L’apparato package nel progetto strategico del sistema d’offerta

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Working Paper L’apparato package nel progetto strategico del sistema d’offerta Un esoscheletro per attraversare le zone indistinte Di Enrico Viceconte. Di prossima pubblicazione su Blur Design, n° 2 2009


L’apparato package nel progetto strategico del sistema d’offerta Un esoscheletro per attraversare le zone indistinte Design strategico nell’indistinto Il tentativo di descrivere in estrema sintesi la natura e le caratteristiche delle trasformazioni di quest’ epoca si può racchiudere in una serie di metafore che rimandano alla smaterializzazione, alla liquidità, al caos, alla perdita del centro. Di queste metafore, ciascuna a suo modo efficace, quella dell’indistinzione, del “blur”, immaginata circa dieci anni fa da Stan Davis e Chirstopher Meyer, ci sembra che sia in grado di esprimere con maggiore ricchezza alcuni aspetti della trasformazione delle logiche di creazione del valore e dei comportamenti di produzione e di consumo. La divisione del lavoro e la specializzazione delle funzioni che hanno reso efficaci sia la metafora meccanica sia quella organica della società e dei sistemi produttivi tendono ad essere sempre più sfumate da quando l’elaborazione e la trasmissione digitale dell’informazione hanno creato una porosità senza precedenti del medium in cui si svolgono le relazioni e le attività di scambio: una disponibilità praticamente infinita di interconnessioni istantanee, uno stato “liquido” della società moderna. La forma gerarchica e quella sequenziale che hanno organizzato, con nette divisioni tra le parti, il tempo, lo spazio e le relazioni tra le persone, così come i processi di produzione del valore, divengono sempre più irregolari e caotiche. Si determinano forme eccentriche ed imprevedibili. I confini concettuali diventano indistinti, e usiamo i termini “concettuale” e “concetto” con il preciso intento di individuare unità discrete di significato che possono essere afferrate (be-griff) e manipolate (management: da manus agere). Il product engineer, Il process engineer, il job designer, il marketing manager vedono sfaldarsi, a volte liquefarsi, alcuni “concetti” familiari del management: il prodotto, il processo, la divisione del lavoro, la segmentazione del mercato. La lezione di Davis e Mayer alle imprese è quella di non opporre resistenza all’avvento dell’indistinto ma di interiorizzarlo come abito mentale per immaginare nuove strategie e modelli di business. Esaminiamo qui le strategie che presiedono alla progettazione dell’offerta che inscriviamo nell’ambito del design strategico. Il design strategico si prende carico della concezione del sistema prodotto nel suo complesso, vale a dire prodotto, servizio, comunicazione, logistica. Il concept che nasce dalla visione olistica del design strategico ottimizza sia il flusso di valore sia l’esperienza di interazione con l’offerta. Flusso di valore ed esperienza sono i due principi guida del design strategico. Ci soffermeremo sugli effetti dell’adozione di questi due principi alla concezione di un componente dell’offerta, il package, che assume, in un’economia del blur, una crescente importanza strategica e forme imprevedibili. Il package è un apparato che svolge una serie di funzioni sia relativamente al flusso di valore, che scorre tra produzione e consumo, sia relativamente all’esperienza di utilizzo del prodotto. Guardando le cose in una prospettiva evoluzionistica, lo sviluppo di tale apparato è uno dei modi in cui un determinato concetto di prodotto affronta la competizione con


concetti concorrenti. Un buon package rende il prodotto, di cui è un organo essenziale, più adatto alla sopravvivenza nel mercato. La confezione, come certi apparati organici (ad esempio l’esoscheletro di un insetto), ha dunque, nella logica della competizione in un ambiente ostile, funzioni di tipo difensivo e aggressivo. Tali funzioni si esplicano a un livello strategico (quando determinano fattori di differenziazione, posizionamento e vantaggio competitivo) e a livello operativo (quando determinano l’interazione puntuale con le diverse fasi e i diversi attori del processo che va dalla produzione al consumo). Le funzioni operative assolte dal package possono essere raggruppate schematicamente in tre categorie: quelle relative alla “struttura” (contenimento, protezione, conservazione, trasporto, dosaggio, erogazione), quelle relative all’ “informazione” (sul prodotto e sul processo) e quelle relative all’ “apparenza” ( visibilità, identificazione, comunicazione e significazione). La nostra tesi è che l’economia del blur e dell’iper-comptetizione determini un’evoluzione di tale apparato e delle sue funzioni sulla quale è utile una riflessione sia del marketing manager sia del designer. Il primo aspetto di cui tener conto è la trasformazione delle logiche e delle modalità di ripartizione delle attività che creano e fanno fluire il valore lungo la supply chain. In quest’ottica il package è un congegno che racchiude il valore e lo sprigiona al momento, nel luogo e nel modo opportuno. Il secondo aspetto riguarda la complessità dell’esperienza di consumo in un mondo in cui c’è abbondanza di offerta e di comunicazione e il mercato mal si adatta ai consueti principi di segmentazione. La capacità di stare nelle zone indistinte che separano i diversi segmenti del mercato (distinti da aspettative diverse di esperienza del prodotto) è spesso affidata al package che, adottando forme ambigue e mimetiche (mimicry) insinua promesse vaghe e suggestive, aprendo, piuttosto che chiudendo, i processi di interpretazione che avengono nel luogo d’acquisito.

Struttura e informazione per ottimizzare il flusso di valore e l’esperienza


La divisione del lavoro lungo la catena del valore, che individua con una certa esattezza e in modo prevedibile dove finisce il compito (contrattualizzato) del fornitore e inizia il compito del cliente, diventa sempre più indeterminata. L’ipercompetizione ha generato strategie in cui il valore viene co-prodotto in varie fasi della sua creazione. Assistiamo a una prima classe di fenomeni in cui il cliente si “integra a monte” assumendo il ruolo di ispiratore, progettista, esecutore di fasi del processo di creazione e produzione del valore. C’è poi una seconda classe di fenomeni in cui il fornitore “integrandosi a valle” entra nel ciclo di attività del suo cliente svolgendo alcune attività in casa sua, nel suo ufficio, nelle sue routine. Integrazione a monte del cliente e integrazione a valle del fornitore sono, dunque, due tendenze osservate nel design strategico. Nella prima la priorità è sul flusso di valore, alla snellezza delle operations e ai costi (ma senza trascurare l’esperienza di interazione). Nella seconda la priorità è sull’arricchimento dell’esperienza di interazione (ma senza trascurare il flusso di valore e i costi). Un esempio del primo caso nei mercati “consumer” è nel ruolo assunto dal cliente dell’Ikea che viene messo in grado dall’azienda di svolgere attività di progettazione, di prelievo a magazzino, di registrazione di cassa, di trasporto e di assemblaggio dei mobili, oppure nel cliente della compagnia aerea che prenota e paga il biglietto on-line, oppure del fornitore di recensioni sul sito di Amazon. Un esempio del primo caso nei mercati “business” è nelle forme di collaborazione dell’industria distributiva con quella di produzione (dalla co-progettazione del prodotto alle private label) e dell’industria della produzione con quella della componentistica (comakership). Un esempio del secondo caso nei mercati “consumer” è quello sempre più frequente, in campo alimentare, dei prodotti pronti che sollevano il consumatore di una parte o tutto il lavoro di conservazione, trattamento, porzionamento, preparazione (verdure di IV e V gamma, alimenti precucinati come i “4 Salti in Padella”, cocktail pre-miscelati). Qualcosa di analogo avviene nei mercati “business” con l’outsourcing di servizi e la subfornitura di parti. In queste due classi di strategie di integrazione, di senso opposto, il packaging assume un ruolo importante. E’grazie infatti ad un particolare package, elemento di un design complessivo del servizio (service blueprint), che viene facilitato il processo di ristorazione di McDonalds in cui il cliente viene messo in grado di svolgere funzioni equivalenti al servire il pasto e lasciare disponibile e pulito il tavolo al successivo cliente. Funzioni precedentemente svolte dal personale del ristorante. Grazie ad una particolare concezione del prodotto-packaging il prodotto Ikea può essere facilmente impilato, trasportato sul portapacchi del cliente e disimballato. Sia nel caso McDonalds sia nel caso Ikea una corretta progettazione del packaging riesce a minimizzare i costi complessivi sostenuti dal produttore e dal cliente senza nuocere all’esperienza complessiva di interazione con l’offerta. La cialda del caffè espresso è invece un esempio di “integrazione a valle” del produttore in cui un packaging (integrato in un sistema prodotto che comprende la macchina per il caffè) consente di sollevare il cliente da attività di preparazione. Così un certo tipo di confezione consentirà di miscelare al momento opportuno due componenti di un farmaco o condire un’insalata pronta. Il package diventa un “mezzo di produzione” che viaggia verso il momento del consumo con la missione non solo di consegnare il prodotto, ma anche di sprigionare, al momento giusto, il valore del sua funzione e contenuto di servizio per offrire un’esperienza di uso ottimale.


In tutti e due i casi il packaging, assieme ad altri dispositivi del sistema prodotto, è una macchina (o un esoscheletro) in grado di attraversare le zone indistinte che separano le divisioni del lavoro produttivo e spostare molto più liberamente di prima, in base a un progetto strategico, attività generatrici di valore verso monte o verso valle lungo il flusso di valore. La struttura del package è congegnata per assolvere tale missione così come il dispositivo testuale ed iconico che fornisce al consumatore adeguate informazioni sulle modalità di interazione con la macchina package. L’apparenza del prodotto nell’economia finzionale Sin qui ci siamo occupati di “struttura” e “informazione” dell’apparato package, così come sono stati modellati dalla selezione naturale dei mercati iper-competitivi e da una post-fordista liquefazione dei confini concettuali e contrattuali della divisione del lavoro di produzione e consumo. E’il caso di occuparci ora di quelle funzioni che il prodotto ha sviluppato per penetrare con successo, dopo aver superato le soglie dell’attenzione, nei meccanismi mentali alla base della valutazione dell’acquirente. Parliamo di “apparenze” sviluppando un concetto da Valeria Bucchetti a proposito del “sembrare buono”, dell’“essere desiderabile” del prodotto (Bucchetti, 1999). L’apparenza è frutto di una complessa elaborazione che prefigura l’esperienza che si assocerà all’utilizzo del prodotto. Verrà notato e scelto (più o meno razionalmente) il prodotto che promette un’esperienza complessiva che “vale” il prezzo richiesto. Concorrono all’apparenza del prodotto meccanismi di produzione di significato che vanno dal rudimentale riflesso limbico (di attrazione o evitamento) all’interpretazione culturale (affidata alle funzioni più sofisticate della neocorteccia) della grande mole di informazioni raccolte prima, durante e dopo l’incontro col prodotto, lungo la storia di interazione con la marca. Sul piano del riflesso elementare saranno colori, odori, texture, pesi e consistenze meccaniche che si assoceranno istintivamente alla qualità di un prodotto in base a meccanismi istintivi, ipercodificati o appresi (ciò che ha un certo colore o un certo odore è probabilmente buono altrimenti è dannoso). Sul piano neocorticale e culturale, invece, l’apparenza ottimale è quella che tiene conto di un meccanismo di significazione più complesso, non così rigidamente codificato, riuscendo a “persuadere” retoricamente della bontà dell’offerta. Il package assume la missione di giungere, con la sua ben congegnata apparenza complessiva e il suo contenuto verbo-figurale, nella sfera sensoriale del consumatore. In questa “bolla” intorno al consumatore nel punto di vendita, il prodotto, con la strada spianata da una laboriosa costruzione di awareness e di cornici interpretative affidate, dalla strategia di marca, ai media, è finalmente in grado di interagire con la vista, con il tatto, l’olfatto, l’udito, la propriocezione del destinatario per compiere, anche attraverso strumenti sofisticati di retorica verbo-figurale, la sua opera persuasiva. Un’ epifania (o un’ agnizione) che avviene in un’arena in cui il prodotto, con le sue promesse esplicite ed implicite, si schiera in concorrenza coi rivali, come un guerriero medioevale vestito di armatura, insegne e pennacchi che deve essere scelto, tra tanti, da una damigella. Il messaggio che quell’apparenza porta con sé avrà la funzione di agganciare i processi attentivi, di stimolare un processo di decodifica, interpretazione, persuasione e valutazione pilotato verso un esito il più possibile prevedibile e favorevole all’acquisto. La promessa del package, dopo aver vinto la sfida sullo scaffale, è di accompagnare a casa il consumatore e di servirlo fedelmente nelle diverse fasi in cui si svilupperà


l’esperienza di utilizzo del prodotto. E’sul piano retorico e narrativo che, in definitiva, tale promessa è in grado di agganciarsi, con il meccanismo virale di un meme, alla mente del consumatore influenzandone non solo il comportamento di acquisto ma anche il comportamento di consumo. La dimensione narrativa del package Si definisce tracciabilità la possibilità di risalire, lungo la supply chain, alle origini del prodotto leggendone le diverse fasi di realizzazione. Questa informazione, che assume un’ importanza crescente per il mercato, è assolta dal packaging e dall’etichettatura. Si tratta di un’informazione precisa e legalmente definita. Ma il senso di tracciabilità si estende, in qualche modo più indefinito, diventando la storia (più o meno romanzata) che il prodotto racconta del suo procedere lungo la catena del valore: verso l’alto raccontandoci come il prodotto è stato fatto e da chi e se chi lo ha prodotto condivide certi miei valori, gusti e umori; verso il basso chiedendosi cosa farà succedere quel prodotto a me che acquisto, alle persone con le quali ho relazione, a chi eventualmente riceverà quel prodotto come dono. La tracciabilità, cioè la possibilità di ricostruire la storia delle origini del prodotto assume un duplice significato: 1) la tracciabilità “legale” che racconta e garantisce la qualità “anagrafica”, chimica, fisica, biologica, etica, geografica, etnica ed estetica del progetto, del processo e, di conseguenza, del singolo prodotto; 2) la ricostruzione della vita del prodotto raccontata attraverso l’uso, nei processi di comunicazione, di strumenti narrativi. Il risultato è una rassicurazione complessiva che il flusso di valore abbia veramente incorporato alcuni valori che noi riteniamo importanti (la sicurezza, l’affidabilità, l’impegno per la qualità, la responsabilità verso le persone e l’ambiente). Un processo che noi svolgiamo, nel punto di vendita, con crescente uso della razionalità (e delle informazioni oggettive e fattuali) attraverso la nostra sempre più ampia competenza di consumatori prudenti e di lettori attenti di storie. Ma esiste anche una sorta di “tracciabilità” che riguarda la destinazione e la sorte del prodotto dopo l’acquisto e dopo l’uso. Se ci concentriamo sul momento in cui il prodotto è nelle mani del consumatore e viene valutato, ci accorgiamo che, sull’asse dei tempi, esiste un prima e un dopo a cui il package si riferisce retoricamente in termini anaforici (ricapitolando il prima) e cataforici (anticipando un dopo). La storia del dopoacquisto oggi non racconta solo di tavole imbandite e festose e di pavimenti brillanti, ma anche di una serie di operazioni logistiche legate allo smaltimento del prodotto, da casa al cassonetto (per quanto riguarda la parte della catena del valore di competenza del consumatore) e dal cassonetto all’ambiente (che riguarda il sistema che dovrà gestire i rifiuti solidi). Il progetto del package si propone oggi molto spesso di raccontare, in modo persuasivo e avvincente, la storia di un ciclo di generazione, annullamento e rigenerazione. Forse anche per questo è frequente il riferimento alla natura organica delle cose. Una narrazione che si serve di figure retoriche efficaci per accostare la rigenerazione del prodotto e la rigenerazione della persona attraverso il consumo. La rappresentazione del mito della selvatichezza (frutti di bosco, foglie di menta, fiori tropicali), del mito della texture “naturale” (che è tessuto: superficie e struttura, legni, fibre, pietre, ma è anche, etimologicamente, testo, quindi superficie e profondità allo stesso tempo, in un certo senso, storia), del mito dell’Oriente come luogo di ricomposizione della mente,


del corpo e della natura, del lato solido e di quello immateriale secondo il topos del ciclo eterno di rinascita. Il package dunque svolge spesso la funzione di rappresentare simbolicamente e rendere leggibile al consumatore da una parte la catena del valore (da un punto di vista anche logistico e legale), dall’altra il processo ideativo legato a un autore, a una tradizione, a un processo di ricerca scientifica o a tutte e tre le cose insieme. A livello denotativo la confezione può “descrivere” sia il processo logistico-produttivo indicando provenienza e natura del prodotto e dei suoi componenti principali, luogo di produzione e di confezionamento, anni di invecchiamento, data di fabbricazione, processi di trasformazione e lavorazione subiti (ad esempio “cotto a vapore”, “fermentato”, “cucito a mano” ecc.) sia il processo di ideazione e sviluppo indicando ad esempio il designer, l’origine della ricetta, il principio di lavorazione o costruzione, il laboratorio di ricerca ecc.. A livello connotativo, invece, il package tenderà a creare effetti di senso e a influenzare la lettura di queste informazioni enfatizzando ciò che è desiderabile per il “consumatore modello” (il valore), in modo congruente alle sue aspettative (proponendo ad esempio una carta rustica per un prodotto “contadino”, le parole “valle” o “orto” per dei legumi in vasetto, l’evocazione cromatica del sole per dei biscotti per la prima colazione, la figura di un nostromo con la barba per un tonno in scatola) e infine accompagnando la decodifica delle informazioni sulla confezione con messaggi euforizzanti e rassicuranti. Se guardiamo al package come un testo potremmo riferirci ad un approccio di analisi del tipo di quello utilizzato da Greimas (Greimas, 1985). Nel packaging, come nel testo, sono in atto una serie di strategie centrate sul far credere e sul far fare: al concetto di verità si sostituisce quello di efficacia. Invece della verità si parla di veri-dizione cioè il far sembrare vero. Un “contratto di veridizione” si instaura tra i due attanti della struttura della comunicazione, l’enunciatore (il package) e l’enunciatario (il consumatore). Quando acquisisco le informazioni del punto di vendita non sto semplicemente elaborando una serie di comparazioni tra prezzo e beneficio, tra gusto e nutrimento eccetera, ma sto inquadrando le informazioni che ricevo in una “razionalità paradigmatica” (quali prodotti sto comparando con lo stesso criterio?) e in una “razionalità sintagmatica” che mi fa accettare una serie di nessi causali e mi fa passare dal sapere (l’esistenza di un certo ingrediente o di un certo processo di lavorazione) al credere (che questo ingrediente mi faccia bene o mi dia un’esperienza piacevole di consumo o che questo processo che precede il consumo sia propedeutico al miglior risultato). In questo senso il “progetto delle apparenze” riguarda non solo la forma ma anche la storia raccontata dal prodotto. Il valore del prodotto (il beneficio atteso) è dunque oggetto di una narrazione svolta dalla confezione che sto leggendo, appoggiato al carrello, dopo aver tolto la confezione dallo scaffale. In cerca di uno “statuto semiotico del valore”, Greimas ha analizzato nella prospettiva del valore un corpus di fiabe e noi ci sentiamo autorizzati a farlo con i prodotti che raccontano fiabe di orti incantati e di doni magici. “Abbiamo scoperto del valore (nella natura, nei “Laboratoires Garnier”, nella cultura contadina ecc.) lo abbiamo coltivato, colto, difeso, portato fino a te che lo meriti” (“perché io valgo”, claim de L’Oréal): questa è la sequenza degli enunciati narrativi (o delle funzioni) nella narrazione svolta, come riassunto, riepilogo, resoconto e anche come pura invenzione, da alcuni package. Lo scambio sarà il momento in cui, mettendo il prodotto nel carrello, la fiaba raggiunge il suo culmine.


Nel saggio “La zuppa al pesto o la costituzione di un oggetto di valore”, Greimas analizza una ricetta di cucina come una particolarissima narrazione che possiamo definire come un programma generativo di valore (Greimas, 1985). Ogni operazione descritta dettagliatamente nel testo contribuisce al valore finale della zuppa. Il valore posseduto dal cuoco (saper fare la zuppa) è trasferito al lettore attraverso la ricetta. Persino la provenienza degli ingredienti (basilico italiano e aglio provenzale) tendono a mostrare che ogni prodotto che venga da altrove “implichi per questo delle operazioni di trasporto che gli conferiscono già un valore” entro uno “statuto culturale delle spezie”. Il packaging dunque contiene in sé e rende leggibile il programma generativo del valore. In ottica greimasiana, la decisione di acquistare o meno il prodotto discende dall’efficacia (performance di vendita) della narrazione di cui si incaricano la marca e il packaging. Un’efficacia che dipende, come si diceva in precedenza, dalla capacità di utilizzare sull’asse dei tempi, in cui “ora” è l’istante della valutazione del prodotto, una retorica persuasiva basata 1) sull’anafora (quando si riepiloga la storia precedente, portandosi indietro nel tempo) e 2) sulla catafora (quando si anticipa la storia futura, portandosi in avanti). Nel caso delle istruzioni presenti sulla confezione, l’esempio della zuppa di Greimas è da prendere alla lettera. In questo caso non si descrive la storia passata ma si pre-scrive quella futura del prodotto e, cataforicamente, se ne anticipa l’esperienza piacevole del consumo. La raffigurazione del piatto guarnito e pronto al consumo, le scritte “conservare in luogo fresco”, “consumare entro un mese”, “per aprire sollevare la linguetta”, “aggiungere latte e mescolare”, “cuocere per otto minuti”, “servire freddo”, e “…buon appetito”, sono prescrizioni presenti sulla confezione volte a trasferire al consumatore-produttore la capacità di creare valore, o di preservare il valore esistente, o, addirittura di confondersi con esso nello scambio (come nel claim “perché io valgo”) insomma la capacità di essere l’anello finale della catena del valore, dispositivo vivente di produzione e logistica. Una coppia di ruoli (il prodotto e il consumatore) improntata alla cooperazione. E’ in questa fase che si sviluppa l’esperienza di consumo del prodotto, quella che determinerà la percezione del valore nei successivi ri-acquisti (value-in-use). Un processo tutto interno al consumatore, che lo coinvolge sia a livello operativo sia interpretativo. Se da una parte il ruolo cooperativo del consumatore sarà rigidamente prescritto dalle istruzioni d’uso o dalla ricetta di preparazione, dall’altra godrà di una certa apertura e di una gamma più sfumata di interpretazioni e di esiti possibili, soprattutto riguardo al significato e al peso che questi darà all’esperienza e al piacere che ne verrà tratto. Se, come diceva Barthes, il pacchetto “rimanda a un dopo”, questo dopo è nello sprigionarsi, dall’esperienza, della soddisfazione e del piacere.


Mimicry design Abbiamo definito il package come una “macchina”, vale a dire come un artefatto in grado di interagire con l'utente e svolgere una serie di attività e operazioni nella logica del congegno. Queste caratteristiche hanno condotto spesso i progettisti allo sviluppo nella confezione di ingegnose funzioni intenzionalmente ludiche. Si configura un gioco ogniqualvolta l'ingegno del progettista concepisce gradi di libertà nell'utilizzo di un artefatto, sequenze operative meccanicamente predeterminate, giochi, intesi nel senso meccanico, sensoriale e, infine, concettuale. Gli obiettivi che si vogliono perseguire nella progettazione del meccanismo di apertura della confezione possono, ad esempio, oscillare tra due polarità opposte. Da una parte si può puntare alla spiccata ergonomia cognitiva, basata sulla prevedibilità di una sequenza di operazioni standardizzate e sulla sua interiorizzazione come routine (ad esempio il verso in cui si svitano i tappi); dall’altra il progetto può puntare alla sorpresa, con il fun che ne consegue. Il meccanismo di chiusura/apertura della confezione di un farmaco sarà dunque improntato all’ergonomia e alla standardizzazione (cosa spesso dimenticata proprio dalle case farmaceutiche), e/o alla funzione di impedirne l’apertura da parte di bambini, mentre, con una logica opposta, quella di un profumo potrà essere oggetto di divertente scoperta durante il gioco di esplorazione della confezione. Esiste dunque un’ interfaccia uomo-macchina che si presta ad essere progettata con i criteri dell’ergonomia, ma anche tenendo conto della jongleurie dell’utente, secondo l’accezione che ne hanno dato Maldonado e Dorfles (Dorfles, 1965), vale a dire un fruizione basata sul gusto dell’applicazione della “destrezza”, sull’esperienza sensomotoria, sulla gratuità di alcune interazioni, eseguite solo per il piacere di interagire. La dialettica tra aspettativa e scoperta, tra ergonomia e gioco, tra ingegneria ed ingenium, diventa parte dell’esperienza e del godimento estetico del prodotto. Il package come forma di intrattenimento ed esperienza di gioco. D’altra parte, ricordando quanto detto da Barthes, il meccanismo di svelamento del prodotto, che può consistere in numerosi livelli di imballaggio, in modo da ritardare il piacere, può essere visto come gioco di amplificazione dell’effetto attesa-sorpresa.


Ma c’è una dimensione più concettuale del fun che può essere ricavato dal packaging. Per analizzarla ricorreremo alla sistematizzazione delle diverse tipologie di giochi che dobbiamo a Roger Caillois. Secondo Caillois, le fonti di quell’esperienza che chiamiamo “gioco” possono essere classificate in quattro categorie: alea, agon, ilinx, e mimicry. Il piacere dell’alea è negli esiti imprevedibili del caso, quello dell’agon è nella competizione, quello dell’ilinx è nella vertigine (come nelle giostre) e, infine, quello della mimicry è nella simulazione o, come dice la parola, nel mimetismo. In ogni gioco le quattro esperienze sono spesso mescolate insieme come i colori di una tavolozza. Sono giochi mimicry quelli che ci divertono per l’imitazione, più o meno deformante, che un artefatto (o una rappresentazione) fa della realtà o di altri artefatti o rappresentazioni: è mimicry il teatro ma anche il modellino o la bambola. Sono giochi mimicry quelli in cui siamo noi stessi a far finta di essere qualcuno o qualcosa di diverso. C’è un divertimento mimicry anche nell’uso della retorica nel linguaggio, quando ad esempio usiamo l’ironia (affermare una cosa intendendo dire l’opposto), l’iperbole (ingigantire le proporzioni), e tutte le diverse tipologie di discorso metaforico. Nel design è mimicry un prodotto in cui notiamo (quasi sempre con divertimento) che qualcosa si è trasformato in qualcos’altro. Ad esempio un’automobile vera in un giocattolone, come nel caso delle sport utility, del Maggiolone o della nuova Fiat 500, un cibo povero in una raffinatezza, uno straccio in un vestito da sera, una fattoria in un albergo, una fabbrica in un museo, uno scalo portuale in quartiere alla moda). È mimicry indossare un diverso lifestyle e un abito diverso quando cambiano le circostanze oppure ogni volta che ci piace. Il concetto di mimicry design, che abbiamo introdotto parlando di design delle esperienze nello sviluppo di nuovi prodotti (Viceconte, 2003), fa riferimento a quei progetti in cui si cerca di contribuire all’esperienza del fun, attraverso una trasformazione mimetica. Esiste sicuramente una ragione retorica se una bottiglia di latte in plastica imita la vecchia bottiglia di vetro, anche se non esistono motivi tecnici per questa scelta e anche se le ultime generazioni di consumatori hanno perso la memoria di quella forma, e se la carta delle fette biscottate imita quella della panetteria. Tale forzatura retorica, oltre al desiderio di connotare dei valori tradizionali e rendere riconoscibili dei prodotti attraverso delle convenzioni, contiene in sé un gioco mimicry in cui il consumatore ha piacere di essere coinvolto. Nella cosmetica tale approccio progettuale è più spinto, e il gioco è più libero. In questo caso il packaging, trattandosi di prodotti informi, è la componente del progetto che meglio si presta al gioco mimicry. Rispetto ai prodotti alimentari (anch’essi spesso informi) il packaging cosmetico 1) ha minori vincoli di costo, 2) può spostare decisamente la proposizione di valore verso il lusso e il superfluo, 3) ha meno obblighi da assolvere nel garantire al consumatore (attraverso la stabilità) l’affidabilità, l’igiene, la tradizione, l’origine del prodotto ecc.. 4) contiene e può liberamente ed esplicitamente interpretare dei valori di trasformazione, 5) è più strettamente legato ad altri “giochi”, ad esempio quello della seduzione e quello del travestimento, 6) la metafora della cosmesi può essere forzata in diverse direzioni assiologiche interpretando di volta in volta valori estetici, curativi, nutritivi, igienici e, all’interno di questi mondi, la promessa del packaging può spostarsi dalla trasformazione (diventare più interessanti) alla conservazione (restare giovani, esaltare la propria personalità), dal


detergere al nutrire, dall’aggiungere (colore, segni seduttivi) al levare (grasso, rughe, macchie, “inestetismi”). E’ dunque nel packaging cosmetico, così legato al concetto della “metamorfosi”, che troviamo l’applicazione sistematica del mimicry design. Il packaging, come la corazza degli insetti, assume non solo una funzione strutturale, consentendo al prodotto che esso secerne di svolgere le sue funzioni, ma anche le stesse valenze mimetiche o attrattive degli esoscheletri degli insetti. Come le iridescenze di uno scarabeo, o la trasformazione in foglia della mantide, il progetto del packaging cosmetico assolve una serie ben precisa di funzioni sul piano delle apparenze. Un esempio evidente di mimicry design è l’imitazione, da parte dei cosmetici, dei prodotti farmaceutici. Come per gli insetti, c’è sicuramente una prima motivazione legata alla corrispondenza tra funzione e forma. Come due specie animali diverse tendono ad assomigliarsi se si trovano ad affrontare lo stesso tipo di problemi di adattamento (come i delfini e i tonni), prodotti cosmetici e farmaceutici si trovano molto spesso ad avere problemi comuni di dosaggio, applicazione, conservazione, igiene. Le confezioni monouso, ad esempio, nascono da problemi di deperibilità e di trasporto (ad esempio in viaggio). Le garze termali tonificanti, come quelle prodotte da Collistar, rispondono ad esigenze di progetto simili a quelle per il rilascio di principi curativi attraverso la pelle e sulle lesioni. Mimano invece le confezioni di farmaci omeopatici, ma con l’aggiunta di diluitissimi colori della natura, i prodotti della Korres, azienda giovanissima che prende vita da una farmacia omeopatica di Atene (Pedrazzini, 2004). Alla motivazione funzionale del mimetismo si aggiunge un secondo tipo di motivazione che potremmo riferire all’identità e al riconoscimento: con il mimetismo una specie può essere confusa con un’altra o con una pianta o con una roccia e questo può costituire un vantaggio evolutivo. La confusione viene provocata a livello di decodifica delle apparenze. Il packaging cosmetico, nel momento in cui vuole promettere effetti curativi (pay off) e, in un impeto scientista, il ricorso a tecnologie sofisticate di processo e di prodotto (reason why), troverà ispirazione nelle apparenze dei prodotti che derivano dalla ricerca farmacologia e dai principi scientifici e tecnologici che in quei prodotti vengono applicati. Inoltre nell’ambito di un’ideologia in cui l’“inestetismo” è una malattia, la “cura” si baserà su principi chimici, sintetici o meglio naturali e, nei casi ostinati, sulla chirurgia. Alla ricerca di legittimazione per i principi attivi utilizzati, si sviluppano progetti di packaging che prevedono sacche per il plasma, blister, fiale, boccette di capsule, tubetti, per contenere ed erogare bagni schiuma al plancton, gel rassodanti, creme idratanti, sostanze ristrutturanti. Qualche volta i colori si adattano allo scaffale della profumeria, altre volte il mimetismo è completo, nella forma, nei colori e nella riduzione al minimo della decorazione. Per chi sa prendere le distanze dall’ideologia corrente, il gioco mimicry può essere ironico quanto basta per considerare il packaging medicale “divertente”. Quasi cinquanta anni fa Roland Barthes ha scritto pagine esemplari sulla mitologia dei cosmetici affermando che: “la medicina permette (…) di dare alla bellezza uno spazio profondo (derma e epiderma) e di persuadere le donne che esse sono il prodotto di un circuito germinativo in cui la bellezza delle efflorescenze dipende dal nutrimento delle radici”(Barthes, 1957).


Lungo un’altra direzione, i progettisti di oggi fingono di cogliere in senso letterale la suggestione di Barthes che il cosmetico possa essere assimilato retoricamente al nutrimento e sviluppano package che simulano prodotti alimentari. La retorica “olistica” sottostante è quella del benessere e della naturalità in tutti gli aspetti della vita (cibo organic per il corpo e per la mente). Il latte per il corpo della linea Miss Milkie di Pupa è contenuto nella bottiglia del latte e le creme in erogatori per la panna e in vasetti di yogurt (inevitabile una simpatica mucca nel marchio); i sali da bagno di una linea di Benetton, che vengono proposti ai bambini sono come zollette di zucchero, il sapone è un pacchetto di burro, l’immagine sulla confezione è la simpatica pecora Benny, garante della “genuinità e freschezza del prodotto” (Capelli, 2004). Anche la confezione di acqua di colonia della linea Lei/Lui di Emporio Armani è impacchettata, con carta bianca, come un panetto di crescenza, ma, promettendo esperienze più adulte, senza animali simpatici nell’illustrazione. Nascono capsule cosmetiche che imitano medicinali o caramelle o tutte e due le cose insieme come nel caso di quelle ristrutturanti per il seno di Collistar che suggeriscono la ricongiunzione naturale di salute, bellezza, bontà e divertimento. Il mito dei valori germinativi e metamorfici legati a certi nostri consumi trova nelle forme dei baccelli continua ispirazione mimicry, anche nelle forme minimaliste dei blister: una metafora “organic” sia della rinascita che del potenziale nutritivo e vitale perfettamente dosato secondo una saggezza naturale imitata dalla scienza e dalla tecnologia. Baccelli, bozzoli, ghiandole, carapaci e, di conseguenza, la cellulosa, la seta, l’epitelio, la chitina, diventano oggetto di design mimicry delle forme e dei materiali non solo per i cosmetici ma anche per gli esoscheletri o le valve che rivestono i prodotti dell’elettronica, atti a contenere e inviluppare, più che meccanismi e circuiti, i principi generativi immateriali (il software, il codice). Si tratta di un mimetismo con la natura entomologica e botanica che riscontriamo anche nel “guscio” o nella “buccia” che contengono le attività di servizio: un centro commerciale, un museo, un terminal aeroportuale. Edifici progettati come blister di funzioni di servizio, per definizione “informi”, come dosatori di flussi di passeggeri, come erogatori di flussi di informazioni, conoscenze ed esperienze, come elaboratori di processi di trasformazione, come contenitori attraenti e funzionali sullo scaffale dello spazio urbano. Spesso si tratta di zoomorfismo che trae le forme, come nel barocco, anche da valve, columelle, spugne o altre strutture atte ad ospitare organismi e tessuti “molli” creando, non importa se nella scala minuta della confezione o in quella monumentale dell’edificio, suggestioni sensoriali che sarebbero piaciute allo sguardo del poeta “morfologo” Francis Ponge. Il gioco mimicry della scala dimensionale (che fa godere Sant’Ivo alla Sapienza di Borromini come archi-scultura, e che diverte l’immaginazione con l’amplificazione o la miniaturizzazione dei volumi esterni) si applica anche al gioco comune a tutti i bambini di amplificare con l’immaginazione la scatola-giocattolo fino alla scala dell’edificio, divertendosi all’idea di poter abitare lo spazio interno. Partendo dall’assunto che la spinta a sviluppare identità e riconoscibilità di un prodotto sullo scaffale non differisce molto da quella che spinge a immaginare un edificio nel paesaggio e nella skyline di una città, si può intravedere dunque la convergenza tra le forme del packaging e quelle dello spazio costruito, forzando la metafora “infantile” della scatola già comunemente usata per gli edifici. Dal Crystal Palace ai musei


contemporanei nati per il marketing territoriale, molti edifici, vengono poi progettati per contenere e mostrare merci o, comunque, oggetti di valore: questo non fa che accorciare le distanze tra le forme del packaging delle merci e quelle architettoniche. Oggi che il contenuto di un centro commerciale può essere definito un’ iper-merce (Codeluppi, 2000) possiamo a buon motivo parlare dell’edificio che lo contiene come di un iperpackaging. Se la funzione di contenere può essere svolta da cofani e cofanetti che hanno tratto ispirazione monumentale mimicry da edifici (come il cofano della Rolls Royce) o da certi flaconi, come succede spesso per i profumi che sembrano sontuosi micromonumenti, come i rossetti-grattacielo Electric della Estée Lauder, oggi possiamo credere che un centro polifunzionale sia simile a una cassetta per gli attrezzi, un grattacielo possa in fondo nascere dalla stessa scelta generativa organica di un flacone di bagno schiuma Vidal, uno spazio fieristico dalla stessa opportunità di riuso e di refill di un erogatore, dagli stessi vincoli di costo/valore di un tubetto di dentifricio, dalla spinta alla riduzione dello spessore del rivestimento e alla trasparenza (intesa come dialogo tra interno ed esterno, come schermatura della luce, come sparizione), dalla ricerca di un microclima interno e di un’ “atmosfera modificata” ideali per la natura organica del “contenuto” (le persone), dalla tensione dell’involucro a conformarsi al contenuto e ad aderirvi, come accade a una pellicola termoretraibile, dall’ancillarità rispetto alla funzione di servizio contenuta, dalla necessità di essere richiamo visivo e attentivo, di fornire informazione dettagliata, e, infine, di fungere da macchina logistica. La spinta imitativa, che esiste da sempre in architettura (Brusacco, 1992), è oggi fortemente presente nella cultura del progetto soprattutto per quanto riguarda la biomimicry (Langella, 2003). L’obiettivo dell’imitazione non è solo la ricerca della soluzione tecnico-economica ed estetica migliore, o la connotazione, ma anche, nell’ottica di Caillois, il gioco. Le confezioni giocattolo dei cosmetici della Pupa, i pupazzetti di Moschino, le multicolori scatoline di Kiko si collocano, con strategia mimicry, nelle zone indistinte della segmentazione promettendo ambiguamente e in una mitologia della trasgressione, un po’di adultità alle bambine e d’infanzia alle donne. I prodotti industriali mascherati di natura e freschezza promettono la riconciliazione tra la garanzia della process capability tecnologica della marca e la originaria imprecisione, ricca di sfumature e sapori, della natura. L’indistinzione, il blur, è dunque un invito continuo ad attraversare i confini sfumati. La mitologia sottostante è quella della tras-gressione e della tras-formazione. Il caso del package che abbiamo esaminato è solo uno dei modi in cui l’offerta viene strategicamente disegnata e modulata in un’economia finzionale in cui le merci assumono forme e apparenze sempre più adatte ad “intrattenerci”. L’intrattenimento è una forma di consumazione del nostro tempo personale, che le aziende si contendono ragionando in termini non più di share of market oppure di share of wallet ma di share of time. Poiché il tempo dell’individuo è forse la risorsa più preziosa e non rinnovabile, strumenti critici sempre più affilati sono indispensabili per chiunque si occupi di consumi. Affinché alle strategie sempre più aggressive di chi produce si contrappongono strategie e strumenti per una crescente razionalità e consapevolezza da parte di chi sceglie e consuma.


La lezione di Roland Barthes è di provare a smontare le mitologie dentro le quali i nostri consumi sono inscritti. Il packaging è un campo di ricerca su cui questo lavoro critico può dare risultati molo importanti. Anche perché le scorie materiali e immateriali che sopravvivono alla missione effimera dell’apparato package, saranno sempre di più un problema del nostro futuro.


Bibliografia •

Anceschi G., Prefazione, in Bucchetti V., La messa in scena del prodotto, Franco Angeli, Milano 1999

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Barthes R., L’impero dei segni, Einaudi, Torino 1974 (ed.originale 1957)

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Brusasco, P.L., Architettura e imitazione, Alinea Editrice, Firenze 1992

Bucchetti V., La messa in scena del prodotto, Franco Angeli, Milano 1999

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Caillois R., I giochi e gli uomini, Bompiani, 1991

Capelli, E., Lo scaffale delle vanità, in Ottagono, Maggio 2004

Carmagnola F., Il consumo delle immagini. Estetica e beni simbolici nella fiction economy, Bruno Mondadori, Milano, 2006

Codeluppi, V., Lo spettacolo della merce, Bompiani, Milano, 2000

Davis S., Meyer, C., Blur. Le zone indistinte dell’economia interconnessa, Edizioni Olivares, Milano, 1999

Dorfles, Nuovi riti nuovi miti, Torino Einaudi 1965

Greimas A.J., Del senso 2, Bompiani, Milano 1985

Langella, C., Nuovi paesaggi materici, Alinea Editrice, Firenze 2003

Pedrazzini, S., Il respiro di Gaia, Impackt, 2/2004

Viceconte E., La progettazione delle esperienze nello sviluppo dei nuovi prodotti, Sviluppo e organizzazione, Anno: 2003 - Fascicolo: 197.

Viceconte E., Opera aperta: forma e indeterminazione nella co-creazione di nuovi prodotti, Sviluppo e organizzazione, Anno: 2008 - Fascicolo: 225.

Zurlo F., Experience design: il progetto per l’esperienza ottimale dell’utente, Sviluppo e organizzazione, Anno: 2003 - Fascicolo: 197.


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