, però quelle poi le raccolsi e più tardi le mangiai tutte fino a sentirmi male. La bambina era sparita. A me veniva da vomitare e la pancia mi si era incendiata. Iniziai a chiamarla, mi inoltrai nel boschetto ma era come essere sulla luna o in fondo al mare e ogni passo ci metteva due ore e il mondo si muoveva, danzava, ondeggiava e sapeva di vomito. La trovai che era sfinita. Si era trascinata via con le mani fino a nascondersi dietro a un gigantesco salice. Perché? Le domandai. Evitava il mio sguardo anche e non mi vedeva. Un liquido giallo le cominciò a colare dagli occhi. Stava piangendo.
Le corsi contro, la presi per mano, mi toccò cieca, mi accarezzò il viso, le dita si stavano disfacendo, le ossa mi grattavano leggermente e le sue lacrime puzzavano d’uovo. Provai a trattenere il respiro, alla fine mi risalì un conato ma ingollai l’acido e lo tenni dentro la bocca. Sentii bruciare, la faccia bagnata, capii che stavo piangendo anche io. Devi lasciarmi andare, disse. Io scossi la testa. Ti prego, non abbandonarmi, io… io… Mi cercò con la mano come toccasse una cosa invisibile, mi carezzò le labbra, le mie lacrime le bagnarono tutte le dita. Avvicinati, disse. Mi accucciai e lei mi prese dolcemente la testa, i vermi si agitavano vicino ai polsi, i tendini sbucavano dalla carne bluastra assieme al giallo del pus. Chiudi gli occhi, mi disse. Io non li chiusi. La vidi che si faceva sempre più vicina, il suo volto lunare che mi cresceva davanti, il suo alito gelido, l’odore dolciastro della putrefazione, le sue labbra gonfie e incrostate. Le poggiò dolcemente sopra le mie, tremando. Erano dure e scure, erano le labbra più belle del mondo. Mi riempii di calore, tutto, fino alla punta dei capelli. Pensai che il cuore mi sarebbe esploso o che sarei morto, una larva mi scivolò nella bocca, la lasciai entrare, rotolare, cadere. La bambina mi prese le mani, me le strinse ma non aveva più forza. Io… dissi parlandole dentro la pelle.
Shhhh, disse lei, shhhhhhhhhh. E restammo così con le labbra attaccate, i respiri che si mischiavano, il gelo che quando mi sfiorava diventava calore, mi sgocciolava come muco caldo sul cuore.
Il giorno dopo il mondo diventò grigio. Era grigio il cielo, l’aria, era grigio anche il sole che brillava ma anche se ti facevi toccare le mani dai raggi non lo sentivi, restava freddo, privo di vita. Aspettai la notte guardando di continuo l’orologio, provando a dormire perché il tempo passasse prima. Quando si fece buio tornai al cespuglio dove ci eravamo incontrati la prima volta. Mentre mi avvicinavo il sorriso mi si ruppe dentro la faccia, mi misi a correre. C’era un rumore strano, un rumore che non volevo sentire. C’ero io che correvo e qualcosa di appiccicoso e poi un respiro veloce. E poi c’era lo scricchiolio delle ossa, la carne sbranata. Un cane la stava divorando. La faccia di lei era stata portata via per metà, anche le labbra che avevo baciato. La gamba adesso mostrava il femore bianco ricoperto di giallo, i vermi si muovevano negli squarci vicino all’ombelico, le mutandine erano leggermente calate, si intravedeva qualcosa ma io scostai lo sguardo, non la volevo vedere. Urlai, il cane ringhiò, agitai il piede davanti a lui, provando a colpirlo, il cane si mise ad abbaiare, la bava gli colava dalla bocca, assieme al sangue, ai brandelli di lei. La bestia indietreggiò, poi afferrò la gamba della bambina cercando di trascinarla via.
Tremai, poi raccolsi una pietra, scattai in avanti e lo colpii sulla testa con tutta la forza che avevo. La bestia guaì, iniziò a girare su sé stessa, guaì ancora, poi cadde sul fianco muovendo le zampe ritmicamente, gli occhi spalancati e la lingua di fuori, vomitò qualcosa. Io caddi a terra, lo guardai che moriva. Mi sentii triste, non lo volevo ammazzare, mi guardai le mani e ci vidi il sangue del cane, mi toccai la faccia, sentii l’odore forte e ferroso, poi l’odore di lei. Mi rialzai a fatica con la testa che mi girava, mi avvicinai alla bambina, la sfiorai con le dita. Era morta. Non l’aveva sbranata il cane, era solo morta, prima di me, prima anche del cane. Se ne era andata davvero, per sempre, non l’avrei vista mai più. La accarezzai, la baciai, me la strinsi al petto come se potessi tenerla con me. Le dissi tutto ciò che avevo nascosto nel cuore, le chiusi gli occhi, poi la strinsi ancora, accarezzandole le guance e baciandola tutta come se la cullassi e lei stesse solo dormendo.
Quella notte la seppellii, seppellii anche il cane. Feci una croce con degli stecchi e la piantai nella terra, decisi che il giorno dopo le avrei portato dei fiori. Poi sentii chiamare, le voci erano vicine. I miei genitori dovevano essermi venuti a cercare. Insieme, pensai, sono venuti insieme. Guardai ancora la fossa dove dormiva la bambina cadavere, pensai ai suoi occhi grandi, alle labbra scure e bellissime. Tornerò, dissi. Tornerò ogni giorno, per sempre per tutta la vita e l’eternità.
Poi mi voltai, mi misi a correre, le voci che ad ogni istante si facevano piĂš vicine.
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