SVETLANA OSTAPOVICI in/NATURA/le
in/NATURA/le Gianluca Marziani Fabro; penso al trash riciclato di David Hammons, al ritualismo sacrale dei suoi assemblaggi di attitudine postbarocca; penso al caos apparente del defunto Jason Rhoades che usava gli ambienti come architettura iperfuturista… sarebbero tanti gli esempi ma credo sia chiaro il senso dell’argomento: l’opera che funziona rispetta una geometria ideale, possiede chiarezza nei suoi elementi indispensabili. Non occupa lo spazio ma appartiene allo spazio, entra nella biologia architettonica dell’inquadratura. E non è certo un problema di tela, carta fotografica o ambiente fisico; a contare sono gli equilibri rituali, i pesi specifici del vuoto, la morbidezza fluida del nucleo, il bilanciamento tra forze opposte. Scorrevo tutte le opere finora prodotte da Svetlana Ostapovici. I pezzi non sono molti (notizia sempre piacevole) e si rivelano estremamente calibrati, danno l’immediata impressione di un’artista che lavora con metodo e disciplina, concentrata su ogni fotografia e installazione, convinta che il singolo progetto abbia bisogno di tempistiche adeguate, riflessione a lungo raggio e senso del sottrarre anziché aggiungere. Seguo da anni il suo rigoroso percorso dove l’impatto etico si rivela passaggio dopo passaggio, un rito ottico che ti catapulta nel turbamento morale del suo sguardo, nella coscienza ferita del reale che l’opera, senza alcuna enfasi, lascia defluire verso l’esterno. Estetica ed etica Mi preme sottolineare una questione centrale che riguarda il substrato dell’opera, la sua qualità contemporanea, quel preciso legame tra la costruzione estetica e gli elementi teorici dietro l’immagine. L’arte è un bilanciamento chirurgico che amalgama ingredienti dialettici, tutt’altro che semplice se l’obiettivo tocca la durata nel tempo e l’efficacia nello spazio globale. Lo dimostra la Storia, lo ribadiscono le vicende del mercato, i media sensibili, i musei più tenaci: l’opera che funziona chiede un solido impianto iconografico, capace di resistere all’urto mondano e codificare messaggi etici in forma di contenuti concettuali. Sembra ovvio a dirsi, in realtà lo scarto tra l’arte a rapida consumazione e l’arte a graduale sedimentazione incarna il principale spartiacque nel marasma di proposte a gettata quotidiana. Qualcuno potrebbe ribattere che tanti autori di successo non costruiscono forme sedimentate ma fragili, precarie, disposte alla temporaneità. In realtà proprio ciò conferma le mie convinzioni: penso al fenomeno Arte Povera, a quanta aura geometrica ed equilibrio spaziale ci sia nei capolavori polimaterici di Jannis Kounellis, Mario Merz e Luciano
Svetlana Ostapovici rispetta le urgenze iconografiche dell’opera, direi che tutto il suo percorso è una sfida di equilibri e contaminazioni, una tensione costante per amalgamare messaggio e forma finale, senza che uno prevalga mai sull’altro. Non era facile visto il medium prediletto: la fotografia. Ancor meno facile quando la tecnica digitale costruisce paesaggi altri che inventano una seconda realtà sulla base del mondo concreto. Le immagini provocano reazioni, sfidano lo sguardo con le loro vertigini urlanti. Si vestono di epidermidi solide che vibrano con lo stridore vivo di pietre, metalli, legni, plastiche… La natura urla la sua sofferenza e l’opera ne amplifica le passioni, si trasforma nella cassa acustica che fa risuonare la fibrillazione instabile del Pianeta. L’artista moldava ascolta le ferite del paesaggio, carezza la patologia tumorale che lacera l’eden perduto. Guarda con amore il disagio ambientale, senza alcun disgusto o toni nichilistici, mostrando invece la luce dietro ogni tragedia, elaborando un lutto in forma di lotta. Le sue visioni, pur criticando la cultura del benessere postcapitalista, vanno oltre la retorica del problema e cercano gli spazi d’adattamento, l’alchimia dialettica tra opposti, una sorta di continuità storica che stabilisca le ragioni del reale in mutazione. La Ostapovici ci racconta il lato sporco del Pianeta senza alcun moralismo; preferisce l’emozione lucida e il senso di protezione verso l’elemento debole, sottolineando la natura ciclica degli eventi e l’ineluttabilità del cambiamento. I suoi progetti vanno nella direzione della bellezza pericolosa ma necessaria, dentro la consapevolezza del problema, oltre il muro della nostalgia. Ogni opera parla con frasi metalliche, come avrebbero fatto James G. Ballard e Kurt Vonnegut se al posto delle parole avessero scelto le immagini. È l’arte visiva che incarna l’esperanto della visione globale, un codice aperto alle interpretazioni e al fluire della contemporaneità. È il quadro che si assume la responsabilità del futuro. 7
La biologia dei cicli L’artista si muove per cicli tematici, come fossero capitoli narrativi dentro lo stesso romanzo visuale. Elabora frasi di un medesimo dialogo tra la propria attitudine e gli elementi feriti del mondo, un continuo scambio di informazioni da plasmare secondo specifici codici figurativi. Le opere hanno una loro vitalità biologica, sembrano corpi accesi in mutazione costante, statici per natura tecnica ma fibrillanti per codice morale. Senti che qualcosa di biodinamico scorre sottotraccia, un sangue multicolore che ricorda il “Concerto per quattro elicotteri” di Karleinz Stockhausen. L’esempio ha molte relazioni con la Ostapovici: in entrambi i casi l’artificio meccanico cambia la natura delle forme (le pale di un elicottero come strumento ambientale), la durezza si ammorbidisce e l’inaspettato ridefinisce le nostre utili incertezze. Quando Stockhausen affermò, con spirito colto e non gratuito, che la tragedia delle Twin Towers era la più grande opera d’arte mai prodotta dall’umanità, non stava celebrando il fondamentalismo islamico ma la potenza superiore dell’atto creativo, la sua feroce crudeltà che prescinde da qualsiasi valutazione morale. Stava dicendo che Natura e Opera sono due facce della stessa medaglia: e che noi umani siamo semplici portavoce di un gigantesco disegno chiamato Universo. Non esiste una morale dentro il cosmo ma semplici
azioni e reazioni, a conferma di quanto sia importante la valutazione di ogni singolo presente, senza dogmatismi e derive ideologiche. L’artista ha l’obbligo di ascoltare l’universo, confrontandosi con le leggi della Fisica e Chimica, Matematica e Biologia. Difficile, davanti allo sviluppo rapido della tecnologia, pensare ad un’arte del futuro che non tenga conto del macrocosmo dove tutto accade. L’umanità cammina oggi su un filo sottile ma molto resistente, una passeggiata pericolosa sopra il baratro della decadenza. Improbabile che il filo si spezzi, più facile che in molti cadano nel buco nero, dentro il buio cosmico dell’involuzione. Connettersi a ciò che abbiamo, spostando il baricentro retorico oltre la norma, si profila tra le giuste aperture per una riflessione urgente. La biologia della memoria A dimostrazione di un moto costante che governa i lavori, la stessa memoria artistica diviene elastica nella sua adattabilità mimetica. Le sculture figurative di “Metal Recycling” impattano su muraglie di scarti urbani, una specie di dodecafonia fluida in cui la statuaria classica rialza la tensione visiva e fa rivedere diversi valori condivisi. Siamo abituati alle sculture in piazza, alla loro vitalità celebrativa e ornamentale; al contempo siamo abituati agli accumuli di lamiere, rifiuti e altri detriti metropolitani. Le sculture rappresentano storicamente il “centro”, inteso come luogo del vitalismo propositivo, delle funzioni sociali dominanti; le discariche, al contrario, indicano la periferia e il degrado, l’abuso e l’abbandono come ritualismi della filiera postindustriale. La Ostapovici ribalta queste due certezze sociologiche e mescola le carte attraverso la convivenza dei diversi, creando alfabeti dialettici tra sculture figurative e geometrie del rifiuto. Il risultato spiazza e affascina, come sempre avviene quando il negativo non ha una sola faccia ma risvolti complessi. La stessa visione del negativo evoca il dubbio dietro l’apparenza, stimolando l’analisi dei fatti e la valutazione dello spettro aperto. Il negativo è tale fino in fondo? L’idea del positivo è tale fino in fondo? La natura diventa innaturale L’artificiale entra nel cuore del naturale Naturale e artificiale si appartengono
La costante cosmologica, Fondazione Rocco Guglielmo, Catanzaro 8
La fotografia (digitale e non) sta offrendo i migliori risultati davanti al cambiamento metropolitano. Penso a Giacomo Costa che ricrea la città del “memento armato”, il luogo astratto di cui già parlava nel 1884 Edwin Abbott Abbott nella sua “Flatlandia”. Penso ad Olivo Barbieri e Massimo
Vitali che dilatano la natura filmica del campo panoramico, riportando l’umanità alla sua naturale sottomissione rispetto al potere mastodontico del paesaggio. Penso ad Armin Linke che esalta la solitudine aggressiva dei luoghi. E penso adesso a Svetlana Ostapovici, ai suoi ambienti dove il dramma si tramuta in energia, dove la consumazione si trasforma in ricrescita. Ci sta dicendo che un fiore nasce da fessure dentro l’asfalto, che il Pianeta si rigenera nella sua costante automedicazione. Ci sta dicendo che tutto può rinascere ma anche che dovremmo fare di meglio e di più, rispettare le leggi naturali, non tirare la corda quando è già tesa. I suoi cicli fotografici non danno risposte ma offrono domande chiare per soluzioni plasmabili. Così le sue installazioni, altrettanto limpide per oltrepassare il valico delle (stupide) certezze sociali. Le opere della Ostapovici mettono in azione l’urgenza ed evocano nuove indagini sui confini ormai cambiati della bellezza metamorfica. Ribadiscono un rinnovato atteggiamento davanti al mondo, fatto di valori consolidati e nuove visioni morali, ostinazione e adattamento, apertura e disponibilità. In medio stat virtus L’equilibrio come principio centrale Il dialogo e il rispetto come motori dell’equilibrio
Pain...Thing, Palazzo Zenobio, Venezia
Ancora una volta è l’arte visiva che indica la via del cambiamento. Non ci sono soluzioni pratiche dentro le opere, sia chiaro. Come appena detto, tutto resta un punto di domanda che l’artista pone al nostro raziocinio borghese. L’opera incarna un’azione teorica, un indicatore della temperatura sociale che rilascia scariche sulla coscienza dei fruitori sensibili. Le reazioni del nostro pensare diventano fondamentali per definire il codice concettuale, un angolo di svolta che apre la fotografia al suo terreno ormai naturale. La nostra idea del futuro tecnologico è al suo embrione: chissà se domani sarà un muro di rottami il luogo privilegiato per una statua di Buddha…
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un/NATURE/al Gianluca Marziani of how much geometric aura and balancing of space there is in the multimaterial works of art of Jannis Kounellis, Mario Merz and Luciano Fabro; think of the recycled trash of David Hammons, of the sacred ritualism of his assemblies of post-baroque attitude; think of the apparent chaos of the deceased Jason Rhoades who used surroundings as hyper-futuristic architecture‌the examples are many but I think my point is clear: the piece that works respects an ideal geometry, it possesses clarity in its indispensable elements. It does not occupy the space but belongs to it, it enters the architectural biology of the frame. It definitely is not a question of canvas, photographic paper or physical environment; what counts is the ritual balancing, the specific weight of the void, the fluid softness of the nucleus, the balance between opposing forces. I was going through all of Svetlana Ostapovici’s work. There are not many pieces (always pleasant news) and they are extremely calibrated, they immediately give one the impression of an artist who works methodically and with discipline, concentrating on every photo and installation, convinced that the single project needs adequate timing, long range reflection and a sense of taking away rather than adding. I have been following her rigorous journey for some years where the ethical impact is revealed step after step, an optical rite which catapults you into the moral turmoil of her sight, into the injured conscience of what is real which her work, without any emphasis, allows to flow out. Aesthetics and ethics I would like to underline a central question regarding the substrata of her work, her contemporary quality, that very bond between the aesthetic construction and the theoretical elements behind the picture. Art is a surgical balancing which amalgamates dialectic ingredients, which is anything but simple if the objective touches duration in time and effectiveness within the global space. History demonstrates this, the vicissitudes of the markets corroborate it, as does the sensitivity of the media and the more tenacious museums: for a piece to work it needs a solid iconographic set up which is able to resist worldly attacks and codify ethical messages in the form of conceptual contents. This seems to state the obvious, but in reality the waste between art as rapid consummation and art as gradual sedimentation incarnates the main partition in the chaos of daily proposals. Some may argue that many successful authors do not construct sedimentary forms but fragile ones, precarious and inclined to temporariness. In fact, this actually confirms my convictions: think of the phenomenon Arte Povera,
Svetlana Ostapovici respects the iconographic urgencies of the work of art, I would say that all of her journey is a challenge of balance and contamination, a constant tension to amalgamate message and final form, one never prevailing on the other. It was not easy considering her favoured medium: photography. Even less easy when the digital technique constructs other landscapes which invent a second reality on the base of the concrete world. The images provoke reactions, they defy what we see with their screaming vertigo. They are clothed in solid epidermis which vibrate with the live screeching of stones, metals, wood, plastic‌ Nature screams out its suffering and the image amplifies its passions, it is transformed into the loudspeaker which resounds the unstable fibrillation of the planet. The Moldavian artist listens to the wounds of the landscape, she caresses the tumoral pathology which lacerates the lost Eden. She looks upon the environmental discomfort with love, without disgust or nihilistic tones, showing instead the light behind every tragedy, elaborating mourning into the form of struggle. Her visions, even though they criticise the wealthy post capitalist culture, go beyond the rhetoric of this problem and try to find spaces for adaptation, the dialectic alchemy between opposites, a sort of historical continuation which establishes the reasons of reality in mutation. Svetlana Ostapovici relates the dirty side of the Planet without any moralism; she prefers lucid emotion and sense of protection towards the weak element, underlining the cyclical nature of events and the ineluctability of change. Her projects go in the direction of dangerous, yet necessary beauty, inside the awareness of the problem, beyond the wall of nostalgia. Every work speaks in metallic sentences, as James G. Ballard and Kurt Vonnegut would have done if they had chosen images over words. 11
It is visual art that incarnates the Esperanto of global vision, a code open to interpretation and to the flow of the contemporary. It is the picture which takes on the responsibility of the future. The biology of the cycles The artist moves in thematic cycles, as if they were narrative chapters within the sane visual novel. She elaborates sentences of a similar dialogue between her attitude and the wounded elements of the world, a continuous exchange of information to mould according to specific figurative codes. The works have their own biological vitality, they resemble fired up bodies in constant mutation, static because of their technical nature but fibrillating because of their moral code. One feels something biodynamic flowing beneath, a multicoloured blood which reminds us of “Concert for four helicopters” by Karlienz Stockhausen. This example relates a lot to Svetlana Ostapovici: in both cases the mechanical artifice changes the nature of the forms (the blades of a helicopter as an environmental instrument), hardness is softened and the unexpected redefines our useful uncertainties. When Stockhausen stated, with cultured spirit and not gratuitously, that the tragedy of the Twin Towers was the greatest work of art ever produced by mankind, he was not celebrating Islamic fundamentalism but the superior might of the creative act, its ferocious cruelty which puts aside any moral evaluation. He was saying that Nature and Work are two faces of the same medallion and that we humans are merely the mouthpiece of an enormous design called the Universe.
There is no moral in the cosmos, merely actions and reactions which go to confirm how important the evaluation of every single thing present is, without dogmatisms or derived ideologies. The artist has the obligation to listen to the universe, to confront the laws of Physics and Chemistry, of Mathematics and Biology. Difficult, when faced by the rapid development of technology, to think about an art of the future which does not take count of the macrocosm where everything happens. Nowadays mankind walks along a fine yet resistant line, a dangerous walk above the abyss of decadence. It is improbable that this line will snap, rather many will fall into the black hole, inside the cosmic darkness of involution. To connect to what we have, moving the rhetorical barycentre beyond the norm, comes out as one of the ways to go for urgent reflection. The biology of memory In demonstration of a constant motion which governs the works, artistic memory itself becomes elastic in its mimetic adaptability. The figurative sculptures from “Metal Recycling” draw upon walls of urban waste, a sort of fluid dodecaphony in which classical statuary lifts the visual tension and shows a variety of shared values. We are used to the statues in our squares, to their celebrative and ornamental vitality; at the same time we are used to the piles of metal sheets, rubbish and other metropolitan detritus. The sculptures historically represent the “centre”, seen as the site of proposed vitality, of the dominating social functions; the waste dumps, on the other hand, are the suburbs and decay, the abuse and abandon seen as rituals of a post-industrial thread. Svetlana Ostopovici turns these two sociological certainties upside down and shuffles the cards through the cohabitation of what is different, creating dialectic alphabets between figurative and geometric sculptures of waste. The results confuses and fascinates, as always, it happens when what is negative does not only have one face but complex implications. The very vision of what is negative evokes doubt behind appearance, stimulating an analysis of the facts and the evaluation of the open spectre. Does what is negative remain so right to the bottom? Does the idea of positive remain so right to the bottom? Nature becomes unnatural The artificial enters the heart of the natural Natural and artificial belong to each other
Svetlana Ostapovici, 52. Biennale di Venezia 12
Photography (digital or not) is giving us the best results in the face of metropolitan change. Think of Giacomo Costa who recreates the city of the “armed memento”, that abstract place which Edwin Abbott Abbott spoke of in 1884 in his “Flatlandia”. Think of Olivo Barbieri and Massimo Vitali who dilate the filmic nature of the panoramic shot, bringing mankind back to its natural submission before the enormous power of the landscape. Think of Armin Linke who exalts the aggressive solitude of places. Think now of Svetlana Ostapovici, of her places where drama is transmuted into energy, where consummation is transformed into regrowth. She is telling us that flowers spring up through the cracks in the asphalt, that our Planet regenerates itself in its constant self-medication. She is telling us that everything can be reborn but also that we have to do better and more, respect natural laws, not to pull the line when it is already taut. Her photographic cycles do not offer us any answers but offer us clear questions for mouldable solutions. The same can be said for her installations, just as limpid so as to go beyond the pass of our (stupid) social certainties. Svetlana Ostapovici’s work sets off a sense of urgency and evokes new investigations into the now changed confines of metamorphic beauty. It corroborates a new attitude to the world, made up of consolidated values and a new moral vision, obstinacy and adaptation, open-mindedness and receptiveness.
Rolli Contemporanei, Genova
In medio stat virtus Balance as a central principle Dialogue and respect as the engines of balance Once again it is visual art which lights up the way to change. Let it be clear, there are no practical solutions in the works. As I have just stated, everything remains a question mark which the artist poses to our middleclass reasoning. The work incarnates a theoretical action, an indicator of the social temperature which releases a volley of discharges into the conscience of sensitive users. The reactions of what we think become fundamental in order to define the conceptual code, a turning point which opens up photography to its natural territory. Our idea of our technological future is in its embryonic phase: I wonder if tomorrow, a wall of scrap metal will become the privileged site for a statue of Buddha…
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Scheletri metallici con la pelle arsa dalla ruggine, strutture bruciate di cui rimane l’ossatura oltre l’essenziale, accumuli di scarti urbani che si amalgamano per stato e colore. Lo spazio del rifiuto diventa una straniante massa scultorea: e la fotografia ne evoca l’energia sensoriale, lo spessore involontariamente pittorico, l’ordine entropico che intreccia i materiali come fossero tessiture di filamenti preziosi.
Metallic skeletons whose skins are burnt with rust, burnt up creatures of which a bony framework remains that goes beyond the essential, piles of urban waste which amalgamate by state and colour. The space where the refuse lies becomes an alienating sculptural mass: and the photograph evokes its sensorial energy, its involuntary pictorial thickness, its entropic order which weaves the materials together as if they were precious filaments.
Burnt iron 1 2008 lambda su alluminio (installazione fotografica) cm 200x350
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burnt iron 3 2008 lambda su alluminio cm 100x75
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