Tesi Magistrale / Barcelona the urban model

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BARCELONA U RBAN M ODE L the

/ strategie urbane

tra identità e globalizzazione

Tesi di Laurea Magistrale in Architettura di:

Valentina Lecchi 834447 Relatore: Maria Pilar Vettori

POLITECNICO DI MILANO SCUOLA DI ARCHITETTURA URBANISTICA INGEGNERIA delle COSTRUZIONI Facoltà di Architettura MI - CdS E12 Architecture Anno accademico 2015 / 2016



POLITECNICO DI MILANO SCUOLA DI ARCHITETTURA URBANISTICA INGEGNERIA delle COSTRUZIONI Facoltà di Architettura MI - CdS E12 Architecture Anno accademico 2015 / 2016

BARCELONA URBAN MODEL / strategie urbane the

tra identità e globalizzazione

Tesi di Laurea Magistrale in Architettura di:

Valentina Lecchi 834447 Relatore: Maria Pilar Vettori



BARCELONA URBAN MODEL / strategie urbane the

tra identitĂ e globalizzazione



Desidero ringraziare l’architetto Oriol Capdevila e tutto lo studio MBM per la gentile concessione del materiale che ha reso possibile lo sviluppo di questa tesi.


ABSTRACT Questa tesi nasce dalla volontà di sviluppare e approfondire

il tema della crescita e della riqualificazione urbana a partire dallo spazio pubblico, inserito in un contesto più ampio che riguarda il processo di globalizzazione e la volontà di preservare l’identità locale. A seguito di ricerche e analisi sul tema dell’identità in architettura e sul processo di globalizzazione che sta riguardando diverse tematiche non solo urbane, Barcellona si è rivelata essere il miglior casostudio a riguardo, grazie alla particolare storia politica e il rapido sviluppo della città avvenuto in maniera piuttosto concentrata negli ultimi quarant’anni. La tesi è volta non tanto a descrivere i cambiamenti che si sono susseguiti dalla caduta della dittatura fino ad oggi, quanto piuttosto ad analizzare il metodo con cui è stata ricostruita la città e quanto gli eventi che si sono svolti a Barcellona hanno modificato l’assetto e l’identità urbana, soprattutto dopo la loro conclusione. In particolar modo la tesi affronta, per ogni decennio a partire dagli anni Ottanta, il risultato che gli eventi hanno raggiunto -positivo o talvolta negativo- e ciò che hanno lasciato alla città, dopo: le prime elezioni politiche democratiche, i giochi olimpici, il Forum delle Culture, la riqualificazione del Poblenou.

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Fin da subito viene definito e analizzato il Modello Barcellona grazie soprattutto al materiale fornito dallo studio MBM e all’esperienza pratica degli architetti dello studio, in passato collaboratori di Oriol Bohigas, maggior esponente della riqualificazione della Barcellona socialista, e scrittore del libro Ricostruire Barcellona, testo-manifesto della ricostruzione della città “democratica” e punto di partenza per la realizzazione della mia tesi. Sul piano politico e sociale la città e la regione -Barcellona e la Catalogna- mantengono da sempre un legame inscindibile indipendente dal resto della Spagna: la cultura architettonica costituisce la dimensione collettiva e tangibile di quella che è l’ «identità catalana», tanto da essere stato definita, da dopo la dittatura, l’elemento trainante della gestione della città e del territorio. Proprio da queste condizioni inizia la ricerca, volta a dimostrare come una città possa affermarsi, quasi imporsi nel panorama internazionale -globale- pur mantenendo intatti gli elementi che più la caratterizzano, che meglio la identificano. Con l’avvento della democrazia le nuove condizioni politiche vennero considerate come una sfida sia dagli architetti che volevano riaffermare il proprio ruolo sociale e politico, sia dagli stessi politici, cui premeva dimostrare che è possibile gestire una città come Barcellona e cambiarne il volto senza grandi piani e imponenti finanziamenti in un arco ragionevole di tempo.

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Lo stesso atteggiamento, la capacità di affrontare ogni evento come una possibilità di crescita e non solo come un fatto definito in un determinato spazio e tempo, hanno da sempre caratterizzato il modo di costruire Barcellona. La tesi ripercorre e contestualizza questo modo di pensare la città in relazione ai più importanti eventi -architettonici e sociali- che hanno coinvolto la città, dalla riqualificazione del centro storico sostenuto con la prima democrazia dopo la caduta della dittatura fino alla concretizzazione del 22@ tutt’oggi in corso. La tesi si sviluppa in otto parti: due moduli introduttivi -premessa e introduzione- nei quali vengono esplicitate le condizioni di partenza della ricerca e la situazione politica, sociale e urbana nella quale si trovava Barcellona nel periodo storico individuato come inizio dello sviluppo della tesi; quattro capitoli a cui ognuno corrisponde un evento, uno per decennio -il modello Barcellona, i Giochi Olimpici del 1992, la conclusione della Diagonal Mar e il Forum delle Culture del 2004, la riqualificazione del Poblenou in 22@; due moduli conclusivi -dialoghi e conclusioni-, il primo sviluppato per mezzo di conversazioni tenute con gli architetti durante i mesi di ricerca in studio focalizzati per lo più sul lavoro svolto da e con Bohigas e sull’influenza che questo modo di pensare l’architettura e l’urbanità (urbanidad, in spagolo) ha avuto sulla percezione della città negli anni successivi, il secondo nel quale viene considerato cosa resta oggi del modello, cosa ancora identifica Barcellona, cosa l’ha resa città globale, come può essere contestualizzata nel panorama internazionale oggi.

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Premessa: UN GRANDE ESEMPIO / Nella premessa viene affrontato il tema dell’identità come elemento chiave per lo sviluppo di questa ricerca focalizzata sul ruolo dell’architettura nel contesto urbano e sulla definizione degli elementi che caratterizzano una città e la rendono diversa - o uguale- dalle altre. Una ricerca relativa agli elementi identitari di diverse città europee che coinvolge il lavoro di architetti provenienti da tutta Europa (“European Identity - Made in Europe” / Fundaciò Mies Van der Rohe), diventa utile per definire che non esiste una sola identità ma molteplici, e che nel caso di Barcellona ciò che maggiormente la caratterizza è lo spazio pubblico. Così più dettagliatamente viene definitivo il tema centrale attorno a cui si sviluppa la ricerca: Barcellona, come esempio di una città che può inserirsi nello scenario europeo pur mantenendo intatte le proprie peculiarità. Se adattarsi a degli standard è necessario per raggiungere determinati obiettivi, Barcellona è la dimostrazione che si può fare riqualificazione anche senza cadere nel processo di globalizzazione / omologazione. A questo scopo, Barcellona lavora sullo spazio pubblico come elemento di rigenerazione urbana e di miglior qualità della vita. Da qui parte un’analisi meglio approfondita nei successivi capitoli relativa al metodo utilizzato per formare e trasformare la città.

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Introduzione: BARCELLONA 1979 / Prima di affrontare l’importanza e lo sviluppo dello spazio pubblico a Barcellona, viene descritta la condizione in cui era stata lasciata la città che si vedeva costretta a dover ripartire dopo la morte di Franco e la fine della dittatura. Nel 1979 i socialisti (Partito Socialista Catalano) vinsero le prime elezioni democratiche e si trovarono a dover risanare una città deturpata da scelte politiche che ne avevano negato lo sviluppo e indebolito il ruolo antagonista rispetto alla capitale, Madrid. Il particolare momento storico e gli eventi che stavano caratterizzando una nuova epoca per la città obbligarono l’amministrazione ad assumere un atteggiamento lungimirante per poterla risanare con gli unici -pochi- mezzi a disposizione. E’ significativa, in questo contesto, la figura di Oriol Bohigas, poichè coinvolgerlo in questa responsabilità civica dimostra la presenza attiva della cultura architettonica in un momento di grande cambiamento non solo politico -dalla dittatura alla democrazia- ma anche sociale e architettonico, urbano. In quel momento l’unica possibilità di miglioramento della qualità urbana era rappresentata dalla ri-progettazione delle aree libere esistenti o appositamente create, rappresentate dalla strada e dalla piazza, elementi che vengono analizzati per la loro funzione e la diversità degli spazi che generano: per lo più si trattava di progetti relativi ad aree libere, inseriti all’interno di schemi di rigenerazione urbana più ampi. Viene anticipato il metodo di attuazione di tale interventi, meglio descritto nel capitolo successivo; l’attenzione di

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Bohigas alla micro-scala lo porta a lavorare per interventi puntuali, unica soluzione ritenuta valida per dare a Barcellona la possibilità di essere recuperata in poco tempo con i pochi mezzi a disposizione. Capitolo 1: IL MODELLO BARCELLONA / Il «Modello Barcellona» rappresenta il metodo più significativo applicato nel corso della riqualificazione della capitale catalana negli anni Ottanta. Al capitolo corrisponde il primo degli eventi trattati: la definizione e l’applicazione del modello come soluzione urbana per rigenerare il tessuto della città, degradato dalla politica dittatoriale. Se, come abbiamo detto, la tesi vuole analizzare ciò che resta dopo ogni evento, in questo caso si tratta di approfondire l’influenza che piccoli interventi puntuali possono avere su una trama urbana più ampia. E dunque nei primi anni Ottanta l’attività di Bohigas mira a risolvere, per mezzo di interventi puntuali, le emergenze di cui Barcellona era affetta, prime tra tutti il traffico e l’insufficiente spazio pensato per il pedone; all’epoca, come quasi in tutte le grandi città europee e soprattutto in quelle spagnole, non c’era più molto da costruire: esistevano alloggi in sovrannumero, un numero sufficiente di edifici pubblici ed edifici da conservare che non si sapeva come utilizzare; la costruzione della città era terminata soprattutto perché la conformazione compatta della città era vincolante in termini di espansione.

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La linea del porto e del mare impediva alla città di avere un andamento concentrico, il centro medievale era stato privato del suo valore commerciale e residenziale, che di fatto rappresentava il punto più degradato della città sia sul piano fisico sia sociale. Nella Barcellona storica del post-dittatura esistevano più bar che ritrovi per bambini, mancavano zone commerciali e centri di interesse; la periferia per contro subiva un tipo di degrado più comune alle altre città europee: zone dormitorio prive di qualsiasi immagine urbana, senza niente che costituisse un segno di identità collettiva per i cittadini, senza alcuno spirito o indicazione di centralità urbana. Dunque era necessario intervenire risanando il centro storico senza fargli perdere identità, e dare invece un’identità urbana alla periferia senza farle perdere la relativa qualità residenziale. Per esplicitare l’efficacia del modello che con alcuni, a volte minimi, interventi puntuali tentava di risanare interi quartieri, vengono analizzate alcune delle piazze e delle strade più significative sotto questo aspetto per il risultato ottenuto, a posteriori. Capitolo 2: VERSO I GIOCHI OLIMPICI ’92 / Ogni evento trattato è importante in modo differente, talvolta positivo altre volte negativo; sicuramente l’importanza -positivadelle Olimpiadi tenute a Barcellona nel 1992 è evidente ancora oggi per il nuovo volto che la riqualificazione urbana riuscì a dare alla città. L’evento rappresentò, nel momento in cui Barcellona vinse la candidatura, la possibilità di estendere il modello a una scala maggiore e arrivare finalmente ad aprirsi al mare.

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Le basi per Barcellona ’92 vengono predisposte dopo un periodo in cui il miglioramento urbano di spazi puntuali (trattati nel capitolo precedente) aveva dimostrato che la città è effettivamente un oggetto recuperabile in grado di rispondere alle necessità di riqualificazione della forma e della vita urbana, ragione per cui se il metodo di intervento puntuale aveva funzionato fino ad allora, lo stesso metodo applicato anche in quest’area avrebbe portato grandi risultati: il programma di riqualificazione urbana aveva come obiettivo di apportare miglioramenti alle infrastrutture e definire nuove aree di centralità per ottenere una ridistribuzione dei servizi e dell’urbanità esistente. Più precisamente, la trasformazione del porto avrebbe finalmente rappresentato la realizzazione di un nuovo centro più volte trattato nella teoria ma mai nella pratica. Inoltre, a fronte dell’occasione offerta dai Giochi Olimpici la città doveva considerare nuove strategie relative soprattutto alle attività che stavano cambiando, un esempio erano all’epoca le industrie che stavano lasciando spazio al settore terziario. Tutti questi elementi portarono a un cambiamento di scala, di localizzazione e di contenuto dei nuovi centri: con l’applicazione del modello a scala urbana si stava andando a definire il nuovo ruolo di centralità nel panorama europeo che avrebbe acquisito Barcellona, e si stabilivano le strategie che le avrebbero permesso di ricoprire tale carica davanti alla crescente importanza economica e rappresentativa che le era stata affidata. Pertanto, il capitolo affronta punto per punto le fasi del progetto che hanno riguardato l’apertura al mare, la

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riqualificazione dei quartieri residenziali e il recupero di aree dismesse, ma l’interesse maggiore è posto non tanto nella descrizione di tale sviluppo quanto nel risultato che ancora oggi è evidente. Non furono dunque i lavori in previsione delle Olimpiadi a conferire una nuova immagine alla città, quanto la capacità di considerare l’evento come l’occasione per migliorare la città che i cittadini avrebbero ereditato dopo, a conclusione dell’evento. Capitolo 3: DIAGONAL MAR + FORUM / Anche il progetto per portare a termine la Diagonal nell’area limitrofa al mare e il Forum delle Culture 2004 segnarono profondamente Barcellona. Se le Olimpiadi riuscirono a dare un nuovo volto e una nuova identità alla città, il progetto nell’area del Parc Forum ha generato oggi, dopo il termine dell’evento, un grande vuoto urbano. La Diagonal, a differenza di quanto era stato per la linea del mare disegnata per le Olimpiadi, era stata completamente gestita da privati -gruppo Hines, multinazionale americanache, a fronte di quelle che erano le nuove esigenze di mercato decisero di favorirne lo sviluppo immobiliario a discapito di quello terziario, a cui corrispondeva una richiesta sempre minore. Con la Diagonal Mar, iniziarono a sorgere i primi grattacieli sul lungomare orientale della città, tipologia del tutto nuova, all’epoca, per la Barcellona marittima; fu così che con l’intervento della multinazionale americana si affermò un

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modello di urbanizzazione molto diverso dalla Vila Olimpica. Per il progetto del Forum delle Culture bisognava invece considerare che nell’area destinata erano concentrati alcuni dei maggiori impianti infrastrutturali della città, tra cui il depuratore, l’inceneritore e le centrali elettrice. Siccome sarebbe stato impossibile pensare di delocalizzarle in tempo per avviare il progetto, l’unica soluzione da adottare sarebbe stata di incorporarle: si cerco di convertire in episodi urbani riconoscibili degli spazi che in altri contesti sarebbero stati marginali, come era tipico della tradizione urbanistica catalana. Da una parte l’ area destinata al Parc del Forum diventava un grande patchwork in asfalto che copriva ogni cosa, dall’ altra l’estensione della Diagonal fino al mare ha generato una periferia originale nei suoi caratteri più tipici rappresentati dalle grandi infrastrutture metropolitane riformate per diventare compatibili con le nuove funzioni di natura prettamente residenziale, commerciale e ricreativa. Se il modello olimpico che era fondato sulla strada e sull’isolato, gli elementi di crescita nella zona Diagonal e Forum furono rappresentati principalmente da residenze, uffici e hotel sviluppati in altezza con il nuovo scopo di disegnare un paesaggio eterogeneo: la grande piazza del Parc del Forum rappresentava lo spazio centrale attorno a cui disporre la crescita immobiliare. A conti fatti però il Forum delle Culture (anticipato dal progetto di estensione e completamento della Diagonal Mar) è stata una manifestazione poco frequentata rispetto

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alla trasformazione urbanistica -molto contestata- che ha comportato. Se il modello lavorava per parti e andava ad intervenire in modo puntuale sul tessuto urbano, il progetto a maxi-scala del Forum, soprattutto per ciò che resta oggi, è la sintesi della fine dell’urbanistica socialista che tanto aveva permesso a Barcellona di rafforzare e definire la sua identità, lasciando piuttosto un grande vuoto urbano poco contestualizzato, come simbolo di una globalizzazione che nega il carattere identitario a favore di nulla. Il capitolo si conclude con una considerazione poco positiva ma molto vera: “Il Forum non esiste, il Forum non è mai avvenuto” e inoltre, dopo, non ha lasciato nulla se non un vuoto molto lontano dalla scala umana che sempre aveva caratterizzato gli interventi della Barcellona socialista che si stava positivamente facendo spazio nel contesto internazionale. Capitolo 4: POBLENOU 22@ / Il Poblenou, storicamente industriale, rappresenta oggi una delle aree di miglior recupero urbano della città. Nel 2000 iniziò un lavoro di recupero del quartiere volta a trasformare l’area in nuovo polo tecnologico di Barcellona; concentrare nell’area industriale dismessa il nuovo settore digitale era parte del Plan 22@, contemporaneamente però il progetto di riqualificazione mirava a lavorare con equilibrio tra il vecchio e il nuovo, tra il mantenimento del tessuto industriale e l’inserimento della nuova produzione.

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Il Poblenou poteva ospitare nuove funzioni -ricerca, comunicazione, produzione digitale- pur lasciando spazio alle preesistenti, senza creare una spaccatura tra queste. Il quartiere mantiene oggi la sua identità: il polo tecnologico è stato realizzato mantenendo la stessa trama urbana del Poblenou industriale, che era ed è evidentemente la continuazione naturale della maglia dell’ Eixample di Cerdà; molti degli edifici sono stati recuperati, in alcuni casi con nuova funzione. Si è attuata una riqualificazione tramite trasformazione e recupero, in equilibrio tra loro, che hanno permesso al quartiere di mantenere, ampliare e rafforzare il suo carattere eterogeneo. Il piano di riqualifica del Poblenou, dal punto di vista urbano ha prestato molta attenzione alla storicità del quariere, lavorando verso obiettivi globali, ma riuscendo a non intaccare la sua identità storica e sociale. Il Poblenou è oggi polo tecnologico, luogo di aggegazione, parte della trama urbana storica. DIALOGHI / Intervistato in occasione dei quarant’anni dalla caduta della dittatura, Oriol Bohigas ripercorre la trasformazioni urbane che hanno coinvolto Barcellona, dal processo di recupero del centro storico fino alla costruzione del nuovo fronte marittimo. Durante una conversazione, le stesse tematiche vengono analizzate da Oriol Capdevila e Francesc Gual, soci dello studio MBM e colleghi dello stesso Bohigas, con il quale collaborarono a partire dagli anni Ottanta. L’esperienza

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personale e lavorativa viene utilizzata per ripercorrere le tematiche principali trattate capitolo per capitolo. CONCLUSIONI / Obiettivo della tesi non è elogiare Barcellona per la sua trasformazione urbana avvenuta negli ultimi quarant’anni, ma piuttosto utilizzarla come mezzo per riflettere sul tema dello sviluppo urbano attorno all’equilibrio tra due capisaldi della progettazione architettonica: l’identità e la capacità di una città di adattarsi al processo di globalizzazione che sta investendo non solo l’architettura ma ogni campo in cui siano coinvolti aspetti sociali ed economici. Utilizzando come esempi alcuni degli eventi che hanno coinvolto la capitale catalana dopo la fine della dittatura, si riesce a dimostrare che non esistete un modello, un modulo, che possa funzionare globalmente in ogni contesto: il fenomeno della globalizzazione ha positivamente posto degli obiettivi che ogni città deve -o dovrà- raggiungere per garantire una migliore qualità della vita agli abitanti. A fronte di questo obiettivo esistono però molteplici elementi -caratteristiche di qualsiasi natura- che, senza essere vincolanti ma piuttosto rappresentando uno stimolo e una peculiarità da difendere, producono diversi modi di costruire la città, seppur verso standard comuni.

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* This thesis is born with the purpose to develop and deepen the theme of urban growth and requalification starting from public space, inserted in a wider context involving the process of globalization and the will to preserve local identity. After research and analysis on the subject of identity in architecture and on the process of globalization that concern several not only urban themes, Barcelona revealed the best case-study in this respect, thanks to its particular political history and the rapid development of the city which took place in the last forty years. The thesis does not just want to describe the changes that occurred from the fall of the dictatorship until now, but rather it aims at analyzing the method with which the city has been reconstructed and how the events that came about in the city modified its asset and urban identity, above all after their conclusion. Above all, the thesis concerns, for each decade starting from the 80s, the positive or negative events that historical incidents affected the city after: the first democratic elections, the Olympic games, the Forum of Cultures, and the requalification of Poblenou. From the very beginning this work analyses and defines the Barcelona Model, thanks to the material provided by MBM studio and the practical experience of their architects, which collaborated in the past with Oriol Bohigas, major exponent

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of the requalification of socialist Barcelona and writer of the book Reconstrucció de Barcelona (Reconstructing Barcelona), text-manifest of the reconstruction of the “democratic” city. This was the starting point of this work. From a social and political aspect, the city and the region, Barcelona and Catalonia, always had a strong bond of independence from the rest of Spain: the architectonic culture constitutes the collective and tangible dimension of what «Catalan identity» is, so much so that, after the dictatorship, it was defined as the propelling element of the managing of the city and the territory. This research starts from these considerations, which prove how a city can affirm, almost impose itself in the international and global landscape and still preserve the elements which best characterize it, which best identify it. With the rise of democracy, the new political conditions were considered a challenge both from the architects who wanted to reclaim their social and political role and from politicians themselves, who wanted to prove it is possible to manage a city such as Barcelona and change its face without major plans and massive loans in a reasonable amount of time. The same attitude, the ability to face every event as a possibility of growth and not only as a fact defined in a determined time and space, always characterized the construction habits of Barcelona. This thesis retraces and contextualized this way of thinking the city with respect to the most important architectural and social events that involved the city, from the requalification

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of the city center, supported with the first democracy after the end of the dictatorship to the concretization of the 22@, still ongoing. The thesis develops in eight parts: two introductory modules – premise and introduction – where the starting conditions of the research are explained, together with the political, social, and urban situation in which Barcelona was in the historical period individuated as the beginning of this research. There are four chapters, each of them corresponding to an event, one for decade: the Barcelona model, the Olympic Games of 1992, the end of the Diagolan Mar and the Forum of Cultures of 2004, the requalification of Poblenou in 22@. Then, there are two conclusive modules dialogues and conclusions. The first one was developed through conversations held with the architects during the months of research in studio, mostly focused on the work accomplished by and with Bohigas and on the influence that this way of thinking architecture and urbanity (urbanidad, in Spanish) had on the perception of the city in the following years. The second one regards what is left today of that model, what still identifies Barcelona, what made it a global city, how it can be contextualized in the international landscape today.

Premessa: A GREAT EXAMPLE / The premise deals with the theme of identity as a key element for the development of this research, which focuses on the role of architecture in the urban context and on the definition of the elements that characterize a city and make it different or identical to

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the others. A research relative to the element of identity of different European cities that involves the work of architects coming from all over Europe (“European Identity – Made in Europe” / Fundaciò Mies Van der Rohe), becomes useful to define that there was not only one identity but several ones, and that in Barcelona’s case what best characterizes it is public space. Thus, the central theme this research revolves around is defined more in details: Barcelona, as a city which can place itself in the European scenery and still maintain its peculiarities. If it is necessary to adapt to certain standards in order to reach specific objectives, then Barcelona is the proof that there can be requalification without falling in the process of globalization / homologation. To do so, Barcelona works on public space as an element of urban regeneration and of better quality of life. From here starts the in depth analysis of the following chapters, concerning the method used to form and transform the city. Introduction: BARCELONA 1979 / Before dealing with the importance and the development of public space in Barcelona, the condition in which the city was left is described. The city was forced to restart after Franco’s death and the end of his dictatorship. In 1979 the socialists (Catalan Socialist Party) won the first democratic elections and found themselves in the condition of restoring a city disfigured by political choices that negated the development and weakened the role of antagonist with respect to the

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capital, Madrid. The particular historical moment and the events that were characterizing a new time for the city forced the administration to see the big picture to restore it with the only, few, means at disposal. It is significant, in this context, the figure of Oriol Bohigas, because his involvement in this civic responsibility proves the active presence of architectonic culture in a moment of great change, which was not only politic, from dictatorship to democracy, but also social and architectonic, urban. In this moment the only possibility of improvement of urban quality was represented by the re-designing of the existing free areas or specifically created, represented by the street and the square, elements that were analyzed for their function and diversity of the spaces that are generated. It was mostly projects concerning free areas, included within schemes of wider urban regeneration plans. The method of realization of such intervention is anticipated and will be explored more in detail in the next chapter. Bohigas’ attention to the micro-scale leads him to work for punctual interventions, only valuable solution to give Barcelona the change to be recuperated in a short time with the few means at disposal. Chapter 1: THE BARCELONA MODEL / The Barcelona model represents the most significant method applied in the course of requalification of the catalan capital in the 80s. This chapter deals with the first of the treated events: the definition and application of the model as a urban solution

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to regenerate the tissue of the city, degraded by dictatorial politics. If, as we said, the thesis wants to analyze what remains after every event, in this case it is necessary to explore the influence that small punctual interventions can have on a wider urban pattern. Therefore, in the early eighties Bohigas’ activity wants to solve, through punctual interventions, the emergencies that affected all Barcelona, above all traffic and the lack of space thought for pedestrians. Back then, like in almost any other European city and mostly in the Spanish ones, there was not much to build. The number of houses was too abundant, divided into a sufficient number of public buildings and buildings left with no purpose. The building of the city was finished because the compact shape of the city was binding in terms of expansion. The line of the harbor and of the sea prevented the city from having a concentric shape, the medieval center had been deprived of its commercial and residential value, that in fact represented the most degraded part of the city both on the physical and on the social level. In the historical Barcelona of post-dictatorship there were more bars than playgrounds for children, there were no commercial areas and interest areas. The outskirts of the city was undergoing a level of degradation that was common to the other European cities: dormitory towns with no urban image, nothing constituting a sign of collective identity for the citizens, with no spirit or indication of urban centrality. Therefore, it was necessary to intervene by restoring the

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city center without forcing it to lose its identity, while giving urban identity to the outskirts without depriving them of the relative residential quality. To express the effectiveness of the model that with some, sometimes tiny, punctual interventions aimed at restoring some entire neighborhoods, some of the most significant squares and streets will be analyzed under this lens for the result they achieved afterwards. Chapter 2: TOWARDS THE OLYMPIC GAMES ‘92 / Every event is dedicated a different approach, sometimes positive, sometimes negative. For sure, the positive importance of the Olympics that took place in Barcelona in 1992 is still evident nowadays for the new face this urban requalification managed to give to the city. The event represented, when Barcelona won the candidature, the change to extend the model to a larger scale and manage to open to the sea. The basis for Barcelona ’92 were set after a period where the urbanistic improving of circumscribed spaces (treated in the previous chapter) had shown that the city was effectively a recoverable object which could answer the need of requalification of urban shape and life. Therefore, it the method of punctual intervention had worked until that moment, the application of the same method in that area would have led to great results: the program of urban requalification had the objective to improve the infrastructures and define new central areas to obtain a

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redistribution of the services and of the existing urbanity. In particular, the transformation of the harbor would have represented the realization of a new center, often times discussed in theory but never put in practice. Moreover, due to the opportunity the Olympic Games brought about the city had to take new strategies into account new strategies concerning above all the activities that were changing, such as the factories that were leaving space to the tertiary sector at the time. All these elements led to a change of scale, localization and content of the new centers. With the application of the model to a urban scale, a new role of centrality in the European landscape was about to be created, and the strategies that would allow it to be in charge of such a role in front of the growing economic and representative importance that was given to the city. Therefore, the chapter focuses on a point by point analysis of the phases of the project that concerned the opening to the sea, the requalification of residential neighborhoods and the recovering of abandoned areas. Nonetheless, the attention is not on the description of this development as much as in the result, which is still evident now. It is possible to understand that the new image of the city was not given by the new works for the Olympics as much as by the ability to consider the event as an occasion to improve the city that the citizen would have inherited afterwards, as a conclusion of the event.

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Chapter 3: DIAGONAL MAR + FORUM / The project to complete the Diagonal in the area close to the sea and the Forum of Cultures 2004 deeply signed Barcelona as well. If the Olympics managed to give a new face and a new identity to the city, he project of the Parc Forum generated today, after the end of the event, large urban void. Differently to what had been designed for the sea line for the Olympics, the Diagonal had been completely managed by privates – Hines group, American corporate – that, according to what the new requirements of the market were, decided to favor its real estate development over the tertiary one that was receiving increasingly small demand. With the Diagonal Mar, the first skyscrapers on the eastern seafront started to rise. They represented a completely new typology for maritime Barcelona at the time. This was how the intervention of an American corporate affirmed a completely different model of urbanization from the Olympic City. For the project of the Forum of Cultures needed instead to consider that the appointed area contained some of the largest infrastructural implants of the city, among which the purifier, the incinerator, and the electric centrals. Since it would have been impossible to delocalize them on time to start the project, the only solution to adopt would have been to incorporate them: they tried to convert the spaces that in other contexts would have been marginal into recognizable urban episodes, as it was typical of Catalan urbanistic tradition.

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On the one side, the area appointed to the Park of the Forum became a great pave patchwork that covered everything, on the other hand the extension of the Diagonal line to the sea generated some outskirts original in their typical features, represented in their great metropolitan infrastructures reformed to become compatible with the new functions, mostly residential, commercial, and recreational. If the Olympic model was founded on the street and on isolation, the elements of growth of the Diagonal and Forum zones were mainly represented by residences, offices, and hotels developed in vertical, with the new purpose of designing an heterogeneous: the large square of the Park of the Forum represented the central space around which to dispose the estate growth. Nonetheless, the Forum of Cultures (anticipated by the project of extension and completed by the Diagonal Mar) has not been a largely popular manifestation compared to the urbanistic transformation it involved, which was very contested. If the model worked on the parts and intervened punctually on the urban landscape, the maxi-scale project of the Forum, above all for what is left of it today, is the synthesis of the end of socialist urbanistic that had allowed Barcelona to strengthen and define its identity, rather leaving a little contextualized urban void, as the symbol of a globalization that denies identity and promotes nothing in particular. The chapter concludes with a rather not positive but very true consideration: “The Forum does not exist, the Forum

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never happened” and moreover, afterwards, did not leave anything if not a void which is very far from the human scale that had always characterized the interventions of the socialist Barcelona that was positively making space in the international context. Chapter 4: POBLENOU 22@ / Poblenou, historically industrial area, represents today one of the best areas of urban renovation of the city. In 2000 the works of recovery of the neighborhood started, aimed at transforming the area in the new technological pole of Barcelona. Part of Plan 22@ was to concentrate in the abandoned area the new digital sector, yet the project of requalification wanted to work with balance the old and the new, the maintenance of the industrial tissue and the insertion of new production. Poblenou could host new functions – research, communication, digital production and leave space to the pre-existing ones – without creating a gap between them. The neighborhood maintains its identity even today: the technologic pole has been realized keeping the same urban patter of industrial Poblenou, that was and is evidently the natural continuation of the tissue of the Eixample of Cerdà: many of the buildings have been restored, in some case with a new function. A requalification through transformation and recovery was carried out, keeping the two balanced between them, which allowed the neighborhood to widen and strengthen its heterogeneous character.

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The recovery of Poblenou, from a urban point of view was very attentive towards the historicity of the neighborhood, working for global purposes but also not compromising its historical and social identity. Poblenou is today a technological pole, meeting place, part of the urban historical pattern. CONVERSATIONS / Oriol Bohigas, interviewed on the occasion of the forty years since the fall of the dictatorship, describes the urban transformations involving Barcelona, ​​from the historical center recovery process to the construction of the new sea front. During a conversation, the same issues are analyzed by Oriol Capdevila and Francesc Gual, members of MBM and colleagues of Bohigas, with which collaborated since the early eighties. Personal experience is used to discuss about the main themes of each chapter. CONCLUSIONS /The goal of the thesis is not to praise Barcelona for its urban transformation that occurred in the last forty years, but use it to reflect on the urban development, balanced between the local identity and the process of globalization.By using some events as a key points for the urban transformation, it can be proved -through the analysis of Barcelona- that a global model -a strict module- does not exist; indeed it is impossible to find a common strategy for all the contexts. Globalization set minimum benchmarks to the cities in order to guarantee a

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certain quality of lifestyle to the inhabitants. But there is also a multitude of elements that ,without being restrictive, they can represent different ways of building the city, in order to preserve the local identity.

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PREMESSA UN GRANDE ESEMPIO

Identità locale e globalizzazione Perchè parlare di Barcellona 49

INTRODUZIONE BARCELLONA 1979

Rinascita dopo la dittatura 59

CAPITOLO 1 IL MODELLO BARCELLONA Ricostruire la città Primi anni ‘80

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CAPITOLO 2 VERSO I GIOCHI OLIMPICI ‘92 Un nuovo volto 1987-1992

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CAPITOLO 3 DIAGONAL MAR+FORUM

Forum delle culture 2004 Il fallimento di un progetto fuori scala 185

CAPITOLO 4 POBLENOU / 22@

Uno sguardo al passato La ricerca dell’identità 223

DIALOGHI

Barcellona, chi l’ha costruita e chi la vive 241

CONCLUSIONI

Cosa resta del modello 253

BIBLIOGRAFIA

Volumi, documenti ufficiali



PREMESSA


UN GRANDE ESEMPIO IDENTITA’ LOCALE E GLOBALIZZAZIONE: PERCHÈ PARLARE DI BARCELLONA



Questa tesi nasce inizialmente come riflessione sul valore

dell’ identità. Forse non del tutto consapevole, il mio lavoro inizia a marzo del 2016, quando appena tornata da un anno di studi all’estero -prima a Lisbona, poi a Madrid- mi interrogo su quale sia il giusto approccio al progetto che sto per iniziare, l’ultimo della mia carriera universitaria, sempre ammesso che esista un metodo, o uno solo. Facendo tesoro di quanto appreso sia negli anni di studio a Milano, sia durante i mesi di Erasmus, mi rendo conto che l’architettura racchiude in sè tante, tantissime, molteplici tematiche: l’analisi del contesto, la storia del luogo, le caratteristiche della società, le politiche amministrative, i fattori climatici, la struttura degli edifici, la scelta dei materiali, le necessità e le abitudini dei cittadini, gli eventi che definiscono e influiscono sullo sviluppo urbano e qualsiasi altro elemento che caratterizzi un progetto per le sue peculiarità. In questo modo inizio a interrogarmi su quali siano le caratteristiche principali che non possono mancare in un progetto perché sia considerabile un buon progetto, e come queste caratteristiche possano -e debbano- coesistere. Mi risulta ovvio che ciò che distingue un progetto è dunque la sua stessa identità, che può dipendere dalla relazione con il contesto o con la storia del luogo, dai materiali e dalla struttura scelti per la costruzione, dalle prestazioni e le tecnologie che caratterizzano un progetto, dalla qualità urbana che esso genera, dall’impatto sociale che ne deriva.

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E così nasce la domanda che poi mi ha condotta a finalizzare questo lavoro di ricerca: esiste una sola identità? o più di una? e quante? Si parla sempre più di identità europea e di identità locale, di globalizzazione come fenomeno di perdita del valore identitario. Ma cosa significa davvero identità?

«identità»

[i-den-ti-tà] s.f. dal lat. tardo identĭtas -atis, der. di idem «medesimo» 1.Il complesso dei dati personali caratteristici e fondamentali che consentono l’individuazione o garantiscono l’autenticità di una persona o di una cosa; l’essere appunto quello e non un altro: stabilire, provare l’i. di qlcu. o qlco. 2. riferito a una cosa: ciò che essa è, le sue particolari caratteristiche: l’identità di un fenomeno.

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In termini architettonici possiamo dunque dire che l’identità di un progetto (a qualsiasi scala, si intende) è data dalla somma delle caratteristiche che lo definiscono. E così ho iniziato a chiedermi e a informarmi, soprattutto in relazione alle mie personali esperienze all’estero, riguardo cosa davvero identifichi non solo l’architettura -portoghese, spagnola, italiana- quanto il metodo progettuale e l’approccio al progetto stesso. Anche tra gli architetti più famosi, la questione dell’identità resta una domanda aperta, alla quale non è sufficiente dare una sola risposta ma anzi è in atto una continua riflessione sul valore di ciò che ci identifica, ciò che ci unisce e ciò che ci accomuna. È ovvio considerare che esistono diverse visioni, accompagnate da diverse provenienze geografiche, culturali e professionali: appartenere ad un luogo significa assimilarne le caratteristiche e, salvo rare eccezioni, metterle in pratica laddove si progetta: questo significa che crescere, studiare o lavorare in un posto influisce (quasi) sempre sul metodo. Sarebbe scontato dire che, anche solo a livello europeo, avere una formazione nordica comporta molte differenze rispetto a una cultura mediterranea, ma questo non è e non deve certo essere vincolante per l’architetto che si trova a progettare in diversi contesti. Lo scenario architettonico europeo mostra infatti una somma qualitativa di identità, una ricchezza permessa grazie al rispetto delle differenze. Per quelle che sono state le mie esperienze di studio in altri paesi - in altre università- posso dire di essermi interessata in particolare modo al valore dello spazio pubblico, alle

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necessità di convivenza dei cittadini anche e soprattutto in relazione ai mezzi di trasporto, al riconoscimento del valore locale, alla relazione con l’esistente, alla storia della città; a tal proposito, dopo mesi di ricerca, sono arrivata a concludere che nessuna città meglio di Barcellona, sarebbe stata più utile da analizzare, per riuscire a dare una risposta alla mia domanda:

ma esiste una sola identità? o più di una? e quante?

In merito a questo tema si sono espressi, tra gli altri, Fabrizio Barozzi e Alberto Veiga, soci dello studio da loro fondato proprio nel cuore della capitale catalana. Al dibattito “Is there a European Identity?” 1 sono stati tra i tanti a sostenere l’ effettiva esistenza di un’identità europea, come somma delle molteplici identità locali. Per i due architetti dello studio spagnolo la ricchezza della cultura europea sta proprio nella diversità delle identità di ciascuna regione, nell’apertura verso ciò che è “altro da se stesso” più che nella ricerca di uniformità. Il loro pensiero porta a sostenere l’importanza del metodo più che del risultato: a scala globale riconoscono un’attitudine comune tra gli architetti europei, elemento che ritengono più importante dell’identità. In questo senso ciò che caratterizza il lavoro (della maggioranza) degli architetti europei è l’approccio al progetto, l’idea della città e dello spazio

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“European Identity - Made in Europe”: indagine svolta dalla fondazione Mies Van Der Rohe Barcelona; comprende interviste a sedici architetti europei che hanno partecipato -come candidati, finalisti, vincitori, emergenti- all’ European Union Prize for Contemporary Architecture- Mies Van Der Rohe Award.

1


pubblico. Che significa che l’architetto deve sempre riflettere sulle caratteristiche storiche -le radici- che identificano la città, qualsiasi essa sia, perché proprio questo approccio rispecchia l’attitudine comune legata al panorama delle città europee. Dunque, per riassumere, si può dire che la giusta attitudine, secondo i due architetti, per parlare di architettura sta nella relazione tra la città e l’architetto, il quale in questo senso deve porsi molte domande: come si costruisce una città? Come si genera la densità? Come si definisce una strategia? La risposta che Barozzi e Veiga ci danno è quasi ovvia, ma non sempre messa in pratica:

A RCH I T EC T U R E I S N OT A N O BJ EC T; I T IS A PA RT O F THE C I T Y / “l’architettura non è un oggetto, è essa stessa parte della città.”

Questa è secondo loro la visione comune diffusa tra gli architetti europei, e questa è l’idea che definisce l’importanza dello spazio pubblico.

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A Barcellona, in particolar modo, non sono gli edifici a testimoniare la crescita e lo sviluppo urbano, ma piuttosto lo spazio pubblico: è più importante, soprattutto per quello che è il metodo da sempre adottato nella pianificazione della capitale catalana, mostrare come lo spazio pubblico genera e definisce la città, più di quanto facciano i singoli edifici. Inoltre, se si parla di identità non va dimenticato che Barcellona rappresenta un grande esempio non solo dal punto di vista architettonico, ma anche e soprattutto culturale, nel senso più ampio del termine, e questo viene sottolineato da entrambi gli architetti seppur non siano loro stessi catalani. Da sempre la città e la regione -Barcellona e la Catalognasono legate da un binomio inscindibile indipendente dal resto della Spagna. La cultura architettonica costituisce la dimensione collettiva e tangibile di quella che è l’ «identità catalana», tanto da essere l’elemento trainante della gestione della città e del territorio. La città, negli ultimi quarant’anni ed anche prima, ha dimostrato di saper far fronte ai vari cambiamenti cui è stata sottoposta. Con l’avvento della democrazia (le prime elezioni politiche dopo la fine della dittatura furono nel 1979) le nuove condizioni politiche vennero considerate come una sfida sia dagli architetti che volevano riaffermare il proprio ruolo sociale e politico, sia dagli stessi politici, cui premeva dimostrare che è possibile gestire una grande città come Barcellona e cambiarne il volto senza grandi piani e imponenti finanziamenti in un arco ragionevole di tempo.

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Allo stesso dibattito ha partecipato anche Ricardo Bak Gordon, architetto portoghese che ho avuto il piacere di sentir parlare più volte in diverse conferenze durante i miei mesi di studio a Lisbona e in seguito anche a Porto, in occasione dell’ inaugurazione della Porto Academy ‘15. Sulla questione dell’identità europea, l’architetto portoghese sostiene che tale identità continuerà ad esistere fino a quando gli architetti lavoreranno perché essa non vada persa, lasciando che il fenomeno della globalizzazione prevalga. Soprattutto a causa del fatto che molti studi lavorano per progetti al di fuori del contesto europeo e che spesso la committenza viene da Paesi che non hanno alle spalle la storia e il processo architettonico che tanto caratterizza l’Europa, è importante che gli architetti invece continuino ad avere la consapevolezza di ciò che distingue la nostra educazione -la nostra cultura: ogni edificio ricopre un ruolo importante all’interno di una città; non tutti gli edifici hanno la stessa funzione e rispondono alle stesse necessità. E’ interessante la soluzione che l’architetto portoghese suggerisce perché le nostre tradizioni non vadano perse, pur aprendo il nostro sguardo a una visione globale dell’architettura: è utile progettare secondo un programma affinché ogni edificio -ogni gesto architettonico- abbia ben definita la sua identità. Solo riconoscendo e mettendo in pratica le differenze tra i diversi programmi (es: differenza tra pubblico/privato) e il ruolo che ogni progetto possiede, si potrà lavorare nel rispetto della continuità della città. L’architettura non è l’edificio in sè, ma la relazione che esso genera con gli altri

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attorno. E, elemento fondamentale di questa relazione è lo spazio pubblico. Come si erano espressi Barozzi e Veiga per Barcellona, allo stesso modo Bak Gordon ritiene che un’importante aspetto di Lisbona sia rappresentato dallo spazio pubblico: esso va progettato con cura e rispetto non solo del passato, ma anche del futuro. Inoltre aggiunge una considerazione sul tema dell’ innovazione: essa rappresenta un elemento molto importante per l’architettura degli ultimi anni, ma bisogna che sia considerata come una qualità aggiuntiva, che al progetto non toglie niente di quelle che sono le caratteristiche che lo identificano. Di fatto Bak Gordon dice che:

“la più grande innovazione non sta nella forma o nel materiale, ma nella capacità di generare uno spazio che cambi e influenzi la vita dei cittadini in modo profondo e positivo”. Per concludere, l’architetto portoghese ritiene che l’identità europea sia diversificata al suo interno, ma fortemente definita da diverse caratteristiche che, ripete, è importante preservare adesso e nel futuro: la capacità di progettare in relazione al contesto; la continuità e il dialogo con l’esistente; il sapersi -e volersi- relazionare con la storia passata. Di questo metodo, porta come esempio il progetto della Baixa

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di Lisbona, quartiere localizzato nel cuore della città, andato completamente distrutto e ricostruito dopo il terremoto del 1755: questa trasformazione, radicale e profonda, manifesta una grande abilità nel relazionarsi con la città preesistente non solo fisicamente ma anche e soprattutto nel modo di vivere la città. In ultimo, è utile considerare anche la partecipazione di Maria Langarita (studio Langarita-Navarro, Madrid) al dibattito “Is there a European Identity?”, perché se pur distante dalle considerazioni di Barozzi e Veiga e Bak Gordon in merito allo spazio pubblico, ritengo che la sua formazione sia assolutamente affine all’insegnamento che ho ricevuto durante il semestre di studi a Madrid. L’architetto spagnolo sostiene, e questa è assoluta verità, che l’architettura europea è stata costruita passo dopo passo nel corso di molti secoli, durante i quali ha accumulato molte differenze sia di metodo che di circostanze verificate. Avere memoria della propria cultura e conoscere le diversità è la ricchezza più grande che gli architetti europei possiedono. E’ necessario avere uno sguardo globale verso il modo di fare architettura, ma è altrettanto interessante e opportuno difendere approcci differenti così da avere uno sguardo aperto verso ciò che è “altro”. In particolar modo, Langarita prende a esempio, per parlare di identità dello spazio in relazione a Madrid, i grandi progetti di riuso come il Matadero o il Palacio de Bellas Artes, entrambi edifici riqualificati per essere messi a disposizione del pubblico. In questo senso l’architetto

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spagnolo è distante dal modo di concepire lo spazio pubblico rispetto a quanto detto per Barcellona e Lisbona: se prima, parlando di spazio pubblico esso si identificava soprattutto con piazze e strade, luoghi di connessione tra gli edifici, per Langarita invece è rappresentato maggiormente dagli edifici, con particolare attenzione a quelli riabilitati a spazi multifunzionali per servire le diverse esigenze dei cittadini (e della città). Questa scelta di fatto rispecchia molto bene la caratteristiche di Madrid che ho vissuto in prima persona durante i miei studi, esattamente come per le considerazioni di Bak Gordon, che descrive in maniera minuziosa la percezione che ho avuto di Lisbona. Pertanto, ho ritenuto che l’unico modo per capire davvero l’importanza dello spazio pubblico a Barcellona fosse percepirlo in prima persona, più che leggerlo sui libri di testo: è iniziata così la mia collaborazione in loco con lo studio MBM, in particolare modo con l’architetto Oriol Capdevila, che avuto modo di ascoltare, intervistare e che mi ha inoltre fornito buona parte del materiale utile a svolgere questa ricerca.

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INTRODUZIONE


BARCELLONA

1979 RINASCITA DOPO LA DITTATURA



La

storia recente di Barcellona intravede il suo inizio nel 1979 anno in cui, dopo la fine della dittatura franchista (1975), le elezioni politiche municipali portarono alla vittoria della coalizione socialista, capeggiata dal giovane sindaco Narcis Serra. L’immediata conseguenza di tale vittoria fu una costante ricerca dell’affermazione di indipendenza politica, culturale ed economica che non poteva prescindere dallo sviluppo urbano della capitale catalana. Il particolare momento storico e gli eventi che stavano caratterizzando una nuova epoca per la città, obbligarono l’amministrazione ad assumere un atteggiamento lungimirante, come unica soluzione alle sfide che si sarebbe trovata ad affrontare. Per spiegare quanto accadde successivamente, bisogna fare un passo indietro: va detto che fino a quel tempo Barcellona, che ricopriva un ruolo di subordinazione rispetto alla capitale spagnola, era stata caratterizzata da una forte decadenza, soprattutto del centro storico, sviluppata nei decenni precedenti e consolidata durante la dittatura. Questo aveva determinato mancanza di servizi, di igiene e di sicurezza sul piano sociale e un forte disordine che riguardava l’assetto urbano. Così, per tornare al 1979, la giunta appena formata si trovava a dover risanare i problemi di una Barcellona quasi deturpata dal porciolismo 1, nella quale erano evidenti una dotazione irrisoria di spazio pubblico, un’insufficiente sistema di illuminazione e un generale deficit di infrastrutture sociali. Con l’avvento della democrazia le nuove condizioni politiche

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porciolismo: periodo storicopolitico cui faceva capo José María de Porcioles Colomer, sindaco di Barcellona durante il franchismo (1957-1973).


vennero considerate come una sfida sia dagli architetti che volevano riaffermare il proprio ruolo sociale e politico, sia dagli stessi politici, cui premeva dimostrare che è possibile gestire una grande città come Barcellona e cambiarne il volto senza grandi piani e imponenti finanziamenti in un arco ragionevole di tempo. Bisogna considerare che già durante la dittatura, la crisi politica aveva generato malcontento e pressioni per un miglioramento della gestione del lavoro e del territorio. Così, instaurata la democrazia, era necessario riorganizzare -e organizzare ex novo, quando necessario- alcune strutture tecniche che fossero efficienti nella pubblica amministrazione. E’ significativo, in questo senso, la figura di Oriol Bohigas 2: coinvolgerlo in questa responsabilità civica conferma la presenza attiva della cultura architettonica e del suo intervento in tutti i momenti di cambiamento. Per citarlo, Barcellona era stata maltrattata dal “deficit della forma”, privata di un’adeguata rappresentatività civica. E dunque per questo Serra, fin dall’inizio del suo incarico, aveva chiaro che se si potevano ricondurre a una fallimentare gestione dell’urbanistica i motivi di decadenza della città, era proprio nell’urbanistica che si sarebbe trovata la chiave per rendere Barcellona la nuova metropoli del Mediterraneo. Così, dall’incontro di Serra con Bohigas nacquero le direzioni basilari delle trasformazioni a cui si sarebbe sottoposta la città: viene dunque affidato all’architetto catalano e ad alcuni collaboratori, il compito di inventare e mettere in atto una nuova strategia di intervento sulla città.

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2 Oriol Bohigas: architetto e urbanista barcellonese, è stato professore presso la facoltà di Barcellona. Fondatore insieme a J. Martorell e D. Mackay dello studio MBM, ha progettato, in collaborazione con A. Puigdomènech, lo schema direttore della Città Olimpica per i giochi del 1992.


In una città a crescita zero come era Barcellona nei primi anni Ottanta, le uniche possibilità di intervento per attuare operazioni di riassetto e riequilibrio sulla città consistevano nella riprogettazione delle aree libere esistenti o appositamente create. Tra queste, Bohigas individua come elemento centrale della qualità urbana di un luogo, la strada in quanto sede di molteplici attività differenziate e complesse: transito veicolare e pedonale, commercio, servizi e infine abitazioni e uffici che gravitano su essa. Per questa ragione vengono inevitabilmente escluse a priori soluzioni radicali di totale pedonalizzazione o, all’opposto, di grandi arterie urbane di scorrimento, che già in passato avevano dimostrato il loro effetto sul tessuto urbano, sia una volta realizzate, sia quando ancora in fase di progetto minacciavano espropri che spesso sono stati ragione di abbandono e degrado per il quartiere. Risulta evidente che la politica di Bohigas -la sua attenzione alla microscala- era volta a rendere all’agglomerato urbano la chiarezza dei rapporti con i suoi limiti e tra le sue parti. La definizione dei criteri di intervento e cioè, da una parte l’attenzione al caso particolare e dall’altra la preoccupazione della leggibilità della città nel suo insieme, in unione a una certa sfiducia manifestata negli effetti immediati di una pianificazione di tipo tradizionale (piani generali e di dettaglio, normative, ecc.), portarono a ritenere più adatta alla realizzazione degli obiettivi proposti la stesura e l’attuazione di interventi puntuali.

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Per la maggior parte si trattava di progetti relativi ad aree libere, inseriti all’interno di schemi di rigenerazione urbana più ampi, che talvolta prevedevano anche interventi di sostituzione edilizia e ristrutturazione sull’edificato, considerati in generale come effetto indotto dalla riqualificazione dello spazio pubblico. Significativa di questo metodo di intervento, non fu solo la scelta delle soluzioni da adottare ma altresì la gestione dei progetti da parte degli uffici urbanistici di nuova formazione: in meno di due anni vennero realizzati più di ottanta progetti, che consentirono così di avere effetti immediati e un accumulo di esperienza senza precedenti. E’ per questo che Barcellona rappresenta, a partire da quel momento, un esempio (in seguito potremo dire un «modello»); anche perché, inoltre, il criterio adottato di assoluta autonomia spaziale di ogni singolo intervento non vincola in nessun modo la realizzazione di tutti gli altri previsti nella zona qualora, o la mancanza di risorse finanziarie o mutate condizioni, non ne rendessero più opportuna la realizzazione. Se si analizza il complesso degli interventi, attuati o in programma nei primi anni Ottanta, si osserva abbastanza facilmente che, la nuova pianificazione della città, a parte gli aspetti politici, tecnici o metodologici analizzati altrove, tende a trovare una soluzione in termini di architettura a tre problemi fondamentali:

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1. La fine della città, cioè l’insieme dei punti in cui la periferia viene a contatto con quanto non è più pensabile in termini di paesaggio urbano o di uso del suolo, in cui il territorio cinge la città senza realmente appartenerle; 2. la relazione città/mare: la Barcellona del post porciolismo è alienata dalla interferenza delle attività portuali e industriali e dalla presenza di grosse infrastrutture disposte parallelamente alla costa; 3. la ricostruzione di un rapporto tra spazio libero/ spazio edificato tale da incidere sulla qualità dei luoghi all’interno della città, per ridare un significato specifico a ognuno, un’identità particolare che crei gerarchie formali e d’uso per una leggibilità globale della città dal suo interno.

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CAPITOLO 1


IL MODELLO BARCELLONA RICOSTRUIRE LA CITTÀ 1981-1987


ÂŤmodelloÂť [mo-dèl-lo] s.m. Termine di riferimento ritenuto valido come esempio o prototipo e degno d’imitazione; cosa o persona assunta come soggetto per un ritratto, un disegno, una costruzione ecc. / sin. esemplare, campione: un modello da imitare; prendere a modello qlcu. o qlco.


Quando si pensa alla riqualificazione della capitale catalana,

si cita per lo più il notevole progresso architettonico dovuto all’organizzazione dei Giochi Olimpici del 1992, in riferimento soprattutto alla Villa Olimpica. In realtà, l’evoluzione urbana di Barcellona inizia prima e continua anche dopo le Olimpiadi. A partire dai primi anni Ottanta, effettivamente dal 1981, l’attività di Bohigas mira a risolvere, per mezzo di interventi puntuali, le emergenze di cui Barcellona era affetta, prime tra tutti il traffico e l’insufficiente spazio pensato per il pedone. Arrivati agli anni Ottanta, come quasi in tutte le grandi città europee e soprattutto in quelle spagnole, non c’era più molto da costruire. Si può, esagerando, dire che a Barcellona non c’era più bisogno di costruire nulla: esistevano alloggi in sovrannumero, un numero sufficiente di edifici pubblici ed edifici da conservare che non si sapeva come utilizzare; la costruzione della città era terminata. Quel che restava da fare era riutilizzarla, ricostruirla, trovare un modo in cui tutte le nuove attività potessero realizzarsi nei “contenitori” esistenti; la città andava pensata come un problema di ricostruzione e non di espansione dell’ esistente. Si stava imponendo dunque un nuovo modo di intendere l’urbanistica, che non doveva essere più solo normativa, anzi probabilmente non doveva più essere normativa, l’urbanistica doveva diventare propositiva; la ricostruzione doveva in ogni modo dipendere dalla promozione, dalla gestione e dall’organizzazione delle amministrazioni statali e comunali. In questo senso la normativa restrittiva non serviva a un’urbanistica che proponeva dei cambiamenti radicali, in quanto l’amministrazione comunale

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si trovava frenata nelle sue possibilità di azione da quelle stesse norme create per limitare gli abusi dell’edilizia, e in certi casi poteva agire correttamente solo andando contro questo tipo di normativa. Questo tipo di atteggiamento creava inevitabilmente un problema, poichè era necessario un cambiamento di metodologia negli strumenti di controllo urbanistico, ed era difficile da risolvere perché l’urbanistica antica, -quella normativa- era appoggiata da leggi che sarebbe stato impossibile cambiare rapidamente e completamente. Inoltre va aggiunto che il degrado in cui si trovava in centro storico della città in quel periodo rappresentava un problema presente anche in altre città europee, ma che qui sembrava più grave e più sentito. Si può, seppur in modo approssimativo, definire la Barcellona dell’epoca come la sommatoria di tre parti: la città medievale, l’espansione del XIX secolo (che costituiva quasi un terzo della superficie della città), e poi la periferia costruita a partire dagli anni ’50 fino agli anni ’70, che rappresentava il punto più critico di organizzazione formale e coesione sociale. Ci si trovava perciò ad avere, a causa della linea del porto e del mare che impediva alla città di avere un andamento concentrico, un centro medievale privo del suo valore commerciale e residenziale, che di fatto rappresentava il punto più degradato della città sia dal punto di vista fisico sia dal punto di vista sociale. Esistevano più bar che ritrovi per bambini, mancavano zone commerciali e centri di interesse; restava solo uno scenario turistico in cui all’ interno degli edifici non si trovavano

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né appartamenti salubri, né locali commerciali, né uffici amministrativi ad accezione di quelli comunali. Dall’altra parte la periferia subiva un tipo di degrado più comune alle altre città europee: zone dormitorio prive di qualsiasi immagine urbana, senza niente che costituisse un segno di identità collettiva per i cittadini, senza alcuno spirito o indicazione di centralità urbana. Qui, anche se esistevano zone estremamente degradate, la maggior parte degli appartamenti era mediamente buona, però mancava un disegno urbano: le aree libere erano spazi di risulta, lasciate senza urbanizzazione dalla speculazione edilizia. Dunque era necessario intervenire risanando il centro storico senza fargli perdere identità, e dare invece un’identità urbana alla periferia senza farle perdere la relativa qualità residenziale: perché ciò risultasse possibile era necessario procedere per parti, depianificare in quanto l’eccessiva pianificazione aveva mostrato fino ad ora tutti i suoi difetti, specialmente in una città come era Barcellona agli inizi degli anni Ottanta; non era più necessario produrre con una pianificazione a lungo termine, si era già dimostrata fallimentare. Bisognava progettare secondo possibilità che significava avere il controllo del progetto, così da non cadere in quella pianificazione non attuata che provocava il degrado fisico di un quartiere, l’insicurezza sociale e di conseguenza l’emarginazione. Si evince facilmente che questa presa di posizione risultava ovviamente esagerata, così tanto che fu possibile metterla in pratica solo in situazioni puntuali e non per tutta la città nel

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suo insieme. Va detto che se fu difficile realizzare il recupero, la ricostruzione e la riutilizzazione delle vecchie case del centro storico attraverso l’intervento economico del Municipio, fu più facile intervenire sullo spazio pubblico e portarlo a un certo livello di qualità, provocando immediatamente -come poi effettivamente accadde- l‘interesse dei proprietari degli edifici circostanti ad autorecuperarli. Così succedeva che edifici praticamente persi, nel momento in cui veniva costruita una piazza davanti ad essi, venivano ristrutturati senza nessun bisogno di intervento statale o amministrativo. Questo dimostrava come, se uno dei problemi fondamentali del centro storico ero rappresentato dal degrado della popolazione e cioè dal fatto che i giovani lasciavano il quartiere, il miglioramento degli spazi pubblici induceva questa stessa popolazione a rimanere nel quartiere, generando così un recupero spontaneo con effetti immediati non solo dal punto di vista sociale ma anche fisico ed estetico. Considerato ciò, è possibile affermare che è più corretto intendere la città non come un sistema totale coerente ma come una somma di realtà relativamente incoerenti, cioè come un insieme di quartieri ciascuno con una propria identità. Dunque, a differenza di come era stato con grandi piani generali elaborati durante la dittatura, ora la città veniva intesa come la somma di realtà particolari -i quartieriche non avevano nessuna coerenza se non la presenza di un continuum edificato che poteva essere analizzato o migliorato solo individuando le caratteristiche di ciascun

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segmento. Ovviamente va considerato che non tutte le problematiche potevano essere considerate unicamente alla scala del quartiere, poichè, è evidente, esistevano problemi importanti che superavano questa dimensione. Ma ciò non esclude che, date le condizioni critiche in cui verteva la capitale catalana in quel periodo, l’identificazione dei problemi puntuali proposta da Bohigas poteva essere -e di fatto era- l’unico mezzo per pervenire a una visione più generale della pianificazione della città. La maggior parte dei progetti vennero redatti al di fuori degli uffici comunali e cioè da architetti che non facevano parte dei funzionari della Pubblica Amministrazione; in tutte queste operazioni era evidente come ci fosse l’intenzione e venne fatto lo sforzo di conservare le strutture esistenti mantenendo quanto più possibile le strade e le infrastrutture, modificando il meno possibile l’esistente ed eliminando quasi del tutto le disposizioni dei piani precedenti. Il recupero, dove necessario, prevedeva demolizioni poichè, come Bohigas afferma più volte la città non è la somma di elementi intoccabili ma piuttosto una somma di elementi qualitativi che pertanto necessitano di essere, dove possibile, recuperati e talvolta demoliti se pur con discrezione. L’obiettivo esplicitamente posto dagli urbanisti era di attuare trasformazioni in modo che il plus valore generato dal recupero di ciascun quartiere si potesse riflettere direttamente sulla popolazione; iniziare il processo di

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trasformazione della città partendo dallo spazio pubblico si rivelò in linea con questo principio: è evidente che il plus valore generato dal recupero di uno spazio pubblico veniva riflesso sulle abitazioni circostanti e sfruttato dagli abitanti del vicinato che potevano così godere della maggior qualità dello spazio. Dunque, per riprendere le parole 1 di Bohigas:

“da un lato esisteva un problema di contenuto che è stato definito come risanamento del centro storico e monumentalizzazione della periferia; dall’altro un problema di metodo che è stato risolto abbandonando i metodi tradizionali della pianificazione per passare all’immediata realizzazione di manufatti, in modo che la somma di questi generi ciò che noi intendiamo per ricostruzione di questi segmenti di città”.

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1 “Bohigas, le piazze di Barcellona” Introduzione al libro, Emma Serra intervista Oriol Bohigas, 1987.


Caratteristica di questi interventi è la semplicità e la puntualità del gesto architettonico. Il modello, con cui si intende il metodo adottato da Bohigas e dai suoi collaboratori per ricostruire la città, prevedeva uno sviluppo urbano secondo possibilità, che significa che, nell’analizzare i problemi da diversi punti di vista -economico, politico, sociale, architettonico- prevaleva la volontà di procedere per piccole parti, nella certezza della riuscita del singolo progetto, piuttosto che elaborare un piano urbano destinato a restare solo un’idea. In questo senso l’attenzione è volta soprattutto allo spazio pubblico, da risanare in termini di servizi e da riorganizzare in termini di spazi. Esso viene pensato come un luogo della vita quotidiana a disposizione di tutti i cittadini: era stato lo stesso Bohigas ad affermare che “la ricostruzione della città inizia dallo spazio collettivo” i cui perni sono rappresentati dalla piazza e dalla strada. Già solo nei primi anni Ottanta furono costruite (e ricostruite) più di 140 tra strade, piazze e giardini che modificavano la qualità del paesaggio urbano e ne recuperavano l’identità. E, proprio come abbiamo già accennato, elemento centrale dell’evoluzione urbana della capitale catalana, è per Bohigas la strada. Per questo motivo proprio dalla strada -dallo spazio pubblico- parte il cambiamento, perché essa viene intesa come la vera essenza urbana, almeno riguardo alla città mediterranea: è uno spazio di incontro, di partecipazione, di informazione e accessibilità, è elemento artificiale collettivo che rappresenta il luogo e la direzione, lo stare e l’andare.

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Analizzandone l’etimologia si nota come essa contenga in sé una doppia natura: 1. strada come street -dal latino «sternere» - superficie o spazio determinato, definito nei suoi limiti, e cioè un “luogo”; 2. strada come road –radice anglosassone, «ride» che significa passaggio da un punto ad un altro, e cioè spostamento, “itinerario”. Dunque la strada intesa anche come asse di penetrazione; in questo senso non si può pensare, per lo meno a Barcellona e in particolare nella Barcellona del post-dittatura, di eliminare la circolazione automobilistica al fine di tutelare, preservare e favorire gli spazi pedonali. Questo perché se è vero che i percorsi pedonali costituiscono una buona scelta per il recupero di tessuti storici eccessivamente intasati, è altrettanto vero che l’assenza di automobili comporta inevitabilmente una diminuzione delle funzioni, oltre che una degradazione dello stesso uso dell’automobile, che finirebbe confinata negli spazi meno attrattivi e meno vivibili della città. Non si può non considerare che se quartieri come Gràcia, il Raval, la Ribera o la Barceloneta sono ancora vivi, ciò è dovuto almeno in parte, alla persistenza di attività commerciali artigianali e di magazzini. Eliminare il traffico automobilistico -basti pensare alle attività di carico/scaricoequivarrebbe a una diminuzione inevitabile di queste attività, mentre una politica di recupero deve prevederne il mantenimento e il razionale incremento. A proposito di recupero, molto spesso si tende a credere che il tema riguardi unicamente le abitazioni: è ovvio, non si può

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1.

“STREET�

superficie o spazio determinato, definito nei suoi limiti, dunque un

luogo

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/strada, strasse


2.

“ROAD”

passaggio da un punto ad un altro punto, riferimento allo spazio, e cioè un

itinerario

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/rua, rue, ruta


parlare di quartiere dove non ci sono buone case e, citando Bohigas “la logica della ricostruzione vuole un miglioramento dell’esistente”; ma, citando ancora l’architetto catalano 2 è altrettanto vero che:

“un quartiere non si ricostruisce attuando solo una politica delle abitazioni, al contrario il recupero della residenza deve seguire -o al massimo essere contemporaneoad una politica degli usi collettivi […]. Lo spazio pubblico deve essere il primo, sia per facilitare il resto dell’intervento, sia per la sua capacità generatrice”. La creazione dello spazio libero e l’attribuzione di significato a questo spazio sono gli elementi primari per la ricostruzione di un quartiere; uno spazio privo di significato - di funzioneè solo un vuoto urbano, e nel vuoto non si genera altro che degrado. Per questo motivo la politica attuata da Bohigas e dai suoi collaboratori prevedeva di intervenire con urgenza per interventi puntuali, in modo da raggiungere quanto prima tre obiettivi molto chiari:

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2 “Ricostruire Barcellona” O. Bohigas Capitolo 2, I quartieri antichi Intervenire sugli usi.


1. il risanamento e la permeabilizzazione senza alterazione della struttura fondamentale del quartiere; 2. la maggiore coesione sociale di quella zona, cercata attraverso processi di monumentalizzazione; 3. l’ avviamento di trasformazioni a catena a partire proprio dallo spazio libero. Risanare la città attraverso la creazione di spazi - allargando quelli esistenti, riunendone alcuni, realizzandone di nuovi attraverso la demolizione dei blocchi più degradati- conferma che gli svuotamenti (e gli interventi) puntuali hanno per di più il vantaggio di salvaguardare l’essenziale della struttura formale di un quartiere, e ancor più nel caso di Barcellona, ne sottolineano il carattere conferendo una maggior identità alla città. Bisogna precisare, quando si parla di spazio pubblico a Barcellona, di strade e di piazze, che la città non possiede piazze definite dall’architettura delle facciate -come è per Parigi, Torino o Madrid- ma invece è caratterizzata da un altro tipo di piazza: come nel caso dei Campi Veneziani o di Piazza delle Erbe a Verona si tratta di una stratificazione di tentativi storici, il cui sviluppo dello spazio non si riferisce solo alla verticalità che definisce una regola urbanistica, ma anche alla qualità oggettiva ed autonoma di ciascun elemento dell’architettura, e soprattutto alla modulazione del suolo e alle possibili variazioni di punti di vista e percorsi. Significa che la piazza non si genera come risultante dello sviluppo verticale, ma nasce da un andamento orizzontale: la piazza non è un vuoto urbano che fa da contorno agli edifici, ma uno spazio di relazioni fisiche e sociali.

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Dunque, secondo il modello, Bohigas procede qualificando la topografia, la pavimentazione, la sistemazione del verde, l’arredo urbano a quota zero senza dover necessariamente dare importanza primaria alle vecchie facciate sulle strade; per la politica che si stava attuando, la ricostruzione dei vecchi quartieri non dipendeva solo dagli edifici, ma anzi e soprattutto dalla forma, dall’uso e dal contenuto degli spazi liberi. Essi, in modo assolutamente naturale, rappresentavano, senza alcuna alterazione della morfologia e della struttura sociale, il risanamento e la definizione dei luoghi della vita collettiva. In questo senso la strada e la piazza rappresentano un elemento strutturante per Barcellona: come spiega Bohigas nel suo Manifesto (Ricostruire Barcellona), la strada è “la riga per leggere e capire una città, è il punto di vista di chi la percorre”, per questo più è facile riconoscere la forma e il tracciato meglio essi funzionano come strumenti di comunicazione. Va anche sottolineato che le operazioni di sventramento dei quartieri antichi con il metodo della nuova viabilità non sarebbero più stati possibili negli anni Ottanta, sia perché era cambiata la coscienza collettiva, ma ancor più perché non sarebbero stati sostenibili dal punto di vista finanziario. Inoltre va anche detto, perché non è da sottovalutare, che interventi come lo sventramento per costruire la Via Laietana, pur essendo stati di evidente efficacia, hanno generato circostanze sociali, economiche e culturali che nel periodo in cui si trovava Barcellona dopo la dittatura sarebbero state impossibili da mettere in pratica.

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Questa è un’ulteriore spiegazione di quello che ho definito fin dall’inizio come “procedere secondo possibilità”: lavorare alle strade e alle piazze alla scala del quartiere, considerandone la capacità comunicativa e la possibilità di intrecci umani. Se la città, come è evidente, all’epoca aveva già smesso di essere un fenomeno espansivo come era stato nei secoli precedenti, l’attenzione urbanistica non poteva far altro che concentrarsi sulla ricostruzione e sulla riqualificazione.

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Era così che Bohigas vedeva la città, come una somma di quartieri e di collettività, più che come un sistema generale coerente e idealizzato. Riporto qui di seguito un approfondimento su alcuni degli interventi puntuali di quegli anni, a partire dal 1981 fino a prima che Barcellona venisse investita dalla preparazione ai Giochi Olimpici (1987, anno in cui vinse ufficialmente la nomina).


le piazze di GrĂ cia

centro storico


1. Plaça de la Mercè, 1981 La piazza era stata fino ad allora uno spazio di risulta -un vuoto urbano- ai margini della facciata della chiesa risalente al 1267. Solo con le demolizioni del 1981 si andava incontro a un miglioramento della qualità della trama urbana. Storicamente la piazza era costeggiata lungo un lato da uno dei viali residenziali più ricchi del XIX secolo -Carrer Ample. Il progetto proponeva di pavimentare tutta la piazza sottolineando la centralità della chiesa e ponendo solo sul fondo, di fronte alla facciata principale, una fontana e un filare di alberi. L’illuminazione -uno degli elementi che tanto mancava nel tessuto storico decadente- viene collocata seguendo l’allineamento con Carrer Ample. I materiali, tanto per la pavimentazione quanto per gli elementi decorativi, vengono scelti con coerenza rispetto al contesto storico in cui è inserita la piazza. La ricostruzione di questa piazza nel contesto degli interventi del modello, viene ancora oggi considerata esemplare se pur minima, soprattutto per i processi di autorecupero che innescò successivamente nell’intorno edificato.

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2. Plaça Reial, 1982-1984 Situata a est della Rambla scendendo verso il mare, la piazza non solo rappresentava uno degli spazi aperti più grandi del centro storico, ma anche l’ unica piazza architettonicamente disegnata, costruita e conservata. Prima dell’intervento di Federico Correa e Alfonso Milà però erano molteplici i problemi esistenti, primo tra tutti il traffico automobilistico. Si può, senza esagerare, affermare che la piazza non era stata trattata con il rispetto che meritava: era stato completamente dimenticato il valore architettonico che custodiva, essendo inoltre l’ unico esempio di piazza porticata del periodo neoclassico dell’architettura catalana. Il progetto prevedeva di ricollocare alcuni degli elementi già presenti nella piazza: la fontana troppo alta e gli alberi così disposti tagliavano orizzontalmente la facciata, impedendone una visuale completa. Anche la pavimentazione -asfalto- era molto povera e poco curata. Dunque il progetto proposto dagli architetti mirava a lavorare su diversi fronti: eliminare l’accesso di tutti i veicoli a motore e di conseguenza appianare i dislivelli tra corsie carrabili e aiuole; ridisporre gli elementi di arredo, i lampioni e le palme senza però stravolgere nè sovrapporre elementi estranei all’architettura degli edfici.

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3. Le piazze di Gràcia 1981-1982 Per descrivere in modo chiaro gli interventi nelle piazze di Gràcia, bisogna fare una premessa sulle condizioni in cui si trovava il quartiere: si trattava all’epoca di un’area molto trafficata, che aveva perso il suo carattere architettonico contraddistinto da edifici bassi, vicino ai quali si era insediato un nuovo tipo di architettura eccessivamente sviluppata in altezza e dunque sproporzionata rispetto alla dimensione delle strade. Il traffico era troppo denso per la conformazione delle strade spesso strette, e le piazze venivano utilizzate come parcheggi. Intervenire su questi spazi voleva dire non solo migliorare l’immagine formale delle nuove piazze di Gràcia, ma sviluppare un nuovo senso civico, offrire ai cittadini un altro modo di vivere lo spazio pubblico a loro destinato. La proposta generale per il quartiere non prevedeva di eliminare il traffico, ma di poterlo controllare limitando la circolazione e proibendo la possibilità di parcheggiare nelle piazze. Il progetto degli architetti Jaume Bach e Gabriel Mora, a cui erano stati affidati gli interventi, poneva l’attenzione su più aspetti: non solo eliminare l’accesso dei veicoli nelle piazze, ma anche dare a ciascuna di esse un’immagine identitaria che mancava a causa del poco decoro delle facciate degli edifici attorno ad esse. Eliminare i parcheggi non solo favoriva l’utilizzo della piazza come luogo di sosta, ma liberava la vista e permetteva di concepire uno spazio più tranquillo e distante dalla strada.

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Inoltre si decise di rimuovere dalle piazze tutti gli elementi di arredo urbano (chioschi, cabine telefoniche, cabine della lotteria, cartelloni per gli annunci ecc.) disposti in modo quasi casuale e ridisporli raggruppati in un’unica struttura architettonica tipo padiglione, cosÏ da dare un’immagine unitaria comune a tutte le piazze.

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3a. Plaça del Raspall La piazza all’epoca risultava degradata e priva di un qualsiasi carattere; era molto caotica e questo aspetto era ulteriormente avvallato dagli alberi, pochi e maldisposti, e dalla scarsa qualità degli edifici. Si proponeva di eliminare tre strade limitrofe con lo scopo di aumentare la dimensione della piazza, e di ridisporre e aumentare il numero di alberi. Inoltre si andavano a ricollocare la fontana e gli elementi di arredo, riuniti in un unico padiglione. L’illuminazione venne sostituita completamente, per avere una miglior visibilità e una maggiore qualità dello spazio.

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3b. Plaça del Sol Questa piazza è la più grande del quartiere e ha una base di forma simile a un quadrato; su un lato è libera mentre sugli altri tre è occupata da un filare di alberi. Solo qui fu possibile pensare di realizzare un parcheggio sotterraneo di tre piani, ad uso esclusivo dei residenti; anche qui fu proposto di eliminare le quattro vie laterali allo scopo di aumentare le dimensioni della piazza e disporre una pavimentazione unica in pietra. I vecchi lampioni furono sostituiti in quanto erano molto distanti uno dall’altro e illuminavano poco; la nuova illuminazione venne proposta per dare maggior illuminazione alla piazza e più respiro alle facciate alle quali prima i lampioni erano addossati.

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3c. Plaça de la Vila da Gràcia Questa è la piazza più rappresentativa del quartiere: è qui che si trovava la sede del municipio e il campanile simbolo di Gràcia. Al fine di migliorare la funzionalità e il ruolo centrale di questa piazza si decise di procedere con la chiusura delle quattro strade laterali per poter creare uno spazio migliore e più ampio di pavimentazione uniforme. Il campanile rappresentava il centro della piazza e generava il disegno del suolo, composto da circonferenze concentriche. Il grande problema che venne risolto fu quello dell’illuminazione: furono sostituiti cavi elettrici che dal campanile arrivavano alla facciata del Municipio, con una serie di dodici lampioni di intensità maggiore e uniforme.

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3d. Plaça Trilla L’unicità di questa piazza stava nella sua posizione, a lato di Carrer Gran de Gràcia, di cui ne ampliava la visibilità; nonostante ciò era uno spazio poco e male utilizzato. La miglior soluzione da attuare era rendere questo spazio una zona filtro, un’isola chiusa al traffico che veniva utilizzata come luogo di sosta e di passaggio dal viale al quartiere. Gli architetti decisero di disporre geometricamente nove palme, creando un angolo più tranquillo -un’oasi- al lato del viale invece più trafficato e rumoroso. La pavimentazione fu totalmente sostituita con un disegno in pietra geometrico e uniforme. L’illuminazione posta sulle facciate degli edifici venne sostuita con la disposizione di lampioni, come quelli che già erano stati disposti lungo Carrer Gran.

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3e. Plaça de la Virreina Le condizioni della piazza erano migliori, se confrontate con le altre del quartiere, sia per dimensioni e proporzioni che per la fontana centrale che dava un tono di magnificenza allo spazio. Si può dire in questo caso specifico che, al contrario degli atri spazi analizzati, la qualità della piazza era generata dall’architettura: da un lato la facciata della chiesa di Sant Joan, dall’altro le case moderniste di Carrer de l’Or disegnate in gran parte dall’architetto F. Berenguer. Qualsiasi soluzione in questo caso dunque non poteva prescindere dal considerare la qualità dello spazio: si decise di includere un filare di alberi lungo i due lati maggiori, come recinto che permetteva di includere all’interno della piazza anche la chiesa, senza che questo limitasse eventuali accessi in caso di emergenza. La superficie venne ripavimentata in pietra uniforme ad accezione di un asse centrale disegnato per sottolineare la direzione della piazza verso l’ingresso della chiesa; il traffico venne ridotto solo a particolari eccezioni e il parcheggio completamente soppresso. Per risolvere il problema dell’illuminazione vennero disposti lampioni alternati ai filari di alberi.

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4. Plaça Basses de Sant Pere e Sant Augusti Vell Il progetto è significativo in quanto è stato un piccolo intervento puntuale inserito in un piano più grande di riqualificazione del quartiere che prevedeva operazioni di diradamento e sostituzione. Il progetto era stato pensato con lo scopo di dare continuità allo spazio irregolare delle due piazze, definendo uno spazio completamente pedonale in un disegno unitario.

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INDICE DELLE FOTOGRAFIE Via Laietana, Settembre 2016 77 Plaça de la Mercè, Novembre 2016 81 Plaça Reial, Novembre 2016 83 Plaça del Raspall, Ottobre 2016 87 Plaça del Sol, Novembre 2016 89 Plaça de la Vila da Gràcia, Novembre 2016 91 Plaça Trilla, Ottobre 2016 93 Plaça de la Virreina, Novembre 2016 95 Plaça Basses de Sant Pere, Novembre 2016 97 Plaça Trilla, Ottobre 2016 98 Plaça de la Virreina, Novembre 2016 99 Plaça del Sol, Novembre 2016 100 Plaça del Sol, Novembre 2016 101 Carrer de Siracusa, Ottobre 2016 102 Plaça del Raspall, Ottobre 2016 103 Calle Verdi, Fiesta Major de Gracia 15 Agosto 2016 104 Plaça del Diamant, Novembre 2016 105 Plaça de la Vila da Gràcia, Paellada 6 Novembre 2016 106 Plaça de la Vila da Gràcia, Paellada 6 Novembre 2016 107 Centro Storico, Settembre 2016 108 Centro Storico, Settembre 2016 109



CAPITOLO 2


VERSO I GIOCHI OLIMPICI ‘92 UN NUOVO VOLTO 1987-1992



“Il nostro programma urbano forse ha poco a che vedere con l’ideologia, con la destra o con la sinistra, però certamente ha a che vedere con la volontà di migliorare la città.” (Pasqual Maragall, 1983)

Nel

1980, con una nuova politica urbanistica, la città di Barcellona iniziava la sua trasformazione per mezzo di interventi puntuali localizzati negli spazi urbani più significativi e strategici. Attuando la stessa politica, si decise di iniziare un programma valido anche per progetti a scala più ampia che, con lo stesso metodo e gli stessi criteri, potessero superare la scala del quartiere ed essere attuati alla scala urbana. Questo proposito trovò moltissime potenzialità con la nomina di Barcellona a sede dei Giochi Olimpici per il 1992. Era il 1987 quando Barcellona vinse la candidatura: all’epoca era sindaco Pasqual Maragall che, già qualche anno prima, aveva incaricato Bohigas e i collaboratori di sviluppare un progetto di riqualificazione e sviluppo urbano dell’area destinata alla Villa Olimpica. Il motivo era uno ed evidente: se il metodo di intervento puntuale aveva funzionato fino ad allora, lo stesso metodo applicato anche in quest’area avrebbe portato grandi risultati.

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Pasqual Maragall: esponente del Partido de los Socialistas de Cataluña (Partito Socialista Catalano) è stato sindaco di Barcellona dal 1982 al 1997.


Ora, il programma per Barcellona ’92 non può essere preso in considerazione se svincolato dall’esperienza urbanistica che aveva coinvolto la città negli anni precedenti; tale programma prevedeva la riqualificazione urbana alla scala della città e articolava la risposta alle necessità olimpiche in modo da massimizzare l’impatto urbanistico positivo sul tessuto metropolitano. Le basi per Barcellona ’92 vengono predisposte a partire dal 1987, dopo un periodo in cui il miglioramento urbano di spazi puntuali -strade e piazze di piccole e medie dimensioni- aveva dimostrato che la città è effettivamente un oggetto recuperabile in grado di rispondere alle necessità di riqualificazione della forma e della vita urbana. Il processo di attuazione di questo lavoro ha mostrato come l’intenzione iniziale di generare una forte idea innovatrice per il tessuto urbano si sia convertita in impulsi che ne hanno consentito la materializzazione, grazie alle circostanze sociali e politiche in cui si era venuta a trovare la città. In questo senso la riqualificazione urbana fu la dimensione più ambiziosa del programma ’92: sia perchè era una scommessa per la trasformazione della città esistente a partire dalla sua propria storicità, sia perché rappresentava il rafforzamento del suo ruolo all’interno del sistema urbano del Paese. Per questo motivo e per gli obiettivi raggiunti, si può affermare a posteriori che le soluzioni urbanistiche che furono adottate per riqualificare la città in occasione dei Giochi Olimpici aprirono la strada a un nuovo modo di fare urbanistica e generarono una nuova coerenza a cui piani e

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progetti precedenti avevano rinunciato. Probabilmente oggi, se consideriamo appunto i risultati che furono raggiunti, possiamo trovare la chiave dell’esperienza di Barcellona nel lavoro a diverse scale -settoriale e generale- e nella condizione urbana dell’epoca che fu un elemento molto caratterizzante del progetto. Il programma di riqualificazione urbana aveva come obiettivo di apportare miglioramenti alle infrastrutture e definire nuove aree di centralità per ottenere una ridistribuzione dei servizi e dell’urbanità esistente. Più precisamente, la trasformazione del porto avrebbe finalmente rappresentato la realizzazione di un nuovo centro più volte trattato nella teoria ma mai nella pratica. A fronte dell’occasione offerta dai Giochi Olimpici la città doveva considerare nuove strategie relative soprattutto alle attività che stavano cambiando: i limiti tra l’attività industriale e il settore terziario stavano diminuendo; la divisione nella produzione industriale non era più definita dai settori di specializzazione quanto dalle funzioni; il processo di informazione stava influendo in maniera decisiva nella definizione di centralità. Tutti questi elementi portarono a un cambiamento di scala, di localizzazione e di contenuto dei nuovi centri: in questa prospettiva si andava a definire il ruolo di centralità nel panorama europeo che avrebbe acquisito Barcellona, e si stabilivano le strategie che le avrebbero permesso di ricoprire tale carica davanti alla crescente importanza economica e rappresentativa che le era stata affidata. La nuova centralità doveva prodursi negli spazi interstiziali tra i quartieri, senza

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negarne la struttura tradizionale ma anzi rafforzandola, ridistribuendo tutte quelle attività che potevano offrire un servizio. Inevitabilmente rispetto alle dimensioni degli interventi puntuali, le scala di progetto era molto differente: si andavano a recuperare intere aree obsolete e grandi vuoti urbani. E così, a differenza di quanto veniva proposto dai Piani Regolatori che ponevano al centro di un programma le grandi infrastrutture viarie e i trasporti, andavano via via assumendo un ruolo prioritario nella struttura della città gli accessi allo spazio urbano qualificato e i sistemi di informazione ben sviluppati. Vennero definite molteplici aree di nuova centralità, di cui quattro erano le zone olimpiche; questi spazi urbani avrebbero acquisito un ruolo centrale grazie all’organizzazione e distribuzione di attività che andavano a migliorare il tessuto urbano dei quartieri già formati e allo stesso tempo andavano a ridurre il sovraffollamento e la sovrapposizione di attività nel centro così da garantire ordine nei quartieri storici e riqualificazione della funzione residenziale nell’Eixample. In questo senso si cercò soprattutto di superare quell’idea che si era imposta che l’unica attività che poteva ricoprire un ruolo primario era il commercio -i centri commercialiandando piuttosto a recuperare la centralità degli spazi combinati tra attività e spazi aperti. In riferimento alle quattro aree olimpiche, il porto era una zona che avrebbe potuto offrire eccellenti possibilità di sviluppo di attività e servizi commerciali e turistiche, culminanti nei

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progetti di Moll de la Fusta, Cinturon del Litoral e Ciutat Vella (riqualificata). Senza troppi dubbi possiamo definire ora e fu definita già all’epoca come l’area con il maggior potenziale di sviluppo per la Barcellona degli anni Novanta. Certamente si trattava di un’area il cui programma era articolato e le molteplicità degli usi unita alla gestione degli spazi risultava complessa; se questo da una parte poteva incidere negativamente sull’organizzazione del lavoro, dall’altra offriva un vasto panorama di metodi di intervento: si cercò di lavorare seguendo uno schema unitario e con la stessa dedizione tanto sul progetto generale quanto sugli spazi puntuali, in modo tale da mantenere il carattere degli edifici esistenti in continuità con i nuovi progetti. Era infatti importante, e alla base del metodo adottato dagli architetti, che i grandi progetti che si stavano definendo venissero relazionati alle aree già costruite così da garantire l’ equilibrio tra i quartieri. Solo in questo modo le infrastrutture, le vie di comunicazione, i servizi disposti per i settori olimpici potevano avere un valore per tutto il tessuto urbano. Considerata quella che era stata la storia della città fino a qui e il metodo applicato da Bohigas nel risanarla dopo la dittatura, possiamo dire che emerge proprio con l’occasione di riqualificazione urbana offerta dai Giochi Olimpici la volontà di Barcellona di essere modello per se stessa, con tutti i vantaggi e le difficoltà che questo metodo comportava: più che uno sguardo alle altre città europee, gli architetti decisero di attuare il metodo già applicato a scala minore -gli interventi puntuali dei primi anni Ottanta- per definire

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il fronte marittimo, il porto e il litorale, così che Barcellona potesse ufficialmente e definitivamente essere consacrata alla definizione tanto ambita di «capitale mediterranea» che aveva aperto il suo accesso al mare. Venivano dunque stabiliti i criteri e i metodi di partenza per questo nuovo grande progetto di ricostruzione della città. Come già anticipato, per prima cosa bisognava sistemare tutte le infrastrutture perché l’area fosse fruibile e servita: le spiagge dovevano essere riabilitate, le reti ferroviarie interrate, la circolazione lungo il Litoral doveva essere smaltita in modo che non rappresentasse più una barriera tra il quartiere e la costa. Inoltre bisognava implementare i servizi di impianti nella zona, così che non si verificassero inondazioni e altri problemi già presenti nell’area limitrofa del Poblenou. Per la struttura del quartiere invece venne proposto uno schema in cui fosse chiaramente leggibile la continuità con i quartieri vicini e con l’immagine generale della città, in modo che lo spazio pubblico potesse continuare ad essere una caratteristica primaria e definita di Barcellona. In particolare si decise di adottare la morfologia urbana tradizionale per cui strade, piazze e lotti seguivano il modello storico ma per mezzo di un’ architettura che permettesse usi più attuali: servizi, giardini privati, impianti più tecnologici e condizioni di abitabilità interni che potessero rispondere a un numero maggiore di esigenze. L’integrazione sociale e formale del quartiere e la continuità urbana preveda

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inevitabilmente la variazione degli usi e la diversificazione dei caratteri architettonici all’interno di unità abitative coerenti. Da una parte dunque bisognava promuovere una forma architettonica che permettesse di avere diverse possibilità funzionali, dall’altra bisognava stabilire un metodo progettuale sviluppato per fasi con interventi ogni volta più dettagliati e individualizzati all’interno del contesto urbano. Doveva essere questa la sperimentazione di un nuovo modo di fare urbanità. Di fatto quello che si è poi deciso di fare fu partire da un piano di progetto generale per definire la configurazione essenziale del nuovo quartiere, per organizzare solo in una seconda fase la partecipazione e collaborazione di più architetti e tecnici specializzati per avviare i progetti definitivi di ogni edificio o spazio pubblico. Si trattava di risolvere in poco tempo un grande processo di costruzione della città, facendo sempre attenzione che il quartiere non diventasse un progetto isolato a grande scala ma piuttosto una somma di diverse partecipazioni -e contributi- che potessero permettere di conservare l’unità complessiva della cultura urbana di Barcellona, a cui corrispondono sistemi, materiali e tipologie. Questo metodo, tanto difeso da Bohigas, partiva dall’idea che fosse ancora possibile ricostruire la città europea rispettando la sua morfologia tradizionale adattandola al nuovo modo di abitare. Va detto che era -soprattutto all’epoca- un metodo abbastanza discutibile, che aveva più volte, in altri contesti, dimostrato il suo fallimento nelle grandi espansioni delle

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periferie. La differenza in questo caso, come era stato per i primi interventi puntuali di riabilitazione della città, fu data dallo spazio pubblico: esso rappresentava il motivo centrale del progetto, da cui dipendeva un’architettura che doveva essere integrata e complementare. In questo modo Barcellona stava dimostrando di essere autoreferenziale, un modello per se stessa; si stava mettendo costantemente in pratica un metodo che si era già dimostrato efficace e che, grazie ai Giochi Olimpici avrebbe permesso alla città di essere internazionalmente riconosciuta come modello: una metropoli mediterranea storica e compatta, politicamente governata da un’amministrazione socialdemocratica la cui gestione, in grado di attrarre investimenti pubblici e privati, era stata capace di realizzare in poco più di dieci anni una trasformazione improntata sugli spazi pubblici, su una forte identità locale, sulla coesione sociale, sulla qualità dell’architettura.

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A tal proposito si può dire che l’amministrazione –politici, economisti, architetti- considerava la ricostruzione della città come il riflesso materiale della ricostruzione della società:

Barcellona, non solo come urbs ma piuttosto intesa come polis, era soggetta a una trasformazione che andava a modificare non esclusivamente la struttura urbana, ma anche e soprattutto il ruolo che la città avrebbe acquisito.

In seguito a quanto detto, cito Maragall, nel discorso di ufficializzazione della città a sede olimpica: “Barcellona si è posta come obiettivo l’anno 1992 da raggiungere in condizioni degne della sua importanza, della sua volontà di capitale mediterranea, della sua realtà di capitale della Catalogna, del suo carattere di cerniera tra Spagna e Europa. Uno dei principali mezzi di cui il Governo della Città dispone per raggiungere tale obiettivo risiede nella politica urbanistica”. Fu più volte però lo stesso sindaco a ribadire che tutto il processo di trasformazione urbana non aveva come unico scopo il 1992, ma anzi tutto ciò che sarebbe seguito a partire dalla chiusura delle Olimpiadi.

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La volontà di tale evento era di dare un nuovo volto alla città, aprirla al mare, migliorare trasporti e comunicazioni, ma ancor più stabilire che tipo di città avrebbero ereditato i cittadini: tutti i progetti di rinnovazione urbana, che fossero sostenuti da investimenti pubblici o privati, dovevano fare di Barcellona una città moderna, pronta allo scenario futuro. Dunque, una volta terminati i Giochi, tutte le costruzioni e le installazioni avrebbero dovuto continuare a migliorare la qualità della città non solo in ambito sportivo ma anche della cultura, della comunicazione e del traffico, di tutto ciò che definisce la qualità urbana. Non si può negare, soprattutto oggi a posteriori, che Barcellona stava sperimentando la più grande attuazione urbanistica in Europa; si trattava di un’operazione infrastrutturale che includeva tre importanti aree i sviluppo: 1. il recupero della costa, la zona destinata alla Villa Olimpica, il Poblenou; 2. Il Litoral e le arterie che definivano la circolazione nei punti cruciali della città; 3. lo sviluppo delle zone interne alla città: Montjuïc, Valle de Hebrón, Diagonal, Glòries. Come abbiamo già detto, si tratta di progetti volti a rendere Barcellona una città più efficace, con una migliore qualità della vita. In questo senso i Giochi Olimpici servirono per consolidare un processo urbanistico e infrastrutturale per una crescita improntata sul futuro, che la città meritava e di cui la Catalogna aveva bisogno. Come abbiamo già più volte ripetuto, la Barcellona socialista si era distinta per una nuova politica di strategia urbanistica, basata su interventi puntuali dove maggiore era la necessità

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di un processo di rigenerazione. Questo criterio si basava sulla priorità di ricostruire più che di estendere i confini della città, dando dimostrazione che costruire la città significava ricostruire l’esistente partendo proprio dallo spazio pubblico. Questi obiettivi furono pienamente raggiunti fino a che si trattava di operare a piccola scala, dove un intervento minimo era incisivo per risanare un quartiere senza contaminarne l’identità, però grazie all’opportunità data dai Giochi Olimpici diventava necessario applicare lo stesso metodo anche alla scala metropolitana senza dover ricorrere esclusivamente ai grandi piani strategici. Dunque, torniamo al punto di nostro interesse: la linea della costa doveva essere l’intervento più importante, quello a cui la città non poteva rinunciare, perché avrebbe trasformato la città in modo più radicale e allo stesso tempo riguardava molto da vicino la trasformazione olimpica. E’ ovvio che lavorare alla linea della costa significava lavorare alle aree limitrofe, in particolare modo la Barceloneta e il Paseo Maritimo: iniziò così da subito un processo di difesa della costa e di riqualificazione per rendere il contesto vivibile e praticabile. Vennero definite quattro aree -olimpiche- situate in quattro punti, tra l’ordine dell’ Eixample del secolo XIX e il disordine delle periferie, conseguenza dell’espansione demografica e territoriale della seconda metà di fine secolo; esse, nel municipio di Barcellona si collocavano nelle zone la cui urbanizzazione doveva risolvere alcuni dei problemi a grande

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scala che erano rimasti sospesi per lungo tempo. Le quattro aree su cui si decise di intervenire erano: una parte della Vall d’Hebron, la zona più a ovest della Diagonal, la montagna del Montjuïc, un settore industriale del Poblenou prossimo al mare. Quest’ultimo in particolar modo rappresentava il primo tessuto urbano di un grande progetto che si proponeva di aprire la città al mare, creare un nuovo quartiere per l’uso futuro e utilizzarlo come area residenziale per gli atleti durante la manifestazione sportiva del 1992. Vennero incaricati di lavorare al progetto dell’area gli architetti dello studio MBM -Josep Martorell, Oriol Bohigas, David Mackaye Albert Puigdomènech; proprio su questo progetto porrò maggiormente la mia attenzione, tanto sul risultato, quanto sul metodo adottato per lo sviluppo del progetto. Le quattro aree formavano una croce orientata verso i quattro punti cardinali, che indicavano le espansioni nel processo di ricostruzione e modernizzazione della città. Tra queste, l’area dove si decise di localizzare la Villa Olimpica era una zona industriale con edifici talvolta dismessi, fatiscenti e di uso obsoleto: essa era separata dalla città e dal mare per due vie ferroviarie che facevano da barriera e generavano il degrado della zona; le spiagge erano diventate un grande deposito di detriti e scarti industriali; le strade seguivano ancora il tracciato del Plan Cerdà ma avevano perso la loro continuità e pertanto il valore urbano.

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Si può dire che questo grande spazio era diventato un vuoto urbano, ottimo per un processo di rigenerazione urbana ben radicata, in cui collocare il primo quartiere moderno vicino al mare: Nova Icària. La struttura urbana era organizzata su uno schema di cinque fasce parallele al mare e un sistema di parchi integrati: 1. la prima fascia comprendeva più di un chilometro di spiagge e una piccola darsena di protezione; 2. la seconda fascia era relativa al Paseo Maritim, il lungomare pedonale largo quasi 30 metri come continuazione del lungomare della Barceloneta; 3. la terza fascia riguardava le attività costiere e in particolar modo l’equilibrio tra la volontà di collocare attività tali da potenziare il valore urbano senza che però costituissero una barriera tra l’area residenziale e le spiagge; si decise dunque di collocare gli edifici più alti solo nella parte terminale del Paseo de Carles I, mentre lungo il Paseo potevano essere disposti solo piccoli stabilimenti secondo disposizioni puntuali e ad uso esclusivo delle spiagge; 4. la quarta fascia corrispondeva alla Avenida Litoral, e cioè la strada facente parte del sistema di cinture di circolazione della città a cui faceva riferimento un flusso molto importante di veicoli; nel Piano Generale tale strada figurava come un tracciato viario con carattere di autostrada urbana, che avrebbe però costituito una pessima barriera tra gli edifici e la costa. Con l’obiettivo di evitare questo tipo di problemi venne disegnato un tracciato con una fascia di verde intermedio tra le due direzioni di circolazione, lungo cui vennero collocate diverse attività urbane grazie alle quali sarebbe stato possibile garantire il

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passaggio facilitato dei pedoni fino alla spiaggia. Al passo con l’andamento del tessuto urbano, la via d’uscita per la città in direzione Llobregat-Besòs si articolava seguendo le curve delle spiagge, mente la via d’accesso alla città in direzione Besòs-Llobregat era stata tracciata in linea retta seguendo la forma di facciata del nucleo urbano; 5. la quinta fascia era, infine, il nucleo urbano. La sua struttura doveva integrare nella morfologia tradizionale le nuove tipologie residenziali; si decise di mantenere gli edifici esistenti di un certo valore architettonico e vennero definiti i grandi spazi pubblici. Per ciò che riguarda gli spazi verdi interni a ogni lotto, essi venivano destinati per la maggior parte del loro utilizzo ai residenti; al contrario i parchi dovevano rappresentare un nuovo centro per le attività pubbliche, dovevano essere la nuova interpretazione del paesaggio urbano. Queste erano le linee guida che muovevano il progetto di riqualificazione del fronte marittimo; non bisognava però dimenticare che sarebbe stato necessario rispondere a certe esigenze relative al programma olimpico. Per esempio la decisione di celebrare le gare di vela modificava inevitabilmente la disposizione della darsena; vennero ridotte le dimensioni della spiaggia vicina e ridisegnati gli edifici attorno al porto e in prossimità del Paseo. In questo modo si riusciva a dare una definizione di spazio tale da conferire un carattere più urbano all’area del porto, lasciando la concentrazione di attività alla fine del Paseo de Carles I. Il traffico lungo il Litoral, nel punto in cui si incontrava con il

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Moll de la Fusta, si faceva più intenso rispetto al previsto. Il progetto firmato da Solà Morales era stato pensato perché la strada avesse una funzione urbana; la Avenida Litoral faceva parte del sistema di ronde -scala extra urbana- e qui il flusso di veicoli era maggiore, ragione per cui in prossimità del Moll il traffico diventava congestionato e le cifre di veicoli stimati erano circa 120.000 al giorno. Considerati questi dati sarebbe stato impossibile pensare di realizzare la “via-parco” come unico strumento di circolazione, non solo perché essa sarebbe stata molto difficoltosa ma anche perché avrebbe reso impossibile l’utilizzo delle aree verdi. Per queste ragioni, gli architetti decisero di realizzare un altro sistema stradale, indipendente e privo di semafori così da consentire un flusso veicolare continuo; in questo modo si riusciva a garantire una continuità tra il quartiere e la costa con, inoltre, maggiori garanzie. Il sistema infatti si organizzava per layers: una strada ribassata a scorrimento veloce e due strade in superficie a servizio esclusivamente del traffico locale con una densità minore. La strada ribassata venne strutturata in modo tale da mantenere una connessione visiva con il paesaggio marittimo; le strade superiori e il giardino intermedio ad esse -che fu ripensato sulla base delle nuove esigenzeassicuravano una totale continuità visiva e la possibilità di utilizzo pubblico con le spiagge e il porto. Ritornando al tema della costruzione e della distribuzione degli spazi ci tengo a ripetere un criterio che più volte è stato sottolineato dall’architetto Capdevila, durante

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i nostri dialoghi: fin da subito si delimitarono le aree e le unità di progetto dentro le quali avrebbe agito ogni equipe di architetti; si trattava di voler mantenere il tradizionale concetto di lottizzazione inserito in un’urbanistica continua e predefinita, però con nuovi parametri. E cioè, le dimensioni di lottizzazione non sarebbero più state come in passato (riferimento al Plan Cerdà) perchè la divisione del territorio non avrebbe più dovuto rispondere a una definizione di proprietà ma piuttosto a un grande progetto architettonico che non andasse a sopprimere i limiti e le differenze, ma che lasciasse a ogni singolo progetto la possibilità di essere sviluppato in autonomia e secondo coerenza. Tutta quest’area infatti seguiva il tracciato ortogonale dell’ Eixample, la cui morfologia era l’immagine più rappresentativa del grande centro storico della città; questo era il motivo per cui si voleva mantenere lo sviluppo del tracciato e rispettare il più possibile la forma urbana e l’immagine che ne conseguiva. Ciò significava accettare la forma dell’esistente e lavorare creando equilibrio tra permanenze e trasformazioni: venivano mantenute le strade ortogonali che definivano il ritmo urbano, e al contrario ridefiniti tutti quei percorsi secondari che non incidevano sulla struttura della città e che pertanto potevano essere ridotti a percorsi pedonali. Tra le strade esistenti venivano distinte quelle che avevano un valore gerarchico e che potevano costituire una rete viaria basica non solo in termini funzionali ma anche visivi. L’obiettivo di tutto ciò era inserire una nuova struttura

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-nuove tipologie definite dai grandi cambiamenti sociali e culturali- nel sistema tradizionale senza contaminare né alterarne la leggibilità. Se la Vila Olimpica risultò essere l’occasione per recuperare una porzione di litorale fino ad allora inaccessibile e fortemente inquinata, se l’intenzione era quella di dimostrare che effettivamente un settore cittadino poteva essere rimodellato e integrato con la linea della costa secondo modalità rispettose della forma storica della città, è corretto spendere due parole anche sulle altre delle quattro aree olimpiche poichè di fatto ognuna era connotata da un proprio carattere architettonico. L’anello olimpico, localizzato nel Monjiuc immediatamente alle spalle dei padiglioni dell’esposizione del 1929, ospitò la maggior parte degli eventi. Gli architetti vincitori del concorso appositamente bandito, Federico Correa e Alfonso Milà, strutturarono un piano secondo cui gli impianti sportivi venivano disposti lungo una sequenza compatta di spianate ed edifici che seguivano l’andamento del declivio; in questo modo volevano ridare a quella parte di città l’importanza civica che aveva perso. Da tempo ormai la montagna, se pur non troppo distante dal centro della città, era rimasta un luogo relativamente isolato in cui si erano concentrati usi marginali, depositi di materiale, discariche e insediamenti di fortuna; anche il castello del Montjuic, sotto il controllo del governo centrale, non aveva ancora superato l’immagine ereditata dal periodo della repressione.

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Caratteristica di quest’area furono le installazioni che, assegnate a un diverso numero di progettisti, furono un grande esempio di eclettismo formale, sia che si trattasse di opere di trasformazione, sia che fossero processi di ampliamento e adeguamento di impianti già esistenti. Altro dato relativo a quest’area era il fatto che, non potendo essere raggiunta da un’apposita fermata di metropolitana, si installò un sistema di scale meccaniche all’aperto che avrebbe agevolato l’avvicinamento agli impianti delle terrazze disposte in occasione dell’esposizione del 1929 fino al nodo di Placa d’Espanya. L’area della Val d’Hebron era stata destinata al ciclismo, al tennis, al tiro con l’arco, all’hockey, agli alloggi e ad altri servizi minori. Se già con l’anello olimpico ci si doveva confrontare con un ambito non propriamente urbano, qui ci si andava ad insediare in un non-luogo caratterizzato de una serie eterogenea dei caratteri della periferia. E’ però importante citare quest’area a testimonianza di quanto detto in relazione all’importanza dello spazio pubblico nel percorso evolutivo di Barcellona: piuttosto che sulla composizione di elementi costruiti in quest’aria l’attenzione venne posta sulla progettazione di una topografia che definiva una serie di ambiti interconnessi, in cui ogni ad piattaforma veniva assegnata una specifica funzione. In ultimo, l’area della Diagonal venne impiegata per la sistematizzazione degli spazi circostanti la grande area sportiva privata dalla città e l’incorporazione dell’uso degli spazi aperti.

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Risulterà più utile trattare quest’area nel capitolo successivo, dove l’area prossima alla Diagonal verrà trattata in funzione degli eventi che seguirono le Olimpiadi e che portarono alla conformazione attuale di quella parte di città.


Villa Olimpica


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INDICE DELLE FOTOGRAFIE Passeig Maritim, Ottobre 2016 Playa de Bogatell, Ottobre 2016 Port OlĂ­mpic, Ottobre 2016 Passeig Maritim / pista ciclabile, Ottobre 2016 La Barceloneta / vista da Parc del Forum, Ottobre 2016 Moll de la Fusta, Novembre 2016 Moll de la Fusta, Novembre 2016 Playa de la Barceloneta, Novembre 2016 Lungomare playa de la Barceloneta, Novembre 2016 La Barceloneta / vista da Playa de Bogatell, Ottobre 2016 Edifici residenziali in Barceloneta, Ottobre 2016 Torre Mapfre / vista da Bunkers del Carmel, Ottobre 2016

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CAPITOLO 3


DIAGONAL MAR +FORUM FORUM DELLE CULTURE 2004 IL FALLIMENTO DI UN PROGETTO FUORI SCALA



Così com’era stato per i Giochi Olimpici del 1992, un altro grande evento che avrebbe reso Barcellona nuovamente protagonista nel panorama internazionale fu il Forum Universale delle Culture del 2004.

Fino agli anni Novanta lo sbocco al mare della Diagonal si perdeva tra industrie, infrastrutture e quartieri popolari. Nel 1996 tutta l’area destinata a Diagonal Mar venne acquistata da una multinazionale americana -gruppo Hines- che un anno dopo avviò i lavori per realizzare il grande centro commerciale Diagonal Mar, progetto affidato all’architetto americano Robert A.M. Sterne, e il Parc Diagonal Mar affidato invece allo studio spagnolo EMBT Miralles-Tagliabue. Come una nuova Vila Olimpica, la Diagonal Mar sarebbe diventata un grande villaggio sul mare con la differenza che questa volta si trattava di un’iniziativa privata collocata al limite dell’area del Forum. Tale iniziativa teneva in considerazione -quasi sicuramente a suo vantaggio- il cambio di prospettive di sviluppo urbano che, una volta saturato il mercato degli uffici e aumentata la domanda di residenze, volle dare priorità all’uso abitativo su quello terziario. Conseguenza di quanto appena detto fu che, con la Diagonal Mar, iniziarono a sorgere i primi grattacieli sul lungomare orientale della città: se si escludono le due torri del villaggio olimpico, questa tipologia era del tutto nuova, all’epoca, per la Barcellona marittima; fu così però che con l’intervento della multinazionale americana si affermò un modello di urbanizzazione molto diverso dalla Vila Olimpica (e dal vicino

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complesso del Front Maritim) realizzato ancora in evidente continuità con la trama del Plan Cerdà. Nell’area compresa tra Diagonal e Besós invece si concentravano in poche centinaia di metri alcuni degli impianti infrastrutturali più strategici della città: il depuratore, l’inceneritore, le centrali elettriche; essi conferivano allo spazio un carattere residuale e poco urbano, ma rispecchiavano una realtà unica poichè nella maggior parte delle città molto raramente questo tipo di impianti si localizzava in un medesimo luogo e ancor più raramente occupava 2 km di costa. Storicamente nasceva come uno spazio intermedio senza alcuna vocazione urbana; nei primi anni Settanta si costruirono i quartieri popolari della Catalana e della Mina (si parla di circa 10.000 abitanti distribuiti su 26 ettari) che però divennero presto luoghi di marginalizzazione sociale. Per questa ragione già dai primi anni Ottanta -quello stesso periodo in cui veniva definito e applicato il Modello a partire dal centro storico- vennero fatti piani per apportare dei miglioramenti alla qualità del tessuto urbano, ma l’opportunità di riqualificazione di un’area così vasta e degradata -per altro localizzata, appunto, ai margini della città- arrivò solo in occasione del Forum delle Culture, nel 2004. L’evento universale predisposto per il Forum era organizzato attorno a tre temi principali: la diversità culturale, lo sviluppo sostenibile, la pace; le nuove attività da localizzare nel

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recinto del Forum avrebbero riguardato soprattutto i temi di congressi, fiere, ricerca e spazi ricettivi. In occasione dell’evento era infatti previsto un fitto programma di esposizioni, dibattiti e conferenze che si sarebbero svolte in meno di sei mesi e avrebbero attratto a Barcellona più di due milioni e mezzo di visitatori. Tutto questo offriva alla capitale catalana l’opportunità di trasformare un’area che si sarebbe configurata come il polo centrale e dinamico per tutta la parte di città servita dalla Diagonal Mar, ma contemporaneamente imponeva di procedere a ritmi serrati per arrivare a compimento del progetto prima dell’inaugurazione dell’evento previsto per maggio 2004. Va detto che nella prospettiva di recupero urbano dell’area dell’attuale Parc del Forum, la riconversione infrastrutturale della zona era una questione necessaria ma non sufficiente a garantirne la centralità: da una parte la città disponeva di circa 7 chilometri di litorale per usi urbani e non poteva permettersi di sacrificarne più di due per ragioni infrastrutturali, dall’altra però non sarebbe stata possibile la delocalizzazione degli impianti esistenti. In questo senso, come spesso era già accaduto secondo la tradizione barcellonese, la soluzione fu di convertire in episodi urbani riconoscibili degli spazi che in altri contesti sarebbero stati marginali. Sono un esempio di questo fenomeno -e faccio un riferimento ai primi interventi di Bohigas nella Barcellona socialista- le prime trasformazioni urbane che, grazie al cambio occorso nella cultura abitativa, permisero di trasformare in un arco di

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tempo particolarmente ristretto gli spazi più degradati nelle parti che oggi meglio qualificano i centri abitativi. A tal proposito Bohigas affermava:

“Bisogna smettere di espellere verso le periferie tutte le antiche vergogne - i depuratori, i depositi di rifiuti, i generatori di energia, i mercati centrali, l’industria pesante, le ferrovie- non solo per rispetto nei confronti delle periferie, ma per la dovuta dignità sociale della metropoli. L’ubicazione del Forum 2004, futuro centro metropolitano, nel centro delle «vergogne» può essere la migliore lezione urbanistica offerta da Barcellona nella sua seconda tappa di ricostruzione.”

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Quando nel 1974 si costruì l’impianto depuratore non si pose l’interesse sulla possibilità di risolverne la parte terminale. Solo con il Forum delle Culture si decise di dare un valore a uno spazio che non ne aveva, cercando di reinterpretare quella che era stata la proposta di Cerdà nel suo Plan de Barcelona del 1861: il suggerimento di concludere l’incontro del tessuto urbano con il mare in una grande piazza venne ripreso e, alla luce delle condizioni del contesto, si tradusse in una grande piattaforma che avrebbe risolto tutti i punti di conflitto raccordandosi con il mare. L’area che oggi chiamiamo Parc del Forum diventava un grande foglio -un patchwork in asfalto tessuto in cinque colori differenti- che copriva ogni cosa e si introduceva in ogni interstizio. Ben oltre le apparenze di un progetto convenzionale, si trattava di un intervento multistrato, dove i diversi layers erano distribuiti sopra e sotto il livello della quota urbana; essi non avrebbero costituito una superficie piana, ma piuttosto la loro disposizione si sarebbe adattata e avrebbe utilizzato le altezze dei programmi funzionali previsti nel sottosuolo per definire molteplici ambiti spaziali, generando un’autentica topografia. A dieci anni di distanza è corretto affermare che il Forum sia stato il risultato fisico di una strategia politica, culturale e economica -con particolare riferimento al mercato immobiliare- che ha utilizzato un grande evento organizzato ad hoc per riqualificare e dare un nuovo volto, oltre che nuove funzioni, a un’ampia zona del litorale della città.

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L’intervento, che riguarda l’estensione della Diagonal fino al mare tra la Vila Olimpica e la foce del Besós, ha generato una periferia originale nei suoi caratteri più tipici rappresentati come già detto dalle grandi infrastrutture metropolitane -depuratore, inceneritore, centrale termica- riformate per diventare compatibili con le nuove funzioni di natura prettamente residenziale, commerciale e ricreativa. Seppur, come era stato per i Giochi Olimpici del 1992, il progetto fu portatore delle tesi urbane richieste dalla città in quel preciso momento storico, differentemente dal modello olimpico che era fondato sulla strada e sull’isolato, gli elementi di crescita nella zona del Forum furono rappresentati principalmente da residenze, uffici e hotel sviluppati in altezza con il nuovo scopo di disegnare un paesaggio eterogeneo: la grande piazza rappresentava lo spazio centrale attorno a cui disporre la crescita immobiliare. Non bisogna dimenticare che il progetto del Forum fu pensato per mettere in atto un duplice processo: da una parte il recupero dello spazio urbano fortemente degradato -ma con il vantaggio di essere localizzato in posizione strategica sul litorale- dall’altra la volontà di recuperare la relazione con le grandi infrastrutture di mantenimento lì collocate. Il depuratore era obsoleto ma non poteva essere spostato pertanto divenne necessario sostituirlo con una nuova struttura: in questo modo pur mantenendo la stessa posizione, la nuova tecnologia e la nuova architettura dovevano prevedere una copertura che potesse essere

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fruibile come spazio pubblico attrattivo in grado di rendere possibile il prolungamento della Avinguda Diagonal. La strategia di intervento fu attuabile attraverso un progetto a maxi-scala secondo cui si doveva mantenere il paesaggio del contesto insediativo, salvo alcuni cambiamenti derivati da nuovi programmi funzionali. Fu così che si impose la maxi-scala di progetto come modalità compositiva e funzionale più adatta alle caratteristiche del nuovo territorio che, seppur complesso, rimaneva un paesaggio industriale. Volendo includere Barcellona tra le poche città in cui organizzare eventi congressuali di ogni tipo e dimensione, nel caso del nuovo centro congressi si decise per un impianto che, pur adattandosi alle specificità della realtà locale, potesse coniugare le caratteristiche salienti dei modelli tipologici non più solo europei ma anche americani. A conti fatti però il Forum delle Culture è stata una manifestazione poco frequentata rispetto alla trasformazione urbanistica -molto contestata- che ha comportato. Se quello che nei capitolo precedenti abbiamo definito come modello lavorava per parti e andava ad intervenire in modo puntuale sul tessuto urbano, in molti hanno definito il progetto a maxi-scala del Forum come la strumentalizzazione dei concetti di diversità culturale, di sviluppo sostenibile, di pace (che furono poi le tematiche principali trattate durante l’evento) la cui procedura di attuazione venne inoltre condotta in modo confuso e poco partecipativo.

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Tra i tanti, Manuel Delgado, antropologo e Professore di Antropologia presso la Universitat de Barcelona, poco prima dell’inaugurazione, definì il Forum:

L’apoteosi delle culture, utilizzata dalla demagogia politica e mediatica, un’intrattenimento nel quale la pluralità culturale sarà ridotta a una pura parodia diretta al consumo delle masse e alla buona coscienza istituzionale […]. Un ammasso di istituzioni, di multinazionali e di denaro che fa si che il Forum potrà essere nel migliore dei casi nient’altro che un gran parco tematico al quale saranno invitati tutti i tipi di capi e guru e la diversità umana sarà esibita come un grande e amabile show di luci e di colori. Un circo.”

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Il grande evento è stato più volte trattato come una mera operazione imprenditoriale rivolta agli operatori privati, come se facesse da sfondo al fenomeno di urbanizzazione della Diagonal Mar che si stava e si è conclusa per lo più su iniziativa di privati. Con il Forum, l’urbanisme ciutadà della città compatta, degli spazi pubblici che caratterizzavano il Modello Barcellona, sembra essere sostituito -come sostiene Jordi Borja, politico spagnolo, geologo urbanista- da quello dei promotori immobiliari che impone le architetture dello star system come prodotti urbani isolati privati del loro contesto, cosa invece molto cara alla politica urbanistica degli anni della prima riqualificazione; ancora, secondo Jordi Borja:

“Le architetture nella zona del Forum vengono completamente private del loro contesto, l’architettura fine a se stessa si impone sull’urbanistica collettiva, così come il formalismo si impone sulla funzione sociale. L’architettura degli oggetti singolari diventa il volto artistico dei prodotti isolati dell’urbanistica degli affari.”

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La trasformazione urbanistica del litorale sul fronte orientale e la realizzazione della zona di Diagonal Mar e del Parc del Forum hanno sancito la fine di un’epoca: gli edifici isolati circondati da strade a scorrimento veloce, la disposizione intorno alla grande piazza e lungo la linea della costa, la composizione dello spazio verde e delle spiagge, la stessa piazza del Forum, rispondono a un’urbanizzazione molto diversa dai canoni scelti per la Vila Olimpica. Il modello locale viene sostituito un modello globale più frammentato e dispersivo dove l’architettura dei grattacieli e degli archi-star internazionali assume nuove forme di protagonismo. L’omegeneità della tradizione catalana da Cerdà a Bohigas viene sostituita dalla tecnica del collage; viene a mancare la volontà di creare continuità urbana, di rendere la periferia parte integrata della città a partire dallo spazio pubblico, dal tessuto esistente, consolidato, progettando nove piazze, strade, isolati, lasciando che il modello di città compatta che da sempre aveva definito Barcellona venga sostituito da un modello di città dispersa. Questo è evidente dal fatto che la tipologia prevalente degli edifici realizzati al di fuori della piattaforma del Forum è quella dei grattacieli: una tipologia estranea al contesto e senza alcuna relazione con la strada e con l’isolato, disegnata più sul modello americano che sulla tradizione architettonica e urbanistica locale. A tal proposito, relativamente alla diffusione dei modelli americani a Barcellona, si pronuncia Bohigas:

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“Io non sono contrario ai grattacieli nè alle alte densità, ma quanto sta succedendo è frutto delle priorità attribuite all’individualità architettonica nei confronti della preminenza dello spazio pubblico. […] Si annulla così il concetto basilare di città laddove l’oggetto singolare si adegua a un’idea generale della volumetria e dell’immagine.” Lo spazio pubblico in quest’area è rappresentato dal grande parco progettato da EMBT: le aree libere definiscono gli spazi per distanziare gli alti edifici, le forme organiche generano un forte stacco con la monotonia dell’intorno; la sua collocazione al centro delle torri lo rende però, più che uno spazio pubblico di quartiere, un parco recintato chiuso di notte utilizzato per lo più dai residenti. D’altra parte invece la spianata del Forum a causa della sua enorme estensione, giustificata dall’esigenza di accogliere grandi eventi e perciò grandi numeri, la rende uno spazio pubblico fuori scala e perciò dispersivo e poco fruibile, anche per la quasi totale mancanza di servizi in uno spazio

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pubblico così esteso. E dunque, se lo spazio pubblico creato non corrisponde a un concetto convenzionalmente classico, tanto meno vi corrispondono i suoi elementi significativi. Complessivamente il Forum è oggi uno spazio fuori dal tempo, senza memoria, che non porta con sè nulla della sua storia, che non manifesta in modo evidente nulla della sua trasformazione. Oggi, dieci anni dopo la manifestazione possiamo dire che l’evento culturale fu il primo segnale di decadenza del socialismo della capitale catalana; l’operazione che ne avrebbe dovuto celebrare l’apoteosi, sottolineò invece molteplici problematiche: in questo senso le conseguenze del Forum furono più profonde dei Giochi Olimpici, sul modo in cui Barcellona iniziò a guardare se stessa, il futuro, la propria identità. Considerata l’occasione offerta dall’evento del Forum delle culture, la Diagonal era stata portata a termine generando un’assetto urbano al quartiere più periferico del Besós. Se si guarda ai risultati raggiunti relativamente al progetto della Diagonal, si intravede ancora un’applicazione dei principali assiomi del modello: collaborazione tra pubblico e privato; commistione sociale; cura del disegno urbano e dello spazio pubblico. Inoltre, considerato il gran lavoro, essere riusciti a non dislocare nessun residente durante le opere di riqualificazione dell’area, era per l’ Ayuntamiento un risultato innegabilmente positivo.

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Quello che però, tra gli altri, anche Manuel Delgado rimprovera, fu che si dovette ricorrere a un modello finanziario di pura operazione immobilare della Diagonal Mar, tanto grande e redditizia da rendere il Forum delle Culture un dettaglio, se paragonato, Intervistato, alla domanda diretta su cosa sia stato il Forum, Delgado risponde:

“Il Forum non è mai avvenuto. Non è mai esistito. Di che Forum parliamo? Si parla di Diagonal Mar ma mai del Forum, che non è niente; non era destinato a costruzioni, non era un affare, doveva essere un colossale buco tra il Besós e la Diagonal Mar; la sua funzione doveva essere di cuscino affinchè la Diagonal Mar non si trovasse mai vicino al fiume, ai quartieri pericolosi come La Mina o il Besós.”

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Senza necessariamente appoggiare il parere di Delgado, non si può però negare che l’evento non riuscì a raggiungere gli obiettivi desiderati su diversi fronti; da una parte non coinvolse la città come ci si sarebbe aspettati; dall’ altra anche l’architettura delusa molti. Non si tratta dei singoli progetti, ognuno singolarmente soddisfacente, quanto piuttosto dell’atteggiamento con cui è stata affrontata l’urbanità e la relazione tra il progetto e contesto urbano. In qualche modo il Forum mise in luce il cambiamento di atteggiamento che la politica socialista stava attuando nei confronti della città. Quando i socialisti vinsero le prime elezioni democratiche nel 1979, la priorità sociale e politica era rappresentata dal recupero del territorio non solo a livello organizzativo ma anche e soprattutto morfologico. Questi due aspetti vennero intrecciati in una strategia urbanistica grazie alle quale politici e architetti erano stati capaci di conseguire obiettivi municipali di grande portata: come spiegato nei capitoli precedenti, dal recupero del centro storico ai Giochi Olimpici, dalle infrastrutture locali a quelle metropolitane. In questa maniera la democrazia socialista di Maragall aveva migliorato le condizioni di vita, unendo la bellezza urbana alla partecipazione cittadina, con una crescita economica costante che non uscì mai dai limiti definiti dall’amministrazione pubblica, fino al Forum. Dopo venticinque anni però, il Forum insieme alla Diagonal Mar mise in luce un simil-ritorno al porciolismo e l’architettura dimostrò di aver perso la sua capacità di influire nelle

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strategie urbane. Per concludere, quello che accadde fu che il Forum -una volta terminato l’evento- aveva chiaramente evidenziato che Barcellona era diventata sempre piÚ casuale e sempre meno modello; una dimostrazione negativa di come si stava perdendo il carattere identitario che tanto era stato difeso precedentemente.


Diagonal Mar + Forum


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INDICE DELLE FOTOGRAFIE Parc del Forum, Ottobre 2016 163 Grattacieli Diagonal Mar, Ottobre 2016 165 Diagonal Mar, Ottobre 2016 172 Centre Comercial Diagonal Mar, Ottobre 2016 173 Carrer de Josep Pla, Ottobre 2016 174 Torre Telefonica Diagonal 00 / Museu Blau, Ottobre 2016 175 Passeig de Taulat, Ottobre 2016 176 Museu Blau, Ottobre 2016 177 Plaça del Llevant, Ottobre 2016 178 Parc del Forum, Ottobre 2016 179 Bosc Urbà , Ottobre 2016 180 Pergola fotovoltaica, Ottobre 2016 181 Litoral / vista da Pergola fotovoltaica, Ottobre 2016 182 Parc del Forum / vista da Pergola fotovoltaica, Ottobre 2016 183



CAPITOLO 4


POBLENOU / 22@ UNO SGUARDO AL PASSATO LA RICERCA DELL’IDENTITA’



Tra la Vila Olimpica e il Forum, tra la Diagonal e la costa

si colloca il Poblenou, un quartiere storicamente industriale che oggi rappresenta il nuovo polo tecnologico della capitale catalana. Dalla fine degli anni Novanta, quando la maggior parte della fabbriche furono dismesse, il quartiere iniziò una fase di rigenerazione urbana che sostituì vecchie destinazioni d’uso lasciando spazio a nuove funzioni. Il quartiere del Poblenou era stato una delle più grandi aree industriali di tutta la Spagna; la storia del quartiere si sviluppa insieme alla storia della città (e della Catalogna): dapprima di stabilirono le industrie tessili e cui seguì una seconda generazione di industrie alimentari, laboratori e magazzini. Negli anni Sessanta il quartiere subì nuovi insediamenti di tipologia differente: da una parte cresceva il settore industriale e si stabilirono la grandi fabbriche meccaniche, chimiche, metalliche ecc; dall’altra andava formandosi un settore residenziale tra le zone industriali, con la conformazione tipica del quartiere barcellonese: una rambla (Rambla del Poblenou) al centro, con un forte carattere associativo destinato ai cittadini, non solo residenti. Come accadde dappertutto, con gli anni Settanta entrò in crisi il settore industriale e iniziò uno smantellamento e la dislocazione del settore che durò anche nei decenni successivi. Con la proclamazione di Barcellona come sede per i Giochi Olimpici ’92 iniziarono una serie di trasformazioni per cui fu necessario eliminare ogni traccia del quartiere industriale che fino a prima occupava l’area destinata al quartiere Nova Icaria, così che solo nel Poblenou

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restò testimonianza del carattere industriale della città. Si faceva però evidente, negli anni successivi e con i lavori che interessavano l’area fino alla Diagonal, la necessità di un recupero del tessuto industriale: si iniziò a pianificare una soluzione per il quartiere senza però andare a modificare la conformazione del tessuto; trasformare il quartiere in ciudad digital avrebbe permesso di riqualificare l’area, conferire un nuovo uso, senza però eliminare le tracce del carattere del passato, come era invece successo al fine di aprirsi al mare per le Olimpiadi. Si collocava dunque nel vecchio cuore produttivo della città un nuovo centro di produzione seppur differente, avanzata e più effimera: ricerca, tecnologia, informazioni, comunicazione, così nasce il 22@. Quando si parta di 22@ si fa riferimento a un progetto proposto nel 2000 dall’ Ayuntamiento per recuperare quasi duecento ettari di terreno industriale allo scopo di renderlo una nuova area di produzione, innovatrice con spazi destinati alla tecnologia e alle attività che essa genera. Dal punto di vista architettonico, invece, il Poblenou con il progetto 22@ risulta interessante perchè sembra essere un ritorno alla Barcellona passata seppur con uno sguardo al futuro, un’ulteriore applicazione del modello che con la Diagonal Mar e il progetto per il Forum delle culture era venuta a mancare lasciando un forte dissenso tra i cittadini. La trasformazione del Poblenou inizia alla fine del ventesimo secolo, momento in cui ci fu la convergenza di due fattori che ne determinarono e guidarono la riqualificazione e

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riconversione: da una parte il carattere locale -industriale- del quartiere era sempre più in declino e diventava necessario intervenire per preservare non solo gli edifici che fino ad allora erano stati utilizzati per la produzione industriale, ma anche lo spazio pubblico che risultava sempre più abbandonato e decadente; dall’altra avvenne il boom delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione da cui dipese la crescita e il necessario stabilimento di nuove aziende e servizi. A tal proposito si iniziò a parlare, ovviamente non solo per Barcellona, di “ICT revolution”, rivoluzione tecnologica. Nel caso della capitale catalana si decise di collocare in quest’area ormai dismessa, nella quale restavano solo edifici industriali abbandonati, fabbriche e capannoni, le nuove sedi di sviluppo tecnologico: questo significa che la produzione industriale -ormai dismessa- lasciava spazio allo stabilimento di un nuovo fenomeno industriale, l’industria dell’informazione e della comunicazione, tema centrale del 22@. Si parla molto di quanto le tecnologie influirono e ancora oggi influiscono sullo sviluppo urbano di Barcellona, ma si parla molto poco del cambiamento evolutivo che il quartiere subisce ancora oggi dal punto di vista architettonico. Il Poblenou -insieme al distretto San Martì- nasce come estensione della trama urbana disegnata da Cerdà, e questo segno è visibile tutt’oggi sia nella struttura urbana sia nelle infrastrutture. Se sul piano funzionale si trasformò l’attività industriale in attività comunicativa, sul piano

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architettonico si lavora sullo storia dell’urbanizzazione e sul mantenimento dei suoi caratteri fondamentali; in questo si percepisce un atteggiamento simile a quello mostrato nei decenni precedenti da Bohigas e dalla giunta socialista che voleva a tutti i costi evolvere Barcellona conferendole una sempre maggior identità. In tal senso si può parlare di sguardo al passato, perchè il Poblenou mostrerà di sapere mutare senza compromettere la storia che lo caratterizza: la trasformazione dunque non parte da zero, ma si proietta verso obiettivi futuri su un modello di città che deriva dal passato e di cui mantiene gli elementi fondamentali, come la trama di Cerdà fa da esempio. Nel 2009, intervistato durante una conferenza Manuel de Solà-Morales si esprime in maniera molto chiara:

“L’ infrastruttura di supporto che sta permettendo al 22@ di realizzarsi è la maglia stradale urbana disegnata da Cerdà; le modifiche effettuate si sovrappongono senza danneggiarla e le conferiscono una nuova dimensione più attuale adatta al ventunesimo secolo.”

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Dunque si definisce una morfologia dei blocchi (manzanas) che nascono dalla maglia storica più flessibile ed estesa, con l’obiettivo inoltre di regolarizzare tutto il quartiere secondo la normativa non sempre applicata nelle aree più degradate. Il recupero mira a inserire in un disegno regolare non solo dal punto di vista morfologico ma anche funzionale tutti i blocchi del quartiere, consolidandone l’applicazione delle norme e riuscendo a dare alla realtà esistente un potenziale di sviluppo maggiore non solo per l’impatto tecnologico quanto più per le persone, per i cittadini. Così il piano di sviluppo 22@ prevede tre aree di recupero: urbano, economico, sociale.Come già anticipato, il piano prevede il recupero di 200 ettari di area industriale collocata in una zona centrale della città, con l’obiettivo di trasformarla in un distretto di produzione innovativa concentrata nello sviluppo delle attività di comunicazione e ricerca; in quanto recupero urbano, la soluzione adottata mira a recuperare edifici industriali e fabbriche obsolete dando luogo a un’area compatta dove però possano coesistere produzione e residenziale, servizi e aree aperte che permettano di implementare la qualità della vita dei residenti e di chi lavora nel quartiere. Dal punto di vista economico, senza dilungarsi troppo, si tratta di una possibilità evidente del quartiere di inserirsi nel nuovo centro urbano della capitale catalana. Si tratta di creare un binomio equilibrato tra il settore della ricerca e lo sviluppo del tema residenziale in una chiave nuova che deve adattarsi alla conformazione delle vecchie strutture ripristinate.

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Sotto l’aspetto sociale, di cui l’architettura non può non tenere conto, si cerca di favorire la relazione tra differenti professioni che trovano sede nel quartiere riabilitato, cercando di promuovere l’area attraverso la versatilità degli spazi -non solo all’interno degli edifici, ma anche nella struttura urbana pubblica- e la possibilità di coesistenza e collaborazione, quasi inesistente precedentemente quando nel Poblenou dominavano talmente tanto le industrie che venne definita la “Manchester catalan”. La trasformazione del Poblenou avvenne in maniera graduale e progressiva tenendo in considerazione le strutture preesistenti in modo da non creare un effetto traumatico per il quartiere; si decise di agire in due modi, per trasformazione e per riutilizzo degli spazi. Nel primo caso, parlando di trasformazione vennero definite alcune aree strategiche e si agì sull’esempio del disegno della trama urbana di Cerdà: il Plan Cerdà prevedeva l’integrazione di alcuni elementi puntuali all’interno della struttura urbana industriale del Poblenou da intendere come punti strategici e singolari all’interno di un’area omogenea, dove fosse possibile localizzare attività dal carattere centrale e talvolta anche di scala più grande delle manzanas. Nel secondo caso invece, il riutilizzo di edifici esistenti di cui si era in passato consolidata la funzione industriale, permise di fare un nuovo uso degli spazi così da dedicarli sia alle attività tecnologiche sia a una nuova maniera di progettare spazi residenziali. Questi due metodi per procedere alla riqualificazione della

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città venivano inseriti in un piano generale più ampio che prevedeva di completare le facciate di edifici residenziali lasciati incompleti, la costruzione di servizi e lo sviluppo di infrastrutture. Riqualificare l’area industriale del Poblenou segnava un punto di svolta importante per il processo di sviluppo di Barcellona; non solo si voleva attuare una ridensificazione dell’area, ma si cercavano di definire soprattutto nuove strategie di ridistribuzione delle funzioni e delle attività attraverso il recupero di un’area che aveva perso il suo valore e il suo dinamismo. Si tratta di operazioni a lungo termine -ancora in corsocome era accaduto con il modello di Bohigas, che prevedono la trasformazione per fasi di una zona destinata a nuove funzioni, sul disegno degli usi precedenti, con lo scopo di trasformare senza deturpare. Rinnovare il Poblenou significa soprattutto generare nuovi e molteplici impieghi dell’area con l’obiettivo di dare vita a una organizzazione urbana più compatta ed equilibrata. Inoltre, è necessario sottolineare che la riqualificazione del quartiere è basata non solo sul recupero degli edifici ma anche sul mantenimento delle infrastrutture insieme ad altri elementi già presenti nell’area così da procedere senza creare una spaccatura tra la situazione iniziale e l’ambizione futura. Riprendendo la divisione precedentemente fatta (aspetto urbano, economico, sociale) dal punto di vista urbano, recuperare le aree industriali serviva a risolvere la frattura

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prodotta dalla destinazione obsoleta di alcuni isolati industriali per dare continuità al Poblenou con le aree centrali della città (Ciutat Vella, i quartieri del centro storico, Eixample). All’interno del quartiere, però, la riqualificazione serviva anche a integrare le diverse parti sviluppate in maniera eterogenea per favorire la crescita della città dal centro storico fino alla zona del mare adiacente alla Diagonal. Motivo per cui la densità degli edifici iniziò ad aumentare per arrivare ad avere una densità pari o simile a quella dei quartieri centrali, che avrebbe permesso un uso più razionale del suolo urbano: in questo modo si cercava di sfruttare quanto più possibile un’area dal grande potenziale e contemporaneamente si limitava la domanda di nuovo suolo. Come abbiamo già detto, Bohigas usa un termine molto chiaro per definire la geografia di Barcellona, compatta, delimitata fisicamente dal mare e della montagna, dal fiume Llobregat e dal Besós, pertanto era necessario riuscire a concentrare lo sviluppo della città dentro ai suoi limiti fisici. L’aumento della densità avrebbe permesso inoltre di mantenere e potenziare la complessità del quartiere, ragione per cui si cercò di combinare attività differenti e molteplici usi così da conferire al nuovo Poblenou una coesione sociale e uno sviluppo più equilibrato e sostenibile con uno spreco ridotto non solo di energia ma anche di spazio. Oggi infatti le attività tradizionali e le nuove economie digitali coesistono permettendo una continua crescita e diffusione delle attività di ricerca, insieme alle destinazioni

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commerciali e residenziali la cui crescita è equilibrata con lo scopo di contribuire allo sviluppo sociale del quartiere e al miglioramento delle condizioni di vita di residenti e cittadini. La città compatta, di cui la trasformazione del Poblenou è un esempio, favorisce la vitalità dello spazio pubblico e l’accessibilità per mezzo di mobilità secondaria, cercando di limitare il più possibile l’eccessivo impiego di mezzi privati -ricordando che uno dei problemi maggiori di Barcellona era rappresentata dal traffico urbano- e favorendo l’utilizzo di mezzo di trasporto pubblico, con integrazione di percorsi dedicati ai pedoni e alle biciclette. Questi elementi, a riprova del fatto che nel progetto di mantenimento della struttura urbana, si riuscì a dare giusto equilibrio tra la l’esistente -strade, edifici ed elementi storici per il quartiere- e i nuovi elementi trasformati o recuperati: il risultato finale che ne consegue è una città compatta in cui coesistono in maniera equilibrata ciò che è stato trasformato, ciò che è stato recuperato e ciò che è stato mantenuto. Per promuovere ed enfatizzare questo tipo di equilibrio tra le permanenze e le trasformazioni nel territorio, venne definito un sistema flessibile di trasformazione in grado di adattarsi ai differenti requisiti e alla diverse situazioni localizzate nel nuovo eterogeneo Poblenou. Dal punto di vista sociale invece uno degli aspetti più importanti, ovviamente relazionato al piano urbano, corrisponde alla capacità di far coesistere molteplici funzioni diverse da quelle che avevano precedentemente

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caratterizzato il quartiere, senza generare una trasformazione d’impatto che avrebbe probabilmente cambiato in modo radicale la vita del quartiere. E’ stato importante per residenti e cittadini che tutt’oggi vivono il quartiere riuscire a conciliare elementi preesistenti alle nuove caratteristiche del Poblenou senza subire effetti traumatici sul piano della società. In questo modo fu possibile garantire la possibilità di far crescere e migliorare il settore residenziale, senza privare della sua efficienza il settore produttivo. La socialità all’interno del Poblenou è infatti oggi garantita proprio dalle molteplici attività a cui è stato lasciato spazio negli anni: quello che prima era un quartiere prettamente industriale, dove il settore residenziale era fortemente destinato ai soli lavoratori -cosa che rendeva il Poblenou un quartiere unicamente produttivo e dormitorio- è oggi un quartiere polifunzionale nel quale coesistono con risultati positivi le attività legate al settore della produzione, i servizi e le abitazioni, contribuendo a un equilibrio sociale sempre più in crescita. L’armonia che dipende dall’integrazione delle diverse funzioni localizzate, aiuta sicuramente ad aumentare la qualità della vita nel quartiere -oggi uno dei meglio serviti della cittàcon uno sviluppo dello spazio pubblico e della qualità come punto di partenza per una maggiore e migliore crescita della qualità della vita. Il quartiere è oggi emblematico della volontà associativa possibile grazie anche -o forse soprattutto- al tessuto urbano e alle molteplici attività di cui l’area dispone:

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è stato importante che gli abitanti non percepissero la rottura con le abitudini del Poblenou industriale ma che ne riconoscessero il maggior potenziale potendo però continuare a riscontrare gli aspetti che da sempre avevano caratterizzato e permesso la coesione sociale. Per questa ragione è importante la partecipazione dei cittadini -che, è bene sottolinearlo, aveva caratterizzato la crescita della città fin da dopo la dittatura- per il processo di sviluppo e promozione di un progetto innovativo basato sulla collaborazione tra privati, istituzioni pubbliche, organizzazioni sociali e culturali. Dunque, compattezza e complessità come basi per fare un uso più ponderato del suolo, dando alla città -partendo dal quartiere- più equilibrio, un sistema ecologicamente più efficiente, ed economicamente più sostenibile. E allora, per concludere, possiamo riassumere che ciò che più permise di difendere la qualità degli aspetti sociali fu proprio la capacità di tenere in considerazione le preesistenze e le nuove attività con il supporto dei servizi di comunicazione, delle infrastrutture, dello spazio pubblico già presenti nel Poblenou. L’ evoluzione storica del Poblenou ha avuto come risultato una varietà di fasi ed elementi che testimoniano la ricchezza sociale e culturale del quartiere. L’occupazione quasi totale del suolo urbano, basato sulla logica delle tipologie destinate alla produzione e al residenziale hanno generato un paesaggio urbano in cui si

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nota il cambiamento e i contrasti che lo identificano. La morfologia che ne risulta è caratterizzata dalla coesistenza di edifici destinati alle attività di produzione e comunicazione, con edifici residenziali dal linguaggio architettonico molto differente: edifici di grande qualità che fossero essi industriali o residenziali, si accostano oggi a grandi recinti industriali riabilitati, capannoni di un solo piano, strutture industriali in cemento, case individuali che conferiscono un carattere discontinuo e una evidente rottura formale. Come già detto, la struttura urbana segue la disposizione che Cerdà aveva adottato nel piano per l’Eixample, con spazi interstiziali, alternanza dei sensi di marcia, ortogonalità delle strade che genera la disposizione degli edifici secondo una griglia geometrica: tutti elementi che servono a supportare un tessuto produttivo e sociale diverso e complesso, che si è configurato nel corso degli anni. Fin da principio il progetto 22@ venne attuato con la volontà di andare a lavorare su un tessuto già definito e ricco di elementi esistenti da mantenere -e da integrare in ogni nuovo intervento- non solo fisici ma anche economici e soprattutto sociali. Per questa ragione la trasformazione del tessuto urbano del Poblenou avvenne per mezzo del recupero degli elementi più rappresentativi che lo configuravano; su questa linea veniva definita la compresenza di attività di produzione che non davano esisti negativi sul quartiere con i nuovi impieghi. E’ stato possibile mantenere intatto il tessuto economico e sociale per mezzo della riqualificazione e del riutilizzo

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di buona parte degli edifici esistenti: tutto ciò è avvenuto grazie all’identificazione delle abitazioni collocate su suolo industriale, al trattamento specifico di edifici industriali di buona qualità, alla supervisione del Catalogo del Patrimonio Architettonico Storico della città di Barcellona nel quale sono riportati tutti gli elementi facenti parte del patrimonio industriale della città. Organizzare un quartiere in cui possano convivere spazi residenziali e spazi di produzione significa dare alle persone la possibilità di avere tutti i servizi necessari concentrati in un’unica area; questo accadde con il progetto di riqualificazione del Poblenou: disporre residenze e spazi di produzione aiutò a favorire lo sviluppo del commercio locale e a garantire la vitalità dello spazio pubblico durante l’arco di tutta la giornata, entrambi fattori alla base di una buona qualità urbana. Perchè ciò fosse possibile bisognava procedere secondo due metodi: prima di tutto riconoscere le residenze esistenti e definire le condizioni per migliorare e riformare le facciate; poi creare nuove social housing come soluzione alla trasformazione delle destinazioni d’uso di alcuni edifici industriali dismessi. Occorre ricordare che molti degli edifici residenziali esistenti non rispettavano la normativa di abitabilità in vigore per cui era necessario risanare gli edifici di quest’area con lo scopo di conferire a ogni spazio -pubblico o privato- una miglior qualità. Con l’obiettivo di creare un polo eterogeneo nel nuovo Poblenou, gli edifici residenziali sia preesistenti sia

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appositamente edificati vennero destinati a diversi utenti (studenti, famiglie, disabili, anziani, giovani, lavoratori temporanei, ecc) così da attrarre e coinvolgere nel quartiere diverse utenze e in modo che l’area potesse rispondere sempre alle diverse esigenze.

Schema distributivo delle funzioni in relazione al recupero del suolo industriale del Poblenou previsto dal Plan 22@.

Oltre a una coesistenza di funzioni -residenziale e produzionele attività sono molteplici: a quelle definite attività @ che riguardano la tecnologia, la ricerca, la comunicazione, si affiancano le commerciali locali che hanno dato luogo a una produzione ricca e molto varia così da favorire la competitività dell’intero corpo produttivo dell’area.

Pl an 1976

Plan 2 2 @

@

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Dunque le attività esistenti nell’area non erano vincolanti per la diffusione delle nuove attività volte a rendere il Poblenou il nuovo polo tecnologico produttivo della città; anzi stabilire nuove funzioni di questo genere servì ad aiutare le attività già presenti a svilupparsi, poichè le prime per crescere al meglio richiedevano buone infrastrutture, un’area ben servita, spazi produttivi specializzati e flessibili che si sarebbero rivelati utili anche per le seconde, quelle presenti da sempre. Per quanto riguarda il residenziale, sia tradizionale che nel contesto industriale, per tutto il Poblenou esso presentava un deficit dei servizi primari; il Plan 22@ rappresenta un recupero anche in questo senso: ripristinare le funzioni non solo per l’uso collettivo ma anche per migliorare la vita dei singoli individui facenti parte della comunità. Si trattava dunque di lavorare contemporaneamente ai servizi della scala tanto residenziale quanto urbana: per migliorare la vita del quartiere, dei residenti, dei cittadini era necessario risolvere le mancanze su tutti i fronti. La riqualificazione partì dagli spazi residenziali che vennero forniti di tutti i servizi precedentemente mancanti, così come accadde per l’arredo urbano e funzionale delle le strade (dalle panchine e gli alberi, alle fognature e la rete elettrica). In aggiunta a questo si lavorò anche alla riqualificazione del quartiere dal punto di vista culturale: il forte carattere associativo già definito non doveva coinvolgere solo i residenti ma i cittadini di tutta Barcellona; si investì nel quartiere perchè venissero collocati spazi espositivi, culturali e universitari.

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Anche qui, come era stato per le altre aree riqualificate della città fin dai tempi del modello, lo spazio pubblico faceva da supporto alla vita urbana: costituito da un’alternanza di strade e aree verdi di differente scala, lo spazio pubblico rappresenta oggi circa la metà dell’area destinata al 22@. L’importanza dello spazio pubblico non riguarda solo la sua estensione ma anche il suo ruolo nel contesto urbano: esso è la base che tiene insieme gli elementi urbani, che identifica la città e che la dota del suo carattere eterogeneo. Inoltre, lo spazio pubblico serviva a rappresentare il punto di incontro per le relazioni sociali e ne favorì la coesione: le aree verdi formano un sistema gerarchico di diverse scale che si adatta alle varie necessità della struttura urbana, delle funzioni e degli usi. Lo spazio pubblico viene trasformato non solo alla grande scala in relazione ai sistemi stradali, ma anche -nuovamente, come era stato il lavoro di Bohigasattraverso piccoli interventi puntuali negli spazi interstiziali tra gli edifici in grado di generare cambiamenti più ampi su tutta la scala del quartiere. Sempre affrontando il tema dello spazio pubblico, ma analizzando le strade, esse rappresentano un elemento strutturale in grado di mettere a sistema non solo diverse aree della città, ma anche le parti del quartiere tra loro, rispettando la relazione tra edificato e spazio pubblico, dando maggior forza e ordine alla struttura urbana del Poblenou, proseguimento naturale dell’ Eixample di Cerdà.

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Riepilogando, il vecchio settore industriale del Poblenou è stato da sempre caratterizzato dalla sovrapposizione di vari layers e tessuti urbani differenti, risultato dell’aver occupato il suolo industriale in maniera graduale -di pari passo con l’evoluzione della città- con logiche costruttive che dipendevano dalle esigenze del settore produttivo, dalla vicinanza tra le abitazioni e il posto di lavoro, dalla connessione con la città per mezzo delle grandi infrastrutture. Ne consegue una grande eterogeneità. Nonostante il quartiere si sviluppi in continuazione con la maglia di Cerdà, il Poblenou si distingue per i tanti livelli urbani che storicamente si sono sovrapposti: agricolo, industriale, residenziale di diversa scala. I diversi usi e le molteplici funzioni formano una serie di tessuti urbani in cui la griglia acquisisce sfumature distinte sia all’interno dello stesso Poblenou sia con il resto della città. Partendo da questa realtà complessa, il 22@ a differenza degli altri Piani di sviluppo urbano tradizionale, non stabilisce un preciso ordine del terrotorio, ma promuove un graduale sviluppo che, nel corso degli anni, sia sempre in grado di adattarsi alla caratteristiche preesinstenti. Per riuscire a realizzare la trasformazione di un territorio di duecento ettari, senza creare spaccature con le presidenze e con le riconversioni d’uso, è stato messo in pratica un sistema flessibile di trasformazione con il requisito di sapersi adattare alle diverse circostanze presenti in ogni angolo del quartiere, generando progetti eterogenei sia nei presupposti

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che nella scala: si intervenne in modo diretto su lotti ed edifici, vennero sviluppati piani pubblici e privati per i singoli isolati, vennero definite strategie per individuare aree e assi che potessero fare da riferimento urbano e ordinato per quartiere. I piani pubblici e privati, pur lavorando a scale molto diverse risposero ai principali criteri di definizione della struttura urbana e mirarono a rafforzare assi infrastrutturali e aree di sviluppo attraverso la definizione di caratteri identitari, la disposizione di nuovi edifici residenziali, il rapporto tra gli edifici esistenti, la tipologia dello spazio pubblico. I valori sociali, economici e spaziali già presenti vennero riconosciuti e mantenuti conservando un’alta percentuale del tessuto esistente con l’obiettivo di migliorarlo e creare condizioni di convivenza che permettessero di definire nuove forme urbane. Quando si parla del 22@ infatti si definisce un’operazione di recupero urbano basato sulla combinazione dei singoli interventi puntuali in un contesto di forte equilibrio tra il vecchio e il nuovo, con l’obiettivo di definire e rendere esplicito il carattere identitario del quartiere in linea con la morfologia della struttura industriale e produttiva che per oltre 150 anni ha occupato il Poblenou. E’ stata progettata una vasta gamma di interventi che tenevano conto della condizione esistente di ogni settore -industriale, residenziale, spazio pubblico- così da agire attraverso le migliori soluzioni di trasformazione e manutenzione del tessuto urbano con l’obiettivo principale

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di salvaguardarne il tessuto ed evitare ogni tipo di spaccatura con il passato. In questo senso è molto evidente come il Poblenou, più o meno volontariamente, rappresenti una maniera di pensare la città molto vicina al modello urbano e architettonico che aveva caratterizzato la Barcellona nei suoi anni migliori (dal post-dittatura fino a prima del progetto della Diagonal Mar) da cui riprende l’interesse per lo spazio pubblico come motivo di sviluppo e coesione sociale, un metodo puntuale di riqualificazione, una necessità di proteggere e rafforzare l’identità.


Poblenou / 22@


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INDICE DELLE FOTOGRAFIE Rambla del Poblenou / vista dal mare, Ottobre 2016 Rambla del Poblenou / vista verso il mare, Ottobre 2016 Rambla del Poblenou / vista da traversa secondaria, Ottobre 2016 Rambla del Poblenou / luogo di aggregazione, Ottobre 2016 Rambla del Poblenou / incrocio tra manzanas, Ottobre 2016 Accademia del suono / recupero industriale, Novembre 2016 Interno di un deposito recuperato, Novembre 2016 Showroom e spazi co-working / recupero industiale, Novembre 2016 Permanenze / accostamento deposito + abitazioni, Novembre 2016 Les Encants / edificio di nuova costruzione, Novembre 2016 Torre Agbar + Museu del Disseny, Novembre 2016 Plaça de las Gloriès, Novembre 2016

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DIALOGHI


DIALOGHI

BARCELLONA, CHI L’HA COSTRUITA E CHI LA VIVE



Riporto

un’intervista tenuta da Chiara Ingrosso a Oriol Bohigas nel 2011, per la pubblicazione del suo libro “Barcellona: architettura, città, società 1975-2015” poichè fa da filo conduttore allo sviluppo della mia tesi. Un giorno, durante il mio periodo di ricerca presso il loro studio ho posto -circa- le stesse domande a Oriol Capdevila e Francesc Gual, entrambi architetti soci dello studio MBM e colleghi di Bohigas. Si suole indicare la prima panificazione di Barcellona come quella dei progetti urbani, che si concentrò sulla forma della città, sugli spazi pubblici, sulla città come insieme di parti, attenta alle richieste dei cittadini. Me la può descrivere brevemente? E’ senza dubbio vero che l’intenzione di quel periodo era “fare città”. Non si trattava di tirare fuori carte utopiche pensando a un’unità globale e territoriale che non esisteva, ma di risolvere i problemi concreti di ciascun quartiere e di ciascun punto della città. Per noi il tracciato di una nuova strada aveva la stessa importanza della sistemazione di una fontana o di un gruppo di alberi in un quartiere dove non ce n’erano, così come la costruzione di una scuola o di una biblioteca. Volevamo creare nuovi servizi pubblici, una nuova vita collettiva prestando attenzione, allo stesso tempo, al carattere rappresentativo dello spazio pubblico, soprattutto per la funzionalità pubblica e collettiva. Credo, poi, che un altro fattore importante fu la volontà politica. In una città rovinata, con problemi sociali ed economici molto gravi, e

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soprattutto priva di un’ideologia collettiva era importante dare soluzioni concrete e immediate a problemi reali. Era assurdo in quel momento cominciare a discutere sul piano regolatore o su problemi territoriali a una scala troppo grande, quando i problemi erano molto più immediati e prossimi. Credo quindi che fu una buona idea non dedicarci a modificare o impostare nuovamente la pianificazione generale per occuparci, invece, di progetti urbani molto concreti che nel loro insieme, d’altra parte, rispondevano a un’idea concreta delle priorità della città. Ciò accade in un periodo molto preciso che, cominciato negli anni Ottanta, si concluse con le Olimpiadi negli anni Novanta. Non voglio dire che il metodo dei progetti puntuali, dell’attenzione alla forma collettiva della città non si sia mantenuto anche in altri momenti, ma forse la fase sperimentale più chiara fu questa. Con la Villa Olimpica, alcuni sostengono sia iniziata la distruzione del patrimonio della Barcellona industriale. E sia incominciata la terziarizzazione del fronte mare. Che cosa ne pensa? Io non credo che il patrimonio industriale sia in pericolo; d’altra parte se così fosse, non penso nemmeno che sarebbe una cosa tanto grave. Non è vero che con la Villa Olimpica è cominciata la distruzione del patrimonio industriale: era già molto limitato e poco interessante. C’era invece la volontà di trasformare un quartiere completamente degradato in un quartiere residenziale normale e funzionante. Mi sembra molto positivo conservare il patrimonio, ma entro determinati

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limiti: non si può, per amore della conservazione puramente storica e museistica di un edificio, obbligare i cittadini a vivere in condizioni non adeguate. Credo che ciò che si è fatto nella Villa Olimpica sia corretto, ben riuscito, e anche se sono stati sacrificati alcuni edifici industriali (che d’altra parte secondo me erano poco interessanti) non si può paragonare ciò che c’era lì con quello che rappresenta per Barcellona, oggi, la presenza di un quartiere finalmente marittimo con associata urbanizzazione interna che funziona molto bene, con un’utilizzazione del territorio molto adeguata. Che pensa dell’intervento Forum / Diagonal Mar, e in cosa si differenza dalla Villa Olimpica? Credo ci sia una differenza fondamentale: si tratta di due criteri distinti di costruire un quartiere urbano. La Villa Olimpica è un quartiere che vuole essere la continuazione della struttura viaria della città vicina, quella antica e tradizionale: l’idea della strada con le case che vi si allineano, con spazi verdi negli ambiti centrali e con un aspetto che suggerisce una densità simile a quella della città antica, anche se in realtà la densità edificatoria della Villa Olimpica è molto più bassa.La Diagonal Mar è il contrario: non una struttura urbana con strade definite dall’allineamento di architetture, ma si tratta di una spazio centrale, più o meno verde, con edifici autonomi, che fagocitano l’aspetto collettivo dello spazio pubblico, assorbendolo in modo privato. A parte il tema della densità, l differenza tra le due operazioni risiede

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nel fatto che la Villa Olimpica cerca la continuità con l’immagine della città, con strade, piazze, isolati, mentre la Diagonal Mar è un tentativo di città dispersa anche se molto densa, con blocchi elevati in uno spazio libero relativamente pubblico. [Riprendendo la seconda domanda, riguardo il patrimonio industriale della Villa Olimpica] Però ci sono molto differenze con quanto sta accadendo al Poblenou, in base al Pla 22@? Si certo, nel 22@ il problema formale è poco studiato e poco deciso. C’era il dubbio tra la scelta della città degli edifici “insoliti” e quella della continuità delle strade. Anche se adesso si comincia a vedere qualche risultato, credo che in alcuni punti si raggiungano risultati abbastanza positivi. Siamo davanti a un quartiere “ibrido”.

*

1.

Si suole indicare la prima pianificazione di Barcellona come quella dei progetti urbani, che si concentrò sulla forma della città, sugli spazi pubblici, sulla città come insieme di parti, attenta alle richieste dei cittadini. Me la descrivete? Oriol: Quando parliamo in termini architettonici, con “forma” indichiamo il risultato dei progetti urbani che riescono a tenere in considerazione le preesistenze e i parametri futuri.

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Questo può succedere a piccola scala fino alla scala urbana, ovviamente maggiore è la scala della forma da dare, maggiori saranno le difficoltà. Nel caso di Barcellona, dopo la fine della dittatura la città manifestava tutti i segni della crisi urbana che la aveva contaminata. Ma questo fu un grande stimolo e permise di recuperare tutti gli elementi e tutte le sue parti facendo fronte alle esigenze dei cittadini. Barcellona era una città socialista, si era appena liberata dell’oppressione della dittatura, non poteva non tenere in considerazione i bisogni dei cittadini. La città doveva essere di chi la viveva, questo è fuori da ogni dubbio. Quindi, per rispondere alla domanda: gli elementi che danno forma alla città cambiano da una città all’altra; nel caso di Barcellona è molto chiaro che si, è vero, l’attenzione fu posta prettamente sullo spazio pubblico perchè è il primo elemento da cui dipende la sua forma. Ci sono le strade e le piazze del centro storico, la trama urbana dell’Eixample, a Barcellona tutto parte dalla strada, da sempre. Francesc: Si, e la strada ha le sue caratteristiche sempre chiare. Lo spazio pubblico è un sistema ben definito dagli elementi che lo compongono: i viali alberati, il verde, l’arredo urbano. Questo permette di organizzare la città, parte per parte, in modo ordinato. Ecco forse in questo senso Barcellona ha una forma ordinata, un susseguirsi di elementi che caratterizzano ogni spazio allo stesso modo. La forma è un po’ una regola: strade, piazze, panchine, alberi, tutti elementi necessari a vivere lo spazio pubblico, quello di tutti.

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2. Ecco, mi relaziono a quanto state dicendo e vi chiedo in

questo senso come influisce il “modello Barcellona” e come potete definirlo, cos’è stato davvero il modello per Bohigas?

Francesc: per Bohigas non esisteva un modello, c’erano dei problemi e andavano risolti. Ha agito in un certo modo, questo modo ha funzionato e si è iniziato a parlare di modello. Ma dopo, e sono stati altri a usare questo termine, mai lui. Non c’era l’intenzione di costituire un modello, bisognava salvare Barcellona dalla condizione di degrado in cui si trovava, questo era. La città era chiusa dentro se stessa e circondata da altre città satellite: alcune come San Martì o Sarrià avevano una qualità urbana intrinseca ma altri erano nuclei marginali non serviti; era necessario lavorare alla forma del tessuto urbano per incorporarli. La città non è solo una somma di parti, c’è bisogno che essere funzioni tra loro, che comunichino. Per Bohigas la città era un sistema e doveva funzionare in tutte le sue parti e si lavorava per ricostruire il centro storico e urbanizzare la periferia. Ecco questo era, non esisteva un modello ma se dovessi definirlo dire che per Bohigas il modello di città era quella in cui centro storico e periferia avevano la stessa valenza: bisognava dare alle periferie la stessa potenza del centro storico, anche se erano decentrate; anche la periferia diventava un elemento centrale della vita urbana, come accadde con la Via Julia per esempio. Quello è un gran progetto. Lo definirei un processo di osmosi urbana, una soluzione urbana puntualmente applicata.

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Oriol: E poi c’è la questione del ricambio delle funzioni. Il centro storico per esempio: prima del Plan Cerdà nei quartieri storici -il Gotic, il Born, dalla Rambla alla Via Laietana- c’erano i palazzi delle famiglie più ricche della città. Poi con il Plan Cerdà, nell’ Eixample vennero risolti problemi che nel centro storico persistevano, le reti fognarie ed esempio, e le famiglie iniziarono a trasferirsi nel nuovo quartiere dove le condizioni di vita erano migliori e il centro storico iniziò a svuotarsi. Questo accadeva prima del modello, prima di Bohigas, ma è la storia di Barcellona e ha condizionato tutto ciò che è venuto dopo: rappresenta una realtà urbana e sociale a cui hanno fatto seguito altri avvenimenti influenzati da tutto questo. Questo per dire che ancor prima che si iniziasse a parlare di un modello c’era la necessità di organizzare tutto ciò che non era organizzato, per esempio accanto a ogni quartiere industriale c’erano città satellite create ad hoc per i lavoratori; ma mancavano i servizi. Solo il Poblenou era diverso, perchè ha la sua storia, è inglobato nella trama urbana, è il naturale prolungamento dell’ Eixample. Francesc; vorrei aggiungere una cosa per concludere. Ho detto che il modello non esiste perchè di fatto fu un risultato. Bisognava riqualificare la città e si cercò una soluzione attuabile con i pochi mezzi a disposizione, accorciare la distanza morfologica tra centro e periferia fu una di queste. Ma credo che si iniziò a parlare di Modello con i Giochi Olimpici. Negli anni Novanta Barcellona cambiò non solo nell’aspetto ma anche nelle attività, c’è una

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definizione urbana evidente, in un certo senso diventa un modello da imitare, ma per noi che c’eravamo dentro non stava succedendo niente di diverso da quello che già si stava facendo da anni, c’erano solo più mezzi. Per questo non pensavamo ad un modello, ma capisco che il cambiamento d’impatto generato dalle Olimpiadi, soprattutto da fuori, portò a questa definizione.

3.

Bene, a proposito di Giochi Olimpici, alcuni sostengono che con la Villa Olimpica sia iniziata la distruzione del patrimonio della Barcellona industriale e sia cominciata la terziarizzazione del fronte mare. Che cosa ne pensate? Francesc: Non c’era nessun patrimonio, il fronte mare era completamente abbandonato e ciò che restava era abusivo. L’attività sociale era completamente distrutta, tutto l’assetto industriale era dismesso da anni; era un disastro sociale, c’erano solo baracche ed era anche pericoloso. Bastava una pioggia e c’era il rischio che le baracche venissero distrutte. La terziarizzazione non rappresentava un pericolo, era l’unica soluzione: Barcellona doveva aprirsi al mare, bisognava dare delle risposte alla città. Oriol: Barcellona oggi ha più di otto chilometri di costa, prima della Villa Olimpica la costa non esisteva e questo è assurdo! Bisognava lavorare dove c’era un deficit e la costa era questo; una delle possibilità considerate fu di collocare i servizi per le Olimpiadi a San Cugat ma questo sarebbe

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stato uno spreco, San Cugat c’era e funzionava bene, invece bisognava prendere i Giochi Olimpici come un’occasione per agire dove più c’era bisogno ed era un controsenso troppo grande avere il mare e non avere una costa. Francesc: Lo dico in senso positivo, Barcellona è una città opportunista, ha saputo cogliere l’occasione di un evento per correggere delle mancanze. Barcellona non era la capitale, non aveva tutti i vantaggi di cui godeva Madrid soprattutto dal punto di vista economico. Fu così per ogni evento, precedente o posteriore la Villa Olimpica, ma quello che si fece sul mare fu probabilmente il più grande esempio di osmosi urbana: ci si aprì al mare, ma si risanò un’intera area della città, non solo la linea della costa. Non fu un caso che si definirono quattro aree, ognuna della quali aveva deficit da risanare per un motivo o per un altro. E poi ci fu la questione dei collegamenti, lavorare su aree disperse permise di costruire le Ronde: con l’occasione delle Olimpiadi si lavorò al sistema stradale apparentemente per atleti e giornalisti che dovevano muoversi da un polo all’altro, ma in realtà il più grande risultato restò ai cittadini, dopo. Penso a quanto ci hai chiesto prima, ecco perchè si iniziò in questo periodo a parlare di modello, perchè il cambiamento era più evidente di prima, ma il modo di agire in realtà era lo stesso: si dovevano dare risultati visibili, concreti. I grandi piani precedenti non erano sbagliati, ma erano teorici, astratti. Bisognava invece intervenire per punti, fin dove il deficit era gestibile, e risanarlo dove era possibile. Era fondamentale apportare un

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beneficio non solo urbano, non solo economico, ma sociale. E questo fu la Villa Olimpica, e se questo fu il risultato della terziarizzazione allora va bene così, basta andare alla Barceloneta adesso per vedere quanto funziona anche ora, dopo più di vent’anni.

4.

E invece cosa pensate dell’intervento Diagonal Mar / Forum, e in cosa si differenzia dalla Villa Olimpica? Francesc: La prima grande differenza fu la gestione; Diagonal Mar è un progetto privato la Villa Olimpica era un progetto pubblico totalmente gestito dall’ Ayuntamiento (non sto parlando di fondi, ma di gestione sottolineo). E il vero problema della Diagonal Mar credo risieda nel fatto che i cittadini non si sentirono coinvolti, a Barcellona è sempre stata importante la collaborazione dei cittadini; durante il progetto della Villa Olimpica è stato un contributo, si sapeva che si stava agendo per il bene della collettività, si lavorava per ridare la città ai suoi abitanti, come ho detto quella degli atleti fu solo una scusa, chiamiamolo “un motivo”. Per la Diagonal Mar non fu così, un’impresa americana si occupò di tutto, non ci fu partecipazione. Oriol: Con il progetto degli americani (Gruppo Hines, multinazionale che gestì la Diagonal Mar) accaddero due cose, da una parte ci fu un cambio di interlocutori e dall’altra cambiò l’interpretazione del valore urbano. Il capitale privato, come spesso accade, non rispondeva alle necessità sociali,

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prevaleva l’interesse urbano al benessere sociale. Non voglio dire che si progettarono spazi privi di qualità, la qualità c’era ma a chi era destinata? Costruirono grattacieli, hotel, anche spazi verdi, ma poi la sera a chi restavano quei giardini recintati che chiudevano? Come può uno spazio pubblico chiudere? La strada non chiude mai, è di tutti, sempre, e si adatta alle diverse esigenze. Per questo funziona come luogo di aggregazione. Ecco, mancava l’aggregazione in quell’area, che poi fu anche il grande problema del Forum. Non puoi togliere la possibilità aggregativa a Barcellona, noi siamo abituati a vivere la nostra città. E come dicevo con il Forum ci fu lo stesso problema, non si riuscì a creare uno spazio di aggregazione. Tanti dicono che il Forum delle Culture fu un fallimento, ma non è vero. L’evento probabilmente fallì, ma l’area oggi può essere risolta. Fino a prova contraria è vero ora rappresenta un vuoto urbano particolarmente esteso, ma si può risolvere. Il problema del progetto è che stato realizzato fuori scala, offre un buon potenziale ma costa troppo alla città; è uno spazio pensato per i grandi eventi, ma Barcellona non può ospitare ogni giorno un evento per più di mille persone, sarebbe utopia. C’è un problema di dimensione, e questo è sicuramente negativo, ma quando viene usato per manifestazioni o concerti è uno spazio che funziona. Francesc: Credo che il problema del Forum sia diverso dalla Diagonal. L’area del Parc del Forum oggi non è risolta perchè è un progetto che è stato fatto senza alcuna giustificazione,

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è stato fatto perchè bisognava risolvere l’ultima parte di quell’area ma non c’era altra esigenza a cui rispondere dal punto di vista collettivo. C’erano problemi infrastrutturali e si cercò un modo per risolverli senza riuscire a creare un legame con il tessuto urbano che lo circondava. Sembra che il progetto sia stato realizzando passando dalla scala generale al cantiere, mancano i dettagli. In questo senso è vero, non è un progetto perso, offre un potenziale e si può migliorare; se oggi vai al Forum ti rendi conto che non stai male, ma rispetto al contesto urbano è un progetto fuori scala, troppo grande, senza alcun riferimento se non visivo e lontano. Mi rifaccio sempre alla Villa Olimpica, che offrì servizi e coerenza urbana: il forum è discontinuo, non offre niente. Certo, non possiamo dire che abbia tolto qualcosa ma per i cittadini non ha risolto niente, non c’è niente che lo identifichi, niente per cui si possa parlare di benessere sociale, è un grande suolo urbano servito a coprire ciò che non funzionava (il depuratore).

5. Si tratta di un progetto molto differente da quanto sta

accadendo al Poblenou, in base al 22@?

Francesc: Il Poblenou è un esempio positivo per Barcellona; il 22@ è un progetto tecnologico ma è ben equilibrato tra il mantenimento del patrimonio e l’innovazione. Quell’area rappresenta da sempre un buon potenziale per la città, non è mai stato solo un quartiere industriale, a differenza di quanto dicevamo all’inizio il Poblenou è ben strutturato, c’è

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sempre stata commistione tra produttività e abitabilità. E poi si è saputo adattare al cambiamento, non solo oggi. Io credo che sia interessante vedere come abbia cambiato il tipo di produzione negli anni, e credo che oggi sia interessante vedere che funziona come altre aree della città pur avendo scopi diversi. Un esempio, ci sono negozi e punti vendita che funzionano molto bene nel Poblenou, ovviamente sono molto diversi dai negozi che troviamo sulla Rambla ma non per questo sono meno importanti o meno utili. Posso dire che è un buon esempio di recupero urbano, e i risultati sono ancora solo agli inizi. Oriol: Il 22@ è un piano intelligente e funziona molto bene, e questo si piega in modo molto chiaro grazie a due fattori. Prima di tutto è ben inserito nella trama urbana, ha sempre funzionato bene perchè nasce come naturale proseguimento dell’Eixample di Cerdà e per questo ingloba in modo strutturato infrastrutture e spazio pubblico. Inoltre risponde bene alle necessità sociali, è un quartiere eterogeneo e inserirvi un polo tecnologico lo rende ancora più vario e accessibile. Funziona, è un quartiere per tutti.

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CONCLUSIONI


CONCLUSIONI COSA RESTA DEL MODELLO



“Di una città non apprezzi le sette o settantasette meraviglie, ma la risposta che dà ad una tua domanda.” (Le città invisibili, Italo Calvino)

Barcelona

Urban Model, strategie urbane tra identità e globalizzazione è una tesi volta a indagare proprio la funzione delle risposte urbane che una città deve fornire alle necessità sociali dei suoi abitanti -e più in generale dei suoi utentie Barcellona rappresenta il mezzo, non il fine, per arrivare criticamente ma con consapevolezza a illustrare in che modo ciò accade. Una città è composta di molteplici parti, elementi e attori: essi differiscono tra loro passando da una città all’altra e per questo rendono ciascuna diversa dalle altre, unica, forte della sua identità.Per citare Salvatore Settis 1 nel suo trattato Se Venezia muore :

“Oblio di sè […] vuol dire soprattutto la mancata consapevolezza di qualcosa che è sempre più necessario: il ruolo specifico di ogni città rispetto alle altre, la sua unicità e diversità.”

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1

Salvatore Settis: archeologo e storico dell’arte. Ha pubblicato diversi libri per Einaudi, di cui Se Venezia muore nel 2004


Per questo motivo, per evitare l’oblio di cui parla Settis, una città deve sempre portare con sè la sua memoria, storica ma anche sociale. Una città dovrebbe sempre evolversi con l’obiettivo di migliorare le condizioni di vita di chi la vive -di passaggio o stabilmente- ma non per questo tralasciare ciò che storicamente ne ha caratterizzato il tessuto urbano, che inevitabilmente ha condizionato anche il carattere sociale e viceversa. Barcellona in questo senso rappresenta un esempio, non deve essere imitata o riprodotta, deve essere capita. L’obiettivo di questa tesi, dopo una prima fase di analisi, non è tanto descrittivo e illustrativo della trasformazione urbana che ha coinvolto la capitale catalana negli ultimi quarant’anni, quanto piuttosto critico rispetto al tema dello sviluppo urbano -non sono di Barcellona- attorno all’equilibrio tra due capisaldi della progettazione architettonica: l’identità e la capacità di una città di adattarsi al processo di globalizzazione che sta investendo non solo l’architettura ma ogni campo in cui siano coinvolti aspetti sociali ed economici. Per questo motivo sono stati scelti solo alcuni eventi dello sviluppo urbano di Barcellona, che possono essere considerati esemplari per il metodo con cui sono stati applicati. La necessità di recuperare il centro storico, di aprirsi al mare, di trasformare il carattere industriale di un quartiere senza comprometterne il patrimonio storico sono obiettivi non unici di Barcellona, ma comuni o simili ad altre città europee e non solo.

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La peculiarità di Barcellona pertanto non sta nel risultato, quanto nel modo in cui la città è riuscita a raggiungere tale obiettivi, a darsi delle risposte. “Cosa resta del modello”, -capitolo conclusivo della tesiindica ciò che resta alla città, in seguito a un modo di fare architettura in relazione agli eventi che hanno condizionato il suo sviluppo -la crescita o il declino. Non si tratta di resti, ma di ciò che ai cittadini rimane a lungo termine, delle trasformazioni a seguito di eventi temporanei i cui effetti -non necessariamente sempre positivi- si sono protratti anche dopo la loro chiusura. La tesi non vuole porsi come elogio alla città, ma piuttosto utilizzare Barcellona come caso-studio per dimostrare l’importanza del contesto che sia esso urbano, sociale, economico. La globalizzazione è un processo d’interdipendenze economiche, sociali, culturali, politiche e tecnologiche i cui effetti positivi e negativi tendono ad uniformare il commercio, le culture, i costumi e il pensiero. Tra gli aspetti positivi della globalizzazione dal punto di vista architettonico va sicuramente annoverata l’opportunità di crescita economica per i paesi a lungo tempo rimasti ai margini dell’economia; esso può diventare però un fenomeno, se pur di crescita, negativo a cui può fare seguito la perdita delle identità locali.

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“Viaggiando ci s’accorge che le differenze si perdono: ogni città va somigliando a tutte le città, i luoghi si scambiano forma ordine distanze, un pulviscolo informe invade i continenti.” (Le città invisibili, Italo Calvino) Per evitare la profezia che Calvino affida a Marco Polo nel suo racconto al Kublai Khan, è necessario analizzare, capire e conoscere le criticità di ogni città -morfologiche, storiche, culturali, geografiche, economiche e anche politiche- per poter lavorare in continuità al suo sviluppo, senza creare delle spaccature tra la città che era e la città che sarà. Esistono città la cui identità locale è maggiore e più radicata, al punto che essa può diventare quasi un limite; bisogna però sempre lavorare -come riportato nell’intervista di Bohigas- affinchè venga salvaguardato ciò che veramente rappresenta un patrimonio, una memoria. Essa può essere storica, ma non solo. Barcellona, in particolar modo attraverso la trasformazione del Poblenou, è esempio di come si possa iniziare un processo di evoluzione urbana che non contamini il carattere storico:

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il quartiere è per la città il punto di partenza di ciò che oggi si definisce “smart city”, città intelligente. In architettura è un insieme di strategie di pianificazione urbanistica tese all’ottimizzazione e all’innovazione dei servizi pubblici così da mettere in relazione le infrastrutture materiali delle città con ne necessità sociali di chi le abita, grazie all’impiego diffuso delle nuove tecnologie della comunicazione, della mobilità, dell’ambiente e dell’efficienza energetica, al fine di migliorare la qualità della vita e soddisfare le esigenze di cittadini, imprese e istituzioni. Di fatto questa definizione rappresenta un concetto in continua evoluzione: ciò che è smart oggi non lo era dieci anni fa e non lo sarà tra altri dieci. Basti pensare alle esigenze della Barcellona degli anni Ottanta, che aveva appena potuto riaffermare la sua politica socialista: politici e architetti, uniti nella necessità di riqualificare la città deturpata da decenni di dittatura, lavorarono allo scopo di risanare la città, dal centro storico alla periferia, dotando ogni quartiere dei servizi che mancavano e riassestando il tessuto urbano decadente. In questo modo, adottando il metodo di interventi puntuali per riqualificare la città nel minor tempo possibile con i pochi mezzi a disposizione, Barcellona poteva essere considerata smart, ma è evidente che, per le necessità attuali, lo stesso metodo non sarebbe sufficiente per definirla ancora oggi intelligente.

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I progetti attualmente volti a rendere Barcellona una città sostenibile -Plaça de les Glòries Catalanes, La Sagrera, La zona Franca- mirano a raggiungere molteplici obiettivi, layers in sovrapposizione a cui, a ciascuno, corrisponde una necessità differente: morfologica, storica, infrastrutturale, sociale, ambientale, energetica. Barcellona però non è solo un buon esempio -come già detto la tesi non vuole essere un elogio alla capitale catalana; la città è stata impiegata come mezzo per indagare sulla possibilità di coesistenza tra mantenimento dell’identità e sviluppo globale perchè nei decenni ha dimostrato di aver avuto una grande crescita ma anche momenti di decadimento, come il Forum delle Culture insieme al progetto di completamento della Diagonal Mar. Se i Giochi Olimpici ’92 rappresentato il successo di un progetto pensato per durare nel tempo, oltre l’evento stesso, i lavori della Diagonal Mar hanno rappresentato il fallimento di un modello urbano che aveva dimostrato di funzionare alla scala locale. Il cambio di scala, diversi interlocutori, nuovi modelli a cui riferirsi, fecero sì che il Forum delle Culture 2004 non riuscì a sopravvivere a se stesso lasciando, al termine dell’evento -e come purtroppo accade nella maggior parte dei casi- un grande vuoto urbano ai cittadini di Barcellona.

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Questo, come fenomeno per capire due aspetti molti importanti del ruolo dell’architettura nelle città: se con le Olimpiadi Barcellona afferma un modello funzionale per le necessità urbane che l’avevano -e l’avrebbero ancoracoinvolta, il Forum e soprattutto la Diagonal Mar rappresenta il fallimento dello stesso modello perchè cerca altri stimoli non contestualizzati nel suo tessuto urbano. La città aveva dimostrato di poter crescere mettendo al centro del suo sviluppo lo spazio pubblico, -l’elemento più identitario che da sempre possiede-, come motivo di aggregazione e come layer di connessione tra gli elementi puntuali della città; questo principio è valido per Barcellona nel caso specifico, non necessariamente può e deve essere applicato ad altri contesti, ai quali corrispondono diverse peculiarità, strutture ed esigente che siano esse sociali, culturali, storiche, economiche o geografiche. Allo stesso modo è importante che, riconosciuta la propria caratteristica più rilevante, Barcellona -come ogni altra città- la preservi e la definisca, trasformando, migliorando e arricchendo la sua immagine senza creare rotture nel tessuto urbano e sociale. Per concludere, non esistete un modello, un modulo, che possa funzionare globalmente in ogni contesto: il fenomeno della globalizzazione ha positivamente posto degli obiettivi che ogni città deve -o dovrà- raggiungere per garantire una migliore qualità della vita agli abitanti; a fronte di questo obiettivo esistono però molteplici elementi -caratteristiche di qualsiasi natura- che, senza essere vincolanti ma piuttosto

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rappresentando uno stimolo e una peculiarità da difendere, producono diversi modi di costruire la città, verso standard comuni. Barcellona è diversa da Copenhagen, che è diversa da Lisbona, che a sua volta è diversa da Venezia, o Berlino, o Londra. Ognuna di queste città insieme a molte altre -compatte, dense, diffuse, eterogenee-, ha caratteristiche specifiche; il compito dell’architetto consiste nel conoscerle, individuarne gli elementi primari -che siano essi positivi o negativi- capire in che modo essi contribuiscono o limitano lo sviluppo e, interpretandoli in relazione a un determinato -altro- contesto, riuscire a metterli in pratica rispettando le caratteristiche di ogni luogo.

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BIBLIOGRAFIA


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Transformaciòn de un frente maritimo, Barcelona la Villa Olimpica 1992 Martorell/ Bohigas/ Mackay/ Puigdomènech, GG Editorial

La Villa Olimpica, Barcelona 92- Arquitectura, parques, puerto deportivo Martorell/ Bohigas/ Mackay/ Puigdomènech, GG Editorial

Barcelona, la segona renovaciò Ayuntament de Barcelona, 1996



Tutte le immagini sono state scattate durante il periodo di ricerca (settembre / dicembre 2016) in collaborazione con Davide Ghidini http://daveghidini.wixsite.com/underacid .



POLITECNICO DI MILANO SCUOLA DI ARCHITETTURA URBANISTICA INGEGNERIA delle COSTRUZIONI Facoltà di Architettura MI - CdS E12 Architecture Anno accademico 2015 / 2016


Quando si pensa alla riqualificazione della capitale catalana si cita per lo più il notevole progresso architettonico dovuto all’organizzazione dei Giochi Olimpici del 1992, in riferimento soprattut to alla Villa Olimpica. In realtà, l’evoluzione urbana di Barcellona inizia prima e continua anche dopo le Olimpiadi.


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