Scoprire e condividere conoscenza - seminario

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Quaderno d’aggiornamento a cura del Coordinamento Pedagogico Unione Terre d’Argine

Donata Fabbri e Alberto Munari 16 - 17 settembre 2004

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Paola Sacchetti: iniziamo dando il bentornato a due ospiti che ormai ci aiutano e ci seguono da tanto tempo. L’anno scorso con loro c’era stato un incontro in cui si era ricostruito il quadro teorico utile a riflettere e sostenere la nostra azione educativa. Era stato un ripasso molto interessante, che confrontava le teorie che più fortemente avevano a che fare con le tappe della crescita del bambino. Riflettendo su questa evoluzione sia dal punto di vista relazionale che cognitivo avevamo potuto rivedere quali possono essere le cornici di riferimento di un intervento educativo pensato all’interno dei servizi educativi per l’infanzia. Avevamo inoltre concluso introducendo e riflettendo insieme su un altro concetto chiave: quello di competenza. Quest’anno vi abbiamo presentato un percorso formativo che ha l’obiettivo proprio di approfondire tale concetto, sia inteso dal punto di vista della formazione del personale sia dal punto di vista della proposta educativa rivolta ai bambini. Per questo, abbiamo parlato di qualità dei servizi, abbiamo affrontato e affronteremo il tema del “che cos’è” la qualità educativa nei servizi: il pretesto è stato quello della carta dei servizi, ma il tema di fondo è appunto “che cosa significa per noi-educatrici e insegnanti- la qualità educativa”. Alberto Munari ci disse lo scorso anno: competenza è la capacità di agire con iniziativa, con concentrazione e con inventiva utilizzando delle risorse, relazionali, organizzative e tecniche, in un contesto specifico capace di riconoscerla. Non è cosa semplice! Quali sono le competenze che gli adulti devono avere? Perticari parla del “dominio d’azione” per specificare queste aree, o meglio zone in cui uno mette in atto ciò che sa (oppure che non sa!). Semplificando, le possiamo indicare in quattro aree su cui poi “lavoreremo” a livello formativo in questo anno scolastico e nei successivi: corpo, arte, scienze, parola. Sono zone, domini di azione in cui ciascuno di voi si trova, più o meno. Questo modo di “essere più capaci in una cosa piuttosto che in un’altra”, di avere più passione in una cosa che in un’altra è degli adulti e dei bambini, e ci contraddistingue. La domanda che poniamo e ci poniamo è: rispetto a saperi e competenze, se vogliamo 3


progettare un’azione educativa che parta dal bambino e dalle competenze già presenti in ogni bambino che abbiamo e non da obiettivi prefissati degli adulti, come facciamo a capire quali sono queste competenze? In un contesto organizzato come quello della scuola d’infanzia o del nido è possibile rispettare le competenze di ognuno? Come è possibile trovare per ogni persona che ci è vicino in un contesto educativo trovare la competenza che gli è propria, quella su cui puntare per valorizzare quella persona? E come partire da quella competenza per strutturare un percorso educativo? Domande con aspetti sia teorici, sia molto concreti, legati al quotidiano: se parto da questo concetto, di competenza, come devo organizzare il mio nido, la mia scuola, il mio lavorare con i bambini? Ha ancora senso lavorare per fasce d’età fisse come se tutti in quell’età avessero o dovessero arrivare a quel tipo di competenza? Sono domande con cui tutti ci confrontiamo nel momento in cui progettiamo un intervento educativo, ed è quello che poniamo ai nostri relatori. Donata Fabbri: Buongiorno a tutti e bentrovati. “Scoprire e condividere competenze” è il titolo che avete trovato e letto…argomento vasto! Abbiamo la presunzione in due giornate non certo di esaurire un argomento di questo tipo, ma almeno di buttare i semini della riflessione: questo perché, lo sapete, noi pensiamo che non conta tanto quello che un’insegnante viene a dirci o raccontarci, ma il seme che entra nella testa: un’idea, una parola che poi continua a lavorare e poi siamo noi che costruiamo il nostro sapere, a partire dagli spunti che vengono offerti. Per questo abbiamo scelto questa immagine: della piantina che sta nascendo, e che si suppone noi non faremo morire, anzi troveremo per lei un terreno fertile per farla crescere. Le competenze che abbiamo in noi sono un po’ come i germogli: se non vengono curate non vivono; è su questo che lavoreremo in queste giornate, insieme. Spesso infatti non solo non riconosciamo le nostre competenze, le nascondiamo anche a noi stessi, perché siamo stati educati ad essere modesti, e la modestia significa dire e dirci che non siamo bravi a fare qualcosa, e se qualcuno lo dice pensiamo che sia sbruffone: con questa idea della modestia pensiamo di dover nascondere e quasi scusarci di ciò di cui siamo capaci. 4


Se io vi domandassi: in cosa siete competenti, cosa sapete fare bene? Domanda difficile!!! Rispondiamo: stasera a casa lo domando! (e spesso le risposte non ci piacciono tanto, ci demoliscono un po’!) E’ impossibile che non siamo competenti in qualcosa, eppure vedete che spesso non si sa rispondere immediatamente: ecco il perché della prima parte del titolo e dell’incontro: scoprire e condividere le competenze. Scoperta e condivisione: una competenza se anche la riconosco (e già è importante) ma non mi serve per entrare in relazione con qualcuno, non la divido, non la spartisco con nessuno, non so più se sia davvero competenza o no: una competenza vive se è nutrita da un terreno di scambio con gli altri. A cosa ci serve la competenza nella vita quotidiana? Cosa vuol dire valorizzare le competenze nostre e degli altri (adulti e bambini?) Quali strategie usare per riconoscere le nostre competenze? Come riconoscerle, svilupparle, renderle operative? Ecco le domande con cui ci troveremo a che fare! Competenza: concetto particolare e strano! Se impareremo a scoprirle, valorizzarle e condividerle sicuramente avremo una marcia in più nel nostro fare e essere e aggiungeremo un po’ di creatività, leggerezza alla nostra vita. Per cominciare coi lavori, passo la parola ad Alberto, che inizierà una prima parte teorica. Alberto Munari: Ben ritrovati. Per cominciare vorrei legarmi a quanto detto l’anno scorso, per lavorare su questo nostro concetto, quello di competenza. Concetto relativamente nuovo, che, come succede ad altri concetti, torna e viene rivisitato e sollecita l’interesse di studiosi anche di vari domini, e questo fa sì che acquisisca uno spessore nuovo.. Il fatto di fare bene qualche cosa è sempre esistito, però lo si è chiamato forse anche in modo diversi. Il termine comincia ad apparire sulla scena culturale contemporanea molto recentemente: tra gli anni ‘80 e ‘90 si parla di competenza. Se ne parla in diversi ambiti, è un concetto trasversale. Forse questo rinnovato interesse ci viene dal mondo del lavoro, che nei decenni è cambiato e si è modificato Concetto mandato avanti da studio di europei più che americani: sono soprattutto dei francesi che hanno approfondito e sviluppato il concetto (vedi Guy Le Boterf e Philippe Zarifian). 5


In particolare Zarifian spiega che l’introduzione di questo termine costituisce una rivoluzione profonda nel modo di pensare l’educazione, il lavoro e la vita quotidiana. Ma cosa davvero ci porta di nuovo, questo concetto? Prima il “cosa sapeva fare” l’alunno era cosa essenzialmente nozionistica: che cosa sai fare = che cosa sai (sistema scolastico tradizionale): è la base della scuola tradizionale, che poggia sul concetto di nozione (essenzialmente da trasmettere). Questo è il modo di pensare che ancora un po’ ci caratterizza: questa idea di nozione come corollario di preconcetti per cui chi si avvicina al momento dell’educazione è vuoto, non ha nozioni, e viene per farsi “riempire”: siamo lì per colmare dei vuoti, per riparare manchevolezze. Spesso lo si vede anche quando si sente descrivere il profilo di un bambino: “non sa ancora fare questo e quello”,….tutto descritto in negativo. La visione della nostra professione è quasi riparatrice: siamo lì per riparare cose che non vanno bene, lavoriamo in negativo. Secondo Zarifian questa attitudine deve essere abbandonata, se vogliamo entrare nel concetto di competenza: di fronte a noi abbiamo individui che sanno fare un sacco di cose, e il nostro compito è di farglielo fare ancora meglio, di valorizzare capacità o già presenti o lì lì per esserlo,e noi siamo levatrici socratiche che valorizzano; lavoriamo su ciò che c’è già e lo promuoviamo, per farlo diventare ancora migliore. Una volta conobbi un industriale, fattosi con la gavetta, che ormai esportava in tutto il mondo; un uomo che come grado di istruzione avrà avuto la scuola elementare. Lui mi raccontava di come faceva a promuovere i suoi operai, perché lavorassero bene, perché aveva capito che chi lavora in modo contento lavora meglio e dà maggior qualità. Mi diceva: io parto da qui, quando vedo qualcuno che sa fare una cosa, cerco di incoraggiarlo a migliorarsi; se uno non sa fare una cosa, è inutile perdere tempo perché la impari, tanto non la saprà mai fare. Insistendo sulle manchevolezze di qualcuno lo teniamo in uno stato di insoddisfazione, in uno stato spiacevole per tutti; se lo entusiasmiamo su ciò che sa fare, abbiamo qualcuno che diventa ancora più bravo. Che ragionamento semplice, ma va messo in atto! Lo stesso discorso è possibile trasporlo in ambito educativo: se riusciamo a essere sensibili alle reali competenze del bambino, e poi a valorizzarle, lo sosterremo nel processo di sviluppo 6


e anche nella gioia di vedere che è capace, nel piacere di scoprirsi sempre più capace di fare qualche cosa Pensate a quei momenti di gioia profonda di un bambino che per la prima volta riesce a fare qualcosa che è per lui una conquista enorme. Questo è il primo aspetto, fondamentalmente rivoluzionario, del concetto di competenza: siamo lì per promuovere un che di già presente. Secondo aspetto rivoluzionario: il concetto di competenza non si limita a delle aree conoscitive particolari, ma ingloba inevitabilmente tanti domini diversi. Le competenze che una persona sviluppa nella sua vita sono costruzioni che prendono il via da tutti gli eventi di una vita: quello che si è imparato dai genitori, a scuola, giocando con gli amici, da incontri speciali, da un innamoramento… tutto questo aiuta a sviluppare competenze e converge nello sviluppo di una competenza. Quando troviamo davanti a noi un adulto formato troviamo che le sue competenze sono formate attraverso i mille eventi di una vita: i viaggi, le difficoltà, la conoscenza di tante lingue, tutti gli incontri diversi del nostro percorso di vita contribuiscono a formare questa competenza. Quindi la competenza è qualcosa che va visto e va affrontato tenendo presente l’insieme di questi ambiti, e non solo percorsi canonici di formazione. Il titolo di studio non necessariamente corrisponde alle competenze: è piuttosto quello che ci sta attorno a questo percorso, che fa la differenza. Da professore universitario riconosco subito gli studenti che vengono da scuole superiori di tradizione europea classica (francesi, italiani) da quelli anglosassoni: i primi sono studenti più impacciati, abituati a ritmi di studio e di vita predeterminati, hanno consegne precise, programmi,…i secondi sanno gestire il loro tempo, partecipano, sono maggiormente autonomi rispetto alle scelte da compiere: questo dipende sicuramente dalle esperienze pregresse, dal tipo di vita, di cultura. Ognuno di noi nel percorso di vita ha avuto esperienze che comunque intervengono sempre nella definizione delle competenze, e alcuni hanno certe competenze proprio perché hanno fatto questo percorso. Il secondo aspetto rivoluzionario è dunque quello per cui essa si forma non solo attraverso i percorsi canonici di studio ma neanche attraverso una serie di esperienze che ne definiscono una particolarità. 7


Paradossalmente, se ci pensiamo, è più facile completare delle manchevolezze di nozioni, che delle manchevolezze di esperienze. Il vissuto incide in modo determinante, quindi, nella definizione delle proprie competenze. Terzo aspetto rivoluzionario del concetto: è data uguale legittimità a qualsiasi dominio del sapere: non ci sono saperi più o meno nobili, ci sono competenze che richiedono ingredienti diversi, ma hanno pari legittimità dal punto di vista delle competenze; non ci sono saperi accademici che valgono di più di saperi “volgari”: tutti i saperi possono contribuire alla formazione di una competenza, magari in misura diversa, ma con eguale importanza. Si tratta di un cambiamento profondo nel nostro modo di vedere saperi e competenze. Ultimo aspetto rivoluzionario del concetto: anche culturalmente dobbiamo fare un cambiamento di mentalità, perché la nostra tradizione culturale ci ha insegnato ad essere modesti, a nascondere e minimizzare ciò che sappiamo fare. Quando noi chiediamo ai nostri studenti (e daremo a voi il compito a casa di chiederlo stasera ai vostri familiari): quali sono le tue competenze?? Diciamo loro: non bisogna essere falsamente modesti: occorre essere franchi: tutti sappiamo cosa sappiamo bene fare, solo che non lo diciamo! Nel mondo dell’economia si dice “Qual è il tuo valore aggiunto?” e cioè: perché uno deve aver bisogno di te e non di un altro? Qual è il nostro? Perché un bambino, un genitore, una scuola avrebbe voglia dei miei servizi piuttosto che di quelli di un altro? Anche questo ci porta un po’ a definire la nostra professionalità: siamo dei professionisti del nostro campo, abbiamo un valore aggiunto. Questo fa la differenza. Si tratta di una fondamentale rivoluzione che porta a vedere il proprio lavoro, il proprio ruolo professionale con occhi più attenti alle specificità di ognuno e anche liberi da false modestie. Liberiamoci da queste false modestie quando dobbiamo mostrare le nostre competenze. C’è poi chi è più portato a fare questo perché “deve”, come per esempio i giovani che cercano lavoro. Dico sempre ai miei studenti: non cercate di riempire un posto: andate da un datore di lavoro e dite: So fare questo, ti interessa? …..ma da noi, non si fa. Perché? E’ vero che ci sono contesti lavorativi e di mercato più favorevoli a questa attitudine, piuttosto che altri: questo introduce l’importanza del contesto. In ogni caso, ciò che è utile chiedersi è : io che cosa porto, a questo posto di lavoro? Io, con la mia esperienza, i miei studi, la mia presenza, 8


il mio essere, cosa porto? Il posto deve piacermi….da chi dipende se non da me? Posso fare in modo che mi piace, e posso fare in modo di mostrare che so fare cose interessanti…il mio valore aggiunto. E allora chissà cosa può succedere. Pensare in termini di competenze non è solo un problema di linguaggio ma è veramente un cambio di mentalità e di approccio al mondo del lavoro, a se stessi….è rivalutare e rivalutarsi, è cambiare mentalità, soprattutto per noi come professionisti dell’educazione, dobbiamo capire che il nostro lavoro è valorizzare competenze e non riempire lacune o vuoti. E’ un cambiamento di mentalità fondamentale. Donata Fabbri: Vorrei intervenire su questa idea di competenza. E’ oggi un concetto molto di moda, usato quasi in modo inflazionato. La mia riflessione è: nelle riforme scolastiche precedenti si parlava di conoscenza e valutazione delle conoscenze, si parlava di cultura e di somma di conoscenze. C’è il rischio che la parola competenza sostituisca la parola conoscenza. E’ un grosso rischio, questo, perché è una parola di moda, dà l’idea di essere in gamba. Non vorrei che il termine nascondesse poi il fatto di non interessarsi più alla conoscenza, alla cultura, e rendere la scuola un luogo in cui si pensa solo che i bambini partecipino a laboratori dove si allenano a fare cose, sviluppano le competenze però poi cosa sappiano di conoscenza e nozioni poco importa. Sono profondamente contro questa idea: la conoscenza ha diritto di sopravvivere e vivere bene. Credo in una scuola che è luogo di cultura, in cui si producono cultura e memoria, storia, identità. Nei discorsi che sentirete competenza non rimpiazza mai conoscenza. Dopo però tanti anni che si parla di conoscenza come ripetere, come imparare a memoria, ben venga che di fianco a questo concetto si aggiunga l’altro. Quante volte impariamo bene una cosa, per poi dimenticarla subito dopo l’esame o il compito, perché non era ancorata a qualcosa di pratico, di operativo, di nostro: la competenza ci sembra quest’altra faccia, che permette di introdurre nel mondo del conoscere un po’ di operatività. Il fatto che io possa dire: so Leopardi ma so anche montare un mobile: è questo il fine verso cui dobbiamo tendere, ovvero quello che dà valore alla competenza pratica, che lo riconosce, che gli dà senso, e che è ancorato nel mio modo di conoscere, nella cultura, nell’identità, nella storia, nello scambio che riesco a fare con gli altri. Credo nel termine competenza come in un qualcosa che si dà la mano con la conoscenza: la scuola non è una fabbrica sterile! La porta della competenza è una porta che si apre su un cammino verso il conoscere meglio, e di più, a 9


seconda delle abilità di ognuno. E’ questo scambio nutritivo che è importante: competenza e conoscenza si alimentano reciprocamente. Questo va contro lo stereotipo che si è sempre avuto di separare logica/ragione e pratica: non mescoliamo queste cose, non sono allo stesso livello. Invece c’è una valorizzazione della nostra operatività ben sapendo che nessuna competenza è solo manuale e pratica: dentro c’è riflessione, pensiero: dietro a ogni gesto pratico c’è una razionalizzazione. Alberto Munari: Si tratta, è vero, di un passaggio molto importante: dove si trova l’articolazione tra le conoscenze teoriche e la parte pratica? Si trova in una dimensione che deve essere considerata come essenziale per parlare di competenza e che è quello di consapevolezza. Le competenze sono tali se se ne è consapevoli. Ci dice Pierre Lévy “la vera competenza richiede oltre al saper fare l’attitudine alla formalizzazione e all’esplicitazione delle pratiche” ovvero: chi è bravo a fare una cosa, sa anche spiegarla e spiegare come fa, ne ha consapevolezza. Un bravo medico ci cura bene e ci spiega quello che fa, magari con le nostre parole. Il saper spiegare è un elemento indissociabile della competenza, tanto che si dice che competenza è solo dove c’è consapevolezza della competenza, ovvero: una persona sa far bene una cosa, ma è il saper dire che cos’è e cosa sta facendo che che fa sì che lui la sappia fare così bene. E’ qui dove interviene la conoscenza così come intendeva Donata: per esplicitare la mia pratica faccio riferimento a delle conoscenze anche di altri ambiti. Donata Fabbri: avete mai visto “L’isola dei famosi”? E’ molto interessante per le competenze: da quel punto di vista si vede bene lo scontro tra la cultura che abbiamo ricevuto che ci porta alla modestia e l’evidenza del saper fare e avere certe competenze. E’ stato interessante dal punto di vista psicologico perché a un certo punto occorreva esplicitare il proprio saper fare e lì la gente era vergognosa di dire cosa sapevano fare, e chi aveva avuto il coraggio di dirlo subito era stato considerato come uno sbruffone- devi però anche essere sincero e saper fare 10


ciò che dichiari. Queste situazioni mostrano come nascondiamo bene le nostre competenze, e quando c’è un momento in cui saltano fuori, non sempre gli altri ci danno conferme e ci dicono bravi, ma criticano. Uno dei primi eliminati è stato Fabio Testi, che secondo me era molto competente, sapeva fare un mucchio di cose a vari livelli: eppure l’hanno eliminato subito. Era talmente perfettino e onesto nel dichiararsi, che non è stato perdonato per questo. Questo dà da riflettere, sul come condividere le competenze con gli altri: se le condividi in un certo modo, non c’è accettazione da parte degli altri. Condividere non significa solo dichiararsi: bisogna trovare anche il modo di far risaltare le proprie competenze, perché non sempre dirle a un altro è sufficiente. La tv, anche quella considerata “scemenza”, va guardata, ma con gli strumenti giusti, e va guardata perché è il mondo in cui viviamo, e i bambini la guardano, e poi se ce ne parlano dobbiamo essere in grado di interessarcene per dar loro e sviluppare in loro quegli stessi strumenti critici che ora abbiamo noi. Anche questo è un nostro dovere di educatori. Alberto Munari: E’ vero. Sono stato sensibilizzato a questa cosa perché da piccolo accompagnavo spesso mio padre in tv, e la vedevo dietro le quinte; mi sono reso conto di cosa c’è intorno a ciò che si vede nello schermo: ricordarsene, ci dà gli strumenti per leggerla. Divertitevi a vedere nelle scene degli interni l’ombra della giraffa: chi non ha bene questa competenza del tecnico del suono, ogni tanto “se la dimentica”!! Cominciamo a vedere la televisione con occhi critici, in questo senso. Dico sempre che la vera concorrenza di noi insegnanti e educatori è proprio la televisione. Cosa possiamo fare noi per smascherarla? Possiamo cominciare a osservarla come si osserva la concorrenza, e dare al bambino strumenti per “vederla” in altro modo, per guardare cosa c’è dietro. L’insegnante ha il dovere, comunque, di stare connesso col mondo in cui vive e lavora, con le sue bellezze e le sue brutture. Per concludere, ricordo la definizione di competenza, elaborata a partire dal concetto di Zarifian. Mi piace perché mostra che la competenza ha tre componenti essenziali: è fatta di capacità, utilizzano risorse, in un contesto. L’idea di contesto è importante: non ha senso parlare di competenza in generale: essa è sempre relativa a un dato contesto. Questo 11


contesto deve avere i mezzi per riconoscerla, questa competenza. Ciò significa dunque che se il contesto non riconosce la nostra competenza ma il contesto non ce la riconosce, occorre insegnare al contesto a riconoscere la nostra competenza. Nel caso specifico, questo è il lavoro che voi dovete fare coi genitori, che devono saper riconoscere qual è la vostra competenza di educatrici, capiscono il vostro ruolo. Una competenza è costituita anche da capacità che fanno parte della storia personale, che ci fa agire con iniziativa, che funziona assumendosi le proprie responsabilità e con una certa dose di creatività. Oltre alla capacità devono esserci altre risorse, come quelle tecnico-professionali (nozioni della nostra formazione), relazionali, organizzative. La differenza tra risorse e capacità è che le risorse sono sempre perfettibili con studi, corsi,…le capacità sono cose molto più profonde: se non si hanno si possono sviluppare, ma non del tutto. Tutto questo va visto in un contesto. Si tratta di una definizione interessante perché è un inizio di risposta alla domanda come riconosciamo una competenza? Innanzi tutto confrontandola con le caratteristiche qui descritte? Ci sono le capacità? Quali mette in atto? ci sono le risorse? …è già un inizio di pista da seguire per riconoscerla. Di solito è il contesto che ci dà il primo elemento per riconoscerla. Donata Fabbri: alla definizione, nel punto dove parla delle capacità di agire in un certo modo, forse avrei aggiunto anche la curiosità. Donata Fabbri: Ora vi distribuiremo 2 fogli; ci sono 2 testi scritti; vi domandiamo di suddividervi in piccoli gruppi e leggere ciò che trovate su questi fogli, che riportano uno un breve racconto e l’altro una pagina di romanzo. Ogni gruppo costituisce come una équipe, alla quale è stata domandata la seguente cosa, ovvero: preparate una conferenza per un pubblico non specialistico, o una trasmissione televisiva, comunque qualcosa per un vasto pubblico non specializzato, sul tema della competenza; dovrete introdurre questo “evento” usando un testo narrativo: dovrete quindi scegliere uno di questi 2 testi motivando la scelta. Una volta fatto questo, il portavoce di ogni gruppo motiverà a tutti la scelta. Racconto 1: tratto da Siddharta di Herman Hesse racconto di Siddharta dal mercante, che cerca un impiego 12


Racconto 2: tratto da un libro di novelle di Luigi Malerba che si chiama “La scoperta dell’alfabeto”; questo è il primo racconto, e si chiama come il libro. (Riportiamo in maiuscolo nel testo le parole chiave che Alberto mentre i gruppi parlano ed espongono) Resoconto gruppo 1: Non siamo riuscite a fare una scelta; li abbiamo confrontati, e ne abbiamo piuttosto rilevato alcune caratteristiche. Il racconto di Siddharta è adatto per una conferenza, perché lui si presenta in modo molto minimale, nonostante abbia tante competenze (che si scoprono leggendo il brano). Fa un discorso molto tecnico: lui è un tecnico e svolgerà il lavoro senza dare emozioni. L’altro racconto, di Ambanelli, l’abbiamo pensato per i mass media, perché è un discorso emozionale: ognuno di noi dal racconto trae qualche cosa. Il vecchio è molto motivato nella sua attività; vuole provare da solo a fare, vuole riuscire a fare. E’ creativo e critico, vuol usare le competenze personali per imparare. Ci ha colpito, in questo caso, EMOZIONE e MOTIVAZIONE, mentre il Siddharta la TECNICITA’ Avremmo scelto tutti e 2 ma per 2 pubblici diversi; se dovessimo sceglierne davvero uno, opteremmo per il 2. Gruppo 2: Abbiamo scelto Siddharta perché ci hanno colpito alcune cose che ci sembravano adatte a spiegare che cos’è l’umiltà. Ci sono 2 tipi di umiltà: quella falsa, che in realtà è arroganza, e quella vera. Siddharta si presenta dichiarando 3 suoi talenti che a prima vista non sembrano importanti. Secondo noi in questo racconto esce “il cuore”, anche in modo grande, ma non si vede, è poco manifesto: sa tacere, e dunque non si impone agli altri. IL CUORE C’E’ MA NON SI VEDE, I VALORI Gruppo 3: abbiamo preso in considerazione maggiormente il racconto di Siddharta: la nostra analisi è in linea con quella della collega. Abbiamo scelto questo perché secondo noi S ha lo spirito giusto per approcciarsi alle cose: sa l’essenziale (per esempio, le regole ma anche il cuore di queste cose). Ci ha colpito molto le parole con cui si presenta, perché per noi rappresentano la tipica presentazione di una persona capace e competente. E’ consapevole che non sarà mai un vero commerciante, e ne prende atto con umiltà. In più, rappresenta il vero insegnante che nel progettare non teme la novità e il cambiamento, anche se sono aggiustamenti e/o veri e propri cambiamenti di rotta. E’ un racconto che descrive la competenza che ogni singolo educatore dovrebbe avere. Gruppo 4: Noi abbiamo analizzato i 2 racconti dal punto di vista del bambino e dal punto 13


di vista dell’adulto. Ci sembra che il 2 sia più visto dalla parte del bambino, che descriva un personaggio innocente e creativo, mentre il 1 sia più vicino a un modo di vedere le cose “da adulti”. Per raggiungere determinati obiettivi non basta una competenza specifica, ma serve una competenza e una conoscenza più allargata, che si completano tra loro per raggiungere qualche cosa.. importante è avere un contesto positivo che può valorizzare la persona, come è capitato a Siddharta. Lui ha sempre fatto bene il suo lavoro, senza però mai “prendersi sul serio” troppo, restando nella situazione di continuare a VEDERE LA VITA ANCHE DA UN ALTRO PUNTO DI VISTA, più distaccato. Gruppo 5: non siamo riusciti a scegliere l’uno o l’altro; abbiamo pensato per una conferenza di iniziare con il 2, più vicino al sentire popolare, per cui chiunque si può rivedere in Albanelli, che riesce a tirar fuori le proprie competenze dalla vita quotidiana: si pensa che in maniera esplicita non sappia fare niente, ma poi in realtà sa fare tanto. Da una competenza implicita che non sa di possedere apre una porta verso la conoscenza: questo porta all’intraprendenza e all’iniziativa di voler imparare. Alla fine della conferenza, concluderemmo con Siddharta perché troviamo in lui una maggior consapevolezza, una consapevolezza che arriva dopo un lavoro che egli fa su se stesso, grazie anche alla vita quotidiana vissuta; secondo noi è la consapevolezza cui deve arrivare l’insegnante: una maggior CONSAPEVOLEZZA DI SE STESSA per poi aiutare meglio il bambino. Gruppo 6: abbiamo fatto fatica a scegliere, ma abbiamo scelto Siddharta perché evidenzia le diverse competenze che ognuno di noi ha, e ci ha colpito quando dice”ognuno dà ciò che ha”, e la descrizione che fa di sé. Questo racconto per noi non evidenzia solo gli aspetti tecnici, ma anche emotivi di una persona, perché il saper aspettare e pensare sono competenze importanti; c’è RAZIONALITA’, RIFLESSIONI ma anche emozione. Gruppo 7: siamo partite pensando che il racconto di Siddharta fosse il più evidente, ma poi abbiamo convenuto, con la discussione, che il 2 fosse quello più significativo da presentare a una grande platea. La complessità del personaggio che sembra inizialmente voler imparare nozioni affascina: è una persona che non si accontenta anche alla sua età. E’ un personaggio attivo, curioso, che si dà delle scadenze, che decide quando il processo che lo coinvolge avrà un termine, che “scava” nelle cose e accetta anche uno SCAMBIO produttivo (con la moglie). Gruppo 8: abbiamo scelto subito il gruppo 2 per la sua forte carica emotiva: abbiamo pensato che fosse la più adatta per gettare un aggancio emotivo al pubblico. In più, ha mescolato 14


diverse cose, la competenza e la conoscenza: ci sembra che qui escano entrambe, e vengono rappresentate in modo chiaro, ma allo stesso tempo non c’è l’una senza l’altra, non sono nettamente divise. Inoltre, finisce in un modo molto poetico: è una persona con un obiettivo molto chiaro, e nel raggiungerlo è nata un’amicizia. Per queste cose ci sembra il più adatto per un pubblico. Gruppo 9: Abbiamo scelto il racconto 2 per il discorso emotivo, e anche perché si vede bene la differenza tra le diverse competenze, ovvero quella pratica del contadino che anche per imparare nozioni teoriche si rifà alla pratica, e l’altra; poi ci ha colpito del personaggio la motivazione, la curiosità che lo spinge a imparare, per partire dalle cose che uno sa fare per andare avanti e aggiungere competenze e conoscenze. Gruppo 9: abbiamo scelto per maggioranza e non perché fossimo tutte d’accordo il racconto 1, ci sembra quello che risponde meglio alle caratteristiche della competenza, ovvero quelle che lui aveva qualità innate, proprio come nella definizione di competenza. Gruppo 10: abbiamo scelto 1 perché esemplifica bene la differenza tra i 2 mondi, ci è piaciuta molto la parola fiducia, vista come un lasciarsi andare, un atto di fede verso 2 mondi che si devono mescolare ma che ancora non si conoscono. Gruppo 11: abbiamo scelto 1 perché incarna meglio la definizione data di competenza: se competenza è intesa come capacità di agire come iniziativa, in questo racconto e nella definizione che Siddharta dà di sé c’è tutta, ovvero è una presa di consapevolezza delle competenze basilari. Nella frase finale poi Siddharta mostra di consolidare la sua competenza con gioco, con creatività e con responsabilità. Gruppo 12: ci sono piaciuti entrambe i brani ma abbiamo puntato su Siddharta, perché in esso ci sentiamo rappresentate come collettivo: ascoltando la sua lettura ci sono venute in mente tuta una serie di parole chiave che abbiamo annotato e che rappresentano le condizioni del collettivo: se non ci sono queste condizioni che accolgono le differenze e le competenze do ognuno la competenza isolata di uno non va da nessuna parte. Il racconto 2 è interessante quando dici ce si pone domande e va a fondo alle cose: una forte motivazione che va oltre le fatiche; però è una lettura solitaria: può avvenire singolarmente in ogni persona. Gruppo 13: per noi la competenza non è eccellenza in senso assoluto ma è legata al vissuto personale; per cui secondo noi parte da un bisogno, il bisogno nel racconto 2, perché esprime passione e voglia di fare: per noi è più coinvolgente e descrive bene il percorso per raggiungere 15


la competenza, fatto di fatica, di porsi domande; e porta la conclusione del percorso, che è soddisfazione e felicità personale. Gruppo 14: abbiamo scelto 1: lo abbiamo scelto perché l’autostima del protagonista lo porta a dire le parti più intime e segrete di sé; la sua capacità di ascoltare e aspettare gli hanno reso conoscibile mondi sconosciuti. Approfondisce rapporti umani perché ha un atteggiamento particolare: controlla eventi e passione, ha un io umile e altero allo stesso tempo ed è conscio del suo valore. Gruppo 15: li abbiamo scelti entrambi: Siddharta per un saper essere, che arriva a elaborare una sorta di distacco dalle cose: il 2 per una capacità di saper far sintesi rispetto a quello che è , alla sua storia, alle sue competenze, a ciò che vuole raggiungere: sa tenere insieme tutti i pezzi di ciò che è e di quello che vuol arrivare a essere. Metteremmo il 2 all’inizio della conferenza, e il 1 alla fine. Gruppo 16: il 2 per divertimento: ci diverte di più! Le ragioni della competenza sono venute dopo: l’allievo è il vecchio e il maestro è il giovane, e sono nella relazione di una competenza che deve essere trasmessa a un altro, che la vuole assolutamente imparare. Gruppo 17: abbiamo scelto 1 perché ci sembra risponda meglio alle caratteristiche della definizione data a partire dalla consapevolezza della competenza. Gruppo 18: scegliamo il 2 perché ci ricorda un po’ il bambino: è motivato, critico, creativo, e per questo più vicino alla nostra realtà. 1 è più tecnico, freddo, distaccato. Gruppo 19: scelto 2 perché più emozionale. Alla base del racconto c’è una forte interrelazione tra due generazione lontane per molti motivi. Gruppo 20: scegliamo 1 perché, dovendo parlare a una platea ci sembra più consono alla definizione da voi data, però avremmo letto all’assemblea anche 1 perché a livello emotivo rappresenta ciò che è stato detto. Gruppo 21: abbiamo scelto 2 per l’importanza che viene data alla spinta motivazionale che sottende alla voglia di imparare e acquisire conoscenze, per l’aspetto operativo e per il calore, come importanza di dare a certi strumenti il valore che meritano; l’importanza del sapersi stupire, e di passare dallo stupore alla curiosità alla volontà di approfondire intellettivamente le conoscenze. Gruppo 22: non abbiamo scelto. Donata Fabbri: credo che questa attività sia stata un buon pretesto per dirci che cosa ne 16


pensate della competenza, un pretesto dentro la narrazione; che forza ha la narrazione: ci ha fatto entrare i mondi diversi per confermare quanto detto e per far nascere altre riflessioni e per andare avanti nel percorso! Se guardate le parole scritte, quante cose ci sono dentro della definizione data, ma quante altre ne sono nate, ne sono uscite: è come aver scoperchiato una scatola! Questo pretesto vi ha fatto tirar fuori degli elementi che non avevamo detto, e che sono molto importanti, e scavano nella definizione facendo emergere altri importanti concetti in merito alla competenza e a ciò che le sta attorno. Si tratta di due universi diversi: un racconto ha stimolato la nascita di concetti inerenti a quello di competenza che toccano molto delle caratteristiche quasi di saggezza; la competenza si mostra qui nella sua complessità, non è una cosa lineare ma mostra legami reticolare tra concetti e caratteristiche che le sono proprie. L’altro racconto fa emergere altro, ma pur un che che definisce di nuovo la competenza, che la scava nell’intimo. Ora vorrei con voi cercare di vedere il senso di questa attività e che cosa ha fatto emergere. Ci ha permesso di capire che le competenze si costruiscono sulla base di conoscenze, indipendentemente dal fatto che tale conoscenza si situi nell’ambito della competenza che si “apprende” o in un contesto “altro” (v. esempio di Ambanelli che dice “contava le lettere come si contano i covoni); le nostre competenze oltre a essere unite alle nostre conoscenze generano dinamicamente una sorta di spirale che ri-invia a altre competenze: una nostra conoscenza rinvia a altre competenze e così via: è una spirale in cui conoscenze e competenze diverse si nutrono a vicenda e si richiamano continuamente. Noi siamo stati educati a considerarle come mondi divisi e separati, con un baratro tra loro, e con qualche ponticello, ogni tanto; invece è una spirale che le collega entrambe, che si nutrono e si compenetrano tra loro. Se noi con i bambini cominciamo a far collaborare conoscenza e competenza possiamo portare ad acquisire una formae mentis utilizzabile in molteplici situazioni; questa formae mentis, che è quella che Ambanelli ha, è quella che noi spesso perdiamo facendo i nostri studi: per noi è improprio contare le parole come i sacchi di grano, e cercheremmo certo paragoni più nobili! Questa è una semplicità che noi abbiamo perso perché ci è stato fatto capire che involgarisce ciò che è nobile, ovvero la cultura. Quando si parla di umiltà, il discorso sulle competenze ci spinge un po’ a riscoprire questo sguardo nuovo che possiamo avere sulle cose: ci vuole umiltà per vedere in questo modo, 17


altrimenti si cercano solo similitudini dotte che non fanno compenetrare la competenza, perché spesso la competenza ha le mani in pasta, è pratica, concreta. Le competenze una volta che le si hanno non sono date una volta per tutte: vanno nutrite, curate e possono finire (se vivi un altro contesto, un’altra situazione,…..) si adattano al contesto in cui siamo: ci vuole il contesto perché ci sia conoscenza, e se cambia può cambiare anche questa, e finire, o trasformarsi. Ragionare sulle competenze vuol dire anche che si comincia a pensare al sapere come qualcosa che è in flusso costante: la competenza non è mai data una volta per tutte. Ora sappiamo che dobbiamo creare un sapere più reticolare, con trame di un ordito di un tessuto, in cui vediamo che le cose ci compenetrano: la competenza ci spinge a fare questo. La competenza è un bel pretesto per cominciare a ragionare e a insegnare a ragionare secondo un modo reticolare e non lineare, un modo in cui i concetti si compenetrano, e così pure i concetti e l’esperienza. Poi c’è il problema del selezionare le conoscenze: la selezione è molto importante, e la competenza spinge anche a questo, ovvero a capire quali conoscenze me servono per esprimere certe competenze. Devo ogni volta che definisco una competenza fare una selezione all’interno del vasto mare di conoscenze che possiedo. Ogni competenza mi spinge a selezionare delle conoscenze. Questo è molto importante perché così facendo io inserisco una storia dentro alle mie conoscenze, se no le mie conoscenze potrebbero anche vivere staccate da me. La competenza mi obbliga a dire “questa parte di conoscenza serve per”; quindi fa fare un ordine alle mie conoscenze. Inoltre, gli imprime una storia, perché io quando avevo 12 anni ero competente in certe cose, e ci inserisco una storia dentro a come ho sviluppato le mie conoscenze, e dentro alle mie competenze. Se io vi dicessi: pensate a tutte le competenze che avete avuto nelle tappe della vostra vita, voi potreste anche fare il lavoro di dire: allora se a 12 anni sapevo fare questo e quello, allora conoscevo anche delle conoscenze che mi permettevano di farlo. In questo modo si sviluppa nel bambino e in noi una consapevolezza di se stessi, non solo rispetto all’oggi ma anche rispetto al passato, al mio passato. Ricordate che non c’è identità e consapevolezza di sé, se non c’è storia. Se non so com’ero nel mio passato non ho identità, non ho storia, non posseggo un continuum dato dall’essere e dal viversi collocato nel tempo rispetto a quello che si sa fare. La nostra storia è tutto quello che abbiamo conosciuto: è anche una storia cognitiva, che noi possiamo creare di noi stessi; è una storia spesso dimenticata, ma se noi riusciamo a ripercorrerla ritroviamo e riconosciamo le nostre competenze, perché sono dentro lì, sono dentro di noi, non sono 18


solo dette dagli altri, ma le troviamo dentro di noi, se le sappiamo storicizzare nella nostra vita. Ci sono sempre dei perché nelle cose, solo che non ce li chiediamo, e questo non ci fa valorizzare noi stessi, nemmeno ai nostri stessi occhi. Si dice che imparare a imparare è la cosa fondamentale. In effetti sembra essere questa la competenza delle competenze, un traguardo davvero alto: ma ci sono dei modi per arrivarci: il primo modo è quello di narrare a noi stessi la nostra storia, prendendoci il tempo di ricordare a noi stessi come siamo arrivati ad essere quelli che siamo oggi. Ripercorriamo la nostra strada, pensando come faccio io a essere io: farete delle scoperte molto interessanti. La conoscete quella leggenda che racconta che un giorno gli spiriti del cielo hanno chiesto a Brama dove nascondere all’uomo la conoscenza più grande del mondo: su una montagna, in fondo al mare,…E Brama risponde: no perché l’uomo prima o poi la scoverà ovunque, c’è un solo posto dove non la cercherà mai, ed è dentro di sé. Vi lascio, come compito che verificheremo domani, di chiedere a casa vostra in che cosa siete competenti. Alberto Munari: Allora, chi mi racconta che cosa vi hanno risposto rispetto al compito? (…vari interventi…) Esaminiamo ora un altro aspetto della competenza, finora meno indagato Donata Fabbri: come abbiamo visto, la competenza va nutrita, deve trovare un terreno e potersi sviluppare…è la stessa immagine, questa, che voglio proporvi per porci questa domanda: dov’è la competenza? Sono usciti i contenuti che la caratterizzano, ma dove la troviamo, la competenza? La prima cosa che viene in mente è che non c’è competenza se non c’è narrazione. Dire in cosa siamo competenti si risolve nel fare o far fare agli altri un breve racconto di noi: chi parla di competenza narra qualche cosa. Ecco un elemento molto importante: spesso noi usiamo la narrazione quotidianamente, perché sempre raccontiamo cose agli altri, ma non riflettiamo sulle ricadute enormi che ha questo usare continuamente la narrazione. Siamo narratori tutto il giorno, ogni tanto in modo più cosciente quando scriviamo qualche cosa,e un po’ meno in altri momenti. Tutti i giorni però siamo narratori: alcuni lo sanno fare bene, altri meno,… Ogni nostra narrazione trasforma la nostra vita in un testo, e ce ne rendiamo conto se un giorno mettiamo a scrivere la nostra vita: se cominciamo a fare questo ci rendiamo conto che la nostra vita si trasforma veramente in un testo, esattamente come i testi che leggiamo. Si tratta di una trasformazione molto importante, perché attraverso la narrazione noi raccontiamo le nostre 19


competenze; se non le narriamo, non so se le abbiamo… Se non so narrare qualcosa che sono capace di fare, corro il rischio che anche gli altri non lo percepiscano. Molte volte, legata alla competenza, c’è la capacità stessa di saperlo raccontare: se lo si sa spiegare e narrare la competenza viene valorizzata. C’è però nella narrazione qualche cosa di più: se non c’è narrazione non c’è compartecipazione, perché nel narrare entro in rapporto con gli altri. C’è compartecipazione perché comunico qualcosa a un altro che mi ascolta, e questo forse modifica un po’ quello che dico: c’è compartecipazione e costruzione, in questo senso. C’è dunque anche però interpretazione: questo altro che mi ascolta, non interpreta ciò che dico come io vorrei che lui lo interpretasse, lo interpreta a modo suo. C’è un autore francese che si chiama Bruno Latour che fa un gioco di parole, gioca sulla parola interpretazione e dice che in fondo è vero che con gli altri noi interpretiamo, ma nello stesso tempo facciamo anche una inter-prestazione: l’interpretazione è sempre inter-prestazione, nel senso che quando interpreto presto qualcosa di quello che so all’altro, e l’altro mi presta qualcosa di suo. Per essere competenti bisogna saper vedere con occhi diversi, come dicevamo ieri. Proprio perché questo si rifà a questa idea di curiosità: se sei curioso impari a vedere il mondo in modo diverso: il competente è qualcuno che impara a vedere il mondo ogni tanto con lenti diverse, e questo gli permette di sondare realtà particolari e esplorare mondi diversi. Vorrei ora introdurre un’altra idea. Leggendo anni fa un libro di Umberto Eco mi era rimasta in mente un’idea, che vorrei riportare oggi a voi. Mi riferisco a un concetto che vado a dirvi, e che secondo me potete usare perché può diventare molto operativo. Ecco cosa scrive (il libro è “Sei passeggiate nei boschi narrativi”): “-parla di film/libri che sono diventati molto noti-Tempo fa, cercando di spiegare perché Casablanca fosse diventato oggetto di culto ho avanzato l’ipotesi che una condizione del successo e del culto sia la sgangheratezza dell’opera. Sgangheratezza vuole dire anche sgangherabilità; mi spiego: è ormai noto che Casablanca è stato costruito giorno per giorno senza sapere come la storia sarebbe andata a finire, tanto che Ingrid Bergman vi appare così affascinantemente misteriosa, perché recitando sul set non sapeva assolutamente cosa avrebbe dovuto dire e non sapeva ancora quale sarebbe stato l’uomo che avrebbe scelto,e quindi sorrideva a entrambi i protagonisti con eguale tenerezza e ambiguità. E sappiamo che dovendo portare a termine una storia ancora incerta sceneggiatori e regista vi hanno posto dentro tutti i cliché di tutto il cinema e della narrativa trasformando il film 20


in una sorta di museo per cinofili. Proprio per questo il film può essere usato per così dire “a pezzi smontabili”, ciascuno dei quali diventa citazione e diventa archetipo”. Poi prosegue nel dire che anche Amleto è estremamente sgangherabile, fatto di ammassi di storie insieme, e continua nell’asserire che più un’opera è sgangherata o sgangherabile e più risulta un flash nella nostra mente e ne rimaniamo colpiti. Come siamo noi quando insegniamo? Come sono le attività che proponiamo? Cosa quello che vi ho appena detto può aver a che fare con l’organizzazione di certe attività, o col pensareripensare le attività particolarmente strutturate? Un film è necessariamente strutturato: ha per forza un inizio e una fine! Però nel frattempo, all’interno di una cornice di struttura, c’è una certa sgangheratezza: ci sono cose “messe un po’ così” , un caso che non è un caso: si osa aspettare che le cose maturino, che la protagonista decida chi deve baciare, si lascia qualcosa di destrutturato all’interno di una cornice che strutturata lo è per forza. Questo ci fa riflettere molto, su dove trovare le competenze. Se mi rifaccio a questa domanda fatta ieri: se vogliamo progettare qualcosa a partire dai bambini, come facciamo a capire quali sono le competenze? Non si trova forse di più qualcosa che può colpirci e farci capire le loro competenze non tanto nelle situazioni di gioco estremamente strutturati ma piuttosto nel proporre attività leggermente sgangherate, ovvero leggermente destrutturate, apparentemente destrutturate (il regista del film sa che vuole fare un film e egualmente voi sapete dove volete andare a parare, evidentemente!)? C’è una cornice entro cui si prepara l’attività, ma nella cornice c’è qualcosa di apparentemente destrutturato perché è lì, è nel momento dell’incontro con lo sgangherato che la nostra competenza può apparire. E guardate che scoprire questo lo porterà ad abituarsi a vedere che la vita non è strutturata come a noi piace presentare certi nostri ambienti: spesso “mentiamo” perché presentiamo ambienti e situazioni strutturati, ma che non assomigliano agli ambienti di vita in cui poi le vere competenze nascono, perché la vita è sgangherata! Spesso presentiamo attività che non corrispondono a ciò che i bambini fanno fuori, e quindi le competenze non emergono. Servono attività sgangherate e sgangherabili, cioè sulle quali noi possiamo intervenire e sgangherarla ancora un po’, se vediamo che saltano fuori cose importanti. Osservare il bambino in situazioni in cui c’è la sorpresa, lo stupore, può esserci utile per far apparire comportamenti che sembreranno un po’ strani, che sono i comportamenti di chi è 21


sorpreso, ma anche che nascono dalla reazione del bambino nei confronti di quella situazione: appaiono competenze diverse perché la situazione sgangherata e sorprendente genera reazioni che sottolineano specificità, inclinazioni,...diventano situazioni di osservazione straordinaria, in cui si cominciano a presumere delle competenze e quando si presumono, allora si può andare verso attività leggermente più strutturate per verificare se ci si è sbagliati o no. Su questa cosa c’è da lavorare perché temo che il discorso delle competenze possa portare all’idea di strutturare sempre più le attività, con l’idea che più l’attività è strutturata più “misura”. Io invece vorrei fare il discorso inverso: proprio per conservare l’unione tra competenza e conoscenza dico: andiamo a scoprire anche altre competenze al di là del saper seriare, classificare,…che sono importanti ma c’è tempo per vederle: andiamo a vedere qualcosa di nuovo, e il nuovo non si può trovare nell’attività così tanto pensata! Vorrei ora parlare di un altro tema: ogni competenza che abbiamo si fonda su di un nostro mito. Che cosa vuol dire? Vediamo la definizione di mito: ne ho costruito una io prendendo diversi elementi: ho cercato di prendere elementi comuni, perché le definizioni sono veramente tante. Deriva dal greco mithos che significa racconto, parola, leggenda: ecco che ritroviamo la narrazione. Sono tutte le storie, le parole che ci riguardano, sono elementi organizzatori della nostra esperienza, e danno un senso a determinate conoscenze, le spiegano, le legittimano, le inseriscono in una storia. C’è molta narrazione nel mito...è narrazione per definizione! Ed è una narrazione che organizza la nostra esistenza, quindi l’uomo nella storia per esempio, attraverso i miti ha raccontato le sue conoscenze, le ha messe in scena, e attraverso la creazione di questi personaggi che incarnavano le diverse parti di noi stessi ha trovato il modo per spiegare e legittimare certi comportamenti, e inserirli in una storia. Quando io dico che ogni competenza che abbiamo si fonda su un nostro mito vuol dire che ciascuno di noi ha i suoi miti personali. Quali sono questi miti personali? C’è un libro non tradotto in italiano, di un terapeuta franco-svizzero che parla di miti familiari, e dice che all’interno di ogni famiglia ci sono dei miti, e ognuna di esse si struttura attorno ai miti. Questi miti hanno delle conseguenze su di noi, perché ci hanno influenzato, e quello che noi siamo oggi è anche il risultato di quei miti che abbiamo vissuto. Quando le coppie o le persone vanno da questo terapeuta perché hanno bisogno di lui, il primo lavoro che fa è sui miti familiari di queste persone. 22


Come li trova? Si fa raccontare la storia della loro famiglia. E all’interno delle storie trova il mito. Non si sa più trovare chi ha iniziato il mito, ma esso si perpetua nella nostra famiglia, sia che sia positivo, che dia fiducia e forza, sia che siano negativi e neghino certi comportamenti. Influenzano a tal punto la nostra vita che certe cose si possono fare e altre no, e sono cose che impariamo fin da piccoli. Ogni vera competenza ha bisogno di miti, perché quando noi raccontiamo le nostre competenze, le narriamo e spesso le giustifichiamo. Appoggiamo e rinforziamo la nostra competenza appoggiandola su un mito familiare, perché così la competenza è più forte, più legittimata, esiste di più. Le nostre competenze sono dunque parte della nostra storia. È questo che dà energia alle nostre competenze: se non sono inserite in una storia, le competenze sono vuote e rimangono sterili. Infatti noi abbiamo competenze che sono morte, sparite: in un certo momento avevano un senso, poi non essendo più state inserite in una storia, non essendosi collegate coi miti che ci caratterizzano, sono morte. Come riconoscere le nostre attuali competenze o i presupposti per nuove competenze? Occorre cercare nei nostri miti personale o professionale: dovete lavorare sui vostri miti, perché lì trovate le vostre competenze, inevitabilmente. Anche nelle competenze che vi hanno riconosciuto i vostri amici o familiari, trovate dei vostri miti familiari. O i miti professionali: l’immagine che avete del bravo insegnante, una lettura importante…tutto questo diventa mitico per noi se ci influenza, se influenza la nostra storia, così come una persona conosciuta: dà forza alle nostre competenze e ci permette di trovarle, andando a frugare nei nostri miti. Come si può trovare? Andando a cercare, chiedendosi le cose, domandandosi come ci si è comportati nella nostra famiglia in certe cose, come mi comporto io rispetto a certi temi...e ancora: come si sono comportati i miei familiari rispetto a questa cosa? Siamo spesso analfabeti rispetto alle nostre competenze, e c’è un altro tipo di alfabetizzazione che dovremmo imparare a fare: non solo leggere e scrivere, ma anche imparare a riconoscere le nostre competenze. Per imparare e non essere più analfabeti, rispetto alle nostre competenze, non sono gli altri che possono dircele: anche chiedendo agli altri, non si può evitare il fatto di domandare a noi stessi quali sono le nostre competenze: è come se delegassimo a un altro di leggerci un pezzo di qualcosa: certo che lo legge, ma non abbiamo imparato noi a leggerlo. Poi può essere interessante, se sappiamo leggere, il confronto con l’altro, ma prima occorre 23


che noi impariamo. E questa alfabetizzazione si compie andando a cercare le competenze lì dove sono, dentro di noi. Gli altri possono solo indicarci delle piste di ricerca, e le piste sono: la ricerca dei propri miti su cui si è fondata la nostra esistenza, chiedendoci: quali competenze abbiamo sviluppato, per mantenere le cose in cui crediamo (=per permettere al mito familiare di perpetuarsi anche in noi e con noi)? Se scopriamo questo, abbiamo indicazioni per capire cosa siamo bravi a fare, e dopo possiamo confrontarle con gli altri. Alberto Munari: da qui capiamo che una competenza non si misura, una competenza si racconta. Abbandoniamo questa caratteristica della misura, per entrare nell’ottica per cui le competenze si raccontano: per cogliere le competenze di qualcuno la via più interessante è quella di fargliele raccontare, di farsi raccontare la storia. Si può cominciare a partire da qualsiasi cosa, perché qualsiasi cosa ha una storia. Se sei brava a fare una torta: quando hai imparato a farla? Da chi? Sei stata subito brava? Narrare è ritrovare il percorso, andare alle origini: dove hai imparato a fare quella cosa? Da dove viene questo apprendimento? Ricordate la definizione di ieri: ci sono capacità e risorse, viste in un contesto, quando si dice che una competenza è inserita in un contesto vuol dire che si situa in una dimensione storica, e la presa di coscienza delle competenze la si promuove attraverso questo racconto. Donata Fabbri: abbiamo detto dove cercare la competenza, ora possiamo chiederci cosa influenza la competenza. Facciamo un esercizio: scrivete al centro di un foglio la parola competenza, poi prendete diversi elementi e considerato una competenza vostra come è influenzata nei confronti della famiglia, se la influenza poco, la posizionate in un cerchio un po’ in là, poi rispetto al lavoro (se la influenza molto gli è molto vicino), poi la coppia, poi la vita sociale (ha molto a che fare con la competenza tal dei tali? Si, no, poco,…), gli studi… Questo andrebbe fatto per ogni nostra competenza. È un esercizio importante perché ci troviamo davanti la mappatura di tutte le nostre competenze anche con i loro squilibri ed equilibri. Per ogni nostra grossa competenza possiamo visualizzare gli elementi importanti rispetto ad ogni competenza. Fin che non si fa questo lavoro non ci si rende conto di questo: noi abbiamo fatto crescere le competenze in noi, ma se non si fa un lavoro di presa di coscienza di come sono nate, di che rapporti hanno con tutto quello che ci circonda non ci serve a niente averle, salvo al momento in cui dobbiamo farcene qualcosa. E una competenza va inserita nella nostra storia, occorre che generi nuove competenze e conoscenze, è una competenza 24


viva….se la uso solo quando mi serve e non la nutro, ci sono possibilità grosse che sparisca. Fare un lavoro così mostra da cosa le nostre competenze sono nutrite, e poi ci possiamo fare un mucchio di domande: il fatto che sia nutrita soprattutto da quello è positivo o negativo? Se io ci metto un po’ di più di qualcosa d’altro cosa succede? È un esercizio da fare da soli, sinceramente. Ed è questo che la competenza ci sprona a fare: ci rinvia alla nostra soggettività. Sono in noi e lavorare sulle competenze ci rinvia a chi siamo e a come ci siamo costruiti: un bel pretesto per andare dentro di noi e scoprire cose anche un po’ inattese che ci riguardano. All’interno di queste cose saltano fuori i miti: se fate questo non potete non trovarli….. esempio: ma come vi dite, quella competenza lì che non ha niente a che fare col lavoro è influenzata così tanto col lavoro, come mai? Forse perché io ho un ideale di lavoro particolare che mi è venuto chissà da chi…. Fare questo lavoro sulle proprie competenze accresce noi stessi e può servire per affinare quei famosi occhi diversi che sanno cercare le competenze anche negli altri, soprattutto nei bambini. Se non lavoriamo su noi, e non le sappiamo trovare in noi, non siamo capaci di vederle negli altri. Alberto Munari: vorrei ritornare su alcuni elementi: la competenza non si misura ma si racconta, e si manifesta anche in situazioni poco strutturate: nel racconto c’è tutta la persona, dunque anche i miti familiari che essa perpetua. Volevo aggiungere una cosa, un’osservazione che mi è capitato di fare in una scuola dell’infanzia in Inghilterra. Era una scuola molto ricca di materiale, ma erano tutti di recupero, o oggetti della natura…non c’erano materiali strutturati. Ho chiesto come mai, e mi hanno risposto che quel tipo di materiale per loro era più interessante, perché più difficile da capire e manipolare. Vede questi cesti: c’è dentro roba strana, che però ha un senso, ed è quello che il bambino vorremmo scoprisse. Inoltre il materiale è tale da non esaurirsi nella sua caratteristica che lo lega, che è quella a cui noi abbiamo pensato, ma ne possiede altre, che il bambino può scoprire autonomamente, anche se noi non le avevamo previste. Questo secondo me è un buon esempio della ricchezza di un materiale poco strutturato, solo quel po’ che basta per suggerire qualcosa, ma non tanto da chiudersi, lasciandoci aperti ad altro, ad altre scoperte. Questo ci suggerisce anche una strategia rispetto alla domanda come osservare delle competenze? È meglio osservare delle competenze proponendo attività poco strutturate, dove c’è questo margine di scoperta, di sorpresa, che fa sì che le cosa possano essere messe e viste in un modo piuttosto che in 25


un altro. Altro aspetto è la dimensione narrativa: anche qui possiamo sviluppare strategie per approfondire la narrazione che porta sulla storia di una competenza. La narrazione è la narrazione di una storia, e quindi ci troviamo qui a investire la problematica con una nuova dimensione che è quella della storicità. Ieri vi dicevo che parlare di competenze costituisce anche una rivoluzione profonda nel modo di considerare i saperi e le conoscenze; anche questa dimensione storica fa parte di questa rivoluzione profonda: siamo sempre stati abituati dal tipo di formazione avuta a pensare sempre e solo al presente: cosa sai/cosa non sai, qui, oggi, in questo momento. La storia di una risposta giusta all’esame non ci interessa: ciò che conta è la risposta giusta all’esame. Parlare di competenze ci porta invece a storicizzare queste dimensioni,a storicizzare i saperi,che hanno una loro storia, anche i nostri saperi privati ce l’hanno, farsi aiutare a raccontare una competenza o aiutare qualcuno a raccontarla, raccontare insieme a qualcuno una competenza sua o mia, magari raccontarsi insieme, è una strategia per individuare competenze. Nel racconto allora possiamo anche pensare a dimensioni da esplorare, se pensiamo a come si apprende, a come impariamo delle cose. Ci sono 4 dimensioni fondamentali dell’apprendere, sia per l’adulto che per il bambino: prima di tutto l’azione effettiva, si impara facendo; se non c’è azione non ce apprendimento; l’empatia, la relazione, la cui natura e qualità è determinante per apprendere; la ricerca di senso: si impara quello che costituisce e ha senso per noi, che serve a qualcosa, che si inserisce in noi nella nostra storia; il rapporto col sapere: abbiamo una relazione anche coi nostri saperi, abbiamo saperi ai quali siamo affezionati, altri che ci piacciono meno, e così via. Avere in mente questi quattro elementi ci serve come strategia per indagare la storia di un apprendimento all’interno di una competenza, o forse anche la storia di una competenza che si impara; vuol dire chiedersi quell’azione effettiva, cosa stavi facendo, cosa facevi mentre imparavi quella cosa, è facendo cosa che hai imparato questo...quale è stata la dimensione fattuale, l’azione: ritrovare l’azione in seno alla quale questo apprendimento si è realizzato: che c’era con te, perché in quel momento lì era importante quella cosa (la ricerca di senso implica la ricerca dell’importanza di una cosa),…come ti trovavi nei confronti di questa cosa: ti piaceva, ti entusiasmava, hai avuto un momento di sconforto rispetto a questa cosa…è facendo cosa che a un certo punto di sei accorto di essere al momento giusto al punto giusto, attraverso quale azione hai preso coscienza di questo… questa è una strategia che può essere utile per aiutare qualcuno a strutturare il proprio racconto, o noi stesso se vogliamo farlo su noi ci aiutano a strutturare 26


questa narrazione. Questo per suggerire una modalità strategica per andare avanti anche nella dimensione narrativa. Si potrebbe anche approfondire la dimensione relazionale: si è detto: si impara sempre qualcosa con qualcuno, c’è sempre qualcuno con il quale stiamo facendo queste cose…. Potremmo distinguere nella relazione con qualcuno quattro dimensioni, che appartengono a ogni relazione interpersonale: ogni relazione si realizza in una dimensione fattuale, che introduce dei vincoli materiali (spazio più o meno limitato,…); poi ci sono tutti gli aspetti psicodinamici, gli istinti, i conflitti che viviamo dentro noi e ci rendono più o meni disponibili verso gli altri; la dimensione strategica: quando siamo in presenza di qualcun altro nascono dei rapporti di potere, inevitabilmente: non si tratta solo di potere “aggressivo”: il rapporto di potere è sapere che si siede per primo, che ha l’ultima parola, che passa per primo dalla porta… I bambini piccoli continuamente mettono in atto strategie di questo tipo mentre per l’adulto sono spesso rapporti ritualizzati. Poi c’è la dimensione valoriale, il senso di giustizia. Queste quattro dimensioni sono interessanti per studiare la relazione con qualcuno e approfondire ancora di più la narrazione. La seconda domanda che ci ponevamo è: assieme a chi hai sviluppato questa competenza? Esaminiamo questa relazione con questo “altro” con cui si è realizzata l’azione. Finora abbiamo parlato di competenze essenzialmente individuali, sia per noi che per i nostri bambini. Però c’è un altro aspetto del concetto di competenza: è la dimensione collettiva del concetto. Questo interessa soprattutto chi deve organizzare un insieme di competenze. Nella letteratura contemporanea sulla competenza si parla anche di “competenza collettiva”: una competenza individuale diventa collettiva quando viene concepita come complementare ad un’altra competenza. Perché due competenze possano effettivamente essere complementari e diventare una competenza collettiva occorrono condivisione dei saperi, ascolto e fiducia. Occorre saper ascoltare l’altro e nell’osservarlo saper riconoscere la sua competenza e la complementarietà della sua competenza alla mia; ci vuole fiducia nel senso che riconosco all’altro la sua competenza come complementare alla mia, la accetto con fiducia (non sto a verificare ogni 5 minuti che faccia ciò che deve fare): non è facile arrivare a questi livelli! Per questo intorno alla problematica della competenza collettiva c’è molta riflessione e molte 27


ricerche: realizzare in un’équipe professionale delle vere competenze collettive richiede un’abitudine di lavoro, una fiducia, un’empatia…un insieme di cose che vanno ben al di là delle competenze tecniche. Se vogliamo promuovere delle competenze collettive in un gruppo dobbiamo fare in modo che alla base si realizzi questa capacità di ascolto e questa fiducia nell’altro. Potremmo allora affinare ancora di più cosa può voler dire valorizzare le proprie competenze…cosa vuol dire valorizzare le proprie competenze? 1- conosci te stesso-cosa vuol dire conoscersi, soprattutto professionalmente? Vuol dire mantenere una chiara visione delle proprie capacità e dei propri limiti, cioè cosa so fare e cosa non so fare, avendone consapevolezza. 2- Imparare a riconoscere i contesti nei quali si può dare il meglio di sé-sviluppare le proprie competenze significa anche sviluppare i contesti nei quali queste mie competenze possono pienamente realizzarsi, i contesti nei quali so dare il meglio di me 3- Verificare costantemente in che cosa consiste il tuo valore aggiunto-qui entra il rapporto con l’altro: perché uno dovrebbe venire da me è richiedere questa prestazione e non andare da un altro…che cosa ho io da dare di più? 4- Rispettare dei valori-noi abbiamo tutti dei principi a cui teniamo. Saper riconoscere quali sono i valori fondamentali che guidano il nostro lavoro è importante per capire le mie competenze, perché arriverà il momento in cui dovrò fare dei compromessi: fino a quando posso accettare dei compromessi e quando no, perché allora la mia competenza non può più espletarsi? 5- Sii sempre pronto ad imparare- valutare sempre le proprie competenze confrontandole con quelle dei colleghi e con le esigenze attuali del momento in cui si è 6- Imparare a identificare quali sono i bisogni di aggiornamento e trovare le formazioni adeguate. 7- Guarda al futuro-chiedersi quali sono le tendenze evolutive del mondo in cui viviamo (il mondo sociale e culturale, i cambiamenti familiari,….) avere uno sguardo attento a come il mondo cambia è indispensabile per il nostro lavoro, cercando di anticipare i possibili mutamenti che i cambiamenti del mondo possono portare nel nostro ambito professionale 8- Mantenere i contatti, coltivare i rapporti con i colleghi e con chiunque altro possa aiutarti a sviluppare la tua rete di conoscenze 9- Migliorare la propria capacità di lavorare in équipe 28


10- Rimanere flessibile 11- Imparare ad adattarti rapidamente e anticipare i cambiamenti….e a vivere nell’incertezza: in un mondo sempre più mutevole e difficilmente prevedibile, dobbiamo imparare a vivere nell’incertezza, a far bene il proprio mestiere anche se non conosciamo le risposte a tutte le domande; il fatto che esistano delle incertezze non giustifica una posizione di ripiego o di abbandono della propria responsabilità individuale. Sono elementi fondamentali per valorizzare le proprie competenze e per cercare di arrivare a una competenza collettiva. Questa lista di cose l’ho tratta da un programma di formazione proposto da degli istituti che promuovono competenze: è un programma di un istituto di San Francisco. Penso che anche se all’inizio si indirizzava a professionalità diverse, può essere utile anche per la nostra. Possiamo pensare a una strategia globale di valorizzazione delle competenze, ovvero una strategia che tenga in considerazione l’insieme del sistema nel quale la vostra professionalità si inserisce? Possiamo agire a livello degli individui, a livello dell’équipe, a livello dell’istituzione tutta intera e a livello della professione. Ad ognuno di questi livelli possiamo introdurre delle azioni che promuovono la valorizzazione delle competenze: 1- incoraggiare la sperimentazione: a livello degli individui vuol dire far sentire ad ognuno che ha il diritto di sperimentare qualcosa di diverso nell’ambito del proprio lavoro: si tratta di suggerire questa atmosfera, questa attitudine: la sperimentazione è valore e non perdita di tempo o disturbo. 2- Valorizzare le esplicitazioni delle teorie soggettive, cioè abbandonare la preoccupazione dell’unica teoria di riferimento, facendo parlare la gente sulle proprie teorizzazioni; le teorie soggettive hanno altrettanta legittimità che le teorie degli studiosi: la competenza dà uguale legittimità a saperi di natura e provenienza diversa, ed è interessante che emergano e vengano esplicitate, così come è interessante che emergano le paure, i dubbi,…che non è limitante, ma è proprio, invece, ciò che può generare creatività; in più, se i miei dubbi sono quelli della mia collega, possiamo costruire insieme ricerche per proseguire oltre quel dubbio. A livello 29


degli individui vuol dire che ognuno deve sapere che ha il diritto di fare queste cose, che ha il diritto di dire io ho un dubbio. A livello dell’équipe, promuove lo scambio delle esperienze, favorisce la condivisione delle soggettività, scoprendo convergenze e divergenze. 3- Incoraggiare l’esplicitazione dei processi identitari-l’équipe è tale solo se le persone si riconoscono in essa, se uno ci si identifica, e lo afferma con una certa fierezza. Questo significa incoraggiare questa espressione di identità con fierezza. 4- Favorire l’esplicitazione dei valori comuni. Un’équipe è tale se condivide dei valori comuni, anche se non è sempre facile individuarli; tuttavia non lo si può fare se non attraverso un lavoro di esplicitazione reciproca di confronto e di scambio. Ciò significa chiedersi in équipe che cosa è importante per noi, quale è la cosa la più importante per noi: ne discutiamo, e insieme identifichiamo qualcosa che diventa un vero valore comune in quanto realizzato insieme. 5- Valorizzare i rituali di aggregazione-vuol dire valorizzare ogni occasione che favorisce l’unità del gruppo, qualsiasi evento può diventare un rituale di aggregazione, questo fa esistere l’équipe e valorizza le competenze collettive. Ponendoci a livello dell’organizzazione tutta intera, e quindi a livello dirigenziale, valorizzare le competenze individuali e soprattutto collettive significa: 1- permettere la sperimentazione di nuove strutture; 2- modificare l’organizzazione in funzione dei compiti, ovvero modificare la struttura dell’organizzazione in funzione dell’attività che si fa. 3- Valorizzare la produzione e la diffusione di nuove conoscenze: quando qualcuno inventa qualcosa di nuovo, va comunicato perché ciò promuove l’innovazione di tutta l’istituzione; e si può agire anche a livello più globale, promuovendo la ricerca della qualità per esempio, a livello professionale; vuol dire anche promuovere l’etica: vi è una dimensione etica professionale, assolutamente irriducibile in ambito educativo, eppure se ne parla poco: si dà per scontato: si tratta di un’idea da combattere, quella del dare per scontato. Occorre parlare un po’ di questo criterio etico legato all’educazione: esplicitare una cosa che si ritiene banale è sempre una sorpresa, perché si scopre che banale non è. 4- valorizzare l’eccellenza, - è un’ottica un po’ americana, ma non è male anche far sapere che si è bravi a fare le cose…è importante parlare di ciò che va bene e che si fare bene, anche in ambito educativo. Questo è ciò che volevo raccontarvi per completare e generalizzare ancora di più il discorso sulle competenze. 30


Donata Fabbri: adesso svolgiamo un’attività da fare per tirare un po’ le fila di quanto detto. Vorremmo fare un’attività che ci rinviasse a delle metafore. Ci siamo chiesti: se le competenze di cui ci siamo occupati in questi giorni potessero essere rappresentate da una sorta di forziere, di scrigno pieno delle nostre competenze, come lo potremmo aprire? Innanzi tutto per poterlo aprire dovremmo pensare a com’è: ora vi mostrerò delle chiavi, e vi chiedo: quale chiavi scegliereste tra quelle presentate per aprire il forziere delle vostre competenze? … Vediamo ora i temi che avete sviluppato: c’è un’idea di preziosità, legata al romanticismo, al buon gusto, al mistero, al codice personale, che dà questa idea che le competenze sono contenute in qualcosa che al tempo stesso è un po’ misterioso e un po’ prezioso; poi c’è un’idea di semplicità, di un modo di aprirla senza incepparsi, di non complicatezza; c’è libertà e freschezza, musica e parola, ricombinazione, e rivisitazione: le competenze sono un qualcosa intorno a cui gira qualcosa di libero: come le note della musica si possono ricombinare; c’è l’idea del tempo, del fatto che si può anche andare lontano, ma avendo tempo; c’è l’idea dei sentimenti, che può esser legata un po’ a tutte le altre caratteristiche; c’è l’idea del nutrimento, della storia, perché nel parlare delle competenze ricerchiamo la nostra storia e ci nutriamo della nostra storia. Se guardiamo i 2 manifesti fatti ieri vediamo che ci sono elementi che ricordano quello che avevamo visto, e altri completamente nuovi: ci sono cose diverse perché la domanda che vi è stata posta non è quella di reagire a un testo, ma di pensare a uno strumento; nello strumento c’è un’operatività che nel testo spesso non c’è: il testo descrive. Qui c’è operatività: a partire da questo strumento (la chiave) bisognava risalire alla competenze; ci sono temi che si ritrovano e altri, come il discorso della preziosità, del buon gusto e del mistero, del codice personale,… .è un discorso che esce nel momento dell’applicabilità, dell’operatività. Le competenze ci insegnano anche a imparare a porsi domande a dei livelli diversi: se descrivo le competenze a partire da delle narrazioni, saranno capaci di dirmi certe cose, se invece vado domandandomi: come apro una competenza, come vi accedo? Ci sono diversi modi di accedervi, perché dietro ci sta il come me l’immagino. Come vi immaginate le vostre competenze? Sono irraggiungibili, indescrivibili, complicate da raccontare agli altri, o sono cose semplici, di facile accesso, che vi rappresentate facilmente? Quando diamo questa risposta abbiamo trovato anche la chiave per accedervi. 31


Se noi riusciamo a capire che la nostra vita è ammobiliata dalle competenze…le nostre competenze dove sono? Dove stanno se fossero un mobile dove sarebbero: in cantina per dimenticarle, o in casa visibili? questo ci spinge a capire che le competenze si prendono da diversi punti di vista, ma quando arriviamo al momento dell’operatività gioca tantissimo la rappresentazione che noi ci facciamo delle competenze: se pensiamo che sono belle, ci comporteremo in accordo con questo nostro pensiero; se noi pensiamo che sono complicate, difficili da raggiungere,…così questa nostra rappresentazione influenzerà il nostro modo di comportarci: non solo di capire o studiare le competenze, ma anche di raccontarle agli altri. Passare attraverso la metafora. La visualizzazione delle nostre rappresentazioni ci aiuta molto: pensare per immagini ci aiuta perché l’immagine non mente. E’ più difficile “imbrogliare” se stessi e gli altri solo parlando, ma quando si dice: questo strumento però dove ce l’ho, dove lo vado a prendere? Come lo apro? Se in questo momento ci viene un’immagine in mente non ci imbrogliamo: è l’immagine giusta, e se la visualizziamo lontana da noi è difficile che ci comportiamo nella vita di tutti i giorni come se le avessimo vicine e spendibili immediatamente. Tutto questo per chiederci: quando si evolve? Quando diventiamo grandi? Quando riusciamo identificare le nostre competenze, quando riusciamo a organizzarle e valorizzarle, e quando si trova e si dà senso a quello che si fa e a quello che si sa. Il dare senso è proprio la chiave che apre le nostre competenze: non si scappa dalla nostra immagine delle competenze: se ne abbiamo un’immagine difficile, irraggiungibile, allora lì non solo non organizziamo e non valorizziamo, ma non diamo neanche un senso a quello che facciamo e a quello che sappiamo. Abbiamo pensato a una frase per concludere queste giornate insieme, e solo una ci è venuta in mente, quella di Marco Aurelio, che dice: “A una sola cosa tendi e cerca con il tuo volere: essere a te stesso bello in ogni cosa che fai”. Nadia Bulgarelli: io ho il compito di collegare in breve gli interventi di questi 2 giorni con il corso sulla qualità nei servizi. Tutto è partito con la carta dei servizi, che è stata un’occasione per pensare alla qualità della relazione: la necessità di cercare la qualità della relazione educativa. Ma per fare questo, un’occasione fondamentale è la formazione. Vorrei scippare la definizione di competenza data per parlare di formazione, ringraziando espressamente questi due docenti che da anni ci seguono per il contributo che hanno dato a una formazione di qualità. Loro hanno parlato di competenza come la capacità di agire con iniziativa, responsabilità e creatività-ma pensiamo a quanto è vero anche in riferimento alla formazione: la formazione è la capacità di 32


riflettere con inventiva, con concentrazione, con responsabilità con curiosità e creatività: ovvero quello che abbiamo fatto in tutti questi anni e in queste due giornate grazie ai professori. Abbiamo utilizzato delle risorse: per le competenze, delle risorse relazionali, organizzative, tecnico-professionali; nell’ambito della formazione, delle risorse epistemologiche culturali tecniche e professionali in un contesto, quello formativo, capace di rielaborare la riflessione in un progetto educativo e relazionale e di sperimentazione e di ricerca. La formazione non ha valore se non si trasforma in un progetto educativo di sperimentazione e di ricerca: e questo è il punto per saldare formazione e professione. La qualità delle relazioni: è fondamentale chiederci quali sono gli elementi e le caratteristiche che deve avere una relazione perché sia qualitativamente buona. Sono tanti gli elementi… fra i tanti è fondamentale la capacità di considerare le diversità come un arricchimento e una risorsa e non come un ostacolo. E quando parliamo di diversità parliamo di tante diversità: di diversità di competenze (credo che in questi giorni questo sia emerso benissimo), di diversità di teorie e di modelli, di diversità di stili educativi (ognuno di noi ne ha uno: fino a che punto la diversità è una ricchezza/un ostacolo nella relazione con i bambini e coi genitori), diversità di identità personali, diversità di empatia e di capacità di ascolto e di osservazione nella relazione con gli adulti e coi bambini; diversità di percorso di apprendimento, perché non ne esiste uno solo che legittima la qualità della scuola, considerando l’errore non come disturbo all’apprendimento ma come un momento ineliminabile nel percorso d’apprendimento (non c’è un apprendimento senza errore); diversità di tempi individuali dei bambini e degli adulti, e anche di continuità e discontinuità: abbiamo lavorato molto sulla continuità perché abbiamo interpretato molto il ruolo dell’adulto come un ruolo di contenimento, però possiamo pensare invece a un ruolo di rottura, non solo dell’adulto ma anche del bambino, che può essere così costretto a tirar fuori le proprie competenze (pensiamo al momento del distacco, soprattutto al nido). Infine, vorrei riprendere il discorso sull’importanza del riconoscere le nostre competenze proponendo questa riflessione di Jodorowsky: nella sua autobiografia (“La danza della realtà”). Dice “Mi misi a insegnare quello che non sapevo, e così imparai un sacco di cose”. E’ un invito a valorizzare le nostre competenze ma anche a non avere paura di abbandonarle per impararne delle altre.

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Note

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