UnderTrenta. Intuizioni, sorprese, prospettive

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A cura di

Sara Guelmi Mauro Marcantoni

Intuizioni, sorprese, prospettive

Provincia Autonoma di Trento



Intuizioni, sorprese, prospettive


Coordinamento Claudia Seppi Redazione Giuseppe Marino, Claudia Seppi Presentazione Sezioni e Rubriche Giuseppe Marino Segreteria organizzativa Michela Boldrer Progetto grafico Sara Rossi © tsm - Trentino School of Management 2013 Il progetto UnderTrenta è stato realizzato su incarico dell’Ufficio Servizio Civile dell’Agenzia Provinciale per la famiglia, la natalità e le politiche giovanili.

ESPERIENZE SERVIZIO CIVILE


Indice Presentazioni PARTE PRIMA - UNDERTRENTA.IT Tracciato di un’avventura di Giuseppe Marino e Claudia Seppi Pag. 19 48 Autoritratti Il problema non sono loro di Sara Guelmi e Mauro Marcantoni Non più certezze Il futuro poggia sul presente Insieme giovani e adulti Fiducia Reciproche generazioni Un nuovo valore da vivere insieme di Ugo Rossi

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PARTE SECONDA - PENSIERI IN DIRETTA Attualità La generazione che non c’è Morbo giovanile Alla ricerca del punto perduto Generazione under 30 La Danimarca ci sorpassa in bici Esseri viventi che non sanno più vivere Multitasking: siamo uomini o robot? Smart City Exhibition 2013 Pompei, 1934 anni dopo La guerra, una questione di retorica

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La Concordia della discordia I pirati del XXI secolo Né domani né mai Silk Road: quando il pusher è online A microfoni spenti Il bacio che scuote il Marocco Incontri nei mezzi pubblici Italiani al 45° posto: relativamente felici L’informazione è una retta infinita A cinquant’anni dal Vajon Mostra del cinema e Festival Filosofia Quando il ridicolo fa notizia Uccidere con leggerezza Quando il freddo ci salva Dalla costa opposta Che tempi Maccarone m’hai provocato Di quale dei due ci vergogniamo? I figli di Dio nell’immondizia Morale e coscienza Venerdì 13: la sfiga globale Finalmente a Trento: i dinosauri Tu non sei un bozzetto La ricerca sulle famiglie inaffidabili Un panino al tonno che vale un posto di lavoro Dal sacrificio dei corpi al mercimonio delle identità Attualizziamo i giovani Una favola moderna Un Parlamento non parlante La ricerca della felicità Quel dipinto astratto coreano I colpi ciechi di un giorno cupo La vita scritta sulla pelle Per Agnese Borsellino Bandiere Blu: sorpresa Trentino Don Gallo: un comunista in paradiso Dove osano le idee 9 novembre ’89: Berlino e il suo Muro A spasso con Fido L’ignoranza della razza Difendiamo la Borsa (di studio) L’amore al tempo della crisi Con questi arabi si fuma in volo

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Titanic II Zanzare, le compagne di un’estate Una (nuova) Statua della Libertà Italieni abroad Trento: con il Muse riparte la cultura Il Muse per sentito dire Scienza in ogni dove: Muse Stessa spiaggia, stesso sprofondare 138 sì alla Palestina La metro più affascinante d’Europa Un flebile afrore d’incenso via etere Con l’acqua alla gola Spotted. Avvistato Fine della Revolución venezuelana? Un cinguettio celestiale Tremate, tremate, le feste son tornate E il panettone lievita Babbo Natale passerà in Grecia?

Cultura Pensare l’efficacia in Cina e in Occidente Sono un ragazzo che gioca a rugby Che cosa (non) è andato storto? Come spendere una giovinezza La vita che abbiamo paura di vivere Senza confini. Ebrei e Zingari Argento, Bronzo e Piombo Un esercito di giovani israeliani Il potere rivoluzionario della risata Ascoltando Stefano Benni Il bello dell’Utopia Evoluzione: un albero a tre rami Quel morso fatale L’isola che non c’è Compagni nello sport e nella vita (Non) lo potevo fare anch’io Storie di giustizia La foresta cinese di Jinji Il coming out degli eroi La Pittura del Disagio L’ozio come stile di vita Gli indigeni e la forza del disegno

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Letteratura di (Mala)parte Diventa un’opera d’arte Gran Premio Nuvolari 2013: ritorno al passato Mars e la demenza senile Pacific rim E così vorresti fare lo scrittore Sfidare gli Dei Sherlock Holmes Tina Modotti. Il fiore della rivoluzione. Renato Cesarini. Il neologismo Non ci resta che fuggire in Egitto Niccolò Fabi: Ecco il regalo di Natale Oblivion: tra vintage e post-moderno Mi ammazzo, per il resto tutto ok Calgary 1988. Il bob giamaicano Viva la Vida Trato Marzo Lo splendore del buio Il potere della lingua Miele: film provocazione sul suicidio assistito Se la Parodi sapesse RAP(arolacce) Mr. Pearl: l’uomo clessidra Claudio Garella Banksy La grande bellezza Un pugno contro l’omofobia La gara degli Uomini-Pesce Il lato evergreen della Filosofia Il Krav Maga Moonrise Kingdom Un’Arte appiccicosa Jim Abbott La bellezza di burro Torte che peccano di vanità La musica di Hegarty Theremin Un’identità per bene Indignatevi! Sperate! Il Capossela che all’alba, o poco dopo, ti scioglie le Dolomiti The Foley artist La tua vita è un’opera d’arte La rivoluzione arriva a teatro

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La Veronica… che passione Ikebana: i fiori dell’anima Er trapizzino I libri non chiudono gli occhi A piedi nudi sulla terra Oscar e la dama in rosa I pesci non chiudono gli occhi Dizionario delle cose perdute L’uomo che piantava gli alberi Imparare a dirsi addio Sulla traccia di Nives

L’alternativa La perfezione nasce dalle crepe Vado a vivere da sola (senza lo schiacciapatate) Saper chiedere aiuto Verso una nuova economia domestica Bio-benzina e sostenibilità Femminicidio linguistico La rivoluzione è nel ritorno L’eroe Autonomous car: l’auto del futuro esiste Sono uno Sfigato Io, umano Cercare non implica necessariamente trovare Un parco per amico L’orgoglio L’arte di essere quello che mangi Incertezza. Oggi più che mai Non si ascolta solo con le orecchie MIL: Miseria Interna Lorda I piedi violati Quando il bisogno di nutrirsi diventa patologia Autonomia Il succhiaruote Dalle staminali ai vasi sanguigni Il late start del College di Tonbridge Un diamante è per sempre? Tell me lies I Talent Show dei giovanissimi Vorrei la pelle… sana 9 mesi

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Yaya: da aiutato ad aiutante La sindrome premestruale spiegata agli uomini La morbidezza dell’aceto Galeotta fu la Tromba (di Eustachio) La Duchessa più reale del Re Reinventing A22: l’autostrada del futuro Un biscottino rivoluzionario Cosplay: tra esibizionismo e creatività Apulia Slow Coast Oltre lo spreco Letterina a Babbo Natale The strangers project Sbugiardiamo il cibo: sushi e carbonara In architettura si cucina con gli avanzi Raffinato? No, grazie La Sconosciuta della Senna Cent’anni di saldi: 1913-2013 L’ineffabile potenza delle fragranze Baci evolutivi Sono animali fedeli a vita Il no del Lupo Equilibrio. Nel mondo che vorrei Cura. Nel mondo che vorrei Scambio. Nel mondo che vorrei Assorbire. Nel mondo che vorrei Opportunità. Nel mondo che vorrei Volontà. Nel mondo che vorrei

Rubriche Viaggi Da Mosca al Lago Baikal Mongolia: un dipinto fra Russia e Cina Viaggiamo tutti in seconda chance Cipro: l’ultimo muro d’Europa L’India dei sensi I L’India dei sensi II Natale con i tuoi Il Meta-mondiale in Brasile Grecia: low cost da sogno Siberia: vivere secondo natura Cinque cose su Berlino Viaggiare da soli I

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Viaggiare da soli II La valigia Mi chiamo Bulkington Un faro nella tela La libreria in bianco e nero Il salone che scompone la luce Anche i timonieri sanno nuotare La resistenza del nostro tempo

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UnderWord » 243 La brutta reputazione dello sbadiglio Silhouette: il collezionista di imposte infinocchiare [in-fi-noc-chià-re] I bambini che portavano le cicogne Andar contro Natura Mai fidarsi del playboy ingranare [in-gra-nà-re] Ray-Ban In principio furono le corna Il Carlino in realtà è un Arlecchino

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Presentazioni

UnderTrenta vede con lenti colorate, è uno spazio aperto a chi ha voglia di creare. UnderTrenta è energia che si muove attraverso tutta l’Italia, tra le teste e i cuori di chi vi partecipa scrivendo o leggendo. Viola Di Vita Cara redazione, mi hai chiesto di scrivere del codice incerto che la mia generazione si improvvisa a declinare ogni giorno come disperato tentativo di attracco al presente. Del patto con le Istituzioni che ci siamo ritrovati a firmare solo noi. Di come si possa reagire a un tempo partigiano che ci rema contro e semina la nostra vita di proiettili in una sterile guerriglia in cui «la dittatura è dentro di noi». Temi troppo altisonanti per una rubrica di viaggi. Io ci ho provato comunque, chissà che la leggerezza della cornice non possa dare finalmente sostanza a questa città invisibile in cui abbiamo scelto di vivere, questo non luogo a cui abbiamo deciso di dare una pesantezza solo apparente: quella che si dà a una malattia grave che si ignora di curare o a un complesso problema che il professore ci deve risolvere. Un rimedio all’ignavia dei più è il contagio di speranza dei pochi. Inteso non come bieco ottimismo da diffondere in attesa di una mano invisibile che ci tiri fuori dai pasticci, ma come pratica quotidiana, azione concreta del singolo finalizzata a uno scopo preciso: quello di riprenderci, una a una, tutte le responsabilità che abbiamo deciso, con pigrizia, di scrollarci di dosso. Ci siamo sentiti estranei ai luoghi in cui si decide di noi, per noi.


Abbiamo scelto di non familiarizzarci perché considerati ambigui, lontani dalla nostra presunta purezza e anziché sanarli con la nostra partecipazione attiva abbiamo, nel migliore dei casi, formato ennesime parti per dividerci ulteriormente. Ho aderito al progetto di UnderTrenta per questo. Come un giardiniere si prende cura di una rosa qualsiasi benvoluta solo da pochi condomini. Io che nella vita di tutti i giorni sono un medico interno in Neurologia e devo confrontarmi più spesso con la plegìa indolente di specialisti che non amano il proprio lavoro piuttosto che con quella dei pazienti. Ho aderito a questo progetto per non inaridirmi, perché ho chiaro il modello di essere umano che non voglio diventare, perché intatta e integra voglio mantenere la lungimiranza dei miei vent’anni. Ho aderito a questo progetto per non scadere nell’indifferenza scontata (perché costa minor fatica) di chi dal proprio cuor l’altrui misura, di chi avvelena l’aria di invettive e malevoli giudizi facendomi tornare a casa col mal di testa e senza aver incamerato qualcosa di costruttivo. Cara redazione non mi hai chiesto di «trovare tutti i giorni il tempo di mettermi seduta e di scrivere un pensiero ma di sentirmi libera anche di comunicare il silenzio». Di questa opportunità preziosa io ti devo ringraziare. Della occasione rara non tanto di esprimere liberamente un’insofferenza quanto di prendermi cura di una passione amata, di coltivarla, di prestare un punto di vista per cogliere la meraviglia che possiamo essere, per fare della bellezza un mestiere e accogliere i petali di un lavoro che possiamo adempiere… una rosa alla volta. Mariagiovanna Amoroso Una finestra dove ammirare pensieri di chi da là fuori di scrittura si nutre scegliendo liberamente se cavalcare venti leggeri o soffici nubi nella salita fra le dieci, venti o trenta righe di nuovi e altri saperi. Francesca Bottari Noi autori di UnderTrenta siamo giovani non solo per l’età anagrafica, ma perché è giovane il nostro modo di produrre. Mi imma-

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gino tante persone come me che scrivono avvolti da una coperta d’inverno o su una panchina, su fogli trovati dentro un diario, su un treno, di giorno e di notte. L’idea di scrivere un massimo di trenta righe si adatta al mondo di oggi: riportare il fatto, la notizia o la curiosità senza girarci troppo intorno, senza far perdere tempo a chi vuole informarsi, ma testimoniando con schiettezza. Per tutto il resto, la redazione ci lascia sempre liberi di scegliere: liberi di parlare di mondi diversi, di entrare negli ambiti che preferiamo, di esprimerci attraverso linguaggi mentali che rappresentano la vera ricchezza di UnderTrenta, perché sono tutti differenti e interessanti per questo. Per me ogni articolo è come un’opera d’arte in miniatura, dove non solo posso dare vita alle mie capacità ma attraverso il quale posso anche raggiungere le persone, per inviare messaggi sempre diversi, ma legati dal filo rosso dell’umanità. Stella Casato Mai undertono, solo undertrenta. Una super miscela di cervelli che frizzano alla ricerca di un futuro della loro taglia. La sua lettura ti fa «pensare il pensiero» e non ti lascia mai solo. Gabriella Birardi Mazzone Era uno di quegli afosi pomeriggi estivi in cui appoggi il computer davanti e navighi tra pagine varie, in cerca di notizie importanti o curiosità. Tra i diversi siti capitai anche qui, undertrenta.it, e iniziai a leggere un articolo dopo l’altro, offrivano temi interessanti in modo diretto, non noioso. Scorrendo l’homepage mi risaltò agli occhi la scritta «Vuoi collaborare con noi?» e sentii subito dentro di me uno stimolo a fare: quel piccolo link era una porta aperta che mi invitava ad entrare, una sfida a cui volevo partecipare per mettermi alla prova. All’inizio pensai: «Forse è una delle solite scuole che finge di chiedere la tua collaborazione per poi offrirti dei corsi a pagamento»; mi sembrava strano che qualcuno, da qualche parte in Italia, potesse davvero aver bisogno di me. Però decisi di tentare. Mi informai sulle modalità e in poche ore scrissi il mio primo vero articolo. Per qualche giorno lo tenni in sospeso, ogni mattina

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lo rileggevo per correggere cose che mi erano sfuggite il giorno prima, finché mi decisi a inviarlo. La risposta fu ancora meglio di quello che mi aspettassi: ero riuscita a esprimere una parte di me, a farmi apprezzare per come scrivo, a trovare un angolo di mondo nel quale donare quello che ho e ricevere soddisfazione. Così partì la mia collaborazione con UnderTrenta, in un giorno qualunque, per caso. Ci ho pensato spesso: a come i legami nascano in modo spontaneo, senza obblighi, ma sempre quando da due strade diverse si fanno reciprocamente passi in avanti, fino ad incontrarsi. Negli ultimi anni, quando ci guardiamo intorno, tutto sembra statico: noi non possiamo muoverci perché c’è crisi, ci sono pochi soldi e nessuno ci assume; le aziende non possono muoversi perché non possono assumere e non sono aiutate. Ma ci siamo dimenticati che ci sono cose che non possono stare ferme: le idee. Le idee sono sempre in movimento, dentro, sopra e intorno a noi e per prenderle dobbiamo iniziare a ballare insieme a loro. Ecco: UnderTrenta mi ha preso per mano e mi ha chiesto: «Vuoi ballare con la nostra idea?», e io ho risposto sì. Elena Scortecci UnderTrenta? Ognuno di noi può dare il proprio contributo; e, come diceva mia nonna, «è dalla goccia che si fa il mare e dalla briciola che si fa il pane!». Valentina Poli «Menino vanto altri delle pagine che hanno scritto. Il mio orgoglio sta in quelle che ho letto»: questa è una delle mie citazioni preferite di Jorge Luis Borges, ed è calzante alla mia avventura in UnderTrenta perché al piacere di scrivere si aggiunge, maggiore, quello di leggere. Leggere le differenze, leggere una complessità che ha il pregio della sintesi senza essere ridotta ad una semplicità inverosimile. Leggere UnderTrenta è uno dei modi di leggere il mondo, uno di quelli che, per dirla alla Calvino, ci permette di scovare la bellezza nell’inferno dei viventi. Luisa Gissi

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UnderTrenta è un giardino di pensieri, sentimenti, vissuti e sensazioni coltivato con cura, passione e bellezza. Mi sento un fortunato passante che si ferma ad ammirarne i colori e il profumo. Titti Germinario Il mio pensiero trascritto in maniera scorrevole, precisa e gradevole e in meno di tremila battute. Una cosa che mai e poi mai avrei pensato di poter fare. Grazie, mi diverte mettermi alla prova anche così. Mi sto anche divertendo a leggere alcuni articoli di altri. Era un po’ che non lo dicevo… sono felice. Undertrenta… me lo ricorderò. Loris Mancosu Un Nuovo Dirompente Esperimento Ricco di Tematiche Riflessioni Esplorazioni Notizie Trattate Appassionatamente Fabiana Aniello

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PARTE PRIMA UnderTrenta.it



Tracciato di un’avventura di Giuseppe Marino e Claudia Seppi

Perché UnderTrenta? Trenta non sono gli anni del trapasso, non è il confine tra giovani e vecchi, non è un muro anagrafico. Trenta sono le righe massime di ogni articolo che il giornale online ospita e propone ai suoi lettori. Trenta è il simbolo della sintesi, è l’obiettivo di chi vuole comunicare un pensiero, un’esperienza, una passione scegliendo accuratamente le parole, cercandole, perché «la bellezza è iniziata quando qualcuno ha iniziato a scegliere». E nel caos della comunicazione istantanea, abbiamo cercato di mettere insieme, passo dopo passo, pezzo dopo pezzo, un nucleo pulsante di autori disposti a raccogliere una sfida difficile: comunicare cercando di costruire relazioni, di raccontare storie e di legarle tra loro con un filo invisibile. Tutto in uno spazio potenzialmente infinito, il web, il mondo, e allo stesso tempo, al contrario, quasi piatto. Un presente che diventa subito passato, in cui in due minuti il nuovo si tramuta in vecchio, diventando polveroso, e rimane archiviato in un substrato. E l’abbiamo fatto guardandoci negli occhi, scrivendoci, parlando, con dedizione e impegno, tra un lavoro e un altro, prima della lezione all’università e tra la cena e il letto. Sperimentando nuove forme di comunicazione che per noi, che non siamo nativi digitali ma gli ultimi degli Homo Sapiens analogici, sono stati una sfida e una scoperta allo stesso tempo. Noi non abbiamo imparato l’alfabeto sui tablet, rientriamo nella generazione che tracciava linee storte con la biro fra “nomi, cose e città”, che ha studiato le province di uno stivale lunghissimo prima che ci si chiedesse a cosa servissero. Siamo la generazione che ha iniziato a fare le ricerche sulle enciclopedie piene di ragnatele e pesantissime per poi finirle smanettando su Google. La generazione che ha rinunciato a qualcosa in cambio


del primo cellulare e adesso si barcamena tra il desiderio di liberarsi dalla schiavitù del sempre connesso e il bisogno di condividere tutto: Facebook, Twitter, Instagram, Flickr, Pinterest. La generazione dei «figli degli operai che potevano diventare dottori» che poi, alla fine, si è ritrovata con uno, due, tre “pezzi di carta”, oggi da tenere appesi in camera. La generazione che sta cercando nella precarietà la sua stabilità, che nonostante passi per colpevole di un certo mammismo, di noia, di nullafacenza, in realtà “si sbatte un sacco”. E abbiamo anche trovato un tempo per fermarci e scrivere, proprio adesso che ogni minuto della giornata è monetizzabile, proprio adesso che ci si chiede di essere ovunque, sempre, attivi, presenti, di non deludere le aspettative, di produrre. Ci siamo fermati per pensare, scrivere, condividere. L’abbiamo fatto attraverso un percorso di crescita che ha consentito a noi di conoscere molti spaccati di vita di nostri coetanei sparsi in altrettanti luoghi, agli autori di avere un sostegno, un confronto, uno scambio di idee, per avvicinare il più possibile il pensiero alla comunicazione scritta, per apprendere piccole tecniche di scrittura per il web e fare uno sforzo di sintesi e di abbandono del superfluo. UnderTrenta ha cercato di dare a tutti coloro che hanno scelto di far parte del progetto l’occasione per unire due momenti unici: parlare a se stessi e parlare agli altri. Ad una platea ogni giorno più vasta di altri coetanei disposti a leggere, a lasciarsi coinvolgere, a condividere. Così per la redazione e per gli autori, per tutte le dita che hanno martellato vigorosamente, e lentamente, sulla tastiera in questi mesi, UnderTrenta è stato un affascinante supplizio, una ricerca continua di una forma di espressione autentica, necessaria, unica, concisa, densa. Per cercare di andare a fondo il più possibile, restando in superficie. Cercando la semplicità nella complessità. La leggerezza nella quotidianità. Formulando messaggi e pensieri tra parole e frasi offerte ai lettori affinché ne completassero il senso, lo facessero proprio. Scrivere non è mai stato un obbligo per nessuno. Nessuna scadenza, nessun tema prestabilito, nessuno stile imposto. Si è trattato di scrivere perché si aveva qualcosa da dire e si era disposti a rinchiudere il tutto in dieci, venti o al massimo trenta righe, con attenzione alla nostra stella polare: la sospensione del giudizio. Abbiamo scelto

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di aprirci alle diversità, di creare ponti e non muri, di raccontare le storie e le vicende più curiose e interessanti per offrirle come spunti di riflessione. E a forza di farlo, ci siamo scoperti simili seppur diversi, un insieme plurimo in un’avventura comune. UnderTrenta è nato come uno spazio pubblico di riflessione privata. Per tessere un racconto multiforme, stonato, leggero, impegnato e sentito di una generazione. I giovani. Uno spazio dove a contare è la qualità della partecipazione. Non un esserci ad ogni costo, non un coprire il silenzio perché chi tace non ha niente da dire. Ed è diventato ogni giorno di più un esercizio sulla scrittura, una piattaforma editoriale di condivisione partecipata sui temi di più ampia attualità, dalla musica al cinema, dallo sport ai viaggi, dai libri alle esperienze di vita, ai giochi linguistici. Partendo da suggestioni, dubbi, quesiti, utili a indagare la realtà, ad inventare e sognare realtà diverse, a sviluppare la capacità di osservare, relazionarsi, interpretare. E questa pubblicazione è la prova che l’esperimento è pienamente riuscito. L’entusiasmo è tangibile attraverso gli oltre duecento articoli pubblicati, gli oltre quaranta autori che in tempi e modi diversi hanno deciso di partecipare con i loro talenti, i loro occhi e un taglio che spesso tende all’ironia e riesce a coinvolgere molti lettori. Per noi, se non fosse ancora chiaro, è stata una sfida emozionante, che abbiamo colto senza il supporto di un massiccio e costoso piano di comunicazione, potendo contare solo sugli sforzi delle persone, degli amici. Crediamo che l’esperimento sia stato utile non solo a chi l’ha reso vivo senza celebrarsi, compiacersi, lamentarsi, sfogarsi, ma anche per costruire legami di collaborazione senza porsi sempre in affannata competizione, per dare spazi di espressione, per offrire e ricevere occasioni di riflessione. Crediamo infine che UnderTrenta resti un’utile occasione per conoscere e comprendere meglio chi e come sono i giovani e per sfatare qualche stereotipo.

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48 Autoritratti

Anche la cosa più piccola e insignificante ha la sua importanza. Cambiare punto di vista mi aiuta a scoprire nuovi orizzonti. Joel Aldrighettoni Scrivere per guardare e trattenere, descrivere e partecipare, fosse anche solo, semplicemente, ricordare, scrivere come un «pensare onesto e profondo, intrepido tentativo dell’anima di conservare l’aperta indipendenza del proprio mare». Mariagiovanna Amoroso La scoperta di non essere in grado di buttar giù due righe sulla mia persona mi sconcerta non poco. Sperando che questa incapacità sia il frutto della mia innata incapacità di sintesi, e non conseguenza di una colossale buco nero con quattro arti e un filo di barba, rinuncio, e riprendo il massacro delle mosche che sfrecciano sopra alla mia testa. Nicola Andreatta Il mondo corre. Io corro per cercare di toccarlo, per inglobare il tempo. La parola mi ferma. E in essa condenso il mio senso del mondo. Nella scelta, spontanea o ricercata, di ogni termine, c’è il respiro di ciò che vedo e la sua bellezza, c’è lo sguardo della gente, c’è la volontà di assorbire e poi trasmettere. Condenso. O almeno ci provo. Fabiana Aniello


«Siamo fatti della stessa sostanza dei sogni. E la nostra piccola vita è circondata dal sonno.» E la scrittura non è altro che il nostro cuscino. Nicolò Aurora Inseguo bellezze che mi riempiano gli occhi e attimi che mi riempiano il cuore. Giulia Bazzanella Dentro al mio pozzo cerco il Paese delle Meraviglie in cui due più due non sempre è uguale a quattro. Il Paese delle Meraviglie dove il fiore del mio dubbio condisca risotti cucinati con amici veri, dove il “vissero felici e contenti” è all’inizio delle storie da costruire all’incontrario. Alice Berlanda Preferisco se di colore Blu, di ogni cosa à pois mi innamoro. Prendo consapevolezza attraverso le parole, io scrivo e d’un tratto niente è uguale a prima. Francesca Bottari Quando fin da piccola ti insegnano ad amare l’Arte, quando fin da piccola tuo padre ti mette dei pennelli in mano e ti regala spatoline per lavorare l’argilla, è solo Arte quella che respiri, senti e scorre. La passione ha urgenza di uscire, non può restare dentro, bussa, scalcia. L’unica cosa da fare è condividerla. Antonella Bufi Mangio solo cose belle e che mi piacciono, le cose brutte non le tocco nemmeno. I carciofi non riesco neanche a guardarli. Adoro mangiare con le mani, toccare il cibo, impastare, sentire la farina tra le dita e mangiare semi di girasole. Ogni tanto provo a fotografare quello che mangio, quello che mi piace e quello che vedo. Alpina Calò

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Scrivo per passione e per professione. Spesso, fortunatamente, le due cose coincidono. In questi casi il mestiere della scrittura riesce ad essere quello che ci si immagina: uno straordinario motore, un traino, un ponte, un potente strumento di comunicazione e condivisione. Silvestro Capurso «C’è chi si fissa a vedere solo il buio. Io preferisco contemplare le stelle. Ciascuno ha il suo modo di guardare la notte.» Victor Hugo Stella Casato Amo leggere, viaggiare, osservare il mondo e raccontarlo. Luciana Cincelli Pensieri profondi su divani scomodi. Valerio Clemente Fotografie, immagini e fatti possono portare a un’idea, o a un sorriso, o a sollievo inaspettato. Storie del passato possono essere d’ispirazione per l’avvenire. A patto che si continui a raccontarle. Scrivo per il senso di meraviglia, per condividere il sentimento che leggere regala a me. Mariangela Cormio «Se il mondo fosse chiaro, l’arte non esisterebbe.» Albert Camus Cristina D’Angelo So benissimo che il lettore non ha bisogno di sapere tutto questo, ma io ho bisogno di raccontarlo. Giorgia D’Onofrio

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«Cosa essere tu?». Caro Brucaliffo e cari lettori, un po’ difficile rispondere a questa domanda quando si è molte cose insieme. Sicula D.O.C., laureata in Lingue e appena trasferita a Milàn per tentare di costruirsi un futuro? Naaaaaaaaaaa, questo non interessa a nessuno! Curiosa come l’Alice, viaggiatrice in luoghi fantastici, ma al tempo stesso innamorata della sua quieta normalità. L’arte e la stravaganza mi seducono ma il mio obiettivo nella vita è dare ordini dietro una qualche scrivania di cristallo. Quindi, aspettatevi degli articoli abbastanza disparati, dall’arcobaleno al marketing, dall’arte contemporanea alle ultime tendenze del Feng Shui. E preparatevi, a volte mi odierete per quella che voi definite banalità, ma non fermatevi all’apparenza… riflettete su cosa si nasconde dietro il significato di ogni singola parola. Giovanna De Predicatore «Curva come una virgola di una frase a metà.» Iris Delacroix Non so perché scrivo. Forse perché non ho avuto il coraggio di fare altro. O per quella magia: far scorrere su un foglio bianco le lettere, in fila, l’una dietro l’altra, scegliere le parole con cura, comporle in pensieri. E vedere tutto lì, compatto, quasi perfetto. Non è come «a voce». Forse perché continuo a scrivere lettere a mano, nonostante tutti odino i piccioni. Carolina Di Bitetto «Poiché un sognatore è colui che vede la sua strada solo al chiaro di luna, la sua punizione è scorgere l’alba prima del resto del mondo.» William Shakespeare Viola Di Vita

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Scrivere per restare ancorati alla realtà come la penna resta attaccata al foglio. Mai in modo definitivo e concedendosi di tanto in tanto salti opportuni da giuste altezze. E l’ironia, da usare come inchiostro per ogni penna da impugnare. Titti Germinario Fanciullo all’antica, pantofolaio che talvolta ha paura dei cambiamenti, appassionato di cinema e letteratura gialla, scrivo racconti vari nel tempo libero per divertirmi e intrattenere gli amici e scrivo poesie per salvare le mie emozioni dall’oblio del tempo. Elia Giovanaz Il punto di vista degli altri prima di tutto. Immaginarselo, ancor prima che ascoltarlo e cercare di comprenderlo, è un essere affamati e assetati di storie e vite altrui. Scrivo dunque per fame e sete, perché «ogni storia è una storia infinita» e da soli è impossibile comprenderne alcuna. Luisa Gissi Mi ucciderà la curiosità. Giulia Indorato «Sono un pessimista a causa dell’intelligenza ma un ottimista per diritto.» Antonio Gramsci Gabriele Manachino I miei ricordi dei temi di italiano sono una grande macchia blu sempre sottolineata da una riga rossa o interrotta da delle x gigantesche con il solito immancabile appunto: sei andato fuori tema. Loris Mancosu

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Ho tutte le marce tranne la prima, quella della partenza. Ogni volta che devo iniziare qualcosa rimango fermo, immobile. Ho paura. Mi serve sempre una spinta vigorosa. E scrivo per carburare pensieri. Scrivo perché con le parole, a volte, mi sembra di non riuscire. Giuseppe Marino Le parole sono il mio pane quotidiano. Ne sento tante e ne dico altrettante. Ma le parole, si sa, non rimangono ed è qui che metterle nero su bianco diventa necessario. Per dare ordine al caos, per focalizzare i punti, per imprimere momenti, dare colore ai suoni, affinché restino. Angela Marzocca Quando avevo undici anni, provai a tenere un diario segreto. Scrittura-sfogo. Non ha funzionato. Leggere mi piace di gran lunga e sono votata all’ascolto attivo. Sono piena di ansie e paure, ma negli ultimi mesi qualcosa sta girando nel verso giusto e mi ritrovo a studiare l’invisibile-visibile in una città lontana dal mio tetto sicuro. Casca la terra, tutti giù per terra. Mi crogiolo in questo crollo, curiosa di stabilire il mio nuovo baricentro. D’altronde. «Se non ora, quando?». Gabriella Birardi Mazzone «E guardo il mondo da un oblò», ma non mi annoio neanche un po’. Annuso, afferro, chiedo, rubo ed elemosino la vita da libri, film, teatro, fotografie, canzoni, amici, parenti, conoscenti e passanti. Tento di contraccambiare quello che l’umanità mi regala con parole nelle quali essa possa ritrovarsi e sorridere di se stessa. Annachiara Messina Per cambiare il mondo è necessario uno slancio verso il cielo, mantenendo i piedi ben piantati per terra. Pasquale Mormile

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Siento una profunda admiración y un gran deseo por el arte y su pensamiento. En especial por el arte de los sonidos y el silencio. La impotencia que la persona siente, en ocasiones, cuando una obra, un pensamiento o una persona le altera, en un momento impreciso y de tal decisiva manera es lo que me provoca y emociona. Sento una profonda ammirazione e desiderio per l’arte e il suo pensiero. In particolare per l’arte dei suoni e del silenzio. L’impotenza che un individuo sente, a volte, quando un’opera, un pensiero, una persona lo sconvolge, in un momento impreciso, in una maniera così decisiva; questo è quello che mi suscita e mi emoziona. Sebastian Diakakis Nilo Non credo di essere arrivato. Raggiunto un obiettivo, me ne frego e ne rincorro un altro. Mi adatto a fare di tutto. Riesco ad avere le mani bucate e a essere tirchio allo stesso tempo. Amo viaggiare, leggere e la competizione. Riesco a essere competitivo pure quando all’università ci insegnano a pulire culi. Aronne Noriller Semplice e complessa come i carboidrati, a volte un po’ goffa. Eterna indecisa, e mi piace esserlo. Accosto lettere finché non trovo l’incastro giusto: ne nasce una parola, poi due, poi tre e così via. Non so se si tratti dell’abbinamento dei colori ma un foglio bianco che si riempie di nero o blu mi rende felice. Forse, questo, il motivo per cui scrivo. Arianna Panzolato Abbiate pietà di me, sto solo imparando a vivere. Un po’ come voialtri. Giro, scopro persone e visito luoghi cercando di capire come funzioni. Sempre più conscio, comunque, che l’esistenza non possa ridursi alla perenne ed estenuante attesa di un nuovo orgasmo. «Post coitum omne animal triste est.» Gianni Paris

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Dal mio quotidiano traggo continuamente dubbi su questo o su quell’argomento. Li annoto in testa e poi, in ritagli di tempo, studio e ricerco le radici dei quesiti. Provo a scrivere, quindi, per tracciare assieme a chi legge i contorni distintivi ed essenziali di una contraddizione. Alessandro Pasculli «Senza ordine nulla può esistere, senza caos nulla può evolvere.» Alice Perenzin Scrivo per la stessa ratio che mi spinge a recitare: descrivere personaggi, luoghi e situazioni a volte estremamente lontani dalla mia personalità, ma che irrimediabilmente divengono parte del mio Essere. Trovo sia una tecnica molto efficace per alimentare questa sottile schizofrenia. Uno, nessuno e centomila, direbbe Pirandello. Valeria Persechino Non ho talenti e sono disorganizzata; sostengo che lo sport sia dannoso e pratico l’ozio sacro; ho il passaporto facile ma il portafoglio vuoto; sono sempre in dieta e convivo con una dipendenza da cioccolata. Ma ho dei capelli meravigliosi! Insomma, il mio disagio è pari a quello di un freezer al Polo, e lo racconto. Valentina Poli «Art is art. Everything else is everything else.» Ad Reinhardt Gonarina Porcu Quando le persone non possono amare le persone cominciano a volere tante cose e finiscono amando i pomodori rossi e il basilico verde. Jesus J. Prensa

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Ancora credo che qualcosa di buono possa e debba essere fatto e la volontà è una delle più grandi forze a nostra disposizione. Giulia Salucci Amo fare sogni solo apparentemente irrealizzabili. Sara Scissi In ogni nero si riflette il bianco, in ogni gioia c’è nascosto il dolore, per ogni tratto di neve che si scioglie c’è un po’ di mare; in ogni parte di me ci sono anche tutti i miei opposti. Elena Scortecci Il mio nome è Kelly, e attualmente mi divido fra due vite: lo studente mascherato, con il fantastico potere di mantenere una media mediocre, e me stessa, che data una vita sociale inesistente consisterebbe nello starsene sul divano a leggere Kundera e Phalaniuk. Del resto c’è poco da dire, e quel poco è in verità abbastanza noioso, per cui lo ometto (di certo non interessa a nessuno sapere quanti dei miei pesci rossi sono ancora vivi). Kelly Susat Non smetto mai di osservare gli altri, mi accorgo delle loro vite come fossero dei treni che in un attimo ti sfrecciano accanto e condividono la tua strada anche se per poco. Colleziono attimi di vita vissuta tra il dialogo e l’ascolto, c’è sempre qualcosa di me che vedo riflesso in un incontro. Silvia Tait Lettrice compulsiva, ai libri chiedo che mi spieghino la vita. Scrittrice schiva, tramite l’ironia provo a raccontare il mio mondo. Ingegnere in lotta contro lo stereotipo secondo cui gli ingegneri sarebbero noiosi, il che, lo riconosco, è un modo piuttosto noioso di impiegare il proprio tempo. Patrizia Turtur

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Il problema non sono loro di Sara Guelmi e Mauro Marcantoni

UnderTrenta è nato dalla contaminazione virtuosa tra il laboratorio di giornalismo organizzato da ES.SER.CI., acronimo di Esperienze di Servizio Civile, e la forza generante dei giovani corsisti, intenzionati a non chiudere, a conclusione del laboratorio, un’esperienza ad un tempo formativa e gratificante. È nata così l’idea di creare un giornale online, alimentato esclusivamente dal lavoro dei giovani. Un’esperienza durata circa un anno, che ha consentito al nucleo originario, arricchitosi via via di nuovi protagonisti, di esplorare le vicende umane assumendosi la responsabilità di esprimere emozioni e pensieri, con la ricchezza del dubbio e della perlustrazione di nuove vie di interpretazione. UnderTrenta è stato, forse non del tutto consapevolmente, laboratorio di vita oltre che occasione di espressione e di comunicazione. Per i giovani protagonisti, ma anche per chi, come noi, sotto traccia li ha seguiti, accompagnati, sostenuti e a volte arginati. Anche per noi è stato laboratorio per «esserci» concretamente con la responsabilità del ruolo, ma anche con la sorprendente scoperta di un patrimonio, troppo spesso inespresso, di etica, di pensiero, di sensibilità, di capacità d’analisi e di critica oltre che di leggerezza, che non è superficialità.

Non più certezze In un’epoca che rende esplicita la necessità di porre rimedio alle molte emergenze, planetarie o locali non importa, in un’epoca che mette in evidenza l’inadeguatezza delle strategie e dei modelli fino ad oggi adottati, non è possibile procedere con riferimenti e schemi superati dal correre vorticoso del tempo e dall’incalzare


delle innovazioni tecnologiche e produttive. La crisi economica di portata mondiale, il progressivo indebolimento del sistema di welfare, lo squilibrio tra Nord e Sud del mondo, la tragica corsa delle nuove potenze economiche che adottano modelli già in crisi, un pianeta al collasso per lo spregio ambientale subito per decenni, rendono evidente che le nostre certezze erano un’illusione e che è necessario traghettare l’umanità ad altra era. Ciò non accadrà auspicabilmente con un colpo di mano o con la velocità di un cataclisma, ma con un processo di adattamento e di evoluzione lento, progressivo e orientato a nuove e più efficaci modalità di essere e di fare. Difficile stabilire il punto di svolta, la data di questo cambiamento epocale. E in realtà non interessa: è stata lenta e in parte inconsapevole l’evoluzione della complessità del mondo che oggi si propone con lucida evidenza, mettendo in crisi, ovvero al punto di rottura, i modelli di lettura e di interpretazione adottati efficacemente nel passato. Anche il tempo e lo spazio sono categorie non più adeguate. Il tempo dei grandi cicli dello sviluppo sono stati sostituiti dal continuo esaurirsi e alternarsi di modelli di comportamento e di consumo. E anche il tempo delle stagioni scandite dalla natura e dai raccolti non è che un ricordo lontano, con autunni e primavere che sembrano essersi perse, insieme al ritmo rassicurante dei prodotti stagionali: fragole e mandarini si trovano sulle nostre tavole in ogni tempo. E ancora, il tempo dell’uomo, scandito da fasi e passaggi, è un amalgama indistinto di tappe bruciate, di anticipazioni esperienziali e di ritardi subiti, con giovani che non sanno, o non possono, staccarsi dall’abbraccio rassicurante delle famiglie di origine e con anziani che si scoprono troppo vitali per aver voglia di mettersi a riposo. E così per lo spazio. Che ha perso la sua dimensione fisica, quella della presenza, quella dell’individuazione logistica. Grazie al web ci si relaziona con il mondo intero con la velocità di un invio. In diretta è possibile essere testimoni e partecipanti virtuali di eventi che accadono dall’altra parte del globo. Informazioni, dati ed immagini sono patrimonio condiviso indipendentemente dalla collocazione della banca dati d’archivio. Nessun luogo è ormai

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troppo lontano per non essere dentro il quotidiano dell’informazione, del pensiero o dell’azione anche individuale. Tempo e spazio che eravamo abituati a misurare su assi cartesiane per tracciare curve e disegnare funzioni, oggi non paiono più così separabili, misurabili e prevedibili. L’hic et nunc si è trasformato in un paradosso perché il qui è ovunque e l’ora è al tempo stesso un passato, un presente ed un futuro non facilmente definibili. Così restiamo affranti dalla fine delle nostre certezze: il mondo ci rende evidente che non è più quello che abbiamo pensato e che a lungo abbiamo ritenuto il migliore possibile. Cerchiamo di ricostruire questo vecchio modello rabberciando un po’ qui e un po’ lì; cerchiamo di “salvare il salvabile” convincendo i nostri figli a prendere il testimone di un mondo che si squaglia dando loro il libretto di istruzioni che abbiamo usato nel passato, fingendo che possa ancora essere utile. La intuitiva consapevolezza di essere all’orlo, di aver smarrito le certezze del domani sollecita richieste di cambiamento che vengono solo evocate, attribuendo alle giovani generazioni la responsabilità e l’arduo compito di innestarle nella verità della vita. Giovani generazioni che per stereotipo si vogliono creative e innovative, e che si vogliono impegnate e responsabili. Alle nuove generazioni ci riferiamo come promesse per il futuro in un presente che vacilla, a loro assegniamo la responsabilità di trovare nuovi equilibri e nuove formule. Ma al tempo stesso c’è cautela e ritrosia ad abbandonare posizioni conquistate e a cedere saperi che potrebbero essere non condivisi o strattonati, maneggiati e rimpastati in nuove alchimie; c’è riluttanza a cedere il passo per paura di essere sorpassati; forte però è anche il timore di “mandare avanti” qualcuno che non ha dimostrato abilità sul campo, di cui non ci sono garanzie di riuscita, che pur osservando non si riesce a comprendere o definire, qualcuno che per congiuntura anagrafica non può che essere in formazione, in via di definizione, qualcuno che coltiva dentro di sé incertezza e dubbio anziché raccogliere frutti di dogmi e ideologie rigide. Dentro al mio pozzo cerco il Paese delle Meraviglie in cui due più due non sempre è uguale a quattro. Il Paese delle Meraviglie dove il fiore del mio dubbio condisca risotti cucinati con

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amici veri, dove il “vissero felici e contenti” è all’inizio delle storie da costruire all’incontrario.

Inquieta la capacità di reggere con leggerezza alla fluidità e all’incertezza del mondo che si sommano alle variabilità intime dei giovani in ricerca di sé. Inquieta la somiglianza tra il mondo e i giovani: incerti e fluidi, mobili e mutevoli, carico di contraddizioni e di possibilità non prevedibili o governabili. Una somiglianza che sconvolge chi finora ha seguito strade tracciate, programmi definiti e logiche perfette che fanno derivare effetti da cause certe: nella mobilità complessiva, del mondo e dell’intimo, non può che vivere lo smarrimento e la tortura del mal di mare che rende impotente e in balia dei flutti. Non credo di essere arrivato. Raggiunto un obiettivo, me ne frego e ne rincorro un altro. Mi adatto a fare di tutto. Riesco ad avere le mani bucate e a essere tirchio allo stesso tempo. Amo viaggiare, leggere e la competizione. Riesco a essere competitivo pure quando all’università ci insegnano a pulire culi.

Il mondo degli adulti sa, anche se dissimula, di non avere gli strumenti o le competenze per innescare il cambiamento necessario. Ma al tempo stesso non reclina le proprie posizioni, non accoglie le proposte nuove, soprattutto se irrituali o trasgressive, perché da un lato non le capisce o non le vuole capire e dall’altro non vuole sentirsi superato, vecchio e inadeguato. Non ho talenti e sono disorganizzata; sostengo che lo sport sia dannoso e pratico l’ozio sacro; ho il passaporto facile ma il portafoglio vuoto; sono sempre a dieta e convivo con una dipendenza da cioccolata. Ma ho dei capelli meravigliosi!

Di fronte a questa fluidità cresce l’inquietudine. Se alcune novità stravolgono schemi collaudati è pronta la dichiarazione della fine di tutto, della rottura, della crisi, della perdita di qualcosa di importante e vitale senza il quale il mondo non sarà più quello di prima o che, addirittura, non sarà più. […] è necessario spogliarsi dalle paure del muoversi diversamente da convinzioni forse vere un tempo, ma oggi non più, e alimentare così il fuoco che anima l’antitesi della crisi, l’opportunità.

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L’incertezza, che nel nostro tempo si è infilata fin nei pori più reconditi della convivenza, conferisce a questo salto un gusto diverso e inquietante: quello del vuoto. Ed è proprio questa ragione che rende fondamentale disporre di uno spazio di libertà e di espressione, di ricerca e di crescita ragionata ma anche audace, in cui poter perlustrare il pensiero e la sua traduzione pratica, in cui interpretare se stessi ed il mondo che si vuole sognare e costruire. Qualcuno ha detto una volta che può essere sufficiente un punto d’appoggio per sollevare il mondo […] La forza del precario è la forza di chi ad ogni punto ha la possibilità di andare a capo. Punto e a capo. La gioia del cominciamento, il nostro punto di leva.

Il futuro poggia sul presente Preoccuparsi di quello che sarà è una condizione culturale ed esistenziale necessaria. Il problema sorge quando il futuro soggettivo con le sue aspettative, mette in ombra il presente; quando scatta la proiezione verso la tappa successiva, in una rincorsa senza fine – quando sarò diplomato, quando prenderò la laurea, quando troverò un lavoro, quando avrò una casa mia, quando arriveranno i figli, quando farò carriera, quando andrò in pensione, se ancora ci sarà – una rincorsa che svuota e oscura il presente fagocitando il gusto di essere ciò che si è, di vivere il momento, di dare valore a ciò che si fa se non in funzione di una meta. Questo è il rischio da evitare: perdere di vista il presente ragionando in termini di futuro, quasi a dimenticare che la vita è sì quella che ha da venire, ma che è anche, e soprattutto, quella che cadenza il presente, con il ritmo delle giornate. Ciò significa dare valore non solo al domani, al rinvio ad altro tempo, ma anche all’oggi. E questo lo si deve perseguire rispondendo alle necessità materiali, ovviamente importanti, ma anche al bisogno di senso che incide profondamente sulla percezione di sé, soprattutto per i giovani che ne sono alla ricerca. Sono piena di ansie e paure, ma negli ultimi mesi qualcosa sta girando nel verso giusto e mi ritrovo a studiare l’invisibile-visibile in una città lontana dal mio tetto sicuro. Casca la terra, tutti giù per terra. Mi crogiolo in questo crollo, curiosa di stabilire il

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mio nuovo baricentro. D’altronde. «Se non ora, quando?»

È la realtà del presente, della contingenza quotidiana, il terreno obbligato nel quale accogliere e curare il seme, quello del divenire delle generazioni, per creare e offrire condizioni necessarie ad affondare radici, solide e fiduciose. È il presente la dimensione da rendere adeguata ed ospitale perché il seme possa germinare e crescere robusto, resistente agli attacchi delle intemperie che sempre popolano la vita. La gioventù è un seme ricco, carico di promesse e bisognoso di un aiuto maieutico per attenuare le ingenuità del pensiero, per smussare spigolosità infruttuose, per far emergere talenti inconsapevoli o tenuti sotto traccia per intimo pudore o per impossibilità di espressione. Un seme che ha bisogno però di un sostegno e un supporto coerenti con le sue reali esigenze, non di culture e strumenti, i nostri, in gran parte superati. Ciascun seme giovane deve poter contare su strumenti e metodi idonei a crescere nella complessità e adatti a costruire sul mutamento continuo; deve poter imparare un mestiere del vivere fondato, non più sulle roccaforti delle antiche certezze, ma sulle paludi delle incertezze crescenti. Come adulti – genitori, educatori o amministratori – per aiutarli nell’impresa, dobbiamo trovare altro da fornire loro, altro da ipotesi esistenziali costruite sulla base di calcoli statici che il tempo e la complessità hanno ormai erosi. Ho tutte le marce tranne la prima, quella della partenza. Ogni volta che devo iniziare qualcosa rimango fermo, immobile. Ho paura. Mi serve sempre una spinta vigorosa. E scrivo per carburare pensieri. Scrivo perché con le parole, a volte, mi sembra di non riuscire.

Non è semplice, perché non sono sufficienti i buoni consigli, le attenzioni premurose, le indicazioni di principio. È necessario dare la spinta per affrontare la paura e fare il salto dentro al presente cercando il proprio riferimento, il proprio centro di gravità permanente come dice Battiato; mentre il mondo perde pezzi, si sgretola e si ricompone in equilibri precari, stabilire il proprio baricentro è operazione per affondare radici che permettono di germogliare ora, sebbene la stagione non sia invitante. Iniziamo a pensare come se questo presente fosse nostro. Non ci sono soluzioni pronte, anzi. Ma smettere di vedere il presente

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con gli occhi di chi guarda al passato è già un inizio. […] Bisogna spingere come i tori. Perché? Per non ritrovarsi, tra quarant’anni a ripetere le parole di Giorgio Gaber: «la mia generazione ha perso».

La ricerca di nuove vie passa attraverso la sperimentazione, la prova e inevitabilmente, l’errore. Percorrere tracciati inesplorati, elaborare nuovi pensieri divergenti o paralleli, creativi o trasgressivi, richiede coraggio da un lato, ma dall’altro sostegno e accompagnamento. Un accompagnamento capace di valorizzare le conquiste anche soggettive, disponibile a correggere le sbavature, a ritarare i pesi, a limare le spigolosità, a raddrizzare le rotte, a ritoccare i dettagli, a ridiscutere l’impianto del pensiero, a trovarne l’assetto appropriato. Questo richiede spazio libero e la possibilità di esplorare senza il rischio incombente dell’eresia. Certo, un’eresia di tono minore, accolta con paternalistica benevolenza, ma pur sempre al vaglio del giudizio di inappropriatezza, di mancata visione delle cose giuste. Un’accoglienza questa, che inibisce un’operazione di per sé difficile ma necessaria per modificare il paradigma consolidato: trasgredire in un’epoca incerta, non quando il futuro, lo sviluppo, la mobilità intergenerazionale, il mito della crescita eterna sprigionano quella nube positiva e avvolgente che dà al salto il gusto inebriante della conquista. Quello che serve è un passo avanti, concreto, fatto di conoscenze e di abilità, ma anche e soprattutto di un impianto di personalità adatto al nuovo mare che i giovani sono chiamati a solcare. La gioventù, per definizione, è ricerca, è conquista, è emancipazione da ciò che era. Ottenere questo muovendosi su binari definiti, quelli del mondo che ci lasciamo alle spalle, o avventurarsi in acque tempestose, quelle del mondo che abbiamo davanti, non è la stessa cosa. Richiede una disposizione d’animo adatta ad un mondo liquido, come lo definisce Bauman, sostenuta da strategie e strumenti idonei a questo nuovo e diverso modo di crescere e di realizzarsi. Ciascun giovane deve poter surfare sulle onde, sapendole affrontare e decidendo quali evitare e come questo sia possibile. Deve poter collegare il passaggio da un’onda all’altra, capace di scendere per poi risalire e segnare la rotta che, dal presente dell’oggi, lo accompagni nel presente del domani.

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Amo fare sogni solo apparentemente irrealizzabili.

I giovani si guardano e riflettono su se stessi con ironia; navigano consapevoli delle contraddizioni dentro e fuori di sé, della mutevolezza dell’essere oggi diversi da domani, ma anche di essere complessi e carichi di opposti e contrasti. Senza averne paura perché “come siamo noi è il mondo”; si esercitano a tracciare fantasiosi modi per progredire nella instabilità cercando equilibri e sperimentando soluzioni; si allenano con costanza e tenacia, con leggerezza e caparbietà, come si conviene ad un funambolo in previsione della sua impresa epica. Ancora credo che qualcosa di buono possa e debba essere fatto e la volontà sia una delle più grandi forze a nostra disposizione.

Insieme giovani e adulti C’è quindi un doppio livello di riflessione da compiere nel confronto adulti/giovani prendendo per buona la generalizzazione in categorie così approssimative che non definiscono nessun individuo. I primi hanno la responsabilità di guardare se stessi, il mondo così come lo hanno trasformato, o consentito di trasformare, e di confrontarsi con chi la voglia di miglioramento ce l’ha, e non è solo una questione anagrafica. Hanno soprattutto il dovere di accompagnare con l’ascolto, l’accoglienza, la disponibilità alla prova chi si interfaccia con la nuova era ed è solo senza esperienze e opportunità reali per costruirle. Chi ha meno esperienza ha il vantaggio di non avere percorsi tracciati, può esplorare vie nuove, può sperimentare modalità diverse e prospettare inusuali percorsi senza farsi imprigionare da binari definiti e rigidi che vincolano e impediscono divagazioni. Chi ha meno esperienza deve poter esprimere pensieri, inclinazioni, attitudini, limiti sentendosi libero, anche di sbagliare, con la consapevolezza di potersi correggere, migliorare e crescere; con la consapevolezza di essere componente importante, ma non esclusivo, della ricerca di un mondo migliore, per sé e per gli altri. Abbiate pietà di me, sto solo imparando a vivere. Un po’ come voialtri. Giro, scopro persone e visito luoghi cercando di capire come funzioni. Sempre più conscio, comunque, che l’esistenza

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non possa ridursi alla perenne ed estenuante attesa di un nuovo orgasmo.

Capire e crescere. Consapevoli dell’evoluzione che ciascuno compie. Anche gli adulti. Mettendo in cantiere la possibilità di sbagliare e la fatica che il vivere comporta, senza illusioni di collezionare soltanto effimere gioie. Condividere il senso e la condizione umana di perenne ricerca avvicina e chiede accoglienza e supporto e comprensione. Anche gli adulti sbagliano e cercano di capire come funziona: troppo spesso indicano modi per fare e risultati da ottenere. Troppo spesso vietano o negano percorsi perché sono sbagliati. Meglio sarebbe se, senza vergogna e pudori, raccontassero il loro viaggio e soprattutto gli errori commessi, la sofferenza, il disagio patiti. Entrare nella vita, in sintonia con l’esperienza vissuta crea solidarietà emozionali che insegnano e segnano più di mille divieti. Questo è un lavoro di accoglienza e confronto, di elaborazione e ascolto, di generosa creatività e rottura degli schemi. Ciascuno con le proprie risorse: chi ha un patrimonio di esperienze metta la capacità di sostenere a proseguire e a non scoraggiarsi davanti agli insuccessi; metta la fiducia nella riuscita, stimoli la costanza e trovi le parole giuste per non sentirsi soli, ma soprattutto non metta paletti, non indichi strade battute come inevitabili o giuste per definizione. Non proponga modelli, ricette, comportamenti consolidati ai quali adeguarsi, pena un approccio educativo inadeguato. Chi ha un patrimonio di esperienze faccia questo tenendo conto che quello dei giovani è un mondo straordinariamente ricco e vitale. Un mondo che non va letto con i soliti luoghi comuni: sono la speranza, sono il futuro, serve solo che lo capiscano. Fotografie, immagini e fatti possono portare a un’idea, o a un sorriso, o a sollievo inaspettato. Storie del passato possono essere d’ispirazione per l’avvenire. A patto che si continui a raccontarle.

La richiesta di confronto resta troppo spesso inascoltata. Ma è un bisogno vitale necessario alla crescita. Chiede di mettersi in gioco e di valorizzare le esperienze vissute come storie che avvicinano le generazioni.

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Ascoltare non significa sentire, non bastano le orecchie per farlo. L’ascolto avviene con altri sensi, anche con il sesto. Si può percepire uno stato d’animo, ascoltando. Si può leggere tra le righe, ascoltando. Si possono cogliere desideri, speranze e paure inespressi. Solo gli animi sensibili sanno ascoltare.

Tra i giovani, le ricchezze ci sono. Bisogna saperle intuire se sono nascoste, riconoscere se camuffate e bisogna farle crescere. Questo richiede di disporre di tre condizioni imprescindibili: linguaggi comuni per capire e farsi capire; condizioni minime per non partire perdenti; il traino di un sogno su cui decollare. Coltivare queste tre condizioni è il compito forse più delicato e di responsabilità del mondo degli adulti che devono da un lato, saper riconoscere la propria limitatezza nei confronti della complessità di un mondo che non possono più governare, controllare e a volte comprendere, e dall’altro, sapersi mettere a disposizione delle nuove generazioni per sorreggerle come tutori, con ciò che hanno appreso. Un difficile arbitraggio che richiede, oltre alla capacità di negoziare il giusto rapporto tra le parti, anche quella di dosare aiuto e responsabilità, concessione di credito e disponibilità al rendiconto, capacità di arginare, quando esuberanza o sconsideratezza debordano, e disponibilità a ricredersi, quando il nuovo sconvolge il “non più” e disvela il “non ancora”. […] le distanze sono più nella testa che nei chilometri e a volte basta voltare l’angolo per trovare la giusta misura tra te e il mondo.

Fiducia I giovani si fidano. Si fidano anche degli adulti, di quelli che percepiscono trasparenti e non subdolamente interessati a governarli, di quelli che sentono disponibili e rispettosi della loro ricerca di senso e di realizzarsi. I giovani sanno distinguere i legami affettivi familiari dai rapporti affettivi che nascono nelle relazioni educative, sono fiduciosi e non dubitano della buonafede. Avvertono la condivisa preoccupazione per la loro avventura, apprezzano il senso di protezione, sentono il coinvolgimento emotivo e l’amore. Ma capiscono che non basta; sperimentano nel quotidiano che non funziona, che

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lo schema sperimentato dai predecessori non può essere adottato come modello, come invece pensano e vorrebbero genitori o adulti in genere. Nella costruzione di una relazione vera serve la fiducia reciproca. Una fiducia costruita e verificata sul campo e fondata su un approccio rispettoso delle differenze. Una condizione, questa, che non è il risultato automatico della sola buona volontà. Per comprendere e creare vera prossimità bisogna entrare nella visione del mondo di chi ci sta di fronte, abbandonando idee precostituite e immaginando che sia possibile procedere su nuove rotte. Non smetto mai di osservare gli altri, mi accorgo delle loro vite come fossero dei treni che in un attimo ti sfrecciano accanto e condividono la tua strada anche se per poco. Colleziono attimi di vita vissuta tra il dialogo e l’ascolto, c’è sempre qualcosa di me che vedo riflesso in un incontro.

Se è vero che è necessario solcare altri mari è indispensabile disporre di nuove mappe e di nuove tecniche di navigazione. Mappe e tecniche che non si trovano, già confezionate, sul mercato delle buone idee. Mappe e tecniche che non sono generalizzabili, valide per tutte le stagioni. C’è bisogno di personalizzare i progetti, di seguirli lungo la strada, di misurarsi con la verità dei problemi che si incontrano e con la creatività delle soluzioni che si trovano. Solo così gli adulti sono credibili, se si fanno strumento per il viaggio da intraprendere senza la retorica del “una volta sì che le cose funzionavano”, se offrono prospettive d’analisi da considerare, se sostengono nell’intrapresa e frenano gli eccessi, se mettono a disposizione esperienze e tempo, se avvertono dei rischi ma condividono gli entusiasmi; se decidono di esserci senza il fastidioso ritornello di riferimenti, belli in teoria e pessimi in pratica, che fatta la diagnosi lascia agli altri, ai giovani, la delusione di un’inadeguatezza che non si sa a chi imputare. Tradire il desiderio di relazioni profonde e confidenti e di condivisione significa indirizzare interessi e aspettative su altro, significa far ripiegare sul possesso o sul consumo, su ciò che è facilmente raggiungibile, a volte scontato e banale. Quando le persone non possono amare le persone cominciano a volere tante cose e finiscono amando i pomodori rossi e il basilico verde.

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La responsabilità dell’inadeguatezza forse è delle cattive ricette somministrate dagli adulti o forse alle cattive qualità dimostrate dai giovani. Probabilmente la verità sta nel mezzo e va ricercata nel gioco di squadra e non abbandonata nella solitudine dei singoli. La fiducia è un prodotto collettivo, fatto di consapevolezza che i problemi esistono, che sono gravi e che vanno affrontati assieme. Giovani e adulti. Una fiducia che non si conquista una volta per tutte, ma che si rinnova ad ogni contatto, ad ogni mutamento del mare o della rotta da seguire. Una fiducia che è asse portante, che si costruisce lentamente, che si consolida progredendo, che ramifica e si allarga a nuove opportunità di espressione e di conoscenza reciproca. Una fiducia che rafforza lo slancio e lo sguardo al mondo, che traspare e contagia. Fatta di esperienze costruttive di crescita, attente a realizzare il proprio sé tenendo conto dei vincoli in gioco. Una fiducia che dà entusiasmo e coraggio, operosità e voglia di fare, impegno e coinvolgimento. E chi possiede questi elementi ne diviene portatore, diventa propagatore di virus positivo, e il gruppo si allarga. Si allarga di sensibilità, di proposte, di differenze, di specialità, di punti di vista tutti accomunati dalla voglia, e dalla soddisfazione di esprimersi e di esserci. Ed è proprio questa vitale, essenziale, imprescindibile e portante fiducia che non può mai essere tradita. Tutto può essere messo in discussione, l’impianto, il metodo, le modalità espressive, le ipotesi e le tesi, gli assunti e le conclusioni, la rilevanza, la sostanza o la forma, l’approccio o il linguaggio, tutto ma non la certezza dell’affidamento. Tradire chi si fida e affida è eticamente riprovevole, è atto di subdola violenza dagli effetti drammatici non solo sul piano personale con la perdita di credibilità ma anche in generale, perché offre ai giovani ragioni concrete di disincanto, movente per crescere cinici e delusi da un mondo in cui non vale la pena credere.

Reciproche generazioni La vita è collezione di esperienze, belle, brutte, dolorose, gratificanti, esaltanti, umilianti. Chiunque abbia l’uso della ragione può stancarsi ad elencarle. Ciascuno vive le proprie esperienze con gli entusiasmi e le sofferenze del proprio cuore. Poter contare su un

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vero aiuto ed un sostegno disinteressato in certi momenti cambia non solo le giornate, ma la vita, il modo di approcciarla e di sceglierne i percorsi. Condividere obiettivi alti, anche se irraggiungibili, avvicina. Studiare percorsi, modalità, strumenti per renderli attuabili o almeno un po’ più vicini è un modo per conoscersi, comprendersi, imparare e aggiornarsi. È un modo per sostenere ipotesi e verificarne la tenuta, per immaginare vie diverse, per inventare nuovi approcci, per tracciare nuove prospettive e strategie. L’esperimento compiuto con UnderTrenta conferma la vitalità e lo straordinario potenziale nascosto in una generazione che vive il passaggio ad un’altra Era: ricca di sensibilità e carica di pensiero, necessita di terreno e di condizioni favorevoli per germogliare, svilupparsi, crescere e offrire i frutti di cui c’è estremo bisogno. Certo è che accostarsi ad un mondo complesso è difficile se gli strumenti in dotazione non sono adeguati, se chi ti indica la strada da intraprendere guarda l’orizzonte con lenti deformanti o che filtrano solo colori noti. Quando fin da piccola ti insegnano ad amare l’Arte, quando fin da piccola tuo padre ti mette dei pennelli in mano e ti regala spatoline per lavorare l’argilla, è solo Arte quella che respiri, senti e scorre. La passione ha urgenza di uscire, non può restare dentro, bussa, scalcia. L’unica cosa da fare è condividerla.

Fornire strumenti. Questo il compito del mondo adulto. Dare l’esempio di come si usano non dev’essere un vincolo e nemmeno il risultato dev’essere obiettivo prefissato. Possedere uno strumento è una ricchezza, ma il suo impiego è libertà. Libertà di esprimere se stessi, di cercare la via di realizzare il sogno, di cambiare prospettiva, di stravolgere l’utilizzo, se necessario, per scoprire e creare mondi nuovi. Appassionare all’uso degli strumenti, che siano parole o pennelli, libri o cacciavite è offrire cibo al seme che per natura è generoso e condivide il frutto con chi lo sa riconoscere. Il punto di vista degli altri prima di tutto. Immaginarselo, ancor prima che ascoltarlo e cercare di comprenderlo, è un essere affamati e assetati di storie e vite altrui. […], perché «ogni storia è una storia infinita» e da soli è impossibile comprenderne alcuna.

Parte Prima • Il problema non sono loro

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Solo la reciprocità può rendere fruttuoso il rapporto interpersonale, a prescindere dall’età. La reciprocità come vettore di conciliazione, come occasione e metodo per avvicinare le diversità, come ponte tra quello che era e quello che sarà. Reciproche generazioni non è solo un ambivalente gioco di parole: è invece, lo sforzo necessario per entrare in relazione e creare sintonie evolutive; è crescere insieme apprendendo alfabeti nuovi e nuove connessioni; è riconoscere capacità e talenti, desideri e aspirazioni, paure e fragilità nascoste; è aprire piste di lavoro partecipato che diano senso al passaggio di testimone e che sappiano sostenere la complessità, non solo esterna, elaborando e tessendo relazioni multiple che consentano di connettere personalità e approcci alla vita e alle cose senza soffrire della solitudine che la moltitudine crea. Reciproche generazioni è consapevolezza che i giovani sono in cambiamento insieme al mondo, un mondo che spesso non riconosciamo e che non riusciamo più a spiegare con le nostre vecchie categorie; è prendere atto che l’apprendimento richiede tempo, attenzione, pazienza. Reciproche generazioni è ritenersi tutti in formazione, immersi in un contesto che alla certezza contrappone la flessibilità, che alla realtà affianca il virtuale, che schioda principi antichi e consolidati come lo spazio e il tempo, che non ha più un solo credo, che sia ideologia o fede non importa, ma molteplici visioni in dialogo tra loro. In ogni nero si riflette il bianco, in ogni gioia c’è nascosto il dolore, per ogni tratto di neve che si scioglie c’è un po’ di mare; in ogni parte di me ci sono anche tutti i miei opposti.

Esplorare vie nuove e inventare percorsi inusuali in sicurezza è palestra di vita e potente occasione per costruire relazioni tra persone prima ancora che tra giovani e adulti. Costruire una fruttuosa e innovativa reciprocità tra generazioni richiede attenzione e cura, accoglienza e guida morbida ma risoluta per assolvere al ruolo educativo prima ancora che formativo. Richiede di saper riconoscere e accompagnare preziose pietre grezze che, per disvelare facce nascoste e luminose, richiedono mani esperte e provocatoriamente rispettose.

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Un nuovo valore da vivere insieme di Ugo Rossi*

Dei giovani si è detto tanto e troppe volte a sproposito. UnderTrenta è un esercizio, un laboratorio e un prodotto che rivelano una straordinaria pluralità di interessi e di capacità di conciliare pensiero e sensibilità, capacità di analisi e di progettazione, voglia di mettersi in gioco e di essere protagonisti non solo della propria vita personale ma anche del mondo. Dai più di duecento articoli emerge una ricchezza di potenziale che è uno spreco non cogliere e valorizzare per costruire un mondo che tutti vorremmo migliore. Chi ha responsabilità di governo deve avere capacità di visione della società futura cui aspirare, ma al tempo stesso deve saper leggere e cogliere le potenzialità del presente e sostenerle come elemento vitale per la costruzione di una società che non separa le generazioni. La conquista del presente è possibile se i giovani, nella loro ricca e variegata somma di soggettività, accettano l’eredità del passato, con il carico di cose buone e cattive, con il carico di ciò che è giusto e sbagliato. Se adottano l’eredità del passato con la consapevolezza di poterla e doverla rielaborare, ripulendo ed eliminando ciò che non va bene e deve essere cambiato, ma anche mantenendo, recuperando e valorizzando ciò che invece funziona. Un’eredità che non va né ignorata né subita, ma elaborata, tenendo conto che un’epoca è finita e che per aprirne un’altra è necessario attrezzarsi culturalmente e psichicamente ma senza necessariamente partire da zero. La carica ribelle che nel passato induceva i giovani a sfidare gli adulti per affermare le loro visioni alternative e per soddisfare le loro aspirazioni si è progressivamente affievolita. Oggi, per i giovani il nodo cruciale da sciogliere non è il conflitto con le generazioni precedenti. Più semplicemente, è una sorta di abbandono del campo, quasi per un istinto riflesso che li induce ad

*Presidente Provincia autonoma di Trento


estirpare da se stessi ogni riferimento a ciò che era. A ritenere che sia sufficiente ignorare, con sordo risentimento, un’eredità non voluta perché traditrice e dissipatrice. Un’eredità che serve solo per alimentare “materialmente” un non presente fatto di rimozione e di risposte illusorie. Questo porta i giovani a ritenere di essere senza eredità, di non aver ricevuto nulla, di rimproverare agli adulti di non aver dato quello che a loro spettava: una quota congrua di un mondo che era e che oggi non è più. Così il giovane rimane inceppato, prigioniero di questa incapacità di raccogliere l’eredità del passato, con i suoi dati negativi, ma anche con un potenziale di opportunità e di prospettive che ha solo bisogno di essere intercettato e valorizzato. Ritrovare il presente, per i giovani, è quindi un’operazione complessa di accettazione e di rielaborazione, sapendo che il futuro può riprendere senso e prospettiva solo se sorretto da un “qui e ora” solido nelle sue consapevolezze e nelle sue responsabilità. In definitiva, tre sono i passaggi da tenere presenti per aggredire quella “terra di nessuno” che inchioda i giovani in uno stato di eterna sospensione. Il primo riguarda gli adulti, che devono riaggiornare lo sguardo su presente e futuro, secondo principi interpretativi e modi di agire a misura di un mondo intimamente e profondamente mutato. Il secondo chiama in causa gli stessi giovani, che devono accettare l’eredità di un passato “difettoso”, anche in aspetti di evidente rilievo, ma ricco di quel sedimento vitale che solo il tempo può creare. L’ultimo riguarda entrambi, giovani e adulti. Non basta riaggiornare il libretto di istruzioni, per i primi, e accettare l’eredità, per i secondi. Serve declinare insieme la responsabilità di costruire il presente investendo il patrimonio di buone cose che ci vengono da ieri, la ricchezza di competenze, conoscenze, sensibilità, desideri, sogni, cautele e timori che possiamo mettere a disposizione oggi per costruire il futuro; un futuro che non è pensiero remoto ma è già qui. Ed è in questa impresa comune e condivisa, fatta anche di confronti e superamenti, che il passaggio del testimone tra generazioni assume senso vitale.

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PARTE SECONDA Pensieri in diretta



Attualità

Attuale è ciò che leggo nel momento in cui lo leggo

Conoscenza e Libertà. Le storie diventano notizie per poter riflettere sul loro significato, per interrogarsi su come cambia la società e perché, con l’obiettivo di affermare il primato della realtà in opposizione ad ogni forma di pregiudizio e discriminazione. Notizie di cronaca e attualità, italiana e internazionale, approfondite con competenza e passione per offrire una lettura della realtà osservata con gli occhi di chi vuole comprendere il mondo, considerando i confini delle mappe geografiche come orizzonti e non come limiti. Responsabilità e Partecipazione. Ogni articolo pubblicato è il punto di arrivo del lavoro dell’autore che cura personalmente la sua redazione, ma è anche il prodotto di un lavoro d’équipe che ricerca le fonti, verifica la loro qualità e attendibilità e che coopera alla stesura dei testi. Allo stesso tempo, la pubblicazione è il punto di partenza per un confronto con i lettori che partecipano attivamente, consapevolmente e responsabilmente all’arricchimento del giornale. Comunicazione e Semplicità. La realtà passa attraverso la comunicazione e i suoi codici: parole, immagini, video, grafici e link che contribuiscono alla costruzione di una piattaforma dinamica, attiva e originale. L’attualità di UnderTrenta combina la complessità dei fatti alla semplicità del linguaggio con cui vengono rappresentati e non obbedisce alla regola delle tre S che fissa in sesso, sangue e soldi i tre pilastri dell’informazione. Esiste la possibilità di realizzare un’alternativa alla filosofia del mainstream informativo, aprendo alle vite, anche e soprattutto colorate, che rendono l’esistenza degna di essere raccontata.


La generazione che non c’è di Nicola Andreatta

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a nostra generazione non esiste. O meglio, esiste solo in negativo: noi siamo quelli che “non avranno un lavoro sicuro”, quelli che “non potranno metter su famiglia tanto presto”, quelli che “non arriveranno alla pensione”, quelli che “il lavoro non devono trovarlo, ma crearselo”. Insomma, siamo quelli che “non devono essere troppo choosy”. La nostra generazione non deve essere troppo schizzinosa. Ma quale generazione? Non siamo né carne né pesce. Siamo quelli nati dopo gli yuppies ma prima dei nativi digitali, praticamente a metà tra la Milano da bere e i Pokemon. Siamo un’indefinita propaggine di quella che i Timoria definivano «generazione senza vento», un prolungamento di quella progenie che a sua volta è nata all’ombra degli anni Sessanta e Settanta: viviamo romanticamente aggrappati ai sogni altrui, proiettati verso un futuro incerto. Ma purtroppo non sono solo i sogni di chi ci ha preceduto a pesare come un masso sul nostro cammino: sono le loro scelte errate, le loro politiche tutt’altro che lungimiranti, a rendere ancora più tortuosa la nostra strada. Siamo cresciuti convinti di poter far ancora di più di quelli che ci hanno preceduto, seguendo modelli oggi improponibili, persuasi di poter seguire a nostra volta quel trend positivo che da decenni ha accompagnato il nostro continente. Ma abbiamo preso un abbaglio, e adesso ci ritroviamo immobilizzati in cima alla nostra scomoda iperformazione, bloccati da una crisi socio-economica che sta pian piano sfociando in una ancor più devastante crisi esistenziale. E allora non ci resta che dare un taglio al passato, tranciare quel cordone ombelicale che ancora ci tiene vincolati agli anni del boom, e darci una definizione, reinventarci. Reinventarsi vuol dire mettersi definitivamente in gioco, consapevoli di vivere in un momento storico durante il quale l’unico errore è restare immobili. Inutile piangere sul latte versato (da altri): piantiamola di pensare alle quaranta ore settimanali, allo stesso posto sicuro per tutta la vita, alla strada più facile. Iniziamo a pensare come se questo presente fosse nostro. Non ci sono soluzioni pronte, anzi. Ma smettere di vedere il presente con gli occhi di chi guarda al passato è già un inizio, perché se la generazione di Omar Pedrini era senza vento, allora possiamo dire che oggi, beh, non c’è nemmeno un filo di brezza. Ergo, bisogna spingere come i tori. Perché? Per non ritrovarsi, tra quarant’anni, a ripetere le parole di Giorgio Gaber: «la mia generazione ha perso».

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Morbo giovanile di Gianni Paris

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on passa giorno in cui non si senta asserire che i giovani sono distratti e indolenti. Spesso ci si imbatte addirittura in commenti ben più feroci e le parole di Vittorio Sgarbi, pronunciate anni fa ma frequentemente riproposte, tornano alla mente più vive che mai: «I giovani galleggiano come degli stronzi e non hanno una sola idea e si drogano tutti». Malgrado sia necessario diffidare dell’attendibilità di una valutazione così radicale, è altrettanto deleterio, però, chiudere gli occhi dinanzi ad un’affermazione tanto colorita da apparire banale. Sono tanti i casi in cui i giovani si sono resi, ahimè, protagonisti di atti estremi dagli esiti infausti; anche se, generalmente, l’indice accusatore viene rivolto a quelle turbe di ragazzini sfiduciati, che vagolano come zombie, emotivamente aridi, sentimentalmente analfabeti, incapaci di scindere il bene dal male. Secondo l’Istat, a febbraio 2013, la disoccupazione giovanile nazionale è del 37,8%. Dato catastrofico che, oltre a causarci un ragionevole intirizzimento di pelle, dovrebbe permetterci di capire il dramma che questi poveri esserini, rigurgitati dalle scuole e scaraventati nel pantano del mondo del lavoro, devono vivere. Piccoli adulti costretti ad affrontare una fase di vita già di per sé foriera di difficoltà psicologiche e sconvolgimenti fisici e non certo addolcita dall’attuale, disarmante e precaria, situazione politico-economica. Diviene facile farsi corrompere dal pessimismo e lasciarsi andare in valutazioni affrettate e sommarie. Poi, però, se ci si guarda attorno, si possono scoprire tante piccole, e non certo rare, eccezioni. Sono, per esempio, decine di migliaia i ragazzi che dal 2001, anno in cui il Servizio Civile Nazionale è diventato un Servizio volontario, hanno scelto di impegnare un periodo della propria vita in un percorso di formazione nei settori dell’assistenza, del patrimonio artistico, della cooperazione e dell’educazione. Nel solo anno 2011 sono stati 20.157 i posti messi a bando e più di 86.000 le domande presentate. Ragazzi, spesso laureati, indotti ad optare per questa soluzione pur di mettere in gioco le abilità apprese in anni di studio e che, altrimenti, difficilmente potrebbero esprimere. Trenta ore di lavoro alla settimana a fronte di un rimborso spese di poco più di 400 euro al mese. C’è una gioventù che investe, che non galleggia. Che, partendo dal basso, spera di ascendere la piramide. Che sogna.

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Alla ricerca del punto perduto di Luisa Gissi

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orse ho scelto un titolo un po’ troppo altisonante per parlare di qualcosa di piccolo come un punto. Chissà fino a che punto arriveremo. Chissà quale può essere il nostro punto d’appoggio. Chissà da quale punto ripartiremo. Sono solo alcune delle infinite domande possibili a proposito di punti. Siamo una generazione incerta, fino a che punto così profondamente differente dalle precedenti probabilmente non potremo dirlo mai. Quanto differente da se stessa, nemmeno. Siamo pieni di punti: interrogativi, soprattutto, ma non solo… Per non parlare di quelli di sospensione, sembra che facciano a gara a rincorrersi uno dietro l’altro, con una certa costanza. Mentre i punti esclamativi ci urlano addosso. Da che punto bisogna iniziare per cercare una soluzione? Ammesso e non concesso che ce ne sia una unica e definitiva, forse bisognerebbe proprio partire dal restituire il valore giusto ai punti che ci circondano. Qualcuno ha detto una volta che può esser sufficiente un punto d’appoggio per sollevare il mondo. Immaginate un mondo in cui il punto esclamativo comporta coraggio ma non sfora nella rabbia delle urla. In cui il punto interrogativo non è il segno di una crisi, ma il lecito dubbio che accompagna ogni scelta. Immaginate un mondo in cui i puntini di sospensione siano la preparazione ad un letto di bellezza, un po’ gli assomigliano… La forza di un precario è la forza di chi ad ogni punto ha la possibilità di andare a capo. Di chi sceglie di andare a capo. Punto e a capo. La gioia del cominciamento, il nostro punto di leva.

Generazione under 30 di Francesca Bottari

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uono e voce si armonizzano l’un l’altro come lungo e corto a vicenda si completano. Ricorro a questi antichi aforismi cinesi per esprimere la pienezza del susseguirsi di eventi – positivi e negativi – che eguaglia ogni generazione, come del resto ogni cosa in questo mondo. Un cerchio pieno che coinvolge quattro generazioni dal Novecento ad oggi, ma diviso in più parti, dove le differenze si percepiscono proprio perché

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«tutti sanno che il facile è facile e da ciò riconoscono il difficile». È solito però soppesare solo le difficoltà e non cogliere la semplicità – o il lato speranzoso – che ogni epoca porta in sé. La generazione under trenta si riferisce alla gioventù di oggi, quel presente italiano ed europeo contenitore di fenomeni come crisi, spostamenti intercontinentali, curriculum vitae, comunicazioni 2.0 e disoccupazione. Un’epoca dove il mondo guarda all’Europa come il vecchio dei continenti e dove i giovani che vi vivono sembrano essere privi di speranza. Come insegna il premio Nobel per la Pace Dalai Lama ci sono due risposte alla sofferenza: «ignorarla o guardarla in faccia e penetrarla». Un invito illuminante per ogni undertrenta che sta perdendo l’augurio di vivere una vita serena a casa propria. Ognuno può osservare la realtà che ha davanti, entrarvici e grazie alla fortuna di far parte della generazione degli spostamenti intercontinentali, può decidere di mettersi in viaggio. Lo può fare leggendo, avvicinandosi ai coetanei stranieri o prendendo un aereo, per confrontarsi con culture diverse ed arricchire il proprio giardino, inaridito dall’errato pensiero che «oggi sia più difficile di qualsiasi altro giorno». Nonostante il momento – altro se non l’ennesimo foglio della storia – si può scegliere di vivere un presente libero da insegnamenti passati che si ritengono nocivi per il nostro oggi o domani. Ingarbugliati nell’insegnamento per cui l’agire di ognuno dev’essere perpetuato da un interesse economico – privando ogni altro tipo di evoluzione –, è necessario spogliarsi dalle paure del muoversi diversamente da convinzioni forse vere un tempo, ma oggi non più, e alimentare così il fuoco che anima l’antitesi della crisi, l’opportunità. In una società dove l’individuo si ammala e di crisi perisce ripetere gli stessi progetti porta ad inevitabili conflitti, sia interiori che sociali. Arrendersi ed ammettere la propria fragilità davanti ad idee che si pensa possano essere sbagliate non è errato. Così facendo si dimostra la propria debolezza che – diversamente da quanto insegnatoci – è la forza necessaria per raggiungere quella flessibilità che permette ad ognuno di evolversi, e di conseguenza rafforzarsi per rinnovare ciò che di ammalato sta distruggendo la propria comunità. Se si riesce a cambiare, dunque a mettere a nudo le proprie idee anche se apparentemente fragili, si può rendere perfetta ogni cosa, anche la crisi che sta investendo l’epoca che ospita la generazione under 30 e quella avvenire.

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La Danimarca ci sorpassa in bici di Elena Scortecci

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ono ormai note le immagini dei parlamentari danesi che si spostano in bicicletta, ma un’intera autostrada trafficata solo dal mezzo a due ruote sembra un’utopia. Invece esiste, lunga circa 20 km, da Copenaghen ad Albertslund. A tutti gli effetti una Highway con illuminazione potenziata, stazioni di manutenzione con pompe per le gomme, corsie, pulitura giornaliera e anche cestini inclinati per non doversi fermare. In uno Stato che è secondo al mondo per uso di bicicletta (dopo l’Olanda), si investe in un progetto iniziato in aprile 2012 e che si espanderà ancora, copiato da Germania e Gran Bretagna. La possibilità di spostarsi senza costi e con un guadagno per la salute ha fatto aumentare il numero di ciclisti danesi, che sono soprattutto pendolari e si muovono di pochi chilometri per raggiungere università o posti di lavoro. Sarà possibile, in un futuro vicino, portare anche qui – e nel resto d’Europa – le bici-strade? Per i danesi è semplice, basta seguire i cinque comandamenti del Karma Campaign: essere educati, segnalare le manovre, mantenere la destra, sorpassare con attenzione, usare il campanello. In Danimarca, dove le biciclette sono più numerose delle auto, non c’è tregua per la ricerca del benessere; i responsabili del progetto sanno di aver fatto tanto ma vogliono aumentare i km percorribili, migliorare i servizi e soprattutto vedere sempre più volti spensierati in bici. E se non credete ai sorrisi, credete ai numeri: minor emissione di CO2, minore spesa per l’assistenza sanitaria, meno kg sulle gambe. Un sogno diventato realtà.

Esseri viventi che non sanno più vivere di Gianni Paris

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n Cina, Interviste prima dell’esecuzione è un reality show nel quale, tra singhiozzi soffocati e deliri urlati, vengono interpellati i condannati a morte a pochi minuti dalla pena capitale. In Francia, Gerald Babin muore in seguito a tre arresti cardiaci nel corso della prima puntata di Koh-Lanta, una sorta di Isola dei famosi dove i concorrenti devono lottare per sopravvivere in mezzo al nulla. In Italia, un plastico, ricolmo di particolari e fedele fino al più insignificante dettaglio, riproduce in miniatura la stanza in cui si è consumato il delitto, mentre un’arena, composta da neuropsichiatri infantili, sociologi e filosofi avvezzi allo show, sforna interpretazioni che fomentano l’incertezza, aizzano la folla e tengono ben alto lo share. A migliaia di chilometri di distanza, uomini e donne, operai ed impiegati, giovani e adulti, gente comune volontariamente incatenata alla propria poltrona

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di casa, aggrappata a quella scatola ultrapiatta che ogni sera trasmette scene di vita “reale” da tutto il mondo. A trattenerli, anelanti e smaniosi, la voglia di conoscere, la brama di capire, l’insopprimibile spinta ad addentrarsi nelle cloache della dignità umana. Le immagini catturano, le crudeltà avvincono, i patemi degli altri ci ricordano, laddove servisse, che siamo ancora vivi, in quest’era florida, rigogliosa, lussuriosa. Gli snack e le bibite gassate di una soporifera serata infrasettimanale cozzano contro un muro di grida e di sofferenze. Reali o simulate, poco importa. Ciò che conta è l’intrattenimento. Perché spendersi in riflessioni quando si può propendere per il buono o il cattivo premendo semplicemente il tasto di un telecomando? Non è forse che si stia solo tentando, attraverso l’accumulo di sensazioni forti e triviali, di sopperire alla carenza di emozioni genuine, merci rare nell’epoca dell’abbondanza? Risulta difficile riscontrare differenze tra colui che appicca fuochi e colui che, addomesticato, braccia conserte e sguardo distratto, scrolla le spalle ed osserva la fuliggine posarsi su tutto.

Multitasking: siamo uomini o robot? di Elena Scortecci

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i solito le attività umane vengono applicate ai computer (fare calcoli, scrivere, ecc.), ma per il multitasking c’è stata un’inversione di marcia: nasce con le macchine e viene adottato dall’uomo moderno. È la proprietà del Sistema Operativo di compiere più processi contemporaneamente, che nell’uomo si traduce nel fare più cose allo stesso momento: scrivere un sms bevendo un caffè mentre parliamo con il barista e ascoltiamo la radio, tanto per fare un esempio. Molti studi neurologici affermano che, suddividendo la nostra mente in tante attività, il livello di attenzione per ognuna si scinde ed è basso, le compiamo in maniera distratta e anche la loro memoria sarà più labile (spesso non ricordiamo neppure di aver fatto qualcosa). Quindi, invece di risparmiare tempo – soprattutto al lavoro – lo perdiamo, per passare da un filo logico all’altro; senza contare – sostiene il consulente aziendale americano Dave Crenshaw – lo spreco di denaro per quelle ore lavorative in cui sembra di fare tutto ma, in realtà, non riusciamo a concludere niente. Studiosi di comportamento (Nick Chater, Warwick University) confermano che non è possibile fare realmente tre o più cose in simultanea, a meno che non si tratti di gesti automatici; il multitasking nasconde la capacità di passare velocemente da un gesto a un altro, ma non significa necessariamente essere più elastici, perché la concenAttualità

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trazione impiegata sarà minore – infatti quando dobbiamo davvero riflettere ci fermiamo, anche fisicamente. Il principio del multitasking, nato per gli oggetti inanimati, può però continuare ad essere sfruttato in modo consapevole. Lo hanno fatto in Italia due scuole di Suzzara (MN): dopo l’aumento degli studenti iscritti alcuni laboratori sono diventati aule per nuove classi e, durante le ore di ginnastica o di assenza, ritornano laboratori per le varie attività scolastiche. Come ottimizzare gli spazi e il tempo, senza sovraccaricare le menti.

Smart City Exhibition 2013 di Giulia Salucci

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a Copenaghen a Saragozza, da Chicago a Londra, dal Delaware a Fundão, passando per il Sud America: un viaggio tra le migliori esperienze internazionali di innovazione urbana e un’occasione unica per scoprire dove stanno andando le nostre città. Dopo il successo della prima edizione torna a Bologna, dal 16 al 18 ottobre, Smart City Exhibition 2013, la manifestazione promossa e organizzata da BolognaFiere e FORUM PA: l’unica in Italia interamente dedicata al tema delle città intelligenti. Un’occasione importante per la condivisione, la formazione e il networking tra i migliori progetti, anche grazie all’ampia prospettiva internazionale che riporterà Bologna ad essere per tre giorni la capitale europea delle Città intelligenti. L’evento vede come protagonisti professionisti, imprese innovative, personaggi politici e la stessa cittadinanza. Di altissimo profilo i relatori internazionali della manifestazione. Mercoledì 16 ottobre, durante il convegno inaugurale, Manel Sanromà, Direttore dell’Istituto di Informatica di Barcellona, ha presentato City Protocol, una comunità di persone, città, società, università e altre organizzazioni che sfrutta la conoscenza e l’esperienza di ciascuno per accelerare la trasformazione sostenibile delle città. Nel pomeriggio il professor Balducci, Prorettore Vicario del Politecnico di Milano, ha parlato di agenda urbana, richiesta fortemente dall’UE e volta alla definizione di una nuova politica ordinaria per le città. Interverrà via video anche il Commissario Europeo per la Politica Regionale e urbana Johannes Hahn. Giovedi 17 ottobre la giornata è iniziata con l’intervento del coordinatore della Conferenza latino-americana Juan Pablo Espinoza che ha introdotto il tema dell’agenda digitale, presentando il progetto di Quito e raccontandoci

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come si usano le tecnologie per migliorare la qualità della vita delle persone e per ridurre le disuguaglianze sociali. In seguito il guru dell’innovating democracy, Douglas Schuler, ha aperto il convegno Smart City umane e sostenibili: condivisione, collaborazione, innovazione comunitaria. Infine venerdì 18 si parlerà di finanziamenti per le smart city, tra gli ospiti, Nigel Jacob, co-fondatore di New Urban Mechanics: incubatore intelligente di progetti di Civic Innovation della municipalità di Boston, con l’idea che si diventa Smart City solo con la sperimentazione, il lavoro quotidiano sui progetti e la relazione costruttiva con i cittadini.

Pompei, 1934 anni dopo di Elena Scortecci

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ra l’estate del 79 d.C. (forse il 24 agosto) quando le quotidiane attività dei pompeiani furono interrotte da un forte boato e da un’improvvisa pioggia di cenere e lapilli che durò diverse ore. Il Vesuvio aveva eruttato, creando un fitto strato di polvere che ricoprì l’intera città di Pompei e altre aree limitrofe, formando un velo che le conservò per i posteri come un tesoro nascosto. Il forziere fu riaperto nel 1748 da Carlo di Borbone e pian piano vennero portati alla luce Ercolano, l’area dei Teatri, del Foro Triangolare e del Tempio di Iside. Uno dei periodi più prolifici per gli scavi fu durante la prima metà del Novecento, sotto la direzione di Spinazzola prima e di Maiuri poi, quando rinacquero la Lavanderia di Stephanus, la Casa del Moralista, la Palestra Grande, la Necropoli di Porta Nocera e molti altri siti famosi. Dopo questa fase sono continuati gli scavi in zone più limitate, anche grazie ai fondi stanziati, e nel 1997 l’Unesco ha dichiarato Pompei uno dei Patrimoni Mondiali dell’Umanità. Questo titolo, però, rischia oggi di essere revocato a causa delle inefficienze che si sono verificate negli ultimi anni: crolli di mura, poca cura nella preservazione di alcuni mosaici, mancanza di canali di drenaggio e conseguenti infiltrazioni d’acqua. Il tutto ha portato anche alla chiusura degli Scavi ai turisti a fine giugno di quest’anno e al conseguente ultimatum, da parte dell’Unesco, per indurre a intervenire. La data di scadenza è il 31 dicembre 2013 e il Governo italiano si è impegnato di recente a usare 50 milioni messi a disposizione dai fondi europei; stavolta, promettono Trigilia (Ministro per la Coesione territoriale) e Bray (Titolare dei Beni culturali e del Turismo), il denaro sarà ben speso, sia per aprire nuove zone al pubblico che per mantenere in buone condizioni quelle già esistenti. Non resta quindi che dare fiducia al Grande

Attualità

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Progetto Pompei, perché gli italiani e anche i turisti sono stanchi di doversi riparare la testa dai sassi che crollano e dalle promesse che sfumano. Pompei non può rimanere sotto la cenere.

La guerra, una questione di retorica di Nicola Andreatta

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n tempo per richiamare il popolo allo sforzo bellico bastava un bel cartellone dai colori accattivanti e con le parole giuste – «I want you for U.S. Army!» o «Britons want you!» – e il gioco era bell’e fatto. Ora che fortunatamente l’interventismo non va più di moda e che il patriottismo dei Paesi occidentali sonnecchia nel tepore della globalizzazione, la propaganda bellica deve scovare mezzi meno espliciti. Un esempio di questa nuova retorica ci arriva in questi giorni dall’amministrazione USA, la quale, volendo sintetizzare al massimo la tensione delle ultime settimane, voleva – vorrebbe – colpire la Siria per metter paura all’alleato Iran. Insomma, «parlare a nuora perché suocera intenda». Il caso retorico più vistoso è quello del Segretario di Stato Kerry, il quale in un’intervista ha esordito con una similitudine tra il Presidente siriano Assad e Hitler, manifestando così la necessità storica di un intervento. Il paragone cade però nel vuoto, poiché, stando alle dichiarazioni ufficiali della Casa Bianca, l’eventuale azione americana non avrebbe lo scopo di far cadere il regime di Assad, bensì “solamente” quello di neutralizzare il suo arsenale chimico, e poi tornarsene a casa. Come se un crudele dittatore senza la sua dose di gas nervino diventasse un docile agnellino. Sempre il segretario Kerry ha poi spiazzato il suo stesso entourage lasciandosi scappare, durante una successiva intervista, un’opzione pacifica, ovvero l’annullamento dell’intervento di fronte ad una consegna, da parte dell’esercito siriano, di ogni singola parte delle sue armi chimiche. Poco dopo questa dichiarazione un portavoce del Dipartimento di Stato statunitense è corso ai ripari affermando come Kerry abbia posto «un argomento retorico riguardo l’impossibilità e l’improbabilità che Assad consegni le armi chimiche». Pura retorica, per l’appunto, della quale però la Russia si è repentinamente impadronita trasformandola in una proposta ufficiale già recapitata al tavolo di Assad. Sorge quindi spontanea una domanda: come hanno potuto gli Stati Uniti passare dall’immobilismo degli ultimi due anni ai preparativi dell’attacco senza neppure pensare ad una ben più banale trattativa diplomatica preventiva? La

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linea diplomatica filo-siriana di Putin non è certamente adorna di ramoscelli d’ulivo, ma potrebbe comunque funzionare. Ma allora perché Obama, il quale nell’ultimo discorso s’è definito «amante delle soluzioni pacifiche», non ha provato la via diplomatica prima di oliare il fucile? Perché usare fiumi di retorica per motivare un intervento armato e non impiegare invece la stessa “arte del persuadere” per un tentativo preliminare di riappacificazione? Non è da tutti, certo. Ma non ce lo si poteva aspettare da un Nobel per la Pace?

La Concordia della discordia. Tra partecipazione e voyerismo di Giuseppe Marino

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a tragedia. Il morto sotto gli occhi. L’amore, bramoso, per questi intrighi per cui c’è da aspettarsi un Salvo Sottile h24. Oggi il cadavere Costa Concordia comincia la sua faticosa impresa per riacquistare una posizione verticale e incamminarsi, lentamente, verso uno dei porti (Palermo e Piombino in pole position) che si stanno contendendo il bottino, per smontarlo pezzo dopo pezzo. Intorno, il mondo che osserva, da un lato l’ingegno e il coraggio dei tecnici al lavoro, dall’altro l’ennesimo episodio della soap made in Italy. Telecamere, web tv, live, giornalisti arrivati anche dal Giappone. E viene in mente una scena da omicidio al sud, con il cadavere ricoperto da un telo bianco, i bambini in prima fila, le donne, i nonni. Le volanti, il silenzio e la tensione. Un cerchio di occhi che vuole esserci, nella tragedia, per poterlo raccontare. Mentre l’assassino (o gli assassini) sono lontani, invisibili, dimenticati. Dopo essere stati lapidati, in pubblica piazza, prima di ogni sentenza. Viene in mente chi è andato al Giglio per farsi fotografare col relitto inclinato sullo sfondo, una torre di Pisa dall’architettura di fine novecento. Un mostro enorme. E vengono in mente le dodici navi da crociera che il 21 settembre si aggireranno guardinghe nel porto di Venezia, dall’alto dei loro 30 e 60 metri. E tenteranno di sfiorare il campanile di San Marco. Inquinando. E vengono in mente i turisti che diranno di essere stati in Italia, a Venezia, senza aver camminato tra i vicoli, sui ponti. Senza essersi fermati a guardare le case colorate dei pescatori d’un tempo. Turisti mordi e fuggi, che dal Baltico faranno tappa nello Stivale per poi andare verso i Caraibi. Turisti che per qualche centinaio di euro e un cocktail con l’ombrellino sono disposti a fregarsene. Compagnie che non si fanno certo problemi a seguirli a ruota. Amministrazioni che…

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I pirati del XXI secolo di Elia Giovanaz

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pirati di oggi non sono armati di spade e cannoni, non solcano gli oceani, ma se ne restano comodi in casa davanti al loro computer. Ad essere violata è la proprietà intellettuale, a discapito del commercio legale. Ma guardiamoci bene negli occhi: a colui che è alla ricerca dei tesori odierni, film e canzoni, viene ormai più naturale “scaricarli” tramite Internet, anziché andare ad acquistare il CD o il DVD originale in negozio. E di sicuro non viene perseguitato dai sensi di colpa. O sbaglio? È un fenomeno complesso, figlio della grande corsa inarrestabile della tecnologia; e sicuramente molto difficile da arginare. Anche perché gli strumenti per reperire file audio e video tramite la rete sono ormai alla portata di tutti: bastano un minimo di competenze informatiche. Capita spesso di imbattersi in siti dove migliaia di persone condividono qualsiasi tipo di contenuto. Vero e proprio paradiso pirata è forse il Sud America, dove, secondo una ricerca fatta nel luglio 2012 dall’Agenzia Statunitense per il Commercio, Argentina, Cile e Venezuela sono i Paesi americani dove si calpesta di più il copyright. Qui la Legge è rimasta ancora all’epoca pre-digitale. Il risultato: il commercio illegale di film coinvolge circa 200 milioni di euro all’anno, cioè il doppio della cifra ricavata dalle vendite legali. C’è di che restare a bocca aperta!

Né domani né mai di Gianni Paris

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rima me l’hanno semplicemente annunciato, poi caldamente ribadito ed infine bofonchiato a denti stretti e con sguardo un poco irritato: «Di politica non si deve mai scrivere». Perché è rischioso, perché il ferro è ancora caldo e quindi facilmente modellabile. O più semplicemente perché ci si potrebbe scottare. Intanto, però, poco conta che a novecento chilometri da noi, un simpatico e paffuto signorotto, ridente e pacioccone (non troppo in questo caso) leader del partito Socialdemocratico tedesco, affermi che in Italia abbiano appena vinto due Clown. È possibile che solo pochi si siano soffermati a riflettere in profondità e la maggior parte non abbia pensato, invece, che dietro alla croce della medaglia possa celarsi pure la testa? Se diversi rappresentanti del più antico e radicato partito di uno degli Stati maggiormente solidi, consolidati e democratici

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d’Europa arrivano ad affermare una cosa del genere, è molto possibile che la loro opinione, per quanto possa apparire spocchiosa, irriverente e fuori luogo, si faccia portavoce di una percezione generalmente diffusa, oltre confine e anche, ammettiamolo, qui da noi. Ma dal Bel Paese, niente riflessioni, niente mea culpa, solo presagi catastrofici, sospetti di congiura, piagnistei alla «made in Italy». Chissà perché, quando ci sentiamo sott’assedio, l’unità nazionale torna in auge, come fosse un prodotto del mercato sensibile ai crolli e alle impennate, e chissà perché, solo in questi momenti, gli italiani arrivino a sentirsi tali, parte di un tutt’uno.

Silk Road: quando il pusher è online di Nicola Andreatta

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oss Ulbricht, in arte Dread Pirate Roberts, è stato arrestato. Non sapete di cosa si sta parlando? Molto meglio per voi: conoscere questo nome, fino a poche settimane fa, poteva significare solamente l’essere in una montagna di guai. Ross Ulbricht è un ventinovenne di San Francisco, ex ricercatore di Scienze dei materiali, promotore di numerose campagne no-profit. Oltre a ciò, Ulbricht è il più grande trafficante di droga che la rete abbia mai ospitato. Ma andiamo con ordine: ancora più interessante dell’artefice è il mezzo utilizzato per lo sporco mercato. Silk Road, ovvero via della seta, era un sito anonimo, una sorta di eBay dove era possibile comprare tutto quanto è posto oltre il limite del legale: droghe di ogni tipo, dalle pesanti alle leggere, armi, fuochi d’artificio e, perché no, anche qualche gioiello e opera d’arte. Ma per trovare questo limbo oscuro del web non era sufficiente cercare «silk road» nei motori di ricerca, e sta proprio qui il motivo della lunga fortuna del sito. Per accedere a Silk Road era necessario l’utilizzo di uno speciale browser a pagamento, Tor, che ha la caratteristica di schermare in toto l’identità degli utenti. Una volta effettuato l’accesso in Tor, dunque, si può penetrare nel sottobosco del web, in sentieri bui e anonimi, dove tutto sembra possibile. Ma come ogni boss che si rispetti, il pirata Ulbricht ad un certo punto della sua illegale carriera virtuale ha voluto sfidare apertamente le forze dell’ordine statunitensi: in un’intervista (anonima) rilasciata a Forbes poche settimane fa, il re degli spacciatori telematici aveva dichiarato candidamente che l’FBI non sarebbe mai riuscito a scovarlo. Ecco, prendete appunti: mai dire una cosa del genere, i federali s’arrabbiano, s’impuntano. Risultato, Dread Pirate Roberts è stato arrestato, accusato di traffico di droga e di riciclaggio di dena-

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ro; non solo, avrebbe anche commissionato l’omicidio di due uomini. Perché gli affari erano sì sul web, in un mondo virtuale, ma dietro agli account si nascondevano persone vere, e un tale traffico di droga, come la tv americana ci ha insegnato, non può avanzare senza lasciare alle proprie spalle dei fattacci di cronaca nera: si dice che un hacker avesse ricattato Ulbricht, minacciando di rivelare l’identità di migliaia di utenti; il boss telematico, per difendere il proprio impero, non avrebbe esitato ad assumere un sicario per eliminare la fuga di notizie. E pensare che fino a poche settimane fa la pirateria in rete era sinonimo di film in streaming e canzoni scaricate senza pagamenti o diritti d’autore. Ulbricht, attraverso una decina di click, poteva mandare a casa di chiunque qualsiasi cosa, dalle metanfetamine ad una Magnum 38. Altro che Breaking Bad.

A microfoni spenti di Giuseppe Marino

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microfoni spenti, bandiere dismesse, polemiche placate e serrande riaperte, dopo il 1° maggio la battaglia per il diritto al lavoro riprende la sua corsa ad ostacoli. Di lavoro si parla al lavoro, con gli amici, in famiglia, al bar. Al lavoro si pensa, sia quando manca sia quando c’è ma non soddisfa. Con il lavoro si vive, si sopravvive. Per il lavoro si studia, si viaggia, si rinuncia, si spera, si accettano compromessi, si suda, si muore. Dal lavoro si dipende, sempre. È per questo che i Padri Fondatori l’hanno impresso nel Primo dei 139 articoli della Costituzione Italiana. L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro. Il lavoro è il tema caldo su cui si giocano partite sociali e politiche: da un lato si fanno barricate in difesa della storica conquista dell’art. 18, un po’ impolverato e bistrattato; dall’altro si inneggia alla flessibilità estrema, chiave di successo del futuro economico di ogni dove. Intanto molti lavoratori continuano a guardare l’orologio in attesa che il loro turno finisca, per poter tornare a casa, per poter andare in palestra, per potersi abbandonare a un pisolino. E non perché il loro lavoro non gli piaccia, anzi. Molti amano ciò che fanno (o non ne sono propriamente schifati), però preferirebbero un po’ più di aria per vivere. E non solo più soldi. La vera rivoluzione è il lavoro per obiettivi. Arrivare in ufficio, in fabbrica, in azienda e sapere di avere tre traguardi da raggiungere nell’arco della giornata, per poi andare via: chi temporeggerebbe? Chi farebbe mille pause caffè, simu-

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lerebbe incontinenza cronica, fumerebbe otto pacchetti di sigarette o darebbe così tanta acqua alle piante da fargli credere di essere in piena tempesta tropicale? A nulla servirà riesumare vecchi miti né rincorrere nuove chimere liberiste. Il successo di un’impresa dipenderà dalla felicità di chi ci lavora dentro e se oggi tutto assomiglia un po’ (troppo) ai domiciliari, altro che nobilitarsi. Oggi molti luoghi di lavoro sono pessimi contenitori di persone e strangolatori di idee e il cinismo di alcuni capi, bramosi di possedere il tempo dei propri dipendenti più che interessati a ciò che producono, si traduce in pressione psicologica e stress. E alla fine un pugno di potere vale più di un sacco di diritti.

Il bacio che scuote il Marocco di Giuseppe Marino

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l 3 ottobre a Nador, un paesino al nord del Regno del Marocco, Mouhsin e Raja, quindici e quattordici anni, si baciano davanti al Liceo e a un loro amico sedicenne, Oussama, che li fotografa. Tornati a casa, caricano la loro foto su Facebook e qualche attimo dopo si ritrovano in un centro di detenzione minorile con l’accusa di “attentato al pudore”. Sabato scorso, quaranta persone si sono date appuntamento davanti al Parlamento di Rabat e, prima che spintoni e sedie volanti trasformassero il tutto in una gran bagarre, si sono unite in un bacio en plein air. Altri adolescenti, invece, hanno iniziato a riempire le loro bacheche del social network con foto di baci e carezze. Il Marocco è un Paese islamico e baciarsi in pubblico è vietato, perché «un semplice bacio può essere l’inizio di qualcos’altro», recita la coscienza popolare. «Questa gente è atea e agisce per colpire l’Islam», aggiunge un lanciatore di sedie. «L’Islam non c’entra, si tratta di oscurantismo medievale», ribattono dall’Organisation unie des droits de l’homme et des libertés publiques. Intanto, il 22 novembre il Paese ascolterà la sentenza sul caso; nel frattempo Mouhsin e Raja, provvisoriamente liberati, hanno portato alla ribalta nazionale e internazionale le contraddizioni di una società che viaggia a due velocità, tra il Maghreb e l’Europa.

Incontri nei mezzi pubblici di Gabriele Manachino

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ggi per tornare a casa ho dovuto usare la linea urbana del bus. Mi sono avvicinato alla fermata a ho chiesto a una ragazzina se sapesse a che ora sa-

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rebbe passato il bus della linea 1. La tipa, sui quattordici anni, che si atteggiava a donna del ghetto, mi ha risposto: «C’è, boh, credo passi fra poco…». Nell’attesa mi sono fermato lì di fianco e ho ascoltato, parlava ad un volume altissimo, il discorso che faceva ai suoi amici: «C’è, boh, ieri sono stata quasi sospesa; la prof mi ha detto «stai zitta», e io sapete che le ho risposto? «C’è, no, Lei stai zitta»». Precise parole. Sono rimasto talmente colpito dal macroscopico errore verbale che non mi sono accorto che arrivava il mio bus. La ragazza, prontamente, mi apostrofa: «Ahoo, varda che passa l’unooo»; io la guardo e le rispondo educatamente: «Grazie». Lei mi fissa per due secondi buoni, mentre mi allontano, e con un tono di voce misto fra lo stupore e la scontrosità, mi risponde: «Prego!». Al di là dell’errore verbale (che testimonia che forse questa ragazza è stata sospesa, per lo meno nelle ore di italiano, forse un po’ troppo…) la cosa che mi ha colpito di più è lo stupore che ha manifestato al mio atteggiamento educato. Ho come l’impressione che alcuni professori e alcuni genitori, talvolta, eccedano nel dire «Stai zitto/a». Non sarebbe forse più educativo insegnare che esistono i modi e i tempi (e non parlo solo di quelli verbali…) per esprimere tutto? Il fatto è che io sono convinto che alcuni grandi pensino che un ragazzo, un adolescente, non sia un essere umano completo: non meriti più di tanta attenzione, non meriti un «grazie», un «prego»; qualcuno che, insomma, dovrebbe solo stare zitto, non dare troppo fastidio. E invece a quell’età, ancora più che nelle altre, si è molto sensibili all’atteggiamento degli altri, soprattutto dei grandi: secondo me molti problemi della nostra cultura e delle nostre società si risolverebbero se insegnassimo ai ragazzi, con il buon esempio, ad ascoltare gli altri, a comprendere le ragioni degli altri, a soffrire con gli altri. P.S. Le linee urbane del bus di Vercelli sono in costante peggioramento. Un altro esempio di quanto i tagli al Pubblico colpiscano prima di tutto i più deboli, ossia i ragazzini che lo usano per andare a scuola; o meglio, quelli che non hanno nessuno che li viene a prendere con la macchina; quelli che, guarda a caso, scendono alla fermata delle case popolari.

Italiani al 45° posto: relativamente felici di Nicola Andreatta

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egli ultimi giorni si è fatto un gran parlare intorno ai risultati della classifica World Happiness Report 2013 stilata dall’ONU: Danimarca, Norvegia e Svizzera primeggiano sul podio degli Stati più felici al mondo, mentre noi del Bel Paese ci meritiamo un grigio 45° posto. Snocciolando un po’ di posizioni per dare un’idea complessiva della felicità terrestre, gli Stati Uniti

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campeggiano al 17° posto, la Germania al 26°, la Cina al 93°. Chiude il Togo, triste fanalino di coda al 156° posto. Una classifica di questo genere può dare luogo a disparate riflessioni. Ci si può interrogare sulla fondatezza dei risultati, stabiliti seguendo indici quali la salute, la corruzione, l’aspettativa di vita, la libertà di scelta… Ci si può legittimamente domandare a cosa servano simili ricerche, se non a ribadire ancora una volta che “i Paesi nordici sono un modello da seguire”; d’altro canto già la famosa risoluzione dell’Assemblea Generale dell’ONU del luglio 2011 esortava il mondo politico a lasciar di tanto in tanto in disparte i freddi fattori economici per concentrarsi su fattori più concretamente legati al benessere. Insomma, una rielaborazione dell’adagio (del benestante) secondo il quale «i soldi non fanno la felicità». I quotidiani italiani hanno letto questi dati come un tonfo del Bel Paese, sottolineando quanto la crisi economica abbia demolito la Felicità Interna di Stati come Italia, Spagna, Portogallo e Grecia. Certo, non è un bel risultato, ma è del tutto preferibile uno Stato conscio della propria inadeguatezza finanziaria rispetto ad un Paese dei balocchi in cui la crisi viene nascosta sotto il tappeto, tanto “i ristoranti sono pieni”. Avere stampato in faccia un sorriso a trentadue denti mentre la nave fa acqua, quello sì che sarebbe un ulteriore problema. Se si volesse poi leggere questa classifica della Felicità Mondiale con un occhio veramente matematico, i risultati non apparirebbero drastici quanto li si è voluti rappresentare: l’indice di felicità della sorrisona Danimarca è 7.6, quello dell’Italia è 6.0. Un bel divario, non c’è che dire, reso più triste dalla consapevolezza di poter essere un Paese al top, senza però riuscire ad esserlo veramente. Ma la tabella stilata dai ricercatori dell’ONU non si ferma certo al nostro 6.0 – una sufficienza tirata; scorrendo la classifica si arriva all’Egitto, al 130° posto con un indice pari al 4.2, alla Bulgaria, al 144° posto con un indice del 3.9, e poi più giù, fino al Togo, che chiude con un misero 2.9. Ecco, magari non stiamo benissimo, non possiamo certamente andare a saltellare al parco con le stelle filanti. Ma se vogliamo veramente dare a questa classifica della felicità una valenza scientifica, tristi non siamo (andatelo a chiedere ai 111 Paesi che sono dietro di noi).

L’informazione è una retta infinita di Pasquale Mormile

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e vicende delle migliaia di persone provenienti da svariati paesi che cercano disperatamente di raggiungere Lampedusa giungono a noi raccontate

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dai quotidiani, dalle televisioni, da internet. Ma quanto questo racconto è funzionale a trasformare un fatto in notizia? Qual è lo scopo che si pone colui che ci informa nel momento in cui deve/vuole raccontarci una storia, presumibilmente vera dando per scontato che chi scrive abbia verificato le fonti delle sue informazioni? Una domanda che è divenuta preoccupazione durante la crisi degli sbarchi che ha investito l’isola di Lampedusa nel 2011. Allora a sbarcare erano, in particolar modo, i tunisini in fuga dal loro paese oramai allo sbando dopo la deposizione di Ben Alì. In seguito vennero gli egiziani e i libici. Oggi è la volta dei siriani. In mezzo a loro una costante costituita dalle tante persone provenienti da quei stati della cosiddetta Africa Sub-sahariana, vale a dire Benin, Burkina Faso, Nigeria, Sierra Leone e altri. La seconda costante del racconto è lo scenario, Lampedusa, palcoscenico di un dramma umano che improvvisa sullo stesso canovaccio gli atti di una tragedia che hanno come capisaldi le parole: immigrati, clandestini, Bossi-Fini, lampedusani, Europa, sbarchi, emergenza, carrette del mare, morti, CIE, premio Nobel per dirne alcune. Il risultato di questa equazione è sempre la stessa notizia, vale a dire: 1) Lampedusa, isola dove sbarcano immigrati che vengono chiusi nei CIE in quanto clandestini perché così prevede la Bossi-Fini, a meno che non venga concesso loro lo status di rifugiato; 2) un’Europa che ha deciso di legarsi le mani tramite i trattati, usati come alibi per poter lamentarsi della crisi umanitaria senza poi far nulla; 3) sullo sfondo, i lampedusani usati dal governo italiano per lamentare il rischio del crollo dell’ordine sociale su tutto il territorio nazionale, salvo poi farsi belli quando c’è da chiedere l’assegnazione del premio Nobel per la pace all’isola e ai suoi abitanti per la grande generosità e umanità dimostrata in questi anni. Tutto ciò, tutta questa narrazione, è un infinite loop che alimenta un’opinione pubblica stabile e «stabilizzata» sul medesimo messaggio da diversi anni che svela quanto lo scopo del sistema dei principali mezzi d’informazione non sia tanto contribuire alla costruzione dell’opinione pubblica, ma di, letteralmente, controllarla a suo uso e consumo. Ecco perché si stanno affermando nuove forme di informazione partecipate che non si pongono l’obiettivo di creare un prodotto, ma di informare e basta e di creare opinione pubblica attraverso la socializzazione degli eventi, ponendosi quindi alla pari con chi cerca informazioni responsabilizzando questi ultimi a confrontarsi, a chiedere conto delle fonti, a discutere sull’utilità o meno di una data informazione.

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Questa orizzontalità pone altre sfide, prima tra tutte la qualità dei contenuti e l’indipendenza dalla folla di Le Bon, ma le sfide o vanno affrontate o ti superano portandosi dietro il resto del mondo.

A cinquant’anni dal Vajont di Valerio Clemente

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uecentosessanta milioni di metri cubi di roccia cascano nel lago dietro alla diga e sollevano un’onda di cinquanta milioni di metri cubi. Solo la metà scavalca di là della diga, solo venticinque milioni di metri cubi d’acqua. Ma è più che sufficiente a spazzare via dalla faccia della terra cinque paesi: Longarone, Pirago, Rivalta, Villanova, Faè. Duemila i morti. Sono le parole lucidamente drammatiche con cui Marco Paolini, nello spettacolo Il racconto del Vajont, prova a dare un’idea della tragedia abbattutasi alle 22.39 del 9 ottobre 1963 su alcuni piccoli comuni della valle omonima, completamente sradicati dalla furia delle acque. Ne seguì un processo, tre gradi di giudizio, condanne penali via via più ridotte e una sentenza di risarcimento arrivata in ritardo di trent’anni. Per di più ad oggi si ritiene assodato che l’incidente fosse ampiamente prevedibile; la fragilità di quel versante di montagna era nota. Quest’anno, in occasione del cinquantesimo anniversario, sono stati organizzati molti eventi di carattere divulgativo e scientifico per ricordare i sacrifici e le difficoltà vissute dall’intera valle, anche negli anni della ricostruzione, e per interrogarsi sull’attualità delle problematiche legate al disastro. Uno di questi, moderato dalla dottoressa Lucia Busatta, è stato organizzato presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Trento e promosso dall’associazione Alumni SGCE e dal gruppo Memoria e Diritto. All’incontro hanno partecipato la Professoressa Adriana Lotto, autrice del libro Quella del Vajont. Tina Merlin, una donna contro, Eugenio Caliceti, dottore di ricerca ed esperto di diritto ambientale della Facoltà di Giurisprudenza di Trento, e l’avvocato Nicola Canestrini del Foro di Rovereto, figlio di Sandro Canestrini, l’avvocato che difese le vittime durante il processo. Numerosi gli argomenti che, non solo dal punto di vista giuridico, rendono oggi ancora attuale la tragedia del ‘63, a partire dal ruolo della giornalista dell’Unità Tina Merlin, una delle prime voci a scagliarsi con forza contro l’opera e gli intrecci di interessi pubblici e privati, processata (e poi assolta) per aver diffuso con i suoi articoli «notizie false e tendenziose». Eugenio Caliceti ha affrontato un’analisi giuridica delle problematiche relative alle decisioni pubbliche in materia ambientale. Infine, Nicola Canestrini ha

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offerto una vivace e critica ricostruzione delle vicende processuali e delle questioni giuridiche rimaste insolute. Dopo tanti anni le acque si sono ritirate e il bosco è lentamente tornato a ricoprire le macerie; il cordoglio di una comunità e la speranza che tutto ciò possa non ripetersi rimangono intatti.

Mostra del cinema e Festival Filosofia di Nicola Andreatta

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n questi giorni molti occhi saranno puntati sull’Italia. Fortunatamente, questa volta non saranno gli sguardi di economisti bacchettoni a squadrare la nostra penisola, ma quelli ben più simpatici del mondo culturale: mercoledì 28 agosto è iniziata la 70a Mostra del Cinema di Venezia, e a metà settembre tornerà a Modena e dintorni il FestivalFilosofia. Il tema scelto per la kermesse emiliana è l’Eros, inteso come amore per il sapere. A sviscerare le mille sfaccettature dell’esperienza amorosa saranno pensatori di levatura internazionale come Bauman e Augé, ma anche nomi nostrani come Rodotà e Cacciari. La Mostra di Venezia non avrebbe invece di per sé una tematica centrale. Speculando un po’ sui bassi istinti, ci hanno però pensato i giornali italiani a procurargliene una, un parallelo pepato dell’eros scelto per il FestivalFilosofia: il porno-soft. Ed è così che, senza avvedersene, la Laguna sembra essere tornata tra le mani libertine del compianto cittadino Casanova. Del resto sono stati proprio alcuni dei film in scaletta, ancor prima di essere proiettati, ad inondare Venezia di luci rossastre (tanto da spingere alcuni osservatori a constatare come la Mostra fosse arrivata alla frutta). Primo fra tutti campeggia il documentario sull’indiscusso re del porno-soft, ovvero Tinto Brass, attore nei panni di se stesso in Istintobrass. Segue a ruota la pellicola The Canyons, in cui Lindsay Lohan – famosa per tutto fuorché per le sue capacità interpretative – recita al fianco del pornodivo James Deen, con l’intento di narrare la crisi del cinema contemporaneo attraverso un susseguirsi di scene vietate ai minori. La critica americana, però, sembra non aver gradito. A chiudere questo trittico hard arriva infine il regista coreano Kim Ki Duk (Leone d’oro l’anno scorso) con il morboso Moebius. Un’ultima pellicola osé avrebbe bussato alla porta della kermesse veneziana, ma unicamente per essere rifiutata: Nymphomaniac, ultima trasgressione di Lars Von Trier. In questo caso, a detta dello stesso regista, l’etichetta «soft» sarebbe stata davvero insufficiente (e chi ha visto lo “splatter” Antichrist potrà

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forse farsi un’idea di come sarà quest’ultimo lavoro). Resta solo da domandarsi quanto possa spingersi oltre la fame provocatoria di Lars Von Trier. Insomma, occhi puntati sull’Italia, un po’ su quell’amore della conoscenza proposto in Emilia, un po’ su quell’eros trasgressivo proiettato a Venezia – un eros che punta allo scandalo, al far parlar di sé. A difesa degli organizzatori della Mostra del Cinema, basti ricordare come persino Kubrick avrebbe voluto girare un porno-movie, convinto di poter toccare nodi estetici altrimenti impossibili da raggiungere. Questo sogno restò nel cassetto, e forse è meglio così: proprio nel romanzo dal quale Kubrick doveva trarre la sceneggiatura del proprio film a luci rosse si legge come «l’erotismo è una barriera quasi insormontabile che si erge tra cinema e letteratura». Provate a dirlo a Tinto Brass.

Quando il ridicolo fa notizia di Iris Delacroix

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l consueto “zapping fecebookiano” mi schiaffa in faccia 22 minuti e 37 secondi di un video. Mentre scrivo, la quota delle visualizzazioni è di 227.194, circa la popolazione di Reggio Emilia, infanti e anziani inclusi. Katia, Veronica, Raffaele, Gianluca, Rachele-con-la-K, marinano da anni in un anonimo URL di Youtube. Fotografi “professionisti”, attraverso video-clip (più o meno discutibili), ormai da qualche annetto traghettano giovani decadenti verso la maggiore età (da qui il nome «pre-diciottesimo» o «pre-18») cristallizzandoli su Youtube. Solo poche settimane fa, però, i suddetti filmati vengono battezzati dai primi commenti. Cos’è successo? Chi ha tolto questi giovanissimi dalla marinatura? Internet. Non inteso come un ente esterno da noi ma come prodotto di fitte e continue interazioni, come un luogo in cui gli individui, entrando in contatto, creano nuovi contenuti. Infatti sembra essere Facebook a covare e diffondere in maniera virale i video dei «pre-diciottesimi», attraverso condivisioni, passaparola e commenti più o meno sbeffeggianti (tra quali anche i miei). Fino a circa due settimane fa dei «pre-18» se ne sapeva poco o nulla, provate ora a googlare «prediciottesimo», avrete l’imbarazzo della scelta: ne parlano blog, riviste e quotidiani online. Su videorepubblica.it, tra gatti buffi e balene arenate si hanno due dei ventidue minuti di Federica, su lastampa.it ne scrivono addirittura un articolo, mentre Radio Deejay pensa a parodiare quella che alcuni giornalisti definiscono, drammatizzando, la “nuova tendenza giovanile”.

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Katia, Veronica, Raffaele, Gianluca, Rachele-con-la-K, diventano così i nuovi fenomeni “da baraccone”, si sprecano infatti gli articoli in cui vengono fotografati come il prodotto trash del momento. Sembra dunque superfluo e superato il ciarlare di ciccia che straborda e di senso dell’estetica. Possiamo invece chiederci se i nostri protagonisti avessero mai pensato ad un tale epilogo. Presumibilmente no, ma tant’è. Perché si sa, non è la prima volta che Internet attraverso le sue interconnessioni fagocita il ridicolo e lo risputa in notizia.

Uccidere con leggerezza di Giuseppe Marino

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uattrocchi, Nanetto, Il Tonto, Pannocchia, Polpetta, Battilocchio, Mortadella. E poi Pinturicchio, Caravaggio, Tintoretto, Il Breve e Il Grande. Piè veloce e El pibe de oro. I soprannomi hanno fatto la storia. Esistono da sempre e da sempre connotano pregi e difetti delle persone. Ne esaltano gli ingredienti che le rendono troppo saporite o del tutto insipide. I soprannomi si cuciono addosso, sono la maglia di lana che non ci si riesce a togliere nemmeno d’estate con 40 gradi all’ombra di un baobab. Spesso diventano un ottimo esercizio per fare autoironia; i più capaci riescono a trasformare il proprio tallone d’Achille in chiave del successo. FROCIO! Questo non è un soprannome: si chiama OMOFOBIA. E l’omofobia, in un paese in cui le femmine giocano con le bambole e le pentole, sognano l’abito bianco, cucinano manicaretti e si tengono per mano fino a una certa età, mentre i maschi hanno (o avevano) i soldatini e le macchinine, appiccicano le caccole sotto le sedie, sono maldestri e da adolescenti più ruttano più sono fighi, può fare danni. Da adolescenti i danni possono essere irreversibili, perché la reazione è sempre estrema. Se da bambini si ama incondizionatamente e da adulti si può scegliere la diplomazia e la moderazione, da adolescenti si odia con tutta la forza dell’intestino intrecciato, digrignano i denti e digrigna il fegato. Da adolescenti si odia e ci si odia al punto da togliersi la vita, senza il bisogno che qualcun altro si sporchi le mani di sangue. Il sito di IT GETS BETTER racconta di una lodevole iniziativa affinché la debolezza non prenda il sopravvento e la solitudine non sia l’ultima spinta dietro la schiena prima di finire nel burrone.

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It gets better, perché tutti gli adolescenti hanno il diritto di sentire le farfalle nello stomaco. It gets better, perché tutti gli adulti devono allontanare la paura di ciò che non conoscono e aiutare i loro figli a conoscere. It gets better, perché andrà sicuramente meglio. Quando nasciamo ci danno un tubetto di blu e uno di giallo. Ognuno di noi ne fa un verde unico e irripetibile. Rispettiamo i verdi.

Quando il freddo ci salva di Viola Di Vita

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iscaldamento dell’Oceano Artico, aumento delle piogge autunnali, passaggio di correnti gelide da Nord e subtropicali da Sud. Ecco un’anticipazione sul clima che dovremmo sopportare noi e i nostri successori di Nord America ed Europa se la Calotta Artica continuerà a sciogliersi. Per adesso – dicono gli esperti – la riduzione è di circa il 9% ogni 10 anni e, nonostante le variazioni annuali, l’andamento generale non promette bene. A essere colpito non sarà solo il clima: rischiano di cambiare flora e fauna delle aree limitrofe, pesca, agricoltura e perfino i trasporti, perché la rottura dei ghiacciai aprirà nuove strade marine. Il WEF (World Economic Forum) si occuperà del problema durante l’annuale Meeting di Davos-Klosters (Svizzera) nel gennaio 2014, che ha lo scopo di «sviluppare intuizioni, iniziative e azioni necessarie per rispondere alle sfide attuali ed emergenti» nel mondo. Inoltre dal 1996 è stato istituito un Concilio Artico ufficiale composto dalle comunità artiche indigene e otto membri fissi: Canada, Danimarca (incluse Groenlandia e Isole Faroe), Finlandia, Islanda, Norvegia, Federazione Russa, Svezia, USA. Si impegnano tutto l’anno per proteggere lo sviluppo ambientale dell’Artico, dove si affacciano. Tra le iniziative: ridurre i fattori inquinanti, aiutare gli abitanti del luogo a gestire il territorio, fare controlli periodici e garantire aiuto anche internazionale. Quest’estate, dopo un 2012 molto caldo, la zona artica ha toccato temperature più basse, ma in alcune aree la concentrazione di ghiaccio è minore del 70%, oltre alla questione dello spessore sempre più sottile. Per sensibilizzare al

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problema il 15 settembre si è svolto l’Ice Ride in vari Paesi d’Europa (in Italia a Bari, Catania, Milano, Napoli, Roma, Verona), organizzato da Greenpeace: una pedalata in maglietta bianca per ricordare il colore dei ghiacci e della purezza, in opposizione al nero del petrolio e delle sostanze emesse con le trivellazioni, che aumentano il riscaldamento della Calotta. Mentre ci lamentiamo delle mezze stagioni, un intero emisfero cerca di ripararci la testa.

Dalla costa opposta di Giulia Indorato

I

l 16 settembre 2013 il mondo intero aveva gli occhi puntati sull’Isola del Giglio e sulla nave da crociera tristemente famosa, sulla costa italiana opposta avveniva un piccolo miracolo. A Roseto degli Abruzzi (Teramo), dopo circa un secolo di totale assenza, sono comparse sulla spiaggia diciotto tartarughine marine. I bagnanti presenti sono rimasti sbalorditi dallo spettacolo inaspettato: sono emersi dalla sabbia esseri verdi e corazzati che hanno subito preso la via del mare. Anche il WWF è rimasto stupito: la deposizione delle uova e la successiva salvaguardia della zona sono sfuggite alla supervisione di tutti gli enti preposti. Madre Natura ha magistralmente protetto i preziosi nidi da ombrelloni e castelli di sabbia. Il giorno in cui l’Uomo gira una grande nave con italica destrezza, la Natura (senza alcun bombardamento mediatico) persevera nel far girare la vita (Ivana Spagna docet).

Che tempi

di Nicola Andreatta

È

un’esclamazione che si sente spesso, borbottata sommessamente dopo un’occhiata fugace alla prima pagina di un giornale: «Ah, che tempi!». Ma che tempi? Non sappiamo definire l’epoca in cui viviamo. Nell’anno 1000 nessuno si sognava di vivere in un età di transizione, in un oscuro Medioevo. Tutti quanti, in ogni tempo, abitiamo un calendario che non sappiamo nominare ‒ eccezion fatta per quell’uomo scimmia di Roy Lewis, oltremodo consapevole di ritrovarsi nel Pleistocene; ma non tutti sono acuti quanto quel cavernicolo (inventore del fuoco e persino dell’amore).

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Difficile dare un’etichetta ad un dato periodo storico partendo da un fatto, da una sensazione, se ci si vive dentro. Più facile semmai fare il contrario, come fece Verlaine: usare un’epoca passata per definire il proprio io presente. «Sono l’Impero alla fine della decadenza…». Questo notissimo paragone gli fu però possibile solo perché qualcuno, prima di lui e in termini meno lirici, aveva definito gli ultimi anni dell’Impero Romano come cadenti. Ma a definire quell’epoca non furono certamente i Romani che la vissero: quelli erano troppo presi a tener a bada i Barbari bianchi. Chi sa dire che tempi sono? I quotidiani descrivono svolte storiche tutte le settimane, ma sono miti fragili, rivoluzioni di carta straccia, illusioni di chi vorrebbe cambiar tutto attraverso la narrazione di mutamenti mai avvenuti. Si pensi alla politica, a quegli apriscatole che arruginiscono in Parlamento o a quei manifesti che tornano vent’anni dopo dall’oltretomba. Ma questi sono eventi talmente ripetitivi e sfumati da non lasciare il segno, non bastano a definire i nostri tempi. Allora bisogna allargare lo sguardo sul lungo periodo, e sì, qui c’è aria di crisi. Wikipedia se ne lava le mani e, senza metter etichette, apre una voce sotto la dicitura Crisi economica del 2008-2013 (evidentemente i regolamenti di Wikipedia non permettono il carattere ? come limite cronologico). E se Wikipedia non sa che dire, tanto vale lasciare l’onere agli storici, i quali, tra qualche decennio, affibbieranno all’attuale tracollo finanziario un nome fascinoso almeno quanto quello de La grande depressione del ’29 – etichetta che solo a sentirla fa tornare in mente fotografie ingiallite di folle protestanti davanti a banche e negozi. Ma anche noi, con la nostra pur anonima crisi, abbiamo le nostre belle fotografie di folle instabili accalcate contro le vetrine dei negozi, e ne avremo ancora di altrettanto belle: il 10 settembre esce il nuovo Iphone. Stay foolish…

Maccarone m’hai provocato di Iris Delacroix

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rippa al sugo 15 like, pizza prosciutto e funghi 23, tonnarelli cacio e pepe 27, carne in scatola su funghetti e carotine (in scatola pure loro) 7, verdura ripiena una quarantina circa ma mai quanti per i tortini plasticosi (alias cupcacke). Mentre cuciniamo, prima durante e dopo il pasto, il clic alla pietanza è rituale collettivo. Non è una novità, le “spennellate artistiche” di un tempo lasciano spazio alla fotografia che lascia spazio alla fotografia-con-telefonino ma

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il soggetto è sempre lo stesso: il cibo. Lepri avvitorcolate, nature morte adornate di fagiani appesi, pesci boccheggianti, cestelli con formaggi e pane, brocche colme di vino, cosa sono se non delle rappresentazioni di pietanze instagrammate dal tempo? Se l’Arcimboldo verdurizzò cristiani e una manciata di secoli fa differenti cibaglie veicolavano differenti ideologie (riguardanti il sociale e non solo), più recentemente con la Eat e la Pop Art la rappresentazione dell’alimento diviene simbolo del consumismo. Il cibo, così, attraverso l’arte figurativa rappresenta, di volta in volta simboli, usi, costumi e ideologie legate ad un determinato periodo storico, fino ad arrivare al Foodscapes (veri e propri paesaggi alimentari). Dunque pare fisiologico che la porchetta d’Ariccia adagiata in maniera provocante, le cicorie saltate e il riso bollito, sperimentando il proprio momento di gloria, diano vita al Foodstagram ovvero la tendenza di condividere sui social network foto di cibo. Ma quando la tendenza si trasfigura in ossessione? Nei locali d’Oltreoceano si vietano i flash al pasto come se fosse una tela del Caravaggio e gli specialisti in patologie alimentari iniziano ad interrogarsi. Nel recentissimo Food Fetish: Society’s Complicated Relationship with Food, la dottoressa V.H. Taylor afferma che la foto al cibo non è di per sé problematica – e ci mancherebbe anche! – ma può essere, per alcune persone che già presentano predisposizioni a problemi di peso, una marcia in più per poterli sviluppare. Le ipotetiche, fortunatamente, si sprecano. È da sottolineare che non vi è una correlazione diretta (differentemente da come si legge in alcuni blog e giornali online) tra foto ed eventuale sviluppo di patologie alimentari, bello o brutto che sia, lo scatto alla caciotta rimane, ora come ora, soprattutto un fenomeno di massa. L’unica certezza palpabile è che la rappresentazione visiva del cibo era e rimane uno dei principali pilastri attraverso il quale sia artisti che avventori, esprimendo il proprio ego, dipingono una cultura.

Di quale dei due ci vergogniamo? di Giuseppe Marino

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avide e Golia. Due nomi di fantasia dati ai protagonisti delle due storie in pasto alle cronache degli ultimi giorni. Davide è un diciassettenne gay che scrive una lettera «per gettare una pietra nello stagno della politica», affidando alle istituzioni il suo dolore per non riuscire a vivere un’adolescenza serena senza dover fare i conti con l’omofobia e chiedendo loro di agire; Golia

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è un sedicenne che, da vi(ri)le rappresentante della “categoria” etero, pensa di poter possedere una ragazzina della sua stessa età al punto che, al rifiuto di lei, si sente autorizzato a rispondere con una coltellata e un rogo barbaro, «mentre era ancora viva». La politica si vergogna di Davide: la legge per istituire il reato di omofobia rimbalza da anni nelle camere parlamentari e finisce sempre in qualche cassetto impolverato. E le cronache accumulano storie di suicidi di adolescenti che tra tutti i grovigli emotivi che quell’età porta con sé devono sopportare il fardello di un presunto “difetto di fabbricazione”. La politica si scandalizza quando Golia fa quel che fa, pur offrendo tutti i giorni ai giovani l’immagine dell’uomo che non deve chiedere mai e nulla, men che meno una donna. Loro si vergognano di Davide. Noi di quale dei due ci vergogniamo?

I figli di Dio nell’immondizia di Elena Scortecci

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andhi li definì Harijan (figli di Dio), ma da tutti erano e sono conosciuti come Paria (oppressi; intoccabili): si tratta dei migliaia di indiani considerati dall’intera società come rifiuti umani, degni solo di stare nello sporco. E non è una metafora. Infatti questi reietti non possono vivere che degli scarti delle caste più in alto della loro perché, secondo la tradizione induista, la condizione di Harijan è una punizione per aver compiuto atti crudeli nella vita precedente, quindi va accettata. Non si tratta di una metafora perché la loro occupazione giornaliera consiste nel toccare carcasse morte o raccogliere l’immondizia delle altre caste; ma non una raccolta differenziata come siamo abituati a vedere noi o un riciclo di carta, vetro, plastica: raccolgono gli scarti organici, il letame, la sporcizia delle latrine pubbliche e private, gli escrementi umani e animali. Gli Harijan vanno di casa in casa, senza guardare nessuno negli occhi, sperando di trovare, tra la spazzatura, qualche resto commestibile per sopravvivere e continuare a cercare fra i rifiuti. Se qualcuno si degna di guardarli sono subito riconosciuti per l’eccessiva magrezza e la sporcizia, che gli causano la maggior parte delle malattie. Però a nessuno è permesso toccarli, essendo considerati troppo impuri; dunque il loro sarebbe un compito naturale, perché chi appartiene a caste più alte non dovrebbe mai sporcarsi le mani con residui corporali.

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Nel corso degli anni si sono susseguite proposte di legge che impedissero a donne, bambini e uomini indiani di (soprav)vivere a questi livelli, forse per placare gli animi inorriditi degli occidentali, ma ancora, ogni giorno, i raccoglitori di immondizia continuano a “lavorare”. Sradicare una convinzione che fa parte della cultura non è facile, ma lasciarla continuare nel 2013 ci rende, tutti, dei Paria.

Morale e coscienza di Gianni Paris

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in dal giorno uno ci impartiscono la lezioncina sul rispetto reciproco e la pacifica convivenza. Bambini ammorbati da mamme, insegnanti e babysitter che, in coro, li invitano a non prevaricare su chi è più debole e li esortano a non fare agli altri ciò che non vogliono venga fatto a loro; maestranze di psicologi e pedagoghi forniscono spiegazioni circa gli atteggiamenti di protesta e di insubordinazione messi in atto da questi ribelli e spregiudicati giovani. Alla fine, molti di questi bimbi, approdati nel frattempo nell’età adulta, vengono efficacemente introdotti in quel sapiente assetto virtuoso che è la nostra civiltà odierna, diventando ottimi cittadini. Insomma, osservano i segnali stradali, pagano le tasse e rispettano la legge. Altri individui, invece, inspiegabilmente, quel senso di responsabilità non riescono a svilupparlo. Altrimenti, la cronaca non sarebbe infarcita di avvistamenti riguardanti presunti accattoni alla guida di Ferrari; furbi e scattanti “non vedenti” che, nell’affrontare dribbling ubriacanti in mezzo al traffico, esibiscono una disinvoltura inverosimile; timorosi negozianti col terrore che lo scontrino fiscale possa rivelarsi veicolo di orridi malefici. Tutte particolarità che mi hanno sempre affascinato e alle quali se ne aggiunge una tanto in voga negli ultimi tempi, e che ne è subdolamente intrecciata. Già dal 1957 in Italia vige, il D.P.R. 361/1957, rimasta ampiamente inapplicato, secondo il quale coloro che risultano vincolati con lo Stato per concessioni o autorizzazioni amministrative di notevole entità economica “sarebbero” ineleggibili. A parecchi Paesi del mondo appare sensazionale che in uno Stato democratico come l’Italia possa essersi manifestata a lungo una condizione così ambigua. Se è vero che il buon esempio è molto più significativo ed impattante di qualsiasi spot antievasione e campagna pubblicitaria inneggiante la legalità, come si può pretendere che i figli di un padre sbadato, che predica bene e razzola male, che non ambisce, in primo luogo, ad assurgere al ruolo di “demiurgo irreprensibile di coerenza”, crescano rispettosi delle regole? Con il culto della legalità?

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Venerdì 13: la sfiga globale di Giuseppe Marino

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ella mitologia scandinava c’erano 12 semidei e poi arrivò il tredicesimo, Loki, un misantropo che voleva fare fuori un mucchio di biondini strafighi. Nel mondo cristiano si pensa ai 13 presenti all’Ultima Cena di Cristo, e il tredicesimo era Giuda, quel burlone. Lo storico greco Diodoro Siculo (I secolo a.C.) riferisce che Filippo II (IV secolo a.C.), re di Macedonia e padre di Alessandro Magno, fu ucciso da una sua guardia del corpo dopo aver fatto mettere una propria statua accanto a quelle delle dodici divinità dell’Olimpo (la morte sarebbe stata la conseguenza di questo “sgarro” agli dèi). Pensa se si fosse fatto costruire in casa un vulcano artificiale che erutta e provoca un terremoto?! Per gli assiro-babilonesi il 12 era un numero sacro perché facilmente divisibile. Quindi il 13, che viene dopo il 12, avrebbe acquisito la fama di portasfortuna, a dimostrazione del loro amore per l’algebra. Il venerdì per i cristiani è il giorno nefasto in cui fu crocifisso Gesù Cristo. Il venerdì per i musulmani è il giorno nefasto in cui Adamo ed Eva mangiarono una succosa Golden del Trentino. L’ordine dei Templari cadde il 13 ottobre 1307, il venerdì nero di Wall Street del ’29 segnò la più grave crisi del secolo scorso, il disastro dell’Apollo 13, lanciato alle 13:13, mandò in fumo progetti e dollari. And so on. Ma in Italia tutto funziona al contrario. Anche la sfiga. Così il 13 è un numero fortunato e sacro (Sant’Antonio docet) e quando qualcuno ha un colpo di fortuna si dice che «ha fatto 13». E l’italica patata bollente passa al 17. Anagrammando il numero romano XVII viene fuori VIXI, cioè «io vissi», quindi ora… Alitalia, tra un fallimento e l’altro, un guasto e un ritardo cronico, ha pensato bene di occuparsi di sfiga e, mettendo d’accordo tutti, ha rimosso le file 13 e 17. Il presidente di Air France Jean Cyril Spinetta, nei periodi in cui si pensava all’acquisto della compagnia italiana, dichiarò che: «Per risolvere la crisi di Alitalia ci vorrebbe un esorcista». Quid pluris.

Finalmente a Trento: i dinosauri di Elia Giovanaz

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l Muse, il Museo delle Scienze di Trento, durante le 24 ore della sua inaugurazione, ha raccolto un entusiasmo unanime. Tra le varie attrazioni spicca per importanza e bellezza la sezione nel piano interrato, corrispondente al primo livello della scala evolutiva e dedicato agli

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animali preistorici, con gli scheletri di rettili marini (tra cui Ophtalmosaurus e Nothosaurus), rettili volanti (Pteranodon) e naturalmente dinosauri ‒ tra i quali il Plateosaurus e Dilophosaurus, ritenuto il probabile responsabile delle impronte rinvenute ai Lavini di Marco presso Rovereto. È vero: non si tratta di fossili originali, ma di copie in gesso, i cosiddetti calchi, provenienti da Stati Uniti, Cina, Russia e altri Paesi. Una collezione che ha un valore di decine di migliaia di euro. Purtroppo, a causa di questi calchi, qualcuno si è indignato! Evidentemente non tutti sanno che in Italia i fossili di dinosauri rinvenuti sono quasi inesistenti. Perfino nella collezione del Museo di Milano, che resta la più grande in Italia, gran parte degli scheletri sono dei calchi. C’è poco da storcere il naso, dunque, e non ci resta che apprezzare questo ingegnoso sistema, che permette di portare i dinosauri anche in zone più sfortunate dove non sono stati trovati fossili sufficienti. Così, anche questo nuovo Museo ci regala la possibilità di vedere più da vicino come sono i grandi rettili che abitavano la Terra milioni di anni fa: e non con le solite ricostruzioni computerizzate, tipiche dei documentari che ormai siamo abituati a vedere in Tv, ma con i ben più efficaci calchi di veri scheletri animali preistorici.

Tu non sei un bozzetto di Elena Scortecci

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u non sei un bozzetto. Dì no all’anoressia: questo lo slogan della Campagna dell’agenzia brasiliana di moda Star Models. Due immagini accostate: a sinistra lo sketch (= bozzetto, schizzo) di una donna, usato di solito dagli stilisti per creare i vestiti; a destra una modella reale, ritoccata con Photoshop per renderla uguale al bozzetto. Gli sketch, che sempre più si vedono nelle riviste anche al posto delle vere modelle, sembrano perfetti con le loro linee spigolose, stanno bene con qualsiasi vestito, ma dove trovano posto nella vita reale, fuori dal foglio? Se trasponessimo quelle forme in una persona, il risultato sarebbe una donna anoressica a livelli avanzati, che le persone si girerebbero a guardare non per l’abito ma per l’impressione agghiacciante che dà. Ogni modella skinny è come una pallottola che colpisce la mente di giovani donne normali, pronte a tutto per essere come loro. E l’aumento del numero di ragazze (e sempre più anche dei ragazzi) affette da anoressia o bulimia,

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fomentate da siti in cui si trovano consigli su come affrontare il digiuno e incitamenti a tenere duro per evitare il nemico cibo, ne è la prova. La campagna di Star Models fa capire quanto sia facile, attraverso un computer, cambiare le dimensioni di una persona; ma soprattutto mostra che i bozzetti non hanno il carattere e la vera bellezza delle curve, delle misure reali. Al massimo, possono fare la fine degli stickmen – i loro colleghi ancora più stilizzati – appesi, cioè, ad una corda, per dilettarci nei momenti di noia con L’impiccato. Ma le donne non possono essere né noiose né appese a un filo.

La ricerca sulle famiglie inaffidabili di Giuseppe Marino

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no studio della Joseph Myself Thinking University iniziato nel 1986 e condotto su circa 7 miliardi di individui, tra cui uomini e donne, bambini e anziani, neri, bianchi, gialli e anche qualche animale domestico, alcuni analizzati per via diretta, altri grazie a sofisticatissimi strumenti cibernetici, ha paragonato i diversi tipi di famiglia esistenti per capire in quale nucleo affettivo si cresca meglio. Nonostante l’italico divieto di considerare “famiglia” ogni entità consociativa che si allontani dall’immagine laica della casa con il “Mulino candido”, lo studio ha preso in considerazione mamme e papà con figlio unico, sposati o meno; mamme e papà con due o più figli; mamme e papà con figli e nonno con bastone che pascola per casa; mamma e papà con figli, nonno, bastone e accumulo di pelo con zampe e occhi che chiedono cibo; mamme single con figli; mamme separate con figli; papà separati e con assegni di mantenimento da versare; papà vedovi con figli; mamme e mamme con figli di precedenti unioni; mamme e mamme con figli propri; papà e papà di tutti i tipi e anche nonni con nipoti lasciati in affidamento da uteri e prostate poco responsabili. Lo studio ha analizzato le potenziali devianze che ogni famiglia fuori dai canoni può provocare nello sviluppo di un bambino, seguendo quest’ultimo dal primo vagito al compimento del 26° anno d’età. E i risultati sono scioccanti! Alcune categorie di famiglie compromettono notevolmente la crescita psicologica (e talvolta fisica) di un essere umano ed è necessario che i Legislatori prendano urgenti provvedimenti per arginare il rischio della proliferazione di tali unioni e scongiurino il pericolo dell’estinzione umana.

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Le abbiamo classificate come “famiglie ignoranti” o “soggetti ostili alla cultura e all’evoluzione sociale”. Per le prime si ritiene fondamentale una cura intensiva che racchiuda almeno un ripasso degli studi elementari, medi inferiori e superiori, da affiancare ad una lettura obbligatoria di testi letterari classici e moderni e alla visione di un repertorio cinematografico da selezionare. Fortemente bandita la televisione e i programmi d’intrattenimento, soprattutto pomeridiani. Per i secondi potrebbe non esserci una soluzione: internarli, punirli, costringerli ai lavori forzati o all’isolamento è un errore storico da non ripetere, ma una via d’uscita va trovata. Alla sensibilità e intelligenza del Legislatore il passo successivo.

Un panino al tonno che vale un posto di lavoro di Arianna Panzolato

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ssere pronti ad ogni evenienza, questo il consiglio per i cervelli in fuga desiderosi di trovare l’occupazione dei sogni oltreoceano. Anno 2012, Stati Uniti d’America: le grandi multinazionali ingaggiano gli head hunter più ostici per selezionare i candidati. Spiazzare è la parola d’ordine, lo rivela una ricerca pubblicata su cbsnews.com che elenca le 25 domande più insolite poste durante i colloqui di lavoro. Allenate corde vocali e fatevi amico qualche contadino canadese: la Dell, leader nella produzione informatica, vi chiederà la canzone che meglio rappresenta la vostra etica lavorativa mentre Page e Brin, fondatori di Google, saranno curiosi di sapere quante mucche pascolano in Canada. «Come si fa un panino al tonno?», la Astron, società di consulenza aziendale, si butta sulla gastronomia. «Riesci a dire Peter Pepper Picked a Pickled Pepper e vendere contemporaneamente una lavatrice?». Il candidato in esame avrà ben poco d’annoiarsi, colpa del sistema di recruiting americano che lo colpisce direttamente al cuore; nessuna freccia di cupido all’orizzonte piuttosto i quesiti taglienti di sagaci esaminatori. La parola heart racchiude le cinque qualità che il mercato del lavoro esige dalla risorsa umana: honesty (onestà), energy (energia), accountability (affidabilità), respect (rispetto) e teamwork (capacità di lavoro in team).

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Dal sacrificio dei corpi al mercimonio delle identità di Gianni Paris

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ue ragazzini, pantaloni griffati e scarpe da ginnastica, sfrecciano in sella alle loro lucenti biciclette, mentre un crocchio di visitatori indugia sul ponticello di legno che si affaccia su ciò che rimane di un Foro Romano. Nel bel mezzo di Oderzo, piccola città della provincia di Treviso, la guida turistica sta riproponendo per la millesima volta uno spicchio di storia già fin troppe volte ascoltato a scuola e in televisione, eppur mai completamente compreso. Nel fiume impetuoso di parole del cicerone attempato e loquace, un fatto singolare cattura l’attenzione. Nel 49 a.C. un gruppo di Opitergini (così vengono chiamati gli abitanti di questo luogo quieto e affascinante), alleati da tempo a Cesare, una volta catturati ed esortati a consegnarsi ai Cilici (vicini a Pompeo e quindi nemici di Cesare), preferirono suicidarsi piuttosto di doversi sottomettere al nemico. Questo manipolo di prodi decise di sacrificare la propria vita pur di non vedersi costretto a chinare il capo di fronte alla prepotenza di un esercito invasore, pur di salvaguardare i propri ideali. Sorge spontanea una strana sensazione, difficile da definire, ma non molto dissimile dall’invidia nei confronti di quell’esorbitante e genuino spirito di abnegazione e senso di appartenenza, verso il proprio credo, il proprio popolo, la propria storia, che certamente animava ognuno di quegli impavidi individui. Ed è sotto un cielo azzurro di inizio marzo, a circa duemila anni di distanza da quell’eroica ecatombe, che il gruppetto assiste al passaggio di questi due giovani, che sfrecciano accanto a loro parlottando in un mirabolante, e dalle antichissime radici, dialetto veneto. Un attimo dopo tutto è nuovamente riaffidato alla quiete, una quiete sommersa da altre migliaia di parole, tutte così sonoramente lontane e siderali. Un giovane membro di questo sparuto assembramento si appoggia alla recinzione di metallo, guarda giù e sente qualcosa di acuminato conficcarsi nello stomaco. Una lama di melanconia. Si sente come un vecchio che, alla soglia del passo ultimo, amareggiato e rammaricato, rimpiange di non aver mai amato.

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Attualizziamo i giovani di Alice Berlanda

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i troviamo in un momento storico in cui c’è un accumulo e una rincorsa alle competenze. Le giovani generazioni sono sempre più alla ricerca delle skills che il mondo del lavoro richiede; ognuno sente di dover tenere un piede in più scarpe, di relazionarsi il più possibile creando una rete personale importante e di sviluppare creatività e senso pratico. Bisogna saper fare un po’ di tutto ma anche specializzarsi il più possibile in qualcosa e molte volte non si ha l’opportunità di vedere il nostro bagaglio prendere forma. Dobbiamo porci la domanda preliminare del perché viaggiamo su una barca instabile con tanti remi che a volte ci porta a girare attorno in perpetuo e continuo movimento senza però approdare mai. Un pánta rhêi inarrestabile. Facciamo un paio di passi indietro e andiamo a trovare il buon vecchio Aristotele, poiché i più anziani hanno sempre qualcosa da insegnare. Ci parla della coppia potenza – atto per spiegare il movimento. Il Maestro greco inserisce una precisazione assai fondamentale per la realizzazione di queste categorie. Per passare dalla potenza all’atto è necessario e imprescindibile che vi sia già qualcosa in atto. Sono necessari dei fattori preesistenti che favoriscano e permettano di realizzare il processo di compimento. Facciamo un esempio: un seme è un albero in potenza; per divenire albero in atto c’è bisogno di condizioni favorevoli affinché il processo si possa realizzare, dal clima, al terreno alla pioggia. L’albero in tutta la sua bellezza è l’atto di cui parliamo. Questo dovrebbe portare ad una presa di coscienza o meglio di interesse da parte di chi è già in atto e si impegna a formare chi oggi è in potenza. Ma quello che sembra accadere è una situazione di stallo: chi è in potenza, che dovrebbe essere la motivazione d’interesse propulsiva verso la proiezione futura, sta diventando un’im-potenza. Come? Dalla mancanza nasce la possibilità (ci stanno insegnando), tutte le nostre skills, la creatività e la tanta voglia di fare è già atto di qualcosa, facciamoci carico di chi o cosa è ancora in potenza e concretizziamo la realizzazione. Parole semplici per un mondo complesso.

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Una favola moderna di Titti Germinario

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lice cammina nel Paese delle Meraviglie. È appena scesa da un barcone vecchio, sporco ed affollato. Cammina a piedi nudi sulle coste assolate della Sicilia, con i vestiti maleodoranti, impregnati di sudore e salsedine. Ha fatto un lungo viaggio sfidando la vita perché la morte, lei, l’ha già incontrata. L’uomo bianco spinge, tira, strappa, urla. «È tardi, è tardi, è tardi!» Alice ha paura. Non comprende quelle parole. Così procede in questa nuova terra folle, fidandosi dei sorrisi che la circondano. Si specchia in essi per trovare la libertà ma viene ghermita e portata sui marciapiedi. Alice è frastornata. Il suo corpo sferzato, corroso, percosso, sgretolato. Le luci delle auto sembrano occhi di gatti striati che esplodono nella notte, come le stelle che amava osservare nel cielo terso della propria terra. Alice ora è una brava bambina. Vestita per bene, pronta a dire sempre di sì, ubbidiente. Sfoggia vestiti eleganti e non fa domande. Ora è nel Paese delle Meraviglie e comincia la sua favola. C’era una volta…

Un Parlamento non parlante di Giuseppe Marino

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irca un anno fa, Il Sole 24 Ore scrisse nero su rosa e a caratteri cubitali un titolo che assomigliava più al «Torni a bordo, cazzo!», intimato al comandante Schettino, che a un pacato suggerimento di stampo economico. Quel titolo era «FATE PRESTO!» e, più che ai suoi lettori, era rivolto a una classe politica e dirigente che si stava avvitando su onanismi di partito, rischiando di trascinare lo stivale nel baratro. Sotterrata dallo spread e dai dati negativi di tutti i settori dell’economia, la Repubblica vedeva scomparire aziende e stipendi, registrava suicidi e colpi di testa, assisteva inerme al dramma psicologico che sempre accompagna una crisi economica. Da allora, un governo di tecnici ha provato a installare un guardrail sull’orlo del burrone, impedendoci di fatto di cadere di sotto, e ha “traghettato” con non poche difficoltà il paese verso nuove elezioni in cui nes-

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suno ha vinto e nessuno ha perso. All’urlo di quel «FATE PRESTO!» il tempo a disposizione sembrava veramente poco e ogni giorno si è rivelato prezioso per proporre (o imporre) decreti “lacrime e sangue”, chiedendo pazienza e scongiurando colpi di testa. E oggi? Su quel guardrail ci siamo affacciati e come su un belvedere siamo lì ad osservare. Lo stallo (o lo stagno) istituzionale ha pochi precedenti sui libri di storia recente, con un parlamento senza testa, ma con tante code, volti nuovi e facce già (fin troppo) viste, un Presidente della Repubblica temerario, un popolo che ha smesso di fare il tifo e a bocca aperta guarda la televisione in attesa di risposte. Mentre «il sole splendeva, non avendo altra alternativa, sul niente di nuovo», avrebbe detto Beckett.

La ricerca della felicità di Valentina Poli

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iù di tremila persone sono accorse l’11 aprile 2013 a Trento per assistere al discorso di Tenzin Gyatso, il XIV Dalai Lama, la maggiore autorità religiosa del buddhismo tibetano. L’incontro verteva sulla ricerca della felicità in tempi difficili, come quelli che stiamo vivendo; sembra assurdo che a svelare la ricetta sia un uomo in esilio da anni e costretto ad assistere impotente di fronte ai suoi connazionali che si danno fuoco per protesta. Dal 1959, anno dell’invasione del Tibet da parte della Repubblica Popolare Cinese e della conseguente fuga del Lama e della sua corte in India, il Dalai Lama è impegnato a supportare la resistenza nonviolenta nel Paese delle Nevi e a far conoscere al mondo intero la situazione drammatica che vive il popolo tibetano, minacciato dalla volontà del Governo cinese di renderlo parte integrante della Cina e di cancellare la sua peculiare cultura. Dal 2011 egli non è più capo del Governo tibetano in esilio, dopo le sue dimissioni a favore di un candidato eletto dal popolo. Compassione, dialogo, rispetto, conoscenza e consapevolezza: questi gli ingredienti per vivere una vita serena e lontana dalle emozioni negative che influiscono anche sulla salute fisica. Sua Santità ha riferito di alcuni esperimenti scientifici che dimostrano che un training meditativo sull’amore e sulla compassione rende non solo meno stressati, ma anche fisicamente più sani. L’Oceano di Saggezza (questa la traduzione della sua carica) spera in un cambiamento, in un mondo meno consumista e più attento ai bisogni degli altri; e che, dopo tutti i conflitti e il sangue versato nel secolo precedente, questo venga ricordato come il secolo del dialogo. Tutto è nelle mani dei giovani e

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anche lui, ormai anziano, dice di non poter fare più molto se non raccontare la sua esperienza e promuovere la causa del suo paese, nel tentativo di fermare l’ondata di auto-immolazioni che finora ha ucciso ben novanta tibetani. In questa situazione così drammatica colpisce la serenità di questo anziano signore e il suo messaggio che mira a migliorare il mondo intero e la nostra vita con delle formule semplici e all’apparenza banali; chissà che la felicità non stia proprio là. Tashi delek! (formula tibetana di augurio e saluto).

Quel dipinto astratto coreano di Francesca Bottari

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ome può uno Stato piccolo e fra i più poveri del mondo minacciare di distruggere la capitale dell’omonimo meridionale e per di più amico di Washington? Con quali strumenti la Corea del Nord può mettersi contro la potenza americana annunciandolo altresì al mainstreaming mondiale? Un angolo di mondo enigmatico, conteso da anni, dove le partite diplomatiche sono prive di risultati rassicuranti. Un luogo di cui si conosce il limite oltre il quale non si può avanzare nella scoperta e non cosa realmente accade oltre quel confine politico. Da un anno la partita diplomatica si sta inasprendo a forza di promesse non mantenute, svegliando persino il sonno del paziente alleato cinese, da cui dipende economicamente. Scrivere di cronaca significa altresì saper leggere la storia recente. Vale la pena quindi snocciolare qualche passaggio: nel 1945 l’occupazione nipponica della Corea volse al termine e dopo la divisione Nord-Sud a settentrione nacque un Paese filo-sovietico. I russi alleati decisero che Kim-II Sung doveva guidare il popolo. L’approccio filo-sovietico fu di breve durata, benché di supporto e tutt’oggi vicina al cuore nordico coreano, l’anima russa fu solo un’amante passeggera. L’amore vero sposò l’ideologia – unica nel suo genere – dell’autosufficienza Juche, affiancata negli anni da una forte militarizzazione. Da allora la successione al potere narra di una trilogia di autocrati Kim, oggi arrivata al capitolo del nipote, il “brillante compagno” Kim-Jong Un. Il giovane comandante non è totalmente pazzo ed è improbabile che in poche settimane si debba ristampare ogni mappamondo con altri e diversi confini. La Corea che si sta presentando dovrebbe far riflettere su di noi. Corea specchio, Corea laboratorio di rappresentazioni, Corea che ci mette dinanzi al nostro limite di leggere la realtà di fronte ad una minaccia globale.

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Perché farsi assalire dalla paura di Corea quando siamo i primi a non sapere di cosa si sta realmente parlando? Questa o quella Corea descritta e da pochi narrata è reale, è nostra immaginazione o semplicemente un immaginario che alimenta paure in cui noi ci riconosciamo? Con il termine Juche (simile a Giu-ce) si indica l’ideologia ufficiale della Repubblica Popolare Democratica di Corea, nonché il sistema politico su cui si basa. Significa letteralmente «corrente principale» o «corrente tradizionale», ma viene spesso reso come «autosufficienza».

I colpi ciechi di un giorno cupo di Gianni Paris

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ono le 11 e 40 di una mattinata domenicale di fine aprile. Una parte d’Italia è in attesa del derby di Torino che potrebbe far avvicinare ulteriormente la Juventus allo scudetto, un’altra è invece immersa nell’ozio e avvolta dal tepore primaverile di un nuvoloso giorno di festa. A Roma il nuovo Governo sta per giurare quando Luigi Preiti entra, in giacca e cravatta, in piazza Colonna, a pochi passi da Palazzo Chigi. L’uomo, armato, dopo qualche frase delirante fa partire sei colpi di pistola contro un cordone di sicurezza composto da carabinieri, centrandone due. Fortunatamente il bollettino finale parla di solo due feriti, anche se uno piuttosto gravemente. L’attentatore, subito bloccato, è un manovale quarantanovenne, attualmente disoccupato, separato dalla moglie, indebitato, che ha raggiunto la Capitale dalla Calabria in treno. Un uomo disperato e non uno squilibrato, hanno prontamente rimarcato diversi commentatori, appellandosi al fatto che non ci sarebbero diagnosi psichiatriche a suo carico. Il suo vero obiettivo erano i politici. Unanimi e contrite le reazioni dal mondo politico, accalorate e solidali le parole di tutti. Qualcuno accusa più o meno velatamente le frange più intransigenti, ree di aver alimentato le polemiche e incattivito gli animi; altri considerano il gesto alla stregua di un monito che dovrebbe costringere i politici ad aprire gli occhi.

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La vita scritta sulla pelle di Sara Scissi

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egni tribali, affari di galeotti e marinai, retaggio dell’incontro fra colonialisti e colonizzati che agli inizi del ’900 in Inghilterra diventano espressione di un esotismo raffinato da esibire nei salotti. L’ingresso nelle lingue europee del termine «tatuaggio» si deve al capitano J. Cook che, approdato a Tahiti nella seconda metà del ’700, nei suoi diari trascrisse nella forma tattow la parola onomatopeica tahitiana ta-tau, che riproduceva il suono di uno strumento a percussione, con il significato di «colpire, segnare» e quindi «marcare». Tattow successivamente si trasformò in tattoo. Dichiarazioni d’amore, punti di partenza o d’arrivo, spesso quello che non si riesce ad esprimere a parole. Fate, fiori, gnomi, farfalle, iniziali, volti, stelle. Vere e proprie opere d’arte. Dicono che sono tornati alla ribalta ma la verità è che non sono mai passati di moda. Per i tatuati più accaniti se inizi non finisci più. Con il rito del tatuaggio l’Uomo afferma la possibilità di fare del proprio corpo un corpo “ad arte”, passando dalla consapevolezza della creatura a quella di creatore. Oggi l’ultima tendenza made in Japan è esporre il marchio di aziende in cambio di denaro. Cartelloni pubblicitari viventi e permanenti. Dalla mistica di un’operazione che attinge dall’oscuro territorio della personale dimensione psicologica, spirituale e corporea, alla lucida contabilità delle strategie pubblicitarie e della mercificazione.

Per Agnese Borsellino di Pasquale Mormile

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ai vissuto per anni al fianco di tuo marito, nonostante la consapevolezza che, prima o poi, qualcuno te lo avrebbe strappato via. Quanto amore devi aver provato per riuscire a sopportare il peso di tanta paura? Per settimane hai dovuto sopportare che in TV venissero trasmesse e ritrasmesse le immagini di via d’Amelio a pochi minuti dall’attentato che uccise Paolo assieme ad Emanuela, Agostino, Vincenzo, Walter e Claudio. Quanto coraggio ti è servito per non cedere alla disperazione evocata dalla vista di quel luogo familiare schiantato da un’esplosione che lo ha reso irriconoscibile, incomprensibile? Eri a conoscenza del fatto che Paolo fu sacrificato nel nome di una trattativa segreta tra mafia e parti deviate dello Stato. Quanta dignità hai dovuto dimo-

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strare di fronte al tradimento di quelle persone che avrebbero dovuto proteggere tuo marito quando furono proprio loro a chiederne l’assassinio? Ora che te ne sei andata, Agnese, noi non temiamo più che non si possa conoscere la verità. Ciò che più ci sta a cuore è che le persone, soprattutto i più giovani, possano sapere che tu hai sconfitto la paura, la disperazione e il tradimento. Oggi, 9 maggio, cade l’anniversario degli omicidi di Peppino Impastato e Aldo Moro, uccisi da un’Italia che per mantenere “l’ordine” riteneva fosse normale e soprattutto “giusto” scendere a patti, trattare, con forme di potere concorrenti a quelle dello Stato. Una parte di quell’Italia, forse, è morta, anch’essa, il 6 maggio. Un giorno dopo di te. Che caso. Ora non mi piace pensare a buoni e cattivi, a diavoli e angeli, ma voglio credere che sia possibile scegliere. Che da una parte ci sei tu, Agnese, che raggiungi Paolo per ricordarci, attraverso l’esempio delle vostre vite, che è possibile avanzare l’idea di un’Italia per la quale non è normale e, soprattutto, giusto costruire «l’ordine» sull’accettazione e la legittimazione dell’ingiustizia e della violenza. Scegliere tra il 5 e il 6 maggio, ad esempio, è già un modo per scegliere l’Italia alla quale aspiro ed io, grazie a te Agnese, scelgo il 5 maggio.

Bandiere Blu: sorpresa Trentino di Giuseppe Marino

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envenuti nel Paese al contrario, dove i posti di montagna spiccano per le acque balneabili più limpide. Dal 1981, la FEE (Foundation for Environmental Education) assegna ai 60 Paesi che ne fanno parte le Bandiere Blu, riconoscimenti simbolici all’impegno delle amministrazioni locali sul tema ambientale legato alle coste marine e lacustri. E in Italia ogni anno si produce lo stesso paradosso: le regioni immerse quasi interamente nel Mediterraneo (Sardegna, Sicilia, Calabria e Puglia) e naturalmente predisposte a diventare cartoline da inviare ad amici e parenti finiscono in coda alla classifica, talvolta sorpassate da regioni in cui gli scorci balneabili sono altrettanto incantevoli, ma poco più grandi di una pozzanghera dopo la pioggia. L’anno scorso era la volta della Lombardia con Sirmione, quest’anno l’exploit del Trentino con Levico Terme. Il «caraibico» Piemonte con le sue 2 Bandiere Blu affianca quasi Calabria (3) e Sicilia (4). La Sardegna conquista 1 Bandiera in più dello scorso anno con Tortolì (CA) e sale a quota 7, la metà esatta

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dell’Abruzzo (14). In testa al podio la Liguria (20), seguita da Marche (18) e Toscana (17). La questione non è contendersi le Bandiere, visto che non c’è un numero totale di «drappi blu» da spartirsi, ma capire come è possibile che il litorale meridionale dell’Italia sia abbandonato al degrado e si becchi tutti gli anni questa pessima pubblicità. Sarà che è come possedere un abito bellissimo e tenerlo nell’armadio per paura che il vento lo stropicci.

Don Gallo: un comunista in paradiso di Giuseppe Marino

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on Andrea Gallo, classe 1928, davanti alla fiumana che ha inondato Genova per l’ultimo saluto, avrebbe allargato le braccia in segno di affetto. Per più di mezzo secolo ha prestato mani e voce agli ultimi: prostitute, adulteri, omosessuali, immigrati regolari e irregolari, divorziati, ragazze madri, ladri, carcerati, malati di aids e barboni. Ai suoi occhi unicamente persone. Un cattolico comunista. Uno scrittore che ha difeso strenuamente i beni più preziosi della nostra società: Costituzione, giovani, lavoro, diritti, libertà. Un prete scomodo che ha saputo conquistare l’ammirazione di moltissimi scettici. Partigiano nel sangue, fedele alla Resistenza. La sua Genova che l’ha partorito 84 anni fa, dopo questo freddo sabato di fine primavera, se lo riprende, per restituirlo alla terra e al cielo. Uno squilibrio nell’ordine delle cose, un mattone in meno nella già pericolante torre di Babele, nella certezza, però, che da qualche parte starà già «facendo le scarpe» ai poteri forti. Per molti un prete in costante dissenso. Ma don Gallo con Gesù Cristo è sempre andato molto d’accordo.

Dove osano le idee di Luisa Gissi

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ove osano le idee non è una domanda, ma una chiara affermazione. È il nome, nonché il leitmotiv, del Salone Internazionale del Libro di Torino 2013. Per i blogger frenetici che correvano da un incontro all’altro semplicemente #salTO13. Il tema dell’anno è la creatività ed è qui che nascono le idee: in mezzo a parole e pagine, tra e-book e carte. L’aria che si respira è essa stessa un’idea, continuamente autoformantesi, come uno strano processo fisico: come se i neuroni, concentrati in quei 5 padiglioni,

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sviluppassero una brulicante attività comune. Riempirsi i polmoni di quell’aria è dunque un piacere, e quanti incontri che si fanno, e quante idee che chissà dove arriveranno. Idee che invitano all’azione, ci dice don Luigi Ciotti presentando il Dizionario Enciclopedico delle Mafie, «il sapere è solo il preambolo» (cita così Roberto Morrione, giornalista scomparso, ex Direttore di LiberaInformazione). Occorre combattere l’analfabetismo etico, prima informandosi e poi agendo. Se si parla di mafia non può mancare Roberto Saviano, con a fianco Eugenio Scalfari e Umberto Eco, insieme dialogano per L’Espresso e un Auditorium pienissimo macina pensieri rumorosi su temi grandi che hanno bisogno di non essere accantonati. C’è spazio per la musica, così l’aria non si respira soltanto, ma la si ascolta anche, e Paolo Benvegnù può ricordare qualcosa che nella mente si sa che in fondo c’era già, che a qualcosa di bello nella vita occorre arrendersi, anche se siamo «navi senza vento nell’oceano senza fine». L’ascolto non è solo musica, ma letture, audiolibri. Fabrizio Gifuni che legge Carlo Emilio Gadda emoziona come pochi. Anzi come tanti in queste sale colorate. C’è spazio per il teatro, così attrici e giornaliste possono far ridere anche se si parla di femminicidio. Ferite a morte è un libro ironico, le storie che ci si leggono sono terribili, ma la penna sapiente di Serena Dandini che le ha raccolte, ha saputo presentarle nel modo migliore. C’è spazio per la religione, per credenti e non credenti: padre Enzo Bianchi presenta Fede e fiducia per ricordarci che abbiamo bisogno di credere per vivere, fosse anche solo in noi stessi e in chi ci circonda. C’è spazio anche per il gusto con il nuovo angolo dedicato alla cucina. Grandi e piccini (avreste dovuto vederlo, il padiglione dedicato a laboratori e libri per bambini), autori assenti ma ricordati da nuove promesse, parole e musiche, colori, incontri frenetici. I libri dappertutto e tantissimi, alcuni viaggiavano addirittura in una “bicilibreria”. Di idee ne abbiamo viste realizzate e belle. E certamente tante altre ne saranno nate, con quell’aria lì. Quanto oseranno ancora?

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9 novembre ‘89: Berlino e il suo Muro di Giuseppe Marino

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ivise la città di Berlino per 28 anni, dal 1961 fino al 1989. Divise due mondi uguali e contrapposti attraverso una striscia della morte invalicabile. Divise due ideologie e due fazioni. Soprattutto divise un popolo in due. E fu costruito in una notte sola, fra il 12 e il 13 agosto. Il 9 novembre 1989, con il suo abbattimento, la storia cominciò il suo cammino di svolta e con una città cambiò anche un intero continente. Ebbe inizio il processo di unificazione della Germania, la fine di un’epoca storica. Durante i giorni della caduta, il grande violoncellista russo Rostropovic improvvisò un concerto che fece il giro di tutte le televisioni del mondo e ancora oggi è considerato il requiem per il Muro e la Guerra Fredda. Il 21 luglio del 1990 anche Roger Waters, bassista dei Pink Floyd, tenne in Potsdamer Platz un grande evento che raggiunse l’apice durante l’interpretazione di The Wall. La Germania da allora ha saputo riunire le due anime del suo paese e costruire un’economia a cui tutta l’Europa guarda con ammirazione e invidia. E se il Muro andò in frantumi in pochissimo tempo, tanti suoi pezzi, più o meno legalmente, continuano a circolare in memoria di quella ferita. Uno, forse tra i più importanti, è stato collocato simbolicamente di fronte al Parlamento Europeo di Bruxelles. Da quel 9 novembre, l’Europa ha intrapreso un cammino di unificazione anche sociale che, nonostante gli sforzi, sembra sempre più difficile da compiere. Perché per ogni nuovo confine c’è una nuova frontiera e per ogni frontiera c’è chi aspira a raggiungerla. C’è un’altra capitale del vecchio continente divisa in due da un muro. L’ultimo muro d’Europa è a Nicosia, Cipro.

A spasso con Fido di Iris Delacroix

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al primo giugno, a Rota d’Imagna, ridente paesino del Bergamasco, entrerà in vigore un’ordinanza che prevede il divieto assoluto di condurre un cane che non abbia una mole proporzionata rispetto al peso del padrone. Esili signorine che planano trainate dal proprio Levriero, Alani che portano a spasso i loro padroni, cani che si improvvisano ballerini conducendo il bipede di passaggio in un travolgente tango. Chi tra noi non ha assistito almeno ad una di queste scene?

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L’ordinanza 600 del 03/05/2013 del Comune bergamasco, tra le norme trite e ritrite in ambito canino, prevede una novità: metro e bilancia per il proprietario. Tra poco meno di una settimana, oltre ad ornare il muso di Fido con della ferraglia, portarlo a guinzaglio e raccogliere le sue deiezioni, il proprietario dovrà fare i conti con la propria silhouette. I vari Fuffi, Toby e Lucky, dopo un “premesso”, «considerato», «appurato», «valutato», dovranno affrontare l’ennesima prova del nove: non essere troppo abbondanti rispetto al futuro padroncino. Infatti, se una tra le mille anime di Rota d’Imagna fosse rapita dallo sguardo languido di un cagnolone extra large dovrebbe, prima di condurlo nel proprio focolare domestico, armarsi di calcolatrice e stabilire se sia sufficientemente “fisicata” per poterlo accogliere. E per i rotaesi mingherlini che già gironzolano col proprio Riesenschnauzer? Multa! Siamo davvero sicuri che i secchi e corti non riescano a tener a bada un cane alto quasi quanto loro? Secondo Enpa e cinofili, no. Esiste un decalogo delle buone maniere canine e il due zampe informato dovrebbe saperlo. Socializzare il proprio cucciolo agli stimoli ambientali, agli umani e agli altri esseri viventi dovrebbe essere (e spesso è) una prassi condivisa tra gli amanti dei cani. Proprio come un infante, l’amico Fido dovrebbe essere cresciuto ed educato in maniera tale che possa sviluppare il proprio self control, così da evitare marachelle ed imbarazzi durante le passeggiate quotidiane. L’Enpa dichiara, nel proprio comunicato stampa “anti-ordinanza 600”: «[…] il comma in questione (primo comma, ndr) evidenzia da parte di chi deve applicare la legge una preoccupante ignoranza in materia di animali d’affezione. Le autorità di Rota d’Imagna dovrebbero infatti sapere che il comportamento dei cani non ha nulla a che vedere né con la razza né con la taglia, ma dipende esclusivamente dal modo in cui vengono educati, che si tratti di un alano, di un bassotto o di un cocker». Per molti, quindi, “tanto al chilo” dovrebbe essere considerato il buon senso più che la massa corporea dei padroni. Rimane comprensibile che il Comune si preoccupi per l’incolumità dei turisti, per i polsi slogati e le ginocchia sbucciate dal vigore delle «tirate» canine, ma siamo certi che il rimedio trovato sia tra i migliori?

L’ignoranza della razza di Giuseppe Marino

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iceo scientifico Cornaro di Padova, qualche settimana fa. Nella notte nera della città padana, compare sul muro della scuola una scritta: «L’Italia non è meticcia, Kyenge rimpatriata subito».

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La Kyenge in questione è la Ministra per l’Integrazione, italo-congolese nera. E la scritta razzista è solo una delle ultime «dichiarazioni d’affetto» rivoltele da quando è stata nominata. Né firme né simboli. Un semplice tratto di spray nero su un muro. Difficile immaginare che un settantenne si sia aggirato per le strade di Padova di notte e abbia aspettato il momento per mettere tanta stupidaggine nero su bianco. Difficile altrettanto attribuire la scritta a un ragazzo del liceo o a uno che con la scuola non va d’accordo neanche di giorno. Ma considerando l’etimologia della parola meticcio (miscere, mescolare), sorge un dubbio che chi rivendichi l’identità monocromatica della propria storia abbia bisogno di un ripasso di popoli, colori, lingue e culture che si sono incrociati in Italia nel corso dei secoli: dalla penetrazione dei popoli mediterranei all’inizio del Mesolitico agli Indoeuropei nel II millennio a.C., alla colonizzazione fenicia e greca delle coste verso il IX-VII secolo; dall’arrivo degli antichi Veneti da est (qualcuno sostiene originari della Mesopotamia) all’occupazione della pianura padana da parte dei Celti (V secolo a.C.) e al sacco di Roma; dalle scorrerie dei Quadi e Marcomanni nel II secolo d.C. alle invasioni barbariche durante il III secolo; dalla infiltrazione progressiva ma pacifica di vari ceppi germanici nel corso del IV secolo all’avanzata unna nel V secolo; dall’invasione di Eruli, Sciri e Rugi nel 475-476 a quella ostrogota nel 489-491; dai Longobardi del 568-569 alle occupazioni franche nel 753 (temporanea) e nel 774 (definitiva); dalla conquista araba della Sicilia (dall’820) alle scorrerie magiare (IX-X secolo), dall’invasione normanna del Sud e della Sicilia (XI secolo), alle varie avanzate militari germaniche tra X e XIV secolo. E infine, tralasciandone molti altri, dagli interventi militari francesi, tedeschi (poi austriaci) e spagnoli nel XVI-XVIII secolo alla conquista napoleonica (fine XVIII-inizio XIX secolo). Un breve (e superfluo) ripasso del via vai nella Penisola che fa credere che ad essere fuori posto nel nostro Paese non sia lei. Sono loro.

Difendiamo la Borsa (di studio) di Giuseppe Marino

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er il terzo anno consecutivo, in Cile gli studenti medi e universitari tornano a protestare contro il Governo. Il grande movimento, in grado di mobilitare decine di migliaia di ragazzi nelle strade di Santiago e altre città, intensifica la battaglia approfittando dell’ultimo anno di mandato del Presidente Sabastián Piñera. Le accuse riguardano

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il taglio di migliaia di borse di studio e altri finanziamenti all’istruzione pubblica. Ma gli studenti cileni non ci stanno e da tre anni non mollano la presa, tanto che Piñera è stato costretto a cambiare ben tre Ministri dell’Educazione. Una generazione che accetta (protestando) il bastone ma non la carota e nessuna strategia messa in piedi dal Governo per addolcirli sembra funzionare. Chiedono a gran voce di studiare, da un Paese che col PIL galoppa come sei Deutschland messe insieme.

L’amore al tempo della crisi di Valentina Poli

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’era una volta la crisi, quando si faceva fatica ad arrivare a fine mese e il posto di lavoro vacillava; gli uomini impararono quanto fosse importante avere accanto una persona per superare le difficoltà e non perdere la speranza. E fu così che i divorzi diminuirono e tutti vissero felici e contenti. Dal 2010 il numero delle domande di divorzio è diminuito del 2%, fermando un trend in costante salita, ma non certo grazie alla riscoperta dei valori familiari. Il divorzio è come una crociera ai Caraibi, non ce lo possiamo più permettere; tra parcelle, costi giudiziari e mantenimento, è diventato ormai un bene di lusso. Numerosi i coniugi che si presentano dagli avvocati per chiedere informazioni su separazione e divorzio, ma pochi sono quelli che effettivamente iniziano la pratica. Le spese sono talmente insostenibili che si preferisce tener duro, restare nella stessa abitazione da «separati in casa» e aspettare tempi migliori. O in alternativa si fugge all’estero. Si chiama “turismo divorzile” e consiste nel migrare in quei paesi europei che non prevedono i tre anni di separazione obbligatoria e hanno costi minori sulle pratiche di divorzio. Si tratta di un’azione perfettamente legale di cui hanno usufruito 8 mila coppie italiane negli ultimi 6 anni. Non potevano non nascere agenzie che si occupano esclusivamente di divorzi low cost; con modiche cifre che si aggirano sui 2.500 euro si può ottenere un divorzio in piena regola in soli due mesi, seguiti da avvocati ed esperti. Per chi volesse risolvere ancora più velocemente, Divorce Hotel offre un weekend in accoglienti camere dove i coniugi possono alloggiare, ricevere consulenze e infine divorziare in assoluta serenità. E vissero felici e contenti, accappatoio e ciabatte compresi nel prezzo.

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Con questi arabi si fuma in volo di Giuseppe Marino

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ei prossimi voli della compagnia di bandiera degli Emirati Arabi Uniti, il fumo che scalza una porta e inonda la cabina dei passeggeri non dovrà essere motivo di panico. Nessun motore in avaria, niente pericolo di atterraggio in acqua, nessun nicotinomane nascosto in bagno. Emirates Airline, con sede a Dubai, ha deciso di portare i viaggiatori che sceglieranno le sue (costose) tratte direttamente tra le vie del Nord Africa già durante il volo. Una sala del velivolo sarà dedicata alla shisha, il più comune narghilè: la tipica pipa ad acqua, simbolo dei punti di ritrovo degli arabi, dal Marocco all’Iraq. I salotti saranno prenotabili in anticipo o direttamente sull’aereo, in cui i viaggiatori potranno godersi la rilassante fumata. E pensare che, mentre in volo si fuma, a terra gli Emirati hanno vietato l’uso della shisha nei quartieri residenziali in prossimità delle scuole.

Titanic II

di Francesca Bottari

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er chiunque non potesse ambire alla prima classe per un giro sul Titanic II, consiglio di iniziare ad allenarsi a Poker, perché fra tre anni potrebbe essere il secondo Leonardo Di Caprio della storia. A febbraio di quest’anno è stato ufficialmente annunciato al mondo che sulle rotte bretoni-americane si ripercorrerà l’obiettivo di una nave che ha fatto sognare viaggiatori, ingegneri, film amatori e romantici sognatori. Il Titanic II salperà nel 2016 dal porto di Southampton verso orizzonti americani. Nel tragitto sono previste le stesse fermate intermedie di più di cento anni fa. Come allora la Statua della Libertà sarà l’ultima fotografia da raccogliere per gli avventurosi passeggeri. Differentemente dal passato invece oggi è possibile seguire ogni novità prima della partenza diventando un follower del Titanic su Twitter. L’idea è di Clive Palmer, ricco imprenditore australiano con un patrimonio che ammonta a 800 milioni di dollari e chairman della compagnia navale Blue Starline. La costruzione è stata affidata ad una compagnia di cantieri navali cinese (CSC Jinling), la quale ha annunciato che i lavori inizieranno alla fine di quest’anno. Ogni cosa sarà realizzata ad immagine e somiglianza del precedente colosso navale: stesse sale da gioco, da tè, stessi ristoranti, stesse camere, scale ugua-

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li, ponti, corde, sdraio, bagni, corridoi, lampadari, tutto identico al passato. Il progetto moderno si differenzierà unicamente per l’utilizzo di tecnologia avanzata, per il numero di scialuppe sufficientemente disponibile nel caso in cui il karma del Titanic si ripresentasse invariato, e per una serie di componenti ingegneristiche esplicate nel sito della compagnia navale di Clive Palmer. I biglietti non sono ancora disponibili, ma le aste sono già aperte. Si narra che ad oggi i curriculum per candidarsi come Secondo Capitano della barca per antonomasia siano stati solo otto. Tre anni ci separano dall’immagine a colori di viaggiatori che saluteranno il porto inglese dalle imponenti banchine, le scalette per salire sulla nave varieranno in altezza a seconda della classe, nonostante i cent’anni passati. Probabilmente qualche signora riproporrà l’incantevole tailleur gessato blu e bianco di rose, quando nel film si aggirava fra le sue cappelliere prima di salire a bordo. Forse ci sarà un Leonardo di terza classe ad aspettarla, un pittore, un musicista o un semplice viaggiatore pronto a riscrivere l’emozione di una storia magica, ma altrettanto vera. Chissà come le sale cinematografiche delle prossime generazioni presenteranno uno dei progetti, che nonostante il tempo, resta sempre imponente rispetto alla modesta dimensione dell’uomo.

Zanzare, le compagne di un’estate di Iris Delacroix

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rimi anni ’90, estate. Di giorno bambina, di notte, grazie ai materni accorgimenti, “fettunta”. Una stropicciatina di basilico, un po’ di aglio e via, pronta a dormire sonni tranquilli grazie all’anti-zanzare casereccio. Dalle zanzare i più fortunati non vengono nemmeno sfiorati, diversa è la storia per chi, come me, ne è una meta fissa. Ma cerchiamo di capire qualcosa in più su questi insetti. Una differenza di genere. Solo le zanzare femmine hanno tendenze carnivore a differenza dei docili maschietti che vanno ghiotti di sostanze zuccherine rigorosamente bio. Donare ad una zanzara il proprio sangue è un’azione nobile poiché questo servirà a consentire lo sviluppo delle sue uova, dunque via i pensieri negativi da questi insetti, vediamole come ottime madri. Sfatiamo alcune leggende. Non è il retrogusto dolce del nostro sangue ad attirarle bensì altri fattori come ad esempio l’aroma della nostra pelle e l’anidride carbonica che rilasciamo durante l’espirazione. L’attrazione sembra inoltre dipendere da un misterioso equilibrio di ingredienti presenti nella nostra epider-

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mide come vitamina B, acido urico, acido lattico e acidi grassi. Talvolta l’attacco potrebbe essere veicolato da creme ed unguenti che, uniti alla nostra pelle, creano quella giusta chimica, rendendoci irresistibili al morso. Elementi decorativi e prurito post-prelievo. Le reazioni successive all’azzannamento di una zanzara variano da soggetto a soggetto e spesso dipendono dalla specie (ne esistono più di duemila). Ciò che irrita e suscita la repentina grattata è la saliva e non il morso in sé. Questa viene utilizzata dalla zanzara come anticoagulante e provoca nelle vittime più sensibili (spesso allergiche) ponfi che si attenuano solo dopo alcuni giorni. Orari e luoghi. Le zanzare “classiche” (Cules pipiens) preferiscono farci visita la notte, svegliandoci con il loro tartassante ronzio. Le zanzare tigre (Aedes albopictus), presenti nel Vecchio Continente da una ventina d’anni, sembrano invece non conoscere orari. Entrambe amano vivere e riprodursi in ambienti umidi e caldi come i ristagni d’acqua. Le prime sono accompagnate dall’estate, le seconde possono sostenere anche climi più rigidi. Ansia da contagio. Mentre gli assaggi delle zanzare comuni, seppur fastidiosi, vengono definiti innocui, quelli delle cugine tigrate sono oggetto di controversie. La probabilità che questi insetti possano veicolare malattie come febbre gialla, encefalite e dengue è vera ma comunque rarissima dato che nel nostro Paese alcune di queste patologie sono state debellate da tempo. L’estate a forza di tira e molla sta iniziando, insieme all’afa e all’umidità teniamoci pronti all’arrivo di queste immancabili compagne, possibilmente lasciandole fuori dall’uscio!

Una (nuova) Statua della Libertà di Elena Scortecci

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reedom Tower è il nome della struttura che prende il posto delle Twin Towers distrutte nell’attentato dell’11 settembre 2001 a New York, nella zona della Lower Manhattan. Dopo il tragico avvenimento, nell’area sono stati eretti dei pannelli con i nomi di coloro che persero la vita. L’Ente per lo Sviluppo di Manhattan pianificò una Competizione per ristrutturare la parte del World Trade Center – la zona commerciale –, la cui storia inizia già nel 1946. Nel 2003 il progetto fu affidato all’architetto David Childs, per una torre che fosse esattamente 1.776 piedi di altezza (circa 541 metri), numero che richiama l’anno della Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti. Ad oggi

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rappresenta il terzo edificio più alto al mondo, con i suoi 104 piani, che ospiteranno uffici, ristoranti, negozi e garage. L’inaugurazione è prevista per autunno 2013. A parte tutte le peculiarità costruttive, da dodici anni va avanti anche un aspetto spirituale dell’opera: il sogno americano che nutre i connazionali di speranza nel Futuro e fiducia nella Patria. La Freedom Tower ha molto in comune con la più vecchia Statua della Libertà, a partire dal nome – tra l’altro il titolo originale di quest’ultima è «Libertà che illumina il mondo». La data-chiave del 4 luglio (1776), stampata a grandi caratteri romani sul libro tenuto in mano dalla «Libertà che illumina il mondo», la ritroviamo il 4 luglio 2004 quando il Sindaco Bloomberg pose un’enorme pietra ai piedi della futura Tower, per onorare «the enduring spirit of freedom» (= il durevole spirito di libertà) ‒ come vi è inscritto – che da secoli accompagna gli uomini e le donne americane desiderosi di essere indipendenti da tutto: dagli altri Stati, dalla società, dalla paura. Pur essendo stati costruiti in epoche molto diverse, questi due emblemi di Libertà rappresentano gli stessi ideali, che non sono cambiati nel cuore degli americani. La luce che riflettono, l’uno dalla torcia e l’altro dalle pareti, è un monito per coloro che vogliono tentare di rovinare le speranze di questo popolo, per dire loro che comunque c’è e ci sarà una sempre una rinascita, ancora più splendente di prima.

Italieni abroad

di Giulia Bazzanella

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pure quest’anno è arrivata l’estate. Attesa per molto, da molti. Estate significa quasi sempre vacanza e spesso all’estero. Viaggiare, volare, spostarsi di decine, centinaia, migliaia di chilometri e poi… l’italiano in vacanza all’estero. Non offendetevi, io stessa rientro nella categoria, ma l’italiano medio in vacanza all’estero è uno shock culturale che preferirei evitare. Una di quelle cose che proprio mi fa alzare gli occhi al cielo e celare la mia nazionalità. L’italiano medio in vacanza lo si riconosce lontano un miglio, perché è il più rumoroso, è quello che gesticola, è quello che si veste tutto firmato e possibilmente con colori sgargianti tipo “tronista”, è quello che cerca di fare il furbo e sorpassare quando è in fila. L’italiano medio in vacanza all’estero è quello che va a mangiare nei ristoranti italiani all’estero e impiega tutto il tempo del pasto a sottolineare quanto in Italia si mangi molto meglio e quanto il caffè dalle altre parti faccia schifo.

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L’italiano medio in vacanza all’estero non sa le lingue straniere e quindi parla in italiano aggiungendo dei suffissi a seconda della lingua che vorrebbe riprodurre, tipo «s» se è spagnolo e «en» se è tedesco. E pretende che tutti lo capiscano. L’italiano medio in vacanza all’estero cerca altri italiani medi in vacanza all’estero per creare un gruppetto di dialogo che solitamente ruota intorno alle tre domande più importanti: 1) di dove sei? 2) da quanto sei arrivato e quanto ti fermi? 3) che squadra tifi? E da quel momento potresti essere in Nuova Guinea o nel bar sotto casa, ma quello è l’argomento che unisce noi italiani, l’unico vero motivo di patriottismo che abbiamo noialtri.

Trento: con il Muse riparte la cultura de La Redazione

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use: chiamarlo museo è come definire la Tour Eiffel un traliccio. Progettato nel 2005 e inserito in un piano di recupero urbanistico di una zona della città di Trento per anni occupata dalla fabbrica francese Michelin, il Muse è uno Science Center di ultimissima generazione, firmato Renzo Piano Building Workshop. Non un contenitore di teche e animali impagliati da frequentare nelle domeniche di pioggia ma un viaggio alla scoperta della natura in cui il visitatore è al centro. Nessun silenzio religioso nei sei piani in cui si sviluppa il percorso museale, ma rumori, odori, sapori, colori. Dalla terrazza panoramica si può lanciare uno sguardo alla valle, ai monti di Trento e al suo fiume, scendendo verso il piano interrato si passa dalle vette più alte del mondo alla fauna alpina, dalla biologia sintetica all’evoluzione dell’uomo, dal futuro al passato remoto, da una serra tropicale della Tanzania ai dinosauri. Nel periodo più buio della cultura per un’Italia che assiste alla chiusura e al crollo di tanti luoghi pregni di storia e arte, c’è un nuovo germoglio di cui prendersi cura. L’importanza di investire sulla conoscenza per sopravvivere alla crisi.

Il Muse per sentito dire di Nicola Andreatta

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n città non si parla d’altro, e tu, che non ci sei andato, cominci a sentirti un po’ un estraneo, un emarginato. Sembra che ognuno dei tuoi conoscenti abbia fatto per lo meno un veloce salto da quelle parti, anche solo per uno spritz. Tutti, tranne te.

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Si parla ovviamente della tanto attesa inaugurazione del Muse, il futuristico museo portante la pesante (seppur Zero Gravity) firma di Renzo Piano. Al bar, a lavoro, sui giornali, per strada, sui mezzi pubblici, il Muse è l’argomento principe (un bel salto di qualità se raffrontato al Royal Baby). E tu, che l’inaugurazione l’hai saltata, come pure l’apertura straordinaria di 24 ore, hai già in testa una miriade di informazioni sul nuovo Centro culturale di Trento: a mezzogiorno di lunedì hai infatti sentito una quantità di resoconti sufficiente per ricostruire nella tua testa una tua personale versione del Muse. C’è chi è rimasto soggiogato dall’aspetto architettonico dell’edificio, riproduzione in scala ed ecosostenibile dei monti che lo circondano. Qualcuno è arrivato a vederci dei collegamenti oscuri, tipo pubblicità occulta o messaggi subliminali, con le piramidi egiziane. Altri sembrano patire ancora il senso di vertigine provato all’ultimo piano del museo, allorché, arrivati in cima all’esposizione, ci si può affacciare insieme alle aquile verso il fondale, verso il basso loco in cui alloggiano i dinosauri. Eh sì, tra un caffè e l’altro si mormora che ci siano anche i dinosauri. Altri ancora, probabilmente affetti da una qualche tv-dipendenza, parlano unicamente dei mille schermi disseminati lungo il percorso museale, come se la tattilità tipica (e assolutamente vietata) del museo novecentesco sia stata spodestata da un universo multimediale che rapisce lo sguardo di chi vi entra in contatto. I più giocherelloni si dicono poi entusiasti delle dimostrazioni ludico-sperimentali che gli oltre quaranta scienziati del Muse hanno messo a disposizione dei visitatori, primo fra tutti il tappeto del fachiro, che sembra rivelarsi un comodo giaciglio, tutt’altro che una disagevole forma di ascetismo. Il tuo Muse è così composto da una ventina di musei diversi, uno per ogni persona che te l’ha decantato. Uno strano incrocio tra una cattedrale della Scienza, un cinema, una giostra e una grotta. Tutto per sentito dire, s’intende. Ti riprometti dunque di andare al Muse, il primo pomeriggio libero. Nel frattempo, la tua soggettiva ricostruzione mentale dello Science Center non farà che ingrandirsi e farsi zeppa di dettagli, tanto che domattina, o magari già stasera, potrai anche tu, con candido e beffardo sorriso, raccontare la tua fantastica visita al Muse.

Scienza in ogni dove: Muse di Giulia Indorato

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l 27 e 28 luglio 2013 a Trento, si è assistito a una 24h di spettacoli per l’inaugurazione del Muse, Museo di Scienze la cui parola d’ordine è comunicare.

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Per la serata d’apertura erano state chiuse al traffico le strade dei dintorni, parcheggi al completo, una fiumana di gente scorreva attraverso le tre entrate. Era evidente il fallimento dei presagi di fiasco da parte di scettici e iettatori. Chi è entrato in tarda serata (come me) è rimasto a bocca aperta per il gioco di luci sulla facciata dell’edificio, la proiezione ininterrotta di video, l’armonico susseguirsi di artisti su palco e maxi schermi. Chi non era riuscito ad entrare nell’edificio la prima sera ha provato la domenica in tarda mattinata e ha dovuto vedersela con i simpatici 40°C donati da Caronte. Sul piazzale principale si vedevano instancabili attori esibirsi sul palco cocente e baracchini circondati da visitatori assetati (non solo di conoscenza). Sui ciottoli roventi si ergevano tre misting system, vaporizzatori d’acqua. Sotto il solleone la stupefacenza della Scienza era percepibile anche in quei salvifici macchinari. Il passaggio di stato, da liquido a gas, è alla base del funzionamento del dispositivo. L’evaporazione dell’acqua utilizza parte del calore ambientale e, abbassando la temperatura (come in riva al mare), crea il conseguente sollievo umano. Il misting è la tecnica che riproduce il tutto, grazie all’uso di una pompa per l’acqua e la rottura delle gocce in particelle finissime che si trasformano più velocemente in gas (e quindi frescura). Domenica 28 luglio mattina al Muse, teste calde e esseri spossati si alternano in quest’Area Ristoro. Visi stanchi e umidicci diventano sorridenti dopo una breve sosta sotto questo magico getto. Acqua e ventole, un ugello che spinge il liquido fino alle pale e il gioco è fatto: basta poco, che ce vo’? Ce vo’ più Scienza, ce vo’ il Muse di Trento.

Stessa spiaggia, stesso sprofondare di Gianni Paris

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e aguzzo un poco lo sguardo mi pare quasi di scorgerli. Appiccicaticci, nonostante i climatizzatori al massimo, per via dei trenta gradi all’ombra, con mani e labbra rese unte da fritte ghiottonerie take away. Avventurieri e motivati, conficcati nelle loro piccole automobili ‒ per le quali più d’uno deve ancora pagare diverse rate ‒, incolonnati per raggiungere una delle incantevoli località balneari della Penisola italiana. Per una settimana, i più fortunati per due, tutti legittimati a sconnettere il cervello e a concedere ai neuroni (ancora) attivi uno stacco dalla routine. Poco male se, per potersi permettere pochi giorni da sogno, si è dovuto scaricare il nonno da quella vecchia cugina che lui tanto detesta e se il cane, invece, l’hanno addirittura abbandonato in uno spiazzo vicino ad una fattoria. Attualità 105


Da oggi, stop ai pensieri. Seppur per poco tempo, si può dire addio a quella vita monotona, scandita da appuntamenti improrogabili e fastidiose seccature, e lasciare quel tugurio cocente in cui ormai si arranca per via della calura. Finalmente ci si potrà affrancare da undici mesi di stress e di preoccupazioni: poco male se l’acqua del mare sarà tutt’altro che limpida e l’aria non certo scevra di quei fumi tossici rilasciati dalla vicina area portuale. Da domani, spaparanzati, abbronzati e sorridenti, saranno i rotocalchi rosa e le notizie di calciomercato a regnare incontrastati. Ma per intanto si rimane imbottigliati, la coda è chilometrica. In una delle migliaia di auto, l’uomo si dispera per non aver dato ascolto a quella vocina in testa che gli sibilava di partire alle cinque del mattino, la donna inveisce contro la macchina davanti e la figlia se ne rimane zitta con gli auricolari nelle orecchie. Grazie al cielo, radio, cellulari e dispositivi elettronici vari, fondamentali cordoni ombelicali con la vita, garantiscono l’irrinunciabile afflusso di informazioni dal mondo. La fila riparte, e ora via a tutta birra. I balli di gruppo e i tormentoni estivi, che da mesi impazzano, sono già lì ad attenderci.

138 sì alla Palestina di Giuseppe Marino

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na terra che riemerge: il destino inverso di Gomorra. La Palestina, dal 29 novembre scorso, è Stato Osservatore delle Nazioni Unite. A votare a favore in 138, da Russia e Cina all’Europa mediterranea, al Sud del Mondo. Il prevedibile e preoccupante niet degli Usa e l’indifferenza di certa Europa (Germania e Regno Unito in testa) non fermano un processo che sembra destinato ad andare avanti. Un fatto storico che, sulla scia un po’ opaca della primavera araba, consegna una vittoria importante ai palestinesi che rifiutano l’uso delle armi. Riaffermati i confini del 1967 (che includono Gerusalemme est), la Palestina è pronta a non essere più solo la Gaza di Hamas, sotto il giogo di faraoni 2.0, ma terra che riacquista unità e dignità sul piano internazionale.

La metro più affascinante d’Europa di Giuseppe Marino

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pere d’arte e velocità. La fretta di spostarsi e la magia dell’arte. Nelle stazioni metroolitane di tutto il mondo di solito ci si spinge, col naso turato, si fanno salti atletici per evitare il tornello (e il biglietto), si corre, senza

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pietà, perché i 6 minuti di attesa per il prossimo treno potrebbero compromettere equilibri cosmici. Il Daily Telegraph ha scelto 22 stazioni in cui quei 6 minuti potrebbero servire per tenere la o di woooow! La prima (non una tra le ventidue, ma la numero uno) è la stazione Toledo di Napoli. Più di 30 anni per realizzarla, tanto che davanti agli scavi ci si è chiesti se la stessero costruendo o cercando, la metro partenopea rappresenta il contrasto di una città tra genio e sregolatezza.

Un flebile afrore d’incenso via etere di Gianni Paris

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igliaia di persone invadono la piazza, le strade e i vicoli laterali; una selva di mani alzate produce un effetto scenico entusiasmante. Grida di giubilo, canti e strilli sperticati frammezzano una trepidante attesa mentre, in diretta televisiva, un’eminente figura ecclesiastica afferma con evidente soddisfazione che «la Chiesa è più viva che mai». In capo a pochi istanti verrà annunciato il nome del nuovo pontefice; fedeli e curiosi stanno precariamente issati su monumenti o acquattati in giacigli di fortuna, altri più comodamente sprofondati nelle poltrone del proprio soggiorno, tutti indistintamente con il fiato sospeso. I flash dei telefonini immortalano per l’eternità piccoli frammenti di un avvenimento storico, le telecamere inquadrano anche il più infinitesimale dettaglio concedendo al mondo intero di addentrarsi in quella cappa di moderna cristianità frammista a rituali millenari. Il tutto dovrebbe disorientare, affascinare, strabiliare intimamente o come minimo smuovere qualcosa. Ben pochi, però, chinano il capo e danno l’impressione di meditare sui concetti base della fede. Poi, viene rivelato il nome del nuovo Papa, il vescovo di Roma, il successore di Pietro. Si intonano cori da stadio, si accennano balli da torcida; divampa un’esultanza artificiosa, un tripudio sforzato, un’idolatria degna della comparsa di una star. Tra le prime informazioni a circolare ci sono quelle che il nuovo Papa sarebbe un grande tifoso del San Lorenzo di Buenos Aires e che, tra le sue più grandi passioni, si debba annoverare il tango. La notizia che la scelta del nome “Francesco” sia da ricondurre al memorabile esempio del famoso ed omonimo Santo d’Assisi, quel personaggio che dedicò la vita agli emarginati, che visse peregrinando, praticando l’elemosina e considerando la povertà un valore auspicabile, in quanto solo attraverso essa si può amare senza riserva e vivere con la mente sgombra da fatuità, scade in secondo o in terzo piano.

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Non è forse che, tra una caccia all’aneddoto e una febbrile psicosi da toto-papa, si sia perso di vista lo spirito che dovrebbe reggere alle fondamenta duemila anni di storia del cattolicesimo? Mai, come in circostanze del genere, è così labile lo spartiacque che separa la cronaca di un evento epocale dalla morbosa e insana smania da pettegolezzo.

Con l’acqua alla gola di Giuseppe Marino

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nche oggi potremmo scegliere di lavarcene le mani e restare indifferenti davanti a uno dei drammi più tragici degli ultimi decenni. Nel mondo ogni 20 secondi un bambino muore di sete o perché ha bevuto acqua contaminata. L’80% di questi non vive tra la Fifth Avenue e gli Champs-Élysées. Per 884 milioni di persone l’accesso a una fonte non è facile come bere un bicchier d’acqua. Fatti già sentiti. Eppure sembra piovere sempre sul bagnato: da questa parte del globo per ogni svuotamento di vescica si gettano nel water dai 10 ai 15 litri di acqua potabile. A questi si aggiungono quelli che versiamo in doccia, a volte senza motivo e in soli 5 minuti. Quando dividiamo i capi rossi dai neri, i gialli dai bianchi prima di metterli in lavatrice non facciamo solo pulizia etnica tra le fibre, ma scegliamo egoisticamente di tirare l’acqua al nostro mulino lasciando a secco gli altri. Quando laviamo i piatti, l’auto. Quando irrighiamo il giardino per far crescere il prato all’inglese anche in zone in cui (per la scarsità delle piogge) ci starebbe meglio il Sahara. E per non parlare del cibo. Di quanta acqua serve per avere in frigo una bistecca e di quanta ne sprechiamo quando il 40% di quella stessa bistecca (e accade ogni giorno) finisce nell’immondizia. Siamo la società dello spreco, che crede nelle risorse infinite e pensa che prima della fine molta acqua debba ancora passare sotto i ponti. Ma la goccia che farà traboccare il vaso è lì pronta a cadere e ci troveremo in cattive, cattivissime acque. Nel 1992 le Nazioni Unite hanno istituito la Giornata Mondiale dell’Acqua. Il 22 marzo è un simbolo, un’occasione che con il contributo di tutte le "teste di pozzo" di questo opulento Occidente potrebbe non essere solo un altro buco nell’acqua.

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Spotted. Avvistato di Valentina Poli

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upido torna a stupirci dimostrando di essere in grado di adattarsi più che bene ai tempi che cambiano: abbandonati arco e frecce, oggi il pupo ignudo aiuta i più timidi tramite i social network. Numerose le pagine Spotted che stanno invadendo Facebook; dalle università alle scuole superiori, dalle metro ai bar, la mania dilaga e valanghe di messaggi anonimi su biondine inarrivabili, amori platonici e giovanotti dal ciuffo fluente riempiono le bacheche e fanno il pieno di "mi piace". C’è chi non ha pretese e vuole solo «gridare al mondo» quanto è «bono» il moro sempre seduto in ultima fila al corso di diritto privato o quanto è sexy la rossa che la mattina attende l’autobus n. 5. Ma c’è anche chi non lesina sui dettagli per far sì che qualcuno riconosca l’oggetto del suo desiderio e fornisca nome e cognome tramite un rapido tag. Naturalmente le polemiche fioccano, come i cuori quando ci si avvia verso il 14 febbraio: privacy violata, insulti gratuiti, eccessiva volgarità. Il fenomeno comunque non è nuovissimo: alcuni anni fa ad aiutare Eros erano le pagine di carta di Phosphoro, giornaletto distribuito in molte università italiane, in pratica il predecessore di Spotted. Si riflette sull’effettiva utilità di questo metodo di rimorchio; il timidissimo anonimo, una volta saputo il nome o rivelato il suo amore, avrà il coraggio di muoversi? E quanti degli «avvistati» andranno oltre la banale curiosità, agevolando il fiorire di nuovi amori (primaverili se il tempo lo concedesse)? E chi legge? Dopo aver messo like ad alcune di queste pagine, mi soffermo a leggere i post, spulciando i messaggi riferiti ai luoghi che frequento! Che la brama del gossip e la vanesia speranza di riconoscersi in qualche descrizione vincano l’imbarazzo di avere a che fare con un fenomeno che è lo strascico delle dinamiche adolescenziali? Forse sì.

Fine della Revolución venezuelana? di Giuseppe Marino

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marzo 2013. Avremmo potuto dire 6 ottobre, 18 maggio o 28 luglio 2012. Negli ultimi mesi i funerali di Hugo Chavez, presidente-caudillo del Venezuela dal 1998, sono stati annunciati e smentiti molte volte. Adesso pare siano quelli definitivi.

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Il web e i media internazionali si sono rivelati a tratti salvifici quanto un elisir di immortalità, a tratti peggiori della “nuova e grave infezione” che alla fine ha stroncato il rivoluzionario bolivariano. E il popolo (ultras e oppositori insieme) si trova oggi davanti a un mondo che, da una parte osanna l’eroe che ha messo in un angolo le oligarchie nazionali, agevolando un riscatto sociale per poveri, indios e precari, dall’altra condanna il bugiardo Presidente che con una maglia rossa e qualche slogan combatteva gli USA per poi vendergli il petrolio, mentiva sulle sue condizioni di salute e prenotava voli per andare a Cuba per curarsi. Sangue bianco, nero e indio nelle vene, Chavez ha cambiato profondamente la storia del suo paese e i rapporti di vicinato con le Americhe. Dopo la prima apparizione televisiva, il leader carismatico ha vinto quasi tutte le elezioni e per molti venezuelani ha rappresentato il sogno (latino)americano. La sua morte è la fine di un’esperienza personale tanto quanto un nuovo inizio per la ricostruzione di un paese pieno di ponteggi, talvolta pericolanti. A storici ed esperti un giudizio sul passato, ai posteri sentenze e speranze.

Un cinguettio celestiale di Giuseppe Marino

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ear friends, I am pleased to get in touch with you through Twitter. Thank you for your generous response. I bless all of you from my heart. Questo il primo tweet di Monsieur Le Pope, pochi giorni fa. Peppe ha cinguettato, tra gli entusiasmi e le polemiche di chi lo segue per fede e chi lo insegue per rovesciargli addosso il sacco di millenni di errori. A molti sembra che si sia spinto un po’ troppo avanti, abbia messo l’alluce nel braciere di Lucifero. A chi in galleria si ostina a cercare della musica e si accorge che l’unica Radio che prende è quella della Vergine, tutto sommato sembra quasi in ritardo sui tempi.

Tremate, tremate, le feste son tornate di Annachiara Messina

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lzi la mano chi il 24 dicembre non farebbe volentieri appello a un flacone intero di barbiturici per auto o etero somministrazione. Le cause? Svariate ma tradizionali: i regali ancora da comprare, la spesa per il cenone tra gusti e intolleranze alimentari dei commensali, la scelta del rossetto rosso più resi-

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stente alle 51 portate, le fontanelle per i bambini e i miniciccioli per gli uomini, l’eletto che porterà in processione Gesù Bambino, chi andrà a prendere il nonno dall’ospizio, chi riporterà Gesù Bambino all’ospizio e… ci siamo intesi. Ogni anno ci comportiamo come se il Natale fosse un ospite inatteso. Eppure già nei due mesi che lo precedono ovunque sono presenti segni disvelatori del suo avvicinarsi. Ad ottobre le vetrine dei negozi di abbigliamento e di biancheria iniziano a tingersi di rosso, nero e paillette. A novembre i primi panettoni fanno capolino fra le ultime confezioni di gelato, aumentano le escursioni di coppiette in gioielleria e il disboscamento planetario raggiunge il picco massimo annuale. I primi di dicembre le manifestazioni si fanno più minacciose. Nella mia top3: 1) Flotte di camion luminosi della Coca Cola che solcano con estrema disinvoltura le strade innevate di tutto il mondo, senza catene e incuranti del pericolo, mentre Babbo Natale, stampato sul portellone posteriore, ammicca mandando giù sorsate della bevanda. In sottofondo: «Natalestaarrivandoarrivacocacolanatalestaarrivandoarrivacocoacola» che parafrasata suonerebbe: «Tranquillo ragazzo! Dacci dentro di salamelle, pandori e torroni, ci pensiamo noi e i nostri ettolitri di bollicine a farti macinare tutto!» 2) Addobbare l’albero di Natale. Un’operazione che richiede estrema precisione e ottime capacità di calcolo per distribuire nelle giuste proporzioni (a 360°) una quantità infinità di palle, nastrini, angioletti e pendagli vari. Dopo l’accusa di discriminazione asessuale dall’Arciputto (ghettizzavo gli angeli sulla parte dell’albero rivolta al muro), ho rinunciato per sempre all’impresa. 3) Le canzoni tradizionali. Tutte che inneggiano a pace, uguaglianza, solidarietà, gioia per le piccole cose, che basta il pensiero, “tutto quello che voglio per Natale sei tu”, “lo scorso Natale ti ho donato il mio cuore”. Peccato che spesso facciano da colonna sonora a gente che in preda al consumismo più sfrenato piuttosto che il cuore sarebbe disposta a donare coppie di reni pur di garantire regali costosi e scenografici ai propri cari. Che vogliamo farci? È questione di organi.

E il panettone lievita di Valentina Poli

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o, non c’entrano i canditi e le mandorle, niente granella di zucchero o ripieno al cioccolato: il panettone in questione non è altro che il mio deretano. Per chi è possessore di MetabolismoTantoLentoChePareAssenteCard ha inizio il periodo più drammatico dell’anno. Una domenica uggiosa può essere fatale: «dai che andiamo a berci una cioccolata!». È così che si apre il baratro,

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quello del mio stomaco. Le rinunce, le insalatine (che non si possono definire esattamente scondite), le scale al posto dell’ascensore… Tutto va in fumo. La maledetta serotonina entra in circolo e non riesco più a rifiutare uno scacchettino di fondente alle nocciole, una briochina, una fetta di Sacher, un pezzo di pandoro, quella pralina ripiena. E poi fioccano gli inviti: aperitivo con le amiche il 24, cena della Vigilia con i suoceri, pranzo del 25 con i parenti, gli avanzi del 26. Per non parlare della cena natalizia con i colleghi e con i vecchi compagni di università! Ad un certo punto mi stupisco di conoscere tutta questa gente. Inizio sempre con tanta buona volontà: “basta stare leggeri”. Certo, dillo alla suocera che ha passato tre giorni a cucinare, dillo alla mamma che ti crede anoressica solo perché non mangi primo e secondo o alla nonna che ha fatto una guerra. Per non parlare degli amici che mi canzonano citando una vecchia pubblicità: «vuole fare la model-la». No. Cerco solo di non diventare una balena? Passato il Natale non ho nemmeno il tempo di digerire l’ultima forchettata che subito arrivano il Cenone del 31 e il pranzo dell’1. Non c’è scampo, inutile arrovellarsi; non esiste essere umano capace di resistere. Altro che «generale Inverno», il vero nemico invincibile è la Signora Gola! Dopo anni di lotte intestine (di stomaco a dire il vero) mi sono arresa: ho deciso di nascondere la bilancia sotto l’albero e di portare in giro senza tante storie il mio panettone. Buone feste!

Babbo Natale passerà in Grecia? di Sebastian Diakakis Nilo

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il sei di dicembre e a Salonicco, seconda città della Grecia, ancora non si percepisce lo spirito delle Feste in arrivo. Le poche decorazioni che appaiono sono impoverite dai visi intorno che mostrano che non c’è molto da festeggiare. Questo Natale, pare, sarà festeggiato più che altro per abitudine. Ultimamente la situazione che affronta la società greca è più complessa e critica. Il problema più superficiale è che la maggior parte delle case e delle persone ha grandi difficoltà economiche. Quando però si osserva più in profondità, si vede che i diritti lavorativi hanno subito un colpo serio. Gli scioperi e gli stop nazionali manifestano la preoccupazione dei lavoratori per l’ineguaglianza delle misure economiche e il calpestare dei loro diritti. Lo stato sociale si sta disgregando e questo crea insicurezza nella maggior parte dei cittadini. Le grida del fascismo che è già presente in Grecia, le notizie di

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torture e violazione dei diritti umani nei dipartimenti di polizia, le bande che escono a “caccia di immigrati” ad Atene e in altre città, il nazionalismo crescente e l’eccessivo populismo da parte dei partiti politici, la povertà estrema che aumenta, il fatto che ogni volta più e più gente trova cibo tra i rifiuti e dorme per strada sono alcuni dei problemi che formano parte della vita quotidiana. La situazione attuale crea uno stress immenso al greco comune. È successo molto in poco tempo e la gente è messa sotto pressione dalla partecipazione al “gioco” di violenza che propone la classe politica, in una realtà che è molto vicina alla follia. Non si può festeggiare quando una persona è piena di rabbia, e in Grecia ce n’è molta. La maggior parte della popolazione cercherà di passare le Feste che arrivano nel migliore e più tranquillo modo possibile. Di certo le autorità mostrano un gran impegno nelle decorazioni delle città, ma c’è qualcosa nell’aria della Grecia che stona. Una delle domande che preoccupano il cittadino greco è se della democrazia ci sia rimasto solo il nome, la società si sta disfacendo e questo si percepisce come un’unica sensazione, anche se i fattori che creano questa sensazione sono molto e variabili. L’arrivo del nuovo anno si percepisce come uno scherzo di cattivo gusto dato che dopo la festa di Capodanno si prenderanno nuove misure nel Parlamento e la realtà comune da alcuni mesi, per la gran parte, è quella di non pensare a nulla più del pane quotidiano.

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Cultura Cultura è necessità

Sharing is Caring. La cultura comincia quando il pensiero di uno, raccontato all’altro, sotto svariate forme, più o meno enigmatiche, crea un legame. E quel legame poi si dipana, nello spazio e nel tempo. Non finisce lì, nella sera o nella stanza in cui è nato. La condivisione è la forma più intelligente per prendersi cura di se stessi e degli altri, rendendo la conoscenza accessibile a un numero sempre più ampio di lettori. Suggerimenti e Istantanee. UnderTrenta si arricchisce ogni giorno di recensioni su arte, libri, musica, concerti, teatro e novità cinematografiche; presenta spettacoli e personaggi legati al mondo della cultura in tutte le sue espressioni, della medicina e dello sport. Tutto da una prospettiva in un certo senso estrema: gli autori non danno giudizi, non stroncano né sponsorizzano eventi o prodotti. Nessuno s’improvvisa ultras della moda del momento. Emozioni e Racconti. La cultura diventa così la risposta all’esigenza, non solo dei giovani, di riempire le giornate con ciò che troppo spesso passa come futile, secondario, trascurabile. Cultura, dal latino colere, coltivare, è il faro che UnderTrenta non intende perdere di vista nella sua navigazione. Perché per qualsiasi età c’è un libro, una canzone, un quadro, uno spettacolo o un film che fa sobbalzare, scuote, diventa una stretta allo stomaco o un abbraccio consolatorio, un incoraggiamento vigoroso o il ricordo di un sapore lontano. E merita di essere raccontato.


Pensare l’efficacia in Cina e in Occidente di Francesca Bottari

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a Cina oscura, ma vi si può trovare chiarezza. Ma quale chiarezza ci può giungere dalla Cina? È questo l’interrogativo che il filosofo francese F. Jullien ci sottopone invitandoci a «mettere le carte sul tavolo, ossia lavorare localmente, con pazienza, per tentare di stabilire un confronto faccia-a-faccia fra il pensiero cinese e quello europeo». Il preambolo necessario è, e cito ancora le parole di Jullien, che la Cina rappresenta un «pensiero fuori quadro», un «altrove del pensiero che fa reagire il nostro» perché «si è sviluppato in maniera indipendente da noi e, di conseguenza indifferente a noi». Non è un’ode alla Cina quella dell’autore, ma un’illuminante analisi di due poli che osservano lo stato delle cose da due prospettive differenti. La ricchezza sta nell’opportunità di cogliere questo altrove come punto di riferimento esterno, sul quale fare perno senza cadere nell’errore di leggerlo come immaginario esotico per evitare – comodamente – di ripensare al proprio agire. Un saggio definito brillante e che personalmente consiglio ad ogni lettore che ha relazioni con il mondo governato da Pechino. Imprenditore o studioso, turista o appassionato, curioso o diffidente che sia, ciascuno avrà l’occasione di apprendere come obiettivi, strategie, azioni e risultati possono essere visti, vissuti e raggiunti in due modi differenti, non per questo scartando questo o l’altro, ma piuttosto ripensando ognuno al proprio. Azione e trasformazione, due opposti che definiscono “noi” e “loro”. Due dialettiche dell’agire, la prima che sancisce un momento, visibile e che segna, la seconda invece longeva, globale nella presa ed invisibile, ma di cui si notano i risultati. Laddove il foglio ritorna ad essere bianco e l’impensato viene a galla, ad ognuno ricercare l’inchiostro perfetto per riscrivere il proprio pensiero, «in un mondo che continua a rinnovarsi».

Sono un ragazzo che gioca a rugby di Loris Mancosu

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osa non mi piace dei grandi? La paura. Quando chiedo a qualcuno perché non gioca a rugby la risposta è sempre la stessa: la paura di farsi male. Ma allora una persona dovrebbe aver paura di andare in macchina, in moto, di sciare e di tutto il resto.

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Io gioco a rugby senza paura perché so che affronterò un ragazzo come me. Che magari a calcio non era forte, che per il basket era troppo basso e che per qualsiasi altro sport era ciccione. Ma quel ragazzo, proprio come me, odia la paura. La prima cosa che ho imparato allenandomi è che io da solo sono uno dei tanti, ma io e i miei compagni, insieme, quando giochiamo siamo una squadra. «Il rugby sono 14 uomini che lavorano insieme per dare al quindicesimo mezzo metro di vantaggio.» Io sono pieno di botte e lividi ma non ho ancora incontrato la violenza in questo sport. Sto imparando che ci sono mille regole, che dopo il placcaggio devi accompagnare a terra l’avversario per evitare che si faccia male, che il pallone lo passi sempre indietro, che quando l’arbitro parla tu puoi solo eseguire il suo comando, e se protesti vieni cacciato fuori o da lui o dal tuo allenatore. Se sei egoista non è lo sport per te, se corri da solo troverai 15 avversari che proveranno a fermarti. E ci riusciranno. Mi sono allenato così tanto, che non vedo l’ora di giocare questa partita. Io e la mia squadra siamo qui. Non abbiamo paura. Siamo grandi e forti come loro. Primo tempo: entusiasmo alle stelle. Ce la mettiamo tutta. Sfioriamo due volte la meta, completamente ricoperti di fango e sudore. Risultato parziale 42 a 0. Secondo tempo: facciamo tutti i cambi a disposizione, ancora più grinta e determinazione. Torniamo vicino a quella riga di meta. La vediamo sotto il naso e stiamo per farcela ma il pallone esce. La partita finisce 82 a 0. La tribuna: le facce dei nostri genitori sono amareggiate. Tutti pronti a consolarci. Guardo quelle dei miei compagni, del mio allenatore e le vedo fiere, con la testa alta. Salutiamo il pubblico mischiandoci ai nostri avversari, facendo e ricevendo i complimenti. «Certo che sul 40 a 0 potevano fermarsi» si sente dalle tribune. Sapete perché non si sono fermati? Perché ci hanno rispettati. Nel rugby come nella vita nessuno regala nulla. Se nelle difficoltà ci si ferma a piangere, a sperare che le cose si sistemino da sole, si vivrà solo di illusioni. C’è una sola cosa da fare: guardarsi in faccia, guardare gli amici ed essere sempre pronti a ripartire; continuare ad allenarsi e avere voglia di portare quella palla in meta. Perché contro ci sarà sempre qualcuno o qualcosa che la palla la vuole portare nella vostra meta. «Adesso so che correre non vuol dire scappare, ma andare incontro al futuro. Adesso so che affrontare la vita sarà un gioco da ragazzi e che, se la vita è un gioco, il rugby è una gran bella maniera di viverla!»

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Che cosa (non) è andato storto? di Nicola Andreatta

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ei secoli sedicesimo e diciassettesimo andava di moda ciarlare intorno ad un mondo ideale, Utopia, un luogo in cui tutte le storture fossero appianate. L’utopista, però, ha vita breve, e all’approssimarsi del Novecento la tendenza si ribalta: laddove i due Tommaso, Moro e Campanella, fantasticavano un mondo nel quale tutte le caratteristiche del quieto vivere venivano esaltate, i vari Orwell e Bradbury decidono di elaborare un’operazione di segno contrario. Nelle loro opere le brutture del mondo reale vengono amplificate a dismisura: le dittature diventano eterne, la censura di regime diviene totale e infallibile. Ma chi sono i protagonisti di queste cacotopie? Siamo noi: gran parte dei testi distopici del secolo scorso sono infatti ambientati più o meno esplicitamente ai nostri giorni. Levando gli occhi dalla pagina scritta e guardandoci attorno, non ci va poi tanto male. Non siamo controllati a vista da un dittatore onnipresente che ci si presenta come paternalistico fratello maggiore (1984, Orwell); nessun virus ha trasformato i nostri vicini di casa in zombie assetati di sangue (Io sono Leggenda, Matheson); nessuna guerra atomica ha decimato la popolazione mondiale (L’ultima spiaggia, Shute); possiamo possedere dei libri, senza temere che dei pervertiti vigili del fuoco irrompano nel nostro appartamento per bruciarli (Fahrenheit 451, Bradbury); gli operai non vivono nel sottosuolo, e non muoiono ad ogni piccolo errore sul posto di lavoro (Metropolis, film di Lang)… si potrebbe procedere all’infinito. Insomma, c’è andata bene: evidentemente Lang, Shute e Orwell concepirono le loro opere dopo una brutta indigestione. O forse le loro visioni altro non sono che la sintesi romanzata delle nostre più pericolose tendenze. Perché queste profezie malefiche, queste satire amare, sono prima di tutto un’analisi spietata della nostra società: a questi torvi sognatori va dunque riconosciuto il merito d’averci avvisato della brutta china che si stava via via scendendo. Tutti potevano infatti predire che le dittature di metà Novecento non avrebbero portato a niente di buono, e che il nucleare avrebbe sì portato ad una terza guerra mondiale, ma non ad una quarta. Le loro opere contribuirono (e contribuiscono) a farci prendere coscienza di quanto i «brutti tempi» da loro descritti potessero (possano) essere vicini. Poiché, come scriveva Baudelaire a proposito di quei temibili tempi futuri, «chi può dire se non siano già qui e se l’ottundersi della nostra natura sia l’unica cosa che c’impedisce di renderci conto dell’aria in cui tutt’ora respiriamo?».

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Come spendere una giovinezza di Francesca Bottari

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possibile modificare la realtà attraverso le parole? In passato le idee venivano traghettate da sponda a sponda, e incontrandosi mutavano pensieri, formavano cultura. Il giovane scrittore Paolo Di Paolo in Mandami tanta vita narra la storia di due personaggi che vivono la loro giovinezza ospitata in un periodo storico complesso, con resistenze differenti da quelle attuali, ma comunque determinanti alla necessità di farsi uomo. Siamo in una Torino degli anni ’20, Moraldo e Piero hanno fede nella cultura, nelle idee: si impegnano ogni giorno per farle sopravvivere. Sono affascinati dalle parole e spesso temono la loro casta violenza. Piero concentra tutto quello che altri uomini non riuscirebbero a fare in un’intera vita. Moraldo invece vive i suoi vent’anni stretto fra una duplice spinta: da una parte vuole scrivere, lavorare con le parole, interpretare realtà e sentimenti per farli navigare di lettore in lettore. Dall’altra invece incertezza, attesa e paura bloccano questo suo sogno. Cerca l’occasione per ritagliarsi un posto nella società, ma sembra non riuscirci. Ci sono volte che aspetta immobile con paura, altre invece dove prova ad azzardare un passo, ma con troppo timore per riuscirci. Un amore vissuto solo in parte fa da specchio riflettendo e accentuando le esitazioni di questo giovane protagonista. Due storie che rispecchiano ciascuno di noi. Un giorno ci sentiamo Piero, gonfi di entusiasmo e sicuri del poi, il giorno seguente cadiamo nelle insicurezze di Moraldo. La vita è come un oceano, difficile da attraversare, ma mai impossibile da toccare, muoverne le acque e scegliere l’onda che aggrada di più. Mandami tanta vita è un invito a ricercare quegli ideali persi, difficili da mettere a fuoco, che come allora anche oggi mettono in discussione la crescita di un uomo. Un romanzo che riaccende in ogni lettore la speranza, la curiosità verso la vita, ma soprattutto la voglia di esplorarla allontanandosi da paure e inutili esitazioni.

La vita che abbiamo paura di vivere di Giuseppe Marino

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altra notte parlavo con una donna con un sacco di decisioni da prendere. Era nel tipico stato confusionale di chi si trova una matassa imbrogliata in mano e non sa da dove iniziare.

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«Parti! Fai un viaggio!» Le ho detto. E lei: «Sì, ma…». Niente di più fatale. Molti di quelli che hanno aspettato il momento giusto per partire non l’hanno mai fatto. I sì-ma uccidono i sogni. Ci sono tre motivi per viaggiare: Uno. Viaggiando si impara a convivere col rischio. Il rischio di perdere l’ultimo autobus, di cercare per ore un posto dove dormire, di non capire quello che vi dicono perché il kazako non è proprio la vostra lingua madre. Troverete ogni volta una soluzione alternativa, un piano B. E al ritorno riconsidererete l’idea stessa del rischio. Non convivrete più con la paura di fare un passo senza avere la certezza che sia quello giusto. Due. Imparerete la compassione. Nel Sud-Est asiatico vi scontrerete con il commercio degli schiavi, nell’Europa orientale riconoscerete i segni dei genocidi e delle persecuzioni religiose, ad Haiti “vomiterete” di fronte al peggior paternalismo occidentale. Il mondo, enorme e al tempo stesso infinitamente piccolo, vi sembrerà appeso ad un unico filo. Vi sentirete più vicini agli altri. E a voi stessi. Tre. Mentre si è giovani si dovrebbe fare incetta di cultura, conoscere il mondo e le magnifiche persone che lo riempiono. Passeggiare intorno al Colosseo e osservare dal basso il David di Michelangelo; ammirare San Juan e le sue meravigliose spiagge. Potrete leggere tutti i libri del mondo sulla Muraglia cinese o sul Louvre, ma essere lì… beh essere lì è tutta un’altra storia! E tutto questo sarà la premessa di una vita adulta meno povera e più aperta. Meno insicura e più consapevole della finitezza di certe noie quotidiane. WRECKED è il libro sulla vita che abbiamo paura di vivere. Il libro della gente che è partita e ha raccontato il ritorno. È la storia di missionari, scrittori, imprenditori e altri viaggiatori meravigliosamente rovinati dal viaggio. WRECKED, When a broken world slams into your comfortable life. WRECKED, scritto in inglese. Una lingua che no, non si impara in 10 anni di scuola, ma in un mese in viaggio.

Senza confini. Ebrei e Zingari di Luisa Gissi

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a cornice è una piazza del centro storico di Ruvo di Puglia. Siamo al Talos Festival – la melodia, la ricerca, la follia, un crocevia di bande provenienti da diversi luoghi del mondo.

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La voce che ci attira e ci cattura per una serata nomade è quella di Moni Ovadia: sullo stesso leggio testi per le letture dal romanzo L’ebreo errante di Eugéne Sue e la canzone Il cuore è uno zingaro di Nicola di Bari, accostamento che già vale il biglietto dello spettacolo. Il dramma e la leggerezza. Stanno insieme gli ebrei e gli zingari, come suggerisce il titolo del recital-concerto, le barzellette yiddish e la musica gitana. Insieme perché hanno in comune qualcosa che non hanno: una terra. La condizione di nomade pare invitare alla leggerezza, perché le radici anziché trovarsi in un luogo si inerpicano sull’aria delle tradizioni. Canti, musiche, storie rom (nella banda ci sono rom e rom-agnoli, ci dice la voce narrante di Ovadia), sinti ed ebraiche: tutte a dirci come si può vivere la vita a ritmi movimentati, stando in un’orchestra di grande successo o con un cappello per la strada. È lo stesso, perché chi non ha una terra non è interessato neanche ad avere uno status. Una curiosità: tra i testi letti uno che ha la voce di chi non è felice nel vedere la gente che arriva, sembra quasi di sentire certi politici delle nostre parti. Invece le parole sono un po’ più antiche e scritte dagli americani che, indovinate, se la prendono con gli immigrati italiani ma soprattutto veneti! Come a dirci che la storia ci insegna che non ci resta che accogliere, e a suon di cymbalon (strumento a corde di origine orientale) condividere il dilemma “andare o restare” anche con chi una terra propria non ce l’ha, magari dandogli un pezzo della “nostra”. La Moni Ovadia Stage Orchestra è composta da: Ivanta Baltenau, Marian Tanasache, Virgil Tanasache, Ennio D’Alessandro, Massimo Marcer, Albert Florian Mihai, Paolo Rocca, Marian Serban.

Argento, Bronzo e Piombo di Titti Germinario

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il 10 agosto 2008. Olimpiadi di Pechino, gara della pistola da 10 metri. L’oro è della cinese Wuo. Sul podio, la russa Natalia Paderina e la georgiana Nino Salukvadze sfoggiano rispettivamente la medaglia d’argento e di bronzo. Le due atlete, dopo essersi strette la mano, si stringono in un lungo e commovente abbraccio. Due “nemiche” che si baciano e sorridono. 8 Agosto 2008. L’esercito georgiano ha inviato delle truppe nella capitale dell’Ossezia del Sud, Tskhinvali, bombardando la città. La Russia ha contrattaccato, in difesa della regione, inviando dei carri armati e la Georgia ha pro-

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clamato lo stato di guerra. È in atto la Seconda Guerra in Ossezia del Sud e si parla di almeno duemila vittime civili, nonché danni alle infrastrutture. A Pechino, la delegazione georgiana continua ad allenarsi e a gareggiare in silenzio, con la testa lì, nella loro terra. Giorgi Tchanishvili, addetto stampa della squadra georgiana, rivela il clima che si respira nella squadra: «Siamo preoccupatissimi, anche perché mentre il bilancio delle vittime in Georgia si aggrava, da oltre un’ora non riusciamo a telefonare a casa: le linee sono interrotte e anche i telefonini non funzionano». L’immagine dell’abbraccio tra la russa e la georgiana, di due ragazze che impugnano un’arma per vincere una medaglia e non per puntarsela contro, diviene emblema di pace e un no, forte e chiaro alla guerra.

Un esercito di giovani israeliani di Francesca Bottari

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ercorrendo più di venti mila chilometri, viaggiando fra Russia Mongolia e Cina, in tre mesi ho incontrato un numero illimitato di viaggiatori. Tutti della mia generazione, anni Ottanta, ognuno spinto da motivazioni che si accomunano a seconda della società di provenienza. La nazionalità che immancabilmente s’incontra è israeliana. In ogni ostello in qualsiasi parte del mondo, si incontrano giovani israeliani: un esercito di ragazzi e ragazze che vogliono una lunga pausa lontano da casa per provare una sensazione di libertà. All’età di vent’anni queste persone sono costrette ad arruolarsi nell’esercito, gli uomini per tre anni, le donne per due. Quello di Israele è oggi il secondo esercito più forte del mondo, nato nel 1948 per difendere l’indipendenza del paese. All’occorrenza, mi spiega Noe un’amica ventisettenne di Tel Aviv che mi ha accompagnato nelle riflessioni più intime di un giovane prima, durante e dopo la leva, l’esercito può arruolare più del doppio delle forze grazie ad un numero elevato di riservisti. Donne che a vent’anni imparano a maneggiare un’arma, ragazze e ragazzi che controllano se sospettosi palestinesi varcano la soglia, giovani obbligati a formarsi con il “complesso della violenza” e a guardare all’immigrato come ad una prossima possibile vittima. «L’esercito – mi dice Noe – è uno stato nello stato. Non difende il Paese, ma lo costruisce. Non difende le persone che vi ci abitano, ma le forma.» Come lei un’intera generazione d’israeliani è in viaggio per guardarsi con occhi differenti grazie al confronto continuo e alle diversità che incontrano. Il loro è un viaggio lontano da casa per riuscire a riavvicinarsi ad essa, a riap-

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propriarsene. La volontà di ognuno infatti è quella di ritornare in Israele per cercare un luogo confortevole che sia immune dall’influenza militare. Delle voci speranzose, ma piene di illusione per la consapevolezza della loro impotenza davanti ad una simile causa. Delle voci sognatrici, lontane da ambizioni professionali, alla ricerca di un posto ideale, fuori e dentro se stessi, dove seguire semplicemente la propria umanità, buona e differente da quella insegnata dal proprio maestro. Il sito della ONG Breaking the Silence raccoglie tutte le testimonianze di giovani israeliani.

Il potere rivoluzionario della risata di Arianna Panzolato

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idere a crepapelle per sovvertire l’ordine costituito. L’Elogio alla Follia di Erasmo da Rotterdam dice molto a riguardo: la risata aggrega il popolo e il comico smaschera con ironia pungente le debolezze dei potenti. Per questo, élite di ogni tempo si sono coalizzate spesso contro l’humour: nel ’500 il cardinale Borromeo scomunicò i comici e in età vittoriana alle ragazze fu vietato ridere in pubblico. L’idea che la risata collettiva abbia una verve rivoluzionaria è attribuibile alla festività greca del Komos, in cui contadini, schiavi e donne, scesa la notte, sfilavano nei boschi disturbando il sonno del popolo e, inebriati dal vino, ridenti e privi di ogni freno inibitore, manifestavano l’odio verso i regnanti. Etichettati dagli alti ranghi come militanti disobbedienti, i ribelli marciavano per la libertà sfoderando l’arma della risata, come omaggio offerto dal Dio Dionisio. La forza sprigionata dal popolo nei riti dionisiaci minava il potere angosciando gli animi di chi sedeva al trono e la censura inappellabile della festa diventava l’unico modo codardo per risolvere il problema. Sembra che i tempi moderni raccontino oggi un’altra storia: l’autoironia o il saper far ridere sono gli escamotage gettonati dai leader per raccogliere consensi e la geliofobia di cui soffrivano può dirsi ormai superata. E intanto risata più, risata meno, qualcuno ci casca.

Ascoltando Stefano Benni di Luisa Gissi

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i sono chilometri che meritano di essere percorsi, anche se costano un po’ di fatica, solo per sentire qualcuno parlare. Così è stato per Questioni meridionali, il free festival alla sua seconda edizione nel centro storico di Foggia. I

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ragazzi di Spazio Baol si sono davvero impegnati, straordinari, e sono riusciti a far arrivare il loro mito Stefano Benni, uno dei più grandi scrittori contemporanei, anche se a lui non piace definirsi grande. «Momentaneamente vivo», piuttosto, come dice simpaticamente raccontando un aneddoto: una volta una studentessa tedesca che ha fatto una tesi su di lui, quando gli spiegava il motivo per cui lo aveva scelto, aveva detto proprio così, in un italiano un po’ stentato ma per questo diventato straordinariamente filosofico. Perché è «momentaneamente vivo» e quindi «era più facile rompergli le scatole», aggiunge lui, con l’ironia e l’irriverenza che lo caratterizzano. «Che ne pensi di Foggia e delle questioni meridionali?» «Cazzo ne so, sono arrivato un’ora fa.» Il pubblico, tanto, di persone sedute ma anche in piedi ad occupare tutto lo spazio possibile, non può che essere catturato dalle sue storie e dal suo modo di dirle. Si parla di rassegnazione, che si stagna diversamente in ogni luogo, quasi come se ce la imponessero, ma non è solo una questione meridionale, piuttosto è tutta italiana. Si parla della meraviglia del tragico e del comico che vanno insieme, e muoiono solo nell’indifferenza – evitiamola il più possibile. Della serialità della scrittura richiesta dall’editoria versus l’imprevedibilità che invece la permea nell’azione reale dello scrivere. Di libri tutti diversi tra loro, checché ci giochi sopra Jorge Luis Borges dicendo che si scrive sempre lo stesso libro. Di un chihuahua che sogna di mettere i piedi a terra e di mangiare una brioche. Di Andrea Pazienza e di Carlo Emilio Gadda. Dei talenti e dei geni, due cose diverse. Delle poesie non condivisibili dedicate ad un figlio lontano, della passione che può arrivare a ogni età – per fortuna, del monologo di Lee (Comici spaventati guerrieri), del successo dei libri che rimangono in libreria e si trasmettono di generazione in generazione. È vero, è successo anche a me, alla fine ero lì perché Benni l’ho ereditato da mio padre. Si parla dei sognatori, «maledizione, smettetela di opporli ai concreti», è grazie ai sognatori se il mondo ogni tanto migliora, non è vero che i sogni non si possono realizzare. «Leggete Blues in sedici, è il libro più mio», ci dice Benni. Poi si presta alle domande, alle letture dei suoi testi, alle firme e ai sorrisi.

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Il bello dell’Utopia di Elena Scortecci

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l 1° giugno ha aperto i battenti la 55ª Esposizione Internazionale d’Arte, organizzata dalla Biennale di Venezia, intitolata Il Palazzo Enciclopedico. Il Padiglione include più di 150 artisti provenienti da 38 diverse Nazioni; per la prima volta anche la partecipazione della Santa Sede. Il tema, scelto dal curatore Massimo Gioni, prende spunto da un’idea dell’artista Marino Auriti (1891-1980) che, nel 1955, progettò un edificio di 136 piani e 700 m di altezza per ospitare un Museo del Sapere mondiale, che contenesse tutte le invenzioni create dall’uomo fin dall’età della pietra. Il progetto immaginario è rimasto incompiuto, ma Gioni ha deciso di portare avanti il concetto-base di Auriti: formare un pozzo di conoscenze umane a cui attingere, che permetta di condividere differenze e trovare comunanze nel ricco repertorio di saperi che l’uomo si è fabbricato. Cosa possono imparare i visitatori dall’Esposizione 2013? Secondo il Presidente della Biennale Paolo Baratta «lo spettatore […] ancorché scosso da gesti e provocazioni, alla fine ricerca nell’Arte l’emozione del dialogo con l’opera, che deve provocare quell’ansia ermeneutica, quel desiderio di andare oltre che ci si attende dall’Arte». E, in questo caso, un viaggio attraverso tutti i piani del Palazzo utopico, imparando a costruirci un’Enciclopedia dell’Arte per ritrovare emozioni che ci siamo dimenticati e per scoprirne di nuove. L’idea del curatore è un input verso l’apertura mentale, perché spesso, chiusi nelle nostre province, tendiamo a escludere tutto ciò che c’è stato prima o è esterno a noi. Un modo per iniziare a pensare in grande, proprio come Auriti, perché le intuizioni utopiche, anche se irrealizzabili, possono servirci per sbottonare i pensieri.

Evoluzione: un albero a tre rami di Aronne Noriller

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uando pensiamo alla storia dell’evoluzione umana, ci immaginiamo una linea dritta che dalla scimmia pelosa porta direttamente all’Homo Sapiens, passando per Homo Habilis, Erectus e di Neanderthal. Niente di più falso! La specie umana si è evoluta in risposta alle mutazioni dell’ambiente in cui viveva e dalla scimmia si è approdati alla forma che meglio conosciamo, cioè l’Homo Sapiens, attraverso uno snodo fondamentale, dimenticato da quasi tutti i libri di scuola.

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Si tratta dell’Homo Ergaster, successore dell’Habilis e progenitore di chiunque altro, vissuto tra due milioni e un milione di anni fa. All’Ergaster va il merito della scoperta dei metodi di accensione del fuoco e alla colonizzazione di tutte le terre emerse. Le sue migrazioni in Asia e le condizioni climatiche orientali gli hanno permesso di evolversi nell’Homo Erectus, quelle in Europa di dar vita all’Homo di Neanderthal, mentre i cambiamenti climatico-ambientali dei territori africani l’hanno trasformato nell’Homo Sapiens. Sapiens africano che a sua volta ha preso la via dell’emigrazione e incontrato (molto probabilmente) i suoi fratelli asiatici, gli Erectus, e (certamente, come dimostrano anche recenti scavi archeologici) i fratelli europei, i Neanderthal. Ecco come la nostra storia si trasforma in un grande albero con tre grandi rami. Due di questi, meno capaci di adattarsi ai cambiamenti climatico-ambientali, si sono estinti completamente (Homo Erectus e di Neanderthal). Il terzo, nato direttamente dal centro del tronco, ha avuto invece la capacità di sopravvivere. Siamo noi, discendenti degli Ergaster africani.

Quel morso fatale di Arianna Panzolato

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uindici grammi di zucchero ogni tre fette. Golden Delicious, Royal Gala, Renetta, alcune qualità. Rosse, verdi o gialle a pois. A Sir Isaac Newton cadde in testa e fu coniato il concetto di gravità. Trattasi di mele. Quella del marchio Apple è sicuramente la mela addentata più conosciuta al mondo. Fu morsa la sera del 7 giugno 1954 dall’inglese Alan Turing, matematico e ideatore del Calcolatore Universale che oggi conosciamo come computer. Una mela affogata nel cianuro e il pioniere dell’informatica moderna decise di segnare le sorti della sua vita con un morso fatale e un “arrivederci a mai più”. Turing salutò il rigido bigottismo britannico, preferendo il sudicio alla feroce cura ormonale che il Governo gli aveva imposto per “liberarsi” dall’omosessualità. Oggi il frutto proibito, cimelio di una vita avvelenata dal pregiudizio, è il simbolo di un’impresa che nel 2012 ha fatturato oltre 150 miliardi di dollari.

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L’isola che non c’è di Fabiana Aniello

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rimo maggio 1968. Nell’Adriatico, viene costituito un nuovo Stato: l’ingegnere bolognese Giorgio Rosa dà vita al suo sogno di «veder fiorire le rose sul mare», costruendo, a 11.612 km al largo della costa italiana di Rimini, una piattaforma a due piani di 400 m2 costata cento milioni delle vecchie lire, autoproclamandola Stato Indipendente: la Repubblica esperantista dell’Isola delle Rose, o più precisamente la Esperanta Respubliko de la Insulo de la Rozoj per usare il nome nella lingua ufficiale, l’esperanto. L’Isola della Rose era un vero e proprio Stato, sbocciato in acque internazionali, ma troppo vicino all’Italia per non “disturbare”. Si era data un governo, una lingua, aveva stabilito un proprio inno, disegnato uno stemma, e creato una bandiera di colore arancione con 3 rose al centro. Si era anche dotata di una valuta, il mill, corrispondente alla lira italiana, per l’emissione di francobolli. E vi erano già progetti di ampliamento in altezza, con l’installazione di negozi e bar. Uno Stato nell’Adriatico dunque. La notizia destò scalpore e immediata fu l’attenzione della stampa italiana e estera. Tante furono le congetture sul suo insediamento: avamposto militare per potenze sovietiche, tv o radio pirata, casinò, via di fuga fiscale. Tutto troppo insolito, troppo spinoso per non suscitare reazioni contrarie: vi furono interrogazioni in Parlamento, approdi di turisti curiosi, volontà di investimenti ulteriori e interventi delle forze dell’ordine. Dopo poco più di un mese, motovedette di guardia di finanza, carabinieri, polizia, sommozzatori della Marina vietarono l’approdo all’isola anche ai suoi custodi. Le Rose furono circondate da cariche di tritolo, resistettero a due esplosioni, finché una burrasca vi diede il colpo di grazia nel febbraio 1969. E così, dopo solo pochi mesi di vita e ben 10 anni tra ricerche e lavori di costruzione, il progetto dell’ing. Rosa, riconosciuto come brevetto n. 850.987, il suo peccato di gioventù, come lui stesso lo definisce, finì inabissato nell’Adriatico. L’ultima serie di francobolli rappresenta l’esplosione dell’isola e riporta una dicitura in latino «la violenza del nemico distrusse l’opera non l’idea». Questa è l’Isola delle Rose. L’IDEA. Di libertà. Di semplicità. Di rinnovamento. Di opposizione. Di reazione. Le fondamenta e i muri ritrovati in fondo al mare, sono tutt’oggi i pilastri di un sogno, la prova dell’ingegno dell’uomo. A 40 anni di distanza, l’idea torna a galla: dal 2008 ad oggi, al caso dello Stato burletta son stati dedicati uno spettacolo teatrale, una canzone, un documen-

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tario, un albo a fumetti di Martin Mystère, e in ultimo un romanzo (edito il 29 agosto 2012). Forse, in quest’Italia burletta abbiamo bisogno di un sogno reale. In un mondo oggettificante, abbiamo voglia di idee. Di scoprirle. Di realizzarle. Di salvarle.

Compagni nello sport e nella vita di Carolina Di Bitetto

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usebio Haliti e Veronica Inglese, stessa età, stesso sport (l’atletica), stesso allenatore, ma soprattutto stesso spirito vincente: entrambi sono freschi di tricolore italiano. Eusebio, ostacolista di origine albanese, tre mesi fa a Milano, ha vinto i Campionati italiani di atletica leggera sui 400 ostacoli; Veronica, fondista di Barletta, l’ha eguagliato domenica 22 settembre a Molfetta (BA), nella 10 km su strada con un ottimo 33:14 (secondo tempo europeo per la sua età). Un dettaglio è stato omesso: Eusebio e Veronica non condividono solo la passione per l’atletica o le ore di allenamento sulle piste del Gustavo Ventura di Bisceglie (BT). Sono compagni anche nella vita, formando, senza dubbio, una coppia straordinaria. E per «straordinaria» s’intende «fuori dal comune», perché non capita tutti i giorni (o forse non è mai capitato) di assistere al trionfo sportivo di due giovani talenti made in Puglia, per giunta fidanzati. «Ci siamo conosciuti grazie all’atletica – ha confidato Veronica – quando avevamo 13 anni. Io ero la più forte sui 1.000 e lui sui 300 ostacoli. Ci siamo ritrovati quando ho lasciato il mio vecchio allenatore iniziando ad allenarmi con la stessa società di Eusebio. Stiamo insieme da quasi sei anni». La vittoria dell’atleta ventiduenne è stata una sorpresa: «Ho ripreso a correre ad aprile, dopo sei mesi di stop per un intervento allo sperone calcagnale. Ambivo al podio, ma non speravo nell’oro». Bella storia anche quella di Eusebio, nato a Scutari, in Albania, ma cresciuto a Bisceglie. L’ostacolista ha ottenuto la cittadinanza italiana a luglio dello scorso anno, riuscendo in soli dodici mesi a riscattare una lunga attesa: «Vivo qui da ormai tredici anni ed è stato frustante per me non poter partecipare alle gare nazionali perché non avevo la cittadinanza. Questo influiva anche sulle mie prestazioni. L’averla ottenuta mi ha caricato molto». Divenuto ormai punto di riferimento per la nazionale, ad agosto Eusebio ha gareggiato come terzo frazionista nella staffetta 4x400 ostacoli al Mondiale di Mosca. Su quelle piste ha fatto gli allunghi con Usain Bolt. Che altro dire? Applausi per questa «coppia d’assi».

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(Non) lo potevo fare anch’io di Giovanna De Predicatore

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x direttore della Biennale di Venezia, Francesco Bonami cerca di mettere per iscritto una risposta all’interrogativo dell’italiano medio. “Ma questa famigerata arte contemporanea, la tela bianca dipinta di bianco di Ryman, la performance di Sehgal di un gruppo di persone che parlottano fingendosi ora spettatori ora protagonisti, il traumatico accendersi e spegnersi delle luci di una stanza vuota di Creed, possono davvero considerarsi Arte?”. Tramite un excursus sulle bizzarrie e sulle genialità di alcuni degli artisti contemporanei più quotati, Bonami spiega che oggi siamo chiamati a non essere più legati ai significati saussuriani delle parole o dei gesti. Non è considerevole né il significato né l’idea ma la sua realizzazione. Lo scopo di quest’Arte irriverente, ironica e spesso senza alcun significato è quello di ridefinirsi, sfidando i limiti della sua stessa definizione. Per colpa o forse merito di quest’epoca di crisi, anche l’ispirazione dell’artista è precaria e spesso assente. Lo guidano le sensazioni, le stesse che dovrebbero guidare lo spettatore che, invece di interrogarsi sul perché dell’opera, dovrebbe semplicemente limitarsi a percepire delle qualsiasi emozioni. Certo, è un traguardo mentale difficile da raggiungere se non riusciamo a liberarci dell’Italia delle Vacanze Intelligenti di Alberto Sordi, un po’ troppo chiusa e provinciale, affamata più di cronaca scandalistica che di sapere. Ma per fortuna artisti e critici ci stanno lavorando, talvolta facendosi gioco dello stesso italiano medio con la plausibilissima scusa del “no, non lo potevi fare anche tu, altrimenti lo avresti già fatto”.

Storie di giustizia. Friedrich Dürrenmatt di Sara Scissi

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etective ubriachi, giganti, nani e vecchie miliardarie deformi. I personaggi delle opere letterarie di Fredrich Dürrenmatt (scrittore, drammaturgo e pittore svizzero) sono spesso scettici dinanzi alla possibilità di arrivare alla giustizia attraverso i sentieri della Legge e le loro storie disignano un mondo influenzato dal Caso. Spät, in Giustizia, dopo l’assoluzione di Kohler, per evitare che la giustizia diventi «una farsa totale» si prepara ad attuare una giustizia criminosa, una coppia di ossimori che la legge di Mosè – occhio per occhio, dente per dente, mano

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per mano, piede per piede, bruciatura per bruciatura, ferita per ferita, livido per livido – non considera un reato. «Ogni concezione della libertà deve dare conto, in qualche modo, di due condizioni fondamentali: deve cioè spiegare in quale senso all’agente si presentino possibilità d’azione alternative e come questi possa autodeterminare le proprie azioni.» In La visita della vecchia signora Claire Zachanassian dopo anni di assenza torna al paese d’origine promettendo di donare un miliardo, ma ad una condizione. «Vi do un miliardo, e in compenso […] Tutto si può comprare. L’umanità, signori miei, è fatta per le borse dei milionari; con il mio potere finanziario ci si può permettere un ordinamento del mondo.» La promessa è invece la tragedia di un’intuizione geniale rovinata dall’imprevedibilità della vita. «Con la logica ci si accosta soltanto parzialmente alla verità. Comunque lo ammetto che proprio noi della polizia siamo tenuti a procedere appunto logicamente, scientificamente; d’accordo: ma i fattori di disturbo che si intrufolano nel gioco sono così frequenti che troppo spesso sono unicamente la fortuna professionale e il caso a decidere a nostro favore. O in nostro sfavore.» Il lettore è indotto a interrogarsi sul significato della giustizia umana, sulla relatività del concetto stesso di giustizia e sul senso del farsi giustizia da sé. «Il particolare fascino del nostro giuoco consiste nel fatto che a chi vi partecipa comincia a venire la pelle d’oca. Il giuoco minaccia di divenire realtà. Ci si chiede all’improvviso se si è davvero un delinquente, […]» La panne. Una storia ancora possibile.

La foresta cinese di Jinji di Francesca Bottari

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l Territorio cinese è vasto, conta qualche chilometro quadrato in meno dell’Europa. Se il mondo fosse una matryoshka la nazione cinese sarebbe in successione il pezzo da incastrare dentro il continente europeo. È un paese ancora sconosciuto, che affascina molti viandanti, quasi tutti però sono frenati dalla paura di non avere gli strumenti per conoscerlo. Superare la Grande Muraglia significa addentrarsi in un territorio differente, spesso lontano dagli immaginari ormai passati, di un impero al centro del mondo, che come allora, oggi si sta ripresentando in quanto tale.

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Fra le enormi città inquinate, le fabbriche dai tetti blu di un’epoca maoista ancora pulsante, tempi ristrutturati quasi nuovi all’occhio umano, si nascondono delle meraviglie naturali inestimabili. Luo Ping, una cittadina nella provincia dello Yunnan al confine con la provincia del Guanxi, è l’esempio perfetto di questo velo inquinato che cela sorprese mozzafiato. La cittadina è grigia, centri commerciali proliferano, nessuno sguardo occidentale di conforto, lo smog volteggia visibile nell’aria e gli angoli non sono affatto puliti. Appena arrivi a Luo Ping la sensazione è quella di voler subito ripartire. Invece, a pochi chilometri fuori città, si apre un luogo unico, creato dalla natura e che l’uomo sta conservando perfettamente: la foresta di Jinji Lin – Golden Roosten Hills –. Una vallata pianeggiante dove colline, staccate l’una dall’altra, s’inseguono. Da lontano l’orizzonte sembra un acquarello di un posto immaginato, da vicino invece, in ogni parte, piccole montagne che spuntano irregolari. La sensazione è quella di poter chiudere un occhio, allungare il dito di una mano e seguire i confini ballerini dell’incontro di queste colline con il cielo. A Jinji Lin sembra essere passato un gigante buono che si è divertito a giocare a castelli di sabbia con la nostra terra, lasciando lo spazio necessario ai fiori che in primavera – dal 15 al 25 marzo – riempiono di giallo i lembi di terra fra una collinetta e l’altra. Luo Ping rappresenta quella Cina dove inizialmente si pensa di essere in un Paese differente da quello che ci si aspettava, ma che se gli si dà fiducia e attenzione rivela magie – naturali e non – capaci di farti guardare a questa nazione in modo differente.

Il coming out degli eroi di Elia Giovanaz

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ella più libera società di oggi ha iniziato da qualche anno a germinare il fenomeno del cosiddetto coming out, ovvero la pubblica dichiarazione della propria omosessualità. Come si è visto, lo hanno fatto anche personaggi famosi e dello spettacolo, esponendosi alle più svariate critiche dei media. Il mondo del fumetto, sempre attento ai fenomeni sociali, ha registrato questi fatti e pensato bene di dire la sua. Prendiamo in considerazione il caso dei supereroi americani. Sulle pagine di Gotham Central (2003-2006), che vedeva come protagonisti i poliziotti di Gotham City, si è scoperta l’omosessualità della giovane detective Renè Montoya e si è indagato il conflitto con la sua famiglia, profondamente

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religiosa. La stessa Montoya, a partire dal 2006, ha avuto una storia d’amore con una famosa eroina della DC Comics, l’adrenalinica Batwoman. Ma il più chiacchierato è stato un coming out avvenuto nella primavera del 2012, quello di Alan Scott, il primo personaggio a vestire i panni di Lanterna Verde, creato nel 1940. Sorprende come anche un personaggio con più di settant’anni di storia riesca ad essere ancora così duttile, tanto da annunciare al mondo la sua omosessualità. Da poco si sono invece celebrate le nozze del primo supereroe dichiaratamente gay, Northstar, della squadra degli X-Men. Ne è passato di tempo, da quando si fantasticava malignamente su rapporti sessuali tra Batman e Robin. Oggi l’omosessualità è rispettata dalla comunità supereroistica e dai lettori appassionati di quei fumetti. La Nona Arte insegna che la virtù di un eroe non è intaccata dalle sue preferenze sessuali, così come non lo è la virtù di una qualunque persona.

La Pittura del Disagio. Antonio Ligabue di Antonella Bufi

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ntonio Laccabue, detto «Al Matt», nasce il 18 dicembre 1899 a Zurigo, figlio di Elisabetta Costa e di Bonfiglio Laccabue. Nel 1913 vive uno dei momenti che segneranno la sua vita, la madre muore per un’intossicazione alimentare che ucciderà anche tre dei suoi fratelli. Convinto che il responsabile della morte sia suo padre, deciderà di cambiare il proprio cognome in Ligabue. A questo punto viene affidato ad una famiglia svizzera con problemi economici che lo malnutrirà causandogli rachitismo e dandogli un aspetto sgraziato che lo accompagnerà anche da adulto. Comincia a disegnare da piccolo, la sua forza è nel segno, forte, marcato. Viene spesso espulso da scuole ed istituti di formazione a causa della sua condotta «immorale», che lo porta ad essere denunciato dalla madre adottiva e ad essere ricoverato per la prima volta in una clinica privata nel 1919. Viene espulso dalla Svizzera e trasferito nel paese d’origine del padre, dove a contatto con la natura e rimasto solo, comincia un percorso esplorativo nel campo dell’arte, che lo porta a “rubare” il fango dalle ruote dei trattori dei contadini e ad impastarlo con l’argilla presa dal Po per creare le sue sculture, animali in prevalenza, dalle linee nette, rudi, forti. Nel 1928 incontra Renato Marino Mazzacurati, uno dei fondatori della Scuola Romana che ne intuisce il talento e gli insegna a utilizzare i colori ad olio.

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Ed ecco il «genio» di Ligabue venire fuori, la sua pittura è naïf, fauve, un misto di memoria e creatività, è violenta, selvaggia, semplice, disperata, spesso rappresenta belve feroci in combattimento. Si immedesima in quelle belve, cerca il suo riscatto, il riscatto di una vita difficile, senza affetti, solo con se stesso, talmente solo da inventarsi una compagna e vestirsi da donna. Il colore è solo un contorno all’essenza del suo segno, al suo tratto demarcatore, ricercatore. Dipinge più di 300 autoritratti, il suo modo di cercarsi. La sua pittura è un bisogno, un’urgenza, l’unica cosa che gli regala momenti di pace. Nel 1937 viene ricoverato in manicomio per atti di autolesionismo e ne uscirà solo 4 anni dopo. La critica si accorge di lui, si allestiscono mostre, personali, non ha più problemi economici e lui può dedicarsi così alle sue passioni, tra cui la motocicletta che sarà causa di un incidente che, insieme ad una paresi che lo colpisce nella mente e nel fisico, lo porterà a dipingere sempre meno. Il 27 maggio del 1965, dopo 2 anni dalla paralisi, muore, perché non poteva più usare il suo braccio destro, muore perché non poteva più dipingere la propria libertà. «Dam un bès» (dammi un bacio) era la sua frase più usata, il suo urlo disperato, la sua ricerca continua di affetto.

L’ozio come stile di vita di Arianna Panzolato

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a cinetica della vita è in esponenziale accelerazione e non sorprendono vistose occhiaie su volti undertrenta: ribelliamoci alla fast life! È quello che fa Tom Hodgkinson nel libro L’ozio come stile di vita (Ed. Rizzoli, 2005) in cui la pigrizia è presentata come una maniera raffinata e produttiva per defilare dal logorio della vita moderna che rende l’uomo fiacco e spompato. L’opera, un’apologia in favore dell’ozio, vi svelerà il suo lato efficiente e vi aiuterà a risincronizzare il tempo liberandovi dagli orari culturalmente imposti. Perché mai imbottirvi di paracetamolo e fiondarvi in ufficio? La convalescenza è un diritto: mai nessuna Alla ricerca del tempo perduto sarebbe nata se Proust non fosse stato ipocondriaco; perché mai trangugiare in solitudine un sandwich dietro la scrivania se il pranzo è il momento della socialità per antonomasia dove si pratica l’arte della conversazione e idee brillanti sbocciano grazie al lieto godimento delle pietanze, lo sanno bene gli italiani che dal 1986 per la salvaguardia del cervello del sapiens propongono lo Slow Food. Vestirete i panni del flâneur francese, diventerete fautori del Saint Monday e di forme d’arredamento quali il Daybed vittoriano, tutto questo e molto altro in una giornata di straordinaria tranquillità e nel pieno rispetto del vostro ritmo circadiano. Cultura 133


Gli indigeni e la forza del disegno di Elena Scortecci

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ra i fiumi Paraguay e Nabileque, in territorio brasiliano, le poche donne caduveo rimaste portano ancora avanti la tradizione della tribù: particolari motivi ornamentali su corpo e oggetti, famosi in tutto il Sudamerica. Le donne hanno tramandato la tecnica per dipingere, con colori vegetali, trame geometriche ben definite, tanto da ispirare l’arte del pittore Guido Boggiani (1861-1901) che visitò la popolazione a fine Ottocento. Oltre a cinture, vesti, ceramica, legno, metallo, decorano i propri volti, considerati così più sensuali e conosciuti dai popoli vicini per la loro bellezza. I motivi dipinti non sono casuali: c’è differenza soprattutto in base al rango, poi per età e sesso. Negli anni Sessanta l’etnologo francese Claude Lévi-Strauss (1908-2009) elaborò una teoria sui disegni delle indigene caduveo. Il rigore nella suddivisione delle trame e nella distinzione secondo il ceto sociale celerebbe il loro concetto di società, secondo cui ogni classe deve rimanere divisa dalle altre – da qui il divieto di matrimoni misti. L’importanza di figure dipinte, disegnate o tatuate è comune in gran parte delle etnie indigene sudamericane. Tra i Mapuche, ad esempio, le sciamane (anche stavolta, donne) usano per i riti un tamburo di pelle ovina, il kultrun, che ha simboli fatti con il sangue; un’altra tribù andina, i Calchaquí, depone i resti dei neonati morti in urne con decorazioni antropomorfe stilizzate. Il disegno come mezzo per esprimere abilità e idee, un totem che i colonizzatori non sono riusciti a estirpare, forse perché troppo sottile da comprendere per chi è abituato a maneggiare parole. Tradizione profonda a cui le ultime donne native si aggrappano per urlare le loro credenze, silenziosamente.

Letteratura di (Mala)parte di Silvia Tait

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urzio Malaparte (1898-1957) è entrato nella leggenda e ne è rimasto prigioniero. La sua vita di scrittore e giornalista è stata un azzardo e come tutti gli azzardi poteva finire bene o male. È finita male. Di lui si dicono spesso peste e corna, prima tra le fila del fascismo e poi tra quelle del comunismo, era uno a cui piaceva bluffare. Forse. Ma il punto è un altro. Ad oggi non bastano neppure le cure di Adelphi (che negli ultimi anni ha curato le edizioni di alcune delle principali opere malapartiane) e le parole di Kundera (Un incontro, Adelphi, 2009) per evitare la congiura del silenzio: in

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quasi tutte le Storie della letteratura italiana e le antologie scolastiche Malaparte è ancora ampiamente ignorato. Per non parlare del suo Kaputt, un capolavoro letterario del dopoguerra scambiato per un anonimo reportage infarcito di menzogne. Sì che invece, dopo la sua pubblicazione a Napoli nel 1944, il libro ha fatto il giro del mondo, tradotto nelle principali lingue ed accolto da un enorme successo, ma il tutto sempre fuori dai confini nazionali. Nonostante la vicinanza con il genere del reportage, si tratta di un romanzo costruito con sapiente maestria che assomiglia ad uno di quei piccoli rompicapi di logica che non ti basta un pomeriggio per risolverlo. Anzi, forse per Kaputt una soluzione nemmeno esiste. Il romanzo è stato ricalcato sulle cronache di guerra inviate dal fronte ai giornali italiani tra il 1941 ed il 1942 ma pagina dopo pagina ci si accorge che qualcosa non torna. La cronaca dei fatti come ce la aspetteremmo da un normale reportage giornalistico non c’è. Al suo posto la finzione nuda e cruda, una serie di racconti nei racconti, immagini oniriche, illusioni, un’ironia amara contro gli inganni del proprio tempo. Malaparte avrebbe potuto scrivere un resoconto preciso di eventi e persone. Sarebbero stati sufficienti alcuni dati e qualche nome e, dietro alla firma, gli sarebbe stata garantita la fama. Invece ha puntato sull’arte e sul potere della finzione per rivelare il dettaglio sepolto. Sepolto nella Storia, dietro al trucco delle ricche signore ai banchetti, alle conversazioni minate con gli uomini di potere, dietro al muro di un ghetto o alle porte del vagone di un treno carico di infelici. Kaputt è stato un azzardo. Come tutti gli azzardi poteva finire bene o male. Ma qui Curzio Malaparte ha vinto la sua scommessa.

Diventa un’opera d’arte di Elena Scortecci

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on l’invenzione degli Smartphone è cambiato anche il modo di fotografare. Addio vecchie foto mosse, sgranate o scure; benvenuti effetti speciali di ogni tipo che rendono la semplice immagine un’opera d’arte. Nel supermercato virtuale Android si possono trovare applicazioni per tutti i gusti, che modificano qualsiasi aspetto della foto, dalla messa a fuoco alla luminosità, dal colore alle linee e così via. La maggior parte delle App sono gratis mentre altre a pagamento (ma mai più di 1 o 2 euro circa) e la caratteristica più richiesta è che i risultati ottenuti si possano poi condividere sui social network, per far ri-

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dere gli amici con effetti particolari o per migliorare i difetti. In ogni caso una delle opzioni più importanti è il filtro, che permette di cambiare l’immagine originale, ad esempio rendendola opaca o invertendo i colori. Il filtro più usato è il bianco e nero, ma ci sono App che ne contengono anche 30 diversi tipi. La scelta dell’artificio dipende solo dal gusto di ogni fotografo amatoriale: si va dall’Otaku Camera, che ricrea lo stile manga in bianco e nero, anche con frasi in giapponese, alla Cartoon Camera, per trasformare qualsiasi cosa in cartoon, con modalità visibile fin dalla schermata iniziale. Ci sono poi App professionali, come la Camera ZOOM FX, per foto di alta qualità, o la InstaCamera, che permette di catturare soggetti in movimento solo premendo l’icona, senza l’attesa del caricamento. Se è vero che la tecnologia ci permette di toccare livelli mai raggiunti, con tutti questi (e infiniti altri) dispositivi c’è da chiedersi che fine faranno le istantanee naturali, quelle dove si vedono le rughe, il colore vero dei nostri capelli, le espressioni genuine prese di sorpresa. Forse andranno ad accumularsi insieme ai rullini nel cassetto dei ricordi, ma quando le guarderemo ci diranno sinceramente come eravamo. Un dipinto senza ritocchi.

Gran Premio Nuvolari 2013: ritorno al passato di Elena Scortecci

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n giorno esci per fare un giro in bicicletta e ti ritrovi improvvisamente a viaggiare indietro nel tempo: iniziano a passarti accanto tantissime auto d’epoca a due posti, che corrono e suonano il clacson allegramente. È capitato a tutti quei fortunati che si sono ritrovati – di proposito o casualmente – nel percorso Mantova-Rimini-Siena tra il 20 e il 22 settembre. Nella prima tappa sono partite da Mantova più di 250 vetture: Bentley, Bugatti, Alfa Romeo, Jaguar, Porsche e tante altre verso Rimini; il secondo giorno si sono dirette a Siena per poi tornare a Rimini in serata, soggiornando negli hotel più lussuosi; infine da Piazzale Fellini hanno attraversato Ferrara e il percorso si è chiuso a Mantova con la cerimonia di premiazione. I partecipanti – anche qualche coraggiosa donna al volante – provengono da tutto il mondo, soprattutto Svizzera, Italia e Germania. L’apertura e chiusura dell’Evento avviene a Mantova perché ha dato i natali al campione automobilistico Tazio Nuvolari (1892-1953), a cui è dedicato il GP. Non solo strade comuni: quest’anno le vetture sono passate anche dall’Autodromo Nazionale di Modena, da quello Internazionale di Imola e attraverso il Castello di Panzano (MO).

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Durante il passaggio si vedono Lancia o Fiat con almeno cinquant’anni di storia sorpassare quelle nuove, come se la modernità non fosse altro che una copia del passato. Vedere quelle auto, spesso cabriolet, volare sulla strada e i capelli dei guidatori che svolazzano sotto i cappellini, fa intuire che il modo migliore per godersi la gara è correre con loro, nel vento che li accompagna. Non stare fermi sul bordo ma vederli andare, o aprire il finestrino e ascoltare il rumore meccanico delle marce che continua a trasportarli nel 2013 e oltre.

Mars e la demenza senile di Alessandro Pasculli

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olti dei maggiori problemi di salute del mondo occidentale (cancro, demenza, ictus cerebrale, infarto del miocardio) dipendono da fattori, quali abitudine al fumo, consumo di alcol, inquinamento, sedentarietà, stress psichico, dieta squilibrata, in grado di incrementare gli effetti nocivi dei radicali liberi dell’ossigeno. Tali molecole, normalmente prodotte dal metabolismo e necessarie alla comunicazione tra cellule o alla difesa contro i microbi, danneggiano continuamente le componenti cellulari. Numerosi sistemi antiossidanti sono presenti nel nostro corpo ed alcuni di essi si sostentano con fonti alimentari. Diverse molecole antiossidanti assumibili con la dieta sono divenute famose grazie al marketing delle multinazionali alimentari, cosmetiche e farmaceutiche: è il caso del coenzima Q10, della melatonina, dei polifenoli. Mars Inc. (30 miliardi di dollari fatturati nel 2010, al terzo posto secondo Forbes nella classifica delle aziende statunitensi) ha compiuto numerose ricerche su topi, suscitando le critiche degli animalisti di PETA, a proposito dell’attività antiossidante (e non solo) dei flavanoli presenti nei semi di Theobroma Cacao, pianta da cui si ricava, appunto, il cacao in polvere. I flavanoli sono molecole con potenti proprietà antiossidanti accertate in vitro (su cellule o componenti cellulari) e sono contenuti anche in altri vegetali, come Camellia Sinensis, da cui si ricava il tè. La Comunità scientifica non è concorde sugli effetti dei flavanoli sull’uomo, dato che le loro quantità raggiunte nel sangue e nelle cellule del corpo sarebbero da alcuni ritenute troppo basse per esplicare un effetto significativo sulla salute. Inoltre nei processi di raffinazione del cacao gran parte dei flavanoli sono allontanati ed il prodotto finito, anche se cioccolato fondente, ne è quasi privo. Mars ha però studiato un sistema di lavorazione del cacao in grado di conservare maggiormente i flavanoli ed ha cominciato anche a finanziare ricerche su uomini.

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Uno studio finanziato da Mars, pubblicato dal dott. Desideri dell’Università dell’Aquila su Hypertension, ha dimostrato che il consumo giornaliero di una bevanda ricca in flavanoli prodotta da Mars stessa, da parte di anziani affetti da demenza incipiente, può migliorare la funzione cognitiva, la capacità di produrre un linguaggio fluente, abbassare la pressione arteriosa e migliorare il metabolismo dei grassi e degli zuccheri. Tali risultati, sebbene interessanti e validi, nascono in un contesto dichiarato di conflitto di interessi e rischiano di ridursi a semplici ulteriori argomenti per sostenere la pubblicità dell’azienda. La promozione di una dieta equilibrata e ricca in vegetali grezzi, in contrasto agli effetti della diffusione plurigenerazionale, favorita anche da Mars, di una nutrizione scriteriata, dove i preziosi nutrienti della natura sono stati a lungo confusi in una quantità inutile di grassi e proteine raffinati, resta la migliore strategia antiossidante.

Pacific rim

di Valerio Clemente

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iciamolo pure, se siete cresciuti con gli epici scontri televisivi tra robottoni giapponesi dai nomi improbabili e super mostri spaziali tanto devastanti quanto inesorabilmente destinati a soccombere, allora questo è il film che fa per voi. Non rientrate in questa fattispecie? Nessun problema, il film è pur sempre un valido blockbuster, risultando godibile anche per il pubblico meno interessato agli scontri intergalattici, alle interazioni uomo-macchina e alla mitologia. Alla regia Guillermo del Toro, una vera e propria garanzia di qualità. Autore maniacale e perfezionista, collezionista compulsivo di memorabilia cinematografici per lo più legati al fantasy (ha comprato una villa il cui unico scopo è quello di contenerli tutti); ogni opera da lui firmata risente di uno stile inconfondibile fatto di dettagli curati nei minimi aspetti, citazioni e un mal celato gusto per l’horror. Il ruolo del protagonista è affidato a Charlie Hunnam che, parcheggiata in garage l’Harley della serie tv Sons of Anarchy, si mette ai comandi di un robot a propulsione nucleare alto 80 metri (Jaeger nel film) per fronteggiare la minaccia aliena dei Kaiju, emersi da un portale interdimensionali aperto in una faglia dell’oceano Pacifico e determinati a conquistare la Terra distruggendo ogni cosa al loro passaggio. Fin qui la trama non presenta niente di così innovativo: la classica contrapposizione del bene al male, la solitudine dell’eroe, il coraggio di fare la scelta giusta e così via. La peculiarità del film risiede, però, in almeno due elementi. In primo luogo la forza visiva con cui ci appaiono tanto gli Jaeger, nella loro imponenza

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meccanica, tanto i Kaiju nella loro brutalità e mostruosità; i loro scontri sono vere e proprie risse alla vecchia maniera in cui anche una nave mercantile (!) può diventare un’arma non convenzionale con cui infierire sull’avversario. E poi la natura stessa degli Jaeger, macchine potenti ma sferraglianti, assemblate e riparate in hangar/officine da operai con elmetto e tuta da lavoro; è forse questo approccio quasi artigianale alla sofisticata tecnologia dei robot a renderli così concreti e per così dire, verosimili. Arrugginiscono, perdono pezzi, incassano colpi a più riprese, spesso fanno anche una pessima fine. Ma come certi vecchi pugili non si arrendono, provano in tutti i modi a restare in piedi e, in fin dei conti, non si può non tifare per loro. Tra imprevisti, scontri e battute a effetto Pacific Rim si è dimostrato, anche al botteghino, in grado di attrarre un pubblico ampio e variegato e c’è già nell’aria profumo di sequel. Per alcuni due ore di svago, per altri un salto nel proprio passato di divoratori di fumetti e cartoni animati giapponesi. Attenzione, infine, ai titoli di coda.

E così vorresti fare lo scrittore. Giuseppe Culicchia di Luisa Gissi

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on seguire mai i consigli. Non mostrare mai il lavoro svolto né discuterne. Non rispondere mai a un critico. Così sentenzia Raymond Chandler, citato in esergo a questo libro, insieme a Bret Easton Ellis che scrive quanto siano insopportabili gli scrittori, visto che sembrano tutti pavoni, e a Charles Bukowski, che narra di quanto non se ne possa più di baciare uno scrittore. Così, è sufficiente non leggere nemmeno una parola dell’autore per capire che questo libro farà innanzitutto ridere, a partire dalle prime citazioni. La forza di Culicchia, in queste pagine, non è di certo l’originalità di una storia. Ci sono tutti i cliché che potete farvi venire in mente. O forse quasi tutti. Tra le righe ad essere presi in giro. Il lettore medio, che è anche scrittore, certamente, perché «in Italia sono più quelli che scrivono che quelli che leggono», si riconoscerà in diverse righe. Probabilmente vi verrà voglia di (ri)leggere David Foster Wallace, pover’uomo mai abbastanza compianto. Sicuramente vi sentirete calvinianamente più leggeri, quando avrete finito le pagine. Che già un po’ vi mancheranno. Non vi domanderete se è un testo autobiografico, perché lo è chiaramente, dell’autore emergono aneddoti ma soprattutto la passione colta. Piuttosto vi chiederete su quale gradino ci si sente meglio: se su quello della “Brillante Promessa”, del “Solito Stronzo” o del “Venerato Maestro”.

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Il “dorato mondo delle Lettere” appare in tutto il suo splendore, è proprio il caso di dirlo, anzi, in tutte le sue splendenti e divertenti contraddizioni. Del paraculismo è il titolo di uno dei capitoli, ma soprattutto è il leitmotiv ironico che si trova in ogni pagina.

Sfidare gli Dei

di Giulia Bazzanella

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uando andavo al Liceo, ero una schiappa nelle versioni di greco. Ma c’era una parola che mi è rimasta impressa più di altre, una parola che cela un più ampio concetto. Un concetto a mio avviso intramontabile e più che mai attuale. Quella parola è ὕβϱις, che il vocabolario mi faceva tradurre con tracotanza. In realtà questa parola è utilizzata in tutta la letteratura greca per identificare la superbia dell’Uomo nello sfidare gli Dei. Una specie di versione antichissima del peccato originale di Eva. Una colpa di cui si macchiano celeberrimi personaggi mitologici, che per questo vengono sottoposti a feroci punizioni per volere degli Dei. In principio fu Prometeo. Rubando il fuoco agli Dei, verrà successivamente incatenato ad un monte con uccelli rapaci che si cibavano delle sue interiora. Ulisse sfida il Dio del Mare oltrepassando le invalicabili Colonne d’Ercole e acceca Polifemo, figlio di Poseidone. Per questi peccati sarà poi costretto a vagare per dieci anni senza poter fare ritorno ad Itaca. Agamennone rapisce Criseide, figlia di un sacerdote di Apollo, rapimento che darà l’inizio alla guerra di Troia e alimenterà l’ira del Pelide Achille. Pandora apre il vaso, disobbedendo agli ordini di Zeus, rovesciando sugli uomini tutti i mali in esso contenuti. La furia degli dei nel punire uomini presuntuosi e superbi che si beffano delle leggi divine è quanto mai attuale. Certo, scoperte e rivoluzioni sono avvenute grazie a uomini che hanno osato mettere in dubbio leggi esistenti e ridiscutere verità date. La superbia è componente della natura umana. Tuttavia, sarebbe bene tenere a mente alcune grandi tragedie e disastri causati dall’arroganza umana, che hanno riportato l’Uomo a considerare la sua fallibilità di fronte a leggi più grandi, che si credano divine o naturali, poco importa.

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Sherlock Holmes di Elia Giovanaz

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e avventure di Sherlock Holmes, il detective nato dalla penna di Arthur Conan Doyle, sono state adattate per il grande schermo innumerevoli volte, tanto che Holmes è diventato il personaggio letterario più sfruttato dal cinema (60 cortometraggi nella sola epoca del muto). Nel 2009, proprio quando sembrava non esserci più interesse da parte del pubblico per l’investigatore, il regista Guy Ritchie e il produttore Lionel Wigram sfornano il loro Sherlock Holmes, il cui successo porta al sequel del 2011 Sherlock Holmes – Gioco di ombre. Bisogna dunque sottolineare come il recupero del personaggio sia stato quasi un rischio: serviva, infatti, un’idea per adattarlo agli spettatori di oggi, per dargli una ventata di freschezza e farlo apparire come nuovo, nonostante il secolo di storia cinematografica sulle spalle. Ci si può sorprendere allora nel vedere un Holmes reinventato, come non lo si era visto mai prima. Ed ecco il nocciolo della questione: il personaggio è stato definitivamente rovinato e snaturato? Secondo alcuni sì, per altri invece no. Holmes è una figura che ha sempre vissuto di stereotipi e luoghi comuni, come il berretto da cacciatore di cervi, la mantellina Inverness, l’onnipresente pipa ricurva in bocca, l’intercalare «Elementare, Watson!». Ma sono stereotipi di origine teatrale, inventati dall’attore americano William Gillette, agli inizi del Novecento e non hanno nulla a che fare con i racconti di Doyle. Tutto ciò scompare giustamente nei film di Ritchie, dove invece si lavora per recuperare le origini del personaggio e restituirne un’immagine più fedele. Il fare di Holmes un personaggio d’azione, per esempio, non è per niente ingiustificato, perché fin dal primo romanzo Uno Studio in Rosso, Watson ci descrive le sue abilità di lottatore, pugile e schermidore. Viene poi finalmente reso paritario il rapporto Holmes/Watson. Se nei film precedenti Watson era la spalla un po’ sciocca, qui torna ad essere amico fraterno e supporto significativo alle indagini, che pur restando un passo indietro in quanto a genialità all’amico, detiene una personalità forte, capace di criticare e di ironizzare sui comportamenti più eccentrici del detective. Nonostante le apparenze possano ingannare, gli autori del film non hanno voluto sfruttare un complesso personaggio letterario per costruire l’ennesimo Blockbuster adatto al grande pubblico, ma hanno compiuto un’ottima operazione di rebooting che tradisce una profonda conoscenza degli scritti di Doyle. Sta ora al pubblico di appassionati riscoprire il mito dell’Holmes originale, andando a rileggere i suoi indimenticabili racconti.

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Tina Modotti. Il fiore della rivoluzione di Mariangela Cormio

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uce alle camere oscure. Emigrante, rivoluzionaria, intellettuale, artista. Tina Modotti è stata tutto questo e molto di più, eppure l’unico aggettivo che le piaceva indossare era quello di fotografa. Figlia di un socialista italiano e di un momento storico segnato dalla repressione, già adolescente si imbarca per l’America, il nuovo mondo con non meno problemi del vecchio, e trova infine in Messico il grembo fertile per lo sviluppo delle proprie idee e della propria esistenza. Con l’apparecchio fotografico imbraccia l’arma migliore per l’affermazione non solo di una politica sociale, ma della forza vitale di un popolo, rintracciata all’interno di visioni di insieme quanto di dettagli fugaci. La processione di sombreri lungo una manifestazione, le icone simboliche di immediata potenza evocativa tanto quanto le mani callose disegnate dal lavoro, il profilo di un fiore e il profilo di un uomo, tutto parla alla sensibilità di una donna che fu moglie, amante e musa fedele alla propria coscienza mai meno di quanto lo fosse ad ogni suo ruolo. Caleidoscopica, coraggiosa, scelse di assorbire la realtà che la circondava proponendo una visione che mescolava le utopie delle correnti surrealiste e degli scenari bohèmien al sudore e al sangue di un popolo, quello degli operai e degli agricoltori del Messico, che con la propria rivoluzione contro il potere dittatoriale di Díaz aveva ispirato tutto il mondo. «L’arte non può esistere senza la vita», scriveva nel 1925 ad Edward Weston, suo compagno e maestro, e questa dicotomia, fonte tanto d’ispirazione quanto di lotta interiore, non avrebbe mai smesso di accompagnarla. Quando, con la violenza stalinista, il contrasto divenne insuperabile, Tina smise di scattare fotografie. La sua opera era compiuta, ma bastava già, per nostra fortuna, a riempire il futuro di quella sua dedizione alla libertà che è la più grande lezione da acquisire.

Renato Cesarini. Il neologismo di Titti Germinario

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enato Cesarini, quello del gol segnato all’ultimo minuto. L’unico calciatore diventato un modo di dire e di vivere, che ha insegnato all’uomo a non rinunciare mai, a lottare fino alla fine, a non pensare che sia finita, perché anche in quell’ultimo minuto, in quell’istante che precede la fine, ci può essere un inizio. 13 dicembre 1931. Partita amichevole Italia-Ungheria.

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Gli azzurri chiudono il primo tempo in vantaggio, uno a zero, gol di Libonatti. Avar pareggia. Orsi riporta l’Italia in vantaggio, ma Avar segna di nuovo: due a due al novantesimo. L’incontro è agli sgoccioli. Cesarini la racconterà così: «Mancavano pochi secondi alla fine, dirigeva lo svizzero signor Mercet. Ad un certo punto ebbi la palla. Avevo addosso il terzino Kocsis, un tipo che faceva paura. Non potendo avanzare passai alla mia ala, Costantino. Allora ebbi come un’ispirazione, mi buttai a corpo morto, tirai Costantino da una parte, caricandolo con la spalla, come fosse un avversario, e fintai, evitando Kocsis. Il portiere Ujvari mi guardava cercando di indovinare da quale parte avrei tirato. Accennai un passaggio all’ala dove stava arrivando Orsi, Ujvari si sbilanciò sulla sua destra, allora io tirai assai forte, sulla sinistra, il portiere si tuffò, toccò la palla, ma non riuscì a trattenerla. Vincemmo per tre a due. E non si fece nemmeno in tempo a rimettere il pallone al centro». Renato Cesarini è il primo azzurro nella storia del calcio a segnare al novantesimo. Di reti, così, ne segna tre in serie A: nel 1931 all’Alessandria, nel 1932 alla Lazio e nel 1933 al Genoa. Tre minuti in tre anni per trovare la gloria in una storia, la sua, di povertà ed emigrazione. La favola dell’attaccante di Senigallia parte da un’infanzia poverissima tra i vicoli di Buenos Aires. È stato calzolaio, acrobata, pugile, artista di strada, radiocronista, organizzatore di corse ciclistiche e suonatore, prima di incontrare il calcio. Dopo di lui, i cronisti cominciano a parlare di «Zona Cesarini», per indicare le marcature effettuate allo scadere. Poi, tale espressione, indicherà qualsiasi avvenimento, gesto o azione compiuti al limite del tempo massimo. Cesarini ha insegnato che non conta l’ultimo minuto, ma come si gioca fino all’ultimo istante e lui, al novantesimo, quel piede ha avuto il coraggio di metterlo.

Non ci resta che fuggire in Egitto di Luciana Cincelli

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iente processo di stabilizzazione politica nel nord Africa, tantomeno fughe di cervelli sulle coste del Mediterraneo. Al contrario di oggi, Duemila anni fa dall’Egitto non si emigrava, ci si rifugiava. Questo è quello che ci racconta l’evangelista Matteo nel suo di Vangelo. La storia è arcinota: un bel giorno i Magi, affascinanti e pettegoli sapienti, si presentano alla porta di Erode e, tra una chiacchiera e l’altra, si fanno sfuggire che in giro c’è un bambino che prima o poi gli soffierà il titolo di re. La cosa lo indispettisce e il sovrano si vede costretto ad inviare un drappello di soldati

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per uccidere tutti i bambini al di sotto dei due anni (probabilmente i giovani di allora facevano più paura ai politici del tempo). Vista la brutta piega presa a Betlemme, un angelo si precipita da Giuseppe, l’anziano padre di Gesù, e lo incoraggia ad andarsene. La Sacra Famiglia parte così alla volta dell’Egitto vagando per paesaggi desolati, abitati da bestie feroci e trovando qualche momento di ristoro nelle rare verdeggianti oasi desertiche. La mia visione delle oasi è particolarmente distorta da anni e anni di abbonamenti al National Geographic, ma forse la mia idea cozza ancor di più se messa a confronto con quella meravigliosamente narrata dal fiammingo Rembrandt in un suo singolare lavoro datato 1647: Il riposo dalla fuga in Egitto. L’olio è, a dispetto delle classiche trattazioni del tema religioso, un’intima visone di un paesaggio notturno, giocato per la gran parte sui toni cupi dei bruni rischiarati dall’argenteo riflesso della luna e dalla luce calda di un falò. L’oasi, una tenebrosa foresta di faggi e cespugli, è il contenitore della scena evangelica relegata a un minuscolo angolo del dipinto. Lì, la Sacra Famiglia, accampata vicino ad una pozza d’acqua al riparo di un antro, si scalda alla luce di un fuocherello acceso alla bene meglio. Il gioco delle luci accompagna lo sguardo, le fiammelle danzano sull’acqua, illuminano i volti stanchi e avvolgono con il loro bagliore dorato i dimessi abiti, mentre il freddo riflesso della luna vacilla negli occhi ferini nascosti tra i cespugli. Tutto il resto è oscurità, silenzio. Del dipinto si sa poco. Addirittura, fino a poco tempo fa, il soggetto indicato nel catalogo dell’artista era I gitani, perché uno strato di vernice ingiallita ricopriva quasi totalmente la superficie del quadro rendendo pressoché illeggibile gran parte della scena. Ma, forse, questo duplice registro non è affatto accidentale; in un mercato come quello olandese, fatto di protestanti e cattolici la libera interpretazione, sicuramente lasciava spazio a un margine maggiore di vendita. Così chi desiderava un paesaggio notturno era servito, allo stesso modo chi desiderava riflettere nel calore della propria casa sul tema religioso. Chiunque incappi in questo dipinto può darne la sua interpretazione. Una cosa non cambia: il parere di stare di fronte a una piccola meraviglia. Sia che lo si giudichi dal punto di vista della tecnica, nella resa dei chiaroscuri e nelle ombre, sia nella trattazione eccentrica del tema, qualunque esso sia. Alla National Gallery of Ireland a Dublino, il capolavoro è visibile fino al 20 Gennaio 2013 all’interno di un’esposizione temporanea intitolata – non a caso – Art Surpassing Nature: Dutch Landscapes in the Age of Rembrandt and Ruisdael.

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Niccolò Fabi: Ecco il regalo di Natale di Angela Marzocca

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il messaggio iniziale del settimo lavoro discografico del cantautore romano, che rompe i tre anni di silenzio dall’ultimo album Solo un uomo del 2009. E sembra che questa volta, più di tutte, gli possa essere riconosciuta a pieno titolo la paternità di un’ottima idea. Gli 11 inediti sembrano la somma di un lavoro consapevole, maturo, in cui nulla è lasciato al caso, nemmeno la leggerezza musicale, forse un po’ disillusa, che ha spesso caratterizzato le sue canzoni. Si parte con Una buona idea appunto, canzone dal ritornello radiofonico ma con il testo più impegnato del disco, con riflessioni sulla vita sociale e politica, di cui l’autore (ma anche tutti noi, diciamoci la verità) si sente orfano. Si passa poi a ballate più delicate come Indipendentemente, dove si riconosce il tocco ai fiati di Roy Paci, o Elementare, in cui parole lievi e poetiche si fanno spazio tra gli archi dell’accompagnamento. Non mancano i suoni più elettronici de Le cose che non abbiamo detto, che ricordano gli esordi del cantautore (ormai 15 anni fa), ma anche le note vintage di Lontano da me, che tocca i temi del viaggio, spesso ripreso da Fabi, nel senso più profondo del termine, visto come perdita, ricerca ma soprattutto scoperta, di se stessi prima che di tutto il resto. Una nota particolare per Sedici modi per dire verde, che dal primo ascolto rapisce: se il primo brano è una dedica agli orfani di qualcosa, questo sembra scritto per tutti coloro che sono alla ricerca e non si sono arresi. «Una strada di terra che inizia ai confini del niente e il mio tutto che ancora si ostina a cercare una via» è così che comincia e si conclude questo pezzo, come in un cerchio, dalla melodia un po’ blues e coinvolgente, che come una favola sembra accompagnare l’uomo alla scoperta di una strada, qualunque essa sia, nel faticoso viaggio della vita, dal quale però ci si salva in un modo o nell’altro. Accompagnato dagli amici musicanti Pier Cortese e Roberto Angelini, Fabi ci regala un racconto in musica, più che un semplice disco, con i messaggi incisivi e profondi dell’uomo ormai segnato dal tempo e dalle intemperie della vita, ma che con gli occhi di un ragazzo intravede ancora l’arcobaleno. Ecco.

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Oblivion: tra vintage e post-moderno di Gabriella Birardi Mazzone

Chi da adolescente, in gita scolastica, non ha mai provato a riscrivere testi di canzoni, magari con frasi idiote come “Che mal di pancia, sarà perché non cago” sulla falsa riga del «Che confusione sarà perché ti amo». Chiunque l’ha fatto e il risultato scadeva sempre in una risata moderatamente idiota. Nessuno però, fino ad ora, è stato in grado di riadattare canzoni famosissime, per raccontare, dissacrando quel tantino bastevole, il romanzo-mattone I promessi sposi, agonia di ogni liceale da tempi immemori, in soli 10 minuti. Loro, gli Oblivion, ci sono riusciti! E il video è un fenomeno web tra i più cliccati e riprodotti in tutti i modi e in tutte le salse da adolescenti nelle scuole ad adulti nei piccoli teatri di provincia. Un quintetto di “ragazzacci”, vocalist (ma anche consonant! Guardate il loro spettacolo e capirete) ineccepibili, nonché veri show-men and girls: Graziana Borciani, Davide Calabrese, Francesca Folloni, Lorenzo Scuda e Fabio Vagnarelli. Su Facebook si descrivono come i cinque miracolati dalla banda larga, i cinque punti del governo del cantare, i cinque anelli delle obliviadi, i cinque gradi di separazione tra Tito Schipa e Fabri Fibra, i cinque madrigalisti post-moderni. Scartati da X-Factor perché giudicati non adatti al format (grazie a Dio!), in questi mesi sono in scena in molti teatri d’Italia, con il loro spettacolo Oblivion Show 2.0: il sussidiario. Esilaranti 90 minuti , conditi di puro riso senza fronzoli e senza ricorso alle scontate (e solite) volgarità e ai doppi sensi. Stupisce così tanto da credere che una sintesi musicale tra Lady Gaga e Bach sia possibile e, con un sorriso a trentadue denti, ascolti Pokerface in versione bachiana. «Hanno fatto per anni il musical per amore del musical e per mangiare col musical. Sognavano di morire per amore e nel frattempo stavano morendo di fame.» Con autoironia si definiscono cosi questi nuovi cantastorie che, sommando fantasia e talento artistico, non smettono di attrarre in teatro piccoli e grandi. Conviene non lasciarseli scappare ma scappare a comprare i biglietti. Fidatevi, ballerete, tornando a casa, trascinati dall’euforia del loro ultimo singolo Tutti quanti voglion fare yoga – che è il primo videoclip interattivo della storia; chiunque voglia divertirsi o improvvisarsi regista o attore di ciak può farlo assieme a loro. Che ne dite? Io ci proverò. Anzi cerco di recuperare subito un vestito indiano… Taj Mahal, aspettami!

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Mi ammazzo, per il resto tutto ok di Deysi Astudillo

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raig fa parte del mio gruppo di amici; è il migliore amico del mio ragazzo, Aaron, per la precisione. Frequentiamo tutti la stessa scuola. Non è una scuola qualsiasi: da qui escono i futuri dirigenti del paese e, chissà, forse anche del mondo. Quasi ogni sera ci troviamo a casa di Aaron per giocare a qualche videogioco e fumare una canna in compagnia. Ci rilassiamo. Ad ogni modo, lunedì Craig non si fece vedere a scuola, per cui gli telefonai. In un istituto di eccellenza come il nostro anche una singola giornata persa può essere fatale. Un compito perso può voler dire arrivare solo a 93/100, un punteggio mediocre che può rovinare la media scolastica per sempre, e così nessuna università rispettabile ti prenderà mai in considerazione, non troverai mai un buon lavoro, con cui comprare la casa dei tuoi sogni. Perciò capite la mia preoccupazione non vedendolo arrivare. In realtà, credevo che avesse deciso di lasciare la scuola. Non è particolarmente dotato, al contrario di Aaron. Tuttavia, ogni tentativo di comunicazione si dimostrò del tutto inutile, poiché il suo cellulare dava un segnale costante di linea occupata. Nemmeno il giorno successivo si presentò a scuola, ma quel pomeriggio, finalmente, arrivò una sua telefonata. La sua voce era strana. Mi disse in tutta fretta che stava bene ma che non poteva parlare e che non sapeva quando sarebbe ritornato a scuola. Per fortuna, il mio cellulare ha registrato il numero da cui era stata effettuata la chiamata e, con l’aiuto di Aaron, ho scoperto dove si trova Craig. Cosa ci fa un ragazzo come lui al reparto psichiatrico dell’Argenon Hospital? Non sapevo che stesse male, che prendesse delle medicine per combattere la depressione, come me. Siamo tutti pazzi, Craig? Dovrei farmi ricoverare anche io? O, forse, come dici tu, siamo solo tutti un po’ incasinati.

Calgary 1988. Il bob giamaicano di Titti Germinario

Giochi olimpici invernali di Calgary 1988. Il ghiaccio racconta la storia di Devon Harris, Dudley Stokes, Michael White e Samuel Clayton. La partecipazione olimpica della Giamaica desta un interesse clamoroso. Quattro neri su un bob non si erano mai visti. L’idea di una Federazione Giamaicana nasce appena l’anno precedente, davanti ad un bicchiere di rum in un locale notturno della capitale. L’uomo d’affari George Fitch assiste a una delle tipiche gare

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di carretti che si svolgono per le strade della splendida isola caraibica. I ragazzi giamaicani imparano fin da piccoli a dare una spinta vigorosa, al momento della partenza, a dei rudimentali mezzi a quattro ruote su cui si sfidano in una corsa sfrenata, proprio come nel bob. L’imprenditore William Maloney coglie la folgorazione dell’amico e insieme danno vita al sogno giamaicano. Il reclutamento dei partecipanti al progetto inizia con una serie di annunci sui giornali e manifesti affissi per le strade di Kingston che si rivelano, però, un buco nell’acqua. Fitch e Maloney, allora, chiedono aiuto a un colonnello dell’esercito, che trova tre reclute più o meno volontarie: Michael White, Dudley Stokes e Devon Harris. A questi si unirà Samuel Clayton, ingegnere ferroviario, attratto dalla proiezione cinematografica di una serie dei più sbalorditivi crash mai avvenuti sulle piste di ghiaccio, con il sottofondo della colonna sonora di Top Gun. All’esordio, l’equipaggio dimostra tutti i propri limiti tecnici: durante la prova, il pilota Dudley Stokes, nell’affrontare la curva Kriesel a 136 km/h, perde il controllo del mezzo facendo ribaltare il bob. L’esito della gara è disastroso ma la squadra raccoglie la simpatia del pubblico di tutto il mondo, per la unicità di un equipaggio che la neve l’aveva vista solo in televisione. La nazionale giamaicana di bob non riuscirà a coronare il sogno olimpico ma verrà ricordata per la tenacia, l’impegno, la determinazione e la grande simpatia. Nel 1993, le gesta degli atleti giamaicani ispireranno la Disney per la produzione di Cool Runnings – 4 sottozero, un film che riscontrerà un grande successo tra il pubblico. Nel 2001, la Giamaica del bob raggiunge un obiettivo incredibile: la squadra vince la medaglia d’oro ai Campionati del mondo di spinta.

Viva la Vida. Frida Kahlo di Antonella Bufi

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rida nasce in Messico. Vive appena quarantasette anni ma la sua è una vita intensa. Donna eclettica e carismatica. Il suo nome di battesimo (il padre era ungherese) è Frieda (Fried significa pace), ma lei lo cambia in Frida, segno di protesta contro la politica nazista della Germania. Cambia anche il suo anno di nascita dal 1907 al 1910, anno della rivoluzione messicana. Un segno di forza, di determinazione, un segno per andare contro un destino che ti ritrovi appiccicato e che puoi e che devi cambiare, anche quando ti si schianta addosso sotto forma di poliomelite o quando lo scontro tra un tram

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e un autobus ti rompe la spina dorsale in tre punti. Questa predisposizione alla protesta la ritroviamo anche nel suo aspetto, una sfida agli stereotipi della donna levigata e truccata della sua generazione. Scegliere un dipinto che potesse rappresentare Frida è stato davvero complicato. Nella sua produzione ce ne sono tantissimi rappresentativi, ricchi di simbolismo, dai toni forti; ma questo, più di tutti, racconta di Frida come donna che ha sofferto e lottato per la vita. Il dolore e la sofferenza hanno piantato chiodi nel suo corpo e la sua pittura racconta proprio di questo, del suo dolore e della sua forza nel cercare di superarlo. Forse avrei potuto sceglierne uno in cui fosse rappresentato Diego (Rivera, suo marito, il pittore della Rivoluzione e del Popolo), l’amore di una vita, la sofferenza di una vita. Ho scelto questo per dare spazio alla forza dei suoi simboli, al potere evocativo delle sue metafore, alla bellezza nuda dei suoi rimandi. Diego ha significato gioia, ma anche tradimento che sanguina, discussione accesa e separazione inaccettabile, ognuno di quei chiodi piantati. Sofferenza, dolore, mal d’amore e lotta. In questo si riassume la sua pittura. Una pittura che tutti volevano «etichettare» (Breton e i surrealisti l’hanno corteggiata a lungo) e che nessuno è mai riuscito ad avere. Perché Frida era solo se stessa, dipingeva i suoi sogni, le sue paure e la sua realtà. Non apparteneva a nessuno, forse apparteneva solo alla sua pittura, unico modo per fuggire il dolore. In questo sta la sua forza, in questo il suo coraggio. Una pittura che ci mostra la complessità e la varietà del suo essere donna, una pittura carica di sensualità, una pittura che proclama il suo essere indipendente. Ogni suo dipinto è un invito a ritrovare se stessi. Un invito a lottare per vivere al meglio. «L’agonia, il dolore, il piacere e la morte non sono nient’altro che un processo per esistere. […] la volontà di resistere vivendo è gioia sana. Infinita gratitudine. Occhi nelle mani e il tatto nello sguardo. Enorme colonna vertebrale che è la base di tutta la struttura umana. Vedremo. Impareremo. Ci sono sempre cose nuove legate alle vecchie, vive. Accanto al mio amore di migliaia di anni. Diego.»

Trato Marzo

di Arianna Panzolato

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ucia, signorina di quasi 90 anni. Presenza voluminosa: almeno due o tre maglioni di lana incartano un corpo esile. Lei, con il volto graffiato dal tempo e una voce flebile, racconta la tradizione trentina del Trato Marzo. Tra la fine di febbraio e l’inizio di marzo, un falò su per i monti a dar vita alla festa: un benvenuto alla primavera, dove l’ormone galoppa a briglia sciolta e i

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santi peccano per amore. C’è chi si sposa e chi no, ed è questa l’occasione per farne notizia: dal megafono in mano ai ragazzi, i nomi di strane accoppiate risuonano fino in paese. Ed ecco che Maria, la graziosa ventenne figlia del tale, si trova promessa sposa ad un vecchio sudicio e malconcio. Fantasia o realtà? Le allegre comari a far filò sulla panchina della piazza lo avrebbero scoperto l’ultima sera.

Lo splendore del buio di Mariangela Cormio

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i sono infinite ragioni per stupirsi di una fotografia, ma in questo caso v’è una premessa necessaria, che riguarda l’autore prima ancora dello scatto, e che inevitabilmente proietta ogni impressione su un piano nuovo. Per alcuni prevarrà scetticismo, per altri adorazione, ma in ognuno a destarsi primariamente sarà uno stupore assoluto. Evgen Bavčar, nato nel 1946 in Slovenia, è cieco. Come scriveva Ernesto Rossi in Nostalgia della luce, anch’io ho voluto subito precisarne la nazionalità «per evitare che i miei interlocutori pensassero con distratta supponenza che si trattava di uno di Praga». Bavčar, non vedente dall’età di dodici anni, è un fotografo professionista. Ed anche un letterato, un filosofo, un poliglotta. La risposta alla contraddizione che sorge nel domandarsi come un non vedente possa aver fatto dell’opera visuale il suo primario veicolo di comunicazione artistica è assai più ovvia della meraviglia che porta con sé: con le possibilità tecniche degli attuali apparecchi fotografici si possono scattare fotografie anche ad occhi chiusi. Eppure il risultato non è sempre uguale. E poche altre esperienze possono con la stessa forza dimostrare come l’arte sia qualcosa di altro rispetto ai tecnicismi di cui è rivestita, e prorompa come una necessità al fine di creare una comprensione interiore esclusiva fra l’artista e l’altro, o più semplicemente fra uomo e uomo. Bavčar mostra nei suoi scatti la luce che è rimasta al di là delle sue pupille, l’occhio del «voyeur absolu», come lui stesso si definisce, l’enigma della rielaborazione evocativa, la coesione dei sensi nella percezione, la nostalgia dell’esule. V’è in lui la molteplicità di chi, vissuto in una patria austro-ungarica, poi italiana, poi finalmente padrona di se stessa, ha trovato la propria realizzazione in Francia, sua attuale residenza, svincolandosi da un destino sociale che lo voleva plausibilmente confinato a intrecciare ceste di vimini, e ancora non era preparato (come forse non lo siamo noi, coi nostri occhi ancora strabuzzati) alla forza di chi è stato in grado di stupire il mondo facendo luce sulla possibilità dell’ineguagliato miracolo dell’essere profondamente umano. 150 UnderTrenta • Intuizioni, sorprese, prospettive


Il potere della lingua di Francesca Bottari

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h, come avrei voluto che la lingua fosse solo un semplice sistema di segni, ma così non è. Lingua che cambia, limita e trasforma una persona. Elvira Mujcic nel suo libro La lingua di Ana racconta la storia di un’adolescente che dalla Repubblica di Moldavia è stata «costretta» a nuova vita italiana. Un racconto nella sua essenza autobiografico, semplice nella sua complessa morale, dove la giovane autrice narra il difficile rapporto fra i limiti che il non conoscere una lingua pone e gli sconfinati orizzonti che nuovi suoni, parole, gesti ed espressioni aprono. La lingua non è solo una convenzione e le «parole non sono solo parole». La lingua è identità, appartenenza e rappresentazioni. Decostruire questi corollari per ridefinirli attraverso altri vissuti significa mediare esperienze e «non permettere di cambiarne il profumo, il suono e il sapore». Linguaggi differenti che entrano nell’anima e mettono in conflitto l’esistenza di un uomo, ma che grazie al potere evocativo delle parole, gli offrono altresì la preziosa possibilità di ridefinirsi.

Miele: film provocazione sul suicidio assistito di Giuseppe Marino

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rene si fa chiamare Miele. Dopo aver mollato Medicina “gioca a fare il piccolo chimico”. Ogni volta che qualcuno vuole morire, lei prende un volo per Los Angeles e, mescolandosi ai turisti, attraversa il confine messicano per comprare – lì che non sono illegali – dei letali barbiturici per animali. Miele aiuta (illegalmente) chi soffre senza speranza di guarigione a rompere il patto con la vita terrena in un paese, l’Italia, in cui il diritto di scrivere la parola fine è affidato alla natura o al caso. Lo fa in forma asettica, con dei guanti in lattice bianchi e seguendo uno schema predefinito: 20 gocce, un bicchiere di gin, un cioccolatino per addolcire il sapore del cianuro e una musica di sottofondo. Relax, nessuna lacrima. Un accompagnamento al passaggio dal conosciuto all’oscuro senza drammi, ma con la consapevolezza, per chi sceglie questa forma di morire, che sia quella giusta. Eutanasia, suicidio assistito. Miele aiuta solo i malati terminali, “non dà una mano ai depressi a suicidarsi”. È per questo che il rapporto con l’ingegner Grimaldi, un suo “paziente” dalla salute di ferro e con la voglia di morire per noia, stanchezza o forse depressione, mette in crisi le sue forti convinzioni.

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«Nessuno vuole morire veramente, ma quella non è più vita. Non ce la fanno più.» Dirà lei. «Allora ciò che non si vede, ciò che non deturpa il volto o le braccia, ma l’animo non ha la dignità di essere chiamato dolore?» ribatterà lui. «Vai a Istanbul, visita la cupola di Santa Sofia. Dicono si regga non sulle colonne ma grazie all’aria, che dal basso spinge verso l’altro. Prova a mettere un pezzo di carta per terra, al centro della moschea e vedi cosa succede. Una forza invisibile, ma potente. Inconfutabile.» Il film apre il dibattito su un tema tabù, a partire dalla crisi dei due protagonisti un po’ stereotipati: lei, donna forte, energica e dura, smetterà di fare il suo “sporco” lavoro; lui, cinico e vecchio, rinuncerà (per un po’) all’idea di suicidarsi. Una Jasmine Trinca sublime. Una Valeria Golino al fulminante e provocatorio debutto da regista. A Georges Brassens e la sua Les sabot d’Hélène il compito di chiudere il sipario.

Se la Parodi sapesse di Alpina Calò

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rima dei foodblogger e delle interminabili spadellate televisive c’era lui: Pellegrino Artusi, classe 1820. Un uomo attento e curioso che a 70 anni decise di raccogliere centinaia di ricette lungo tutta la Penisola. Le provò e pubblicò le migliori su un manuale pratico per le famiglie dal titolo La Scienza in cucina e l’Arte di mangiar bene. «È la storia di un libro che rassomiglia alla storia di Cenerentola», scriverà di suo pugno nella 4ª edizione del 1902. Un successo travolgente che arrivò solo dopo mille difficoltà e nonostante il giudizio severo di un critico che stroncò in pieno la pubblicazione. Artusi contribuì fortemente alla formazione identitaria del Belpaese, a pochi anni dall’Unità del 1861, dando slancio e dignità alle tradizioni regionali e ponendo le basi del Dizionario culinario italiano. L’Italia, grazie a lui, poté vantare così una guida che avrebbe portato a spasso per i quattro angoli del mondo ciò che di più bello possiede: «i sapori della tavola». 790 ricette e un’infinità di consigli pratici, annotazioni personali e universali e norme di igiene. Una sezione Note di pranzi con «due proposte per ogni mese dell’anno, ed altre dieci da potersi imbandire nelle principali solennità, tralasciando in queste il dessert, poiché meglio che io non farei, ve lo suggerisce la stagione con le sue tante varietà di frutta». Una giocosa appendice intitolata Cucina per stomachi deboli, nata forse dalla sua celebre disavventura

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con un minestrone, in cui l’autore si prende gioco dei debolucci, perché «pare abbiano a competere con un viscere capriccioso, quale è lo stomaco». Il libro più insolito di un’epoca insolita, in cui napoletani, piemontesi, sardi e veneziani si trovavano ad essere cittadini della stessa Nazione senza riuscire a capirsi a parole. Un libro che univa e unisce. Uno dei libri più letti d’Italia. Un pilastro della letteratura culinaria, senza il quale oggi non esisterebbero molti programmi tv, blog e food-design.

RAP(arolacce)

di Arianna Panzolato

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hythm and Poetry; per i profani di musica due parole qualsiasi ma per gli esperti un richiamo inconfondibile al Rap, quel genere musicale che fa tappare le orecchie a chi predilige un linguaggio pulito ed elegante. Fra una rima e l’altra un susseguirsi ritmato di turpiloqui fa sorgere una domanda: perché tutte queste parolacce? Il motivo va ricercato nel gioco delle Dozzine («The Dozens»), in voga nei primi anni ’70 del Novecento fra i quartieri fatiscenti del Bronx newyorkese dove gruppi di ragazzi afro-americani si scatenavano in battaglie verbali nelle quali il vincitore annientava lo sfidante ammutolendolo a «suon di insulti». Provocazioni sessuali, esaltazione di difetti fisici o attacchi allo status sociale: un botta e risposta di rime offensive le cui vittime principali erano le madri dei concorrenti. Ma non solo. Quello che per tanti rimaneva un rozzo passatempo da cui diffidare, diventa per i giovani delle gang, un modo per narrare le difficoltà della vita di strada e manifestare le proprie capacità espressive: chi trionfava – come in un rito d’iniziazione – guadagnava il rispetto del gruppo. Lo spirito irriverente e anticonformista del gioco ha lasciato una scia indelebile nel linguaggio grezzo ma autentico dei rapper; l’animo dei moralisti potrà ora darsi pace sapendo che l’uso compulsivo delle parolacce in questa musica ha un suo perché.

Mr. Pearl: l’uomo clessidra di Arianna Panzolato

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ita Von Teese, la regina del burlesque che durante la kermesse sanremese del 2010 sguazzava in una coppa di champagne assieme ad un’oliva gigante, è una delle sue clienti più devote.

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Mr. Pearl, all’anagrafe Mark Pullin, nel suo atelier parigino realizza corsetti, il capo di lingerie simbolo della seduzione femminile. Indossato dalle donne fin dalla Grecia antica per esaltare le curve e fortemente in auge durante il Dandismo, il corsetto entra nella vita di Mr. Pearl durante l’infanzia quando il futuro stilista si innamora di quelli rosa salmone indossati dalla nonna. Un colpo di fulmine che gli sconvolge la vita: nastri, stecche e tessuti diventano il fulcro del suo mondo e lui oggi è un tightlacer da guinness. Per chi non sapesse, il tightlacer si cinge nella gabbia di Venere 23 ore su 24 allo scopo di ridurre il punto vita. Un’ora di respiro è concessa solo per la doccia. Alimentazione controllata: bandite casse di birra e scatole di fagioli che gonfiano la pancia. Per alcuni ferree costrizioni, per Mr. Perl una filosofia quotidiana: il suo giro vita è arrivato a misurare 46 cm, ben 32 in meno rispetto alla media stimata per un uomo adulto. Pullin racchiuso nel bustier non ostenta una silhouette da urlo, dietro la scelta di praticare il tightlacer si cela un passato di sofferenze con una famiglia che ha sempre denigrato la sua passione e mai accettato la sua omosessualità.

Claudio Garella di Titti Germinario

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ampionato di serie A 1984/1985. Nella stagione in cui il Napoli acquista Diego Armando Maradona, il Verona di Osvaldo Bagnoli vince il suo primo scudetto. Il protagonista assoluto è il portiere Claudio Garella, passato alla storia come “Garellik”, il portiere diabolico. Stile sgraziato e goffo, corredato da errori clamorosi: para con le braccia, le gambe, i piedi, il sedere ma raramente con le mani. Le uscite basse sono singolari. Garella allarga le mani, per poi deviare il pallone con la pancia o la punta di una scarpa o con la faccia. Arriva a Verona con un nomignolo poco piacevole ereditato dall’esperienza infelice con la maglia della Lazio: «Paperella». È la società scaligera a trasformarlo. Nonostante le parate effettuate con tutto il corpo eccetto le mani, diventa quasi imbattibile. Si guadagnerà una battuta dell’Avvocato Agnelli, privilegio riservato a pochi: «Garella è il più forte portiere del mondo. Senza mani, però». Quello stile non perfetto, alternato, diviene il suo marchio di fabbrica: in un Verona-Udinese para con il fondoschiena e in un Udinese-Cremonese in rovesciata.

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«Sono stato un portiere anomalo ‒ dirà in una intervista ‒. Nessun allenatore ha cercato di cambiarmi. Ricordo ciò che disse Italo Allodi, il manager che mi portò al Napoli: «L’importante è parare, non conta come». Diventa il prescelto di Maradona che convince il Presidente Ferlaino a prenderlo nel Napoli. «Ogni tanto qualcosa prendevo, non so come, e Diego se la rideva. Sono orgoglioso della mia carriera, sono stato il portiere del più grande». Claudio Garella è un “portiere alla portata di tutti”, un idolo raggiungibile che pur non possedendo doti tecniche, come i suoi illustri colleghi, ha saputo dare un tocco personale al proprio gioco raggiungendo traguardi ambiziosi. Non è un fuoriclasse da prima pagina, ma ha saputo distinguersi per la sua personalità e per il modo con cui ha interpretato il proprio ruolo, con grinta, originalità e impegno. Ancora oggi, quando un portiere si esibisce in parate strepitose, si usa l’espressione «Miracolo alla Garella».

Banksy

di Giulia Bazzanella

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rriverente. Sfacciato. Blasfemo. Banksy è il graffitaro più famoso. Ma non chiamatelo solo graffitaro. Chiamatelo artista. Anche se non usa il pennello. Anche se non scolpisce il marmo. Le sue opere sono sui muri. Per velocizzare il suo lavoro (e non essere arrestato) si serve di stencil. Lui imbratta, ma lo fa con cognizione di causa. Manda dei messaggi, denuncia il declino della società moderna. Coperto dal cappuccio di una felpa, ha cominciato ad “esporre” le sue opere sui muri di Bristol, poi a Londra tra gli anni ’80 e ’90. Nel 2004 lui stesso ha sostituito alcuni dei più celebri dipinti esposti al Louvre con le proprie opere. Da lì la fama, le mostre, le opere vendute a celebrità del calibro dei Brangelina. Banksy è arrivato ad esporre le sue opere (più o meno legalmente) dappertutto. A Disneyland in California, sul muro di Gaza che separa Israele dai territori Palestinesi, a Copenhagen, dove ha imbrattato il muro di fronte al palazzo dove i potenti del mondo si erano riuniti in una conferenza sul surriscaldamento globale. Tutto questo continuando a mantenere l’anonimato. Illuminante il docufilm che parla della sua vita da graffitaro seriale Exit through the gift shop. Guardatelo.

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La grande bellezza di Giulia Bazzanella

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oma. Oggi, ma anche ieri. E quasi sicuramente domani. Attraverso personaggi a tratti grotteschi e spunti tragicomici, Sorrentino ci parla del fallimento. E del (spesso maldestro) tentativo di affrontarlo. La spasmodica ricerca e ostentazione di eterna giovinezza, feste, lustrini, conoscenze che contano, beni di lusso è l’antidoto al malessere quotidiano di un’esistenza banale e priva di stimoli reali. Lo sa bene Jep, il protagonista, appena sessantacinquenne. Dopo un unico romanzo di successo, Jep si lascia incantare e deformare dal circo della mondanità, un mondo distorto popolato da caricature felliniane. Il fallimento come corollario di ogni successo è il vero leitmotiv di questo film. Il fallimento come condizione imprescindibile della natura umana. E l’inarrestabile tentativo di contrastarlo, con ogni mezzo. Jep è l’ospite di un’orgia in cui il trattamento estetico e il farmaco anti-depressivo incontrano fragilità e paure di affrontare il reale, di accettare il fallimento. Un’orgia di ipocrisie e segreti, di arrivismi e malelingue. Un’orgia da palcoscenico, dove obiettivo ultimo è brillare sotto le luci di un impianto sociale tanto ricco quanto misero. Un’orgia infernale, dove la visibilità è il supremo dio al quale votarsi, un’orgia che non conosce sollievo, che svuota e abbruttisce, che lascia nudi in mezzo al niente. E il niente è niente, anche se è «vista Colosseo».

Un pugno contro l’omofobia di Titti Germinario

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enerdì 15 marzo 2013. Il numero 1 del ranking WBO dei pesi piuma Orlando Cruz si riconferma campione Latino sul quadrato del Civic Center di Kissimmee (Florida), mettendo ko il messicano Aalan Martinez. Il campione portoricano, soprannominato “El Fenomeno”, domina l’intero match sin dalle prime battute, imponendo un ritmo incalzante. Martinez non è in grado di reggere la maggiore qualità e potenza del rivale, soffrendo per buona parte dei minuti prima della conclusione. L’incontro scivola via tutto a favore di Cruz che lo atterra per ben tre volte, prima dello stop definitivo nel corso della sesta ripresa. Orlando Cruz è il primo pugile in attività a dichiarare pubblicamente la propria omosessualità, in un ambiente caratterizzato, nell’immaginario comune, da aspetti fortemente eterosessuali: «Sono gay e sono orgoglioso di esserlo.

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Non voglio nascondere nulla della mia identità. Voglio che la gente veda come sono: sono un atleta che dà sempre il massimo sul ring, voglio che la gente guardi le mie qualità di pugile. Ma voglio anche che i ragazzi sappiano che tutto è possibile: ciò che sei o quello che ami non dovrebbe essere un ostacolo se cerchi di raggiungere un obiettivo». Orlando Cruz sfata il tabù dell’omosessualità in un ambiente come quello del pugilato che limita la possibilità di esprimere serenamente il proprio orientamento sessuale. Si creano fidanzate o mogli fittizie per coprire scandali, soprattutto quando da difendere ci sono enormi interessi economici alla base. «Mi chiamano finocchio», ma non mi interessa. Lascio che lo dicano perché non possono più farmi male. Sono rilassato, mi sento felice. Ma per fare questo annuncio al mondo intero ho dovuto tirare fuori tutta la mia forza. Volevo essere una forza di cambiamento. Ho perso un amico, ucciso da persone che odiavano i gay. Ero molto arrabbiato perché l’omofobia ha chiuso la sua vita nella maniera più violenta. Ma ero anche arrabbiato perché, allora, nascondevo questo mio segreto». Doppia vittoria per Orlando Cruz, nella vita come nello Sport.

La gara degli Uomini-Pesce di Elia Giovanaz

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e non vi viene in mente nessuno sport estremo pericoloso come il base jumping forse è perché non avete pensato all’immersione in apnea agonistica. È uno sport nuovo: i primi campionati mondiali sono del 1996. L’anno scorso si sono svolti a Kalamata, in Grecia, uno dei centri per apnea agonistica più importanti. L’immersione comprende otto discipline, dalla semplice apnea statica (l’atleta trattiene il respiro in piscina) al CNF (Constant Weight Without Fins) ovvero “assetto costante senza pinne” che è considerata la specialità più pura. Il neozelandese Wiliam Trubridge, dal 2010 è detentore del record mondiale, con i suoi 101 metri di profondità. Le regole della disciplina non sono semplici: la gara comincia prima dell’immersione, quando gli atleti comunicano segretamente alla giuria la profondità che pensano di raggiungere. Come in una mano di poker, tutti cercano di indovinare cosa faranno gli avversari, nella speranza di una loro scelta poco ambiziosa o di un eventuale fiasco. Chi perde conoscenza prima del ritorno in superficie, infatti, è squalificato. È il cosiddetto blackout, un’eventualità all’ordine del giorno.

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Misure di sicurezza: la presenza di soccorritori, l’uso di sonar per localizzare l’apneista dalla base di appoggio, un cavetto di sicurezza agganciato alla sua caviglia per impedire che si allontani dal “cavo guida”. Niente tifosi. D’altronde, i volti sanguinanti e cianotici e gli atleti spediti in ospedale per frattura della laringe non sono un bello spettacolo. Nel 2012, nel complesso, gli atleti hanno battuto due record mondiali e 48 nazionali, con 19 episodi di blackout; Turbridge vince l’oro sia nel CNF che nell’immersione libera. Dotati di forza e coraggio, a questi atleti non manca forse anche una certa dose di follia. Molti di loro hanno dichiarato che il rischio è un basso prezzo da pagare per accedere a quella che hanno definito «un’altra dimensione», quella che noi possiamo solo immaginare dalla superficie, confrontandosi con il mondo marino rispettando le sue condizioni, trattenendo il respiro. In ogni caso, l’apnea agonistica difficilmente diverrà sport olimpico: sembra davvero troppo pericolosa.

Il lato evergreen della Filosofia di Arianna Panzolato

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n invito a colazione da Socrate? Ben accetto, a patto che nel caffè non ci sia la cicuta. Ciò che si respira nelle 230 pagine del libro di Robert Rowland Smith Colazione da Socrate è la saggezza filosofica del grande Maestro greco unita a quella di Cartesio, Marx, Hobbes, Foucault e molti altri ancora. Quante volte vi siete chiesti perché alzarsi al mattino o andare al lavoro? Ebbene, se volete schiarirvi le idee o annebbiarle ancora di più, le loro teorie sono a vostra disposizione. Ciò che nel quotidiano date per scontato, il semplice gesto di afferrare il telecomando per lo zapping o un bagno caldo nella vasca, non lo sarà più. Narciso apparirà allo specchio del camerino nel pieno del vostro shopping antidepressivo e disertare la palestra sarà l’unico modo per ribellarvi alla schiavitù di un potere chiamato «fascismo corporeo». Ogni anfratto della vita sarà riempito di filosofia e anche l’intimità più intima ne sarà travolta: quale collegamento vi potrà mai essere tra la petite mort – un’emozione nostalgica – e l’essere ermafrodita decantato da Aristofane nel Simposio di Platone? Un libro dedicato a chi si chiede sempre il perché delle cose e non si accontenta mai di una sola ed unica risposta.

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Il Krav Maga

di Titti Germinario

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uando si parla di difesa personale o di mantenimento dell’incolumità, si pensa alla protezione del corpo da un’aggressione esterna: un malvivente, un maniaco, uno stupratore, un ladro. L’aggressività e la violenza, però, possono presentarsi in forme diverse a livello psicologico, bloccando la mente, le emozioni e le reazioni, in trappole da cui è difficile liberarsi. In entrambi i casi è importante riconoscere il pericolo, essere consapevoli dei fattori capaci di turbare l’equilibrio psico-fisico e di reagire in modo semplice ed efficace, disarmando l’altro. Una possibilità è fornita dal Krav Maga, una tecnica di combattimento nata in Israele nel 1940 ad opera di Imi Lichtenfeld, un ufficiale dell’esercito israeliano, esperto in tecniche di lotta occidentali, che prevede un’elevata componente offensiva: attaccare l’avversario prima di essere attaccati. Il Krav Maga, fino a due decenni fa insegnato ai reparti speciali e operatori della sicurezza nazionale, fu aperto e riadattato a contesti civili, sviluppandosi anche in Italia a partire dal 1999. La tecnica utilizzata è quella del “faccia a faccia”, con un approccio aggressivo e anticipatorio che non prevede nessuna protezione, ma solo strategia. La filosofia è quella di sottrarsi allo scontro fuggendo, e quando questo non è possibile, utilizzare la testa per proteggersi, cercando un modo per uscire vivo dal conflitto. La strategia introdotta dal Krav Maga insegna a sviluppare una mentalità difensiva che si rifiuta di essere vittima, e si riconosce attiva nell’individuare gli aspetti che ledono il proprio equilibrio mentale. Armati di maggiore fiducia in se stessi e nelle proprie capacità reattive di fronte ad eventi capaci di generare ansia e depressione, per riuscire a riconquistare il proprio spazio e la propria libertà attraverso un’adeguata gestione emozionale nelle situazioni critiche.

Moonrise Kingdom di Giulia Bazzanella

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na splendida storia d’amore è quella raccontata dal film Moonrise Kingdom. È il 1965 quando una passione tenera e genuina sboccia tra Sam, uno scout orfano e un po’ sfigato, e Suzy, una ragazzina un po’ problematica. Nello sfuggire a realtà che non sentono proprie, i due si incontrano e, dopo una lunga corrispondenza epistolare, decidono di dare vita ad una realtà a loro

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misura, concretizzandola in un’effettiva fuga attraverso l’isola che li ospita. Inseguiti dalla polizia, dalla famiglia di Suzy, dall’assistente sociale che ha il compito di portare Sam in un rifugio giovanile e da due gruppi di scout, i giovani innamorati esploreranno l’isola alla ricerca di un posto tutto loro. Colori tenui e scelte registiche brillanti fanno da cornice ad attori del calibro di Bruce Willis ed Edward Norton, che interpretano personaggi squisiti e un po’ demodé. Nulla da invidiare hanno i giovani attori protagonisti e i colleghi, tutti perfetti nei rispettivi ruoli. Una storia davvero romantica, alla quale non servono effetti speciali o dialoghi interminabili, ma che regala un sano spirito di avventura con pochi, semplici elementi: una canoa, una tenda, un giradischi e un binocolo sembreranno tutto quello di cui si ha bisogno per essere felici.

Un’Arte appiccicosa di Arianna Panzolato

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nna Sophia Mateeva e Ben Wilson non masticano chewing gum per profumarsi l’alito dopo una ricca libagione, loro dei confetti a base di xilitolo ne fanno un’Arte: ucraina lei e inglese lui, sono accomunati dalla passione per la Chewing Gum Art, tendenza artistica d’avantgarde che usa come materia prima la gomma americana, ruminata ormai dal 1869 quando papà William Semple ne brevetta la ricetta. I volti appiccicati su tela di Steve Jobs ed Elton John hanno messo a dura prova mascella e mandibola di Anna Sophia che ha masticato più di mille gomme per realizzare ciascuna delle due opere: all’arguta artista non è sfuggito come l’azione degli enzimi della saliva e una passata nel microonde rendano la ciunga un materiale facilmente plasmabile, resistente e duraturo nel tempo. Liberarsene sputandole a terra? Per lei un ignobile sacrilegio. Non è della stessa idea il collega Ben che fa di quei pois schiacciati sull’asfalto da scarpe di tutto il mondo le sue tele da riempire. Colore, colore e ancora colore per ravvivare il grigiume del manto stradale: l’unico buon motivo per camminare a testa bassa e avere la fronte ammaccata dopo aver sbattuto contro il lampione del marciapiede.

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Jim Abbott. Il brutto anatroccolo di Titti Germinario

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’è la storia di un uomo, Jim Abbott, che ha soltanto un braccio. Quando era bambino, tutti gli dicevano che non avrebbe mai giocato a baseball a causa della sua malformazione. Rimaneva per ore a guardare gli altri, mentre, a casa, con perseveranza e convinzione, si allenava col papà, imparando a prendere la palla con la mano sinistra, a togliersi il guantone e, con un movimento rapido e fluido, a rilanciare la palla con la stessa mano. Riusciva anche a battere con la mazza, utilizzando l’arto mancante come supporto. I compagni, però, non lo accettavano. Lo deridevano e insultavano, lasciandolo in lacrime in un angolo. Jim Abbott nel 1987, ai Giochi Panamericani, diventa il primo lanciatore degli ultimi 25 anni ad aver battuto Cuba in casa. Nel 1988 vince la Medaglia d’oro alle Olimpiadi mentre nel 1989 è in Major League, il campionato di più alto livello mondiale. Nel 1996, Mark T. Greenberg e Carol A. Kusché, basandosi sugli Studi dello psicologo Daniel Goleman sull’intelligenza emotiva, elaborano le Promoting Alternative Thinking Strategies (PATHS) – Strategie per promuovere un pensiero alternativo –, utilizzate per aiutare i bambini sordi a usare il linguaggio e diventare consapevoli delle proprie e altrui emozioni, educandoli all’apprendimento sociale ed emotivo riducendo i problemi di rabbia ed aggressività. «Ci interessa insegnare l’idea di perseverare nonostante gli ostacoli. Raccontiamo la storia della sua vita e del suo successo, chiedendo poi ai bambini di raccontare un obiettivo che pensano di non poter raggiungere. Glielo facciamo scrivere su un foglio e poi facciamo pensare loro ai passi necessari per raggiungere quell’obiettivo.» C’è la storia di un uomo, Jim Abbott, che ha soltanto un braccio. Gioca a baseball con gli altri, senza sentirsi diverso dimostrando quello che la forza di volontà e la passione possono fare.

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La bellezza di burro di Alpina Calò

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Beautiful Body Project è un progetto fotografico che presto diventerà un libro. L’autrice è Jade Beall, fotografa dell’Arizona. Nei suoi scatti ritrae l’autenticità femminile. La donna vera, dopo o durante la gravidanza. Quando il corpo cambia, diventa altro, contiene o ha contenuto la vita, si mette piacevolmente al servizio della natura e del tempo che passa. Foto semplici, in bianco e nero che ritraggono corpi burrosi, con la cellulite, le smagliature. Volti sorridenti e radiosi in primo piano. Una bellezza che non è atteggiamento, non è centimetri, non è colore, non è stereotipo. È lei. Siamo noi. Siamo tutte noi. Senza ritocchino. È la bellezza che salverà molte donne. E molti uomini. «Vorrei che servisse da medicina, che potesse sanare le madri di tutto il mondo. Tutte coloro che si sentono brutte o inadeguate, per aver perso peso, per averne preso troppo. Abbiamo la capacità di sentirci degne e meritevoli, di credere che siamo belle.»

Torte che peccano di vanità di Arianna Panzolato

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owwww! si esclama alla vista di alcune opere d’arte ed oggi lo sono anche le torte di Cake Design che oltre ad appagare il palato, seducono in toto gli ingordi. Il merito è del pasticciere estroso che scolpisce lo zucchero fino a farne un capolavoro commestibile. Ma c’è anche uno zampino regale: già diffusa negli Stati Uniti, la Sugar Art irrompe nell’Inghilterra vittoriana quando lievito e bicarbonato di sodio valicano i confini anglosassoni gonfiando gli impasti e l’arrivo del forno a temperatura controllata ne ottimizza le cotture. Nel 1840 le campane del St. James’s Palace annunciano il matrimonio tra la Regina Vittoria e Alberto di Sassonia. La Royal Wedding Cake, 140 kg di dolcezza, viene costruita dai maestri pasticcieri con due nuove preparazioni dolciarie: la miniatura degli sposi, la Britannia, il cupido, ed altri ghirigori sono forgiati grazie al fondente di zucchero, composto duttile a base di zucchero a velo, acqua e glucosio che, data la sua natura isolante, permette di conservare un pezzo di torta fino al primo anniversario di nozze, così come previsto dalla tradizione matrimoniale del tempo.

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Gli altri decori sono in perfetta tinta con l’abito nuziale di Queen Victoria e fatti di Royal Icing (ghiaccia reale), candida glassa bianca a base di zucchero a velo e albume d’uovo. Se il matrimonio tra la Signora di Man e Alberto è destinato a squagliarsi nel 1861 con la morte del consorte, quello tra Cake Designer e zucchero dura ancora oggi e non poteva esserci storia d’amore più buona.

La musica di Hegarty di Francesca Bottari

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ontemplare la Meraviglia è una parentesi d’obbligo nella moderna impazienza quotidiana. Anthony Hegarty e la sua band offrono una dose sonora per godere della perfezione musicale, effetto dell’incontro geniale di eleganza melodica e sobrietà di pensiero. Una scrittura apparentemente malinconica ma elettrica, se ben ascoltata, di note che danzano in misteriose incisioni di qualche minuto, capaci di lasciare un segno nel pensiero di ognuno. Società e natura sono i fili che Anthony cantando cerca di sciogliere. Ognuno è il nocivo effetto collaterale dei passi che l’uomo ha fatto e fa ogni giorno oltre quel Limite che mai come oggi l’umanità sente di dover ridefinire. Anthony scruta l’incanto nascosto di questo sconfinare, ci dona dei piccoli ma potenti messaggi, chiavi di bellezza per ricostruire il rapporto tra società e Mondo che la ospita. Ritrovare il femminile dove è stato cancellato, ridefinire un senso di appartenenza a questa Terra – intesa come Terra Madre – sono gli imperativi che mai abbandonano la voce, unica e amabile, di un maestro della contemporaneità. Il cantante ricerca gli occhi del proprio animo bambino ed osserva con stupore e libertà il Mondo da altre prospettive. Bird Gerhl, canzone di dodici battute che immagina il volo di una ragazza-uccello dice, con stupore, che con il cuore in mano si può volare.

Theremin

di Francesca Bottari

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na elevata capacità d’interpretare la parte invisibile del suono per renderla visibile a tutti è l’ingrediente che contraddistingue un suonatore di Theremin. Il primo strumento elettronico al mondo che non prevede il con-

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tatto fisico con il musicista, inventato nel 1919 dal fisico russo Termen – da cui il nome – e conosciuto da Parigi a New York nel giro di appena 10 anni. Lo strumento si presenta come una scatola elettronica con due antenne: una a sinistra curva e orizzontale, l’altra a destra diritta e verticale. La prima regola il volume, la seconda l’intensità. Mano sinistra che si alza e si abbassa, mano destra che pizzica delle corde immaginarie che si trasformano in suoni. Le onde di frequenza generate dai circuiti elettronici non sono udibili se non quando le mani entrano nel loro raggio d’azione. Ed è proprio questa invasione di campo, assieme al dialogo musicista-strumento, a solleticare il senso dell’udito e a regalare una magia a chi ascoltando osserva l’unicità e la bellezza dell’incontro fra corpo e suono. Vincenzo Vasi è un italiano che di questo versatile gioiello ne fa virtù. Da poco è uscito il suo ultimo lavoro Braccio elettrico, una raccolta descritta come «un viaggio per solo Theramin da avere assolutamente».

Un’identità per bene. Christian Fogarolli di Cristina D’Angelo, Gonarina Porcu

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n seguito al successo della mostra White di Christian Fogarolli presso la Galleria Arte Boccanera di Trento, riguardante l’indagine identitaria di persone del passato, abbiamo deciso di porre qualche domanda all’artista per avvicinarci al suo lavoro. Come ti sei avvicinato al mondo dell’Arte? Sono sempre stato attratto dalle immagini, o forse erano loro attratte da me. Quale significato ha avuto il tuo percorso di studi legato ai Beni Culturali? I miei studi presso l’Università di Trento hanno arricchito la mia formazione; tuttavia se dovessi individuare un momento chiave nel mio percorso penserei al Master Dentro l’immagine: studio, diagnostica e restauro non invasivi su dipinti antichi, moderni e contemporanei, frequentato a Verona. Qui ho avuto modo di collaborare con una commissione scientifica importante, che ha permesso un avvicinamento professionistico alle opere d’arte, nella tecnica e nel significato. Cosa significa lavorare nel Territorio nel quale sei nato e cresciuto? Il Trentino credo sia una terra felice che offre diverse opportunità agli artisti – penso per esempio alla mia recente collaborazione con il MART —ma è stato anche importante spostarsi e continuare a farlo, magari temporaneamente, per affrontare nuove ricerche e incontrare nuove opportunità e persone.

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Da dove trai ispirazione? La questione poco chiara dell’identità è sempre stato il mio interesse primario. Non è un proprio e vero tema da ricercare, è sulla superficie di ogni giorno, si manifesta su ogni centimetro del Pianeta, tuttavia non la osserviamo, ma la percepiamo solamente nei momenti in cui è messa in crisi o violata. Sebbene la mia ricerca abbia spesso un forte legame con Archivi privati e istituzionali, il mio studio avviene quotidianamente, confrontandomi con le persone, leggendo le loro storie, siano esse scritte sulla loro pelle o su quella degli alberi. Alcuni artisti cercano l’estasi creativa con sostanze stupefacenti: tu ne fai uso per i tuoi lavori? Non ho mai assunto droghe né cercato questo sistema per trovare un’ispirazione. Pensi che la tua vena artistica un giorno potrebbe esaurirsi? Spero proprio di no, ma le metamorfosi non mi spaventano affatto, potrebbe essere un nuovo modo per mettersi in discussione. Cosa pensi della critica d’arte? «Quale critica?». Un famoso artista ha risposto così a questa domanda. Penso sia interessante citarlo e lasciare al lettore la ricerca del nome di questo genio. Probabilmente un artista prima o poi deve confrontarsi con dei canali, anche magari per respingerli e tentare la propria fortuna da solo. Soprattutto nel passato è evidente la presenza di critici, come anche galleristi o curatori, che affiancano l’artista nel lavoro e nel processo creativo, al fine di far emergere aspetti diversi del lavoro, talvolta non direttamente visibili all’artista stesso. Questi meccanismi in alcuni casi possono divenire dei filtri per la qualità, ma spesso questo criterio non è l’unico discusso. Che rapporto hai con i vari linguaggi artistici che hai sperimentato, dalla pittura alla fotografia? Non credo ci sia più una divisione così netta tra queste tecniche, in partenza pittura e fotografia andavano di pari passo, poi ho trovato un’espressione più completa nell’immagine in movimento e nelle istallazioni. C’è qualcosa che vuoi dirci che non ti abbiamo chiesto? Direi di no, in genere preferisco far parlare il lavoro e le opere al posto mio.

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Indignatevi! Sperate! di Francesca Bottari

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tica, Giustizia e Comprensione sono tre dei cinque ingredienti che Stephane Hessel – dopo aver incontrato i campi di concentramento, la sensazione di dover nascondere la propria identità ed una sedia al tavolo durante la stesura della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani – offre nel suo pamphlet definito «liberatorio e corrosivo». Indignatevi! è stato un trionfo letterario. Dalla Francia – Indignez vous! 700.000 di copie in 4 mesi – ha proliferato fra le mani dei lettori di tutto il Mondo. Nelle trenta pagine che lo completano, la danza di due ballerini: le guerre passate e le guerre di oggi. Il ballo letterario di Hessel dona semplici ma indispensabili emozioni. Una di queste è la Speranza, il quarto ingrediente che invita a ripensare al futuro guardando al Mondo che, per quanto affilato, resta pur sempre un momento della Storia in corso. Ieri la Speranza è stata la virtù di qualsiasi Resistenza. Oggi la penna per scrivere il Futuro è in mano a noi. Sperando, l’inchiostro non si esaurirà mai; esa-sperando, la tenacia diverrà debole e non consentirà di «raggiungere i risultati che potrebbe invece produrre la Speranza». Fra le righe di Hessel i danzatori non perdono l’Equilibrio – quinto ingrediente – che va a completare questo breve scritto, vero e proprio concentrato di realtà e sogni possibili.

Il Capossela che all’alba, o poco dopo, ti scioglie le Dolomiti di Nicola Andreatta

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sistono, soprattutto in rete, moltissimi articoli che lusingano il lettore con titoli roboanti, promettendo una determinata mole di amenità intorno all’argomento dal titolo promesso. Li si apre, li si sfoglia, si capisce che non parlano in alcun modo di quanto è stato anticipato, li si chiude. Questo è uno di quegli articoli. Perché per sproloquiare di musica bisogna pur saperne qualcosa. Inutile voler fare un filetto al pepe verde se non si sa cucinare. Meglio concentrarsi sulle patate, più facili. Il piatto da servire oggi è il concerto di Vinicio Capossela, al rifugio Vajolet, ad inizio agosto. Ma non si può andare dritti al contorno, un assaggino alla portata principale bisogna pur farlo: Vinicio, per l’appunto. Lassù sembrava

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ancor più visionario del solito, perso durante le pause a rimirar le Torri del Vajolet, come se il vero turista, il reale pubblico di quello spettacolo che non stufa mai, fosse proprio lui. C’era solo una persona che sembrava divertirsi più di lui, il cantore greco. Psarantonis, a momenti posseduto dal suo stesso strumento. Ma passiamo allo sfondo, al letto d’insalata sul quale s’è appoggiato il concerto. La folla. Ed è qui, con la marea di gente arrivata oltre i 2.000 metri, che Capossela ha sciolto le Dolomiti: non tanto con la musica, con quella ha fatto solamente sognare. Ha sciolto la dura roccia del Vajolet perché ha scombinato ogni regola prestabilita, con la sua sola presenza, a priori. Per prima cosa, il divieto di campeggio è stato bellamente snobbato. Insieme allo scendere dell’oscurità s’è infatti innalzata una tendopoli, dalla conca di Gardeccia al rifugio Vajolet, in barba alle proibizioni della vigilia. Ma è proprio all’alba che la roccia soccombe al cantautore: da Pozza di Fassa giungono le grida di chi è rimasto a valle, orfano di un passaggio verso le alte quote, e tali devono essere state le cordiali lamentele, condite magari da qualche gentile spintone, che il concerto s’è posticipato alle 8 (anziché iniziare alle 6), tra i fischi di chi s’era accampato la sera precedente. Ma il responsabile di tutto questo scompiglio ha tosto risanato gli animi, esordendo con un ouverture trobadorica ad esclusivo uso e consumo di chi alle 6 già stava con gli occhietti cisposi ad aspettare il proprio vate, e pace fu fatta. Sciolti i marmorei dettati degli organizzatori (No tende! Non più di 2.500 persone! Puntuali, alle 6!) il resto è stato “solo” musica, eseguita da un essere che da lontano, più che Capossela, sembrava un redivivo Andreas Hofer (da notare i calzettoni rossi, lanciati in aria al momento della polisemica Il paradiso dei calzini) e da un aedo giunto lassù proprio dall’Olimpo. E infine, se ai piedi dell’improvvisato palco c’era troppa gente, diciamo qualche migliaio in più dei 2.500 prefissati, se un po’ di disagio s’è creato tra il pubblico – mai le Torri del Vajolet hanno visto tanta gente pestarsi i piedi a vicenda per trovare un metro quadro per il proprio plaid – beh, la colpa è stata solo di Capossela.

The Foley artist di Titti Germinario

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he End. Titoli di coda. Dietro una serie di nomi indistinguibili che scorrono troppo velocemente per essere letti, dietro gli invisibili delle pellicole cinematografiche, talvolta interrotti dalla pubblicità o coperti dal com-

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mento di fine spettacolo, si cela colui che rende grande un film: il rumorista, l’artigiano del suono. In America è denominato Foley Artist e prende il nome da colui che per primo ha creato questo mestiere: Jack Donovan Foley, il quale era in grado di registrare i suoni dei film su tutta la pellicola in tempo reale, utilizzando oggetti di uso comune. Nel film Spartacus di Stanley Kubrick, riprodusse il rumore delle armature dei legionari utilizzando semplicemente un mazzo di chiavi. Il Foley Artist lavora in ambienti pieni di chincaglierie, dove anche un comune mestolo può rivelarsi utilissimo per riprodurre il suono di una spada sguainata. Ogni rumorista ha il proprio trucco per riprodurre fedelmente ciò che l’immagine detta in quel preciso momento e renderlo realistico: l’amido di mais, in un sacchetto di pelle, rende il suono della neve che scricchiola, i guanti rievocano ali di uccello sbattute, un sottile bastone riproduce fruscii, il nastro di una vecchia cassetta audio simula i passi sull’erba, una lattuga congelata imita lo scrocchio di ossa rotte, gusci di noce di cocco tagliati a metà e riempiti con un’ imbottitura danno il rumore degli zoccoli di cavallo, il cellophane o una confezione di patatine vengono utilizzati per fare effetti di fuoco scoppiettante, un vecchio attaccapanni arrugginito simula il cigolio di un cancello, l’apertura e la chiusura di un ombrello rievocano il volo di uno stormo di uccelli mentre una pesante rubrica telefonica, chiusa di colpo, simula pugni sul corpo. John Roesch, rumorista con quasi 300 film all’attivo ha riferito in un’intervista: «Se abbiamo fatto bene il nostro lavoro, non ti accorgerai nemmeno che lo abbiamo fatto».

La tua vita è un’opera d’arte di Francesca Bottari

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l capolavoro letterario di Zygmunt Bauman è una sintesi di come ognuno è o può diventare l’artista della propria vita e trovare un posto confortevole nel – e per – il mondo. L’arte della vita è il titolo ma anche il profumo che ritorna sfogliando le pagine del libro, sotto forma di concetti quali felicità, consumo, insicurezza, moto centrifugo, organizzazione, distruzione creativa, arte, economia. Se ti poni delle domande sul mondo e sulla possibilità che esso possa cambiare allora «significa che confidi nella tua capacità di fare la differenza: una differenza per la tua vita, ma anche per il mondo in cui vivi. In breve pensi di essere un artista in grado di creare e di dar forma alle cose e parimenti di essere tu stesso un prodotto di quel creare e dar forma». Non è mera retorica quella di

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Bauman, contrariamente, egli prende il lettore per mano e lo accompagna in riflessioni complesse rendendone l’analisi semplice e chiara alla luce dei cambiamenti economici e sociali attuali, lasciando ad ognuno la scelta di come essere l’artista di se stesso.

La rivoluzione arriva a teatro di Valeria Persechino

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L. Che Guevara, l’uomo dietro la leggenda da subito piace, e molto. È uno spettacolo che si apprezza per l’eccellente regia di Luca Milesi che coniuga l’architettura del testo di Edgardo De Habich con quella delle scene sul palcoscenico e dei personaggi che in esso si muovono. È una storia nella storia. Assistono allo snodarsi del plot, un colonnello dell’esercito boliviano e un prete. I due disquisiscono circa le osservazioni provocatorie di quest’ultimo, il quale vede El come il nuovo Chisciotte che rivisse la predica di Cristo. Così all’entusiasmo del sacerdote, corrisponde l’indifferenza e lo scherno del colonnello che, lungi dal mitizzarlo, ne esalta le mancanze. Tanto lo spettacolo vive nell’ardore che agita Ernesto Guevara, interpretato dall’enfant prodige Antonio Nobili, tanto più rivive nella sua personale inclinazione interpretativa di singole situazioni e scelte dell’uomo-guerrigliero-politico. Quindi un Guevara non solo scanzonato, ingenuo, idealista, ma anche cinico, autoritario, ribelle. Leitmotiv dell’opera e della stessa vita del Che, è la continua ricerca di libertà, come immagine di ciò che si può ottenere mediante la lotta rivoluzionaria e come volontà di fare cose non diverse da ciò che si proclama. Anche da morto il corpo di El sembra parlare. Parla il corpo immobile in posizione supina, parlano i grandi occhi sbarrati, quasi a voler dire ancora una volta: torno a cavalcare ronzinante.

La Veronica… che passione di Titti Germinario

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iugno 1986. A Città del Messico, la nazionale di calcio inglese affronta quella argentina nella partita dei quarti di finale del Campionato del Mondo. Le squadre, bloccate sull’1 a 1, si studiano cercando di non scoprirsi troppo, quando Maradona compie una magia. Conquista la palla al centrocampo, si libera degli avversari con una veronica e dopo una lunga corsa,

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nonostante la rigida marcatura, mette a segno uno dei gol più belli della storia del calcio. La veronica indica una serie di dribbling, in genere laterali, che un giocatore effettua per spiazzare l’avversario e superarlo, dopo averlo sbilanciato. È quell’ingrediente che fa emozionare i tifosi, che fa esplodere gli stadi di applausi e ovazioni. È il valore aggiunto di una partita, imprevedibile e creativo allo stesso tempo, in grado di realizzare la superiorità numerica. È quel gesto tecnico che unisce tifoserie avversarie. Il termine indica una delle figure tipiche della corrida eseguita dal torero con la cappa. Si effettua tendendo il panno vicino al corpo, posto di profilo rispetto al toro che carica, mentre all’ultimo momento il matador lo scarta, facendolo passare da destra a sinistra. La veronica viene chiamata così in riferimento al gesto di Santa Veronica che, secondo la tradizione cristiana, si fermò ad asciugare il sudore di Gesù con un panno di lino (il cosiddetto “velo della Veronica”) durante la sua salita al Calvario.

Ikebana: i fiori dell’anima di Elena Scortecci

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amboo. Narciso. Iris. Contenitore di vetro. Acqua. Strumenti semplici per un’attività complessa, l’Ikebana o Arte di arrangiare i fiori. Nata più di 600 anni fa in Giappone dalla pratica buddhista di offrire fiori agli spiriti dei morti, è considerata un’arte al pari di pittura o scultura e una forma di religiosità. Impararne le regole è un modo per avvicinare la propria anima alla natura, unendo i ritmi delle stagioni a quelli del proprio essere. Le case giapponesi sono spesso adornate da composizioni floreali che riflettono il concetto Ikebana: creare un legame tra il fuori e il dentro, tra la natura e lo spirito. Ma niente è casuale. I compositori (soprattutto uomini in passato) mescolano tra loro parti diverse di vari tipi di fiori, oppure usano un’unica pianta a 360o, imparando a guardare il mondo attraverso i dettagli. L’uso degli spazi è fondamentale per l’armonia di tutti gli elementi. Non solo fiori, quindi, ma anche tripodi, recipienti di diversi materiali, vasi di vetro – con appropriata forma e colore – che riflettono la luce, diversamente da quelli in ceramica; rami, ramoscelli, petali, foglie adatte al periodo di composizione; acqua in quantità dosata, perché lasci viva l’opera senza rovinarla.

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In tutto il mondo e in Italia esistono scuole per imparare questa arte, ma non c’è un metodo unico: nel corso dei secoli si sono diversificati lo stile rikka, decorativo per i castelli nobili, lo stile seika/shoka, caratterizzato da struttura triangolare dei rami, lo stile chabana, semplice; le altre scuole riprendono per la maggior parte queste correnti. Ikebana è l’ideale giapponese di proporzione tra le parti e il tutto, di bellezza che non comprende solo il fiore ma ogni suo elemento, un po’ come l’uomo che, formando pazientemente l’opera, riscopre doti ormai dimenticate.

Er trapizzino

di Giulia Bazzanella

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hi passa da Roma non può assolutamente perdere il trapizzino. Tra le meraviglie che la Città eterna offre, questa è senz’altro la più nuova e per ora non si trova nei libri di storia, ma è altrettanto irrinunciabile. La cucina romana è una gioia per il palato e le papille gustative, ma nulla batte il trapizzino in termini di gusto e apporto calorico. Questa specialità è nouvelle cuisine in senso lato, ma non ha nulla a che vedere con quei piattini striminziti e artisticamente pretenziosi ch e generalmente la caratterizzano. Il trapizzino altro non è che la concretizzazione di una delle pratiche da tutti preferite: la scarpetta col pane. Il nome è una crasi tra la parola pizza (la cui pasta è alla base di questa specialità) e il tramezzino, dal quale prende la forma triangolare. Questo triangolo di pizza bianca, costruito a mo’ di tasca, viene farcito con specialità romane gustosissime, tra le quali polpette al sugo, trippa, coda alla vaccinara e pollo alla cacciatora. Lo potete mangiare nel luogo preciso dove è nato, nel quartiere Testaccio, accanto a Piazza Santa Maria Liberatrice. Non aspettatevi tavoli e sedie, il trapizzino è un cibo da passeggio. Godetevelo.

I libri non chiudono gli occhi di Luisa Gissi

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ono un personaggio (non) qualsiasi di un libro scelto (non) a caso. Mi trovo nella sezione Cultura per difendere la categoria e sostenere una causa ben precisa. La mia proposta è raccontare, dal mio punto di vista di personaggio, il libro in cui sono nato.

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Ho trovato d’accordo molti compagni di storie. Spero che lettori e autori non si dispiacciano, di questo ammutinamento da parte di personaggi in libri già chiusi in attesa di essere riaperti. A favor mio e della mia causa, un grande classico. Holden Caulfield, con l’aiuto della penna di Salinger, ha detto: «Quelli che mi lasciano proprio senza fiato sono i libri che quando li hai finiti di leggere e tutto quel che segue vorresti che l’autore fosse tuo amico per la pelle e poterlo chiamare al telefono tutte le volte che ti gira». Ora, se potessi, direi al giovane collega Holden che spesso questo non è possibile. Tuttavia, trovandomi in perfetto accordo con lui, sono giunto ad una sempre possibile soluzione alternativa. Una volta che un personaggio nasce in un libro non smette di vivere. È chiaro, altrimenti non starei qui a scrivervi! Ogni volta che chiudete un libro, anche se siete arrivati fino all’ultima pagina, quello mica chiude gli occhi. P.S. Il titolo di questa lettera non vuole essere un plagio (l’avete letto, quel libro lì sui pesci di Erri De Luca?), quanto piuttosto un omaggio a un maestro raccontatore di storie.

A piedi nudi sulla terra di Luisa Gissi

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ono un personaggio (non) qualsiasi di un libro scelto (non) a caso. Mi chiamo Baba Cesare. In realtà questo è solo l’ultimo dei nomi dopo tutte le svolte della mia vita, e ce ne sono state tante. Ho svoltato spesso. Cesare mi chiamo da quando sono nato, Baba lo sono diventato. Non esattamente un sadhu e nemmeno un guru. Avrete modo di scoprirlo, ho raccontato tutto a Folco. Ci siamo incontrati ad Hampi, è venuto con due amici, forse tutti giornalisti, in realtà non mi interessava molto. Non più di quanto mi interessino tutte le persone. Mi ha chiesto se si poteva fermare per vedere come vivevo. Gli ho indicato una grotta lì vicino e suggerito il da farsi: Puoi guardare il sole che sorge la mattina e tramonta la sera. Pure lui originario della Toscana, come me! Il viaggio è lungo, dall’Italia all’India. L’ho fatto tante di quelle volte. Sempre in condizioni diverse. Sono partito che volevo fare l’hippie. Seguire una moda, niente di più. L’India era un Paese che interessava a molti. Alla mia curiosità non dispiaceva provarlo. E poi i mitici autobus andavano di là, quindi non è che ho proprio scelto. Si cominciava a fumare, si andava con le donne. Ogni tanto si incontrava uno di questi personaggi

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attraversati da Dio. Non avrei mai pensato che un giorno qualcuno potesse dire lo stesso di me. Soprattutto quando sono stato in prigione. Mica una volta sola. In India e in Italia. Mi hanno trovato del fumo addosso. E dire che non l’avevo manco fumato. È stata una delle svolte. Ma non la più interessante. Di più quando ho cominciato ad andare scalzo. O forse quando ho imparato ad accendere un fuoco sacro. Il contatto con la natura avvicina a dimensioni che quando ho iniziato a viaggiare non immaginavo neanche. È questo che, principalmente, mi piacerebbe che si comprendesse. La dimensione altra che ogni viaggiare comporta. Che la vita inaspettatamente comporta. Fuori da ogni aspettativa, da ogni regola, da ogni possibilità di pensiero. È questo che ho provato a raccontare.

Oscar e la dama in rosa di Luisa Gissi

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ono un personaggio (non) qualsiasi si un libro scelto (non) a caso. Caro Oscar, è stato bello leggerti tutti i giorni. Ogni giorno dieci anni e ogni giorno un desiderio. Nonna Rosa è stata davvero gentile nei miei confronti, ispirandoti questo gioco. In realtà anche nei confronti di tutti quelli che, come me, avranno il piacere (e il dispiacere) di scoprire quelle lettere. All’inizio eri così scettico, le hai dato persino della bugiarda! A Nonna Rosa! Mi pensavi come Babbo Natale, una bugia che vorrebbe rendere felici. E poi lei t’ha convinto. Proprio un angelo, non in senso stretto. Cioè, se lo dico io non è che mi devi prendere alla lettera. È stato bello leggerti tutti i giorni, anche se a tratti mi ha preso una tristezza indicibile. I tuoi racconti, la tua fantasia, davvero questi centodieci anni immaginati sono sembrati proprio veri, ma quanto sei stato saggio? Non della noiosa saggezza degli adulti, sempre pronti a fare e dire la cosa sbagliata al momento sbagliato. Della saggezza che solo a dieci anni si può avere. E che tu manterrai per sempre. Grazie per le tue lettere. È stato bello leggerti tutti i giorni, ogni volta mi ha stupito la tua capacità di immaginare i tuoi dieci anni successivi. La tua capacità di amare. Di provare a capire gli altri. Di concentrare in pochi giorni tutto quello che la vita può dare. Che non ti avrebbe dato in quel poco tempo che hai avuto a disposizione. La tua capacità di non disperarti, di non avere paura a dire quella parola che tutti intorno a te pensavano ma che nessuno osava pronunciare: morte.

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Lo sapevi che stava arrivando, e l’hai aspettata. Riempiendo il tuo tempo nel modo migliore. Vivendo. Amando. Mi dispiace, caro Oscar, che io abbia potuto fare ben poco per te. È stato bello leggerti tutti i giorni, anche se sono stati solo dieci, hai saputo viverli. A presto, baci. Dio

I pesci non chiudono gli occhi di Luisa Gissi

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ono un personaggio (non) qualsiasi di un libro scelto (non) a caso. Se fossi quel pescatore lì, quello che lui tante volte aiutava nel suo «mestiere senza forza», in quel «pescare solo per il desiderio ostinato», direi: «Sul mare non è come a scuola, non ci stanno professori. Ci sta il mare e ci stai tu. E il mare non insegna, il mare fa, con la maniera sua.» e infatti questo l’ho già detto. Ai bambini quando si raccontano “certe cose” si dice che li ha portati la cicogna, o che stavano sotto a un cavolo. Di lui direi che l’hanno trovato in una rete da pesca. Per respirare aveva bisogno del mare. Gli altri stavano in un mondo, e lui nel suo. A me faceva pure piacere, teneva i remi in mano e zitto, voleva solo imparare. Stava bene a fare cose vuote, come setacciare la sabbia cercando esche. Se fossi la mamma direi: «Aro’ si asciuto?» (Dove stai andando?) e infatti questo l’ho già detto. Questo figlio che non è più bambino. Diventa uomo e si ricorda tutto, come se in testa tiene un album di fotografie. Si ricorda di quando io, assente e pensierosa a leggere lettere lontane, decidevo che ne sarebbe stato della famiglia nostra. Si ricorda di quando l’avevano picchiato, povero figlio, e lui nessuna resistenza: incontrava il mondo. Con tutti quei dettagli si ricorda, mi fa impressione quella sua memoria. Lui curioso incominciava a vivere, mentre suo padre si faceva impressionare dalla libertà di un laggiù che gli apparteneva solo un poco. Se fossi la bambina direi: «Amo gli animali, sanno di noi e noi niente di loro» e infatti questo l’ho già detto. Lui sa tutto sui pesci. Ha anche aneddoti divertenti. Sembra uno di loro. Quando parla di un posto non indica le strade ma i punti cardinali! E non chiude gli occhi, tant’è impressionato dalla battaglia per l’amore. Peccato che non ci vedremo più.

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Tuttavia non sono nessuno di questi. Sono un pesce. E i pesci sono muti. Credo che la natura l’abbia deciso perché parliamo attraverso il mare. E attraverso certi libri. E su questo ho già detto troppe parole.

Dizionario delle cose perdute di Luisa Gissi

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ono un personaggio (non) qualsiasi di un libro scelto (non) a caso. Sono un cantastorie di piazza. O meglio, lo sono stato. Mi piaceva scovare i luoghi, immaginare come «toccare le corde della commozione», intuire come fare breccia nel «sentimento popolare». Perlopiù considerato ladro e imbroglione, in fondo un po’ lo ero, mi spacciavo per essere un povero e onesto lavoratore. Ma mi piaceva troppo, raccontare storie. Il Maestro Guccio parla anche di me. Mi mette tra le cose perdute. E che tristezza. Sono in mezzo agli esordi del chewing-gum, tra le vecchie maglie di lana (altro che maglia della salute), accanto al carbone! Ma si può mettere insieme me, che facevo vivere storie, con il carbone? Ma vi pare giusto? Me, insieme ai vecchi tubetti di dentifricio, ai treni a vapore, alle braghe corte, ad un certo cinema, a certe sigarette, ad un mondo andato, ai giochi che non esistono più, alla ghiacciaia prima del frigorifero. È facile essere nostalgici. Perdersi tra cose che non ci sono più. È facile soprattutto essendo cantatori di piazza. È facile prendere una deriva che non va da nessuna parte. Eppure è bello quando il passato trova delle pagine in cui fermarsi, anziché perdersi in una deriva che non va da nessuna parte. Allora essere in questo dizionario di ciò che si è perduto mi aiuta a non perdermi definitivamente. Un po’ come continuare a vivere su di un veliero, imperterrito, nonostante il presente non abbia più bisogno di me. Chissà poi se è vero, che non ci sia più bisogno.

L’uomo che piantava gli alberi di Luisa Gissi

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ono un personaggio (quasi) qualsiasi di una storia scelta (non) a caso. Elzéard Bouffier mi ha piantato. Generosamente e letteralmente. Ero una ghianda, ora sono un albero. «Perché la personalità di un uomo riveli qualità ve-

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ramente eccezionali, bisogna avere la fortuna di poter osservare la sua azione nel corso di lunghi anni. Se tale azione è priva di ogni egoismo, se l’idea che la dirige è di una generosità senza pari, se con assoluta certezza non ha mai ricercato alcuna ricompensa e per di più ha lasciato sul mondo tracce visibili, ci troviamo allora, senza rischio d’errore, di fronte a una personalità indimenticabile.» Meglio di così, quel simpatico signore che è venuto a trovare mio padre, il pastore Elzéard, non poteva ritrarlo. Io l’ho avuta la fortuna di osservarlo, sono stato tra i primi ad essere piantato lì, in Provenza. Ammirevole la sua costanza. Non è che la storia vada raccontata per una questione ambientale, per dimostrare che piantare gli alberi è possibile. A me che non sono umano il punto sembra un altro, e sta proprio lì: nell’umanità. Ammirevole. Il punto non è che cento ghiande fanno diventare un deserto una foresta. Non solo. Il punto è che la dedizione di un uomo solo, un pastore, abbia potuto cambiare quello che è diventato il mio mondo. Così, semplicemente, innaffiandoci tutti i giorni. E semplicemente bisogna raccontarlo.

Imparare a dirsi addio. Concita de Gregorio di Luisa Gissi

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ono un personaggio (non) qualsiasi di un libro scelto (non) a caso. Personaggio è una parola un po’ così, un po’ vaga. Invece di vago c’è ben poco. Più che altro si tratta di un mestiere strano, anche se non dovrebbe esserlo: «accompagno le persone che se ne stanno andando», per quelli che hanno la fortuna o la sfortuna di sapere con certezza che più o meno quel giorno si avvicina. Ad esempio, ho conosciuto questa scrittrice-giornalista, curiosa e colpita dal mio lavoro. Si è venuta a congratulare con me per come avevo ben descritto la defunta, e mi chiedeva come fossimo diventati amici. Le ho spiegato che non lo eravamo, solo per tre mesi abbiamo parlato e provato a chiudere i conti lasciati in sospeso dalla vita, si era affidata a me. Mi chiamo Alberto, «vendo vino e ne sono felice, poi vado dai miei viaggiatori e li accompagno per un pezzo di strada tenendoli con discrezione per mano.» «Non parlare di morte non impedisce a tutti quanti, proprio a tutti, di morire.» Credo sia questo il motivo per cui alla fine sono finito in questo libro, in qualità di accompagnatore verso la morte.

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«Che l’assenza è davvero una più acuta presenza» è un fatto che rende necessario imparare a dirsi addio perché così è la vita. Non è stato facile per Niccolò e sua moglie festeggiare il compleanno di Lulù: ma è diventata una festa bellissima, il dolore condiviso si è trasformato in qualcosa di altrettanto straordinario. Tanto che quando s’è iniziato a suonare «le lacrime le ha assorbite la terra i sorrisi se li è presi la luna.» Poiché siamo vivi ad Banksy un certo punto ci tocca morire, e molte sono le cose tangenti al mio mestiere. La cosa a cui raramente si pensa che ci sono belle storie da raccontare in merito, come quelle qui raccolte. C’è una Casa Editrice spagnola, si chiama Alfinlibros, raccoglie i libri che «danzano intorno al lutto»: non trovate che sia una cosa molto bella quando questi si trovano in una libreria di un obitorio? Con tutto il tempo che si passa lì, sarebbe bene farlo così danzare. Questo libro dovrebbe certamente essere fra quelli, ve lo consiglio, non solo per il mestiere che faccio, ma per il motivo per cui lo faccio, che è la Vita.

Sulla traccia di Nives. Erri De Luca di Luisa Gissi

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a preferenza esistenziale tra il mare e la montagna cade quando si ama la bellezza che si trova in entrambi. Così un noto lupo di mare come Erri De Luca può rivelarsi uno scalatore appassionato d’alta quota. L’ho visto, ed essere aria mi fa diventare un personaggio (non) qualsiasi in un libro scelto (non) a caso. Sono rarefatta su tutte le montagne scalate dalla tigre Nives Meroi. Lei è abituata alle imprese, mai solitarie, ma sempre con il suo compagno Romano, sempre pronti a sperimentare il loro personalissimo «laboratorio d’amore ad alta quota». Erri ha deciso di accompagnarli qualche volta, perché diversamente seguire le loro tracce è impossibile: è regola non lasciare il segno del proprio passaggio. Alla salita segue sempre la discesa che pulisce tutto, dalla tenda al più piccolo pezzo di ferro, resta solo qualche impronta nella neve. Entrare nei loro polmoni è un orgoglio, così come stargli a fianco.

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In cima «la bellezza è più decisiva del coraggio» per resistere alla fatica e alle intemperie. Mi faccio rarefatta, mi presto solo a chi è capace di stare qui «ad ascoltare zi’ tiempo e zi’ viento». Mi faccio rarefatta, e non faccio parlare né posso parlare: la voce delle montagne è il vento. Tanto che «senza vento è come se il creatore del mondo si fosse ritirato per lasciarci uno spazio». Nives ha imparato sulle montagne che non è questione di pazienza, la pazienza è noiosa, si tratta di accoglienza. Essere «accoglienti verso il tempo» significa essere accolti in esso anche quando sembra tutto fermo. Ad alta quota, dove le parole stanno in pari con i fatti, dove «le parole che ti ronzano in testa a volte vanno a sbattere contro le cose fuori e fanno un rumore di schiaffo in faccia», si raggiunge lo stato di grazia quando si è un «grazie che cammina». Ad alta quota il silenzio non esiste. Si ascoltano, «debitori di voci», i membri di un’assemblea del passato, i lontani, quelli che hanno affrontato la salita e mai la discesa. Qui non c’è la brezza del mare, solo aria rarefatta e vento impetuoso, in un ascolto visionario le voci sono accolte senza chiedere documenti, e affrontare salite e discese e saperne raccontare la bellezza non è da tutti.

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L’alternativa

Il mio non è l’unico mondo possibile

Crescita e Decrescita. Parlare di sviluppo non basta più. Aumentare freneticamente i consumi come unico modo per cercare la felicità è una ricetta che esaurisce le limitate risorse del pianeta. Il luogo in cui abitiamo. E allora è necessario, improcrastinabile, cercare un’altra strada: un’alternativa. Un nuovo modo di intendere la quotidianità, prima che la politica globale e l’economia internazionale, in un gioco in cui non ci sono vincitori o sconfitti, ma tutti si arricchiscono dell’esperienza della cooperazione e delle scelte responsabili. Da soli o Insieme. Mettere in rete le conoscenze sulle buone pratiche, i progetti di recupero ambientale e di sostegno sociale, le scelte ecosostenibili è possibile solo attraverso le storie di chi lo fa già, tutti i giorni, da solo o in forma associativa. Cercare l’alternativa è scovare il sentiero meno battuto e raccontarlo. Rendere pubbliche le storie di chi, in direzione ostinata e contraria, prova a fare la differenza. Rivoluzione e Futuro. UnderTrenta desidera offrire un altro punto di vista, ricco di prospettive sensibili che aiutino a conoscere le alternative alle azioni indiscriminate di massa e che scongiurino il rischio di rimanere invischiati tra dogmi e pigrizia. È un modesto contributo alla rivoluzione culturale che potrebbe garantire un futuro più equo, solidale, sostenibile e umano. E passa attraverso la costruzione di un differente approccio nella ricerca delle storie e nella loro comunicazione.


La perfezione nasce dalle crepe di Giuseppe Marino

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ell’era del truciolato Ikea, della chincaglieria made in china, di piatti e posate usa e getta; nell’era della velocità e dell’amore per il nuovo, il nuovo iPhone, i nuovi zigomi, la macchina nuova, gli occhiali nuovi, ho scoperto il kintsugi (金継ぎ), o kintsukuroi (金繕い). La chiarissima traduzione letterale riporta al «riparare con l’oro». La pratica è giapponese e consiste nel rinsaldare gli oggetti rotti con materiali preziosi: tutti i frammenti di un vaso andato in frantumi vengono ricongiunti con un liquido o una lacca con polvere d’oro e ritornano nelle fattezze originali, ma con una differenza. La ferita è lì, in primissimo piano, talvolta pacchiana, dorata, impattante. Nella cultura orientale le cicatrici restituiscono valore all’oggetto, lo rendono unico. In Occidente una cosa o è intatta o è rotta. E se è rotta o è possibile ripararla come se non fosse mai successo nulla oppure non vale la pena tenerla. Meglio una nuova. Ma tra integrità e rottura c’è la ricomposizione, c’è l’idea che dall’imperfezione possa nascere una forma maggiore di perfezione, estetica e interiore. «Tra la partenza e il traguardo, nel mezzo c’è tutto il resto. E tutto il resto è giorno dopo giorno. E giorno dopo giorno è, silenziosamente, costruire. E costruire è sapere e potere rinunciare alla perfezione».

Vado a vivere da sola (senza lo schiacciapatate) di Angela Marzocca

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amma, Papà, vado a vivere da sola! Ecco quello che hanno dovuto sentirsi dire i miei genitori circa due mesi fa, quando ho annunciato il lieto evento, in una domenica pomeriggio di settembre. Lieto poi… mica tanto! Preceduto da giorni di gastrite e ansia da rivelazione, è stato un momento complicato per ben tre motivi: 1) io vivo in un paese del Sud Italia (sapete, uno di quelli in cui la mentalità si è fermata agli anni ’60); 2) l’ho fatto proprio da sola, senza un uomo, un compagno, un coinquilino… nemmeno un cane; 3) l’ho fatto nella mia stessa città, nessun chilometro di distanza tra le mie radici e la mia indipendenza, nessun lavoro o studio “su al Nord”. Niente di tutto questo: sono pugliese, ho 28 anni, single, un lavoro precario e ho deciso di andare a vivere da sola. Nulla di sconvolgente per i più, ma chi vive

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da Roma in giù ed è cresciuto con l’idea che, per abbandonare il tetto materno, la chiave è una fede al dito, potrà capirmi. E in effetti, i primi tempi, non è che mi abbiano proprio compreso. Mia madre che inizialmente metteva in dubbio il suo esser stata un buon genitore e poi è passata alle torture psicologiche (“e se non ti rinnovano il contratto?”), mio padre che si è sentito abbandonato, rifiutato, proprio adesso che con la pensione avrebbe potuto passare più tempo in famiglia. Non capivano che quella per me non era una decisione contro qualcuno o qualcosa, che non era stata presa perché con loro non stavo più bene, ma perché ad una certa distanza, con loro, ma soprattutto con me stessa, potevo star meglio. È stata una scelta “pro”. Pro me. Sì, perché finalmente sto imparando sulla mia pelle quanto sia complicata la spesa, le offerte, i carrelli, gli odiosi formato-famiglia che a te basterebbero per un anno intero; che ci vuol attenzione per arrivare a fine mese senza ansie; che il bucato non si lava e si stira da solo; che si può vivere senza uno schiacciapatate, un set di mille pentole d’acciaio o un robot da cucina. Sto imparando quanto è bello leggere alle tre di notte perché non hai sonno e nessuno si lamenta in camera perché hai la luce accesa; sto imparando quanto è bello addormentarsi in un angolino e ritrovarsi al mattino in diagonale nel letto. Sto apprezzando il silenzio, quello in cui anche un respiro si sente. Sto apprezzando il tempo, in particolare quello dedicato agli altri, perché è scelto, ponderato, desiderato. Sto scoprendo la reale differenza tra voglie e necessità. Sto capendo che le distanze sono più nella testa che nei chilometri, e che, a volte, basta voltare l’angolo per trovare la giusta misura tra te e il mondo.

Saper chiedere aiuto di Giulia Bazzanella

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più semplice da offrire che da chiedere, l’aiuto. Perché nella nostra infinita arroganza, noi esseri umani siamo sempre molto più inclini ad ergerci a eroi salvatori, piuttosto che riconoscere umilmente la nostra fallibilità. È più appagante gonfiare il petto e sollevare il mento, guardare all’infinito ed oltre, far svolazzare il mantello e proclamare che si risolverà la situazione, piuttosto che incassare le spalle, abbassare lo sguardo e cercare una mano disposta a sorreggerci. Perché? La richiesta di aiuto ci fa sentire in difetto, vulnerabili. Ma d’altra parte è anche vero che chiedere aiuto è una scelta coraggiosa. L’idea di affidarsi a qualcun altro, perché da soli non ce la si fa, richiede una buona dose di consapevolezza delle proprie capacità e altrettanta fiducia nelle capacità dell’altro.

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Verso una nuova economia domestica di Valentina Poli

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l cucito, la cucina, la gestione della casa, l’educazione dei figli: questi sono solo alcuni degli argomenti che le nostre nonne trattavano a scuola nell’ora di Economia domestica. Questo era richiesto ad una giovane fanciulla in età da marito, una donna che sarebbe diventata moglie prima e madre poi. Quando la donna divenne anche lavoratrice le cose iniziarono a cambiare e, a partire dagli anni Sessanta, parlare di economia domestica cominciò ad essere quasi offensivo e la materia venne tolta dai curriculum scolastici. Oggi, a cinquant’anni di distanza, le cose sembrano muoversi in una direzione ancora diversa: l’economia domestica torna, sia sul territorio con corsi organizzati da varie istituzioni, sia sul web con blog e forum incentrati proprio sull’attività casalinga. Non si impara più a farcire il tacchino perfetto o ad attendere sorridenti il marito alla finestra, l’attenzione è volta a creare un atteggiamento sostenibile e anticrisi. La gestione della casa è attenta agli sprechi, indirizzata verso il risparmio ma anche rivolta al rispetto per l’ambiente; si discute sull’uso di prodotti naturali o a chilometro zero, per un vantaggio proprio ma anche del territorio in cui si vive. Le nostre antenate si stupirebbero di trovare qualche maschietto e sicuramente avrebbero qualcosa da ridire visto che nessuno più si cura di avere il corredo inamidato o il servizio “buono”; ma sarebbero anche orgogliose di vedere riscoperti quei rimedi vecchi di cent’anni che aiutano a sopravvivere ai raffreddori invernali o rispolverate le macchine da cucire. Alcuni saperi vengono recuperati mentre altri vengono sostituiti da nuove risposte a nuove e diverse necessità.

Bio-benzina e sostenibilità di Elena Scortecci

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isto il crescente prezzo del petrolio e la decrescente reperibilità, mentre noi facciamo file infinite ai distributori per risparmiare due centesimi, c’è chi studia soluzioni per rendere la benzina rinnovabile e sostenibile. L’azienda statunitense Joule Unlimited produce benzina da raggi solari e CO2 con un unico e continuo passaggio, evitando i costi, le conseguenze inquinanti degli impianti petroliferi e lo spreco di materie prime. Il sistema sembra talmente promettente che la Audi ha già comprato i diritti per la vendita dei nuovi combustibili.

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Quest’anno invece il KAIST (Korea Advanced Istitute of Science and Technology) ha ottenuto carburante modificando geneticamente l’Escherichia Coli – il batterio che troviamo nelle analisi del nostro intestino. Finora si sono ottenuti 0,58 grammi di benzina con 1 litro di brodo di coltura. Tra gli esperimenti che vengono fatti un po’ in tutto il mondo per produrre bio-carburanti c’è anche quello dell’Università dell’Arkansas (Algae Biofuel Research) con le alghe, oppure di un’azienda di Hong Kong attraverso gli oli di scarto. In Italia il primo distributore di bio-benzina – E10 e E85 con bioetanolo – è nato nel 2012 a Tortona (AL) grazie alle ricerche del Gruppo Mossi&Ghisolfi. Tanti passi che formano un cammino pulito, soprattutto per chi verrà dopo.

Femminicidio linguistico di Giuseppe Marino

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essuno definirebbe mai Federica Pellegrini un nuotatore o Bianca Balti un modello, Maria un infermiere, Antonella un maestro ed Elisa un segretario. Invece con il Ministro Annamaria Cancellieri, il Magistrato Ilda Boccassini, l’Avvocato Giulia Bongiorno e il Rettore Daria De Pretis la musica cambia. Le donne in questione sembrano acquistare potere, importanza e prestigio solo grazie agli appellativi al maschile. Per alcune cariche istituzionali o professioni, infatti, non si utilizza mai il femminile o, se lo si fa, sembra così forzato (e brutto) che si passa per analfabeti: sindaca, chirurga e ingegnera sono tre esempi. Discriminazione linguistica? Se Paesi come la Svizzera stanno provando a sradicare questa tradizione androcentrica con studi e ricerche finalizzate all’inserimento nella lingua corrente del femminile laddove manchi, i sostenitori più accaniti del maschile che ingloba (o soffoca?) l’altro sesso sostengono che non sia giusto trasgredire le regole grammaticali solo perché negli ultimi anni alcuni ruoli sociali – di solito appannaggio del “sesso forte” – siano stati resi accessibili anche alle donne. Cittadini e spettatori: nascondere la donna dietro (o dentro) il genere grammaticale maschile non è una questione linguistica ma un evidente stereotipo culturale. Spieghereste come mai una signora che cucina in contesti umili è una cuoca, ma se lo fa in location a tante stelle è uno chef?

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La rivoluzione è nel ritorno di Gabriella Birardi Mazzone

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n mondo fuori dalle nostre possibilità, fuori dai nostri sogni. Io non ci credo. Non riesco a pensarla così. Una sera di luglio ho capito perché valga la pena seguire quella traccia d’essere me, d’essere capace di far invertire la rotta del mondo. Ci sono state quattro cose insieme, tutte in una magnifica notte d’estate: uno spettacolo, una donna, dei pannelli bianchi e una sola parola. Uno spettacolo icona, o meglio com-memorativo, di una compagnia teatrale che ha scomposto gli ingranaggi arrugginiti della storia del secolo scorso: The Living Theatre. Una donna, piccola e ossuta, di circa novant’anni, inerte nel mondo reale, forse un po’ debole e raffreddata, ma sul palco forte come l’amore. Insieme al suo compagno Julian Beck, negli anni cinquanta, lei, Judith Malina, ha fondato questa “cosa vivente” chiamata teatro. Quella sera ha lanciato l’urlo che libera (l’urlo del Living) che avrebbe invaso una Bologna lacerata dal brusio insulso di giovani come me che, molto spesso, perdono la forza del credere. I pannelli bianchi sono stati sporcati di nero, sporcati dalle tracce scritte di ogni spettatore, da me che con pelle inesperta ho creduto di lasciare una memoria. Su quel pannello bianco ho tentato di incidere una parte di me, di ciò che sentivo. Eravamo chiamati a dare un senso a ciò che avevamo visto con occhi nuovi. The plot is Revolution, il titolo dello spettacolo: la trama è la Rivoluzione. La parola è appunto questa. Fin troppo usata, non mi ha mai soddisfatta. Non sono mai riuscita a carpirne il senso. Oggi ho deciso, però, di cercarne la radice: revolvere che, oltre al significato di volgere contro, racchiude anche il senso di un ritorno. Il ritorno sullo stesso punto del moto dei pianeti. Il ritorno a casa dopo un viaggio. Il ritorno di ciò che avevamo perso. Il ritorno di un amore insperato. Il ritorno del coraggio che vacilla. Il ritorno di un governo mai cambiato. Di un sogno mai realizzato. Di un sorriso non sperato. Il ritorno del dolore. Del nulla. Della luna piena. Del diverso e dell’uguale. Il ritorno del cambiamento. Potrei perdermi all’infinito e continuare a scrivere fiumi di parole. Prendo appunti su questo piccolo articolo mentre sono su “un treno che ritorna” e penso che non ci sia cosa più bella del tornare, perché il tornare presuppone l’andare. Andata e ritorno racchiudono la sottile traccia della presenza, di un movimento. Qualcosa che va e viene come l’onda, come il respiro, come la vita. La rivoluzione è un ritorno alla vita, come il teatro, come noi giovani che torneremo ad essere dei “vecchi bambini”, dei “rimbambiti”, mentre ora torniamo alla speranza dell’azione dei sogni. I sogni tornano come gli incubi, ma a diffe-

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renza di questi producono la rivoluzione vera, la vita. Non voglio lasciarla sfuggire, voglio un mondo che vada e torni con mille lucciole accese che noi giovani, insieme, non spegneremo mai.

L’eroe

di Elia Giovanaz

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n giovane d’oggi si siede a guardare il telegiornale della sera: un primo servizio lo tiene aggiornato dei progressi fatti dalla politica nell’ultimo mese e lo scopre essere identico al servizio del mese precedente; una voce fuori campo lo bombarda di cifre troppo difficili da immaginare per dargli un’idea della crisi economica in cui sguazziamo; un giornalista intervista una manciata di rabbiosi lavoratori precari o disoccupati che non vedranno mai una pensione; infine una cronaca approfondita lo ragguaglia sull’ultimo amore della soubrette di turno. Il giovane spegne la televisione. Non sa se domani proseguirà con lo studio per ottenere una laurea di dubbia utilità. Non sa se accetteranno la sua richiesta di lavoro per contribuire a pagare gli studi. Decide di evadere, di rilassarsi davanti un film: Batman o Spiderman? Quel giovane vorrebbe essere un supereroe: vorrebbe essere bravo e rispettato nel lavoro che svolge, poter realizzare i propri sogni e magari, un domani, costruirsi una famiglia tutta sua. Sarebbe l’eroe migliore di tutti.

Autonomous car: l’auto del futuro esiste di Elena Scortecci

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ei film, nei libri di fantascienza e nel futuro immaginato le automobili si guidano da sole: al supereroe di turno giusto il tempo di indossare la maschera. Sorprenderà sapere che già da qualche anno vengono testate e utilizzate le cosiddette Autonomous Cars, auto autonome in grado di viaggiare senza bisogno del comando umano. I pionieri sono stati gli ingegneri di Google, che hanno portato i loro gioiellini sulla strada reale in Nevada e California, con risultati soddisfacenti; ma per il momento l’ampliamento dell’uso di massa del mezzo attende nuove leggi e risultati più sicuri. Una delle minacce più significative per la commercializzazione delle Autonomous è rappresentata dagli hacker, che potrebbero intercettare il Sistema di Controllo usato per la macchina e modificarlo, causando disastrosi incidenti. Intanto altre Case Automobilistiche (la Tesla in cima alla classifica, ma anche Nissan e Audi) hanno realizzato dei prototipi simili e si pensa che entro il 2020 si possano vedere le prime Less-driver car sulle strade comuni. L’alternativa 185


Alcuni meccanismi automatici esistono già nelle auto di ultima generazione, come i sensori di parcheggio, il controllo di stabilità o il limite preimpostato della velocità, ma una gestione completa della guida da parte della macchina è un’innovazione totale. Nell’euforia generale per gli importanti progressi tecnologici viene da chiedersi: cosa succederà se uno dei meccanismi si rompe e l’auto non è più capace di riconoscere gli ostacoli? E che fine farà lo stile di guida? Forse diventeremo spettatori di robot che si muovono per noi e verrà a mancare il piacere di poter guidare un mezzo; oppure sfrutteremo il tempo del viaggio per riposare comodamente nei sedili, o per inventarci automi che riproducono la sensazione di ingranare le marce.

Sono uno Sfigato di Titti Germinario

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o Sfigato è un individuo anonimo, privo di senso estetico che preferisce la lettura noiosa di un libro all’aria aperta piuttosto che una serata in discoteca, tra fumo e alcol. A scuola siede sempre in prima fila, parla e sorride poco e indossa spessi occhiali che nascondono il viso butterato dall’adolescenza. Non guida l’auto di grossa cilindrata, non veste firmato e non fa il cascamorto con chiunque. Esce poco la sera perché non ha amici. Lo Sfigato solitamente è single oppure omosessuale. Il Figo è colui che passa la propria vita all’ultimo banco a ridere. Seduttore di corpi e non di menti vive di tecnologia e di donne fatali. Ama il gruppo e in esso esprime tutte le sue potenzialità. È colui che non trovi nella cronaca nera del quotidiano che sfogli distrattamente in un bar. Non si chiama Hanna che a 14 anni si suicida per bullismo su internet. Non è Simone che a 21 anni si lancia dal balcone, deriso per la sua omosessualità. Non si tratta neanche di Fiona che a 14 anni si impicca perché ritenuta grassa dalle proprie amiche. Il vero Figo è colui che riesce a comprendere il dolore dell’altro e viverlo intensamente sfidando i luoghi comuni e rafforzando la propria unicità. Il Figo è colui che ha imparato a dire «No, Grazie!».

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Io, umano

di Elena Scortecci

Basta poco. Certe volte basta porgere una scusa, un «ho sbagliato», per salvare un rapporto – d’amore, d’amicizia, genitoriale. Sono parole semplici ma difficili da pronunciare, come se il nostro cervello le avesse memorizzate come Parole Proibite. Alcune relazioni terminano in malo modo perché non siamo riusciti a dire parole come queste, specchio di una coscienza che ha riflettuto sui fatti e riconosce semplicemente di aver sbagliato. L’«errare è umano» però ci sentiamo deboli ad ammetterlo a noi stessi o a qualcun altro. Dovremmo pensarci quando siamo chiamati a perdonare o essere perdonati. Dovremmo pensarci ogni volta che basterebbe un «perdonami, ora ti spiego come è andata» o «vorrei parlarne» per riparare situazioni invece di abbandonarle a loro stesse. Non è il Bignami del buon amico, ma un modo sincero per (ri)partire senza sentirsi deboli, semmai forti nella propria consapevolezza. In una parola: umani.

Cercare non implica necessariamente trovare di Giulia Bazzanella

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a ricerca è un tendere verso qualcosa. Non un raggiungere, non un concretizzare. È un viaggio più che una destinazione. Spesso richiede pazienza e disposizione al fallimento. Cercare non implica necessariamente trovare. Cercando si può incappare in ostacoli, cambi di rotta, false partenze, ritorni all’origine. Ma è attraverso la ricerca che si ottengono nuovi spunti, verità diverse, differenti punti di vista. Da una ricerca possono nascere altre ricerche.

Un parco per amico di Elena Scortecci

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uanti italiani conoscono il Parco Giardino Sigurtà di Valeggio sul Mincio (Verona) o il Giardino della Villa Medicea di Castello (Firenze)? Dovrebbero, perché sono i vincitori del premio Il Parco più bello d’Italia 2013, il primo per la categoria Parchi Privati, il secondo per i Pubblici.

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Solitamente ci concentriamo sulla bellezza dei grandi monumenti, perdendo di vista i Parchi Naturali apprezzabili da grandi e piccoli. Ogni anno, a partire dagli anni Novanta, vengono premiati Parchi o Giardini, con il patrocinio di Associazioni culturali o Fondi ambientali, per valorizzare una parte meno conosciuta del territorio italiano. La giuria è composta da specialisti del settore, e tramite il sito www.ilparcopiubello.it si può dare un’occhiata ai Giardini, segnalarne di nuovi o prendere spunto per una gita. Un modo diverso di fare vacanza che ha tanti pregi, soprattutto nell’era di crisi che attraversiamo: risparmio di benzina e mezzi (molti parchi sono più vicini a noi di quanto pensiamo), biglietti d’ingresso a prezzo abbordabile (se non gratuito), con sconti per gruppi e famiglie. Il guadagno non è solo nel portafogli: respirare l’aria depurata dallo smog, sentire il rumore di ruscelli o animali invece di quello di auto e fabbriche, imparare a riconoscere piante e insetti, fare esercizio camminando tra i sassi, è una cultura a cui ci potremmo sorprendentemente appassionare, soprattutto se al ritorno a casa l’effetto di pace si è trasferito nella nostra mente. Mente di solito troppo trafficata dalle preoccupazioni quotidiane per godersi un angolo di natura che non sia il cortile dietro casa. In Italia solo i Parchi Nazionali sono ventiquattro, dislocati su tutto lo Stivale comprese le isole, quindi non resta che consultare l’elenco ufficiale e decidere di combattere i problemi da ufficio con la parte più verde della nostra sensibilità.

L’orgoglio

di Giulia Bazzanella

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ome si fa a definire l’orgoglio? È un sentimento, una caratteristica, un’attitudine? È amor proprio che sfocia nella presunzione? È difesa della propria dignità? È un bene o un male essere orgogliosi? Credo che la risposta più appropriata sia: dipende. A volte l’orgoglio è uno scudo, una protezione, un moto di autotutela. Altre volte è un ostacolo, un muro, una barricata, un impedimento nelle relazioni. A volte va messo da parte, per chi si ama, a volte va sfoderato come un’arma per la propria protezione. Se è troppo, è deleterio. Se è troppo poco, è controproducente. Il segreto sta nella misura, nell’equilibrio, che è però sempre sottile. L’orgoglio fa fare cose stupide, fa trincerarsi dietro silenzi, fa mantenere posizioni che sarebbero da rivedere, spesso complica situazioni di facile risoluzione. La mancanza di orgoglio fa fare cose altrettanto stupide, fa accettare dinamiche spiacevoli e circostanze umilianti, trascurare l’autostima, piegarsi al volere altrui.

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L’arte di essere quello che mangi di Francesca Bottari

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’è il vegetariano di un tipo, il vegano di un altro, chi mangia solo pesce, chi non sopporta le uova ma mangia la carne. Idee e parole a riguardo proliferano. Fra le tante letture possibili ho scelto Vivere lo yoga di S. Gannon (Eifis Ed.), un libro che conduce ad una maggiore consapevolezza del perché di una scelta vegana. Una lettura semplice che non supera le cento pagine, completa di ogni spiegazione e per chiunque voglia approfondire l’argomento, ma è bloccato dalla paura di cambiare. Per molti è normale pensare una cosa, farne un’altra e dirne un’altra ancora. Il motivo – nonché una delle malattie moderne – è la disconnessione all’interno di noi stessi (fra mente, cuore e corpo) e fra noi e gli altri. Guarire questo paradosso umano significa «dissolvere l’illusione della diversità», in noi stessi (fra pensiero e azione) e con il mondo – nel quale fanno parte anche gli animali. Se ci sentiamo diversi e sconnessi da qualcuno sarà semplice provocargli del male perché non riusciamo a vedere che facendolo a lui o lei, lo stiamo facendo anche a noi stessi. Ma cosa c’entra tutto questo con quello che mangiamo? La disconnessione porta a pensare che le nostre azioni non hanno un’influenza su di noi e sul tutto, invece è esattamente l’opposto. Pensarlo uccide la nostra autostima e conduce il nostro agire ad operare con totale noncuranza: se ciò che faccio non ha alcun effetto, o se ce l’ha sarà comunque impercettibile al mondo interno, allora non mi sentirò mai responsabile di quella o questa azione. In poche parole se procuriamo sofferenza la procuriamo anche a noi stessi e a chi vive con noi, se feriamo ci riconosceremo anche attraverso questa ferita. L’autrice accompagna il lettore in queste riflessioni fornendo anche dati e numeri impressionanti sui danni ambientali di un’alimentazione carnivora e sugli abusi sessuali e mentali a cui gli animali sono quotidianamente sottoposti – mangiandoli ci nutriamo anche di questo. Un mantra indiano insegna: «possano tutti gli esseri essere felici e liberi ovunque, e possano i pensieri, le parole e le azioni della mia vita, in qualche modo contribuire a quella felicità e libertà per tutti». Ciò che facciamo all’altro, umano o animale che sia, sarà parte del nostro essere. «Come vediamo noi stessi determinerà molto chi siamo, e chi siamo verrà rivelato nelle nostre azioni». Ad ognuno la scelta di agire sentendosi parte del tutto o meno, di considerare l’animale un soggetto vivo, degno di felicità e una preziosa opportunità per liberarci e liberare il mondo intero.

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L’incertezza. Oggi più che mai di Giulia Bazzanella

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lemento imprescindibile della vita, l’incertezza è una presenza costante con la quale dobbiamo convivere. L’Essere Umano, preso com’è dalla sua mania di grandezza e dal suo compulsivo bisogno di sfidare leggi e dinamiche sempre esistite, intraprende una dura lotta contro l’incertezza. Lo fa attraverso scoperte, tecnologie, ricerche, che gli forniscano risposte attendibili e sicure. Lo fa attraverso credenze, miti, riti, che gli forniscano previsioni e prospettive alle quali credere. Oracoli e indovini spopolavano nell’Antica Grecia, già allora l’Uomo sentiva la necessità di combattere l’ignoto. L’evoluzione e il progresso hanno portato rivelazioni scientifiche e con esse una serie di risposte, dalle quali però sono scaturite altre e nuove domande. Oggi più che mai, l’Essere Umano è tormentato dal non sapere e non poter prevedere. In un’epoca in cui tutto si conosce e tutto si prevede, l’incertezza risulta essere una componente di disturbo, in una situazione altrimenti perfettamente gestibile, dove si conosce l’orario del prossimo treno, il tempo di domani, la programmazione televisiva e l’orario di impatto di un meteorite sul pianeta. La battaglia contro l’incertezza è tuttavia persa in partenza. Perché l’incertezza, in quanto tale, non è prevedibile, non è misurabile, non è dominabile. D’altro canto è una risorsa ineguagliabile. Permette di cimentarsi nell’adattamento a circostanze prima sconosciute, aguzza l’ingegno, ridistribuisce importanza alle cose, ridefinisce gli schemi, crea alternative. È un’ombra costante, che ribadisce con forza la sua presenza e la sua potenza, appena si abbassa la guardia. Spaventa a tal punto che generalmente nessuno la cerca e tutti la rifuggono. La realtà è che non sempre si può scegliere di evitarla. Vuoi per casualità, vuoi per predefiniti disegni divini, ci sarà sempre un terreno oscuro e sconosciuto, dimora dell’incertezza, dal quale germoglieranno variabili nuove da inserire nell’equazione della vita.

Non si ascolta solo con le orecchie di Giulia Bazzanella

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lla base di ogni relazione c’è il dialogo. E il dialogo non esiste senza l’ascolto. Ascoltare non significa sentire, non bastano le orecchie per farlo. Un buon ascoltatore è un foglio bianco, disposto ad essere riempito con le parole di chi parla. Un buon ascoltatore sa omettere il proprio punto di vista e osservare la realtà attraverso gli occhi dell’altro. Non si ascolta solo con le orec-

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chie e non necessariamente con le orecchie. Un dialogo può essere silenzioso, può non esserci nessuno che parla. L’ascolto avviene con altri sensi, anche con il sesto. Si può percepire uno stato d’animo, ascoltando. Si può leggere tra le righe, ascoltando. Si possono cogliere desideri, speranze e paure inespressi. Solo gli animi sensibili sanno ascoltare.

MIL: Miseria Interna Lorda di Giuseppe Marino

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ato a Gujarat, India britannica, nel 1928, (Abdul Sattar) Edhi vive a Karachi, megalopoli del Pakistan, cloaca di sindhi, baluchi, punjabi, pashtun, kashmiri, afgani, arabi, iraniani e africani in cui si trasferì, nel 1947, da giovane profugo dopo l’indipendenza del Paese. Un povero tra i poveri. Coi poverissimi Edhi ci dorme. Li cresce, li lava, li veste, li ascolta, spesso li seppellisce. Ha una moglie infermiera, Bliquis, sposata dopo il due di picche di altre 7 donne. Cinque figli, tutti a dare una mano. Di suo, non ha stipendio, auto, proprietà, computer, telefonini, orologi. Niente. Parla solo l’urdu. Lo chiamano maulana, maestro. È paragonato a Madre Teresa di Calcutta e ogni anno lo candidano al Nobel perla Pace. La sua unità di misura è la Miseria Interna Lorda. Il suo capolavoro: un Welfare unico al mondo, gestito dai poveri per i poveri, un impero del bene costruito dal nulla che, sessant’anni dopo, Edhi governa con una regola immutata: nulla per sé, tutto per gli altri. Una montagna di offerte – dovere di ogni buon musulmano – ogni giorno gli arrivano sulla fiducia. Non ne accetta da stranieri e grandi organizzazioni. Solo pakistani e gente comune. Una lista infinta di cose da fare per 3 milioni di bambini abbandonati, 40.000 neonati nel cassonetto, 80.000 malati di mente e aids, 350.000 volontari, 8 ospedali e decine di orfanotrofi, 2 banche del sangue, 3 gigantesche mense pubbliche, 250 centri per la protezione civile e la ricerca degli scomparsi, 5 scuole per infermieri, 20 centri d’aiuto femminile, 300 pompe funebri, 306 ambulatori, il più grande servizio d’ambulanze nel mondo, una rete per il soccorso stradale e in mare, 2 cliniche oncologiche, 4 centri di raccolta cibo e vestiti, servizi veterinari per animali maltrattati, botteghe della carità per gli emigrati e addirittura campagne d’aiuto in Afganistan, Somalia, Bosnia, Libano. «Quando arrivai dall’India – ha raccontato in un’intervista – non sapevo fare niente. Dare senza pretendere era l’unico insegnamento dell’Islam che portavo con me. Mettere in pratica, con l’esempio, la parola di Dio, mi fa sentire degno di essere nato.» L’alternativa 191


E prosegue: «Non vado mai alla moschea. Avrei tempo per farlo, come no, mi sveglio la mattina alle 4 e mi corico la sera alle 8. Ma toglierei tempo ai poveri, a chi mi cerca per donare qualcosa. L’Islam dice che dobbiamo occuparci dell’uomo e io preferisco pregare con gli orfani. Il mio haji, il pellegrinaggio ai Luoghi Santi, è quello». Per Edhi l’umanità non è un prodotto del supermarket con l’etichetta appiccicata: indù, sikh, musulmano, cristiano. «Le cinque più grandi religioni del mondo si occupano dei poveri con organizzazioni, palazzi, fondazioni. Queste cose servono solo a chi se ne occupa. L’unica religione è l’uomo.» E al giornalista che l’ha intervistato: «Tu dove dormi stanotte?» «Mah, in un albergo…» «E quanto paghi?» «Centocinquanta dollari.» «Lo sai con quei soldi ci possono mangiare trecento persone?»

I piedi violati

di Elena Scortecci

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ina, IX-X secolo d.C. Inizia per le bambine una pratica che le segnerà tutta la vita. Le madri prendono in braccio le giovani occhi a mandorla e le rassicurano prima di iniziare: devono sentirsi delle privilegiate, perché così saranno prescelte da un nobile marito. Da quel momento, ogni giorno le aiutano a fasciarsi i piedini con garze strettissime, fino a piegarli e rompere le ossa, per farli entrare dentro scarpe minuscole finemente decorate e trasformarli in Gigli d’Oro (o Loti dorati). Le fiere madri cercano di alleviare il fortissimo dolore delle proprie figlie rincuorandole che i piedi un giorno somiglieranno al bulbo di un giglio – fiore simbolo di purezza e nobiltà – e che camminando l’oscillazione del corpo (data dal dover procedere con ossa fratturate, doloranti e innaturali) ricorderà a tutti gli uomini rispettabili il fluttuare dei fiori mossi dal vento. Così le famiglie nobili investivano sui piedi delle figlie, per preservare loro un futuro in una ricca famiglia, perché i Gigli d’Oro erano una virtù, attraente eroticamente, tanto che le prostitute con quel tipo di piede si facevano pagare di più, mentre le altre venivano ripudiate. Anche nelle classi sociali più basse si cercava di attuare questa tradizione, con la speranza di essere un giorno scelte da un benestante cinese, ma era più difficoltoso perché si lavorava molto durante il giorno, mentre le nobildonne erano aiutate e non si affaticavano.

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Una questione di onore, e la speranza di un futuro migliore. Oltre al legame con l’idea dell’uomo dominante: il capo famiglia, vivendo accanto a un fragile fiore di loto, si sentiva rafforzato nella sua virilità. Con l’instaurazione della Repubblica Popolare Cinese (1949) la pratica è stata finalmente vietata perché considerata infamante per il corpo femminile. A quel punto la situazione si è capovolta: le cinesi a cui era stata raccontata la favola del Loto dorato, che avevano quotidianamente cambiato con cura le fasce ai piedi rischiando la morte per infezione, iniziarono a rappresentare una cattiva usanza e furono respinte dalla società; mentre le fortunate dai piedi vergini, non iniziate alla pratica, divennero prede ambite. Alcune cinesi dai piedi violati sono ancora in vita; a loro è toccato il triste destino di non poter cambiare le cose: troppo piccole prima e troppo deformate poi. Conservano ancora le scarpine di bambola, marchio di fiori strappati da un finto giardino.

Quando il bisogno di nutrirsi diventa patologia di Arianna Panzolato

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gattaiolare furtivamente in cucina per addentare della cioccolata: alle tentazioni si cede ma l’allarme scatta quando neanche la camicia di forza frena l’assunzione di un determinato alimento; la sazietà è secondaria, si cerca piuttosto l’effetto sedativo che si prova consumandolo. Nel vocabolario delle cibarie si parla di Food craving e al banco degli imputati siedono la cioccolata per le donne e le bistecche per gli uomini. Il fenomeno, più rosa che azzurro, diminuisce con l’avanzare dell’età e ha una base neurologica. È il cervello che mobilita dopamina e oppioidi endogeni che sollecitano i circuiti cerebrali di Reward, deputati al piacere e situati nell’ipotalamo o nel sistema limbico. Una volta addentato l’alimento sognato, nel corpo divampa in una generale sensazione di benessere, per alcuni quasi orgasmica, che invita a ripetere l’azione. L’esito è la ricerca compulsiva di una sostanza chiamata cibo. Dipendenza da droga, alcool e cibo, sembra che i confini si stiano facendo labili: il craving, infatti, precede il Food addiction caratterizzato da crisi d’astinenza e dall’aumento delle dosi del cibo desiderato per ottenere l’effetto benefico. Benvenuti nella triste era delle nuove dipendenze alimentari.

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Autonomia

di Giulia Bazzanella

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’autonomia è una conquista. Per ottenerla si lavora su se stessi e sulla propria vita, partendo dai mezzi che si hanno a disposizione e costruendo un po’alla volta circostanze che forniscano nuovi strumenti. L’autonomia è un successo che si custodisce gelosamente e dal quale ci si allontana con fatica. La parola autonomia è composta da due parti: auto e nomos. Insieme, queste due parole formano un concetto che presume una certa indipendenza da ingerenze esterne nel decidere. La possibilità di scegliere senza condizionamenti o restrizioni sta alla base di ogni tipo di autonomia. L’autonomia economica o finanziaria presuppone la possibilità di scegliere in che maniera allocare i mezzi a propria disposizione. L’autonomia politica ammette la capacità di autogovernarsi. L’autonomia fisica implica una serie di capacità e abilità del corpo che lo rendano in grado di funzionare efficacemente. Delle diverse autonomie, una caratteristica appare condivisa e certa: l’assenza di agenti o fattori esterni dai quali dipendere.

Il succhiaruote di Titti Germinario

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n essere mostruoso si aggira per il Mondo. Vive tra i politici, i giornalisti, gli scrittori, i dirigenti. Si nasconde nella casa del vicino, fa la spesa al supermercato o passeggia per le strade fingendosi disinteressato. È il succhiaruote. Non ha un suo pensiero ma si accoda a quello altrui, omologandosi, per trarre benefici a discapito degli altri. È un parassita, speculatore, approfittatore che sfruttando la scia di chi si impegna per il successo, vince immeritatamente. Nel ciclismo il succhiaruote è colui che tiene la ruota anteriore della sua bicicletta a ridosso della ruota posteriore del corridore in fuga, seguendolo come un’ombra e sottraendosi a qualsiasi richiesta di collaborazione. È il ciclista che approfittando del lavoro condotto dall’avversario, scatta in prossimità del traguardo, cogliendone il successo. Nel 2011, la General Motors lancia una campagna pubblicitaria Reality sucks, affissa nei Campus statunitensi, per convincere i ragazzi a smettere di usare la bici, definita “da sfigati”, al fine di valorizzare l’utilizzo dell’auto. «Stop pedaling… start driving».

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Il messaggio è chiaro: la realtà fa schifo, per fortuna gli sconti di GM per i College no. La protesta, derivata dalla campagna pubblicitaria, apre la strada al succhiaruote Giant Bicycles che lancia un nuovo messaggio: «La realtà fa veramente schifo. Per fortuna le bici no!». L’auto non è più uno status symbol, ma un ostacolo alla libertà di circolare in strade ormai inquinate e collassate nel traffico. Chi è il mostro ora?.

Dalle staminali ai vasi sanguigni di Kelly Susat

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e cellule staminali, oggetto di continui e scatenati dibattiti e controversie, continuano a far parlare di sé. Ma stavolta l’etica non c’entra. I ricercatori dell’Accademia di Sahlgrenska (Svezia) hanno creato una struttura biologica – nello specifico, un vaso sanguigno – impiantabile sugli esseri umani. Michael Olausson, chirurgo e professore dell’università svedese, ha realizzato grazie a questo speciale vaso sanguigno un nuovo collegamento fra il fegato e l’intestino di una sua giovane paziente, dopo che quello pre-esistente era stato danneggiato da un coagulo di sangue. Già a rischio di pericolosi sanguinamenti interni dall’età di un anno, Anne (nome di fantasia) e i suoi genitori hanno vissuto in attesa di una soluzione. La cura poteva consistere in un reindirizzamento del sangue verso un percorso corretto, intervento che avrebbe prima o dopo richiesto un indispensabile trapianto di fegato e dato inizio ad una vita in dipendenza di farmaci immunodepressivi, nella speranza di un mancato rigetto del nuovo organo, percepito come estraneo. Il genere di trapianto effettuato dal dottor Olausson, quindi non solo una teoria, ha invece illuminato una nuova e possibile via. Anne, dopo l’intervento, ha ripreso la sua routine e non è apparsa in nessun modo colpita da particolari effetti collaterali. Una prognosi assai buona che oltre a riportare il sorriso e la speranza ha il sapore del successo. Perché? Si tratta di una vera e propria svolta per il mondo della medicina. «Il prossimo passo – spiega Olausson – è quello di ricreare organi più complessi, come ad esempio i reni». Se questo fosse possibile, a beneficiarne saremmo in molti: il sistema sanitario, in quanto il consumo di farmaci da parte della popolazione si ridurrebbe notevolmente; chi vive una situazione simile a quella

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di Anne e coloro che convivono, in seguito a interventi chirurgici di una certa portata, con effetti collaterali legati all’utilizzo di farmaci. Una rivoluzione. Le cellule staminali si dimostrano ancora una volta straordinariamente potenti, in quanto capaci di dare origine a una o più linee o tipi cellulari tramite il differenziamento. Quello compiuto dal dottor Olausson è senza dubbio un grande passo in avanti per la medicina. E date le prospettive, non resta che augurarsi che sia il primo di molti.

Il late start del College di Tonbridge di Arianna Panzolato

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on saranno puntuali quanto gli svizzeri ma ad essere ritardatari gli studenti londinesi ci guadagnano in salute e prestazioni scolastiche. Lo conferma un esperimento avviato nel 2007 all’Hugh Christie Technology College di Tonbridge (UK): gli alunni – di età compresa tra i 16 e i 18 anni – per tre giorni a settimana valicano le aule non prima delle 11 del mattino: ad oggi i voti agli esami di qualificazione finale sono migliorati del 25%. Secondo l’articolo pubblicato sul New Scientist dal neuroscienziato Russell Grant Foster «l’età adolescenziale è biologicamente predisposta a svegliarsi più tardi rispetto a quella adulta, una tendenza che si manifesterebbe dai 10 ai 21 anni d’età per poi regredire». Sulla stessa linea di pensiero è la ricercatrice americana Mary Carskadon per la quale un sonno notturno di nove ore gioverebbe positivamente sul rendimento scolastico dei ragazzi ai quali è sconsigliata l’assunzione di bibite zuccherate o di caffeina prima di coricarsi. Il late start introdotto al College di Tonbridge sta quindi salvaguardando il bioritmo corporeo sonno-veglia degli studenti e migliorando la loro carriera scolastica. È proprio il caso di dirlo: relax, take it easy!

Un diamante è per sempre? di Stella Casato

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ell’era dei gioielli fai-da-te, delle collane low cost e del compro oro e argento c’è ancora posto per una parure nel nostro portagioie? Alcune persone conservano con cura gli ori di famiglia perché, oltre ad essere preziosi qualitativamente, spesso sono il simbolo di un ricordo, di una persona, di un legame; in altri casi si tratta solo di vanità. Ma mentre al JewelFest di Singapore viene messa in vendita la collana più cara al mondo (55 milioni di

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euro), l’Italia perde posizioni nella classifica del mercato mondiale dei preziosi che vede India e Stati Uniti ai primi posti. Complici l’aumento dei prezzi delle materie prime e l’abbassamento del potere di acquisto, i diamanti sembrano non essere più i migliori amici delle ragazze – come invece cantava Marilyn Monroe in Gli uomini preferiscono le bionde. Oggi i vecchi ori di famiglia si riciclano e l’ambiente ci ringrazia. Una coppia di giovani promessi sposi canadesi per limitare l’inquinamento delle estrazioni minerarie ha voluto creare le proprie fedi con materiali preziosi che già avevano. Non manca poi chi abbandona i metalli preziosi optando per i gioielli ecologici, fatti con materiali riciclati – bottiglie di plastica, tessuti, latta – o addirittura foglie. Tuttavia, se non volete rinunciare ai gioielli provate a fare un giro in cantina: a Londra in uno scantinato di Cheapside Street – ironia della sorte, cheap significa «a buon mercato» – hanno trovato cinquecento preziosi di epoca elisabettiana.

Tell me lies

di Elena Scortecci

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na canzone dei Fleetwood Mac diceva «Dimmi bugie, dolci bugie». Grandi, piccole, medie. Bugie di uomini che nascondono un tradimento, di donne che non vogliono svelare i segreti del loro passato. Poi c’è la famosa bugia a fin di bene, ma il bene di chi? Ogni giorno siamo circondati da una certa quantità di parole o gesti che distorcono la nostra realtà dei fatti. Nostra perché quella che a noi sembra realtà potrebbe essere solo la costruzione di un amico, un parente, un figlio. “Meglio l’amara verità di una bella bugia” citano spesso le frasi dei diari, ma quanto siamo disposti a sopportarla? Assistiamo a mogli che chiudono gli occhi davanti a una traccia di rossetto sulla camicia del marito, oppure a padri che invece di dialogare con il figlio fingono di non vedere i segnali di disagio. A lungo andare, però, la scelta di affidarsi a finte realtà può trasformarsi in una botta (reale) contro il muro che ci siamo costruiti. Ci sono poi le omissioni: improvvisamente conosciamo alla perfezione i lemmi del dizionario e dimostriamo di saperli usare con esemplare maestria e sapienza. E via con i sensi di colpa, le paranoie, le domande senza risposta o la semplice noncuranza delle conseguenze, fino alla giustificazione massima che, in fondo,

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le bugie ci servono per sopravvivere agli ostacoli della vita. Anche se, a guardare con la lente, il sopravvivere che intendiamo in questi casi è più simile a un vivere facile. Se non vogliamo attaccarci alla poliziesca macchina della verità possiamo captare i messaggi che l’altro ci manda attraverso i vagheggiamenti, lo sguardo distratto, la voce flebile, la spalla alzata – il famoso linguaggio del corpo. Ma anche iniziare da noi stessi è un buon metodo, perché spesso siamo i primi ai quali accettiamo di nascondere la verità.

I Talent Show dei giovanissimi di Iris Delacroix

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a Mike ai fornelli di Masterchef. Pargoli e talent show destinati ad un target adulto: binomio ormai rodatissimo. Per rinfrescare le menti in questi giorni d’afa ecco qui un telegrafico ripasso dei programmi che rendono e rendevano protagonisti della prima serata i più giovani. Fu il Mike nazionale, con «Bravo, bravissimo» (in onda dal 1991 al 2002), ad aprire le gabbie sdoganando sui nostri schermi gli enfant prodige firmati anni ’90. Circensi vs cantanti neomelodici vs ballerini vs pianisti, tutti in versione mignon. Fu così che torme di bambini tra i quattro e i dodici anni iniziarono a popolare la prima serata di Rete 4. Il bottino? Una borsa di studio. Poi è la volta di «Ti lascio una canzone» (ancora attivo dal 2008), gara esclusivamente canora in onda sul primo canale di Mamma Rai. Qui, voci bianche col vestitino della domenica, incartapecorite da brani anni ’50, cinguettano per un podio sempre in rotazione. Altri tempi, altre strategie. Si usa il televoto, si ha una giuria di esperti, si hanno gli ospiti. Insomma, ci sono tutti i crismi del “talent show over 16”. Sulla stessa falsa riga c’è la versione Mediaset «Io canto» (attivo dal 2010 per tre edizioni), dove voci in grado di massaggiare note inarrivabili gareggiano per il premio finale grazie al televoto e ad una giuria che cambia di puntata in puntata. Per entrambi i talent l’età dei piccoli si aggira tra i sei e i sedici anni. In due ore abbondanti di programma si passa dalla bimba sdentata “Zecchino D’Oro style” al ragazzetto con accenno di peluria labiale che potrebbe stare, benissimo, a Castrocaro ’64. Invece no, sono tutti sullo stesso palco. Minimo comune denominatore dagli anni ’90 ad oggi è il parentado piangente. Fratelli, zii, cugini e genitori si crogiolano nell’esibizione del piccolo talento di casa vivendo un climax emozionale agghiacciante (soprattutto consiglierei un occhio di riguardo ai nonni).

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Accadrà la stessa cosa con i piccoli futuri chef? Parenti in visibilio per un nipote che impiatta pollo e patate? Da dicembre 2013 su Sky andrà in onda «Masterchef Italia Junior», dove, tra i fornelli, si destreggeranno giovanissimi tra gli otto e i tredici anni. Rispetto al “Masterchef tradizionale” i toni si faranno pacati: niente «Vuoi che muoro?» o gesti di stizza, piuttosto eliminazioni a gruppi di tre (perché vivere l’umiliazione della sconfitta da soli non è il massimo) e assenza di migliori e peggiori. Insomma, l’importante è partecipare e soprattutto divertirsi sfilacciando naselli, disossando lepri, sbattendo uova. I casting sono aperti dalla seconda metà di aprile 2013, i ragazzini selezionati saranno quaranta per le due puntate delle audizioni e dodici per le restanti. Che dire, chissà quali altri futuri talent vedranno come protagonisti i giovani nostrani. Magari un’Isola dei Famosi all’acqua di rose della Riviera Romagnola con tanto di ballo di gruppo e piadina autoprodotta.

Vorrei la pelle… sana di Elena Scortecci

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’abbronzatura rappresenta uno status symbol: bella vita, lussuosi solarium e il sole di mete caraibiche. Ma quando è ottenuta sottoponendo il corpo a una scarica di forti raggi UV, forse la nostra pelle diventa scura per chiederci aiuto. Non è un caso che l’Organizzazione Mondiale della Sanità sconsigli a chiunque l’utilizzo dei lettini o docce solari: sono strumenti cancerogeni, che accrescono la probabilità di contrarre un melanoma. In Australia una legge li vieta, dato l’aumento esponenziale del numero di malati di tumore della pelle e di morti tra i più smodati utilizzatori delle lampade. In Italia ancora non sono bandite, ma è stato abbassato il limite massimo di radianza grazie al Decreto n.110 del 12 maggio 2011, che vieta le lampade a minorenni, donne in gravidanza, a chi ha una pelle particolarmente sensibile; ogni Centro dovrebbe informare su tutti i rischi possibili, fornendo sempre gli occhialini, senza i quali siamo esposti a danni alla retina. Ma in pochi mettono in pratica queste norme, anzi si cerca di nascondere la verità per non spaventare i clienti, oppure chi ha sentito parlare dei rischi li svaluta. Il paradosso è che spesso le lampade UV sono utilizzate dalle stesse persone che si sottopongono a trattamenti antirughe, senza rendersi conto che le prime invecchiano la pelle e la preparano a gravi malattie. Tra i metodi sviluppati per abbronzarsi senza sudare – e che non sono pericolosi quanto i lettini – ci sono i self-tan, autoabbronzanti evoluti che non lasciano

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più l’effetto a pois sul corpo; oppure l’abbronzatura spray somministrata da Centri specializzati, che dura solo qualche giorno e per il momento non ha controindicazioni. Significa scegliere di volersi bene dentro, oltre che fuori.

9 mesi

di Elena Scortecci

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ffitti al nero. Non parliamo di case bensì di uteri. Aumentano ogni anno le coppie – sia etero con problemi di fertilità sia omosessuali – che si affidano alla maternità surrogata. Consiste nell’unire in vitro semi e ovuli dei futuri genitori (di un terzo nel caso omosessuale), poi trasportare l’embrione nell’utero di una donna che affronterà la gestazione e il parto. In Italia la pratica è illegale ma in diversi Stati è possibile, anche se la regolamentazione non sempre è chiara. In alcuni casi – Argentina, Belgio, Olanda – si consente se lo scopo è donare gratuitamente il proprio utero per aiutare chi è sterile; in altri – Grecia, Israele – sono previste delle spese di rimborso per la madre surrogata; in altri ancora è espressamente richiesto un pagamento per l’affitto – alcuni stati USA, Canada, Russia, Ucraina, India –. Altrettante Leggi e differenze riguardano poi la decisione della madre in affitto di cedere o meno il bambino che porta in grembo; spesso viene fatto firmare un contratto (che può essere annullato) prima del concepimento o dopo il parto. Tra la grande confusione di regole e differenziazioni ci sono anche le scorciatoie. In India esistono Centri fatiscenti, a cui si rivolgono soprattutto americani e inglesi, dove il costo dell’intera operazione è molto più basso che in Occidente; ma non rispettano né i diritti né la salute delle donne prescelte, considerate uteri-ambulanti, allettate da alti guadagni o obbligate da mariti che, una volta ottenuti i soldi, le abbandonano ai traumi post partum. Un caso recente è stato invece quello della tratta Marocco-Lussemburgo: le stime parlano di varie centinaia di marocchine che avrebbero ospitato il DNA di ricchi genitori del centro Europa, con la connivenza dei medici, per 13-17 mila euro. Il Lussemburgo nega, il Centro Marocchino dei Diritti Umani protesta. Che siano episodi noti, celati o modificati, l’etica bussa alla porta. Si scrivono libri sulla pedagogia, sulle fasi dell’embrione in pancia, sul rapporto madre-figlio e poi basta una firma per cancellare nove mesi dalla vita di due persone (la madre surrogata e il bambino).

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Yaya: da aiutato ad aiutante di Carolina Di Bitetto

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ra lì, fermo e serio, sull’uscio della porta, a fare servizio d’ordine. Di fronte a lui una lunga serpentina di gente in attesa di riempire la propria busta e portare a casa da mangiare. Ogni giorno, al centro «Recuperiamoci - Ridiamo vita al cibo» di Bisceglie (BT, Puglia) vengono raccolti alimenti buoni, invenduti, e distribuiti a chi non può permettersi nemmeno di fare la spesa. L’iniziativa, finanziata dalla Caritas e cofinanziata dal Comune, prevede una grossa mole di lavoro quotidiano di cui si fanno carico le forti spalle dei volontari. Yaya, quarantasette anni, algerino, dà una grossa mano, facendo anche da interprete e mediatore culturale. È un gran bell’esempio d’integrazione, lui che è passato da aiutato ad aiutante. Yaya, come mai ti trovi qui? Quando sei arrivato? Sono a Bisceglie dal 2004, dopo 4 anni trascorsi in Francia. Ho scelto questo posto perché c’erano già molti miei amici (in quegli anni si è formata una vera e propria comunità algerina in Puglia, ndr.) Per te è stata dura lasciare l’Algeria, casa tua? Ho dovuto farlo, per migliorare la mia vita e lavorare, ma sono partito tranquillo. Ogni tanto ci torno e mi sono pure sposato. Ma sei riuscito a trovare lavoro? In una segheria, guadagno pochissimo. Però mi è utile per rinnovare il permesso di soggiorno. Adesso devo tornare in Algeria e ci resto finché non mi richiamano a lavorare. Solo così potrò rinnovare il permesso, funziona in questo modo. Insomma, non hai una vita facile. E allora perché hai deciso d’impegnarti con «Recuperiamoci», come ci sei arrivato? Questo progetto l’ho visto nascere. Ci sono sempre stato, in tutte le sue fasi. I volontari della Caritas mi hanno dato una mano al mio arrivo a Bisceglie e da allora si è instaurato un rapporto che va oltre. Sono rimasto al loro fianco negli anni ed è stato naturale ricambiare e mettermi in gioco anch’io. Dicono tutti che ti sei integrato perfettamente e che hai un ruolo fondamentale qui, riconosciuto anche dagli utenti. Accogli coloro che si affacciano la prima volta al centro, aiuti i volontari a capire la lingua, gli usi e i costumi di chi è appena arrivato in Italia. Ma cosa ti dà più soddisfazione? Tutto. Ora Yaya è lontano, è tornato a casa, in Algeria. Tra l’altro, non poteva perdersi la nascita del suo primogenito. Si chiamerà Mohamed. Al centro tutti lo stuzzi-

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cavano bonariamente sulla scelta del nome: «Sempre Mohamed, chiamatelo Leonardo!». «No, io direi Franco». Anche qui, in Puglia, Yaya sta bene e si fa voler bene, nonostante la precarietà in cui vive. Lo si nota dall’espressione tranquilla e dal sorriso che si porta sempre appresso. «Tornerai?» – «Tornerò».

La sindrome premestruale spiegata agli uomini di Giulia Bazzanella

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i rivolgo soprattutto ai maschi, per cercare di illuminarli su cosa significa per noi ragazze un certo periodo del mese. Sarà capitato pure a voi di essere talmente eccitati da non riuscire più a discernere il giusto dallo sbagliato, il sensato dall’insensato. La sindrome premestruale è regolata dallo stesso principio: un bombardamento indiscriminato di ormoni che spesso ci fa sragionare, esagerare le cose, passare da uno stato di estrema ilarità ad uno di profonda disperazione. La sensibilità è amplificata al punto tale che sciocchezze e banalità possono trasformarsi in grandi tragedie greche, il pianto isterico diventa quasi la norma, le parole dette non sempre sono razionalizzate, perché il filtro cervello-bocca vacilla e a volte scompare proprio. Possiamo essere nervose, scontrose, permalose, tristi. Possiamo pretendere che capiate come stiamo senza volervelo dire. Possiamo dire no e intendere sì. E viceversa. Possiamo lamentarci di qualunque cosa, specialmente del nostro aspetto. In quel caso, vi prego, siate gentili e diteci sempre che siamo belle. Sì, a volte basta così poco. E ora che sapete che non siamo completamente pazze ma è l’organismo che ci fa comportare così, sopportateci per favore.

La morbidezza dell’aceto di Aronne Noriller

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n tempo di crisi, non sprecare soldi per prodotti superflui ma dei quali non si può fare a meno, può fare la differenza. Uno di questi è l’ammorbidente, dei cui effetti sulla biancheria non si riesce a rinunciare. È possibile però ottenere lo stesso risultato con un prodotto più economico e presente in tutte le case o in tutti i supermercati: l’aceto bianco. Se l’ammorbidente crea sui capi una patina oleosa che provoca solamente la sensazione di morbidezza, “sporcando” di fatto le fibre, l’aceto, invece, scioglie i depositi calcarei, responsabili della durezza dei vestiti non trattati, presenti

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nell’acqua e sui tessuti. L’aceto, a seconda di come si è abituati, si può inserire all’interno del cestello in un tappo dosatore o direttamente nella vaschetta dei detersivi riservata all’ammorbidente, esattamente nella stessa quantità (30-35 ml). I più dubbiosi penseranno che come risultato si puzzerà come una coppa d’insalata mal condita. Ma non è così. Il condimento dall’aroma più acre che l’uomo abbia mai inventato non lascia odori sui vestiti, tantomeno residui. Ovviamente il bucato non profumerà di lavanda o di vento di primavera, ma sarà piacevole rinunciare alle essenze “acqua salmastra” o “prato sudato” tipiche dell’ammorbidente misto a sudore. I capi profumeranno semplicemente di pulito.

Galeotta fu la Tromba (di Eustachio) di Aronne Noriller

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ruriti insopportabili. Ecco cosa provocano i berretti di lana che mamme e nonne fanno indossare ai bambini durante l’inverno per evitare il mal d’orecchie. E poi si arrabbiano quando l’otite compare ugualmente, perché il bambino – disubbidiente – non si è coperto abbastanza. La verità è che l’otite è un’infiammazione e, come tale, non dipende dal freddo, ma è provocata da microrganismi, perlopiù batteri opportunisti in allegra moltiplicazione. L’orecchio medio – da non confondersi con il padiglione medio dell’uomo medio, ma inteso come la parte anatomica che si trova subito dietro al timpano, invisibile dall’esterno – normalmente è sterile: al suo interno non vive nessun microrganismo. Complice il cerume, che ne impedisce vita e replicazione, ai microrganismi non ne è consentito l’accesso. Come si scatenano allora l’infiammazione e il dolore fastidioso? Come meccanismo di difesa del corpo, in risposta alla colonizzazione dell’orecchio medio da parte di batteri o virus. Di solito le otiti sono secondarie ad altri drammi di stagione, ad esempio raffreddore o mal di gola. I batteri patogeni, infatti, vengono intrappolati nel muco e, se questo non viene espulso, hanno la possibilità di moltiplicarsi e di risalire da gola e naso attraverso un piccolo canale, la tromba di Eustachio, che li mette in comunicazione con l’orecchio medio e lì scatenano una reazione infiammatoria. In parole povere, il metodo migliore per prevenire un’otite è soffiarsi bene il naso fino a trovarsi anche l’anima nel fazzolettino.

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La Duchessa più reale del Re di Giuseppe Marino

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aria del Rosario Cayetana Alfonsa Victoria Eugenia Francisca Fitz-James Stuart Silva è la donna più titolata al mondo, con oltre 84 onorificenze, tra cui 9 da Duchessa, 18 da Marchesa, 19 da Contessa, 20 da Grande di Spagna e una da Viscontessa. È la XVIII Duchessa d’Alba, è spagnola e se la Regina Elisabetta II o il Re Juan Carlos dovessero “incrociarla al mercato” sarebbero costretti a chinarsi per baciarle le nocche, perché i loro titoli, in confronto, valgono meno del 2 di bastoni a briscola. Nata a Madrid più o meno all’epoca di Nerone, la duchessa possiede oggi alcune delle più importanti tele del mondo (Rubens, Tiziano, Perugino, Goya, Chagall, Renoir), oltre a castelli, palazzi, fincas e tra i più grandi latifondi di Spagna. Cayetana […] d’Alba detiene un altro record: dopo aver seppellito un paio di mariti, di recente ha sposato un sessantenne dal ciuffo fluente. Né corone né scettri, Carabantes Alfonso Diez è un affascinante ex impiegato statale che ha scelto come sua legittima sposa una Duchessa che della sua giovanile bellezza non ha che qualche foto in bianco e nero. Cotonata e bionda, zigomi e labbra rimpolpate oltre misura, il suo volto oggi è un enigma. Figli, nipoti, cugini e parenti fino all’uomo di Neanderthal si sono opposti strenuamente alle nozze. Il terrore che l’eredità si disperdesse nelle vene dei Diez di tutte le terre era troppo grande. Così a lui hanno fatto firmare un documento in cui rinuncia ufficialmente ad ogni eredità, per lei invece si sono appellati a una clausola nobiliare che obbliga la Duchessa a chiedere (ed ottenere) dal Re di Spagna il parere favorevole sul matrimonio. Il potere immenso, il patrimonio esagerato e il titolo di Hija predilecta de Andalucia appena guadagnatosi da un lato e il cuore che palpita (non si sa ancora per quanto) dall’altro. «Rinuncio per amore ai miei beni, donandoli ai miei figli e riservandomi unicamente di usufruirne fino alla morte» avrebbe dichiarato Cayetana, della quale non si sa nulla di più.

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Reinventing A22: l’autostrada del futuro di Joel Aldrighettoni

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rasformare un’infrastruttura inquinante e impattante in un eco-boulevard autosostenibile, luogo di scambio culturale e sociale nel rispetto della natura e dell’ambiente, non è pura follia. È l’obiettivo centrale del piano di innovazione strategica con cui Autobrennero sta contribuendo a ridefinire i parametri della gestione e dello sviluppo di grandi infrastrutture. Tutto nasce dalla necessità di proporre un nuovo modello di città ecologica: la soluzione alle inevitabili conseguenze dell’inquinamento e della mobilità prevede il ribaltamento dello stereotipo dell’infrastruttura intesa come malattia degenerativa del territorio. Alleggerire il traffico pesante (spostando il trasporto merci su ferrovia) e promuovere nuove forme di mobilità sostenibile come il car pooling, sono certamente sane boccate d’aria, ma questo non basta. Un malato non può limitarsi ad assumere farmaci, deve avere la volontà di guarire. E questo è lo spirito con cui Autobrennero già da qualche anno ha deciso di rinnovarsi, di aprirsi al territorio, di trasformare l’A22 da semplice nastro di scorrimento veloce a grande e articolato eco-boulevard di riconnessione con il tessuto urbano, paesaggistico e sociale circostante. L’arteria che diventa motore pulito e silenzioso di energia, che non divide il territorio che attraversa, ma offre ad esso un’occasione unica di incontro e sviluppo sociale ed economico. Un’autostrada che produce energia pulita non è un ossimoro, ma quello che tutti possono constatare quando sfrecciano veloci tra i caselli di Rovereto Nord e Rovereto Sud, all’altezza dell’abitato di Marano d’Isera: 1.069 metri di barriera fonoassorbente rivestita da pannelli fotovoltaici per un’altezza di oltre 5.5 metri, 3.944 pannelli in silicio monocristallino che grazie all’energia gratuita del sole producono circa 690.000 kWh l’anno. La riduzione drastica dell’impatto paesaggistico si concretizza nella costruzione di numerosi transetti verdi ricoperti di piante anti-inquinanti, veri e propri ponti pedonali che sovrastano le 4 corsie autostradali e permettono al paesaggio circostante di collegarsi e confondersi con l’A22. I tradizionali Autogrill potranno essere sostituiti con nuove strutture osmotiche molto più funzionali che permetteranno agli automobilisti di fare una pausa, parcheggiare la propria auto e magari anche uscire temporaneamente dall’A22 stessa per una visita turistica alla città più vicina o l’acquisto di qualche prodotto tipico. Eliminare ogni preconcetto per partire dal basso e rilanciare quei luoghi prima emarginati e dimenticati potrebbe essere la sfida per ribaltare la crisi multisettoriale e aprire la mente a prospettive nuove, poliedriche, inedite.

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Un biscottino rivoluzionario di Arianna Panzolato

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al finestrino dell’auto scorgete la scritta Autogrill e una sensazione di sollievo generale vi assale: le vesciche possono essere svuotate e gli stomaci riempiti. Ma chi si cela dietro questa salvifica oasi di ristorazione autostradale? Un pasticciere con tanta voglia di sfornare e vendere i suoi biscotti, quelli di Novara meglio conosciuti come Pavesini. Il genio in questione è Mario Pavesi che nel 1947 inaugura uno spaccio aziendale con zona bar in cui espone tutti i suoi prodotti; non si parla ancora di Autogrill ma queste sono le basi, gettate sull’asfalto dell’autostrada Milano-Torino. La svolta decisiva arriva nel 1952 quando di ritorno dagli States, Pavesi importa la modernità della ristorazione autostradale americana e allo spaccio con zona bar aggiunge un ristorante-rosticceria per sfamare l’ingordo appetito degli italiani. Nel menù oltre a roast-beef e pollo con patate, lo spezza-fame per eccellenza: il cracker. Mescolando italiano e inglese conia il termine auto-grillroom (rosticceria per automobilisti) poi abbreviato in Autogrill e lo fa proprio registrandolo come marchio. È fortunato, il boom economico e il potenziamento della rete autostradale faranno dei suoi punti ristoro un successo nazionale, vesciche e stomaci di tutta Italia ringraziano.

Cosplay: tra esibizionismo e creatività di Giuseppe Marino

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ato in Giappone negli anni ’70 e diffusosi a ruota in tutti gli angoli del mondo, il Cosplay (in giapponese コスプレ) è la pratica di stracciarsi di dosso gli abiti dell’omologazione e vestire i panni di un personaggio di fantasia. Extraterrestri a detta di alcuni, i cosplayer rivendicano un’identità creativa, fantasiosa e imprenditoriale. Ve la raccontiamo con l’intervista a Umi Ryuzaki, Athena, Emily, Lady Isabel, Cure Marine, Magica Emi e Maria, che sono (in fondo) la stessa persona. Cos’è il Cosplay? Una passione che mi stravolge positivamente giornate intere e in certi periodi stressa ogni cellula del mio corpo, anche quelle morte. È un modo per realizzare dal nulla un’opera d’arte e indossarla. Quando hai iniziato? Da piccola. Facevo overdose di cartoni animati.

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Oltre a guardarli in televisione, mi piaceva chiudermi in stanza, mettermi al computer e cercare le immagini delle scene più belle. Avevo hard disk interi pieni di foto. E poi? Poi ho scoperto un forum frequentato da persone che facevano (sul serio) quello che io desideravo da sempre: vestire gli abiti di personaggi animati e avere il coraggio di andare in giro. Mi si è aperto un mondo. Da chi ci si può travestire? Da chiunque. La tradizione giapponese è legata agli anime, ma ogni idolo che abbia un costume, un’armatura o un particolare taglio di capelli può diventare Cosplay. Anche il cinema è un ottimo ispiratore. E chi ti fa il costume? La mia pazienza, le mani, la caparbietà e l’ostinazione nel voler cercare la perfezione. Le mie ore, il mio tempo, la creatività e la voglia di studiare e sviluppare competenze. Ho studiato al Liceo classico e l’unico strumento che ho imparato a impugnare è la penna: oggi me la cavo in opere di falegnameria (per le armi), sartoria, in trucco, parrucco, fotografia e mi definisco un artigiano autodidatta. Cioè impari da sola? Per i lavori complessi a volte chiedo una mano, ma di solito faccio e disfo, provo, cucio e scucio, creo e distruggo, cerco dei tutorial in Internet e seguo le indicazioni. Mi metto in gioco finché quello che immagino non sta fisicamente tra le mie mani. Ma poi? Poi partecipo agli eventi pubblici e sfrutto l’occasione per farmi fotografare. Di solito ci sono fotografi che, per passione, si dilettano nel ritrarre i cosplayer e, lavorando sull’immagine, riescono a farci sembrare identici ai personaggi. È esibizionismo, ovviamente, con la finalità di essere un’altra, per un giorno. Vi fate di cose pesanti? Chi ci guarda da fuori pensa che siamo degli invasati. «È la moda all’ultimo grido tra i pagliacci fuggiti dal Circo Orfei» sostengono alcuni. Dedicarsi anima e corpo alla fantasia non ti allontana troppo dalla realtà? Sto studiando per diventare una truccatrice e questa passione mi permette di praticare, sperimentare, cercare nuove strade. Alla perfezione dell’eyeliner abbino l’eccentricità di perline e strass. E non sono la sola. Gente dai 14 ai 40 anni che, smessa la tonaca della routine, si lancia piedi, testa e cuore nella fantasia fanno di questo passatempo un bel modo di stare al mondo.

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Apulia Slow Coast di Giuseppe Marino

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unto d’approdo per mercanti e migranti, porto sicuro per i commerci con l’Oriente, ieri come oggi: la Puglia è la porta più a est d’Italia. Un tacco adagiato su 800 chilometri di costa, da Marina di Lesina a Marina di Ginosa, tra spiagge bianchissime e faraglioni, borghi affacciati sull’Adriatico che abbraccia lo Ionio; fari, pescherecci e ulivi secolari al cospetto del sole, dall’alba al tramonto. Una costa protagonista di viaggi famosi, dal rientro dei predoni delle reliquie di San Nicola allo sbarco dei 20.000 migranti della Vlora in fuga dall’Albania, a cui oggi se ne aggiunge uno nuovo. Michele Guarino, trentaseienne campano, il 1° settembre comincerà un viaggio di 15 giorni alla scoperta del litorale pugliese. Un viaggio moderno che, nella frenesia del bagnasciuga estivo, sposa la filosofia slow. Non una corsa dal Gargano al Salento né un’indigestione di sagre e feste di paese. A bordo di un pedalò di nuova generazione, navigherà al largo, tra le onde, per tutta la sagoma della regione, fermandosi di tanto in tanto a raccogliere storie di luoghi e di persone, meraviglie, contraddizioni e ferite di una terra e dei suoi abitanti. Un viaggio di crescita e scoperta, individuale e collettivo, con lo scopo di prestare occhi e orecchie a un progetto che vuole ridare dignità a ciò che di più prezioso ha l’Italia: il territorio. Apulia Slow Coast, questo il titolo del progetto e del film documentario che racconterà, alla fine, l’avventura romanzesca del viaggio a pedali, è anche il nome dell’Associazione che supporta i polpacci di Michele. Un team di menti fresche, giovani, geniali, intraprendenti che hanno trovato nella creatività un’occasione per uscire dal pessimismo della crisi. Apulia Slow Coast è anche una scommessa. La scommessa di un moderno Ulisse di riuscire a vedere e raccontare la terra vista dal mare.

Oltre lo spreco

di Carolina Di Bitetto

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er Nardino, Pino, Giovanni, Peppino e Rino la sveglia continua a suonare presto anche durante la pensione: alle 7,30 devono “iniziare il giro”. Ogni giorno, dal martedì al sabato, un furgoncino bianco con un grande logo figurante frutta, una pagnotta e un sorriso si sposta tra le province pugliesi

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caricando cibo buono, invenduto, da consegnare la sera stessa a una media di 90 famiglie. Pane, focaccia, pesce, verdura e frutta, latte e derivati vicini alla scadenza, dolci e quant’altro, invece di finire nell’inceneritore, diventano nutrimento per chi non riesce a comprarsi da mangiare. Un’allegra “resurrezione” di vivande: tonnellate di alimenti buoni vengono salvati dall’immeritata discarica e reinseriti nel circuito del consumo attraverso la distribuzione a gente in difficoltà economica. È questo il lavoro del Progetto RecuperiAmoci - Ridiamo vita al cibo, nato nel 2010 e promosso dalla Caritas diocesana della provincia di Barletta-Andria-Trani. Bisceglie, 55 mila abitanti, sole, mare e terra, è la sede delle attività progettuali. L’idea trova fondamento nella cosiddetta «Legge del buon samaritano» che consente alle Onlus di recuperare cibo rimasto invenduto nella ristorazione e distribuzione e donarlo. L’ambiente ringrazia, gli utenti pure. E anche gli stessi fornitori trovano utile l’iniziativa: «È un peccato buttar via la roba. Bisogna ridimensionare gli sprechi, cambiare le abitudini. Non tanto per noi quanto per il futuro dei nostri figli». Alla domanda «Perché lo fate?» rispondono all’unisono: «Abbiamo la possibilità di aiutare il prossimo senza alcun costo. Siamo soddisfatti». Una volta portato in sede, il cibo viene pulito e razionato da una ciurma di allegri volontari in grembiule, tra risate e momenti di frenetica attività «a catena di montaggio», come suggeriscono loro stessi. Diverse le estrazioni sociali, le età, le idee, il vissuto. Sono laici e religiosi, cattolici e musulmani. Lavorano insieme e sembrano anche divertirsi. C’è chi seleziona la frutta, chi pulisce la verdura, chi imbusta il pane, chi accoglie le famiglie e non risparmia un bacio ai bambini. Il rapporto tra loro e con gli utenti va oltre il servizio reso. È uno stile di vita. Questa tendenza – creare un collegamento tra eccesso e mancanza di cibo, informare sul tema dello spreco, lavorare in rete per un obiettivo – tende, fortunatamente, a svilupparsi: sono molte le iniziative sul nascere che propongono una sostenibilità ambientale e sociale, attraverso progetti sul campo, educazione nelle scuole, campagne di sensibilizzazione. E non può che essere necessario viste le allarmanti stime della Fao sullo sperpero degli alimenti: un terzo del cibo prodotto nel mondo viene perduto o sprecato, circa 1,3 miliardi di tonnellate l’anno. Solo in Italia, nel 2010, sono stati bruciati oltre 11 miliardi di euro in prodotti alimentari ancora perfettamente consumabili. Qualche Nardino, Pino, Giovanni, Peppino e Rino in più, sparsi per l’Italia a recuperare cibo, ci vorrebbero proprio.

L’alternativa 209


Letterina a Babbo Natale di Nicolò Aurora

È

che, caro Babbo, per l’abitudine di rispondere al telefono non mi viene da scrivere «Caro Babbo Natale, quest’anno vorrei…». A proposito, tu chiami mai il Call Center? Già l’immagino: «Salve, sono Babbo Natale, ho problemi di connessione con il mio telefonino. Potrebbe controllare la copertura qui al Polo Nord?» Oddio… vuoi vedere che quel tizio che chiama ogni giorno spacciandosi per Babbo Natale sei davvero tu? Ora capisco! Perdonaci allora se ti chiudiamo il telefono in faccia, ma tra maniaci che vogliono conoscere il colore delle mie mutande e altri clienti simpaticoni che dicono di essere Goku e alla ricerca delle sfere del drago… sai… il dubbio che tu possa essere un altro burlone c’è. Tornando a noi. Penso di esser stato abbastanza bravo al telefono quest’anno o almeno questo dicono i dati sulla qualità percepita dai clienti, che è abbastanza alta; quindi direi che in base ai loro voti mi merito un bel regalo di Natale. Vorrei chiederti solo due cose: la prima è un bel vocabolario d’italiano! Si, lo so che ti starai chiedendo il perché di questo regalo, considerato che sono laureato in lettere e quindi dovrei conoscere la lingua italiana. Ma credimi, dopo quasi un anno di «mi scusi potrebbe disconnettere la mia offerta?» oppure «mi darebbe il codice pank (!)» o ancora «qual è l’asterisco? la stellina?», inizio ad avere dubbi sulle mie conoscenze. E poi dopo questo regalo piccolo piccolo, anche a me tocca chiederti la pace nel mondo… Però nel mondo coniugale! Non è piacevole sentire fidanzati psicopatici che vogliono sapere tutti i movimenti telefonici dei/delle loro consorti del genere «La prego mi sposo domani e ho necessità di sapere se il/la mio/a ragazzo/a manda messaggi a qualcun altro/a, la prego cerchi di capire!» e giù con piagnistei, lacrime toccanti e via dicendo. Il che comporta un notevole stress per il mio padiglione auricolare, ma soprattutto il dover compiere ruoli di psicologo o di un centro di ascolto. Quindi caro Babbo Natale, non ti chiedo un contratto degno di tale nome, delle ferie garantite, di poter avere la tranquillità di ammalarmi senza rischiare il posto, di non sentirmi come in un pollaio in quelle gabbiette, di non vedere più gente fare incredibili balzi di carriera senza alcuna logica ragione, di non dover lavorare i giorni festivi ecc. ecc. Ti chiedo solo queste due piccole cose. In cambio, prometto che il prossimo che si spaccia per Babbo Natale al telefono lo ascolto. Ti ringrazio quindi di averci chiamato e ti auguro una buona giornata. Ops, ci sono ricascato!

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The strangers project di Giorgia d’Onofrio

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gni giorno, per un motivo o per un altro, ci troviamo a condividere il nostro spazio con decine di altre persone: genitori, amici, insegnanti, colleghi oppure alcune volte perfetti sconosciuti. Specialmente nell’ultimo caso capita qualche volta di rimanere incuriositi da una persona particolare e di chiedersi chi sia o come sia la sua vita. Questa curiosità, però, ce la teniamo spesso per noi, per evitare di risultare indiscreti o troppo invadenti. Nel 2009 Brandon Doman si è posto le stesse identiche domande guardando la folla di gente camminargli vicino in Ann Arbor, nel Michigan, con la sola differenza che lui risolse il problema con una semplice soluzione: chiederlo direttamente a loro! Senza pensarci troppo tirò fuori dal suo zaino carta e penna e scrisse: «Ciao! Per favore fermatevi e condividete la vostra storia!». Quel giorno si fermarono per prime due donne incuriosite dalla scritta, poi un gruppetto di ragazzi, poi sempre più persone fino a raccogliere 5.000 storie di sconosciuti provenienti da tutto il Paese. Un colorato mosaico di storie e di vite. Non ci sono regole per poter partecipare, salvo scrivere qualcosa di vero, e le storie collezionate nel corso degli anni sono di ogni genere e forma. La chiave di questo progetto non sta nel contenuto di ciò che si decide di raccontare, ma nell’atto stesso del condividere un frammento della propria vita, nel dar voce a chiunque e indistintamente. Leggendo questi racconti ci si sente forse un po’ più vicini a questi sconosciuti, come se per un momento la loro vita si intrecciasse alla nostra. Oggi The Strangers Project ha sede a New York ma organizza eventi e raccoglie storie da tutto il mondo anche tramite il suo sito, accogliendo a braccia aperte chiunque voglia condividere qualcosa. È un invito a esporsi e ad ascoltare, perché, come dice lo stesso fondatore, «ogni persona che ci passa accanto per strada ha una storia da condividere. Tutti stiamo aspettando solamente il momento giusto perché qualcuno la ascolti».

Sbugiardiamo il cibo: sushi e carbonara di Nicola Andreatta

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ue piatti distantissimi che, in modi diversi, sono finiti per diventare parte integrante della nostra dieta: la carbonara e il sushi. Un pessimo abbinamento, tra l’altro.

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Tutti pensano al sushi come ad un piatto tipicamente nipponico. Si sbagliano. I veri inventori del sushi sono i coreani. Già nel IV secolo a. C. in Corea, infatti, il pesce veniva sviscerato e posto nel riso. Certo, non era la preparazione di un succulento piatto, bensì un metodo di conservazione: mancando i congelatori, la fermentazione del riso risultava essere l’unico espediente pratico per permettere la conservazione del pesce, anche per alcuni mesi. In questi grossi barili ricolmi di riso il pesce veniva quindi trasportato via nave lungo le coste asiatiche, e fu così che un giorno qualcuno decise di assaggiare il pesce direttamente dalle botti. Chissà, magari un marinaio coreano, spinto dai morsi della fame, avrà infilato una mano nel contenitore e, tirando su a casaccio, si sarà ritrovato in bocca una manciata di riso con del pesce crudo. Gli sarà piaciuto. Quell’affamato uomo di mare sarà poi magari sbarcato in Giappone, e ciarla qui, ciarla là… nel 1800 compare a Edo (l’odierna Tokyo) il sushi moderno, con tanto di wasabi, ovvero quella salsa piccante usata, per lo meno in origine, per coprire lo sgradevole odore di un pesce crudo pescato magari settimane prima. Insomma, rispetto al sushi i giapponesi hanno fatto un po’ quello che ha fatto Vespucci con l’America: c’hanno messo il nome (e il wasabi). E pace alla buon anima di Colombo e dei coreani. Veniamo alla carbonara, piatto tipico romano e nazionale, la quale dimostra una certa affinità tra il mondo culinario giapponese e italiano. Anche a noi, come a loro, piace impossessarci di ricette altrui. Si dice che prima della Seconda guerra mondiale questo piatto fosse del tutto sconosciuto, facendo la sua comparsa ufficiale sulle tavole laziali solo all’indomani della Liberazione. Difficilmente l’avvento della carbonara in contemporanea alla presenza di truppe angloamericane è un fatto casuale: le razioni militari Usa contenevano infatti grandi quantità di uova in polvere e di bacon, che guarda caso sono gli ingredienti principali (vabbeh, pancetta e uova) della carbonara. Insomma, è possibile che la carbonara sia stata inventata da un cuciniere dell’Ohio, o del Nebraska. Dai, si può ancora parlare di cibo, senza cadere nelle trappole dei food-network contemporanei. Del resto, siamo quello che mangiamo, dunque è meglio conoscere bene quello che ci si ficca in bocca: gli ingredienti, la preparazione, e anche un po’ di storia, perché no. Sbugiardiamo il cibo.

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In architettura si cucina con gli avanzi di Joel Aldrighettoni

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Belo Horizonte (Brasile) si finisce sotto i ponti per fare musica, spettacolo, arte, danza. I cittadini diventano attori e si riappropriano dell’ammasso di cemento fatiscente sotto il Viaduto Santa Tereza trasformandolo in quinta teatrale. Anarchia architettonica o architettura illuminata? Le città si trasformano e i loro abitanti anche. Il concetto di abitare, da sempre associato a qualcosa di stabile, oggi è cambiato. Basta guardarsi attorno: centri storici recuperati ma disabitati, zone popolari senza servizi, baraccopoli temporanee nelle zone marginali, scheletri di impianti industriali dismessi. La tradizionale forma di città (insieme ordinato di spazi ed edifici, scandito da un ritmo preciso e riconoscibile) non esiste più e non esisterà più. Nulla di sconvolgente, se pensiamo che la città non è altro che lo specchio della società: una società in continua trasformazione, dominata dall’incertezza, dalla difficoltà di decidere al di là delle logiche instabili del mercato e del massimo profitto. In quest’ottica il ruolo del progettista, soprattutto nel disegno urbano, diventa fondamentale. I problemi della liquidità sociale e dell’integrazione certo non possono essere risolti dagli urbanisti, ma il disegno urbano di una città permeabile, priva di barriere, ghetti e comparti monofunzionali può favorire o almeno non ostacolare questo processo. Monumenti, piazze, luoghi di culto ed edifici pubblici oggi si ritrovano immersi in un tessuto complesso e variegato, connessi da grandi reti di mobilità. Il problema è che i nuovi interventi su grande scala generano troppi effetti collaterali, troppi spazi di risulta, troppi luoghi non-luoghi. Ora che il bisogno di ritrovare caratteri identitari è più vivo che mai, questi spazi inutilizzati possono diventare la punta di diamante per lo sviluppo di una nuova città moderna e socialmente integrata. Non è utopia: gli spazi dimenticati (più o meno consapevolmente) come scali ferroviari, parcheggi, aree industriali dismesse, vuoti urbani interstiziali, proprio per il loro essere spazi della marginalità e di “basso prestigio” hanno anche una maggior flessibilità e libertà d’uso. Rilanciare cultura e arte dal basso significa rivitalizzare la città, permettendo a questi luoghi di trasformarsi in punti di incontro e di scambio, opportunità di crescita personale e collettiva. A Belo Horizonte, lo spazio dimenticato sotto il Viaduto Santa Tereza è stato trasformato in un vero e proprio teatro, in cui, grazie alla musica e alla danza, gruppi sociali distinti si ritrovano e dialogano tra loro sentendosi tutti parte integrante della stessa città, e scoprendo possibilità di vivere nuovi (o vecchi) spazi che fino a quel momento erano sconosciuti.

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La sfida è questa: l’invenzione di un nuovo paesaggio, la capacità dell’architettura di fare ordine costruendo sul costruito e di proiettarsi al futuro scommettendo su quello che è passato e dimenticato. Oggi si parte dal basso, dagli spazi-spazzatura, dal riuso degli scarti: i nuovi sapori si scoprono solo cucinando con gli avanzi!

Raffinato? No, grazie di Silvestro Capurso

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on parliamo di educazione o galateo. Parliamo di cucina e di alimentazione. Un ambito in cui la parola “raffinato” non è sempre sinonimo di “buono”. Un esempio? Lo zucchero. Lo zucchero è una sostanza dolcificante ricavata da fonti naturali, come la barbabietola, la canna da zucchero, l’acero, il dattero o la palma di cocco. Quello che viene comunemente utilizzato in cucina è zucchero raffinato, formato da piccoli cristalli di colore bianchissimo. Ma come avviene il processo di raffinazione? Sfortunatamente, attraverso l’utilizzo di sostanze che possono rivelarsi nocive per la salute, quali ad esempio calce, zolfo, carbone animale e coloranti, il cui utilizzo impoverisce i minerali e le proteine naturalmente presenti nello zucchero allo stato grezzo. Perché non preferire, quindi, allo zucchero raffinato lo zucchero grezzo? O, in alternativa, altre sostanze naturali dolcificanti quali la stevia, lo sciroppo di riso o lo sciroppo d’acero?

La Sconosciuta della Senna di Titti Germinario

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uesta è la storia di una giovane fanciulla, dall’identità ignota, affascinante e misteriosa, morta annegata in circostanze non chiare e ripescata nelle acque della Senna nel 1890. Era di una bellezza disarmante e il suo viso conservava un sorriso sereno ed enigmatico da sfidare quello della Monna Lisa. La sua fama si diffuse rapidamente nelle città e molti accorsero ad ammirarla divenendo nota a tutti col nome della Sconosciuta della Senna. Il patologo dell’epoca, ammaliato dalla sua bellezza, fece un calco di quel volto fanciullesco per difenderlo dal tempo, mentre molti artisti, affascinati dal mistero, le dedicarono versi e opere. Lo scrittore Richard Le Gallienne, nel 1898 scrisse: «Il volto sorrideva, emanando un senso di grande pace interiore, ma al tempo stesso un’ombra di inganno.

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Se distoglievi lo sguardo da lei per un momento, e poi tornavi a guardarla, sembrava sorridere tra sé e sé dopo aver aperto gli occhi a tua insaputa ed averli richiusi appena in tempo». Nel 1958, il Dottor Peter Safar pioniere della medicina d’urgenza perfezionò un sistema di salvataggio per vittime di arresto cardiaco, unendo la respirazione bocca a bocca alla compressione toracica. È la nascita della rianimazione manuale, che consente nel far arrivare ossigeno al cervello e al cuore per tenere vivi i tessuti in attesa di un defibrillatore. La manovra, delicata e complessa, richiedeva pratica costante. Così, Peter Safar contattò il Signor Laerdal, un giocattolaio norvegese che produceva bambole in vinile, tra cui la famosissima Anne, per richiedere manichini che fossero i più realistici possibili. Laerdal, affascinato dalla storia della Sconosciuta della Senna, decise di riprodurre i tratti della fanciulla sul viso dei manichini, ribattezzandola Resusci-Anne. Oggi la Laerdal Medical produce manichini per la rianimazione in tutto il mondo e Anne è utilizzata dai tirocinanti per esercitarsi a salvare la vita a milioni di persone. In modo simbolico, ogni giorno, milioni di soccorritori riportano in vita la giovane Sconosciuta soffiandole nell’esile corpo il “soffio vitale”, realizzando il sogno di generazioni passate.

Cent’anni di saldi: 1913-2013 di Arianna Panzolato

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omprare per soddisfare un futile desiderio o per necessità: tra fare shopping e acquistare per bisogno c’è differenza. La distinzione si fa confusa nel periodo dei saldi quando le offerte sono talmente allettanti da farci perdere ogni briciolo di razionalità. Tante le strategie per colpire la vulnerabilità di potenziali clienti, al classico -30, 40 e 50% si aggiunge l’sms che allerta dell’offerta imperdibile. I dati dell’Osservatorio di Confesercenti allarmano: tra gennaio e aprile 2013 hanno chiuso 21 mila imprese e lo stesso destino spetterà ad altre 43 mila attività se l’economia non girerà nuovamente nel verso giusto. Forse i saldi, ormai centenari, rappresentano una flebile speranza. In Italia, è la catena di grandi magazzini UPIM (acronimo di Unico Prezzo Italiano Milano) che introduce la filosofia del “prezzo ribassato” ma sono i Macy’s di Manhattan gli autori dei primi saldi con la S maiuscola. Una strategia di sopravvivenza datata 1913 e basata sul deprezzamento dei numerosi capi di stagione invenduti. Un successo istituzionalizzato negli anni ’70 nel

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Black Friday, la liquidazione della merce il venerdì seguente la festa del Ringraziamento. La contabilità, dati i lauti incassi, tornava ad essere annotata in nero e non con penna rossa in segno di perdita.

L’ineffabile potenza delle fragranze di Sara Scissi

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lle origini offerti alle divinità, usati nei riti funebri o a contrastare i miasmi, i profumi sono stati poi introdotti nella cura del corpo. L’ineffabile potenza delle fragranze coinvolge in un turbine di stimoli emotivi che ne fanno un’esperienza a tutto tondo che va oltre il mero prodotto cosmetico per completare il look. Ciò è tanto più vero quando un profumo è anche ricerca di esclusività, nella creazione di un bouquet originale che sappia cogliere le sfaccettature della personalità di chi vi si riconosce e lo indossa. In grado di creare una firma olfattiva personale, alcune fragranze si diffondono in maniera particolarmente intensa quando vengono spruzzate sulla pelle altre invece risultano più piacevoli sui tessuti, dove le molecole si scaldano meno e le note hanno il tempo di volare via con lentezza. Altrettanto varia da persona a persona è la percezione degli odori: sia della qualità che dell’intensità. Già nel 1914 lo scienziato Alexander Graham Bell famoso per i suoi studi sulla trasmissione del suono, occupandosi anche della percezione degli odori, scriveva: «Avete mai misurato un odore? Potete dire se un odore è due volte più forte di un altro? Si può misurare la differenza tra un tipo di odore ed un altro? È molto chiaro che abbiamo molti diversi tipi di odori, tutta la strada dal profumo di viole e rose fino a allo sgradevole odore dell’asafetida. Ma fino a quando non si può misurare la loro somiglianza e differenza, non si può avere nessuna scienza dell’odore. Se siete ambiziosi di trovare una nuova scienza, misurate un odore». I primi tentativi hanno cercato di sviluppare in termini scientifici “l’analisi sensoriale”, attraverso i cosiddetti panel-test, ossia valutazioni d’équipe, con l’obiettivo di superare la soggettività individuale della percezione attraverso dei punteggi mediati tra i componenti. Con l’affinarsi delle tecnologie bio-chimico-fisico-informatiche, la ricerca si indirizza verso sistemi di imitazione del naso umano: il naso elettronico. Uno di questi dispositivi di analisi nacque nel 1995 dal lavoro di un gruppo di giovani ricercatori del Dipartimento di Ingegneria Elettronica dell’Università di Tor Vergata, in collaborazione con il Dipartimento di Scienze e tecnologie

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chimiche; è in grado di sentire e riconoscere gli odori percepibili e non dall’olfatto umano creando una “mappatura olfattiva”. Attualmente utilizzato in campo agro-alimentare, è in fase di affinamento per trovare applicazioni diagnostiche mediche e ambientali nonché nella rivelazione di droga ed esplosivi.

Baci evolutivi

di Arianna Panzolato

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l’esercizio ginnico preferito dai grandi amanti, quello che Rostand definisce come «l’apostrofo rosa tra le parole t’amo»: il bacio mette in moto 34 muscoli facciali facendoci bruciare 26 calorie al minuto. La Scienza dice che il primo bacio tra due persone produce kisspeptina, una proteina in grado di mettere in subbuglio ogni singolo ormone sessuale del corpo scatenando emozioni intense, le stesse provate in adolescenza. Ecco perché anche a cent’anni, il primo contatto «lingua a lingua» risuscita sensazioni che pensavamo essere cadute nell’oblio. L’antropologia di Desmond Morris, svela come dietro al bacio ci sia una pratica materna dei nostri antenati. Quando ancora le urla di fame dei neonati non venivano zittite da cucchiaiate di omogeneizzati, le madri erano solite sminuzzare con i propri denti i viveri recuperati e il bacio ne consentiva il passaggio da bocca a bocca. Si sfamava il proprio cucciolo e lo sfregolio delle labbra tra madre e figlio, a mo’ di ciuccio, sedava l’agitazione dei piccoli. Due azioni in una, economia affettiva praticata per garantire la sopravvivenza della specie umana.

Sono animali fedeli a vita di Francesca Bottari

Una ragione per iniziare ad amare i piccioni è sapere che sono animali monogami e fedeli a vita. Il piccione maschio si prende tutto il tempo necessario per essere ammaliato da un piccione femmina. Una volta individuata la principessa con le ali da conquistare, inizierà a corteggiarla. Quando l’amata crolla di fronte al suo charme ha inizio la ricerca di un’equilibrata stabilità di coppia. Sarà per questa natura bucolica che, incondizionatamente, l’uomo moderno è irritato dalla presenza dei piccioni o non perché sfiorano i nostri visi minacciando di colpirci con qualche residuo di sporcizia rimasto impigliato fra le zampe, oppure per il loro instancabile tubare fingendo sempre un «sì, sì» con il movimento della testa?

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L’attesa, la pazienza e la certezza alla base di una «scelta per la vita» oggi sembrano ingredienti dai quali sfuggire, che denigrano la felicità invece che condurre ad essa, come dovrebbe essere. A Venezia sono circa 100 mila i dolci volatili che risiedono, si innamorano e costruiscono la loro famiglia. Ognuno con la propria storia d’amore, dove la cura dell’altro è vissuta come un piacere e non come un ostacolo alla valorizzazione del sé. Una volta nella vita dovremmo farci ospitare in Piazza San Marco e riflettere che l’insicurezza di dire sì a chi si ama davvero è alimentata dall’incapacità di attendere per costruire, di comprendere che “per sempre” non è una serie di futuri “nuovi inizi” con altre persone, e che la vita in due non è una serie TV, ma un bellissimo film in bianco e nero, proprio come quelli degli anni ’50 quando i piccioni facevano da sfondo alle fotografie dei viaggi di nozze.

Il no del Lupo. Jorge Carrascosa di Titti Germinario

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oppa del Mondo FIFA, undicesima edizione, Argentina 1978. È il campionato mondiale di calcio sul quale Videla e i suoi colonnelli, che tengono il Paese sotto una delle dittature più spaventose del Novecento, investono tutte le risorse a disposizione per diffondere all’estero l’immagine di un’Argentina in ottima salute. L’occasione per distogliere l’attenzione dalle violenze e dalle violazioni dei diritti umani, mostrando al mondo la faccia migliore della nazione. I quartieri malfamati della periferia di Buenos Aires vengono rasi al suolo, mentre a Rosario, un muro con immagini dipinte di belle case nasconde la povertà. Si procede all’arresto di migliaia di persone per evitare che parlino con i giornalisti stranieri e svelino le verità nascoste del regime e fatte combine per la vittoria finale perché “era indispensabile che l’Argentina vincesse la coppa”. Ma c’è chi ha il coraggio di dire no a tutto questo, di dire no ad un mondiale macchiato di sangue e assordato dalle grida e dalle lacrime delle “madri di Plaza de Mayo”, che chiedono verità e giustizia per i loro figli desaparecidos, scomparsi nel nulla. Si tratta di Jorge “El Lobo” Carrascosa, terzino destro e bandiera dell’Huracán, capitano della nazionale argentina che, tra l’incredulità generale, declina la convocazione in nazionale per non essere complice degli inganni e degli

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orrori organizzati dai vertici della dittatura. A ventinove anni abbandona la fascia di capitano e sceglie il silenzio. Dice di no a quella coppa, sogno di tutti i ragazzi, per non partecipare alla certa vittoria di un Governo sanguinario. Soprannominato “Il Lupo” per il profilo aggressivo, per il modo solitario di interpretare il ruolo di terzino con una marcatura pressante a stancare l’avversario e corsa in progressione, non spiegherà mai il suo gesto e non rilascerà alcuna intervista. Si ritirerà dal calcio giocato l’anno successivo senza una parola, scegliendo di non entrare nella storia. C’è chi diventa eroe per una rete, chi diventa eroe per una parata decisiva, chi per giocare al massimo fino al novantesimo, chi per devozione alla maglia, chi per un salvataggio sulla linea. Jorge Carrascosa è diventato un eroe per aver detto No.

Equilibrio. Nel mondo che vorrei di Giulia Indorato

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econdo una recente ricerca pubblicata dal Dipartimento dei Trasporti di New York, la circolazione in bicicletta condurrebbe a un aumento delle vendite del 49%. I negozi sulla 9th Avenue a Manhattan, dopo la creazione della ciclabile, hanno registrato un decisivo aumento delle entrate di cassa. Libertà d’interpretazione a parte, nel mondo che vorrei l’eccezione sarebbe il motore: tandem e tricicli affollerebbero le piste rosse e bianche. Sempre più ampi e lunghi, i circuiti sarebbero ben conservati e con chiara segnaletica orizzontale sui sensi di marcia (perché anche i crash ecosostenibili possono far male). Nel mondo che vorrei, grazie a raggi metallici e camere d’aria, ci sarebbe la possibilità di lavorare in numerose ciclofficine (perché anche le frecce su due ruote necessitano di manutenzione). Magari vecchi esperti e giovani apprendisti potrebbero operare insieme, generando quel “passaggio di competenze” dal sapore nord-europeo. Nel mondo che vorrei si diffonderebbe la pratica del bici-bus, in uso in Olanda dal 2012, dove i bambini salgono sullo stesso mezzo e pedalano verso la scuola. Lotta dura all’obesità infantile e all’inquinamento, insomma il «Paese degli zoccoli di legno» si dimostra sempre all’avanguardia in fatto di due ruote a spinta muscolare. Nell’attesa del mondo che vorrei lascio la macchina in garage, salgo in sella e pedalo per due chilometri verso l’ufficio (se non altro per dare il buon esempio).

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Cura. Nel mondo che vorrei di Giulia Indorato

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uando ci viene affidato un bene altrui, dovremmo cercare di custodirlo garantendone l’incolumità fisica. Se il bene altrui è un minore in difficoltà (quindi un bene con la ‘B’ maiuscola), serviranno anche intelligenza, cura e riserbo. L’affidamento di un minore prevede l’inserimento transitorio di un bambino nel proprio nucleo. Secondo i dati della Fondazione Zancan, l’affido di minori è in calo continuo (meno 4,4% dal 2008 al 2010) e quelli maggiormente disposti dal sistema giudiziario sono «d’urgenza» (69%) o «parziali» (solo diurni). I dati europei, secondo cui un affido di successo è quello che si conclude con il rientro del minore nella famiglia d’origine, mostrano il risultato sconcertante delle politiche scelte: il 70% degli affidi fallisce. La questione pare rilevante: strumento sbagliato o sbagliato uso del giusto strumento? In Italia la Legge che regola l’affido (n.184) risale al 1983 e solo nel 2008 il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali ha individuato nuove linee di indirizzo nazionale per innovare questa pratica. Sorvolando su dettagli quali la spesa dedicata alla protezione dell’infanzia (4,6% del totale del Welfare contro l’8% di media UE), appare importante tenere conto di un terzo attore: la famiglia d’origine. Questa dovrebbe essere fortemente seguita, accompagnata nella risoluzione del problema che ha generato l’allontanamento del minore. L’affido deciso dal tribunale, però, viene spesso considerato la via meno onerosa per la risoluzione dell’urgenza. Eppure muoversi su altre strade è possibile, come dimostra il progetto Una famiglia per una famiglia, della Fondazione Paideia di Torino. Ad un nucleo familiare in difficoltà viene affiancata una famiglia «risorsa», per costruire una relazione solidale e di prossimità. Grazie a tale percorso, la prima non viene stigmatizzata ma diviene elemento partecipe di un percorso di crescita comune (oltre che necessario). Questa scelta, permette anche di non allontanare il minore, ma di lavorare sulle risorse positive disponibili. Il progetto è evidentemente legato al consenso di entrambi i nuclei e alle specifiche caratteristiche del problema. Nel mondo che vorrei, l’affido sarebbe una strada da percorrere a doppio senso: sarebbe possibile per ogni minore godere del meglio dalle realtà possibili (d’origine e non). La prossimità con una realtà familiare serena, condurrebbe allo sviluppo di maggiore fiducia in se stessi e negli altri.

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Nel mondo che vorrei, non ci sarebbero buoni e cattivi, ma solo difficoltà da affrontare insieme.

Scambio. Nel mondo che vorrei di Giulia Indorato

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ucio Dalla cantava Attenti al lupo. Tra le dolci note descriveva con affetto «una casetta piccola così, con tante finestrelle colorate». Magari è stato il cantautore bolognese ad ispirare l’iniziativa Little Free Library: all’interno di case in miniatura non c’è una donnina con occhi grandi, ma si possono trovare tanti libri pronti all’uso. Il progetto, nato in Wisconsin nel 2010 con forma giuridica no-profit, si basa sul principio dello scambio di testi tra sconosciuti. È possibile lasciare e prendere libri di tutti i tipi e senza alcun limite. Lo scopo principale è quello di mettere in circolo a costo zero conoscenza e cultura. Ambizioso? Sicuramente molto efficace: dal 2010 a oggi sono stati stimati circa 8.250.000 scambi e un movimento di 1.650.000 libri. Casette simili a quella descritta, ne esistono circa 5.000 e sono presenti in 36 paesi. Nel mondo che vorrei, ci sarebbero free library in ogni quartiere e lo scambio sarebbe vissuto come un incontro. Intorno all’installazione verrebbero posti alberi e panchine, si potrebbe iniziare a leggere in comodità il tesoro trovato e far due chiacchiere con gli altri esploratori della cellulosa. Nel mondo che vorrei, nel programmare un viaggio (dopo treni e ostelli) si cercherebbe dov’è la piccola house più vicina, per gustare un sapore locale e lasciare il proprio. La domanda successiva è quasi di dovere: chi paga la costruzione della casetta? La politica scelta è la collaborazione con le realtà locali, private e pubbliche. Il kit per la costruzione, le misure e le caratteristiche base dei piccoli edifici sono disponibili sul sito e il passo successivo è registrare la presenza sul portale web. Nell’attesa del mondo che vorrei, vado a curiosare nella casetta della mia città e invito i miei conoscenti a questa edificante esperienza (se non altro per dare il buon esempio).

Assorbire. Nel mondo che vorrei di Giulia Indorato

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n libro con copertina turchese potrebbe attirare l’attenzione e, se il testo è stato in vetta alle classifiche del NY Times per 40 settimane, la curiosità di leggerlo potrebbe venire (ovviamente mi è venuta). Tra le pagine di Wonder

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(R.J. Palacio, 2013) si partecipa alle quotidiane vicissitudini di August, bambino simpatico e autoironico affetto dalla sindrome di Collins. Il messaggio del testo è chiaro: la disabilità (fisica e non) esiste ed è necessario educare all’inclusione. Roba trita e ritrita? Forse sì, ma la novità potrebbe essere quella di convincere genitori e docenti adulti a leggere un libro pensato per bambini. Bulli e impauriti non si nasce, ma si diventa se non arrivano (con parole e fatti) messaggi chiari e non discriminatori. Nel mondo che vorrei, il genitore sentirebbe la responsabilità di conoscere quella parte del mondo considerata opposta alla bellezza e alla salute: la disabilità. Nel mondo che vorrei, si combatterebbe lo stigma insegnando in tutte le Scuole la materia educazione sul diverso da me (titolo di mio estro). Sarebbe chiarito ai piccoli amici che il mondo è grande e la varietà non deve far paura. Se a scuola fossimo tutti pronti ad accogliere tutti, il rapporto Eurostat Study of Compilation Disabled Statitical Data non evidenzierebbe un forte abbandono scolastico di persone con disabilità in Europa. La costruzione del dato comune non è semplice, ma in quasi tutti i Paesi si presenta una diminuzione della presenze tra la Scuola Primaria e Secondaria (in Francia nello stesso anno si passa da 85.000 alunni con disabilità, a 46.700 in quella Secondaria). Per fortuna, troviamo anche “poche ma buone” perfomance come quella dell’Italia e dell’Irlanda (con un aumento della presenza di quasi 30.000 scolari). Ricetta ideale? Ponete in una terrina Istituti pubblici senza barriere architettoniche, arricchite con una manciata di percorsi di studio e cucchiaiate di docenti per all’affiancamento (magari per tutte le ore di lezione). Cuocete a fuoco lento e fate mescolare di frequente da persone in grado di rapportarsi con la disabilità. Servitelo tiepido ai commensali, grandi e piccini. Ho visto un pezzo nel mondo che vorrei a Wanging’ombe (Tanzania), nel Progetto Inuka di Comunità Solidali nel Mondo. Nel centro riabilitativo vengono educate sia le famiglie di bambini con disabilità, sia i compagni di classe. È stata attivata una strategia riabilitativa su base comunitaria (grazie all’apertura di sette Centri Socio Riabilitativi). Al centro del Progetto non c’è solo la persona con disabilità, ma anche la sua famiglia, la collettività e i suoi bisogni (lavoro compreso). Nell’attesa del mondo che vorrei, frequento corsi di sensibilizzazione e dono con consapevolezza il mio 5x1000 (se non altro per dare il buon esempio).

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Opportunità. Nel mondo che vorrei di Giulia Indorato

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econdo il rapporto di maggio stilato dal Consiglio d’Europa (Council of Europe Annual Penal Statistic) i detenuti nelle carceri italiane sono 65.891, ben 20.000 in più rispetto alla capacità degli stabili. Presidente della Repubblica Napolitano e Unione Europea ricordano al Governo che è una vera e propria emergenza, per detenuti e polizia penitenziaria. La maggior parte delle carceri italiane non sono, purtroppo, quelle simpatiche caffetterie in franchising con la ricetta del “Signor Cicirinella” – «compagno di cella ci ha dato mammà» – che abbiamo spesso canticchiato con Fabrizio (De Andrè). Nulla vieta che possano diventarlo. Il lavoro nobilita e risolve problemi di spazio, il Ministero della Giustizia ha precisato i numeri. Dati alla mano e occhi sbarrati: i detenuti che hanno svolto attività lavorativa retribuita in carcere hanno una recidività del 2%, contro il 90% di chi non è stato incluso in un percorso formativo e lavorativo. Squillino le trombe! Ecco due percentuali che possono far spalancare le falangi anche a chi non si accontenta di argomenti quali diritti inviolabili, rieducazione secondo la Costituzione (art. 27) e salvaguardia della dignità. Nel mondo che vorrei, nei penitenziari vedremmo esseri umani impegnati a svolgere attività educative e lavorative regolari (full time e secondo CCNL). Il tutto sarebbe utile a rifondare lo Stato del costo della detenzione, ma soprattutto renderebbe la persona consapevole delle proprie capacità. Una volta uscita avrebbe una buona carta da giocare e non sarebbe un gioco d’azzardo. Nelle carceri del mondo che vorrei la regola di gestione avrebbe la rima: investo nella formazione per ottenere spazio e occupazione, dentro e fuori la prigione. Nel mondo che vorrei, dignità umana e riduzione dei numeri migliorerebbero anche l’atmosfera: le guardie penitenziarie non soffrirebbero di altissimi livelli di burnout. Ho visto un pezzo del mondo che vorrei nel progetto Liberamensa della Cooperativa Ecosol di Torino, dove 22 detenuti sono formati e assunti per preparare catering esterni. Firmano un contratto e acquisiscono professionalità di cuochi e ristoratori, capacità spendibili appena scontata la pena (preconcetti dei futuri datori permettendo). Anche 20 detenute del carcere di Lecce possono ritenersi fortunate grazie al progetto Made in Carcere, della Cooperativa sociale Officina Creativa. Vengono creati accessori “utili e futili” attraverso l’uso di materiali di scarto di Case di Moda italiane. Sono prodotti di qualità che odorano di sociale.

L’alternativa 223


Nell’attesa del mondo che vorrei, mi informo sulle piccole esperienze nazionali e provo a fare acquisti in modo consapevole (se non altro per dare il buon esempio).

Volontà. Nel mondo che vorrei di Giulia Indorato

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na notizia ANSA del 27 maggio 2013 titola «Italia: record madri over35 in Ue». Il 34,5% delle neomamme italiane supera i 35 anni d’età (European Perinatal Health Report, 2010). La comparazione del dato tra i Paesi europei posiziona l’Italia al primo posto: risuona un immaginario inno nazionale in sottofondo, ma non segue la cerimonia di stappo dello spumante. Vecchie madri fanno buon brodo? Non so, ma non credo sia un caso che nei Paesi dove gli infanti vantano giovani madri lavoratrici, ci siano servizi pubblici considerati un modello (vedi Slovenia con solo 12,6% over35). Mi duole anche ricordare, secondo dati ISTAT 2011, che solo 11,8% del totale dei bambini italiani da 0 a 2 anni ha accesso a un nido pubblico. Nella Patria de Ogni scarrafone è bello a mamma sua e Mamma solo per te la mia canzone vola, fare figli era un piacere. Come ci insegna anche Sophia in Ieri, oggi e domani (di De Sica, 1963), avere molti bambini non era un problema: c’era un intero quartiere come asilo e dormivano tutti nello stesso stanzone. Oggi, invece, prima di montare la culla è meglio fare qualche anno di lavoro under35 e avere sotto il materasso un buon gruzzoletto per pagare il nido privato. Nel mondo che vorrei, alla delicata domanda genitoriale “la creatura dove la lasciamo?» subentrerebbe la risposta «ci auto-organizziamo!”. Nel mondo che vorrei ci sarebbero più crèche parentale: modello francese di cooperative di genitori per gestire una struttura di accoglienza infanzia (dopo debita formazione auto-finanziata) per bebè dai 3 mesi ai 4 anni. Nel mondo che vorrei, la soluzione alle istanze comuni non si chiederebbe, ma si creerebbe insieme. Nell’attesa del mondo che vorrei, per rallentare l’estinzione delle “mamme under35”, mi informo e mi metto a disposizione per “babysitteraggio” volontario (se non altro per dare il buon esempio).

224 UnderTrenta • Intuizioni, sorprese, prospettive


Viaggi Lo sguardo che vede soltanto il proprio panorama è limitato

Volti e Paesaggi. L’homepage di UnderTrenta presenta una finestra spalancata sul mondo. Con un clic, in pochi istanti, si possono attraversare oceani e continenti, approdando in storie di vita e di luoghi inaspettati e incantevoli. Fino a un attimo prima assolutamente sconosciuti. Viaggi: non vacanze né solo ozi, ma esperienze di cammino, avventura e scoperta che attraverso i sensi, toccare, sentire, annusare, assaggiare, tra ulivi secolari e masserie design, tra scavi archeologici e spiagge nascoste, tra grattacieli e abitudini di comunità indigene, tra la folla e il deserto, raccontano di posti e persone. Dove e Perché. India, Grecia, Mongolia, Russia, Cina, Siberia, Cipro, Brasile. E poi Parigi, Torino, il Gargano e il Perito Moreno, Berlino e il lago Baikal. Si parte da un luogo per arrivare a un’emozione. I viaggi non sono solo fisici, si può viaggiare rimanendo a casa, decidendo i tempi, le condizioni, i ritmi, le pause. Si possono sopportare caldi inebrianti e freddi carichi di oblio, patire venti indiscreti, godere dei primi tepori di un’alba. Casa e Mondo. Le penne di UnderTrenta danno voce a racconti di partenze e di ritorni. Dell’irresistibile voglia di cambiare aria, lingua, abitudini e pensieri per poi poter riassaporare i colori e gli odori di casa, qualunque cosa voglia dire. Uno spazio dedicato alle esperienze vissute o sognate, da vivere o da evitare, accompagnate da curiosità e informazioni utili per gli appassionati viaggiatori che non vedono l’ora di caricarsi lo zaino sulle spalle.


Da Mosca al Lago Baikal di Francesca Bottari

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osca-Irkutsk, 5 mila km in treno su binari che collegano i due estremi russi. Fuori notte fonda, ma in carrozza è sempre giorno. I vagoni s’inseguono in una luce continua che sveglia l’addormentato blu. Tu tum, tu tum è il ritmo costante che echeggia sulla via della ferrovia più lunga del mondo. Iniziata nello stesso istante ai due poli, la Transiberiana conta 9.288 km, circa 1.000 fermate, 7 fusi orari e impiega una settimana da Mosca a Vladivostok, e viceversa. A maggio del 1891 ebbe inizio la sua costruzione, operai coreani e cinesi da un lato, russi, ucraini – e qualche friulano esperto scapellista – dall’altro. 90 mila i lavoratori che in quasi 30 anni hanno cucito la «fibbia ingioiellata dello Zar», in un paese dove le condizioni geo-climatiche giocano sovente contro ogni tentativo di costruzione. Da Mosca al lago Baikal, quattro giorni e mezzo in carrozza, qualche sosta per accogliere o salutare viaggiatori che assumono tratti più bronzei all’avvicinarsi di confini orientali. 5 mila km dove il treno si fa spazio in un tunnel di betulle e pini che si tendono la mano senza fine. Attorno solo verde, dentro il colore del sali e scendi dipinge un treno che liquefà Oriente e Occidente, oltrepassando un confine senza mai incontrare frontiere.

Mongolia: un dipinto fra Russia e Cina di Francesca Bottari

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n dipinto incastrato fra Russia e Cina, dove il mare non arriva e gli ecosistemi cambiano a seconda dei punti cardinali, la Mongolia è una terra magica. Il verde delle steppe finisce nell’azzurro del cielo, qualche nuvola interrompe l’infinita via dove lo sguardo resta sempre affamato alla ricerca di un nuovo orizzonte. La vastità è sospesa da qualche tenda, da mandrie di yak, capre e cavalli. Yin e Yang, uno dei simboli dello stemma nazionale (Soyombo), ricorda la sensazione che suscita la Mongolia. Il cerchio è diviso in due come gli opposti che lo completano. Separati da un confine netto ma labile al tocco reciproco, Yin e Yang, donna e uomo, luna e sole, sono altresì meraviglia e difficoltà che questo paese abbraccia. Una terra magica, dove lo spirito nomade e accogliente è l’anima di ogni incontro, dove si riposa ospitati da preziose ricchezze naturali. Un luogo che punge, difficile per chi lo vive. Una terra dove una donna da sola stenta a sopravvivere, dove la forza maschile danza con i ritmi delle stagioni.

226 UnderTrenta • Intuizioni, sorprese, prospettive


In Mongolia comanda la natura, sciamanismo e buddhismo consigliano e le parole di Gengis Khan ricordano che «un uomo senza cavallo è un uccello senza ali».

Viaggiamo tutti in seconda chance di Giulia Indorato

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8 ottobre, ore 17.56, sciopero nazionale dei mezzi di trasporto, Stazione di Bologna Centrale. Indignazione, ai motivi del blocco non ci pensa nessuno. Nervi tesi tra i passeggeri, rimasti a guardare i binari deserti. Donna, corporatura media, statura alta, età possibile 50 anni, pantalone a vita alta, occhiali da vista rotondi. Sembra uscita dagli anni ’80. Verifica in modo ossessivo gli avvisi del cellulare. Donna, corporatura robusta, statura media, età possibile 18 anni, notati i suoi guanti neri senza punta e ciocche di capelli azzurre. Sembra una rocker anni ’70. Ascolta musica con le cuffie, alto volume, fuoriesce uno sbalorditivo assolo di violoncello. Uomo, corporatura magra, statura media, età possibile 36 anni, giacca e cravatta in fantasia gessata. Fissa i tabelloni e parla al cellulare in ottimo inglese. Sembra un gangster anni ’30. Uomo, corporatura magra, statura alta, età possibile 60 anni, giacca jeans, piumino smanicato e ai piedi scarpe da tennis. Sembra uscito da un film dei Vanzina. Si guarda intorno e sbuffa. Donna, corporatura media, statura media, età possibile 25 anni, indossa un gonnellone colorato e un maglione largo beige, capelli lunghi e sciolti. Sembra la perfetta figlia dei figli dei fiori. Mangia un panino con il gorgonzola e osserva gli altri. Si sistema frequentemente un buffo cappellino. Uomo, corporatura magra, statura media, età possibile 25 anni, giacca da montagna in tessuto tecnico, colori predominanti grigio e verde, borraccia al fianco e zaino. Controlla gli orari dei treni, ferma i controllori, si guarda intorno e osserva la ragazza con la gonna colorata. Si siede accanto a lei, inizia a leggere, si interrompe spesso, poi si volta e le offre una mela. Iniziano a parlare. Tutti aspettano un treno che non passerà all’orario previsto: partenza non rispettata, variazione del presente progettato nel passato. Tutti saliranno sullo stesso treno con direzione Roma. Tutti cercheranno un posto, si siederanno e i più cordiali e chiacchieroni scambieranno due battute con il vicino. Tutti viaggeranno sullo stesso treno, ma scenderanno a fermate diverse. Io spero che il ragazzo con lo zaino e la ragazza con la gonna scendano insieme, oggi. Viaggi 227


Cipro: l’ultimo muro d’Europa di Giuseppe Marino

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o Stato più a est dell’Unione Europea, a un centinaio di chilometri di mare dalla Siria e dai conflitti mediorientali. L’isola dalle spiagge bianche e dall’estate più lunga del continente, scelta da Afrodite per nascere. Ex colonia inglese di cui restano alcuni centri militari inaccessibili, la lingua e il perfetto accento british, la guida a sinistra, la carnagione chiarissima e un’inspiegata quantità di biondi/e naturali nonostante la latitudine del Maghreb. Ciò che di Cipro non si sa (o non si dice troppo) è che l’isola è tagliata a metà da una linea verde. La tracciò sulla mappa il generale Peter Young nel 1964 per separare, nella capitale Nicosia, i quartieri greci da quelli turchi in costante conflitto. Una linea che è di fatto un muro che da allora si è esteso su tutta l’isola, sotto forma di filo spinato, impedendo non solo psicologicamente ai turco-ciprioti (a nord) di spostarsi liberamente a sud e ai greco-ciprioti (a sud) di fare il contrario. A sud c’è l’euro, a nord la lira turca. A sud sventolano bandiere greche, cipriote e dell’UE, a nord turche, turco-cipriote e basta. A sud ci si sente un po’ figli di Atene, a nord più di Ankara. A sud si mangia frittura di pesce e Mc Donald’s, a nord Kebab e couscous. A sud infradito e creme solari, a nord incensi e spezie. A sud preti ortodossi e jeans a vita bassa, a nord minareti e qualche velo. Due realtà divise da un muro invisibile? No. Il corso principale del centro storico della capitale si può percorrere in spensieratezza solo fino a metà. Ad un certo punto, tra piante e negozi di souvenir, uomini e donne in divisa “palpano” i turisti e timbrano i loro passaporti per consentire il passaggio “oltre la linea”. La Repubblica turca di Cipro nord, Stato riconosciuto solo dalla Turchia, permette (se si arriva da sud) di entrare nelle proprie strade a condizione che si torni a sud col tramonto. E anche i turisti si dividono tra vacanzieri e viaggiatori: chi da Pafos a Farmagosta, passando per Larnaka, l’Olimpo e la paradisiaca Coral Bay, si gode la porta orientale dell’Europa (distratta); chi invece passeggia tra i paesini di confine (interno), osservando le rotatorie bloccate, le porte sbarrate di alcune case abbandonate da chi è fuggito, gli ulivi secolari e i punti di accesso sorvegliati a tutte le ore da uomini armati e si chiede cosa aspetti l’Europa ad abbattere il suo ultimo muro.

228 UnderTrenta • Intuizioni, sorprese, prospettive


L’India dei sensi I di Giulia Bazzanella

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ell’immaginario collettivo l’India è un paese fatto di donne con abiti lunghi e colorati, spezie, turbanti e incantatori di serpenti. Ma, io che sono appena tornata, so che non è solo questo. VISTA: «colore» è la parola d’ordine. Non c’è spazio per il grigio (a parte quello del cielo, per lo smog). Nulla è sbiadito, i colori sono talmente intensi che fanno socchiudere gli occhi. I vestiti, i bracciali, i decori, le case, tutto è colorato, decorato, intagliato, dipinto, arricchito di orpelli, perline, motivi floreali, figure geometriche. In India, uno si riempie gli occhi. Gli occhi degli Indiani sono grandi e scuri, ti scrutano in profondità, ma sempre in maniera amichevole e con la curiosità che li contraddistingue. In India ci si trucca gli occhi di nero con il kohl (o kajal), non solo per un fatto estetico. La composizione oleosa e grassa del kohl fa in modo che gli occhi siano protetti dalla polvere e schermati dal sole. Per questo motivo lo si applica anche sugli occhi dei bambini. E poi un puntino colorato tra le due sopracciglia – fatto durante la preghiera (puja) – in segno dell’apertura del «terzo occhio», sede della spiritualità individuale, secondo la tradizione induista. UDITO: quello che dell’India nessuno racconta sono i rumori. E sono costanti. Ininterrotti. Il più frequente e fastidioso è senza dubbio quello dei clacson. Ad ogni ora del giorno (e della notte) una sinfonia di varie tonalità accompagnerà qualunque attività. Poi ci sono i venditori che urlando cercano di richiamare l’attenzione dei passanti (soprattutto turisti) per vendere la propria merce, sia essa frutta o gioielli. Un altro rumore è il chiacchiericcio confidenziale che accompagna la contrattazione compulsiva sul presso dell’acquisto. Una carezza per le orecchie è invece il canto dei muezzin, che scandisce i momenti della vita dei musulmani, richiamandoli alla preghiera. In grandi città come Delhi, l’ora del tramonto è un sovrapporsi di questi canti che provengono da diversi e distanti minareti e si fondono nell’aria dando vita ad un’armonia inconfondibile.

L’India dei sensi II di Giulia Bazzanella

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LFATTO: l’India puzza: di sudore, di fogna, di umido. Ho cercato di stare in apnea e di respirare con la bocca, ma prima o poi ti tocca annusare. E non è piacevole. Soprattutto in mezzo al traffico di una metropoli. Lo

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smog invade il corpo schifosamente. L’India sa anche profumare. Di profumi così intensi che è difficile descriverli. I gelsomini nei capelli delle donne del Sud lasciano una scia che inebria. Nei mercati dei fiori, il profumo rimbambisce. L’odore delle verdure fritte (pakora) funge da guida quando hai fame e cerchi un posto dove mangiare. L’incenso all’aroma di sandalo accompagna le preghiere in ogni casa, in ogni tempio, persino per strada. GUSTO: piccante. Ma non poco, quel piccante che ti fa piangere. Quello che ti sudano le sopracciglia, e che dal naso al mento non senti più niente. Quello che mangi tutto in fretta e senza respirare perché probabilmente, con l’ossigeno la lingua ti esploderebbe. In India il piccante è piccantissimo, il dolce è dolcissimo, l’amaro è amarissimo. Non c’è scampo. Si mangia bene, molte salse, molte spezie, molto riso. Pochissima carne. Dopo un mese di riso e verdura non vedevo l’ora di trangugiare una pizza e assaporare a piccoli bocconi una mozzarella. La mozzarella mi è mancata. TATTO: per salutarti, in quanto Occidentale, gli indiani ti porgono la mano destra, come si usa da noi. Ma nella loro tradizione, il saluto si fa con le mani giunte che toccano la fronte. Il contatto fisico tra uomo e donna è un grande tabù, ma non è insolito vedere uomini tenersi per mano e scambiarsi gesti affettuosi. In India le mani benedicono e salutano con la stessa frequenza, e quelle delle donne sono spesso abbellite con splendidi decori di henné. La sinistra è considerata impura e tenuta sotto il tavolo mentre si mangia. Con quell’unica mano si mangia un intero piatto a base di riso e una serie di salse (piccantissime, ovviamente), il tutto servito su una foglia di palma. E sfido chiunque a spezzare il naan (un pane un po’ colloso) o a mangiare del riso (non abbastanza colloso) con una mano. E no, non fate i furbi, non vale alzare la testa al cielo a mo’ di uccellino, aprire la bocca e farci piovere dentro manciate di riso, ci ho provato pure io, ma non è questa la strategia. Per impararla, andateci.

Natale con i tuoi di Patrizia Turtur

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li storiografi contemporanei collocano l’origine dell’usanza natalizia di andare a trovare i genitori ai tempi di Giuseppe e Maria. Secondo fonti vicine alla coppia, pare che i due non stessero andando a Betlemme per il censimento, ma per far visita all’anziana madre di Giuseppe, la quale avrebbe scritto al figlio che «visto che hai messo incinta ’sta ragazzetta, almeno potresti degnarti di farla conoscere a mamma tua che ti vuole tanto bene».

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Duemila anni più tardi, gli italici genitori continuano a reclamare la presenza della prole nei giorni di festa. E così una fiumana di individui intasa ogni anno aeroporti, ferrovie, autostrade, in quella che può a tutti gli effetti considerarsi una moderna migrazione stagionale verso le calde terre natie. Ma la scelta del mezzo di locomozione, che potrebbe sembrare dettata dalla sola convenienza economica, in realtà si presta a svariate elucubrazioni sulla personalità di chi la compie. Il viaggiatore da aereo è uno che ottempera agli obblighi familiari con lo stesso entusiasmo con cui si farebbe cavare un dente: sa che la famiglia lo reclama e non può sottrarvisi, ma è determinato a non lasciarsi sopraffare dall’amore parentale. Viaggia col solo bagaglio a mano, compra i regali al duty free (il nipotino tre-enne si godrà la stecca di sigarette quando sarà più grande) e prenota il rientro per il 26 dicembre, trincerandosi dietro la frase «Mamma, è l’unico giorno ad un prezzo conveniente». Alla mezzanotte del 24 lo si trova immancabilmente su un seggiolino del settore partenze mentre guarda assente il monitor e si chiede se con due ore di ritardo avrà diritto al rimborso. Il viaggiatore da auto è un individualista: diffida dell’affidabilità dei mezzi di trasporto collettivi ed elabora piani machiavellici per superare incolume il traffico dell’esodo. Sintonizza l’autoradio su Isoradio da novembre, organizza simulazioni di partenza notturna con i suoi sventurati compagni di viaggio, incastra le valigie nel bagagliaio con precisione da giocatore di Tetris. Il suo pranzo di Natale consiste in una Rustichella all’autogrill di Barberino del Mugello, dove compra il cd di Eros Ramazzotti per la cognata metallara e la targa decorativa «L’ospite è come il pesce: dopo tre giorni puzza» per sua suocera. Il viaggiatore da treno è uno che ne ha viste troppe per illudersi ancora di poter gestire l’entropia delle festività, cui si rassegna con stoicismo: va in stazione con largo anticipo; spiega con pazienza all’anziano signore che, sì, quel posto è già prenotato, e, no, questa non è la carrozza 4; sistema sulla cappelliera tutti i bagagli della matricola fuorisede. È l’unico che riesce a trascorrere la vigilia in famiglia, dove gioca a tombola, mangia il pandoro, ascolta i racconti di guerra del nonno… mentre piano piano si insinua nella sua mente l’idea di viaggiare, l’anno successivo, in aereo o in auto.

Il Meta-mondiale in Brasile di Francesca Bottari

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ono 46 i luoghi nel mondo da non perdere nel 2013 secondo l’inchiesta del New York Times. Ognuno si distingue per qualche particolare e pro-

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prio charme. Sfiorarli tutti è un sogno per tanti, ma l’elenco americano aiuta i viaggiatori indecisi a far conoscere angoli di mondo diversamente considerati. Una classifica che premia il nome di un luogo, ma anche gruppi di persone, edifici, nazioni, arte, inventiva, storia, capacità e rappresentazioni. Vi presentiamo il podio, quest’anno europeo e americano, di quello che abbiamo rinominato come “Meta-mondiale”. Da New York hanno assegnato il terzo posto al Nicaragua. Il piccolo paese dell’America del Sud, fra Costa Rica e Honduras, pare abbia depurato l’aria dall’eco che trent’anni di guerriglie hanno fastidiosamente procurato. Le coste del Nicaragua offrono soluzioni per una parentesi colorata di blu salato e verde rigoglioso. Pubblicizzata come vacanza eco-friendly offre strutture a basso impatto ambientale, immerse in salotti naturali incontaminati, ma comunque attenti a non privare mai l’ospite dai sani vizi come buon cibo e orizzonti mozzafiato. La medaglia d’argento invece parla francese ed è Marsiglia ad aggiudicarsela. Il suo appeal è l’inconfondibile anima poliglotta che da anni conserva. È un luogo abbracciato dall’immagine bucolica di un Mar Mediterraneo che limita ma che al contempo permette la contaminazione fra più culture. Il vecchio porto come una calamita blocca e seduce il cuore di ogni qual si voglia viandante. A Marsiglia il vecchio si adatta al nuovo. Questo premio motiva indubbiamente la capacità di aver riutilizzato alcuni spazi per ospitare arte e cultura: l’ex-granaio ad esempio oggi è un noto teatro, la dismessa fabbrica di tabacco è diventata la sede di un centro d’arte contemporanea. Marsiglia come nuovo orizzonte culturale che quest’anno vanta anche il fatto di essere Città della cultura 2013. La collana d’oro va ad una modella conosciuta per le sue passerelle in maschera, i cui carri a febbraio hanno fatto divertire genti di tutto il pianeta. Rio de Janeiro vince il “Meta-mondiale”. Questo premio va al popolo che la vive, a chi della città ne ha fatto un racconto, a chi ha creduto che potesse divenire nota non solo per un edonismo stereotipato del carnevale, ma anche per essere una nuova frontiera culturalmente appetibile. Lo sport sta profondamente motivando la trasformazione architettonica e urbanistica: l’anno prossimo si giocheranno i Mondiali di calcio e nel 2016 le Olimpiadi. L’ossigeno sta soffiando anche sulle fiamme del cuore artistico della città tropicale: sono stati inaugurati due musei, a breve avrà luogo la Biennale del Libro e l’evento Rock in Rio. Nuove prospettive per un fermento artistico che sta emergendo, non limitato ad una o due sfumature artistiche, ma con aperture a correnti nuove, dal basso e non, colme di offerte quali musica, pittura, scrittura e scultura.

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Grecia: low cost da sogno di Valentina Poli

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l volo, rigorosamente low cost, atterra a Salonicco, l’antica Tessalonica, ora seconda città della Grecia; la sua anima è duplice, un po’ greca e un po’ turca, e il suo passato illustre combatte per non essere soffocato dall’insistente modernità. Dopo una visita alla città vecchia, al lungomare e alle chiese bizantine, noleggiando un auto, sempre a costi contenuti, in un’ora si raggiunge un paradiso nascosto: la Penisola Calcidica. Montuosa a nord, scende fino a dividersi in tre sottili penisolette, ognuna con il proprio carattere; la prima è festaiola, ben attrezzata e ricca di locali, ottima per chi non sa fare a meno della vita mondana. La terza striscia di terra è un territorio autonomo, la Repubblica Monastica del Monte Athos, dove ad abitare sono solo monaci distribuiti in una ventina di monasteri ortodossi e dove le donne non sono ammesse e i visitatori devono chiedere uno speciale permesso di soggiorno. Ma è la seconda propaggine che desta la nostra curiosità: Sithonia è un luogo dove il turismo di massa deve ancora arrivare, un angolo di paradiso dove il mare non ha nulla da invidiare a quello delle meglio conosciute isole dell’Egeo. Le spiagge meravigliose accompagnano ogni curva, basta solo scegliere dove si vuole andare, seguendo le indicazioni stradali o chiedendo agli abitanti. Solo così infatti si può scoprire, vicino a Sarti, sulla costa orientale, la spiaggia più bella della penisola, Kavourotripes: acqua cristallina per almeno un chilometro, sabbia chiara e soprattutto pochi esseri umani. I paesi che si incontrano lungo la strada (attenzione alle greggi che spesso ingombrano la carreggiata!) sono piuttosto modesti, non ci sono discoteche o ristoranti lussuosi, solo tipiche taverne dove si serve uno tzatziki (salsa allo yogurt, cetrioli e aglio) che non si dimentica e dove una buona cena non costa più di 15 euro. L’aria che si respira è quella greca, fatta di sorrisi e di chiacchierate amichevoli, di ospitalità sacra. Ma anche i sapori sono ellenici: l’aglio la fa da padrone assieme a melanzane e pomodori; lo yogurt e il miele allietano i pasti e il famoso frapè greco (bevanda fredda a base di caffè) si sorseggia anche in spiaggia a tutte le ore. Per dormire è possibile rivolgersi alle vecchiette che, sedute agli angoli delle strade, attendono pazienti l’arrivo dei turisti; siccome gli hotel sono ancora rari, è più facile trovare alloggio presso gli affittacamere, per una gamma molto variegata di prezzi in base alle esigenze dei clienti. Sithonia è sconsigliata a chi ama la bella vita e il divertimento notturno, ma regala emozioni a chi cerca una natura ancora padrona del suo territorio e un po’ di sano relax, senza dover accendere un mutuo. Kαλό ταξίδι! Buon viaggio!

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Siberia: vivere secondo natura di Francesca Bottari

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n Siberia, nel piccolo villaggio di Listvyanka sul lago Bajkal 6 anni fa è sorto l’ostello dove la parola ecologia è strategia, non in termini europei del “pianifico e adatto alla realtà a costo di modellarla”, ma in modi che – oserei dire – si avvicinano più al pensiero orientale, cinese in particolare, in cui si sfrutta il potenziale offerto dalle circostanze, senza scopi né obiettivi che acciecano il cammino presente. Jack e Anna, due americani, marito e moglie, hanno costruito un vero Eco-ostello, il primo «eco» di una serie già esistente (Baikaler hostel). Sito sulla sponda occidentale del lago più grande del mondo, questo posto, spiega Natalia (eco-manager), ospita per lo più un target piuttosto giovane. Ventenni e trentenni, alla ricerca di un equilibrio spirituale e personale, sensibili verso ogni manifestazione della natura, che esplorano il mondo, con molta voglia di condividere esperienze, idee e pensieri. Sono persone che non hanno molti soldi, ma sono ricchi per la loro voglia di provare il differente dall’abituale. Il 90% sono persone che da Mosca vanno in treno verso Mongolia e Cina, e il restante 10% percorre il viaggio all’incontrario. Un numero esiguo di ospiti viene appositamente per staccare la presa, ma tutti, dal momento che scelgono questa meta, è perché vogliono sintonia con ciò che è naturale e non «bio» perché attualmente in voga. Tutto in legno, l’Eco Baikaler, è sito alla sommità di una delle vie centrali del villaggio. Jack – pur non avendo grossi meriti universitari in campo – ha realizzato la costruzione chiamando dei professionisti solo alle necessità (camini e sauna). Nelle casette in legno 4 o 8 letti singoli, bagni dove vere betulle fungono da attaccapanni e dove ogni energia proviene dalla terra o dal cielo. Soggiorni accoglienti, sedie come calamite e l’atmosfera tutt’attorno un mare senza onde. Chi desidera fumare deve uscire dal perimetro dell’ostello, per rispetto alla natura che lo ospita, di cui Jack e Anna non hanno mosso nemmeno un fiore né tagliato un ramo per costruirlo. Un’oasi per persone che credono che la differenza sia possibile, in un mondo dove quel che si descrive spesso non corrisponde a quello in cui si crede. Di notte dalle finestre corniciate di legno una luce sembra dire che vivere secondo natura – e non secondo opinioni – è possibile.

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Cinque cose su Berlino di Giulia Bazzanella

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erlino è una città friendly: eco-friendly, gay-friendly, weirdo-friendly, tutto friendly. E a dispetto delle credenze, i tedeschi sono un popolo piuttosto cortese, anche quando esibiscono creste, tatuaggi, piercing ed espressioni aggressive. – Spostarsi a Berlino è comodo e facile, con due sistemi di metropolitana (S-Bahn e U-Bahn) e diverse linee di autobus in servizio giorno e notte. – Elemento imprescindibile, il Muro è una presenza viva nel cuore della città, a testimoniare orrori passati e possibilmente ad orientare le coscienze e prevenire errori futuri. – Alexanderplatz è un crocevia di artisti di strada che si esibiscono in performance straordinarie. E dal palazzo dell’Hotel Park Inn si può fare base flying lanciandosi proprio nel cuore della piazza. – Vale una visita (anche solo per riposarsi un po’) il Tempelhof, un tempo aeroporto cittadino, oggi trasformato nel parco più frequentato della capitale tedesca. Una conversione eccezionalmente insolita, no?

Viaggiare da soli I di Francesca Bottari

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iaggiare o stare da soli non significa soffrire la solitudine. E se nella nostra cultura le due cose sono spesso collegate, talvolta a soffrire è colui che vive in mezzo e con tutti. Viaggiare da soli è decidere per se stessi, imparare a non essere un mezzo di trasporto per le esigenze di qualcun altro. Ma allo stesso tempo è riconoscere che le scelte non hanno ricadute solo su chi le fa, ma sull’altro e sugli altri. Lungo ogni percorso poi, quotidianamente, si può scegliere se restare soli o meno, a seconda del bisogno di fuggire dalla gente o rifugiarsi tra la gente. Ciò che resta immutabile è che il bisogno di rendere gli altri partecipi delle nostre vite può nutrirsi non solo degli “altri” che conosciamo già, ma anche di chi incontriamo strada facendo. Viaggiare da soli dunque non significa isolarsi e non condividere nulla, perché, in fin dei conti, ci si sente soli unicamente se lo si vuole. Nel chiasso di treni, culture, ostelli e genti che s’incontrano, se si ascolta attentamente la propria solitudine è possibile spogliarsi da quelle azioni che in fondo non ci appartengono. È un viaggio vicino all’unione di parola, pensiero, azione e lontano dal pensare ad una cosa, dirne un’altra e farne una terza.

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Viaggiare da soli può sembrare una pratica riempita di esotico ma in realtà non si tratta che di ascoltare quando si parla, mangiare quando si mangia, lavorare quando si lavora e riconoscere che l’azione che scegliamo di compiere ha un influsso su di noi, sugli altri e su tutta la Natura. Nel viaggio da soli se attenti s’incontrano delle fermate con alcuni attaccapanni: scegliere di appendere e abbandonare gli abiti che erroneamente si pensavano come propri è l’occasione per rinnovarsi ed elevarsi oltre gli ostacoli della paura di vivere secondo la propria natura.

Viaggiare da soli II di Francesca Bottari

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a minima aspettativa delusa sulla meta che raggiungi può mettere in discussione la tua serenità. Divisa nel dubbio se restare o ripartire abbandoni le fatiche del viaggio in un letto che non è tuo. L’unica verità è che non devi far altro che aspettare. Devi restare per vivere quella sensazione d’abbandono ed entrare nella tua piccola o grande sofferenza, per uscirne liberata e vuota, pronta per essere riempita dal prossimo luogo che incontrerai. La paura di guardarci ci fa scappare lontano da noi stessi, fa cercare rifugio negli altri considerandoli l’unica fonte di felicità – e di conseguenza anche di disprezzo per via di fittizie aspettative deluse. Il motivo di tanta solitudine è l’assenza di amore verso se stessi. Nessuno apprezza stare con chi non gli piace e se non ti piaci inevitabilmente scegli di non stare in tua compagnia, allontanandoti così da quello che sei. Ascoltarsi invece significa nutrirsi del paesaggio fiorito che rappresenta quello che siamo veramente. Restare in silenzio, perché solo nell’assenza di rumore si può percepire la propria bellezza – che ognuno conserva in uguale dimensione ed intensità. Accettarci, entrare in noi stessi per uscirne ogni volta diversi e migliori. La felicità è uno stato che può essere alterato dalle insicurezze che, contrariamente a quanto insegnatoci, sono il sano ossigeno della vita. L’unico essere che può renderti veramente felice sei tu e solo dopo aver compreso questa immensità inizi a nutrirti e godere degli altri. Li conosci, condividi giornate e pensieri, poi li saluti con la stessa felicità con la quale li hai incontrati, senza il timore di ritrovarti da sola perché consapevole che lungo il tuo cammino di vita farai del bene a te, alle persone e al mondo intero. Come nella vita anche in viaggio la strada mostra due opposti: su un lato un grave incidente, sull’altro un campo infinito di girasoli.

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La valigia

di Giulia Bazzanella

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uello di fare la valigia è un lavoro stressante. Già nella scelta del tipo di bagaglio, piccolo o grande, trolley, zaino o borsone, facciamo appello a tutta la nostra concentrazione e alla capacità di racchiudere in uno spazio ristretto tutto quello che ci serve e/o potrebbe servire. La valigia è un po’ un filtro, un setaccio, serve a selezionare e ad attribuire priorità alle cose, a seconda della destinazione, del motivo e del periodo dello spostamento e pure degli eventuali compagni di viaggio. Tuttavia, non sempre si può fare affidamento al buon senso. Io, per esempio, sono una di quelle persone che nel fare la valigia sposa la politica del “tutto quello che ci sta e pure altro”. Considero mille variabili, se pioverà, se farà freddo, se mi si romperanno le scarpe, se mi ammalerò o se mi ferirò, di che umore sarò, eccetera. L’eventualità che si presentino una o tutte queste circostanze mi impone di infilare nella valigia diverse paia di scarpe, maglioni (pesanti e leggeri), la ventina, l’ombrello, garze, cerotti e una serie di medicinali, creme e cremine, forbici e coltellino svizzero, ma soprattutto un numero imprecisato di abiti jolly, con combinazioni precise e studiate, che all’evenienza posso rimescolare per crearne delle altre. Tant’è che per me, la soddisfazione più grande sta nel tornare con la consapevolezza di aver usato tutto quello che ci avevo messo dentro, nella valigia.

Mi chiamo Bulkington di Mariagiovanna Amoroso

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i chiamo Bulkington, sono un personaggio minore. Risultato della fantasia ostinata di mio padre, ferroviere macchinista appassionato lettore di Melville, e del rigore metodico e assai scientifico di mia madre, catalogatrice di piante nell’orto botanico del paese e di storie nella nostra biblioteca. Il mio nome mi piace. Perché mi somiglia. Mi chiamo Bulkington, come il timoniere del Pequod, la famosa baleniera con cui il capitano Achab dava la caccia a Moby Dick. Bulkington non è un protagonista e soprattutto non è un eroe. Bulkington è il capitolo 23 di una storia, non un libro intero. Solo uno che in porto non ci sa proprio stare. Uno che si è conquistato la sua indipendenza lontano dalla riva non perché gli procurasse più fama, ma perché solo nell’assenza di terra ha trovato la sua verità, la sua (r)esistenza. Dove l’orizzonte è più aperto e invita a partire.

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Mi sono laureato in fisica, con un voto qualsiasi in una Università improbabile. Non essendo stati stanziati i fondi per la mia borsa da dottorando, ho mollato gli ormeggi sulle zattere che ho allacciato ai piedi. Mia madre mi ha dato del sognatore. Mio padre era davvero incazzato. Ma io sogno anche per lui. Presto i miei occhi a un liceale comprensivo, ai docenti incompresi, a una madre che ama il suo lavoro, a chi legge libri ingialliti, a chi legge. Presto le gambe ai medici che suonano la chitarra, ai dirigenti che dirigono, a chi ha visto almeno un film di Troisi, a chi va al cinema anche da solo, a un’anziana depressa da una brutta notizia, a una quindicenne che chiede se c’è un’età minima per fare volontariato, a un padre che avrebbe voluto restare, ai padri che sono restati comunque. Presto le scarpe a chi trattiene istanti con un click anche se non ha l’occhio artistico, a chi cerca il lavoro nei posti più impensabili, a chi se ne frega della forma ma ci tiene all’educazione, a chi è gentile con i vecchi, a chi è gentile sempre, a chi va in bicicletta con le mani, a chi si prende cura dei genitori. Presto il mio fiato a chi si appassiona nonostante tutto, a chi sarà un italiano povero ma usa il congiuntivo e pure il condizionale, a chi fa orecchie da cetaceo, a chi non ha paura di nuotare di notte. Non sono meglio di chiunque altro e di sicuro molto diverso da chiunque altro. Detesto i puristi di cuore, mi piacciono i nobili d’animo ma solo a metà. Viaggio per me e per condividere la bellezza che trovo con chi avesse voglia di ascoltarmi. Mia madre mi dà ancora del sognatore ma so che è contenta. Mio padre… è ancora incazzato. Bulkington

Un faro nella tela. Coordinate: 43° 33’ 36” Nord, 70° 12’ 31” Ovest di Mariagiovanna Amoroso

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l bello di dipingere qualcosa che c’è, che si staglia sull’orizzonte del nostro sguardo, è che anche una volta rimossa la tela, deposto il pennello, abbandonato i colori, quel qualcosa continua a esistere, dà un altro appuntamento alla nostra ispirazione con la strafottenza propria di chi sopravviverà alla nostra vena creativa e, persino, alla cianfrusaglia di organi che le stanno attorno. La prima tappa del timoniere è un ritratto. Il ritratto di un faro e del suo doppio. Due torri gemelle alte 130 metri sulle maree che abbracciano il promontorio di Cape Elizabeth a pochi chilometri da Portland nello Stato del Maine, New England. L’una ancora in vita, l’altra spenta per sempre nel 1924 e divenuta re-

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sidenza privata di qualche eccentrico facoltoso, ha resistito al tedio di un tempo senza scopo solo grazie alla pazienza di un tale che a lungo l’ha guardata. Edward Hopper non aveva in casa vasi di girasoli e nemmeno una cattedrale da riprodurre alle molteplici luci del giorno, ma da buon artigiano di oggetti abbandonati si lasciava impressionare dalla solitudine delle cose perdute. Così, nel 1929 comincia a dipingere la lunga serie dei Two Lights Lighthouse, ritraendo però quasi sempre la torre dismessa, la luce girevole che non c’era più, monumento della resistenza individuale alla logica dell’utile comune. Era così che Hopper fotografava la sua America, un’istantanea di ghiaccio, senza tempo, pervasa e animata solo da una luce fatta a mano eppure così dannatamente naturale. Un vecchio faro, lacerato e diviso, per metà bagnato dal sole, e per l’altra metà incupito da un’ombra scura e metafisica quanto La nostalgia dell’infinito di De Chirico. Una stazione in piedi contro il cielo aperto e azzurro che non lascia spazio nemmeno a un orizzonte d’acqua breve. Un mare che c’è ma non supera gli argini di una cornice, si lascia intuire e offre al timoniere una costa d’approdo, assai insidiosa, che ha visto incagliarsi nei secoli migliaia di storie e imbarcazioni tra le più disparate, soprattutto le storie. Che se Bulkington decidesse di scendervi in un giorno sicuro, forse incontrerebbe un bambino pronto a raccontargliele, magari schiarendosi la voce proprio come faceva suo nonno ogni volta che cominciava. Gli parlerebbe di quello che successe il mattino del 28 gennaio 1885 quando l’Australia, una goletta diretta a Boston, si era arenata nella nebbia. A guado il signor Hanna era riuscito a trarre in salvo gli unici due sopravvissuti. Il guardiano si sarebbe guadagnato una medaglia d’oro per il suo eroismo, il nostro timoniere una storia da raccontare. Passeggiando per qualche sentiero segnato dal vento in compagnia di un bimbo immaginario se ne va Bulkington. Intrappolato nel realismo urbano di una tela, pennellando sugli occhi il piacere di un’estate al mare, dà colori e senso al suo vagare che rende le cose che esistono e si vedono belle al punto da non riuscirle a spiegare. Che se si potessero raccontare a parole, uno come Hopper non le avrebbe nemmeno dipinte.

La libreria in bianco e nero. Coordinate: 48° 51’ 11” Nord, 2° 20’ 45” Est di Mariagiovanna Amoroso

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rovate a pensare a un gomitolo di sogni e di strade. Passeggiare lungo la Senna è così. La Rive gauche è costellata di vecchie edicole da marciapiede, les bouquinistes segnano i tuoi passi, come un branco di prostitute pronte a

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venderti belle parole d’inchiostro ingiallito dai troppi sguardi o da troppi tempi. Ho preso al volo un caffè da Starbucks per l’aria familiare che ha il nome. Stazionerò davanti a qualche Facoltà alla ricerca di un futuro. In una città molto grande è facile perdersi, io sono già perduto. Per questo, posti anche poco conosciuti dal mondo ma «tuoi» solo perché allungano il tuo caffè senza annacquarlo, o “tuoi” al punto che potresti decidere di andarci a leggere il tuo ultimo libro, sono quello di cui hai bisogno. Così camminando lungo ruede la Bûcherie persino a uno come me capita di ritrovarsi davanti al numero 37: Sheakespeare and Co. In passato centro della cultura anglo-americana bandita, la generazione perduta di Ernest Hemingway e Francis Scott Fitzgerald, oggi “solo” una vecchia libreria inglese, a Parigi. Un portone separa due vetrate da cui non si riesce a intravedere nulla se non qualcosa di magico, scaffali in cui i testi impilati ordinatamente sembrano formare pilastri e volte a sostegno di una cattedrale di carta a cui hai il timore di sottrarre anche un solo volume per paura che miliardi di lettere possano pioverti addosso. Così mi ritrovo, ancora, a oltrepassare la soglia, lascandomi alle spalle l’unica insegna, gesso scritto su ardesia, che non parla né di prezzi né di best seller ma di romanzi e trame e personaggi, gli stessi che incontrerai al piano terra, regno dei libri che si vendono ancora, nuove edizioni o nuove uscite accatastate in uno spazio minuscolo eppure stazione di partenza. È lo stesso disordine che c’è in un cassetto in cui hai provato a ordinare ottomila ricordi. Di ognuno sai l’esatta collocazione eppure, anche a distanza di anni, non smette di spaventare tua madre. Certi giorni, se sei davvero fortunato, a chiamarti al piano di sopra, non è la tua curiosità ma la musica di un pianoforte, vecchio ma non del tutto scordato. E nemmeno dimenticato. Vado spedito in quel bugigattolo di stanza a suonare qualche pezzo che mi viene bene o ad ascoltare qualche audace visitatrice imbarazzata quanto me da tanta bellezza. Corridoi stretti e pareti basse, un mosaico di dorsetti scuri e opachi, come il celeste spento di tela rovinata di una vecchia Mrs Dalloway, fanno da sfondo al suo sorriso impacciato. I vecchi libri sottraggono peso alla paura. Le parole scritte escono dalle pagine e restano sospese. Ogni avventore ci può poggiare un pensiero. C’è una macchina da scrivere rossa, messa a disposizione di chiunque si senta ispirato. Tutto quello che sono riuscito a dire su un biglietto usato della metro è che, in questo posto di stupore e meraviglia, io ci sono stato. Bulkington

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Il salone che scompone la luce. Coordinate: 45° 04’ 00” Nord, 7° 39’ 00” Est di Mariagiovanna Amoroso

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l salone del Libro di Torino è un avamposto della Resistenza. Non solo perché si trova poco distante dalle Langhe di Pavese, Fenoglio e Calvino, ma perché quando pensi che tutto sta finendo e non ti vuoi nemmeno opporre trovi una storia che ti salva, un approdo nel bel mezzo dei marosi e fa ancora più strano che sia un approdo di carta. È un luogo straordinario. Autori noti e meno noti si siedono ognuno in una sala di colore diverso. E tu scegli quello che più ti somiglia. Così comincia la più imprevista ed economica consulenza psicologica che tu possa aspettarti. Ti siedi insieme ad altri ammalati, e possono anche essere centinaia, e comincia la terapia. Tu non l’hai nemmeno chiesta però ti lasci curare. Quando un libro si presenta, per quanto cinico e disincantato o dolce e attento, fa breccia nella tua sensibilità. Che parli della morte di un figlio, di una musica che si suona in Grecia o di due ventenni che non si incontrano mai, ti abbassa le difese e poco importa che ti laceri fino a farti sanguinare o solo per consentirti di respirare. Può farti provare sdegno o un forte senso di estraneità, può sembrarti di non ricordare quando l’hai scritto e soprattutto quando te l’abbiano sottratto. Il salone del Libro di Torino è un avamposto della Resistenza. Non solo perché David Grossman dice che scrivendo è riuscito a restare nella sua vita, ma perché leggendo io riesco a restare dentro la mia. Non solo perché un padre, malgrado la morte di un figlio, riesce a non cadere fuori dal tempo scrivendo un canto che parli di un laggiù tetro e indicibile, ma anche perché ci fa il gran favore di ricordarci che quel laggiù cupo e profondo esiste se uno ci va e soprattutto se uno ci torna, esiste solo se riusciamo a opporre alle catastrofi che ci pietrificano la nostra libertà di movimento. Il salone del Libro di Torino è un avamposto della Resistenza. Non solo perché Vinicio Capossela dice che amareggiarsi vuol dire spingersi nella mareggiata, attraversare il male, non tapparsi le orecchie ma prendere a bordo le sirene e slacciarsi l’anima in una taverna di Θεσσαλονίκη (Salonicco), ma anche perché un po’ di quel Rebetiko lo suonano anche questa miriade di corridoi in cui non ti perdi, questo luogo di fantastic-azioni. Il salone del Libro di Torino è un avamposto della Resistenza. Non solo perché Paolo Di Paolo, giovanissimo autore di Mandami tanta vita, dice che scrivere

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è recuperare quella parte di noi che se ne è andata con chi non c’è più, ma anche perché nel dirlo si commuove perché gli manca Tabucchi e anche perché nell’ascoltarlo, nel vederlo, ci commuoviamo anche noi ma Tabucchi ci manca di meno. Il salone del Libro di Torino è un avamposto della Resistenza non solo perché forse un giorno De Gregori o Testa (o entrambi!) scriveranno una canzone che parla di me, ma soprattutto perché fuori da qui l’entusiasmo appassionato, il coraggio velleitario di andarglielo a chiedere io non l’avrei mai avuto. Ogni sala un colore. Questo posto scompone la luce. E declina la fiducia nel futuro. Bulkington

Anche i timonieri sanno nuotare di Mariagiovanna Amoroso

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e persone quando attraversano il mare cambiano colore. Spesso è un fenomeno fisiologico che poco ha di che spartire con la nausea e le vertigini che l’onda grossa può evocare. Come una baia accessibile solo dall’acqua, chi viaggia per mare offre al mondo una nuova prospettiva di sé, uno sguardo che da terra è impossibile apprezzare perché troppo lontano, impervio da raggiungere in macchina o a piedi. A nuoto no. Nuotare è l’unico modo di andare, muoversi, partire e arrivare contemporaneamente in due posti: quello emerso e quello immerso. Quello con la gravità e quello senza gravità, varcando a ogni respiro l’orizzonte che li separa. Chi nuota con gli occhi aperti ha l’orizzonte a un palmo di naso. Memore di questa lezione, impartitami da mia madre ai tempi in cui voleva convincermi a togliere braccioli e occhialini con modi meno brutali rispetto a quelli paterni, ho deciso di salire su di una barca a vela e prendere il largo. Ogni traversata è unica e irripetibile. Troppe variabili, impossibili da riprodurre. Ho optato per una distanza breve. 40 miglia. Dal porto di Molfetta, il paese in cui sono cresciuto, verso il promontorio del Gargano su Nausicaa, uno Jeanneau Sun-Odyssey di 42 piedi. È stata una notte di luna piena a consegnarci all’alba delle insenature viola velluto di Pugnochiuso. I lupi di mare hanno ululato al vento che ci ha permesso di navigare a vela fino all’arrivo. I più audaci hanno provato l’ebbrezza del timone nella semioscurità, gonfiando d’aria e d’emozione i loro occhi, bianchi come di dacron. I più stanchi e infreddoliti si sono addormentati come in culla e risvegliati come di incanto nel chiarore di vetro del lucernaio.

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La prima nuotata ha il sapore delle sei del mattino. Sa di caffè gabbiani e silenzio. Tuffarsi è una scommessa vinta. È spingersi dove lo scafo non può arrivare. È portare un messaggio dell’albero maestro ai pini marittimi, cerberi non a tre teste ma a quattro radici, guardiani della loro terra. La prima nuotata è un favore che fai a chi ti ha accompagnato fin lì. L’ultima nuotata ha il sapore della distanza. Sa di grigio crampi e pioggia. Tuffarsi è solo l’inizio. La riva è più lontana di quello che appare. Ci arrivi solo per strapparle qualche feticcio di sasso, che peraltro ti farà nuotare ancora peggio e per recuperare le forze per tornare. L’ultima nuotata è un favore che fai a te stesso. Così, guidato dalle tue stelle buone, prendi la tua carta nautica, le tue squadre; tracci la tua rotta, e cerchi il tuo punto nave per sapere dove ti trovi. La barca è più vicina di quello che appare. Ci arrivi. Perché ne sei parte. Il tempo trascorso sono centimetri che ti separano dall’assenza di terra, le gambe un compasso, pochi secondi una bracciata, ogni respiro un grado di latitudine. Il mare sembra un cimitero di gocce. Acqua da sopra. Acqua di sotto. Per una volta l’orizzonte non segna il confine tra cielo e terra ma tra acqua e non terra. E io l’ho visto, senza braccioli. A prua, a un palmo di naso. Bulkington

La resistenza del nostro tempo. Coordinate: 41° 12’ 35” Nord, 16° 87’ 31” Est di Mariagiovanna Amoroso

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l Teatro Petruzzelli di Bari, Alessandro Baricco tiene una lezione su Proust. Io sono a una giusta distanza. Abbastanza lontano dalla scena. Abbastanza vicino per dimostrare quale nesso possa esserci tra la mia condizione di fisico precario ed un discorso ben confezionato sul diventare artigiani della scrittura, andare oltre una “conoscenza convenzionale” e smetterla di scattare centinaia di fotografie senza che la nostra intelligenza le sviluppi. Viviamo in un magazzino di lastre impressionate aspettando che qualcuno ce le faccia capire. È qui che subentra l’importanza delle parole, unica arma capace di darci quel potere di analisi autonoma e indipendente chiamato spirito critico. Tuttavia, le parole richiedono uno sforzo da parte nostra. Un impegno in cambio della responsabilità che ci danno. Quello di essere lette. Ci sono politici

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che lo fanno. Altri che non lo fanno. Per questo ci sono politici responsabili e politici irresponsabili. Non mi dispiace affatto deludere chi credeva che fossi un innocuo anarchico, e pongo l’aggettivo innocuo prima e non dopo per non legittimare anche solo la possibilità che si possa esserlo in modo rivoluzionario. Io a un partito mi sono iscritto. La politica mi piace. Ed è una cosa bella. Io le mani me le sono sporcate, come si sporcano le mani che lavorano. Non vanto i guanti asettici dei nuovi infermieri professionali della democrazia che pretendono di salvarci spacciando per verace e genuina innocenza la loro inconcludenza. Sono qui seduto a questa poltrona e questo piccolo strappo sul velluto rosso non è poi così diverso dallo strappo del mio tempo, fa attrito sulla manica della camicia, si oppone alle mie braccia. Il mio tempo mi resiste. Proust diceva che per scalare l’esistenza bisogna dividere la realtà in tanti infinitesimi scomparti in modo da non lasciare fuori niente: l’ottone della ringhiera del primo palco e il suo odore metallico, un filosofo e un chimico seduti di fianco con cui condividerlo, il buon proposito di far leggere a mia nonna Un amore di Swann dopo Dostoevskij e di chiederle cosa ne pensa. Erri De Luca ha detto che i libri galleggiano perché il padre della carta è il legno dei tronchi. Quello è il nostro unico salvagente. Nessun traghettatore o squadra di salvataggio. Chi si prende la briga di leggere ha il potere di scegliere bene. E se le scelte che facciamo sono il futuro che meritiamo, allora occorre essere in tanti per ottenere cose come una borsa di studio per un dottorando ovvero finanziamenti per l’istruzione e per la cultura, una legge contro l’omofobia, che si parli di flussi di migranti e non di ondate migratorie. Cose così, cose semplici. Questa nave fa duemila nodi e tremila battute. Nave ironica e veloce. Io da mezzo marinaio mi auguro solo di continuare a recuperare cime perdute e a porgervele di lato, senza schiaffarvele in faccia, sfiorandovi appena come una scure sul vostro mare ghiacciato o, meglio, come una sferzata d’oceano, fendente e gentile che vi lasci, ancora, le labbra umettate di sale. Bulkington

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UnderWord Le parole sono alberi con radici e foglie

Patrimonio e Antichità. Ogni parola ha una storia fatta a sua volta di storie intrecciate. I modi di dire, antichi e moderni, della lingua italiana e delle espressioni prese in prestito dalle altre lingue costituiscono una ricchezza indiscutibile e tuttora in espansione. Accanto a quelli tutt’oggi usati, ma che affondano le radici in realtà ormai lontane e dimenticate, altri nascono in ogni momento dalla vita di tutti i giorni e sono i primi segnali di differenza tra le diverse generazioni. Etimologia e Curiosità. Si parte quindi dalla ricerca delle radici di una parola, di un’espressione o di un modo di dire, e si costruisce il legame, talvolta sconosciuto ai più, con l’uso che se ne fa oggi. Ogni articolo che racconta perché diciamo che le cicogne portano i bambini o come mai usiamo l’espressione “piantare in asso” diventa una lettura estremamente curiosa e spesso sorprendente. E si presta alla condivisione. Passione e Utilità. L’interesse a ricostruire l’evoluzione della lingua non rimane un simpatico esercizio fine a se stesso né si traduce in una forma di saccenteria. Chi racconta è mosso innanzitutto dalla curiosità di indagare e scoprire; poi offre il risultato delle sue ricerche. UnderTrenta trasforma questo gioco in strumento impareggiabile per parlare e scrivere in un modo più ricco e personale, e con una maggiore consapevolezza di ciò che si dice. Non lasciando nulla al caso.


La brutta reputazione dello sbadiglio di Arianna Panzolato

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e buone maniere raccomandano la “mano sulla bocca” quando si sbadiglia e le dovute scuse a gesto incompiuto. Secondo antichissime tradizioni mediorientali lo sbadiglio è l’unica via di fuga dell’anima dal corpo, aprire la bocca senza proteggerla significa liberare la forza vitale insita nell’essere umano e il conseguente sopraggiungere della morte. Una teoria rafforzata dalla demografia neonatale di allora che rilevava alti tassi di mortalità infantile: è noto che l’infante venuto alla luce tende a sbadigliare ripetutamente sia per atto riflesso che per ossigenare i polmoni, senza coprirsi la bocca; su raccomandazione medica, era compito della madre farlo scongiurando così la morte prematura del piccolo. Il palmo della mano della persona diventava la corazza difensiva per trattenere la vitalità in corpo e data la natura epidemica dello sbadiglio l’obbligo di scusarsi una volta “aperte le fauci” in pubblico non avveniva per il gesto in sé ma piuttosto per avere messo a repentaglio l’esistenza altrui.

Silhouette: il collezionista di imposte di Gabriella Birardi Mazzone

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isico da pin-up o eloquenti budini celluloidi, strizzati in “comodi” bikini? Sulle spiagge degli italiani ogni bellezza puoi essere sfoggiata, ancora da tinteggiare magari o già bella arrostita come le bistecche che qualcuno addenta a Ferragosto. In un modo o nell’altro, sui rotocalchi e sulle riviste più femminili, si fa uso e abuso di un termine assai noto: silhouette. Questa parola ormai di dominio pubblico si deve ad un certo Etienne de Silhouette, Ministro delle finanze di Luigi XV, passato alla storia per aver emanato delle imposte piuttosto inusitate come quella su porte e finestre, tanto da ridurre lo stato ad una condizione molto sottile. C’è però una piccola curiosità: il caro Ministro, estrosamente bizzarro, nel suo castello amava attorniarsi dei profili dipinti dei cortigiani, o meglio della loro silhouette, che non si sa per quale strano motivo egli collezionasse. Una strana mania che ben gareggia con le frenesie dietetiche di chi vuole passare a pieni voti la prova costume. Non importa se il mio profilo sarà poco assottigliato, non rinuncio ad una coppa di gelato con doppia panna. Eh sì, io colleziono budini!

246 UnderTrenta • Intuizioni, sorprese, prospettive


Infinocchiare [in-fi-noc-chià-re] di Giuseppe Marino

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l vino dell’osteria non era dei migliori. Anzi, certi giorni faceva proprio schifo. Buttarlo? Per carità. L’oste serviva prima del finocchio e l’infida verdura ne alterava il sapore. Era colpa sua se il vino sembrava acido. Stessa cosa avveniva con le pietanze. Quelle a metà strada tra la morte e la putrefazione erano amabilmente ricotte e condite col finocchio. Prelibatesse! I clienti mangiavano e bevevano, pance piene e gote paonazze uscivano dall’osteria puntualmente infinocchiate dall’oste, cassa piena e credenza vuota. Oggi disonestà furbastra e ignobile per chi la trama e non lusinghiera per il tonto che ci casca.

I bambini che portavano le cicogne di Giuseppe Marino

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rge ribaltare uno stereotipo e riconsegnare ai bambini il merito della nascita di tante cicogne. L’escamotage più casto e favolistico usato per spiegare ai seienni come vengono al mondo non è solo frutto dell’immaginazione di un qualche Esopo di periferia. Il vecchio continente piaceva molto alle cicogne e con i primi profumi di primavera non era così raro vederle arrivare dall’Africa via Gibilterra o Bosforo e posarsi sui comignoli delle case. Il motivo? Il camino acceso era una fonte di calore che, oltre a scaldare le piume, agevolava la cova e la schiusa delle uova. E cosa c’entrano i bambini? Non tutte le famiglie europee potevano permettersi di alimentare il fuoco in casa, se non nelle giornate invernali più rigide. In Primavera, ancor meno. Il tepore del focolare era appannaggio solo dei più ricchi o di chi aveva in casa un bebè. Su ogni casa in cui c’era un neonato compariva quindi un nido. Per questo si cominciò a raccontare che le cicogne portassero i bambini anche se, a dirla tutta, avveniva esattamente il contrario.

Andar contro Natura di Fabiana Aniello

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opo le innovative dimissioni di Ratzinger, due espressioni italiane hanno subito, nel bene e nel male, uno scossone significativo: «ogni morte di Papa» e «morto un Papa se ne fa un altro».

UnderWord 247


Questa volta il Papa non è morto, è stato sostituito. Per evitare improvvise oscillazioni semantiche, sarebbe stato forse più semplice seguire l’esempio della lingua di Albione: al cattolicesimo italico (pervadente anche nei modi di dire), gli inglesi contrappongono la Natura. Figli di una filosofia naturalistica o eternamente nostalgici di una cosmologia pagana, per esprimere la rarità di un evento utilizzano l’espressione once in a blue moon riferendosi all’insolito fenomeno della seconda luna piena del mese. Life goes on affermano, invece, quasi con leggerezza, per indicare la vita che non si ferma. Contro la caducità e l’instabilità dell’essere umano, la luna e la vita sono poste come entità superiori e immutabili di riferimento. De Rerum Natura direi… ma forse quella è un’altra storia.

Mai fidarsi del playboy di Arianna Panzolato

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na sposa sola sull’altare, l’auto in panne il giorno della partenza, un appuntamento disertato all’ultimo momento e con una scusa, detto schiettamente: “piantati in asso!” L’espressione ha radici elleniche: Teseo, re di Atene, approdò a Creta per uccidere il Minotauro, il mostro dal corpo umano e dalla testa taurina al quale venivano offerti in sacrificio gli schiavi ateniesi. All’ingresso del labirinto, Arianna, figlia di Minosse, ammaliata dal galantuomo e preoccupata ch’egli non ritrovasse la via del ritorno, gli donò una matassa. Srotolandola nel groviglio dei corridoi di Cnosso, l’eroe avrebbe segnato il percorso evitando di smarrirsi. In cambio del filo dorato, una promessa di matrimonio, da coronare una volta tornati a casa. Ucciso il Minotauro, i due spiegarono le vele verso Atene. Nel lungo tragitto, una notte di sosta sull’isola di Nasso si tramutò per la «signora del labirinto» nel suo peggior incubo: al risveglio, di Teseo più nessuna traccia se non la nave ormai lontana. Sola e affranta. “Piantata in (N)asso” dal suo eroe!

Ingranare [in-gra-nà-re] di Deysi Astudillo

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’italiano è una lingua complessa, dicono, anche se per noi risulta difficile da credere. Provate a chiederlo all’immigrante giunto da poco a lavorare nei campi di grano.

248 UnderTrenta • Intuizioni, sorprese, prospettive


Sono innumerevoli le grane passate a causa delle incomprensioni create dall’etimologia confusa di alcune parole. È così che, in seguito a qualche ricatto, si reca sul luogo fissato per l’incontro portando con sé una forma di formaggio piuttosto diffuso, senza capire perché gli sia stato chiesto di portare la grana. Nessuno gli ha spiegato che certe espressioni, in italiano, vanno prese cum grano salis.

Ray-Ban

di Arianna Panzolato

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erone di moda sapeva il fatto suo: nei combattimenti dei gladiatori sfoggiava un monocolo con pietra verde smeraldo per godersi lo spettacolo e riposare la vista. Negli anni ’30, della stessa tinta si coloravano le lenti a goccia dei primi RayBan modello Aviator commissionati alla Bausch and Lomb dal luogotenente dell’Aviazione americana John Arthur MacCready. L’ufficiale desiderava un prodotto innovativo per preservare la vista dei piloti della US Air Force che, investiti dalle innovazioni nel campo dell’Aeronautica, compivano voli ad alta quota spingendosi ben oltre le nuvole e rischiando di essere abbagliati dalla luce del sole. Gli aviatori lamentavano emicrania e vertigini e lo stesso MacCready, dopo una traversata dell’Atlantico in pallone aerostatico, aveva accusato disturbi alla vista. L’occhiale Ray-Ban fu la medicina più efficace: leggero, antiriflesso e dalla forma progettata per seguire ad hoc l’occhio divenne, nella Seconda Guerra Mondiale, un fedele alleato non solo dei piloti aerei ma anche dei soldati di terra: si dice, e non è leggenda, che il cerchio centrale del modello Shooter, successivo all’Aviator, funzionasse come porta sigaretta per consentire ai cecchini di mirare il nemico senza l’ingombro della cicca fra le dita. Negli anni successivi le lenti più famose al mondo arrivarono a schermare gli occhi della gente comune. Poi ci pensò Hollywood a fare il resto.

In principio furono le corna di Giuseppe Marino

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he nessuno vanti l’invenzione di ciò che a certi (molti, quasi tutti) impedisce di passare attraverso le porte senza abbassare la testa. L’origine delle corna risale alla mitologia greca.

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Poseidone, dio del mare e dei terremoti, aveva donato al re di Creta, Minosse, un toro da sacrificare in suo onore. Prestante, possente e con grande fascino, il toro convinse Minosse a salvargli la vita, sacrificando al suo posto un altro animale. La disobbedienza però non piacque a Poseidone, che decise di punire il re di Creta facendo in modo che sua moglie, Pasifae, si innamorasse del cornuto bestione. La passione fra i due fu agevolata da Dedalo che, interpellato dalla ninfa, realizzò una mucca di legno dentro la quale nascose Pasifae, affinché il toro la scambiasse per una vacca e lei potesse consumare il suo atto d’amore con il bell’animale. Da quell’idillio passionale nacque il Minotauro e gli abitanti di Creta, pettegoli e impiccioni, cominciarono a salutare Minosse, il loro re, con il gesto delle corna, per ricordagli del toro con cui sua moglie l’aveva tradito.

Il Carlino in realtà è un Arlecchino di Gabriella Birardi Mazzone

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o da sempre giudicato quei piccoli cani con il naso schiacciato e nero, brutti, grotteschi e appena schiantati contro una porta a vetri mentre rincorrono l’odioso Chihuahua di Paris Hilton. Si chiamano Carlini e i loro padroni forse non sanno che possiedono un cane di tradizione attorica. Proprio così. Carlino – in francese Carlin – era il nome d’arte di Carlo Bertinazzi, famoso attore settecentesco della Comédie Italienne. Specializzato nell’Arlecchino, maschera tipica della Commedia dell’Arte, egli possedeva un animo dolce e la sua personalità riscuoteva un vasto consenso tant’è che il suo essere omosessuale era un segno di eleganza e raffinatezza. Bertinazzi conquistò i cuori delle incipriate dame di corte che iniziarono a chiamare i loro orridi cagnetti Carlin, in omaggio alla sua bravura e alla maschera arlecchina che usava indossare nelle sue commedie, molto simile alle fattezze della bestiolina. Attenzione, cari padroni di Carlini, potreste cogliere in “flagrante messinscena” i vostri piccoli amici mentre recitano in francese le loro arlecchinate! Non spaventatevi, ce l’hanno nel sangue… anzi nel nome.

250 UnderTrenta • Intuizioni, sorprese, prospettive



Stampa Esperia Srl – Lavis (TN) Finito di stampare nel dicembre 2013



Li hanno chiamati bamboccioni, choosy, fancazzisti, sdraiati. Poi ci si lamenta della fuga all’estero dei loro cervelli. Metri e misure diverse in una valutazione ondivaga a seconda dell’estro, dell’umore o del singolo caso. Considerazioni che stigmatizzano e avviliscono, che scavano solchi di sfiducia e insofferenza, che non rendono giustizia di una popolazione ricca di sfumature e sensibilità, talenti e limiti che sta cercando di crescere e trovare la propria strada. Una scommessa azzardata o una felice intuizione è all’origine di UnderTrenta: giornale online nato dalla voglia di mettersi alla prova a seguito di un laboratorio di scrittura giornalistica organizzato da ES.SER.CI – Esperienze di Servizio Civile – da parte di un piccolo gruppo di giovani. Nella libertà dello spazio espressivo si sono creati e riconosciuti spontaneamente ruoli e funzioni di coordinamento, si sono assunte responsabilità personali e individuati referenti specifici per autorevolezza, esperienza o competenza. Senza misurare gli anni. UnderTrenta ha impostato la propria strategia editoriale sulla sinteticità dei contenuti, che non devono superare le 30 righe, e sulla libertà espressiva: nessun vincolo sulla scelta dei temi, nessuna scadenza né obbligo per proporre articoli, libero accesso a chi vuole scrivere. Il prodotto si presenta da solo con la ricchezza e pluralità di stili e approcci, con la fantasiosa combinazione di temi e prospettive di osservazione del mondo. Ma il risultato dell’esperimento va molto oltre: dice di come generazioni diverse possono costruire progetti comuni con reciproche gratificazioni, di come un rapporto fiduciario e maturo serva a crescere e ad assumersi responsabilità, di come una relazione educativa debba essere circolare per essere efficace e di come tutte le componenti coinvolte ne siano beneficiarie.

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