Sospiri

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Sospiri A.A.V.V

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Ogni eventuale riferimento a nomi di persona, luoghi, avvenimenti, è da considerarsi casuale.

Titolo: Sospiri Autori: A.A.V.V. Illustrazione di copertina: © Jess Boi

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Ile de Rêve Alessandra Scubla Esco di casa stringendomi nel cappottino troppo leggero per il freddo pungente di dicembre. È da una settimana che giro come una pazza per la città in cerca di lavoro. Non ho grandi pretese, qualsiasi cosa andrebbe bene. Ho smesso da tempo di inseguire i sogni dell’infanzia. Ho bisogno di soldi per continuare gli studi, soprattutto da quando la ditta di mio padre ha chiuso, non circolano più molti soldi in casa e le spese sono sempre troppe. Raggiungo l’“Ile de Rêve” appena in tempo per evitare l’ibernazione. Apro la porta e un campanellino annuncia il mio arrivo ai due soli clienti seduti al bancone. Subito una nuvola di cannella e agrumi invade i miei sensi congelati. Il locale non è molto grande, ma ha comunque il suo fascino; le pareti dai colori caldi e il legno lucido gli conferiscono un’aria familiare e accogliente. Agrifoglio, muschio e arance profumate creano semplici composizioni natalizie disposte ad arte sui tavolini. Anche se non volessero assumermi, ci tornerei a bere una cioccolata fumante e a leggere un buon libro! Mi avvicino al bancone in cerca di qualcuno a cui chiedere se il posto da cameriera è ancora disponibile. Saluto con un cenno del capo i due clienti e aspetto, perdendomi in una vecchia stampa raffigurante il presidente John Fitzgerald Kennedy appesa alla parete tra le tisaniere e le bottiglie di alcolici. La porta con la scritta “private” si apre e ne esce una ragazza completamente vestita di nero dai capelli bicolore e con in mano un boccettino di plastica. Nel momento in cui alza lo sguardo su di me, mi sento attraversare da una strana sensazione, una sorta di déjà-vu, come un antico ricordo che riemerge sotto nuove spoglie. La ragazza fa un passo nella mia direzione, svita il tappo del boccettino, uno di quelli che si regala ai bambini per fare le bolle, accosta le labbra al piccolo cerchio pieno di acqua e sapone e le dischiude appena. Soffia delicatamente e leggere bolle dai riflessi cangianti mi accarezzano il viso per poi mescolarsi ai profumi e ai colori del locale. «Ancora qui? Il vecchio arriva tra un istante.» dice la ragazza infastidita dalla mia presenza ma, prima che possa ribattere, il campanellino attaccato alla porta tintinna e la sua figura snella scompare nella nebbia. Rabbrividisco e mi stringo nel cappottino. «Non fare caso alla mia Melissa. Devi essere Anya.» Sentendo il mio nome sobbalzo impreparata e mi volto alla ricerca della fonte della voce. Da dietro il bancone spunta un ometto dagli occhi scuri e vispi e dal pizzetto caprino che mi osserva con aria curiosa. 5


Forse si aspetta una risposta. Riesco solo ad annuire, sentendo le gote andarmi in fiamme. Il discorso di presentazione che mi sono preparata per sembrare brillante e spigliata si è annodato in fondo alla gola e mi impedisce di dire una cosa qualsiasi. «Meraviglioso! Accomodati pure a quel tavolino.» e mi indica il posto meno illuminato della stanza. «Ti raggiungo in un batter d’ali.» aggiunge, prima di rivolgere la propria attenzione agli unici due clienti; uno dei due gli porge il bicchiere mezzo vuoto per farselo nuovamente riempire. Sospiro e raggiungo il tavolino. Nell’attesa sfoglio il menù. Tutto nella norma, chissà cosa mi aspettavo di trovare, ma una strana sensazione mi impedisce di essere completamente lucida. «Eccomi.» si annuncia l’uomo. «Hai parlato al telefono con mia figlia, sono Martin Cooper il proprietario di questo piccolo locale.» si presenta, porgendomi la mano. «Piacere» rispondo, stringendogli la mano fredda e ruvida. Mr Cooper si siede ed estrae dalla tasca interna della giacca un foglio piegato in quattro, lo apre e lo posa sul tavolo. «Ho ricevuto il tuo curriculum e ormai lo conosco a memoria. Manca qualche informazione.» dice, scrutandomi con quegli occhi quasi di carbone. Deglutisco nervosa e sorrido, incapace di parlare. «Perché vuoi lavorare per me?» domanda in tono freddo e distaccato. Chiudo gli occhi e a fatica riesco a mettere in fila qualche parola. «Ho bisogno di lavoro per pagarmi l’università. Ho fatto molti colloqui, ma sembra che si siano già tutti portati avanti con le assunzioni, per avere il periodo natalizio coperto.» «Sono l’ultima spiaggia insomma» borbotta. Mi sento sotto accusa. In effetti non ha tutti i torti. La mia ricerca d’impiego è cominciata dalle librerie, è poi passata ai negozi di abbigliamento, a quelli per la casa e di giocattoli, solo alla fine ho puntato su bar e caffetterie e l’”Ile de Rêve” è stata la mia ultima scelta. Mr. Cooper ridacchia fra sé. «Non volevo metterti in imbarazzo. Hai esperienza nel settore?» «Non proprio.» rispondo incapace di mentire. «Cos’hai pensato appena hai messo piede all’Ile?» chiede, facendo scrocchiare le nocche. «Che se non fossi stata assunta, ci sarei tornata per una cioccolata fumante.» rispondo, arrossendo. La risposta mi è uscita senza nemmeno pensarci e temo di essere parsa sciocca e superficiale. L’uomo sorride. «Descriviti in due parole.» Detesto questo tipo di domanda fin dai tempi della scuola, la ritengo una richiesta assurda. 6


Nessun individuo è veramente in grado di dare una descrizione di sé autentica, che non sia cioè compromessa da un’immagine distorta che noi stessi ci prefiguriamo. Una descrizione, per quanto studiata e accurata, non sarà mai fedele al cento per cento all’originale. Rifletto un istante prima di rispondere. «Nella norma.» dico infine. Mr. Cooper sembra soddisfatto, si alza e si allontana. Lo osservo muoversi con grazia nel suo piccolo regno e poi tornare indietro. «Chiama i tuoi genitori e avvertili che farai tardi. Cominci in questo momento. Melissa ha il circolo dell’occulto stasera e ho il locale scoperto» dice. Non so se mi sconvolge di più il sapere di dover cominciare subito o che la figlia del mio capo frequenta un circolo dell’occulto. «Porto il conto ai due signori e ti spiego un paio di cose. Non fare quella faccia, hai trovato lavoro, mia cara.» Annuisco. Mi tremano le mani e perfino le gambe diventano poco collaborative, ma sono felice. Dopo tanti rifiuti ce l’ho fatta. Ho un lavoro, posso fingere di ignorare le stranezze del capo e di sua figlia. Chiamo mia madre per darle la bella notizia, le dico anche di non aspettarmi alzata perché farò tardi. Mi infilo il grembiule e mi metto al bancone. Mr. Cooper mi mostra come azionare la macchina del caffè e dove trovare tutto ciò di cui potrei aver bisogno nel corso della serata, poi, prima di sparire nel suo ufficio, dice: «Indossa il tuo miglior sorriso e non chiuderti. Apri cuore e mente, guadagnerai più dei pochi spiccioli che ti darò a fine mese.» Non mi è possibile riflettere troppo a lungo su queste strane parole dal momento che tre ragazzi entrano e si accomodano a uno dei tavoli più grandi, ricoprendolo di libri e matite colorate. Inspiro, trattengo l’aria, conto fino a dieci e la butto tutta fuori scrollandomi di dosso l’agitazione. Lascio il bancone e raggiungo il gruppetto di clienti. «Salve ragazzi, cosa vi porto?» chiedo, sfoderando il sorriso più smagliante e finto del mio repertorio. I ragazzi si guardano tra loro come per stabilire tacitamente chi debba essere il primo a parlare. «Per me una cioccolata.» dice finalmente il primo. «Anche per me.» lo segue il secondo. L’ultimo sembra colto da un dubbio amletico. Si passa una mano tra i folti capelli biondi e mi guarda con aria perplessa. «Vuoi una lista?» gli chiedo sempre sorridendo. Fa di no con il capo. «Un ginseng in tazza grande.» «Torno subito.» dico e torno a rintanarmi dietro al bancone. Non so come, ma riesco a portare a termine il mio primo ordine. 7


Lascio i ragazzi ai loro libri e alle loro bevande calde e occupo il tempo fingendo di spolverare le mensole alle mie spalle. Ci sono bicchieri di ogni grandezza, forma e colore. Li conto e me li passo tra le dita. Ci sono poi tazzine da caffè tutte diverse tra loro e tazze da the con eleganti stampe giapponesi o a tinta unita. Il campanellino attaccato alla porta trilla di nuovo ed entra un giovane uomo, avvolto in un cappotto scuro. Senza mostrare titubanza si dirige dritto al bancone. Si siede, si toglie la sciarpa e sbottona il cappotto. «Salve.» saluto sorridente. «Una birra.» dice apatico. Gli porgo la birra e solo allora l’uomo alza lo sguardo e sembra accorgersi di me. Ha profondi occhi castani cerchiati di rosso e il viso di un pallore quasi cadaverico. Devo ammettere che la sua presenza mi inquieta. «Ti è mai capitato di sentirti un essere vuoto? Inutile? Una macchia d’inchiostro nel grande libro della vita? Un errore?» Afferra il bicchiere e butta giù un sorso di birra. Cosa posso rispondergli? Cosa si aspetta da una barista alla prima esperienza? Lo guardo svuotare il bicchiere e posarlo sul bancone stancamente. «Fammene un’altra, per favore.» Gli sorrido e riempio un altro bicchiere. «Ho passato gli ultimi anni della mia vita a inseguire sogni inutili e ora che me ne rendo conto non sono altro che l’ombra di me stesso, un personaggio senza una storia in cui muoversi.» Sta parlando come un uomo spacciato, giunto ormai alla fine del suo percorso, eppure non può avere più di venticinque anni, forse trenta. «Il tempo usato nel tentativo di realizzare un sogno non può considerarsi tempo sprecato.» dico cercando di non risultare troppo invadente o saccente. L’uomo mi guarda e per un istante posso percepire l’immensa tristezza che anima il suo spirito. È come se il suo corpo trasudi dolore e delusione. «Forse non parleresti così se avessi perso tutto e ti ritrovassi a vagare da sola in una stanza spoglia.» Vorrei ribattere, ma non farebbe alcuna differenza. Qualsiasi cosa esca dalla mia bocca non farebbe altro che gettarlo ancora di più nello sconforto. Non posso negare di provare una profonda tenerezza nei suoi confronti, ma ho le mani legate, non posso far altro che servirgli un’altra birra. Nell’istante in cui prendo il bicchiere vuoto con l’intenzione di riempirlo nuovamente, compare Mr. Cooper. Si avvicina in modo fin troppo silenzioso e mi toglie di mano il bicchiere. 8


«Preparagli del the. Usa quello nella bustina verde.» «Ma ha chiesto un’altra birra.» obbietto. «Non è affar mio. Fai come ti dico.» Il suo tono autoritario mi spiazza e sono costretta ad obbedirgli. Riempio una tazza dalle decorazioni eleganti di acqua bollente e metto in infusione la bustina indicatami da Mr. Cooper. L’acqua si colora di blu nell’istante stesso in cui il filtro tocca l’acqua e poi diventa verde. Porgo la tazza all’uomo e mi porto alle labbra l’indice su cui è caduta una goccia di the, dolce ma speziato. «Non è quello che ho ordinato!» protesta lui. Mi stringo nelle spalle. «Lo so, ma ti sarà molto più di conforto di una birra e se mi dovessi sbagliare il prossimo giro lo offre la casa.» Mi guarda e sorride. Prende la tazza e beve. Decido di lasciarlo tranquillo, così mi allontano, ma faccio solo un passo quando sento le gambe farsi molli e la vista mi si annebbia. La stanza comincia a vorticare. Mi ritrovo sul pavimento con un dolore lancinante alle tempie e la mente sottosopra. Mi metto seduta e allungo la mano convinta di trovare il piano del bancone a cui aggrapparmi: la mano afferra l’aria e ricade sul pavimento. Non sono al bar! Non sono al bar? Sento il panico tentare di prendere il sopravvento, ma riesco a rigettarlo indietro il tempo necessario a realizzare dove possa trovarmi. Mi guardo attorno. Libri. Libri e silenzio. Una biblioteca! Ora, devo solo capire come ci sono arrivata. L’ultima cosa che ricordo è di aver servito del the e di averne assaggiata solo una goccia. Che il the fosse drogato? Mi assale di nuovo l’ansia e ancora una volta mi costringo a restare lucida. Prendo il cellulare, faccio scorrere la rubrica e mi fermo alla voce “Ile de Rêve”. «Pronto?» risponde una voce di bambina. «Cerco Mr. Cooper!» tento. «Non c’è.» La ragazzina non mi lascia il tempo di ribattere e riaggancia. Perfetto! Penso. Potrei essere stata drogata e portata in una biblioteca. Ora cosa faccio? Forse è stata Melissa a giocarmi quel brutto tiro. Non si è dimostrata gentile quando ci siamo incrociate al bar e da quello che dice suo padre si interessa di pratiche occulte. D’altro canto, nemmeno mi conosce, perché fare una cosa simile? 9


E Mr. Cooper? È di certo un tipo particolare, ma non mi ha dato l’impressione di essere un maniaco psicopatico. Deve esserci un’altra spiegazione. «Che cosa fai lì per terra? Hai bisogno di aiuto?» Alzo lo sguardo e trattengo un urlo. L’uomo triste del bar è lì di fronte a me, con il nome scritto a lettere cubitali sulla polo bianca e azzurra, troppo larga per il suo fisico asciutto. «Come sono arrivata qui?» Lui mi guarda come fossi una persona mentalmente instabile e si stringe nelle spalle. «In autobus, a piedi o in auto forse. Comunque se vuoi un libro posso aiutarti altrimenti ti lascio tranquilla.» Mi trattengo dalla tentazione di insultarlo per il suo sarcasmo fuori luogo. Fino a poco fa si commiserava per chissà quale sogno infranto e ora si permette di fare il brillante? In più non mi ha riconosciuto. Poi noto qualcosa. Sembra più giovane e meno deluso dalla vita, più ingenuo e più sereno. «Che giorno è?» chiedo in un lampo di genio. «Se vuoi chiamo un ambulanza. Forse hai picchiato la testa cadendo.» «Rispondi alla domanda, per favore.» «Il 23 dicembre. Tra due giorni è Natale!» esclama con finto entusiasmo. «Di che anno?» preciso. «Duemila e otto?» domanda ironico. Mi tappo la bocca con la mano. La data non corrisponde. Forse ho picchiato la testa ma sono certa che sia il 23 dicembre 2013. Come posso essere tornata indietro di cinque anni? Mi alzo e senza dire altro corro fuori. Il cielo è disegnato di candide nubi e la neve scende delicata. Sento il freddo penetrarmi nelle ossa, mentre calde lacrime mi rigano il volto. Riconosco la mia città, ma so di non farne parte. Questa sensazione diviene ancora più intensa quando incrocio la me stessa diciottenne, che rincasa dopo un pomeriggio ai mercatini. C’è solo un luogo in cui possa recarmi e spero di trovarlo ancora dove l’ho lasciato. L’ennesima delusione mi lascia senza fiato: l’Ile de Rêve” ancora non esiste, al suo posto c’è un piccolo negozio di fiori. Entro delusa, ma subito un briciolo di speranza si fa strada tra la negatività dei miei pensieri, seduta a terra, con un gatto arancione accoccolato sulle gambe, c’è una ragazzina dallo sguardo inquietante e incredibilmente somigliante a Melissa. «C’è qualcuno qui con te?» le chiedo, cercando di mantenere la calma. «Papà!» chiama la bambina, «Una tipa strana ti vuole!» Trattengo il respiro ed ecco che Mr. Cooper fa la sua apparizione in un ridicolo grembiule verde a fiori. «Buongiorno cara, ti posso aiutare?» 10


Annuisco, rincuorata. «Tra cinque anni lei mi assumerà nel suo bar. Mi ordinerà di servire del the verde a un uomo depresso. Suona assurdo, ma fino a pochi istanti fa mi trovavo nel suo bar nel 2013 e ora sono bloccata nel 2008, senza sapere come tornare a casa» dico senza mai lasciargli modo di interrompermi. Le lacrime mi rigano il viso e il cuore mi scoppia nel petto. È evidente che mi manca qualche rotella, perciò inutilmente aggiungo: «Non sono pazza.» «No. Non sei pazza.» risponde con un sorrisetto poco rassicurante. L’uomo comincia a muoversi per il negozio in preda a una sorta di delirio. Sposta piante e accarezza fiori ripetendo frasi senza senso. «Ce l’ho fatta! Sarà una rivoluzione. La nuova frontiera del progresso. Copernico. Darwin. Einstein. Tutti aspettavano questo momento, l’istante in cui l’uomo avrebbe vinto il tempo. Porteremo il cambiamento. Modificare il passato per migliorare il futuro. Ora è possibile!» «Di cosa sta parlando?» chiedo, più per interrompere quella follia che per autentica curiosità. «Immagina di avere la possibilità di tornare indietro nel tempo e cambiare qualcosa per dare una svolta al tuo futuro. Pensa a tutti coloro che rimpiangono di non aver detto addio a una persona cara, di non aver chiesto di uscire a quella data persona e che ora si chiedono continuamente come sarebbe andata.» «E che mi dice dell’Effetto Farfalla?» «Fantascienza! Se usata nel modo giusto e da gente preparata, questa cosa ci cambierà la vita.» Inspiro ed espiro. «Tutto questo è fantastico, ma io non devo cambiare nulla del mio passato!» esclamo e le lacrime mi salgono agli occhi. «Infatti non sei qui per te stessa, ma per l’uomo depresso. Scopri cosa lo ha portato nel mio bar nel futuro, aiutalo a risolvere il suo conto in sospeso e solo così potrai tornare a casa.» spiega con pacatezza. In base alle parole di Mr. Cooper sarei come una sorta di “Psicologa del tempo”, trovo il problema e lo risolvo alla radice. Se questa cosa del the funzionasse non servirebbe più passare anni sui libri di psicologia per aprire piccoli studi in cui ascoltare i racconti deliranti di persone instabili o semplicemente appesantite da rimorsi o rimpianti; basterebbe offrire una tazza di the fumante al paziente e tornare con lui al momento in cui il suo declino psicologico è cominciato. Mi sdraio sul letto, offertomi gentilmente da Mr. Cooper, e ripenso alla chiacchierata con l’uomo triste di cui ora conosco il nome: Dominic. Parlava di sogni infranti e stanze vuote. Non ho molto su cui lavorare. Devo assolutamente rivederlo e riuscire a capire cosa lo trasformerà nell’ombra di se stesso, ma ora sono troppo stanca anche solo per pensare.

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Il mio domani sarà tutto dedicato a questo sconosciuto, ma questa notte sarà dedicata a me, alle mie paure e alle mie lacrime che stanotte sanno di the e cannella. Una volta alzata e vestita, mi reco subito alla biblioteca. Non ho ancora un piano d’azione, per ora mi limito a cercare Dominic e poi mi farò venire un’idea. La biblioteca è deserta quando la raggiungo, forse perché nessuna persona sana di mente trascorrerebbe la vigilia di Natale a studiare piuttosto che andare per negozi. Entro e comincio a guardarmi attorno. Al bancone all’ingresso c’è una ragazza dai capelli viola che cataloga i nuovi arrivi. La ignoro e mi addentro tra gli scaffali. Non so perché, ma sono certa che lui sia lì da qualche parte. Finalmente lo trovo. È concentrato nella ricerca di un testo nella sezione dedicata agli avvenimenti dell’ultimo secolo. «Ciao Dominic, cerchi qualcosa in particolare?» chiedo. Lui si volta e, riconoscendomi, fa una smorfia. Colpita e affondata. Non voglio che la follia del primo incontro, comprometta la mia possibilità di aiutarlo e quindi tornare a casa. «Lo so, ieri ti sono sembrata una pazza, ma sono qui per farmi perdonare. Io sono Anya.» «Vuoi farti perdonare suggerendomi un buon libro?» Lo odio! Gli sorrido. «D’accordo.» dice stringendosi nelle spalle. «Sto lavorando a un progetto che parte agli albori della guerra fredda per sfociare poi nell’attacco alle Twin Towers.» spiega. «Sembra interessante e vasto. Di che tipo di progetto si tratta?» chiedo, cominciando a spulciare i titoli sullo scaffale che abbiamo di fronte. «Bé… in realtà, sarebbe una specie di romanzo» risponde e percepisco una nota di imbarazzo nella voce. «Davvero? Un romanzo storico quindi! E l’hai già cominciato?» domando, mostrando forse troppo entusiasmo. Si stringe nelle spalle e le sue gote prendono colore. «Di cosa parla?» chiedo. «Amore, rancore, amicizia. Un po’ di tutto.» Mi riecheggiano nella memoria le sue parole al bar: “Ho passato gli ultimi anni della mia vita a inseguire sogni inutili e ora che me ne rendo conto non sono altro che l’ombra di me stesso, un personaggio senza una storia in cui muoversi!” Forse i suoi sogni sono legati a questo romanzo. Devo cominciare da qui se voglio tornare a casa per Natale e poi non ho comunque altre informazioni su cui poter lavorare. 12


«Lo posso leggere?» Mi guarda sorpreso. Sembra lusingato e allo stesso tempo terrorizzato dalla mia richiesta. «Non hai di meglio da fare che leggere il romanzo non finito di un aspirante scrittore?» domanda, forse con troppa acidità nella voce. Mi stringo nelle spalle e sorrido. «Ho già comprato e impacchettato tutti i regali e poi a Natale bisogna sempre fare una buona azione!» dico. Dominic sorride e mi accompagna al tavolo in cui ha sistemato il portatile e una serie di fogli scarabocchiati. Maneggia col computer e fa segno di sedermi. «Devi essere sincera però!» i suoi occhi castani sembrano accendersi. Annuisco. Ora la mia curiosità è sincera. Voglio sapere di cosa scrive questo ragazzo. È strano, a volte sembra uno sbruffone sicuro di sé, un istante dopo è timido e impacciato. La prima pagina è bianca. «E il titolo?» domando. «Ancora non c’è.» risponde. Faccio scorrere il cursore e giungo alle prime parole. Ho intrapreso una lotta che si protrae da più di un secolo ormai. Ho lottato. Ho sofferto. Sono stato ferito. Il mio corpo è stato ricucito. La mia mente è stata ricomposta. Porto le cicatrici e incubi indicibili accompagnano il mio sonno. Ora, sono stanco di combattere, ma prima di arrendermi all’inevitabile voglio regalare la mia storia alla carta. Voglio che le generazioni future, sfogliando la mia vita, possano trarne insegnamento. Vi avverto, non sarà una storia a lieto fine, ma c’è stata anche tanta gioia in questa lunga esistenza, condotta all’inseguimento di una luce lontana, di un amore, di una sola e unica donna: Alba. La mia attenzione è subito catturata dal breve prologo e mi immergo nella lettura. La vicenda comincia alla fine della Seconda Guerra Mondiale, un giovane sognatore si innamora di Alba, un’infermiera dalla bellezza indescrivibile. La storia segue la loro giovinezza, la ricerca di lavoro, il desiderio di metter su famiglia, la povertà e la malattia. Alba infatti improvvisamente si ammala e muore. Ed ecco che il giovane, disperato, fa una promessa: “Ti ritroverò, amore mio, non importa quanto tempo ci vorrà. Staremo insieme!” E così sarà. Cambia lo scenario. Cambia il contesto storico, ma riecco il ragazzo, pieno di sogni, ma anche più consapevole, che cerca la sua Alba e la trova. Non è più un’infermiera, ora è una timida barista con tante ambizioni e pochi soldi in tasca. 13


Continuo a leggere e di tanto in tanto alzo lo sguardo alla ricerca dell’autore del libro che mi segnerà per tutta la vita. Ho la pelle d’oca e non riesco a smettere, devo sapere come finisce, devo sapere che Sam e Alba staranno insieme e invecchieranno insieme, ma ogni dannata volta lei muore e lui aggiunge una cicatrice al suo cuore cucito con fili di speranza sempre più sottili. Riesco persino a commuovermi. «Allora?» chiede a intervalli regolari, ma non gli do la soddisfazione di una risposta. Eccola apparire in un vestitino attillato rosso e nero, bella come la ricordavo, delicata come un fiore primaverile. Le corro incontro e il cuore mi si ferma nel petto. Posso sopportare di perderla di nuovo? Faccio scorrere la pagina, ma non c’è altro. Non può essere finito! «E poi?» chiedo, penso di avere uno sguardo tra l’assatanato e lo stravolto. «Non ho ancora finito. Allora?» domanda di nuovo. «Devo sapere come finisce per dare un giudizio.» Lui sorride ugualmente soddisfatto. Non ho mai letto nulla di simile. Vorrei si mettesse a scriverlo ora, resterei ad aspettare, ma poi ricordo il motivo per cui sono qui in sua compagnia. «Qual è il tuo sogno più grande?» chiedo. «Scrivere e sapere che qualcuno si è emozionato leggendo un mio romanzo. Non sogno la gloria, solo avere un libro con il mio nome sopra.» risponde e i suoi occhi brillano come lucine di Natale. «È un bel sogno! Ci stai già lavorando?» «Per ora scrivo. Sei la prima che legge questo romanzo.» Lo guardo dritto negli occhi. «Devi farlo leggere! Appena lo finirai, invialo a più case editrici possibili, voglio vederlo pubblicato e magari tra cinque anni sarai famosissimo.» «Perché proprio tra cinque anni?» chiede ridendo. «Lascia perdere.» taglio corto. Gli consegno il portatile e gli dico che vado a cercare qualcosa da leggere mentre scrive. Non voglio essere lì con lui mentre svanirò nel nulla per tornare a casa! Mi aggiro per una buona mezz’ora tra gli scaffali, ma nulla. Nessun capogiro. Nessun svenimento. Non è ancora il momento, ma che cosa devo fare? Aspettare che concluda il romanzo e lo pubblichi? Potrebbero volerci giorni, mesi, anche anni. Sto per rannicchiarmi in un angolo e piangere, quando mi raggiunge con lo zaino a tracolla in spalla. «Sei stata molto gentile, ma ora devo andare!» dice, salutandomi con la mano. «Aspetta!» e mi accorgo di aver urlato. Sorrido e lo fermo. «Dove vai?» «Ho appuntamento con un’amica.» risponde. 14


«Perfetto! Vengo con te.» esclamo. «Perché?» chiede quasi spaventato. «Non ho nulla da fare oggi!» rispondo, facendo il broncio. Scuote il capo e sbuffa. «Come vuoi.» Dopo un inizio teso, riusciamo a chiacchierare come vecchi amici. Dominic mi racconta di come la sua passione per i libri e la scrittura sia nata osservando la madre, che girava sempre con un buon romanzo in borsa attendendo solo l’occasione per leggerne qualche pagina. Da bambino scriveva brevi racconti che nascondeva in giro per la casa, sapendo che lei li avrebbe trovati e letti. Quando mi chiede di parlargli di me, mi limito a una descrizione scarna della mia vita senza scendere nei dettagli. Qualcosa mi dice di aprirmi, di lasciarmi andare, ma la parte più razionale del mio cervello pone dei divieti: non parlare dei tuoi sogni, non parlare dei tuoi problemi, non parlare della tua vita o ti perderai in qualcosa da cui non tornerai indietro. Obbedisco e resto distante, o almeno ci provo. Raggiungiamo la pista di pattinaggio e ci sediamo sulle gradinate. Sulla lastra ghiacciata bambini, ragazzi, uomini e donne di qualsiasi età, scivolano spensierati. Un ragazzo cerca di insegnare alla fidanzata insicura a pattinare, stringendole la mano con un’intensità tale che sembra dire: “Non ti lascerò mai”. Dall’altra parte della pista un gruppetto di ragazzini si insegue sghignazzando, più cadono e più le loro risate riempiono l’atmosfera. Una ragazza in leggins e maglioncino sfreccia sulla pista sicura di sé, si prende il suo tempo, rallenta e volteggia in aria per poi ricadere perfettamente su un piede, poi riprendere la sua strada. C’è anche un bambino che muove i suoi primi passio sul ghiaccio. Guardo Dominic e lo trovo con lo sguardo fisso su un punto della pista dove un ragazzo e una ragazza pattinano ridendo. «Siamo qui per lei?» chiedo. Arrossisce e annuisce impercettibilmente. Guardo di nuovo la ragazza. Lunghi capelli neri raccolti in una treccia lasciata ricadere sulla spalla, proprio come li porta Alba, la protagonista del romanzo. «È Alba!» esclamo. Diventa ancora più rosso e non risponde. «E lui chi è?» domando. «Il suo prossimo ragazzo, credo.» risponde con una nota triste nella voce. E ti ritrovassi a vagare da sola in una stanza spoglia. Ecco cosa manca per poter tornare a casa. Non gli serve solo un po’ di coraggio per realizzare il proprio sogno professionale, ma forse un pochino anche per quello amoroso. Mi alzo di scatto e gli porgo la mano. «Andiamo a farle vedere che sei arrivato.» 15


«Non so pattinare!» risponde. «Non importa. Per una volta non pensare come Dominic, ma come Sam. Se Alba fosse in mezzo a una distesa di ghiaccio, cosa farebbe Sam?» domando. «La raggiungerebbe.» risponde senza alcuna titubanza. Lasciamo le gradinate, noleggiamo i pattini e scendiamo in pista. Gli porgo la mano e muoviamo i primi passi. «Fidati!» gli sussurro e spicchiamo il volo. Scivoliamo sulla superficie liscia, il freddo pungente sulla pelle e i muscoli tesi. Inizio a canticchiare seguendo la canzone natalizia che le casse diffondono e quando passiamo accanto ad «Alba.» neanche me ne accorgo. «Non mi avevi detto di avere una bella voce.» dice sorridendo, nonostante lo sforzo di restare in piedi. «So anche ballare. Vuoi vedere?» Gli lascio la mano e comincio a ballare, sempre a ritmo di musica. «Non lasciarmi qui.» urla lui, ridendo. Torno a prenderlo e facciamo un altro giro. Questa volta ci fermiamo a salutare “Alba” e il suo futuro ragazzo. Lo sguardo che lei ci lancia è più che loquace e grida gelosia in tutte le lingue conosciute. Mi presento e sfreccio via, costringendo Dominic a restare con i due ragazzi. Devo mantenere le distanze. Mi ripeto, incapace di distogliere lo sguardo. Tutto questo finirà. Non lo vedrò più! Tornerò al mio tempo, lascerò il lavoro e troverò qualcosa di normale. Dimenticherò tutto. I viaggi nel tempo. Il romanzo e il ragazzo dagli occhi tristi e sognanti. Mi scende una lacrima, l’asciugo con il dorso della mano e ritorno da lui. «Devo andare. È stato un piacere.» Non lascio a nessuno il tempo di salutarmi o di dire una cosa qualsiasi e raggiungo l’uscita, resistendo alla tentazione di dare di stomaco. La testa mi scoppia. Mi sto infilando le scarpe quando Dominic arriva. Le ginocchia ricoperte di nevischio. «Sei caduto?» domando, non riuscendo a trattenere una risata. Si gratta la nuca e sorride. «Sei schizzata via.» Mi stringo nelle spalle. «Sei dove devi essere. Io non c’entro niente qui!» «Sono qui grazie a te. Torna di là. Io e Mara pensavamo di andare a mangiare una pizza insieme prima di raggiungere le nostre famiglie per aprire i regali.» «Non posso! Devo tornare a casa per Natale.» rispondo, sentendo il corpo farsi pesante. «Perché piangi?» domanda. Sto piangendo e non me ne sono accorta. 16


«Lei ti sta aspettando. Promettimi che finirai il romanzo e che non rinuncerai mai ai tuoi sogni.» «Non ti capisco. Che succede?» Si avvicina. Scuoto il capo e indietreggio. Non ti avvicinare! «Devo andare.» ripeto e sento la mente annebbiarsi. Ce l’ho fatta. Il mio lavoro qui è finito. Corro fuori, sentendo Dominic che chiama il mio nome, ma è troppo tardi, vengo avvolta dall’oscurità. Mi ritrovo al bancone del bar. I gomiti appoggiati sul piano in mogano e le guance bagnate di lacrime. Di fronte a me ci sono i tre studenti con i portafogli in mano. Rieccomi alla vita vera! Stampo lo scontrino, metto i soldi in cassa e auguro buone feste ai ragazzi prima di crollare. Mi lascio cadere a terra e mi chiudo in me stessa. Non so quanto tempo resto così, in silenzio, ad ascoltare solo i battiti del mio cuore. La porta del bar si apre col solito tintinnio e un’assurda speranza mi dà la forza di rimettermi in piedi. Non si tratta di Dominic e nemmeno dell’uomo che ora sarà diventato. È Melissa. «Sei ancora qui?» chiede infastidita. «Che fine ha fatto il tuo gatto?» Si stringe nelle spalle. «E’ scappato.» «Difficile immaginarne il motivo.» rispondo. Lei mi guarda con odio e poi mi sorprende. «Mi piaci.» dice. Le sorrido. «Come è andato il tuo circolo dell’occulto?» domando, stupendomi di quanto non mi sorprenda porre una domanda simile. «Il vecchio non si tiene mai nulla per sé.» borbotta, uscendo senza rispondermi. Poco dopo vengo raggiunta da Mr. Cooper che mi dice che il mio turno si è concluso. «Cosa c’è nel the?» domando, prima di uscire. L’uomo sorride. «La formula della felicità.» risponde, “Ci vediamo domani?” Annuisco ed esco. Mi stringo nel cappottino leggero e passo di fronte a una libreria. Qualcosa in vetrina cattura la mia attenzione. Un libro dalla copertina dorata: “Un amore dal passato” di D. Steven. Entro, prendo il libro e lo giro per leggerne la trama. 17


L’amore può oltrepassare i limiti del tempo? Sam crede fermamente nella forza del suo amore per la bellissima Alba… Non devo leggere altro perché riconosco la mano di Dominic. Lo compro e passo la notte sveglia a leggerlo. Sam perde e ritrova Alba così tante volte da straziarmi il cuore. Mi ritrovo a piangere e ridere da sola illuminata dalla flebile luce rosa della mia vecchia lampada. Mi addormento con il libro tra le braccia e quando al risveglio lo trovo per terra un sorriso triste mi piega le labbra. Quando torno all’Ile de Rêve trovo Melissa e Mr. Cooper intenti ad addobbare l’albero. «Sei dei nostri?» chiede l’uomo e capisco che non si riferisce solo all’albero, ma a qualcosa di più importante. «Sì.» rispondo. Finiamo gli addobbi insieme e poi rimango sola a gestire il locale. La porta tintinna. «Buongiorno» saluto. Lo riconosco subito. Non è più il giovane distrutto del giorno prima, di una vita fa. È un uomo distinto, ben vestito e dallo sguardo sereno. Viene al bancone e si siede. «Una birra?» chiedo. «Sì, grazie! Ci conosciamo?» «Non credo!» rispondo, mordendomi il labbro per combattere la commozione. Gli porgo la birra e mi allontano. Lo sento scribacchiare qualcosa, ma mi costringo a non guardare. «Tieni pure il resto.» e se ne va. Torno al punto in cui era seduto e trovo un foglio piegato in due. Lo apro e leggo. “Sam ritrova sempre la sua Alba, non importa quante vite deve affrontare!” Mi porto la mano alla bocca. «Esco un secondo» urlo, senza sapere se il messaggio è stato recepito. Corro fuori diretta alla libreria. È fermo di fronte alla vetrina con il sorriso stampato in viso. «Vuoi sapere cosa ha fatto Sam negli ultimi cinque anni?» Annuisco. «Ha cercato Alba.» risponde. Sono paralizzata. «Allora?» chiede semplicemente, so cosa vuole sapere. «È bellissimo.» rispondo con voce rotta. Gli stringo la mano e quando alzo lo sguardo lo trovo intento a scrutarmi. «Non sei cambiata.» dice sorpreso. Mi stringo nelle spalle e gli sorrido. «Che fine ha fatto Mara? E quando hai deciso di pubblicare?» «Ti racconterò tutto, ma ora ho la presentazione del mio libro. Ti puoi fermare?» Mi mordo il labbro inferiore. 18


«Devo lavorare. Sono corsa fuori senza chiedere il permesso.» rispondo e abbasso lo sguardo. Mi attira a sé e mi sussurra all’orecchio. «Mi aspetterai?» «Alba aspetta sempre Sam.» rispondo. Trovo le sue labbra e lo bacio. È la proprietaria della libreria, visibilmente divertita, a richiamarci alla realtà invitando Dominic a entrare. Ci separiamo controvoglia. Lo guardo prendere posto di fronte a una coppia di microfoni e torno al locale dove Mr. Cooper mi aspetta con una tazza fumante di cioccolata calda tra le mani. «Per addolcire l’attesa.» dice, sorridendo. «Mi sembra di essere la protagonista di uno di quei film sdolcinati che si guardano sempre a Natale.» «Forse è così!» e ridendo scompare come al solito. Rimasta sola cerco di tenermi impegnata per evitare di guardare l’orologio ogni secondo. Quando la porta tintinna, non ho più bisogno d’altro, so che il mio futuro comincia a dispiegarsi a partire da questo preciso istante.

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Il Natale di Fantaghirò Ivy di Colorare C’era una volta una bellissima bambola di porcellana: aveva soffici boccoli corvini, grandi occhi blu e gote rosate. Portava un vestito di velluto rosso, stivaletti coordinati e una cuffietta di pizzo decorata di nastri scarlatti. Era così incantevole che venne venduta il giorno stesso in cui fu messa sullo scaffale del giocattolaio. L’acquirente – una signora appassionata di favole – la chiamò Fantaghirò, come la protagonista della sua fiaba preferita. Il venticinque di dicembre la regalò a Emma, la sua amata bambina. Per Fantaghirò iniziò un periodo felice. Emma giocava con lei ogni giorno e, alla sera, le riservava un posto d’onore al centro della mensola posta sopra il suo lettino. Da lì, la bambola poteva ascoltare tutte le favole che la mamma raccontava alla sua bambina; le piacevano particolarmente quelle che parlavano del Piccolo Popolo. Cerchi di fate, changeling, tesori nascosti alle pendici dell’arcobaleno. Tutte queste leggende facevano sognare quel giocattolo dal cuore umano. Per molti anni fu la compagna inseparabile di Emma, la depositaria delle sue confidenze, l’amica che veniva abbracciata nei momenti di difficoltà. Poi, la bambina crebbe e divenne adolescente. La mensola sopra al letto dovette essere sgombrata per far posto alle foto con le amiche e ai CD preferiti. Fantaghirò fu posta sul davanzale, ma non si perdeva niente, perché ormai la mamma non veniva più nella cameretta a raccontare le favole serali. Dalla nuova postazione la bambola poteva tenere d’occhio il sentiero sotto casa e vedere quando Emma sarebbe tornata da scuola: l’attendeva tutto il giorno perché desiderava avere un po’ di compagnia. Certo, non era più come una volta, ma le piaceva comunque ascoltare con lei la radio o le lezioni ripetute ad alta voce. Al termine del liceo, però, la ragazza si trasferì in una grande città per studiare. Fantaghirò la vide sempre più raramente e cominciò a sentirsi sola. Nei momenti più bui, pensava con intensità al momento più bello dell’anno, Il Natale, e allora si sentiva subito meglio. Nella settimana tra la vigilia e Capodanno la casa era in festa e la malinconia spariva. 20


Poco prima che la figlia facesse ritorno per le vacanze, i genitori spolveravano con cura la cameretta e la addobbavano con le decorazioni più luccicanti, proprio come quando Emma era piccola. Mettevano dei festoni rossi anche sul davanzale, tutto intorno alla bambola. I dolci natalizi riempivano le stanze di profumo e i doni venivano scambiati con gioia infantile. Fantaghirò sentiva il suo piccolo cuore di porcellana scaldarsi e dentro di sé sorrideva dalla gioia, anche se esteriormente doveva sempre sfoggiare il suo broncetto da bambola. Trascorsero così altri dieci anni, un po’ noiosi e rallegrati solo dal pensiero del Natale. Un giorno, però, arrivò una bella notizia a riscuotere la casa dal torpore. Emma, diventata ormai una donna, aspettava un bambino. I genitori fecero i salti di gioia e anche Fantaghirò fu pervasa dalla felicità: un bimbo avrebbe reso chiassosa e divertente la famiglia! E magari avrebbe giocato con lei e avrebbe chiesto che gli venissero raccontate delle favole. Era proprio una fantastica novità, non vedeva l’ora di vedere il bebè. Quel Natale sarebbe stato ancora più speciale degli altri. I novelli nonni, però, stabilirono di risparmiare alla neo-mamma e al neonato un viaggio così lungo e quell’anno andarono loro a trovare la figlia e la sua nuova famiglia. Fantaghirò capì le motivazioni, ma ciò non le impedì di rimanere molto delusa. Non appena sentì dalla camera adiacente che parlavano di questa decisione, una fredda lacrima di finissima porcellana bianca scese sulla gota rosata. L’asciugò subito con la manina, attenta a ricomporsi per non dare a vedere che possedeva un cuore umano. Cercò di far chiarezza nella nebbia della sua anima, provando con tutta sé stessa a scacciare la tristezza per pensare invece a quanto fossero felici i nonni. Doveva partecipare alla gioia del momento, anche se a distanza. Facile a dirsi, un po’ meno a farsi. Quando si ritrovò tutta sola la mattina del ventun dicembre, riusciva a percepire solo la frustrazione dell’isolamento. Passò il tempo guardando fuori dalla finestra, attendendo almeno che qualche fiocco di neve rallegrasse con le sue evoluzioni il viale costellato da alberi spogli. Ma anche il cielo era silente. Quando calò il buio, però, accadde qualcosa. La bambola cominciò a sentire una musica di sottofondo, lieve ma comunque udibile: un ritmo concitato di tamburelli e flauti di Pan, una melodia 21


trascinante dalla forza tribale. Fu subito catturata da quelle note e prese a battere il piedino sul davanzale per seguirne il ritmo. Aguzzando bene le orecchie, riuscì anche a percepire un coro di vocine che accompagnava la melodia. Le parole sembravano quelle di una filastrocca: A languire sul comò Tutta sola non ci sto. Lì di fuori c’è un bel prato Rosa, bianco e argentato. Vade retro Bianche Mani, porta via i tuoi sogni strani! A languire sul comò Tutta sola non ci sto. Un po’ a zonzo me ne andrò Principessa… Principessa… Il canto si spegneva in quel punto, lasciando la frase incompleta. Fantaghirò guardò fuori dalla finestra: sicuramente ci sarà stato qualche coro natalizio sul viale illuminato. Tutto, però, era deserto. Mentre pensava da dove potesse provenire quella strana musica, ecco che il canto ricominciò: A languire sul comò/Tutta sola non ci sto… La bimba di porcellana, incuriosita, si calò giù dal termosifone e cominciò a fare il giro dell’abitazione. Magari i proprietari di casa avevano lasciato la televisione o la radio accese. Dopo un giro di ricognizione, tuttavia, si accorse che ogni elettrodomestico era stato debitamente spento. La canzone terminò tronca come prima, sempre nello stesso punto; poi ricominciò da capo e infine si spense di nuovo alla parola Principessa. E così com’era arrivata scomparve, lasciando ogni cosa avvolta nel silenzio. La bambola tornò sul davanzale, pensierosa. Probabilmente era stata la solitudine a farle credere di sentire quella strana melodia. Sì, doveva trattarsi di allucinazioni uditive. Stabilito questo, chiuse gli occhioni blu e si concesse un po’ di riposo. La mattina dopo si svegliò presto, molto più di buonumore del giorno prima. Impiegò qualche secondo per realizzare perché si sentisse in quel modo: era la scia lasciata dalla canzone che aveva pensato di udire il giorno prima. Una piccola nota di colore in quella noiosa giornata. Non voleva ammetterlo, ma dentro si sé sperava di poterla riudire. 22


Pensate quindi al brivido di eccitazione che la pervase quando i tamburelli e i flauti di Pan ricominciarono a suonare! E, poco dopo, iniziò anche il canto. A languire sul comò Tutta sola non ci sto. Lì di fuori c’è un bel prato Rosa, bianco e argentato. Vade retro Bianche Mani, porta via i tuoi sogni strani! A languire sul comò Tutta sola non ci sto. Un po’ a zonzo me ne andrò Principessa… Principessa… Principessa? Si chiese la piccola. Voleva sapere come finiva la filastrocca! Si calò di nuovo giù dal termosifone e si avviò spedita alla porta: magari, affacciandosi al mondo esterno, avrebbe capito da dove provenisse il coro. E così fu: quando dischiuse l’uscio sentì le note farsi più nitide e comprese che giungevano dal piccolo sentiero dietro alla casa, che portava al bosco. Si soffermò incerta, un piedino fuori e uno dentro casa. Era prudente allontanarsi? Forse poteva dare giusto un’occhiatina. Se non avesse trovato niente, avrebbe potuto far ritorno in qualsiasi momento. Sulla porta c’era uno sportello costruito per il cane della famiglia, partito anche lui per passare il Natale con Emma. Era una porticina mobile di dimensioni modeste, perfetta per lei. Sarebbe rientrata da lì. Mentre rifletteva, il canto si ripeté una seconda e una terza volta, per poi cessare del tutto. Eh, no! Stavolta non avrebbe perso l’occasione. Doveva trovare quei musici e magari scoprire come terminava la canzone, tanto non aveva niente di meglio da fare. Con le sue gambette di porcellana cominciò a percorrere il sentiero a passo spedito. Lì non c’era illuminazione artificiale, ma una magnifica luna piena rischiarava il paesaggio con la sua magica luce argentata. Fantaghirò, al riparo da sguardi indiscreti, sorrise felice. Le sembrava di essere dentro una di quelle favole che la mamma di Emma raccontava tanti anni prima.

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La sua emozione aumentò quando vide il primo fiocco di neve dicembrino posarsi su una balza della sua gonna. In breve il cielo fu costellato di piccoli cristalli che danzavano nel cielo blu cobalto, uno spettacolo meraviglioso. La bambola camminò e camminò, fino a notte inoltrata, poi si mise sotto un pino e chiuse gli occhi, stanca ma soddisfatta. Per la prima volta le sembrava di essere padrona della sua vita. Quando si svegliò, un delicato manto bianco faceva risplendere tutto il paesaggio. Fantaghirò riprese il suo cammino, di buona lena. I fiocchi continuarono a scendere, di ora in ora più fitti. Non aveva mai provato cosa volesse dire camminare in mezzo alla neve; l’aveva sempre guardata dalla finestra, seguendone le morbide evoluzioni. Ma ora era diverso. Mano a mano che aumentava la candida coltre, diventava sempre più difficile avanzare e verso fine giornata cominciò a provare anche uno strano malessere fisico, mai sentito prima. Per natura non era in grado di percepire il freddo: quella sensazione dipendeva da qualcos’altro. Si accorse che le gambe erano diventate più pesanti e le giunture facevano uno strano rumore. Procedere diventava sempre più difficoltoso, sia perché sprofondava nella neve, sia perché i meccanismi che le facevano muovere gli arti si stavano inceppando. Gli stivaletti rosso fiamma erano bagnati fradici, così come l’orlo della gonna. Inoltre, non sapeva nemmeno se stesse andando nella direzione giusta, aveva perso l’orientamento. In preda a questi pensieri si fermò, sconfortata. Forse era il caso di girarsi e far ritorno a casa. Proprio in quell’attimo, però, ecco la melodia di flauti e tamburelli! Il cuore fece un balzo nel petto: ora la sentiva benissimo, doveva essere vicina! E poco dopo iniziò anche la canzone. Girando la testa in direzione della musica, la bambola si accorse che il canto proveniva da nord: dunque bastava seguire quella direzione, ce la poteva fare! Era ormai prossima alla meta. La filastrocca si ripeté una seconda e una terza volta, per poi spegnersi sempre nello stesso punto. Nell’animo della bambola si riaccese la speranza. Era sicura che il giorno seguente avrebbe raggiunto i misteriosi musici. Si raggomitolò sotto un albero e si appisolò subito. La mattina dopo, la neve era aumentata ancora e non accennava a smettere di scendere. 24


La piccola bambina di porcellana si fece coraggio, rialzandosi con decisione. Le gambe erano sempre più difficili da muovere, ma non voleva arrendersi. Procedeva con fatica, in mezzo ai densi fiocchi, e quando le sembrava di non farcela canticchiava tra sé e sé la filastrocca che ormai aveva imparato a memoria. In qualche modo la rincuorava, le sembrava di sentirsi meno sola. Verso metà giornata, le gambe cedettero. Cadde in ginocchio sulla neve, stremata. Aveva perso la cuffietta, il vestito era tutto infangato e strappato in più punti. Mi riposerò un pochino, pensò. Proprio in quel momento, il silenzio ovattato della neve fu spezzato da una voce sottile. «Hai ragione, mia cara. E’ ora di riposare» disse qualcuno materializzatosi all’improvviso. Piena di meraviglia, Fantaghirò alzò lo sguardo. Di fronte a lei si trovava una donna dalla bellezza eterea, esile e pallida, con i capelli bianchi come la neve e gli occhi azzurri e freddi come il ghiaccio. Portava una candida veste costellata di cristalli che proiettavano una luce spettrale tutt’intorno. Chi è questa persona? Non sembra umana. Pensò la bambola. «No, non lo sono, non preoccuparti. Puoi parlare con me. Sono la Dama delle Nevi» rispose la signora. «Dama delle Nevi…» ripeté Fantaghirò «…per caso puoi aiutarmi? Faccio fatica a muovermi, purtroppo». «Certo, piccola mia», rispose quella con un sorriso appena accennato, «ti aiuterò a riposare». «Ma signora, io non voglio riposare, voglio rialzarmi…» tentò di protestare la bimba. «Ssh… dormi ora» la invitò la Dama, con una voce suadente. Si chinò fino a sfiorarle le guance coi capelli albini, le posò una mano sulla testa e la fece adagiare a terra. I boccoli corvini della bambola, ormai sfatti, si sparpagliarono sulla neve bianca. Non era così male giacere lì, il manto latteo rendeva il terreno morbido come un tappeto. La piccola pensò che magari un po’ di quiete le avrebbe fatto bene. «Sì, la tua anima deve riposare.» confermò la donna, coprendola con uno strato di neve. «La… la mia anima?» Si riscosse lei, alzando la testolina bruna «Vuol dire che perderò la percezione di tutto? Che morirò?» «Morire! Che parola brutta. Diciamo che si tratta di un riposo eterno. Non ci sarà più sofferenza per te, né solitudine. Non ti sembra meraviglioso?» 25


«Ma, ma io…» balbettò lei allo stremo, mentre gli occhi si facevano sempre più pesanti «Io ho ancora delle cose da fare, devo sentire la fine della filastrocca…» «Ha ragione, mia cara Dama, lasciala stare!» Gridò un’acuta voce femminile, proveniente da dietro la donna fatata. Fantaghirò trovò la forza per alzarsi sui gomiti e guardare chi fosse la nuova arrivata. Si trattava di una creatura poco più alta di una bambola, con un vestito verde bosco, occhi e capelli dello stesso colore e orecchie a punta. Aveva un’aria di sfida. Di fianco c’era un altro personaggio simile a lei. I due si somigliavano molto, forse il maschio era il gemello; a differenza della femmina, però, aveva un’espressione sorridente e rilassata. «Andate via, folletti. L’ho trovata io, è di mia competenza» li invitò di malumore la Dama. «Non credo proprio!» Esclamò la ragazzina con i capelli verdi. «Ah, sì? E perché?» Rispose la donna tranquilla, senza lasciarsi impressionare. «Perché è l’ospite d’onore di stasera» intervenne il folletto maschio, tutto contento. Dalla fodera del gilet tirò fuori una lucida foglia verde, su cui era scritto a caratteri argentati: Principessa Fantaghirò. La Dama lo fissò assottigliando gli occhi, contrariata. «Non lo sapevo» sibilò. «Certo che lo sapevi, ma hai fatto finta di niente!» Esclamò la folletta. «Via, via, non è il caso di litigare», intervenne il gemello, conciliante «piuttosto, chiudiamo la cosa da persone civili. Lasciaci la bambola, Madame Ghiacciola» concluse con una nota di scherno. «Folletti… e della peggior specie!» Fece quella con disprezzo. Si rialzò con dignità e si allontanò verso sud, sfiorando appena la coltre nevosa con i candidi piedi scalzi. «Molto bene, ora occupiamoci di lei» disse la ragazzina con le orecchie a punta. L’altro si chinò in direzione di Fantaghirò e la tirò su senza sforzo. Con una mano fece passare un braccio di porcellana attorno alla sua spalla, e con l’altra la sorresse per la vita. La folletta li precedette, prendendo il sentiero verso nord. Camminavano senza fatica, come se la neve fosse un comodo prato primaverile. La bambola era confusa, ma vide che andavano nella direzione giusta e così li lasciò fare. Quando ormai stava per giungere il crepuscolo, arrivarono nei pressi di una piccola sorgente termale. Il fumo usciva invitante dall’acqua e le rocce che 26


attorniavano la riva risplendevano di una luce argentata, riflettendo il bagliore della neve. «Molto bene, ora vi lascio ai vostri preparativi», disse il folletto, deponendo Fantaghirò a terra, «ci vediamo tra poco!» Quando si fu allontanato, la folletta versò nella pozza un’essenza profumata di fiori, che rese l’acqua rosata. Poi aiutò la bambola a spogliarsi e si immerse insieme a lei. Fantaghirò sentì le giunture di porcellana farsi subito meno rigide e provò un immediato ristoro. La ragazzina dalle orecchie a punta l’aiutò ad asciugarsi e pettinarsi, poi le fece indossare una leggera veste d’argento e un paio di scarpette da ballo dello stesso colore. Sul capo le posò una corona di agrifoglio. Si vestì a sua volta e le fece segno si seguirla. La bambola, ora, si muoveva senza fatica. Attraversarono un sentiero che si snodava in mezzo ad alti abeti, per poi terminare davanti a un ampio spiazzo ammantato di neve e popolato da creature chiassose e variopinte. Fantaghirò non poteva credere a quello che vedeva. Si fermò a guardare la scena con occhi incantati. Al centro dell’area svettava un albero di Natale, il più grande che avesse mai visto. Era addobbato con biscotti, pigne, nastri, e sulla punta aveva una stella che brillava di luce propria: sembrava fosse stata appena tirata giù dal cielo. Tutto intorno chiacchieravano animatamente fate dalle ali di farfalla, satiri con i piedi caprini, elfi dalle orecchie aguzze, gnomi dalle lunghe barbe. Sembrava una bellissima favola. «Buona vigilia di Natale!» Esclamò una voce conosciuta. La bambola si riscosse e vide davanti a sé il folletto dai capelli verdi. «Grazie mille, anche a te» rispose educatamente. «Principessa Fantaghirò, bambola creata dalla porcellana fatata» proclamò lui, tendendole la mano «ora è il momento delle danze, concedimi di unirmi alla festa insieme a te». «Va bene» sorrise lei «Ma non conosco i passi di danza della vostra gente». «Oh, te la caverai benissimo» assicurò il folletto. Si presero per mano e si unirono a tutti gli altri invitati. Una piccola orchestra cominciò a suonare tamburelli e flauti di Pan, mentre i ballerini formavano un cerchio attorno all’albero di Natale. La bambola iniziò a volteggiare insieme a tutti i nuovi amici, al colmo della felicità; poi cominciò il coro: A languire sul comò Tutta sola non ci sto. Lì di fuori c’è un bel prato Rosa, bianco e argentato. 27


Vade retro Bianche Mani, porta via i tuoi sogni strani! A languire sul comò Tutta sola non ci sto. Un po’ a zonzo me ne andrò Principessa Fantaghirò!

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Ritornare a credere Monica Finotello Anche quest’anno era giunto il periodo natalizio, ma da ormai sette anni a casa Romano, il Natale non veniva per nulla festeggiato. La famiglia era composta da papà Carlo, da mamma Clara e dal piccolo Claudio di dieci anni. Come sempre per tutta Torino si potevano ammirare le decorazioni e le vetrine addobbate a festa, ma Carlo aveva categoricamente vietato, sia alla moglie che al figlio, di festeggiare o di addobbare in qualsiasi modo la casa. Clara dal canto suo, per non far arrabbiare il marito, ormai sorvolava e immaginava che questo festoso periodo non esistesse. Certo non era facile, data la sua abitudine degli anni trascorsi nell’onorarla al meglio. Cercava anche di tenere calmo l’entusiasmo che ogni anno prendeva a Claudio. D’altronde come dargli torto povero piccolo, vedeva ogni anno i suoi coetanei festeggiare e raccontare con entusiasmo il modo in cui avevano festeggiato il Natale. E lui invece veniva preso in giro perché non lo aveva fatto, per le strane e bislacche idee del padre. Ma quest’anno si era prefissato un obiettivo, voleva assolutamente scrivere a Babbo Natale in Lapponia e gli avrebbe chiesto un singolare ma prezioso regalo. Come tutti i giorni, il bambino era in camera sua a svolgere i compiti ma, senza rischiare di essere scoperto, nascosto sotto al quaderno di matematica, c’erano una lettera e una busta. Pian piano la scrisse alternando con i compiti e lo studio, non voleva che il padre la intercettasse, gliela avrebbe strappata o bruciata. Quando la terminò, la piegò con cura e la mise dentro alla busta, sigillandola e scrivendo l’indirizzo: Santa Claus Main Post Office (ufficio di Babbo Natale) Arctic Circle 96930 Arctic Circle Finlandia (Lapponia) Finì di studiare e poi chiese alla madre di poter andare a giocare in cortile. La donna acconsentì senza minimamente immaginare le intenzioni del figlio. Per fortuna nella zona dove abitava, abbastanza vicino a casa, c’era l’ufficio postale e con calma vi andò. Dopo essere entrato, si diresse allo sportello e chiese: «Scusi signora dovrei spedire questa busta.» 29


La donna alzò lo sguardo, vide il bambino e gli rispose: «Certo, dammi che la pesiamo e valutiamo la tariffa.» Claudio tutto contento aspettò di pagare. Dopo qualche attimo la donna gli risponde: «Allora per la tariffa aerea per la Lapponia, sono cinque euro» Il bambino si rabbuiò di colpo e disse: «Ma io ho solo tre euro, come faccio? Non posso tornare a casa, devo spedirla a ogni costo, ho chiesto un regalo speciale a Babbo Natale, riguarda il mio papà. La prego mi aiuti.» La donna si commosse e gli rispose: «Va bene tranquillo, gli euro che mancano li metterò io. Tu dammi quello che hai e poi facciamo tutto. » gli disse sorridendo. Claudio ricambiò a sua volta e pagò, prese la ricevuta, ringraziò la signora e tornò a casa con calma. Quando arrivò la mamma era in cucina e non si era accorta di nulla. La salutò e si diresse in camera sua. Si guardò in giro per trovare un posto abbastanza nascosto così che il padre non lo potesse trovare. Optò per un pupazzo che aveva una tasca dove poter riporre il pigiama ma, dato che gli piaceva così, non lo aveva mai usato se non per soprammobile, vi mise la ricevuta e lo mise al suo posto. Poi tornò diligentemente a svolgere i compiti. I giorni passavano e ben presto giunse la vigilia di Natale. In casa Romano fu un giorno come un altro, senza allegria o speranza alcuna, ma non per il piccolo Claudio, in cuor suo si aspettava che il suo desiderio venisse realizzato e, anche se in apparenza sembrava normale, dentro di se aveva la luce della speranza e un’immensa gioia. Per tutto il giorno stette tranquillo in camera sua e senza farsi notare dai suoi genitori, svuotò un’anta dell’armadio e la decorò in onore del Natale, con palline, presepe e alberi, tutto ricavato da fogli di giornali, dipinti e accuratamente custoditi. Poi mise un cartello: “Non aprire grazie, anche un bimbo ha i suoi segreti e qui regna la magia”. Non era certo sicuro che nessuno aprisse, ma lo sperava; mancava poco al Natale e tutto sarebbe cambiato. Le ore trascorsero anche sin troppo lente e stranamente quella sera Claudio salutò presto i genitori e andò a letto presto. Non si addormentò subito, attese pazientemente che i genitori andassero a dormire e anche se alla mezzanotte mancava poco meno di un’ora, si alzò e si diresse in cucina, prese un piatto e una tazza, mise dei biscotti e un po’ di latte, appoggiò il tutto sul tavolino in salotto vicino al camino e senza farsi sentire, tornò a letto. Il piccolo era talmente euforico che cercò di attendere che i minuti passassero, ma sul più bello il sonno prese il sopravvento.

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La ventiquattresima ora era trascorsa da un po’, a un tratto nel silenzio della notte proruppe un fragoroso frastuono. Tutti si svegliarono di botto e il piccolo fu l’ultimo ad arrivare. Carlo e la moglie, si trovarono davanti a una scena alquanto bizzarra, un corpulento anziano in abiti rossi e dai lunghi capelli e barba bianchi, cercava di rialzarsi da terra, ma con scarsi risultati. Poi arrivò Claudio e non appena vide l’uomo disse: «Ma allora sei arrivato? Grazie per essere qui.» Rivolgendosi poi ai genitori: «Cosa fate lì impalati, perché non aiutate Babbo Natale?» I genitori rimasero esterrefatti da quell’affermazione, mentre il bimbo andò ad aiutare l’anziano signore. Dopo averlo fatto accomodare, gli offrì il latte e i biscotti. A un tratto intervenne Carlo dicendo: «Claudio ma cosa stai facendo? Non ti avevo detto di non dar retta a queste cavolate? E come ti è venuto in mente di chiedere a questo vecchio di venire e far finta di essere babbo natale e disturbare il nostro sonno?» Il bimbo euforico e un po’ seccato rispose: «Papà ma che dici? Lui è il vero Babbo Natale ed è venuto qui per la lettera che gli ho mandato.» Poi senza aspettare il piccolo si rivolse all’anziano chiedendogli: «Non è vero che sei qui per questo Babbo Natale?» Il vecchietto smise di sgranocchiare i biscotti e rispose: «Hohoho! Certo mio caro Claudio, io sono il vero e unico Santa Claus, o come mi chiamano anche: Babbo Natale, Nicola, San Nicola e Spirito del Natale. Ed è appunto per la tua calorosa e particolare lettera che sono venuto. Anche se detto tra noi sarà una vera impresa esaudire il tuo desiderio.» e sorrise calorosamente. «Ora basta!» sbottò il padre del bambino. Era evidentemente alquanto alterato e nervoso e proseguì dicendo: «Tu Claudio fila in camera tua e mettiti a letto. A questo signore ci penso io. La polizia sarà contenta di arrestare un ladro che si è intrufolato in casa per rubare.» Poi si rivolse all’uomo continuando: «E lei non si muova, sono campione di karate e non vorrei essere costretto a colpire un vecchio.» A un tratto intervenne la moglie, rivolgendosi al marito: «Ma che stai dicendo? Ma ti sembra il caso di dire queste cose? Non ti ricordi quando credevi ancora nel Natale e la nostra casa era aperta a tutti? Si faceva festa insieme, in allegria. Anche se questo anziano signore non dovesse essere Babbo Natale, è una persona che sicuramente apprezzerebbe qualcosa di caldo e un po’ di compagnia.» Carlo sgranò gli occhi e infervorendosi di più rispose: «Ma che ti passa per la testa Clara? Non ricordi che abbiamo deciso di comune accordo che non avremmo più onorato il Natale? Ora non venirmi a dire che tutto di botto ti senti di nuovo in vena di festeggiare.» La donna si rattristò e tacque. 31


Allora prese la parola il vecchietto: «Carlo dovresti ascoltare di più tua moglie, avete trascorso gli ultimi sette anni senza felicità e spirito Natalizio, avete costretto vostro figlio a non conoscere ciò che si prova durante questo magico periodo, non pensi sia ora di tornare a credere? » Carlo rispose: «Ma cosa ne può sapere un vecchio strampalato dei motivi per cui noi non festeggiamo più, le conviene solo stare zitto. E tu fila a letto. » concluse verso il figlio. Il bimbo triste abbassò il capo e mosse qualche passo. «No Claudio rimani è ora che tuo padre sappia della tua lettera.» disse l’anziano. Il fanciullo si fermò e sorrise voltandosi. Il vecchietto estrasse dal sacco dei regali, che sino a quel momento nessuno aveva notato, una lettera e disse: «Carlo ti conviene leggere questa e capirai tante cose.» disse porgendogliela. L’uomo con cipiglio severo la prese e dopo averla aperta, cominciò a leggere. “Caro Babbo Natale, sono Claudio, un bambino di dieci anni di Torino in Italia. Ti scrivo non per me, ma per il mio papà. Da che io ho memoria, lui e la mamma non credono ne in te ne nella magia del Natale. Vedo sempre i miei amici e per le strade, la gente felice che si scambia non solo regali ma felicità. In casa nostra non solo non è concesso addobbare, ma nemmeno festeggiare. Per noi il Natale è un giorno come un altro e, se cerco di sapere il perché vengo spedito a letto. Anche quest’anno è la stessa cosa, ma io sono molto triste per lui, certo mi dispiace anche per la mamma e per me, ma il papà è sempre teso e serioso, per non dire alquanto nervoso. Carissimo Babbo Natale per me non ti chiedo nulla, ma ciò che vorrei se tu puoi, è di donare a mio padre quella serenità e felicità che da tempo ha perso, così che tutti possiamo vivere felici. Grazie e scusa per il disturbo, ti abbraccio, tuo Claudio.” Mentre leggeva, il volto di Carlo si distese e un velo lucido comparve negli occhi. Si schiarì la voce e rivolgendosi al figlio disse: «Vedi Claudio, la tua lettera è bellissima e ti ringrazio per l’immenso amore e sostegno che hai per me. Ma non è così facile tornare indietro, troppe cose sono successe e il mio animo è cupo.» Poi intervenne il vecchietto dicendo: «Ti sei rinchiuso nel tuo dolore per troppo tempo Carlo è ora che tu torni alla felicità. E per farlo sarebbe ora di fare qualche cambiamento.» «Lei cosa ne può sapere del mio dolore? Non mi conosce. » rispose l’uomo. «Invece ti conosco sin da quando sei nato e so il motivo per cui tu e tua moglie avete deciso di allontanarvi dal Natale. Per ben tre anni, dopo la nascita di vostro figlio, voi avete chiesto a me di avere un altro figlio, per dare un fratello o una sorella a Claudio, ma allora non era il momento, per tutto c’è il proprio tempo. Per esempio io comincerei con il cambiare la tristezza di questa casa.» disse l’anziano signore. 32


Prese la sua sacca e senza dare il tempo ai presenti di replicare, ne estrasse una sorta di polvere magica. La fece volare nell’aria e come d’incanto comparve un pino addobbato di tutto punto. Con pacchi sparsi qua e la. E sotto alla tv, comparve il presepe che il piccolo aveva costruito e nascosto in camera. Tutti rimasero allibiti e Claudio disse: «Avete visto che ha fatto Babbo Natale?» Cercando di non farsi catturare troppo dalla magia, Carlo prese la parola: «Come fa lei a sapere i motivi della nostra decisione? Nessuno lo sa tranne noi.» Il vecchio rispose: «Io sono Babbo Natale e so tutto di tutti. Comunque ciò che voi attendavate da ben sette anni, è finalmente giunto, voi diventerete ancora genitori e Claudio avrà un fratello o una sorella. C’è un tempo per ogni cosa, basta credere. » I due coniugi si guardarono allibiti ed entrambi toccarono l’addome di lei. Come per confermare le parole del vecchio signore, un piccolo sussulto scaturì dall’interno. I due sorrisero e chiamarono il piccolo Claudio per gioire tutti assieme. «Bene allora penso proprio che io possa andare, auguro a voi un Buon Natale. Hohoho! » e così dicendo il tenero vecchietto spari. Subito dopo si sentì un tintinnio di campanelli e davanti alla finestra sfrecciò la slitta trainata dalle renne e l’anziano signore che teneva le redini. La famiglia sorrise felice, dicendo in coro: «Era davvero Babbo Natale.»

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Fiocchi di neve Sara Pannone Sono un viaggiatore e, come tutti i viaggiatori, cammino. Ma avete idea di quanto sia difficile camminare tra la neve? I miei piedi cercano goffamente di non sprofondare in questo mantello bianco, mentre cerco, inutilmente, di coprire le mie spalle con un telo vecchio. Non godo di particolare ricchezza e vivo di ciò che trovo. Solitamente questo non mi pesa, ma in inverno non è semplice. Il freddo mi intacca le ossa e non si trova cibo da nessuna parte. Non ho soldi con me e quindi comprarlo è un opzione impossibile. Alla fine credo che morirò, qui sul manto bianco che sembra così soffice e candido come una nuvola. Cado. Sapevo che sarei scivolato prima o poi, ed eccomi schiacciano sulla neve, tanto candida quanto fredda. E io sto gelando, sento le forze mancarmi. Chiudo gli occhi ed espiro profondamente. Nonostante tutto sono felice. Un altro Natale da solo non l’avrei potuto sopportare. Almeno così il dolore andrà via insieme ai ricordi e finalmente potrò sentirmi in pace. Sento piccole goccioline fredde sulla schiena. Sta nevicando, ma io mi sto lasciando andare e non mi importa. Ecco sento già meno freddo. *Crap crap* Cos’è questo rumore? *Crap crap* Passi? Apro gli occhi, per quel poco che riesco. Prima una piccola ombra. Poi due grandi occhi scuri che mi fissano curiosi. Un Bambino? «Ciao.» mi dice lui. Non riesco a rispondergli. Chiudo gli occhi e mi lascio andare.

Magari se continuo a fissarlo si sveglierà. «Smettila di guardarlo e dammi una mano Mimi» Mi sgrida dolcemente mamma. 34


Ma io voglio guardarlo ancora, ha una faccia curiosa l’uomo delle nevi. Ma annuisco e le vado vicino. Sta preparando una zuppetta calda e il fumo che esce dalla pentola sul camino riscalda la piccola stanza. Lo guardo mentre sale su fino al basso soffitto grigiastro e vi passo una mano in mezzo come se volessi afferrarlo. «Assaggia e dimmi se va bene» la mia mammina prende un po’ di brodo con il mestolo di legno e ci soffia sopra, poi me lo avvicina alla bocca. Io la apro e assaggio. Storco il naso sperando di farle capire che manca un po’ di sale. «E’ insipido?» Annuisco con fervore e sorrido. Mia mamma mi capisce sempre. Mi guarda e poi guarda l’uomo delle nevi. Sospira. Forse è spaventata che l’uomo delle nevi sia cattivo. Io non credo che lo sia, ma se tocca mia mamma io la difenderò con le unghie e con i denti. Lui si muove. Corro veloce per vedere se si sveglia. Mi faccio vicino, tanto che il mio naso tocca il suo, ma niente, dorme ancora. «Sarà tanto stanco» dice mamma «Perché non vai a lavarti le mani, che la zuppa è quasi pronta?» Io la guardo. «Guarda che il sale ce l’ho messo» sorride e io faccio lo stesso, poi sbuffa e mette le mani sui fianchi «Se non lavi le mani niente zuppa» Faccio una faccetta sconvolta e corro in bagno. Io amo tanto mia mamma, è divertente e mi capisce sempre. Apro il rubinetto dell’acqua. Fredda come la neve. Lavo in fretta le mani e corro a mangiare la zuppetta che mamma ha già messo in tavola. Mi siedo comodo e prendo il mio cucchiaio. «Prima la preghiera» mi intima. Io unisco le mani e strizzo bene gli occhi. Grazie a chiunque stia lassù. Guardo la mia mamma. Grazie mamma. Mi sorride e annuisce. È il mio via. Posso mangiare. Prendo un cucchiaio di zuppa e ci soffio sopra. Mangio. Mamma ha finito per farla salata. Ma non faccio nessuna faccia strana, non voglio che lo sappia. Fa tanto per me. Un altro rumore dal letto dov’è l’uomo delle nevi. Mi volto. È sveglio e mi sta guardando.

Cos’è questo caldo? 35


In paradiso fa caldo? Avevo sempre pensato facesse piuttosto freschetto da quelle parti, per via dell’altezza. No, sento anche uno strano odore e non credo che in paradiso cucinino zuppa di cipolle. Apro gli occhi. Dove mi trovo? Sono steso su qualcosa di duro ma anche caldo. Vedo un muro grigiastro. Mi volto. Un bambino dagli occhi così scuri da sembrare neri mi sta guardando. Mi fa un grande sorriso. Alza la sua piccola manina e mi saluta «Ciao» dice con una piccola vocina, avrà avuto al massino cinque anni. L’età che aveva la mia bambina. «Ciao » gli rispondo con la voce impastata. Chi è questo bambino? «Chi sei?» domando. Il bimbo dai grandi occhi scuri e i capelli grano continua a fissarmi, poi guarda alla sua sinistra. Allora anch’io mi giro a guardare . Una donna dai capelli rossi raccolti mi sta guardando. Ha gli occhi scuri come il bambino e la pelle chiarissima. Mi guarda curiosa «È mio figlio» risponde dolcemente «E non sa esprimersi a parole» Corrugo la fonte. Cosa significa che non sa esprimersi? «Comunque piacere» fa lei avvicinandosi «Io sono Eloisa» mi tende la mano. Io mi siedo e ricambio il saluto. «Alberto» le rispondo. Guarda il bimbo che ha fatto una buffa faccia arrabbiata, lei ride. Una risatina sonora che riempie la stanza. Ne resto sorpreso. Ha davvero una bella risata, ed è davvero una bella donna. «Credo che lui non voglia che tu ti chiami Alberto» «Come scusa?» chiedo sorpreso. «Il mio piccolo Mimi ha tanta fantasia , ti avrà dato un altro nome» continua. «Ma Alberto è il mio nome» Lei ride ancora. «Hai appetito?» mi domanda. Io annuisco. Lei va verso il camino dove c’è un pentolone fumante e un grande fuoco rosso. Mi alzo, per poco non tocco il soffitto. Quella stanza è piccola , c’è un camino, un tavolo e un lavandino con a fianco mobili in legno. Mi avvicino alla tavola e batto con la testa contro il lampadario appeso al soffitto. «Ahi.» mi tocco la testa coccolandola. Il bambino ride, la donna, allarmata, viene veloce verso di me e si fa vicina per controllare il punto dove ho preso la botta. Odora di buono, di pasta frolla. «Ti verrà un livido Alberto» dice lei dopo aver ispezionato. Si volta verso il bambino che ancora ridacchia. «Hai finito di ridere monello che non sei altro?» il bambino scuote la testa. Ora viene da ridere a me. Quel bambino è buffo. 36


«Invece di guardarvi voi due, perché non mangiate?» Credo stia rimproverando anche me. «Accomodati lì» dice indicandomi una sedia di fronte al bambino. Mimi lo ha chiamato. Io mi siedo e il bimbo mi guarda con i suo occhi curiosi. Lei mi porge una ciotola con del brodo. «Mangia» dice dolcemente, anche se credo sia quasi un ordine. Mi domando come mai non abbia paura di me. Sono uno sconosciuto. E poi come sono finito qui? Mi porge un cucchiaio e io lo prendo «Grazie» Lei mi fa un breve e caldo sorriso. Ho una gran fame e quella zuppa calda sembra molto invitante. Si allontana e riempie un’altra ciotola, probabilmente per lei. Il bambino si è rimesso a mangiare e io intendo imitarlo. Immergo il cucchiaio, Mimi mi guarda e mi fa segno con la bocca di soffiarci sopra. Lo faccio e il bambino mi sorride come per dirmi “Bravo”. Stranamente, e me ne sorprendo anch’io, ricambio il sorriso. Metto il cucchiaio in bocca.

L’uomo delle nevi mangia la zuppa di mamma. Fa una smorfia buffa di disgusto, io gli faccio cenno con il dito sula bocca per fargli capire che non voglio che offenda mia mamma. Fa tanto per me da quando papà non c’è più. Mamma è speciale, non si arrende mai, si prende cura di me e mi capisce sempre, anche se non parlo. Si sta prendendo una ciotola anche lei, la assaggia. «Mio Dio l’ho fatta salatissima! Perché non me lo avete detto?» ci sgrida. «Io la trovo ottima» risponde continuando a mangiare. Mamma sorride e scuote la testa, mi sta simpatico. «Non sei costretto a dire che è buona» «La trovo davvero buona» ripete lui. Mangiamo tranquillamente, mi piace l’uomo delle nevi, davvero tanto. Lo guardo bene, ha i capelli del colore del mio pastello preferito, giallo. E poi ha degli occhi piccoli e colorati come il cielo. È molto alto e mi sono divertito tantissimo quando ha colpito il nostro lampadario con la testa. A papà non succedeva mai, era più basso. «Se hai finito va a lavarti» dice mamma mentre prende la mia ciotola vuota «Così dopo facciamo lavare il signor Alberto». Guardo di nuovo l’uomo delle nevi, guarda mia mamma, forse la trova buffa come io trovo buffo lui. Annuisco e corro in bagno. Apro il rubinetto dell’acqua, sperando che esca calda. 37


Gioco con lo spruzzo. Quando è della giusta temperatura, mi spoglio in fretta e prendo la mia barca. Comincio a giocare con la barchetta e la schiuma. Il mio papà faceva il pescatore ed è morto in mare. Quando venne zio Tom a dircelo era quasi Natale. Mamma non pianse, mamma è forte, mi sorrise e mi disse che ora eravamo io e lei. In quel momento ho deciso che mi sarei sempre preso cura della mamma e che sarei stato forte anch’io. Mi impegno tanto. «Cucciolo che hai fatto?» la testa di mamma si affaccia alla porta «Sei ancora in acqua! Vuoi diventare uno stoccafisso?» ride, mentre prende un asciugamano. Io esco dalla vasca e lei mi asciuga. «Perdi troppo tempo a giocare. Hai dimenticato che abbiamo un ospite?» E vero, ora abbiamo anche l’uomo delle nevi con noi. Mi aiuta a vestirmi, infilo la maglia «Sei come il tuo papà tu, mi porti sempre randagi in casa, per fortuna sembra un brava persona» dice un po’ preoccupata. Avrò fatto bene? Quando io e la mamma stavamo tornando a casa dopo la spesa dal signore che vende le verdure, io l’ho notato. Era ricoperto di neve. Credevo fosse un mostro ma poi mi ha guardato. Ho chiamato la mamma, perché le persone brave fanno così, aiutano. Questo mi ha sempre insegnato. Lei non ha detto nulla e insieme lo abbiamo portato a casa. Com’era pesante! «Ecco fatto, ora facciamo fare il bagno ad Alberto» Storco di nuovo il naso, lui non si chiama Alberto si chiama uomo delle nevi! Ma mamma non lo vuole proprio capire. Mentre esco lo incontro di nuovo. Sta guardando il calendario con una faccia triste. Io vado da lui e gli tiro un po’ il pantalone, lui si volta e abbassa lo sguardo, gli sorrido, non voglio che il mio uomo delle nevi sia triste, è quasi Natale nessuno deve essere triste. Lui si abbassa e mi strofina i capelli con la mano. Io strizzo gli occhi divertito e rido. Mi piace tanto lui, ho deciso cosa voglio per Natale. Lui.

Domani sarà la Vigilia di Natale. 38


Che cosa orribile. Penso che sarebbe stato meglio se quel piccolo bambino non mi avesse trovato, quel cerchietto rosso attorno al numero venticinque mi fa contorcere lo stomaco, mi viene la nausea. Sento qualcuno che mi tira il pantalone, mi volto e abbasso lo sguardo. È il bambino, mi sorride. Deve aver capito che mi sono incupito. È davvero un bel bambino, mi abbasso e gli carezzo la testa. È un anno che riduco i miei rapporti sociali alle persone che mi fanno l’elemosina, non sono più abituato a socializzare, tantomeno con un bambino. «Ti ho riempito la vasca, puoi andare a fare il bagno Alberto». Eloisa mi guarda sorridendo dolcemente. Io abbozzò un sorriso cercando di ringraziare. Non sono più abituato alle cure o alle gentilezze. Come devo comportarmi con questa donna così cortese con me? Eppure sono uno sconosciuto. Lascio il bimbo nella stanza dove c’è il camino e vado nel bagno. Non è lussuoso, anzi è austero e piccolo, ma ben curato e femminile. «I saponi sono sulla mensola accanto alla vasca. Sulla sedia ti ho messo un asciugamano per dopo» Esce dal bagno senza darmi neppure il tempo di ringraziarla. Sospiro. Quella donna ha un certo non so che, come suo figlio. Chissà se c’è anche un papà. Scuoto la testa. Che mi importa? Si un po’ ti importa. È vero. Ma perché? Faccio il bagno più velocemente possibile, non voglio creare disturbo. Mi asciugo, mi avvolgo l’asciugamano alla vita e mi guardo nel piccolo specchio sul lavandino. Ho un fugace déjà-vu, vedo nel riflesso un uomo che non vedevo da molto tempo. Un uomo morto. Scosto lo sguardo e lo poso sui miei luridi vestiti. *Toc Toc* Qualcuno bussa alla porta del bagno. «Posso entrare?» è la donna. Mi guardo, non sono presentabile. «Puoi aspettare che indosso qualcosa?» le chiedo. «Come fai a vestirti se non hai abiti?» mi domanda «O hai intenzione di mettere quei vestiti tutti sporchi che indossavi prima?» suona come un rimprovero. Non so cosa rispondere. «Io entro» dice semplicemente aprendo la porta del bagno. Ci ritroviamo faccia a faccia, non è molto alta «Carino» dice lei facendo l’occhiolino scherzosa. Mi ritrovo ad arrossire. O almeno credo. Non è un comportamento molto virile. Mi porge degli abiti piegati. 39


«Questi erano di mio marito, sono quelli che gli andavano un po’ più grandi, sei più alto di lui ma spero ti vadano bene» prende i miei indumenti «Ho intenzione di buttarli». «Ma…» «Niente ma» sbuffa, «Ne compreremo altri domani, tu ora vestiti e poi tutti a letto» Credo mi abbia preso per un bambino. Ride. «Scusa, passo troppo tempo con Mimi e troppo poco tempo con persone della mia età» si scusa «Comunque vestiti in fretta, non credo che Mimi andrà a letto senza aver aspettato anche te» mi sorride e poi esce dal bagno. È davvero molto gentile. Erano di mio marito. Nel senso che non li mette più o che lui non c’è più? Li indosso in fretta, sono stati gentili e quel bimbo mi ha salvato. Non voglio farlo aspettare. E poi non voglio che la mammina mi sgridi ancora.

L’uomo delle nevi ora sembra una persona vera! Spalanco gli occhi sorpreso, è diversissimo! È ancora alto e porta dei vestiti nuovi. È molto pulito ora e anche mamma sembra apprezzare molto. «Ti dispiacerebbe mettere a letto Mimi? Vorrei fare anch’io un bagno, sembra che tu gli piaccia» dice mamma facendomi l’occhiolino. L’uomo annuisce, è di poche parole, come me. Però lui sa esprimersi. Mamma si chiude in bagno e lui viene verso di me. Mi guarda impacciato. Scendo dalla sedia con un salto e gli prendo la mano. Ha una mano molto grande e la mia in confronto è piccolissima. Lo porto in camera mia e ci fermiamo d’avanti al letto. «È camera tua questa?» mi domanda. Io annuisco entusiasta. La mia camera è bella, la più bella di tutte le camere da letto del mondo. Ho un grande lettone e sui muri ci sono attaccate tutte le mie opere d’arte. Mi arrampico sul letto e gli faccio cenno di avvicinarsi. Lui lo fa e io mi infilo sotto le coperte, lo guardo. Lui non sa che fare, però mi guarda curioso. Forse per l’uomo delle nevi sono buffo anch’io. «Cosa significa che tu non riesci a esprimerti a parole?» Sapevo che me lo avrebbe chiesto. Anche se non sono sicuro che lo stia domandando proprio a me o stia ragionando ad alta voce. Come glielo spiego? 40


Mi è venuta un idea. «Mamma, Mimi, Mela, Male, Mio» dico sperando che capisca. Gli vengono le rughe sulla fronte. Non ha capito. Non importa, spesso le persone non capiscono. Sospira. «Buonanotte Mimi» dice continuando a spostare il peso da un piede all’altro a disagio. Gli faccio segno con la mano di avvicinarsi. Non posso dirgli cosa deve fare ma posso farglielo vedere, così imparerà. Si abbassa avvicinandosi e io gli do un bacio sulla guancia. «Notte» dico. Lui batte veloce gli occhi ed esce veloce dalla stanza. Forse l’ho spaventato. È in questi momenti che vorrei riuscire a parlare, mamma mi capisce ma gli altri no. Vorrei che l’uomo delle nevi mi capisse, sarebbe davvero bello. Vorrei che restasse con noi, a mamma non dispiacerebbe, ne sono sicuro. Mi accoccolo sotto le coperte. Domani è la Vigilia, sarà tutto più bello.

Mi sveglio intorpidito. Anche se le lenzuola sono morbide, la brandina è scomoda. Sempre meglio di dormire per strada, comunque. C’è un odore forte nell’aria. Apro gli occhi, una donna dai capelli rossi sta preparando il caffè. Eloisa. Porta una vestaglia da notte di lana rosa e ha i capelli legati in una treccia, non mi ero reso conto fossero così lunghi. Faccio rumore sedendomi e lei si volta. «Buongiorno» mi sorride. È davvero incantevole, con la sua pelle chiara e i suoi grandi occhi scuri. «Buongiorno» rispondo io. «Il caffè è quasi pronto» dice voltandosi e prendendo una tazza molto grande «Lo preferisci nel latte oppure da solo?» «Io non bevo il latte» le rispondo accomodandomi su una sedia, Quella di fronte a lei. Mi piace guardarla. Mi ritrovo a osservare ogni suo movimento. È delicata e decisa allo stesso tempo. «Non dovresti aver paura di me?» le domando. «Perché dovrei?» mi chiede di rimando senza voltarsi. 41


«Sono uno sconosciuto, eppure tu mi hai accolto senza battere ciglio. Potrei essere un ladro, un truffatore o un assassino.» «Sei un ladro?» «No» «Un truffatore?» «No» «Un assassino?» «No» «Allora non credo che si siano problemi» si volta e mi porge una tazza. Mi da un cucchiaio , il vasetto con lo zucchero e una busta di biscotti già aperta. Non amo i biscotti, vorrei dirle, ma non voglio essere scortese. Immergo un biscotto nel caffè e lo inzuppo per bene per poi raccoglierlo con il cucchiaio. «Cos’ha Mimi?» le chiedo, lei si volta a guardarmi negli occhi, io mi sento a disagio e scosto lo sguardo «Non è muto, perché alcune parole le pronuncia». «Ha difficoltà nell’esprimersi con le parole. Lo comprende ma non riesce a formulare frasi» dice con tristezza mentre si guarda i piedi. Non volevo rattristarla. «È sempre stato così?» domando. Credo di essere un po’ indiscreto, dovrei fami gli affari miei. «Sì, dalla nascita» mi guarda di nuovo con un sorriso amaro sul volto «Quando c’era ancora suo padre, Mimi e lui tutte le sere si esercitavano a imparare nuove parole, ma da quando non c’è più il mio piccolo non si esercita.» Mi dispiace per lei. Mi dispiace per quel piccolo bambino dai grandi occhi scuri. «Tuo marito è morto?» le chiedo. Mi morderei la lingua, il mio cervello e la mia bocca devono avere qualche contatto staccato. «Sì» risponde «Era un pescatore e due anni fa, durante una bufera, è morto annegato. Ti risparmio i dolorosi dettagli di un Natale molto triste». Non ha più un marito e cresce un figlio da sola. Ammiro la sua forza. «E qual è la tua storia invece Alberto?» mi chiede con uno sguardo curioso. Lei è stata così gentile da raccontare la sua tragica storia che io non voglio essere da meno. «Buongiorno» dice sorridendo affettuosamente. Non a me, guarda alle mie spalle. Mi volto. C’è il piccolo bambino dagli occhi scuri che cammina piano piano strofinandosi gli occhi. Mi guarda e mi viene incontro.

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Sono tanto stanco. Mi strofino gli occhi, stamattina fa freddo. Forse ha nevicato, sarebbe bellissimo! Entro in cucina. Mamma mi da il buongiorno e lì c’è lui, che bello. Gli corro incontro e lo abbraccio. Mi madre ride e lui credo sia imbarazzato. Non è andato via, sono felice. «Lascialo fare colazione» Sto a sentire mamma e lo lascio, ma si siedo vicino a lui. La mammina mi da la mia grande tazzona di latte. Prendo un biscotto e lo inzuppo bene bene lo mangio. È dolcissimo! Faccio una piccola smorfia. Guardo l’uomo delle nevi che mi fa segno con il dito sulle labbra di non farglielo notare. Mi piace tanto. «Allora ragazzi» mamma si volta a guardarci e noi la stiamo a sentire con attenzione «Oggi devo lavorare, quindi voi andate a comprare il necessario per domani che è Natale, vi scrivo il necessario su un foglio» Andro a fare compere per Natale con l’uomo delle nevi, sì! «Lavori la vigilia di Natale?» chiede lui. «Sì» risponde mamma mentre cerca una penna «Se non lavoro come compriamo il cibo?» «Che tipo di lavoro svolgi?» le chiedo di rimando. «Sono una sarta, ma domani festeggerò anch’io» Vedo mamma che scrive un mucchio di cose sulla carta, domani mangeremo tanto. Non vedo l’ora.

«Allora io vado» La guardo attentamente, le vorrei dire che è disumano lavorare anche la Vigilia di Natale, ma resto zitto a fissarla. Il bambino, correndo, le porta una sciarpa. Lei lo ringrazia e avvolgendosela al collo va via. Restiamo solo io e Mimi. Guardo ancora una volta la lista della spesa, credo di essere inutile qui. Sono solo una bocca in più da sfamare, e lei, da quello che ho capito, lavora troppo. 43


Guardo il bimbo che di rimando mi sta guardando. Mi sorride, poi fila via. E io resto solo all’entrata della casetta. Ora che faccio? Mi toccherà vedere dov’è finito. Non prendo neppure l’iniziativa di muovermi che lo vedo saltellare verso di me con un giaccone grande tra le braccia, lui ha già messo il suo, evidentemente questo è per me. «Grazie» gli dico prendendolo. Lo infilo, mi va un po’ strettino, dev’essere del padre. «Quindi dobbiamo andare a fare spese» rimugino ad alta voce. E con quali soldi? Solo ora mi ricordo che Eloisa non mi ha dato il denaro. Come se Mimi mi avesse letto nel pensiero caccia un piccolo borsellino, io lo prendo e lo apro. Sembrano esserci parecchi soldi. Evidentemente risparmiano molto per festeggiare bene il Natale. Che cosa strana. Ha perso suo marito proprio in questo periodo, eppure lo festeggia. Guardo il bambino che con gli occhi scuri mi sta intimando di andare, apro la porta e usciamo. Il freddo mi investe in pieno. Si gela. Tento di stringermi nel giaccone di lana e prendo la mano del bimbo. Inizio ad ammirare questo piccolo bambino dagli occhi scuri e sua madre. Sono stati più forti di me. Quando io ho perso Liz e Margareth mi sono semplicemente lasciato morire.

In paese c’è tanta gente. Alla vigilia c’è sempre tanta gente. Mi piace vedere tutte quelle persone con tante buste che cercano i regali. Io quest’anno il mio regalo ce l’ho già, Babbo Natale me lo ha portato in anticipo. Alzo gli occhi e lo vedo. Il mio uomo delle nevi. Sta guardando con attenzione il foglietto di mamma. Mi guarda anche lui. «Andiamo?» mi chiede. «Si» gli rispondo io. Qualche parola la conosco. Lui mi sorride. Mi piace quando sorride, sembra buono, però sembra poco abituato a sorridere. Forse anche a lui sono successe cose brutte. Ci incamminiamo per i negozi. Andiamo dal fruttivendolo, dal macellaio, dal pescivendolo. Compriamo un mucchio di cose. Poi lui si ferma davanti a un negozio. Guarda attentamente la vetrina, così lo faccio anch’io. È un negozio di giocattoli. Forse vuole comprarsi un giocattolo. Mi guarda attentamente, poi guarda di nuovo la vetrina. 44


Vorrei chiedergli “Tutto bene?” ma non ci riesco. Mi limito a stringergli più forte la mano sperando che capisca. Comincia a fare freddo e l’ora di pranzo e già passata. Io ho tanta fame ma non mi lamento. Lo fa il mio stomaco con un grande “Grump”. Mi fermo e arrossisco, l’uomo delle nevi lo ha sentito. Lui mi guarda poi sento un altro “Grump” stavolta non è il mio pancino ma il suo. Ridiamo insieme mentre ci dirigiamo verso casa.

In casa fa decisamente più caldo. Io e il bimbo abbiamo fame, ma credo che nessuno dei due sia un grande chef. Mi tolgo la giacca e la appoggio su una sedia, lui fa altrettanto. Abbiamo passato una bella mattinata. Mimi sa farsi capire anche se non parla, ma soprattutto sa farsi apprezzare. Credo che mi stai cominciando ad affezionare molto a lui. Apro un mobile e vi trovo un pacco di biscotti. Probabilmente Eloisa ci sgriderà, ma noi abbiamo fame e se io mi metto a cucinare rischio di incendiare casa. Ci sediamo al tavolo e ci mettiamo a sgranocchiare. Credo che se continuo a fissarlo comincerà ad avere paura di me. Così decido di fare quello che ho in mente già da qualche ora. «Mimi hai dei fogli da disegno e dei pastelli?» gli chiedo. Lui annuisce. «Potresti portarmeli?» Lui annuisce di nuovo e corre via.

Corro in camera mia. Non capisco perché, ma l’uomo delle nevi vuole disegnare e la cosa mi piace tantissimo! Così avrò un suo disegno sulla parete con i miei. Corro in cucina e gli porto quello che mi ha chiesto, poi prendo un altro biscottino. Mamma ci sgriderà per questo. Comincia a disegnare. Lo guardo, è bravo. Ovviamente io sono molto più bravo di lui. Disegna su diversi fogli varie figure. Non hanno molto senso insieme. Che vuole fare? 45


«Fatto» dice, prende un foglio, lo alza verso di me e con il dito indica una figura. «Foglia» dice, scandendo bene le parole. Ho capito quello che vuole fare! Lo faceva sempre il mio papà. Vorrei dirgli che quel disegno non somiglia molto a una foglia, ma non posso farlo. «Foglia» ripete. Mi concentro, voglio farcela, devo farcela. Io sono forte e l’uomo delle nevi è con me. «Fo» dico. Non ce l’ho fatta. Mi viene da piangere. «Bravo» mi dice sorridendo. Sono stato bravo? «Fo» mi dice. «Fo» ripeto io sorridendo. «Gli» cambia. Mi impegno. «Gli» ripeto. «A» dice lui. «A» dico io. «Fo-gli-a» mi dice. «Fo» mi guarda attentamente. «Gli» mi concentro bene. «A» dico. «Bravissimo!» urla entusiasta e anch’io saltello dalla felicità. «Fo-gli-a» ripeto ancora. Ho imparato un’altra parola! Continuiamo così per un po’, non tengo conto dei minuti o delle ore, mi piace fare questa cosa con lui. Mi piace lui. «Di-va-no» dice lui. Mi concentro. «Di-va-no» ripeto. Sentiamo il rumore di qualcosa che cade. Ci voltiamo e vedo mamma che tiene una mano d’avanti alla bocca e piange. Ha fatto cadere la borsa. «Mamma!» urlo correndo verso di lei.

Mi alzo di scatto appena la vedo piangere. Non posso vedere quel viso rigato dalle lacrime, ma non mi avvicino, è già corso Mimi da lei. Si stringono forte, solo ora mi accorgono che sono lacrime di gioia. Cos’è successo? «Tesoro, hai imparato una nuova parola?» dice lei prendendo la testolina del piccolo, cominciando a riempirlo di baci. «Ne ha imparate tante» le rispondo io. 46


Lei mi guarda. Rimaniamo così, occhi negli occhi, poi mi fa un largo sorriso di gratitudine. È bellissima. «Bravissimo amore mio» dice guardando il bambino «Ora va a lavarti, io preparo la cena» il bambino annuisce e corre in camera. «Perché non riposi un po’?» le propongo. Ha lavorato tutta la giornata, ne ha bisogno. Lei scuote la testa e comincia a prendere mestoli e cibarie. Io non so che fare, quindi resto in piedi accanto al tavolo a guardarla. Taglia le verdure minuziosamente e riempie il pentolone con l’acqua. Dopodiché mette tutto sul fuoco del camino. Mi avvicino a lei. Fuori è già buio. Chissà se nevicherà. Mi fermo a guardare fuori la finestra. C’è un manto bianco sulla strada e poche persone che fanno gli ultimi acquisti. Stranamente mi sento a mio agio, a casa. Eppure sono qui da così poco. «Come ti è venuta l’idea?» Sobbalzo. La domanda mi coglie di sorpresa. «Ho visto in una vetrina delle figure di animali intagliate nel legno e ho pensato che, con un aiuto visivo, Mimi potesse imparare, non mi aspettavo che ci riuscisse così presto ma» Lei con uno slancio mi abbraccia e mi stringe forte, avvicina le labbra al mio orecchio e mi sussurra «Grazie». Odora di pasta frolla, vorrei stringerla anch’io. Si allontana e asciuga con le mani alcune lacrime. «Sentivo che eri una brava persona» mi dice «Ma non riesco a capire cosa ci facessi sepolto nella neve, quasi morente» mi guarda «Qual è la tua storia Alberto?» Già, la mia storia. La guardo. Si è presa cura di me senza conoscermi, senza conoscere la mia storia. Devo dirle tutto, lo merita. Ma ho timore di come reagirà, non voglio perdere lei e neppure il piccolo bimbo dagli occhi scuri. «Ero un ricco proprietario terriero». Lei mi guarda con gli occhi spalancati. Non dice nulla, lo prendo come un invito a continuare. «Un anno fa, poco prima di Natale, ero con la mia famiglia, cioè con mia moglie Margareth e mia figlia Liz, in casa. Stavamo decorando ogni centimetro di quella dimora con tante chincaglierie Natalizie. Ci stavamo divertendo.» Mi si secca la gola, non voglio piangere. «Quando bussarono al portone.» sento i miei occhi che si fanno lucidi. «Aprii la porta e vidi un uomo grosso e baffuto vestito da Babbo Natale, era un ladro. Mi diede un colpo in testa e io persi i sensi» 47


Distolgo lo sguardo, non riesco a guardarla, ma comunque mi sforzo di continuare. «Quando mi sono risvegliato loro…» mi si forma un groppo alla gola. «Loro erano morte» dico tutto d’un fiato. Evito di approfondire l’attimo in cui le ho ritrovate accasciate sul pavimento, il momento in cui mi sono sentito vuoto e le ho strette a me mentre piangevo. «Lì ho capito che la mia vita non aveva più senso e sono fuggito. Ho viaggiato». «E ora sei qui» dice lei, poggiandomi una mano sulla guancia. Mi volto a guardarla, stringo la mia mano alla sua. Per la prima volta dopo tanto tempo, sento che sto bene. Sento che se loro mi volessero, io resterei.

Non so perché ma sto piangendo. Lui ha perso sua figlia, una bimba come me. L’uomo delle nevi è forte. Alberto è forte. Al… Mi avvicino e gli tiro la maglia. Lui e mamma mi guardano e sorridono, sorrido anch’io. Mi piace tutto questo. Mi piace che lui sia qui. Alberto. Ber… «La zuppa è quasi pronta, lavatevi bene le mani e venite a tavola». Mamma si volta e prende un mestolo di zuppa, ci soffia sopra e lo porge ad Alberto, lui assaggia e mi guarda. Aspetta che io gli dica se può dire qualcosa. Io annuisco. «Manca un po’ di sale» dice. Mamma sbuffa «Come sempre, ma poi se metto il sale la faccio salata». «Posso farlo io?» domanda. Alberto prende del sale e lo mette nel pentolone, afferra il mestolo dalle mani di mamma e gira la zuppa. Ne prende un po’, soffia e fa assaggiare a mamma. «Buona» esclama sorpresa. Voglio assaggiare anch’io. Come se lui mi avesse letto nel pensiero, si abbassa e mi porge il mestolo con la zuppa. È buona. To… «Buona» dico. E come premio ho le loro facce stupite. Sono buffi. Ridacchio. «Il mio bambino» dice mamma mettendosi una mano sul petto. 48


Ci sediamo a tavola e cominciamo a cenare. Sembriamo una famiglia. Al-ber-to… Il mio regalo di Natale. Mi volto verso la finestra e rimango a bocca aperta.

Sento un suono di campane. «È Natale!» esclama Eloisa sorridendomi. «Neve!» a dirlo è Mimi. Lo vedo correre verso la finestra. Sta nevicando. Mi alzò dalla sedia nello stesso istante di Eloisa. «Andiamo a vedere la neve?» domanda a me e al bambino. Entrambi annuiamo. Non infiliamo neppure i cappotti e usciamo. Il freddo mi investe ma non mi importa. Mimì corre in giro divertendosi , allarga le braccia e guarda in cielo. Respiro profondamente, sono felice. Sono felice a Natale. Mi sembra strano ma è così. Sento qualcosa sulle dita, Eloisa mi si è fatta vicina e sta intrecciando le sue dita con le mie. Sento il calore della sua mano. «Al-ber-to!» urla Mimi venendomi in contro. Spalanco gli occhi sorpreso, non gli ho insegnato il mio nome. Ma lo ha pronunciato. Sta attraversando la strada, un auto corre impazzita. E non accenna a rallentare. «Mimi!» urlò allarmato. Corro verso di lui e lo afferro in tempo. Stavo per perderlo.

Un’auto stava per investirmi. Ho ancora gli occhi chiusi dalla paura. Sento due braccia che mi stringono. «Stai bene?» chiede una voce allarmata. Alberto. Mi ha salvato. 49


Apro gli occhi e mi volto a guardarlo. Ha la faccia preoccupata, gli sorrido. «Bene» rispondo. Lui mi abbraccia sollevato e io ricambio. Ora siamo pari, io l’ho salvato e lui ha salvato me. «Mio Dio!» mamma corre verso di noi, preoccupata. «State bene vero?» ci ispeziona «Stiamo bene, non preoccuparti» dice Alberto. Lei gli fa uno sguardo di rimprovero, poi sospira. «Non fate mai più una cosa simile. Ho a che fare con due incoscienti» dice scuotendo la testa. Io e Alberto ci risolleviamo da terra. Lui e la mamma si guardano, lei gli prende la mano. «Grazie» gli sussurra.

Stringo più forte la mano di Eloisa. Fino a due giorni fa volevo solo morire, oggi voglio vivere. Credevo che il Natale fosse solo una festività per bambini, lo festeggiavo solo per la mia Liz, ma ora ho capito che è molto di più. In soli due giorni ho capito che il Natale è anche miracolo. È sentirsi bene, completi; è stare accanto alle persone che ami. È capire che non bisogna mai perdere la speranza. Mimi si fa vicino e mi stringe la mano. Ho già detto che sono felice? Perché lo sono davvero. E non lo credevo possibile. Io per Natale non ho chiesto nulla ma mi è stato dato tutto. Una lacrima riga la mia guancia e scompare nel mio sorriso. Alzo il volto e resto a guardare il cielo scuro adornato da piccole pagliuzze bianche che scendono lentamente. Ho trovato quello di cui avevo bisogno. Chiudo gli occhi e stringo le mani al mio futuro. Mentre il mio viso viene bagnato da piccoli fiocchi di neve.

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Un dono per Natale Noemi Renna Anche quest’anno, il momento magico aspettato da tutti i bambini del mondo, stava per arrivare. Mancavano solo pochi giorni a Natale e già da settimane si potevano ascoltare gruppi di cantanti e musicisti che rallegravano le serate. Le strade erano illuminate a festa e gli alberi erano stati addobbati con ghirlande e letterine preparate dai bambini delle elementari. I negozi vendevano ogni genere di leccornia, tantissimi giocattoli e ogni tipo di addobbi per la casa. L’aria era intrisa di molteplici profumi, dalle caldarroste, allo zucchero filato, ai più svariati e stravaganti dolci. La gente correva tra le vie della città per acquistare gli ultimi regali e pietanze per il giorno tanto atteso. Infine c’era chi, come me, trovava assurdo tutto questo trambusto. Non avevo mai festeggiato il Natale, per me era un giorno come tanti altri, passato a studiare o a lavorare, senza regali né qualcuno con cui passare quella magica festività. Da che ne ho memoria, ho sempre vissuto in orfanotrofio, raramente qualcuno provava ad adottarmi, ma non riuscivo a rimanere mai per più di un paio di giorni nella nuova casa. Tutte le volte che pensavo di aver trovato la famiglia giusta, questa mi rispediva indietro nemmeno fossi stata un pacco postale. Nei libri e nei film, il Natale era descritto come uno di quei giorni indimenticabili, da passare con la propria famiglia e con le persone a te care, mangiando il panettone con tanto zucchero a velo che ti ritrovi con dolci baffi da leccare. La casa sempre addobbata che profuma di vischio e biscotti di pan di zenzero. Nei salotti troneggia l’albero addobbato con palline, luci a intermittenza e l’immancabile stella sulla cima. Festose ghirlande e candele adornano il caminetto dal quale scendono le calze che sarebbero state riempite con deliziosi dolci. Infine, non potevano di certo mancare i tanto attesi pacchetti da scartare tutti insieme la mattina di Natale mentre si beveva una cioccolata calda con i marshmallow. Ecco, questi erano i giorni idilliaci per la gente normale, mentre per me non esisteva nulla di tutto ciò. Nei miei ventuno anni di vita non ho mai avuto un albero da decorare, mai nessuno con cui andare in giro per negozi a fare compere né scartare i regali, anche perché le uniche cose che ricevevo erano calzini o vestiti riutilizzati, quindi non vi era bisogno di incartarli. 51


Quando finalmente compii gli anni necessari per potermene andare dall’orfanotrofio speravo con tutta me stessa che le cose sarebbero cambiate, ma ahimè non andò proprio così. Sin da quando ne ho memoria, ho sempre visto cose che gli altri non potevano vedere. Riuscivo, anche solo guardando di sfuggita una persona, a distinguere ciò che questa desiderava con tutto il suo cuore, le sue paure e gli stati d’animo. Quando nevicava, i fiocchi di neve per me non erano semplicemente acqua ghiacciata, ma delle minuscole fatine che volteggiavano e danzavano per i cieli di Antartia. A volte, quando era piccola, mi ritrovavo ad avere delle piacevoli conversazioni con questi esserini che raccontavano delle fiabe magnifiche di luoghi lontani dai quali provenivano. Crescendo, imparai a non farmi notare in simili atteggiamenti per non passare come la strana della situazione e con il passare del tempo, sono riuscita a sembrare completamente normale agli occhi dei miei simili. Così, adesso mi ritrovo a lavorare in una scuola elementare, a contatto con i bambini e la sera faccio volontariato in un’agenzia giornalistica. Qui ho conosciuto tante persone di diversi colori, ogni giorno vedevo una moltitudine di sfumature, dal rosso al marrone al blu, ma soprattutto moltissime nere, dalle quali cercavo di tenermi quanto più alla larga possibile. «Grazie mille, Ecate, credo che per oggi possa bastare. Siamo rimasti gli ultimi in ufficio, non hai nessuno a casa che ti sta aspettando?» mi chiese Eros, il mio capo. «Certo boss, finivo solo di controllare certe carte. Adesso vado via.» risposi sfoggiando il mio miglior sorriso professionale, chiudendo tutte le finestre aperte sul mio portatile e riponendolo in borsa. «Ah, Ecate, quante volte ti ho detto di non chiamarmi in quel modo? Se non cambi atteggiamento ragazzina, sarò costretto a mandarti via!» ribatté con un ghigno mentre percorreva il corridoio diretto all’ascensore. Non potei fare altro che sorridere anch’io mentre mi mettevo il cappotto e i guanti. Dopo aver spento tutte le luci e salutato il portiere, m’incamminai verso casa e nel tragitto cominciò a nevicare. Anche il mio primo incontro con Eros fu durante una nevicata, la prima di quell’anno. «Ecco la sua cioccolata calda, signorina » disse il cameriere. Pagai il conto, ringraziai e uscì dal negozio. Fuori l’aria era gelida e si cominciavano a vedere già i primi fiocchi venire giù. Alzai il colletto della giacca, bevvi un sorso di cioccolata e cominciai a camminare. Cercavo di non prestare molta attenzione a tutti i colori che mi circondavano e soprattutto di non intrattenermi in conversazioni che la gente normale avrebbe considerato strane.

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Mancavano ancora un paio d’ore prima dell’incontro con i genitori dei miei nuovi alunni quindi potevo tranquillamente fare un salto al parco e rilassarmi un po’. Arrivata a destinazione, notai che era vuoto, a parte un paio di cani che cercavano di mordere i fiocchi di neve, così mi sedetti e finii la mia cioccolata. Ero assorta nei miei pensieri quando un movimento alla mia destra, attirò tutta la mia attenzione. Non avevo mai visto un’aura tanto splendente e diversa in vita mia. Era di un bianco brillante, quasi accecante e apparteneva a un ragazzo che conoscevo solo perché lo avevano intervistato in quanto considerato il più giovane imprenditore del momento, ma era anche dannatamente più carino di persona che in TV. Aveva lunghi capelli castani e un accenno di barba, occhi di un bellissimo color cioccolato fuso e lunghe dita che in quel preciso istante stavano accarezzando i due cani, molto felici delle sue attenzioni. Aveva un leggero sorriso che gli increspava gli angoli della bocca ed era stupendo: sia lui che la sua aura. Ero rimasta a fissarlo per non so quanto tempo fino a che anche lui si accorse di me e nell’attimo in cui i nostri occhi si fissarono gli uni negli altri, un brivido mi percorse tutto il corpo e diventai rossa per l’imbarazzo. Distolsi subito lo sguardo sprofondando di più nel mio cappotto e vidi che invece lui si stava dirigendo verso di me. «Ciao! Scusa, non volevo disturbarti», sorrise sedendosi affianco a me. Cercavo di mettere in moto il cervello e le labbra per poter dire qualcosa ma riuscivo a pensare solo “Tilt Tilt Tilt”. Osservai da vicino i suoi occhi e qualcosa si sciolse in me. «Salve, nessun disturbo, semmai dovrei scusarmi io per averla osservata come se fossi una stalker» risposi ancora più imbarazzata. Mi osservò per un lungo momento e alla fine scoppiò a ridere di gusto, così cominciammo a parlare e da quel giorno, diventammo grandi amici. Era diventata una nostra abitudine vederci un paio di volte sempre in quel parco e, dopo un po’ d’incontri in cui parlammo delle nostre aspirazioni e desideri, mi offrì un lavoro. In un primo momento mi sembrava una cosa abbastanza surreale e non riuscivo a capacitarmene. Ancora oggi, a due anni di distanza dal nostro primo incontro, penso sia solo un sogno. Arrivai nei pressi di casa e rimasi come sempre stordita da tutte quelle luci e pupazzi gonfiabili che i miei vicini tiravano fuori per Natale. Nei prati si potevano trovare renne, slitte, regali finti, gnomi e Babbi Natale, pupazzi di neve e alberi addobbati con festoni e luci a intermittenza. La mia casa invece era quella che non era mai stata illuminata da nulla oltre alla luce nel portico e non aveva mai visto nessun pupazzo. Sospirai ed entrai nell’ingresso.

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Mi tolsi il cappotto, lasciai la borsa sul tavolino lì vicino e salii al piano superiore per farmi un bel bagno caldo e sciogliere un po’ i muscoli dopo la passeggiata sotto la neve. Mi spazzolai i capelli e andai a controllare la segreteria telefonica che segnalava tre messaggi da ascoltare. Il primo era da parte della scuola mentre il secondo era di Eros che mi chiedeva di richiamarlo urgentemente. Con il cuore in gola presi la cornetta e digitai, seppur con qualche difficoltà, il suo numero di telefono. Rispose al terzo squillo e una volta rassicurato dal fatto che fossi ritornata a casa sana e salva, mi chiese se l’indomani mattina avessimo potuto fare colazione insieme. Non era una novità, ma c’era qualcosa di strano nella sua voce. Dopo avergli risposto affermativamente rimanemmo a parlare ancora un po’ dei nostri progetti per il grande giorno e infine riattaccammo per concederci almeno qualche ora di sonno. Andai in bagno a lavarmi i denti e farmi una treccia e, prima di andare a dormire, ascoltai l’ultimo messaggio in segreteria. Sorrisi nel sentire la voce di Iris: «Ecate, non ci crederai, ma credo di essermi innamorata seriamente stavolta. Non fare l’asociale come al solito e richiamami per favore, sono giorni che non ti fai sentire e sto pensando seriamente di venire a buttar giù la tua porta per accertarmi che tu sia ancora viva. Richiamami bimba, a presto!» e riattaccò. Guardai la sveglia sul comodino e notai che erano le due di notte, forse un po’ troppo tardi per poter chiamare la mia nuova svampita amica. C’eravamo conosciute in biblioteca, era una ragazza dai capelli rosso fuoco e lunghe unghie sempre smaltate, due grani occhi verdi e un sorriso contagioso. Avevamo subito stretto un bellissimo rapporto d’amicizia e avevamo cominciato a uscire insieme qualche sera andando in qualche locale dove tutti gli uomini le sbavavano dietro e io non ero degnata nemmeno di uno sguardo. Come dargli torto? Lei era bellissima e io invece sembravo la sua brutta copia. Era alta con un bel fisico slanciato, tutte le curve al posto giusto, mentre io era bassina, un po’ più robusta, con dei capelli castani ondulati e due occhi verdi, pelle color alabastro e perennemente maldestra. Dopo essere diventate molto amiche, però, lei si allontanò da me e adesso ci sentivamo per lo più al telefono o attraverso video chat, ma a essere sincera, mi mancavano le nostre passeggiate. Andai a dormire con la speranza di rivedere la mia stramba amica il più presto possibile. L’indomani mattina, mi svegliai di buon’ora e cominciai a prepararmi per la colazione con il capo. Scelsi dei normalissimi pantaloni neri e una camicetta viola, raccolsi i capelli con un fermaglio e nel frattempo provai a richiamare Iris che mi rispose con voce squillante al secondo squillo: «Ehi! Chi non muore si rivede… o si 54


risente in questo caso. Ci sono tante cose che devo raccontarti!» e si lanciò nel raccontare tutto quello che mi ero persa. Alla fine della chiacchierata, dove dissi sì e no cinque parole, prendemmo appuntamento per pranzo e riattaccai per raggiungere Eros al caffè. In strada la neve si era posata e adesso ve ne erano almeno otto centimetri. Mi abbottonai meglio il cappotto, avvolsi la sciarpa intorno al collo e m’incamminai verso il centro di Antartia. Arrivai all’appuntamento in perfetto orario ma, come al solito, lui era già lì ad aspettarmi e aveva di fronte a sé due tazze di cioccolata e una torta al cioccolato da dividere. Mi vide entrare e si alzò per salutarmi, mi fece accomodare e aspettai che si decidesse a parlare ma il tempo passava e lui era sempre più chiuso in se stesso. «Diamine Eros! Mi stai facendo prendere dal panico, cosa c’è che non va? Se non sei contento del mio lavoro e non sai come dirmi che sono licenziata non ti preoccupare, non me la prendo. Se invece hai bisogno di una mano per qualsiasi cosa, sai che sarei felice di aiutarti, ma questo silenzio stampa sta diventando preoccupante!» dissi tutto d’un fiato mentre nella mia testa cominciavo già a pensare al peggio. Lui d’altro canto mi osservava senza dire una parola. Solo dopo un’eternità, mi sorrise e le mie spalle cominciarono a rilassarsi leggermente. «Certo che sei strana! In realtà ti ho chiesto di poterci vedere perché ho bisogno di parlarti e non so da che parte iniziare» disse con una smorfia. Mi misi comoda e gli feci un cenno per permettergli di continuare. «Ecco, ormai sono passati due anni da che ci conosciamo e credo sia arrivato il momento per dirti tutto quello che penso. Magari sbaglio a fare ciò ma non riesco più a fare finta di nulla. Devi sapere che prima di incontrarti, non credevo nell’amore a prima vista e, sinceramente, sono ancora un po’ scettico, ma è quello che è successo con te. Da quando mi sono perso nei tuoi occhi verdi, è come se tutto il mio mondo andasse avanti solo perché ci sei tu, prima mi sentivo bene, anche se sapevo che mancava qualcosa e quel qualcosa sei tu. Mi sono innamorato di te Ecate» disse tutto ciò guardandomi negli occhi e rimasi a fissarlo a bocca aperta quando terminò il suo discorso. Dire che il mio cuore aveva fatto un triplo salto mortale carpiato all’indietro era un eufemismo. Diciamo pure che aveva smesso di battere per sempre, mentre in testa si scontravano una miriade di pensieri. Okay, ricapitoliamo, lui in sostanza ha detto che prova qualcosa per me. È uno scherzo, si deve esserlo. Il problema è che non è il primo di aprile, ma è il 15 dicembre. Deve essere un sogno allora, ma anche con un pizzicotto non riesco a svegliarmi. Diamine! Dovrò pur dirgli qualcosa! Mi rendevo conto di fare la figura dell’incapace, avevo le guance in fiamme e gli occhi che minacciavano di far cadere qualche lacrima.

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Cercavo di trovare una risposta che non mi facesse sembrare una ritardata o di mettermi a ridere come una pazza squilibrata, quando lui mi chiese, in tono sommesso, di dirgli qualsiasi cosa prima di farlo morire d’infarto. Buffo, sono io qui che non sento più il cuore! «Ecco, io sinceramente non so che dire. Cioè non fraintendermi, anch’io provo qualcosa per te, ma non credevo potesse essere ricambiato. Non so se sia solo un sogno o se è tutto vero, io credo di non aver mai desiderato una cosa così tanto in vita mia» risposi rossa per l’imbarazzo. Lui sorrise e mi prese la mano, continuando a rassicurarmi del fatto che non era uno scherzo e che era felicissimo non fosse solo un suo sentimento. Passammo la mattina a parlare e ad andare in giro per negozi; comprammo qualche decorazione per il suo albero e presi anch’io un piccolo alberello da mettere in soggiorno. Verso ora di pranzo mi accompagnò nel nostro parco e attese finché non ci raggiunse la mia amica Iris. Mi salutò con un bacio e si recò in direzione dell’ufficio. Quell’uomo non conosce proprio il significato della parola “Vacanza”, ma del resto, anch’io sono fatta così quindi non mi posso lamentare. Se pensavo che i colpi di scena fossero finiti, non avevo ancora fatto i conti con la mia amica. Sembrava felice di vedermi, ma la sua aura non era verde brillante come al solito, era più un giallo ocra e questo voleva significare che c’era qualcosa che la preoccupava. Passammo tutto il pranzo a chiacchierare del più e del meno, pagammo il conto e uscimmo dal ristorante dirigendoci verso il gazebo al centro della piazza. Ci sedemmo sulla panchina e di colpo Iris si fece seria: «Dobbiamo parlare» esordì. Io le feci cenno di continuare e rimasi in silenzio. A quanto pare oggi è la giornata del “Dobbiamo parlare” pensai tra me. «Okay non so da dove iniziare. Non l’ho mai detto a nessuno e sono stanca di tenerlo segreto» disse d’un fiato. Non potei fare altro che esclamare: «Oddio sei incinta!». Lei mi guardò come se fossi di un altro pianeta e scoppiò a ridere. Ehi, facevo divertire tutti oggi! Dopo essersi asciugate due piccole lacrime continuò: «No Ecate, no. Non sono incinta e non c’è una maniera giusta per dirtelo quindi lo farò e basta. Come si dice? Un taglio netto vero? Okay, le cose stanno così: sono diversa. Cioè non vengo da un altro pianeta, è solo che ho dei gusti diversi». Cercavo in tutti i modi di non metterle fretta, di lasciarle tutto il tempo che voleva, ma era nel panico più totale così le presi le mani e le chiesi semplicemente: «Pensi che non possa volerti bene anche se fossi di Saturno? Iris, tesoro, sei la mia prima amica e ti voglio bene, non mi interessa sapere se sei cristiana o atea, se hai un altarino in camera o se sei omosessuale. Per me rimarrai sempre e solo Iris». Lei mi guardò con le lacrime agli occhi e dopo un secondo me la ritrovai avvinghiata che piangeva a dirotto. 56


«Da quanto lo sapevi?» mi chiese mentre si rimetteva in sesto e le risposi: «Sinceramente? Credo di averlo sempre saputo, ma non volevo forzarti a confidarti con me così ho aspettato che fossi tu a parlarne quando ti fossi fidata abbastanza da farmi conoscere questa parte di te e comunque, questo è per te!» le allungai un piccolo sacchetto di velluto viola e quando lo aprì, rimase a fissare il ciondolo che pendeva dalla sua mano per un’eternità prima di abbracciarmi di nuovo e farselo agganciare. Un cuore multicolore adornava il suo collo lungo. «Bene, e ora raccontami di te e Eros, ho visto che ci sono nuovi sviluppi. Dimmi. Tutto. Ora!» e le raccontai ciò che era accaduto. Tornammo a casa mia e rimanemmo alzate fino a notte fonda parlando di tutto quello che ci passava per la testa. La mattina dopo quando scesi in salotto, non riconobbi la stanza per un momento. Adesso vicino al camino c’era un grandissimo albero di Natale tutto illuminato e Iris stava appendendo le ultime decorazioni mentre allo stereo risuonavano canzoni natalizie. Mi appoggiai alla scalinata e la osservai mentre finiva di impacchettarmi casa. «Sai vero che questa cosa non avresti dovuto farla?» dissi in tono minaccioso. Lei si bloccò di colpo e si girò con un sorrisetto da furetto stampato in volto e mi fece la linguaccia. «Senti bimba, so che il Natale non è mai stato un giorno molto carino per te, ma è il momento di cambiare pensiero. Adesso hai un ragazzo e hai me; non sei sola. Da adesso in poi non sarai mai più sola e non voglio farti passare anche quest’anno chiusa in casa a lavorare o a deprimerti. Diamine no! Dovessi legarti a una sedia e farti sentire tutto il cd di Natale! Questa sarà la prima di tantissime feste che passeremo insieme» rispose piccata. Alzai un sopracciglio e alla fine scoppiammo a ridere dopo di che l’aiutai a finire di addobbare la mia nuova casa e infine uscimmo a fare spese. Adesso avevo un ragazzo e avrei dovuto prendergli qualcosa… ma cosa? Mancavano meno di otto giorni a Natale e stranamente mi sentivo bene. Passavo i pomeriggi con Iris, andando per negozi. La sera invece Eros e io passeggiavamo per la città raccontandoci la nostra vita, i nostri sogni e i nostri desideri. Durante quelle passeggiate però, non potevo fare a meno di notare tutte le auree della gente che ci circondava. Vedevo ragazzi innamorati di altre persone stare con altri. Incontravo ragazze e ragazzi che nascondevano la loro vera natura per evitare di essere presi di mira da bulli e persone tristi che sorridevano al mondo intero. Non mi sembrava giusto che la gente non potesse esprimere i propri sentimenti senza essere giudicata. Si dice che a Natale si è tutti più buoni, ma che senso ha far finta di essere felici se dentro non si può amare chi si vuole solo perché la società non lo permette? Intanto i giorni trascorrevano. Era la vigilia di Natale e dentro di me sentivo che qualcosa stava per accadere: qualcosa di brutto. 57


Forse era il fatto che fosse la mia prima festa con le persone che amavo o perché non avevo mai cucinato per tante persone, ma questa strana sensazione diveniva ogni istante più forte. Aveva ripreso a nevicare con più frequenza e le strade ormai erano ghiacciate e le voci dei fiocchi di neve diventavano più insistenti. Avevo appena finito di mettere le ultime pietanze a scaldare quando la finestra della cucina si aprì con un colpo e il più grande fiocco di neve si posò sul davanzale. Rimasi a fissare quella strana creatura ed ebbi la sicurezza che qualcosa stava per accadere, infatti questa cominciò a parlare e disse: «Ecate, sin da quando eri solo una bambina piccola, io e le mie sorelle abbiamo vegliato su di te per volere di tuo padre. Devi sapere che sei stata concepita con uno scopo preciso e grazie alla tua bontà, potresti dare un esempio a tutto il mondo, permetterai alla gente di riuscire a esprimersi e consentirai loro di uscire fuori dagli schemi e amare chi più gli aggrada. Perché solo colei pura di cuore riuscirà a rendere questo, un posto più libero» fece una piccola pausa e notai che sembrava addolorata. «Non so chi lei sia e non so perché mio padre non abbia voluto avere niente a che fare con me, ma non credo che tutto questo discorso sia concluso. Ho una brutta sensazione e vorrei sapere cosa ci si aspetterebbe che facessi». Risposi alla mia interlocutrice che ora sembrava più sconvolta di prima. «Devi fare una scelta, bambina, una scelta che purtroppo so non sarà facile da digerire. In questo momento il tuo ragazzo sta tornando a casa dopo aver finito in ufficio, ma le strade sono ghiacciate e purtroppo ci sarà un incidente» riprese a parlare. Sentii il mio mondo cadere sotto i piedi e mi accasciai a terra mentre le lacrime rigavano il mio viso. «Noi possiamo aiutarti, ma abbiamo la magia per esaudire una sola volontà. Devi decidere se salvare il tuo ragazzo o dare all’umanità una possibilità di felicità. Mi rendo conto che non sarà una scelta facile, ma ti prego solo di prendere una giusta decisione. Aspetterò fino a quando non sarai pronta». Così dicendo si rinchiuse in un silenzio totale. Quando hai la possibilità di poter salvare una sola persona o il mondo intero, saresti mai capace di sacrificare la persona che ami più della tua vita per degli sconosciuti? Quando questo vorrebbe dire perdere la tua persona, la tua anima gemella per sempre e quindi perdere te stessa, cosa rimane da fare? Mi asciugai le lacrime e presi a parlare: «Non so se questa sia una specie di punizione, perché nella mia vita non mi sono comportata bene, ma ho deciso. C’è solo una condizione. Se lo faccio, dovrai darmi la tua parola che il mio sacrificio non sarà stato vano. So che dopo questa notte, una parte di me morirà con lui, ma voglio salvare il resto del mondo. Se non posso essere 58


felice io, almeno che lo siano loro» risposi con un groppo in gola. La fata chinò la testa e rispose con voce piena di gratitudine: «Grazie, non lo dimenticheremo» e svanì nella notte. Intanto le lacrime scesero ancora più forti di prima e singhiozzi presero a scuotermi violentemente. Mi alzai e staccai tutte le luci dell’albero sino a che la casa non divenne fredda e buia come il mio stato d’animo. Avanzai verso il divano e mi lasciai cadere sprofondando e permettendo a tutto il mio dolore di sgorgare fuori fino a che non mi addormentai esausta. Il campanello suonava incessantemente e mi sveglia in preda a un forte mal di testa. Guardai la sveglia, erano le nove di mattina del venticinque dicembre, ma per me non c’era nulla da festeggiare. Andai alla porta e la aprii lentamente. Il mio cuore si fermò all’istante. Di fronte a me c’era Eros, con il suo fantastico sorriso; un pacchetto in una mano e una lettera nell’altra. Ripresi a piangere e la sua espressione si fece preoccupata fino a che non mi fece indietreggiare e mi accompagnò al divano dove cominciai a ridere e piangere contemporaneamente. Dopo essermi calmata, cercai di trovare una spiegazione per il mio strano comportamento e alla fine riuscii a convincerlo che era dovuto al fatto che fosse il mio primo Natale. Dopo un po’ arrivarono anche Iris con la sua compagna, suo fratello Louis con la ragazza e David con il suo compagno. Eravamo tutti seduti nel mio soggiorno a scambiarci i regali e io non riuscivo ancora a crederci. I miei regali furono un bracciale con metà cuore da parte di Iris e un ciondolo a forma di fiocco di neve da parte di Eros. Andai in cucina a preparare altra cioccolata e lessi la lettera che mi era stata lasciata sul portico. Mia carissima Ecate, spero che con questo regalo possa in parte scusarmi per non essere stato presente nella tua vita, ma ragioni superiori me lo impediscono. Con il tuo atto di coraggio sei riuscita a permettere a moltissima gente di affermare se stessa e volevo ringraziarti di ciò dandoti come dono l’amore della tua vita. Vorrei che ci fosse stato un altro modo per evitare di farti soffrire così, ma adesso hai tutta la tua vita davanti e hai con te la persona che più ami al mondo, hai i tuoi amici e finalmente potrai vivere senza altri intoppi. Tuo B.N. Lessi più volte quelle poche righe, fino a che la cioccolata non fu pronta, disposi i bicchieri sul vassoio e tornai in salotto dalla mia nuova famiglia. Li osservai uno a uno e mi resi conto della fortuna avuta avendoli incontrati. Diedi un bacio a Eros e tutti insieme cominciammo a cantare brani natalizi sorseggiando cioccolata e uscendo in cortile a giocare con le palle di neve. Era il mio primo Natale... il primo di molti. 59


Fiaba di Natale Diana Grego È arrivato presto l’inverno quest’anno. Questa notte la neve ha imbiancato la montagna, siamo ai primi di dicembre, presto sarà Natale. Le cime si nascondono timidamente dietro le nuvole. Dalla pianura si alza un leggero velo, respiro della terra umida con l’affacciarsi del primo sole. L’aria è limpida e le montagne sembrano vicine, ma io lo so che sono lontane e il mio cammino è ancora molto lungo, anche se è nulla in confronto al viaggio che ho fatto per arrivare fino a qui. Presto sarò finalmente a casa. Due stagioni sono passate da quando iniziai il mio viaggio, ero giovane, irrequieto, avevo voglia di conoscere il mondo. Nato e cresciuto in una baita nelle alte Alpi Carniche, la mia casa era a due piani. Il pian terreno era rivestito di pietre e il piano superiore era ricoperto interamente di legno, con un grande balcone, dove la mamma d’estate esibiva i suoi bellissimi gerani rossi. Dietro la casa c’era la legnaia, dove il mio papà accatastava la legna per l’inverno. Appena entrati in casa c’era un piccolo disimpegno, a sinistra si entrava nella grande cucina, dove la mamma cucinava sullo sparger d’inverno e con la cucina a gas d’estate. A destra c’era il salotto. Era più una stanza adibita a studio, dove mamma e papà passavano il tempo al computer e la sera guardavamo tutti assieme la televisione sdraiati sul grande divano; in un angolo c’era il caminetto, io preferivo guardare lo scoppiettare della legna, la televisione m’interessava poco e passavo le ore davanti al fuoco, tanto che papà mi fece un piccolo divanetto per stare comodo. Però d’estate, quando il caminetto non era acceso, mi piaceva stare in mezzo a loro sul divano grande. Al piano di sopra c’erano le stanze da letto, belle, confortevoli e con un buon profumo di legno e di lavanda. Si saliva solo per dormire. Sia sotto sia sopra c’era un bagno. Mia mamma e mio papà erano persone umili, con un grande cuore. Non mi mancava nulla, mangiavo a sazietà, il mio letto era sempre in ordine, fresco d’estate e caldo d’inverno. 60


D’inverno non c’era molto da fare al mio paese, ma io con papà uscivo ogni giorno, anche nelle giornate di tormenta. Era molto coraggioso il mio papà, mi metteva il cappotto e via a fare scorribande sulla neve, quanti ruzzoloni e capriole facevamo. Rientravamo fradici e la mamma si arrabbiava tantissimo, aveva sempre paura che ci ammalassimo, io però non mi sono mai ammalato, papà invece sì. Ricordo una volta che ebbe la febbre molto alta e la mamma non voleva che entrassi nella sua stanza per paura che mi contagiasse, ma io insistetti e lei cedette. La mamma aveva il cuore buono e non è mai riuscita a resistere ai miei occhioni languidi, devo ammettere che a volte ne ho approfittato per ottenere quello che volevo. Quella volta la stanza era molto buia, sentivo il respiro affaticato di papà, sentivo l’odore delle medicine e del sudore, mi spaventai. Papà stava molto male, la mamma gli metteva delle pezze di acqua fresca sulla fronte. Io mi distesi ai piedi del letto e non mi mossi più di lì, ogni tanto papà mi chiamava con la voce tremolante e mi sorrideva. Mamma si ostinava a volermi far uscire, ma io facevo peso morto, uscivo solo per mangiare e andare al bagno, dopo due giorni, mamma iniziò a portare da mangiare a entrambi in camera. Io non mangiavo finché non vedevo che anche papà mangiava, così facendo lui si sforzava di prendere qualche cucchiaio di brodo caldo, poi mi diceva «Visto? Ho mangiato, ora mangia anche tu.». Se si limitava a due cucchiai, io non aprivo bocca e mi lagnavo, così lui mangiava ancora un po’, poi mamma mi diceva di mangiare e io obbedivo, lei mi stava vicino e mi accarezzava la testa. Ricordo le sue carezze piene d’amore, quanto mi sono mancate in questi mesi. Ogni volta che ci ripenso, mi vengono le lacrime agli occhi, ma non piango, sono fiero. Alla fine papà guarì. Riprendemmo la vita di sempre. Quando andavamo al bar del paese, papà raccontava a tutti di quanto ero stato bravo durante la sua malattia, era orgoglioso del suo ragazzo. Allora tutti gli amici si congratulavano con me, chi mi faceva un puffetto sulla frangia, chi mi dava una pacca sulle spalle, mi faceva sentire grande e amato, ero uno di loro. Al bar venivano anche piccoli amici come me e, mentre i grandi chiacchieravano bevendo vino, noi giocavamo alla lotta e ci correvamo dietro.

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A volte eravamo così irruenti che ci dovevano richiamare all’ordine, nei casi peggiori ci separavano e ci mettevano in castigo ognuno vicino alla sedia del proprio papà. Uscivo anche con la mamma, ma lei non si rotolava come papà, diceva che era una signora e non stava bene fare il clown. Quando uscivo con lei, facevo il bravo, sapevo di renderla felice. Andavamo a fare la spesa, io mi annoiavo al supermercato e preferivo aspettarla fuori. Il paese era piccolo e mi conoscevano tutti. Così mentre aspettavo la mamma, salutavo cordialmente tutti quelli che passavano, qualcuno veniva vicino e mi faceva un puffetto sulla frangia. Avevo una frangia irresistibile! La fuga Non so cosa mi saltò in mente quel giorno! Era primavera inoltrata, avevo gli ormoni in subbuglio, una gran voglia di conoscere il mondo al di fuori del piccolo paese dove ero nato. Così, quando vidi il furgone delle consegne delle bombole del gas, che sarebbero servite per l’estate, decisi di mollare tutto. Volevo andare a conoscere la città. Ovviamente non avrei potuto chiedere un passaggio esplicitamente, quindi salii nel retro del furgone e mi nascosi dietro la pila di bombole, dove non potevo essere visto. Percorremmo tanti chilometri e io di tanto in tanto sbirciavo fuori dal finestrino, ero eccitato da questa nuova avventura, guardavo curioso il paesaggio cambiare. Avevamo lasciato alle spalle le amate montagne e ci stavamo dirigendo verso la pianura. Il furgone si fermò più volte e io stetti molto attento a non farmi trovare. Ero terrorizzato ogni volta che l’uomo del gas saliva per prendere le bombole. Passammo tutta la pianura e vidi diversi paesi, tutti uguali, c’erano case, strade, bei giardini, la Chiesa, il cimitero. Non mi sono mai piaciuti i cimiteri, troppa puzza di fiori marci, mi veniva la nausea ogni volta che la mamma mi ci portava, in compenso c’erano tanti gatti e io mi divertivo molto a rincorrerli, e ogni volta finiva che la mamma mi sgridava perché in cimitero non si deve giocare, è un posto serio, dove dormono le anime dei morti. Io non capivo queste cose, però ubbidivo. Avevo lasciato la mia casa per conoscere il mondo e il mondo era esattamente come casa mia. Ero così assorto dai miei pensieri che non mi accorsi che il furgone si era nuovamente fermato. Il portellone si aprì e la luce entrò abbagliandomi, non feci in tempo a nascondermi, udii un urlo. «Che ci fai tu qui?!» 62


Il tono della voce era minaccioso, mi rannicchiai in un angolino, non vedevo nulla accecato dal sole che entrava prepotente. La figura entrò e si fece avanti urlando. «Vattene! Esci da qui!» Ero terrorizzato, ebbi paura che mi volesse picchiare e così preso dal panico, mi lanciai fuori dal furgone. Feci un balzo e mi ritrovai su una strada, era diversa da quelle che conoscevo. Io ero abituato alla terra con la ghiaia, che però quando saltavo mi faceva un po’ male, questo suolo invece era liscio e grigio, non ne avevo mai calpestato uno, era piacevole. Dopo un secondo di sgomento iniziai a correre velocemente, dietro di me sentivo ancora le grida dell’uomo del gas. Non capivo dov’ero. D’un tratto sentii uno stridio, mi voltai e vidi davanti a me una macchina che stava per investirmi, mi spaventai e corsi ancora più forte per sfuggirle. Sentii provenire dalla parte opposta lo stesso rumore accompagnato dal suono del clacson, mi girai e provai a tornare indietro, mi sembrò impossibile: era piano di macchine. Tutte stridevano minacciose, vedevo che gli uomini all’interno dell’abitacolo gridavano, ma non sentivo nulla di quello che dicevano, i loro occhi e i loro gesti erano minacciosi. Mi rigirai più volte su me stesso senza lasciare la posizione dove mi trovavo, mentre le automobili sfrecciavano intorno a me. Ma com’era possibile? Perché non si fermavano? Eppure mi vedevano. Guardai in tutte le direzioni, ci fu un momento in cui non passarono le macchine, allora iniziai a correre verso i campi, corsi a perdifiato, volevo allontanarmi il più possibile da quell’incubo. A un certo punto dovetti fermarmi perché mi sembrò che il cuore mi scoppiasse nel petto. Ebbi bisogno di riprendere fiato. La strada con le automobili l’avevo lasciata da un pezzo e mi trovai dentro un campo. Finalmente stavo camminando sulla terra. Rimasi fermo e spaventato per molto tempo. Nel frattempo si stava facendo sera e avrei dovuto trovare un posto dove dormire. Mi guardai attorno. Non c’era nulla, solo distese interminabili di campi. Indietro non potevo tornare, lì c’era la strada ed era pericoloso. Dovevo trovare un bar, lì avrei potuto trovare sicuramente degli amici che mi avrebbero aiutato a tornare a casa, ero appena partito ed ero già pentito di quest’avventura. Camminai a lungo, ero molto stanco e affamato, iniziai a rendermi conto della cavolata che avevo fatto a lasciare il mio paese, la mia casa, la mia mamma e mio papà. 63


Al confine fra un campo e un altro vidi un capanno degli attrezzi, era molto simile alla nostra legnaia. La finestra era aperta, senza vetri, decisi di saltare dentro e ripararmi per la notte, l’indomani avrei cercato un bar. Mi addormentai sfinito e quella notte sognai le carezze della mia mamma, seduti sul divano davanti al caminetto acceso. Quando aprii gli occhi, speravo di essere fra le mie coperte e che tutto quello che avevo vissuto il giorno prima fosse stato solo un brutto sogno. Invece ero nel capanno degli attrezzi di chissà chi, lontano da casa chissà quanto, solo, stanco e affamato. Mi lasciai prendere dallo sconforto e mi riaccoccolai nella speranza di trovare un po’ di calore, in realtà era quasi estate e non faceva freddo, ma avevo tanto freddo nel mio cuore. Spuntò il sole, dovevo agire e trovare al più presto un bar, lì mi avrebbero aiutato e anche dato da mangiare. M’incamminai e passai i campi, vidi che erano tutti costeggiati da una stradina di ghiaia, decisi di seguirla. La stradina terminò e mi ritrovai nuovamente sull’asfalto grigio. Memore della brutta esperienza del giorno prima fui assalito dall’ansia di trovarmi nuovamente fra le macchine, lo stridio dei freni e i clacson mi rimbombavano ancora nelle orecchie. Avevo imparato la lezione, ero molto vigile, mi guardavo con sospetto, appena passava una macchina, mi buttavo giù nei campi. Per fortuna prima di lasciare il capanno, trovai dell’acqua e bevvi molto. La sete non si placava, avevo bisogno di trovare acqua e cibo, ma soprattutto dovevo trovare un bar. E lo trovai, solo che non fu per nulla quello che credevo, appena entrato, mi resi conto che le persone erano ostili. Iniziarono a gridarmi di uscire, di andarmene, non capivo. Cercavo solo aiuto per tornare a casa invece mi trattavano male. Un omone prese una scopa e iniziò a minacciarmi, mi spaventai molto e indietreggiando uscii dal locale. Triste, mi sedetti a un angolo, mi veniva da piangere, ricordavo i bei momenti passati nel bar del mio paese, con mio padre sempre pronto a difendermi. Iniziò a piovere. Rimasi per molto tempo sotto la pioggia, tutto bagnato, seduto sullo scalino, non sapevo cosa dovevo fare, dove dovevo andare Una signora uscì dal bar e mi vide. Penso che gli feci molta compassione, mi disse di seguirla In silenzio mi misi dietro di lei e con la testa bassa la inseguii. 64


Mi fece accomodare nel suo garage, mi portò da bere e da mangiare, mi diede una coperta e mi chiuse dentro. Per un attimo ebbi il terrore di essere nuovamente prigioniero come lo ero stato nel furgone, ma ero troppo stanco e affamato per ribellarmi, mangiai tutto fino all’ultima briciola e mi avvolsi nella coperta, addormentandomi in un sonno profondo. Dormii per molte ore, quando mi svegliai, bevetti l’acqua rimasta, per fortuna la signora gentile me ne aveva lasciata tanta. Mi guardai attorno, non c’era molto nel garage. Iniziai a girare per tutto il perimetro della stanza, ero irrequieto, non mi piaceva essere prigioniero, avevo paura. Chissà cosa mi avrebbe fatto? All’improvviso la serranda si alzò e la luce entrò prepotente nella stanza, senza pensarci nemmeno un attimo scattai e scappai fuori. Sentii la signora gridare, non sembrava minacciosa, ma ero troppo spaventato e iniziai a correre. Ricordai dell’esperienza vissuta fuori dal furgone, quindi mi fermai un attimo per vedere se arrivavano macchine, per fortuna la strada era deserta e così ripresi a correre. Corsi così forte e per così tanto tempo che solo dopo molto tempo mi resi conto di aver lasciato alle spalle la cittadina, alzai lo sguardo e vidi in lontananza le montagne. Il ritorno Le mie montagne, il mio cuore ebbe un sobbalzo, emozione mista a gioia. Era in quella direzione che dovevo andare per tornare a casa. Ero felice, non avevo più bisogno di nessuno che mi aiutasse, dovevo solo intraprendere il cammino del ritorno. Quel giorno camminai tantissimo, preso dall’entusiasmo di aver trovato la strada di casa. Ero stanco e avevo tanta fame, dovevo trovare un posto dove fermarmi per la notte, iniziava a tramontare il sole. Vidi in lontananza un casolare, forse una stalla. Una volta arrivato trovai un abbeveratoio per gli animali, senza pensarci un attimo mi buttai quasi dentro per bere, la mia gola era asciutta, mi riempii la pancia d’acqua. Mi guardai in giro nella ricerca di cibo, la porta della stalla era aperta, entrai facendo molta attenzione. Avevo capito che da quelle parti erano ostili con i forestieri. In un angolo trovai un secchio piano di latte, non era come una bella bistecca ma avrebbe placato la mia fame per un po’. 65


Le mucche erano pacifiche, mi nascosi e attesi che il contadino venisse a ritirare il latte, sapevo che poi non sarebbe più tornato fino al mattino dopo e io avrei potuto dormire tranquillo, così fu. Mi feci un piccolo giaciglio con la paglia e mi addormentai. Alle prime luci dell’alba mi svegliai, bevetti ancora tanta acqua e m’incamminai. Passarono diversi giorni di cammino, dormivo e bevevo dove capitava, mi trovai anche a rovistare nei cassonetti per mangiare, avevo lasciato la mia casa per scoprire il mondo e mi ritrovavo a essere un barbone. L’estate era finita, ormai era iniziata la stagione delle piogge ed era sempre più difficile trovare un riparo asciutto, avevo perduto molti chili, mi guardavo specchiandomi nelle pozzanghere e mi vedevo smunto, sporco e infreddolito Le mie montagne erano sempre più vicine. Ero umiliato e abbacchiato, quando la sera mi addormentavo agli angoli delle strade, mi consolavo ricordando i momenti felici assieme alla mia mamma e al mio papà. Mi addormentavo sognando le carezze di mia madre che mi rimboccava le coperte per assicurarsi che io fossi coperto nelle lunghe notti d’inverno, sognavo mio padre quando giocava con me a rincorrerci. Chissà se dopo tanto tempo si sono dimenticati di me? Chissà se gli manco quanto loro mancano a me? Le lacrime scendevano copiose lungo le mie scarne guance, mi addormentavo ogni sera pieno di nostalgia. La mattina appena sorgeva il sole ritrovavo la mia tempra combattiva e ripartivo per il mio cammino. Giorno dopo giorno, macinavo i chilometri che mi separavano dalla mia casa. Manca poco E mentre penso a tutte le peripezie dei mesi passati, anche oggi ho fatto molti chilometri. Sono sempre più stanco e cammino a fatica, ma tengo duro, manca veramente poco. Da qualche giorno ho intrapreso la salita, riconosco gli odori, i profumi. Salgo su per la strada che porta verso il mio paese, ho deciso che non seguirò tutta la strada è troppo lunga, taglierò per il bosco. La decisione di intraprendere questa scorciatoia non è molto produttiva, la neve in realtà è molto alta anche nel bosco. Faccio molta fatica ad avanzare, sprofondo a ogni passo e sono gelato, non sento più gli arti e le vesciche sono sempre più sanguinanti. Questa notte per dormire scaverò una buca che mi proteggerà dal freddo, questa secondo i miei calcoli dovrebbe essere l’ultima notte fuori da casa. 66


Sono anche spaventato. Mamma e papà saranno arrabbiati e mi puniranno? È un rischio che mi piacerà correre, assaporo il calore del caminetto e la coperta calda mentre mi addormento congelato nella neve. Quella notte sogno di andare con papà a tagliare l’abete nel bosco. Mentre torniamo a casa con il bottino, ci investe il profumo dei dolci appena sfornati dalla mamma. Poi tutti assieme passiamo il pomeriggio ad addobbare l’albero. Io sono un po’ goffo, ma li aiuto come posso e loro ridono a vedermi portare i gingilli per tutta la casa. Domani sarà la vigilia di Natale.

La vigilia Mi sono alzato presto, fa troppo freddo e ho paura di morire assiderato. Il sole non è ancora spuntato, sarà meglio che mi metta in cammino. Sono molto stanco e cammino a fatica, ci impiegherò tutta la giornata per raggiungere casa. Ho gli arti tutti anchilosati, mi fa male ovunque, la schiena è a pezzi, sono tutto bagnato. Sono diversi giorni che ho una brutta tosse, respiro a fatica. Sto risalendo l’ultimo tratto di salita, tra pochi metri uscirò dal bosco e vedrò la mia casa. Sento in lontananza il rumore dell’accetta che spacca la legna, è il mio papà sicuramente che sta preparando la legna per accendere il caminetto. Devo fare ancora uno sforzo per scollinare, poi riuscirò a vederlo e lui vedrà me. Provo a chiamarlo ma la voce non esce, un lamento è il massimo che riesco a fare. Non ce la faccio più, mi trascino arrancando nella neve alta, lo vedo. «Papà!» provo a chiamarlo, ancora una volta la voce non esce, solo uno stridulo lamento. Lui si ferma, è intento a raccogliere la legna. Si alza, scruta l’orizzonte, sta guardando verso la strada. Mi viene da piangere, quanto tempo ho desiderato rivederlo. «Papà sono qui, non ce la faccio più!» Vedo che si guarda attorno, ha sentito qualcosa, ma non riesce a capire che sono io o non mi vede, non ce la faccio ad alzarmi in piedi, mi sta prendendo lo sconforto. «Papà!» provo per l’ultima volta con tutto il fiato che ho in gola. 67


È in quell’attimo che si volta dalla mia parte e lo sento dire timidamente il mio nome. «Buk?» Lo sguardo smarrito e triste di mio padre si incontra con il mio debole e speranzoso. Lo sento gridare sempre più forte. «Buk!» «Papà sono qui …» dalla mia gola esce un urlo strozzato. «BUK!!!» Vedo il suo volto illuminarsi di luce, lascia cadere la legna che portava sotto braccio e inizia a correre verso di me. «Sofia! Sofia!!!» lo sento chiamare la mamma. «Sofia è Buk! È tornato!» Vedo dopo un attimo la mia mamma apparire da dietro la casa, in mano tiene ancora lo strofinaccio per asciugarsi le mani, probabilmente stava preparando la cena. La sento gridare il mio nome, la sua voce è piena di gioia. Corrono verso di me, chiudo gli occhi e mi lascio scivolare nell’oblio. Non sento più nulla, solo le loro voci in lontananza. Le forti braccia di mio padre mi strappano dalla neve. Dietro sento la mamma che dice «Presto portalo dentro!» C’è un gran trambusto «Sofia presto chiama il dottore!» «Sì! Tu accendi il fuoco, poggialo lì» «Buk! Buk!» Sento che mi chiamano e le loro voci sono strozzate dal pianto e dalla gioia. Papà mi adagia sul divano, sento il morbido plaid sotto di me. Quanto ho desiderato questo momento. La mamma si distende di fianco a me per scaldarmi. Con un panno mi liscia il pelo e mi copre con la coperta. Guardo verso il caminetto, c’è l’albero di Natale e sotto ci sono il mio divanetto e le mie ciotole. Non mi hanno mai dimenticato.

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Silenzio Vito Introna Ripulì piano il soggiorno polveroso. Negli ultimi mesi si era dedicato poco alla casa, che pareva sciatta e trascurata. Odiava lustrare vetri e stoviglie, dopo un po’ la schiena gli doleva e sentiva il bisogno di fermarsi. “Chissà come accidenti faceva la mamma a non stancarsi” pensò, accendendosi una sigaretta. Il ritratto di sua madre sul caminetto gli restituiva un sorriso mite e bonario, quel sorriso che sei mesi prima si era irrigidito in una smorfia cristallizzata, sulle labbra ormai fredde. « Ha raggiunto papà, è giusto così» aveva chiosato Paola, sua sorella maggiore. Invidiava Paola, ragazza alta e fredda. Soprattutto per la sua capacità di non disperdere una sola emozione dai gelidi occhi azzurri. Paola era stata sempre brava negli studi, laureatasi presto aveva goduto di una rapida carriera presso una grande azienda tedesca. L’anno prima si era sposata con il suo capufficio, un ingegnere romano belloccio quanto idiota. Non avevano figli. La mamma stravedeva per quella figlia bella e altezzosa, trascurandolo; lui ne aveva sofferto per tanti anni. Però a tenerle la mano sul letto di morte, mentre il male oscuro la divorava inarrestabile, era rimasto solo lui. «In fondo» diceva Paola «tu sei precario e un altro lavoro lo trovi quando vuoi. Se io mi assento per due settimane, al ritorno rischio di trovare un’altra seduta al mio posto.» La sorella gli aveva spedito duemila euro per far fronte alle cure della mamma, poi dopo il funerale, durante il quale non aveva versato una sola lacrima e anzi, si era divertita a fare salotto con tutti i presenti, gli aveva allungato una busta: tremila euro, equo premio per essersi occupato della “Mamma migliore del mondo”. Glieli aveva sbattuti in faccia, suo cognato era riuscito a frapporsi tra loro prima che schiaffeggiasse quell’insolente arrivista. Si era chiuso nella sua stanza piangendo a dirotto, lasciando a zia Lena il compito di mettere alla porta i visitatori. Erano trascorsi nove mesi da allora e lui si era impiegato in un altro call center. Aveva trent’anni, gli mancavano ancora sei esami per la laurea, giusto i più difficili: peccato non essere riuscito a regalare alla mamma questa soddisfazione. Il primo Natale da orfano lo spaventava. Inizialmente aveva pensato di trascorrerlo da solo, in compagnia dei libri e del suo pc. 69


Poi zia Lena l’aveva convinto a ricevere tutta la famiglia, come quando i suoi genitori erano ancora vivi, sperando di riavvicinarlo alla sorella. «È carattere. Paola soffre ancora più di te, ma non vuole darlo a vedere. Ci sono delle persone che riescono a soffocare nel lavoro tutti i sentimenti, ma credimi, non sono sempre cattive. Semplicemente vivono il dolore da soli e non riescono a esternarlo.» Silvio aveva deciso di crederle, pur consapevole che quella massima non fosse farina del sacco di sua zia, ma del calendario di Frate Indovino. Paola e il marito sarebbero arrivati l’indomani pomeriggio e per loro aveva preparato la stanza da letto dei genitori. Zia Lena, zia Tullia, zio Prospero e i cugini Adele e Franco con i loro due pestiferi bambini, avrebbero completato il quadretto familiare. “Un branco di reduci” pensò, riprendendo a lucidare e spolverare i servizi buoni. I Matt Bianco nello stereo stavano divenendo tediosi, doveva scaricare un po’ di musica più allegra. Per il pranzo di Natale avrebbero cucinato le zie, lui aveva acquistato sandwich, salmone, tartine e spumante, si aspettava che il resto lo portasse Paola. Il freddo pungente non invitava a uscire e quando capì di essere senza sigarette, maledisse la propria distrazione. Infilò un vecchio pastrano di suo padre, troppo lungo e largo e camminò fatica sul ciglio della strada dissestata. Occorreva mezz'ora per scendere in paese e quasi un'ora per risalire. Con l'auto fuori uso non era facile vivere in quella casa isolata, la bicicletta aveva esalato l'ultimo respiro da tempo e gli mancavano i soldi per ricomprarla. Il gelido sole di dicembre scioglieva la brina, nei campi circostanti non c'era segno di attività, il terreno era ancora duro. Ogni tanto un corvo o una poiana solcavano il cielo, un paio di motociclette lo superarono arrancando sulla strada insidiosa. Tutto là intorno ispirava pace, peccato che il suo animo non fosse pronto a godersela. Comprò le sigarette, curando di scegliere le più economiche. Mamma odiava la loro puzza e ogni volta che ne accendeva una gli rimordeva un po' la coscienza. Acquistò anche degli affettati e una scamorza, tanto per ricordare ai commensali che era lui a ospitarli. Anche in paese circolava poca gente, san Giovanni a Piro era splendida con i suoi quartierini imbandierati tutto l'anno, ma nemmeno quell'esplosione di folklore cilentano riusciva a strappargli un sorriso. Mentre borbottando risaliva per la china, il cellulare cominciò a trillare. Era Lia, la sua ex fidanzata. «Ciao Lia, come stai?» rispose freddamente. «Ciao Silvio. Volevo sapere come te la passi, con chi trascorrerai il Natale.» «Con la mia famiglia, grazie. E tu? Col zito o coi tuoi?» 70


«Ancora questa storia? Io non ho nessuno “Zito”.» «Lia, te lo ripeto per la trecentesima volta: puoi dirmelo, è quasi da un anno che non stiamo più insieme.» «Silvio, un bacio, un merdosissimo bacio in discoteca. Non uscivo da tanto, tu eri sempre a fare da infermiere a tua madre e…» «E tu ti sei messa a pomiciare con quel coglione. Non è tradimento questo?» «Ne abbiamo parlato tante volte, se tu non mi fai spiegare.» «Cosa vuoi spiegare? Che un biondo atletico ricco è meglio di un bruno sfigato senza una lira? Hai fatto la tua scelta, se ora ti ha scaricata sono cazzi tuoi!» «Che stai dicendo? Io quel tipo non l'ho più rivisto da quella sera.» «Forse perché lui aveva di meglio per le mani.» «Stronzo! Parlare con te è fiato sprecato.» «Per te senz’altro. Invece se continui un altro po' a dire cazzate mi ricarichi il telefono, lo sai?» Esasperata Lia troncò la comunicazione. In realtà Silvio non credeva alle sue accuse, ricordava bene di essere divenuto orso e intrattabile. Lia era più giovane di lui. Di famiglia benestante, amava ballare e stare fra la gente. Lui stesso l’aveva incoraggiata a uscire, a svagarsi, a non sprecare il suo tempo in casa sua, avvicendandolo in un ruolo da badante che non le spettava. Una sera, complice un bicchiere di troppo, aveva ceduto alle lusinghe di un ragazzo biondo e affascinante, un fusto apparso dal nulla e poi svanito pochi minuti dopo. Purtroppo qualcuno aveva ben pensato di scattarle una foto mentre abbracciava lo sconosciuto. Il mattino dopo Silvio, aprendo la posta elettronica, vide la debolezza di Lia e la piantò in tronco. Lui non tornava mai sui suoi passi. Sarà il peggior Natale della mia vita. Prima mia sorella, ora Lia, non capisco chi altro voglia farmi stare male! Si autocommiserò, percorrendo l'ultimo tratto di salita. Con crescente insofferenza, pulì il corridoio e il pavimento della cucina. Dopo un paio d'ore di lavoro si sedette davanti al pc e consultò i suoi profili di facebook e twitter: un paio di auguri generici, qualche tag su fotomontaggi natalizi, piogge di spam idioti e il solito messaggio dell'imbecille, quello scrittore che voleva costringerlo ad acquistare i suoi ebook autoprodotti. – Ora mi hai rotto! Ti blocco! – urlò bannando l'importuno. Aprì la pagina del Mattino, niente di nuovo nemmeno lì. I consumi natalizi erano in calo, sequestrate trenta tonnellate di botti illegali, due barconi di migranti dispersi in mare, il governo Renzi già alle corde dopo il disimpegno dei berlusconiani… – L'avevo detto che quello è un incapace. Domani avrò di che litigare! – urlò di nuovo, riferendosi alla sorella. Poi s’impose di calmarsi. 71


Parlo da solo come un esaurito, se continua così finisco al manicomio. Devo svegliarmi. Si esortò. Preparò un caffè, poi decise di riprendere a ramazzare, ma un bip del pc lo costrinse a voltarsi. Era un messaggio di Paola: “Arriviamo domani verso le 18. Per favore metti le lenzuola pulite e ricordati dello Jegermeister per Xavier”. Non aveva nessuna voglia di scendere di nuovo in paese per accontentare quel cretino di cognato, il quale oltre ad avere storpiato il suo nome di Saverio con quell’impronunciabile ispanismo, gli era sempre stato antipatico. Non che fosse difficile risultare antipatici a Silvio ma quell’uomo che parlava solo di auto, abiti, donne e titoli immobiliari, non riusciva a reggerlo più di dieci minuti filati, trascorsi i quali iniziava a dare segnali d’insofferenza. Un rumore di sgommata sull’asfalto lo scosse. Andò alla finestra a controllare e vide una decina di persone davanti alla vecchia casa dei Di Majo, ex vicini trasferitisi nel nord Italia da oltre dieci anni. Senza farsi notare scrutò il vecchio signor Claudio, avvocato e capofamiglia, la grassa signora Concetta, sua moglie, e tre giovanottoni che riuscì a riconoscere a fatica: Edoardo, Giuseppe e Gennaro, colossi palestrati dal vestiario attillatissimo. C’era anche una ragazza e non appena la vide provò un tuffo al cuore: Betta, era lei. Nel rivedere quel volto ormai adulto ma ancora bello, fu sommerso da ricordi sepolti nell’inconscio. Betta era stata il primo amore inconfessato della sua vita, un sentimento platonico e mai dichiarato. Graziosa, semplice, formosa, Betta aveva giocato con lui da bambina. Tante volte erano andati insieme al fiume a lanciare le pietre, tornando spesso a casa fradici fino al midollo. Pur essendo una ‘femmina’ sapeva tirare bene con la fionda e centrava in pieno passerotti e cardellini, che poi liberava subito. Lei sapeva inventare tante storie meravigliose, non lo faceva annoiare mai. A quei tempi c’era anche Menico, il figlio dei Compatri, agricoltori che all’epoca abitavano poco lontano. Di Menico aveva perso definitivamente le tracce, ora aveva trentun anni e non sarebbe stato in grado di riconoscerlo. Come del resto non era facile identificare Betta in quell’affascinante signorina che aiutava i fratelli e le loro mogli o fidanzate a scaricare i bagagli dalla grande Renault Espace. “Sempre megalomani” pensò, osservando l’enormità della lussuosa monovolume. Betta uscì da casa per prendere qualche altra valigia e notò qualcuno affacciato alla finestra di fronte. Rimase a meditare un attimo, poi urlò: «Silvio, sei tu?» Uscì a razzo, chiudendosi scelleratamente la porta alle spalle. 72


L’abbraccio fu immediato, forte, diseguale: lei ci mise la gioia e l’affetto riservato al primo compagno di giochi. Lui l’ardore e la passione di un uomo solo che si aggrappa a un’ancora di salvezza. I fratelli più grandi lo riconobbero subito, salutandolo festosamente. Il vecchio avvocato Di Majo l’invitò a passare da loro poco dopo per un caffè. «Dacci o’ tiempo di sistemare è valigge, è la prima volta che torniamo da sei anni. Tua madre come sta?» Diede loro la ferale notizia. «E tu, scusa» intervenne la signora Concetta «Passi Natale da solo?» «No» rispose lui, continuando a fissare Betta «domani viene mia sorella, il marito, gli zii e le zie.» «A ’mbè. Che sennò te ne venivi da noi. Domani ci raggiunge anche il suo fidanzato» e accennò col capo alla figlia «e pure Tommaso, il più grande che sta in Germania. C’ha una moglie altissima c’a pare Claudia Shiffer e due figli che fanno sempre Casamicciola. Ma so’ troppo belli.» Fidanzato? Accusò un mancamento, chiese in prestito una scala per rientrare dalla finestra del primo piano e per un pelo non precipitò al suolo. Gli altri si erano fatti una vita, a differenza sua. Betta era stata dolcissima nell’abbracciarlo, ma lui voleva altro che amicizia, desiderava ciò che una donna di ventinove anni normalmente riserva all’amato. Ricordò di colpo che non aveva montato il presepe e svogliatamente andò in soffitta a cercarne le scatole. Sua madre le aveva sistemate in fondo al sottotetto e dovette faticare non poco per tirarle giù. Continuò ad annaspare per ore tra carta crespata, carta roccia e muschio sintetico, poi sistemò le statuette a casaccio, curando di non rompere i re magi di porcellana, tre decrepite statuine ereditate da un fantomatico zio Vito, che nel primo dopoguerra le aveva portate di ritorno da un viaggio in Francia. Sua madre riservava a quei maledetti ninnoli un’adorazione quasi sacrale, non condivisa dal marito. Suo padre sotto Natale era solito sbottare a suon di “Smettetela di stare in adorazione di quel presepe!” e l’intercalare veniva ripetuto fin quasi all’Epifania. Non aveva mai avuto un buon rapporto col padre, rigido, avaro, pretenzioso. Non aveva mai fatto mancare niente a nessuno di loro, però la sua preferenza per la più studiosa Paola era innegabile e nemmeno l’iperprotettività di sua madre aveva colmato quel vuoto che l’assaliva ogni quadrimestre, quando alle lodi per le pagelle di Paola seguivano rimbrotti e schiaffi per i suoi mediocri risultati. Papà era morto troppo presto, magari se fosse stato ancora vivo avrebbe finito con l’apprezzare quell’uomo duro, venuto su dal nulla e uccisosi con le sue stesse mani. Maledette sigarette, erano l’unico aspetto comune che condividevano, forse ne sarebbe morto anche lui. 73


Accese la Tv, il pc era in stand by e un rapido controllo su FB rivelò solo un messaggio molto risentito di Lia. Lo cestinò subito. Mentre cenava davanti al televisore, sentì grida e risate provenire dalla casa di fronte. La dimora dei Di Majo era stata fasciata da serpentoni natalizi intermittenti e il giardino traboccava di luminarie colorate. Dalle finestre in luogo del solito buio pesto si riversava un oceano di luci cangianti, le forti grida di gioia dei suoi vicini lo costrinsero a un ennesimo esame di coscienza. Dopo poco qualcuno bussò alla porta e si precipitò, sperando che fosse Betta. Rimase deluso, era Gennaro, il più piccolo dei figli; gli porse un piatto con un’enorme fetta di torta alla ricotta. «Te la manda mamma. Perché non sei passato a prendere il caffè?» «Scusate, mi ero dimenticato di fare il presepe. Voi vi disturbate sempre. Grazie e buona serata!» Mangiò la pastiera trovandola squisita, poi per dissetarsi si scolò un paio di birre che lo abbioccarono e, tirate giù tende e tapparelle, andò a dormire. «Pronto? Dovrei sporgere un reclamo. Ho acquistato presso il vostro store un olipadT300 e purtroppo non funziona.» «Ha provato a tenerlo in carica una notte intera?» «Sì ma non va lo stesso, non posso farci niente.» «Prema a lungo il pulsante di accensione. Se non carica, ci richiami e le darò le indicazioni.» Era almeno la trentesima telefonata di protesta che riceveva. Purtroppo l’azienda presso la quale era impiegato lavorava anche il giorno della vigilia. Erano in quattro a occupare lo stanzone del call center, ultimi sopravvissuti di un gruppo che in tempi migliori aveva contato quaranta fra operatori e operatrici. Gli altri avevano trovato lavori più redditizi e man mano che se ne andavano, l’azienda non provvedeva a sostituirli. Giravano ancora voci di chiusure e di trasferimenti della sede in Albania, il che contribuiva a incupire l’ambiente, già desolato di suo. Staccò alle 13,30 e riuscì a prendere al volo la corriera per San Giovanni a Piro. Zia Lena gli telefonò, dicendogli di essere arrivata a casa sua, stava già preparando gli spaghetti alle vongole, incurante del fatto che lui li detestasse. Gli altri sarebbero venuti nel pomeriggio, quel giorno di vigilia era vietato pranzare fino a sera. Decise di mangiare qualcosa in paese.

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C’era un po’ di movimento, i pochi negozi sopravvissuti alla crisi erano tutti pieni e molte signore di mezz’età circolavano per il corso, cariche di buste e sacchetti. Non aveva comprato regali a nessuno, né si aspettava di riceverne, tuttavia scendendo dall’autobus si ritrovò faccia a faccia con Betta che usciva da una boutique sovraccarica di pacchi natalizi. «Vuoi una mano?» «Sì, grazie» sospirò lei «Ho parcheggiato qui dietro.» Mugugnando per la fatica, la seguì in una traversa e scaricò i regali nell’ampio portabagagli. «Non badi a spese oggi.» scherzò. «Almeno a Natale ci si può scambiare i regali. Odio spendere soldi in cose inutili, ma se non lo faccio mi danno tutti dell’avara. E poi mamma è così tradizionalista.» «Anche la mia lo era.» «A proposito, sai che mi dispiace? Me la ricordo tua madre, così sveglia, simpatica. E che bella donna!» «Purtroppo dalla morte di papà in poi si è indebolita di anno in anno. Poi un nodulo non curato è andato in metastasi e se l’è mangiata in pochi mesi.» «Che peccato. E tua sorella?» «Vive e lavora al nord. Verrà stasera, purtroppo.» «Purtroppo? Litigate ancora?» «Già. Non ci possiamo vedere, a dirla tutta.» «Sei rimasto il solito, musone e vendicativo. Sorridi alla vita!» «Spero di riuscirci.» Betta notò la cupa disperazione che permeava quelle parole. «Tu sei solo?» «In che senso? Sentimentalmente? Sì, sono single da prima che morisse mamma.» «Non ti fila nessuna?» «Al momento no.» «Ma esci la sera? Ti dai da fare a conoscere altra gente?» Quell’interrogatorio si stava rivelando pressante e il riservatissimo Silvio sbuffò. «Insofferente, come da bambino quando non te la volevo dare vinta. Caro Silvio, hai proprio un caratteraccio!» Lui fece spallucce e la salutò. «Non vuoi un passaggio?» «No, oggi a casa vige la regola del digiuno. Mangio un boccone in giro.» «Ah le zie. Abbi pazienza, sono persone anziane, anche da me oggi non si tocca cibo.» «Come mai siete tornati dopo tanti anni?» «Papà purtroppo è molto malato, anche se non lo dà a vedere. Ha quasi ottant’anni e vuole morire qui, a casa sua.» « Oh… » rispose lui sbigottito. 75


Andò via senza nemmeno chiedere se gradisse mangiare qualcosa con lui e dopo una mezz’ora, pagato il conto della pizzeria, s’incamminò verso casa. A metà della salita un clacson monofonico lo fece sobbalzare: era il mostruoso catorcio di zio Prospero, un’antidiluviana Fiat Argenta verso la quale l’anziano fratello di sua madre profondeva una venerazione iconoclasta. « Zio, ancora non lo butti questo bidone?» l’irrise come sempre, facendolo inquietare. «Quasi quasi ti lascio a piedi» ringhiò il vecchio, aggiustandosi gli spessi occhiali da vista. Salutò con un bacio zia Tullia, da anni sorda come una campana e prese posto sul sedile posteriore. Tra sobbalzi e scricchiolii temette che le sospensioni collassassero, lasciandoli per terra. Per fortuna la decrepita berlina giunse a destinazione e sulla soglia zia Lena li attendeva con un falsissimo sorriso stampato in faccia e un ridicolo fazzoletto rosso bordato d’ovatta in capo. «Zia oggi è Natale, non Carnevale» la provocò beffardo. «Entra, zozzone. Casa tua faceva schifo e dicevi di averla pulita. Sai che figura con tua sorella?» «Andassero a fare in culo lei e suo marito. Vuole la casa pulita? Facesse meno la milanese e si spezzasse di gambe a pulirla.» Paola però era già arrivata e nel sentire quello scambio di battute venne fuori con un cipiglio da valchiria. «Ci siamo alzati male? Che cazzo stai dicendo?» «Ah sei già qui? Potevo perdere più tempo in paese» «Chi è che hai mandato a fare in culo?» urlò il cognato, accorrendo verso di lui. Betta, affacciata dall’abbaino di casa sua, scosse la testa. Silvio in quegli anni era peggiorato, amplificando ed estremizzando tutti i suoi difetti adolescenziali. Zia Lena riuscì a riportare la calma, urlando con un tono talmente stridulo da sgomentare i contendenti. Silvio andò nella sua vecchia stanza a prepararsi, Paola si era già acquartierata nell'ex camera padronale e scese per ricevere i cugini, gli ultimi ad arrivare. Zio Prospero sedette davanti alla tv e si addormentò sul primo tg della sera, mentre zia Tullia cominciò a sferruzzare davanti al presepe. I cugini Adele e Franco erano di cattivo umore e quel malcelato nervosismo contagiava anche i loro figli. I due bambini, all'anagrafe Erika e Matteo, erano più lagnosi del solito e si lamentavano del non poter mangiare, dello zio che impediva loro di vedere i cartoni animati, della neve non caduta e del non poter uscire. Zia Lena, questa è la prima e ultima volta che mi freghi. Pensò Silvio scendendo pesantemente le scale. 76


L'anno prossimo un buon libro e una bottiglia. Se avrò di che pagarla. Sbrigò rapidamente i convenevoli e ignorò l'ostilità negli occhi del cugino Franco. Paola cominciò a offrire mostaccioli e frutta secca, poi aprì la cristalliera del salotto e ne estrasse una bottiglia di rosolio d'aspetto vissuto. Suo marito era ancora di sopra a cambiarsi d'abito e ne approfittò per giocare con i bambini, senza peraltro riuscirci. «Zia, noi vogliamo vedere Peppa Pig. Dì a quel vecchio di lasciare il telecomando.» «Ehi» urlò zio Prospero. «Come vi permettete!» e rivolse uno sguardo inferocito a Franco e Adele. I due però, rallegrati da quell'esplosione di egotismo infantile, gli risero tranquillamente in faccia. Dalla cucina un forte odore di capitone cominciò a diffondersi in salotto per poi diffondersi al piano superiore. «A tavola» urlò zia Lena affacciandosi. Poi vide il tavolo sparecchiato e ancora ingombro di cappotti e sciarpe e cominciò a mulinare rimproveri, ordini e direttive a chiunque le capitasse a tiro. Paola e Adele però, fedeli al copione, stavano discutendo animatamente di lavoro, ognuna cercando di ostentare all’altra la propria superiorità professionale. Probabilmente quello stucchevole canovaccio sarebbe stato replicato a breve, anche Franco e Xavier non si sopportavano. Silvio distese mollettone e tovaglie rosse e, dopo aver ammutolito la zia con un ruggito, apparecchiò con le stoviglie e le posate migliori, stappò il vino portato dallo zio Prospero e sistemò i posti a sedere. Lui si sarebbe seduto al capotavola più lontano, con a destra zia Lena, a sinistra il cognato e lontano, all’altro capo del tavolo, zio Prospero. I due bambini li aveva costretti l'uno fra il padre e Paola, l'altro fra zia Lena e la madre, sperando che almeno a tavola si comportassero bene. Le cose andarono da subito per il verso sbagliato. Matteo sputò subito il capitone sulla tavola, poi quando furono serviti gli spaghetti alle vongole cominciò a strillare disgustato. «Scusa Adele, pesce non ne mangiano mai?» provò a sdrammatizzare Silvio. «Certo.» rispose lei senza guardarlo negli occhi «Ma quello come si deve. Mio marito ha degli amici che glielo portano direttamente dalla paranza, che credi? Costa cinquanta euro al chilo ma ne vale la pena.» Intanto Erika, eccitata dai continui strilli del fratello, fece cadere un bicchiere di cristallo del servizio buono, mandandolo in pezzi e facendo disperare Paola. «Attenti bambini! Questi bicchieri erano il vanto di mia madre.» Il risolino idiota sul viso di Franco rivelò un evidente compiacimento.

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Le cose peggiorarono quando furono serviti i crostacei e il salmone: fra piatti rotti, vomito e urla miste a risate dei bambini e scambi di battute al vetriolo fra le due giovani coppie, tutto diventò un inferno. I tre anziani si ritrovarono emarginati da ogni discorso e ciò infastidì particolarmente Silvio. «Insomma basta. Non siete a una riunione d’ufficio, è Natale.» Anche stavolta Franco lo degnò di uno sguardo compassionevole, al che non ci vide più. «Ehi, quella smorfia la fai a tua madre, hai capito?» Franco finse sbigottimento: «Dici a me? Che smorfia?» «Quelle espressioni da domineddio valle a fare a casa tua.» «Che cazzo dici? Hai la coda di paglia?» «No, mi sono solo rotto i coglioni di te, di tua moglie ‘divina’ e di queste scimmie.» Franco si alzò, facendo cenno alla moglie di imitarlo; rivestirono i bambini incuranti dei loro pianti e uscirono senza fiatare. Dopo poco si udì il rombo di un'auto in partenza. «Silvio, perché?» chiese zia Lena con le lacrime agli occhi. «Zia, io ti ringrazio perché hai cercato di dare pace a una famiglia disunita come la nostra. Ma non basta la buona volontà.» «Non hanno nemmeno finito di mangiare, li hai cacciati per un’occhiataccia! Devi essere più paziente, tua madre non avrebbe voluto.» «Zia.» tuonò Silvio. «Mamma è morta e non tornerà più. Sai benissimo che quei due non li avrebbe mai e poi mai invitati. Adele e la signora qui presente.» e indicò Paola, «Non si possono vedere dalla nascita. Sbaglio?» «Beh…» tentò di sdrammatizzare Paola. «Sono dei grandissimi snob maleducati. Forse li potevamo sopportare un altro po', dai.» «Potevate fermarli.» «Sei tu il padrone di casa» s’intromise Xavier. Zio Prospero intanto si era addormentato con la testa sul tavolo e zia Tullia, ammantata dal silenzio dovuto alla sordità, li fissava come un ebete senza capire. Fu tagliato il panettone e il tappo dello spumante schizzò sul soffitto, ricadendo sulla testa di Silvio. «Sposo quest’anno, auguri!» sorrise Paola, ma nessuno la seguì nello scherzo. Zia Lena tirò fuori la tombola ma nessuno se ne interessò. Fu un Natale disastroso, vissuto all’insegna della mal sopportazione e dei rinfacciamenti. Silvio battibeccò di nuovo con la sorella, invitandola ad andarsene a casa sua e quando si sentì rispondere che era quella la sua casa, le diede dell'ipocrita approfittatrice. «Sei sempre il solito frustrato.» fu la gelida risposta di Paola, che mise fine alla discussione. 78


Xavier stava giocando con un tablet di ultima generazione e non seguì l'alterco. Zia Lena, dopo aver rigovernato e pulito la cucina, andò a infilarsi scarpe e cappotto. «Zia, è tardi, ti accompagno a casa. Per gli auguri di mezzanotte pazienza, sarà per l'anno prossimo.» si offrì Silvio. La vecchia lo guardò senza rispondere, poi scosse la testa: di sicuro non avrebbe organizzato mai più nulla. Alla fine zio Prospero si svegliò, prese il cappotto, salutò sbadigliando e rimise in piedi la moglie che sonnecchiava sul divano. Si offrì di accompagnare Lena a casa, sollevando Silvio da una scomoda passeggiata al buio. Lena abitava nei paraggi, ma camminare alla cieca su quelle stradine dissestate era molto pericoloso. Dopo un po’ Xavier salutò e andò a letto. «Non lo raggiungi?» chiese Silvio alla sorella. «Non ho sonno grazie. Noi due dobbiamo parlare.» «Non ho niente da dirti.» «Io sì.» «Parla allora.» Gli occhi azzurro-ghiaccio di Paola erano terribili, ma lui non si lasciò intimidire. «Prima di tutto, hai fatto bene a mandare via quei cafoni. Però qui bisogna che ci chiariamo ora e sempre. Non è possibile che ogni volta che ci vediamo debba essere così squallido, meschino.» «Meschino io?» «Sì. Io sono tua sorella e ti ho sempre voluto bene, molto più di quanto pensi. Merito rispetto.» «Non me ne sono mai accorto.» «Non sono tipa da smancerie e lo sai, ma la mamma sapeva quanto ci tenessi a te. Ti ho tenuto in braccio da bambino, ti ho cambiato i pannetti, ti ho cantato le ninne nanne.» «Sei stonata come una campana!» «D'accordo, però ti addormentavi lo stesso. Forse era istinto di conservazione.» Silvio si lasciò scappare l'ombra di un sorriso. «Zia Lena è vecchia e si è auto-investita di una missione che non le compete. Vuole aiutarti, sa che sei solo, in paese la gente parla spesso di te. Dicono che sei un orso inavvicinabile, eppure sei un bel ragazzo, perché fai l'eremita?» «Paola, stai marzullando? Dove vuoi andare a parare?» «Dico che zia Lena è ormai vecchia e rimbambita e per te non può fare più nulla. Io ho una vita lontano da qui. Tu però continui a non studiare, a cercare solo lavoretti precari.» «Non dire sciocchezze, non esiste un altro lavoro, almeno qui.» 79


«Non esiste solo Scario. Esci da casa, fatti una posizione, trovati una brava ragazza. Oggi ho incrociato quella tua ex carina, come si chiamava? Dice che per un bacio a un tipo in discoteca l'hai lasciata senza darle nemmeno un'occasione di riconquistarti. Non ti sembra un atteggiamento sbagliato? E poi, quando facesti il superuomo e restituisti la quota per il funerale di mamma credi di avere fatto una cosa intelligente? Impara a stare con la gente, scrollati di dosso i rancori. Mentre io facevo ‘salotto’ al funerale venni a sapere che mamma fino all’ultimo era stata in ansia per te, per il tuo carattere, la tua pigrizia. Datti una scossa, Silvio. Ti stai buttando via.» «Hai finito?» «Sì, anzi no, un'altra cosa: io non ho lasciato casa per “Farmi i cazzi miei” e non ho sposato il mio capufficio “Per soldi”. Amo mio marito e lui mi sta vicino, anche adesso che ho scoperto di essere sterile. Sono andata lontano perché volevo realizzarmi, non voglio diventare un soprammobile come zia Tullia.» «Hai fatto le tue scelte, sono contento per te. Della sterilità mi dispiace, ma continuo a non capire: cosa vuoi da me? Che ti raggiunga a Milano?» «Perché no? Magari solo per qualche tempo, così vediamo se ti ambienti. Ora sono io la tua famiglia e tu la mia. Mamma ci teneva che fossimo uniti.» «Mamma teneva solo a te.» «Non dire cazzate!» gridò esasperata e stavolta non si trattenne, schiaffeggiando il fratello. Poi si fissò la mano, incredula del gesto e scoppiò in lacrime. Silvio l’afferrò per i capelli, fece per darle un pugno, poi la lasciò cadere sul divano e se ne andò a dormire. Buon Natale! Pensò mentre s’infilava il pigiama. Malgrado fosse stanchissimo, dormì male. I fuochi d'artificio sparati dai Di Majo lo svegliarono quasi subito e lui, ripensando alle discussioni con Paola e Betta, non riuscì a riprendere sonno fin quasi all'alba. Verso le otto sua sorella salì silenziosa in camera sua, gli baciò la fronte senza svegliarlo, posò una busta sul comodino e discese pian piano le scale. Quando Silvio si svegliò era completamente solo, la casa era pulita e, affacciandosi sul cortile, vi trovò posteggiata solo la sua vecchia Agila. Risalì a vestirsi e finalmente trovò la busta lasciatagli da Paola. Conteneva duemila euro in biglietti da cento e un messaggio, che lesse subito: “Caro Silvio, vado via perché parlarti è inutile e non voglio litigare di nuovo con Xavier. Ti lascio un po’ di soldi che ti prego di accettare e aspetto una tua telefonata. Mio marito è disposto a ospitarti fino a quando troverai lavoro, rifletti bene sulla mia proposta. Ti abbraccio. Paola”. Appallottolò il biglietto e se lo mise in tasca. Dopo poco sentì bussare e si affacciò. Era Betta. 80


«Ciao Betta, non ho ancora fatto colazione. Vuoi un caffè?» «Sì grazie.» rispose la ragazza. Dalle nere occhiaie si notava il poco sonno, sbadigliando sedette in cucina e lo guardò muoversi a disagio tra i fornelli. «Vi siete divertiti ieri?» chiese lui dandole le spalle. «Sì insomma. Papà è stato contenuto, poi sono venuti degli amici da Scario e abbiamo tirato fino alle tre fra botti, castagnole e spumante.» «Avete giocato a carte?» «Sì, che pizza. Odio le carte da gioco.» Dillo a me. Pensò, riempiendo due tazzine. «Stamattina è passata tua sorella a salutare e ci ha svegliati. Sembrava triste.» «Ah, non fidarti di lei, recita benissimo. Leggi un po'.» e le porse il biglietto. «Sembra sincera, sei troppo rigido e rancoroso.» «Lo pensi anche tu? A casa mamma e papà facevano sempre quello che voleva lei, bastava che chiedesse e ogni suo desiderio era un ordine. Io invece…» «Tu cosa? Guarda che mi ricordo chi eri. Non studiavi quasi mai, venivi rimandato ogni anno. Questo fa’ molto agli occhi di un genitore.» «Non esiste solo la scuola. Comunque lei ha studiato alla Bocconi, io a Napoli.» «Però lei si laureò a venticinque anni. Tu?» «Mi sa che rinuncerò agli studi. Sono due anni che non supero un esame.» «Sai cosa c’è?» «No. Cosa?» «Il problema sei tu. Sei cinico, freddo, indisponente. Tu mi piaci e quando mi hai abbracciata ho provato un tuffo al cuore, però ieri in paese sembravi così estraneo.» «Cosa? Betta io ti piaccio?» La ragazza posò la tazzina, si alzò e se lo strinse al petto. «Sì e tanto. Anche se a volte mi fai paura.» «Io non voglio andare a Milano, perdonami. La mia vita è qui.» Lei lo zittì, poi gli posò un bacio lieve sulle labbra. «Tua sorella è sicuramente calcolatrice, ma ti vuole bene e ha ragione. Tu non sai coltivare la terra e non hai nemmeno una barca da pesca. Qui non servi a nulla. Io il due gennaio devo tornare a Ferrara, tu cosa fai?» «Io… non so.» «Vieni anche tu.» «Ma noi… i tuoi genitori? Il tuo fidanzato?» «Mia madre ti adora e a mio padre sei sempre stato simpatico. In ogni caso io a Ferrara vivo da sola. E per ciò che riguarda il "fidanzato" non ti sei nemmeno accorta del tono usato dai miei. Guarda un po’ fuori.» Si affacciò incuriosito e vide un grosso cane lupo che scorrazzava per l’aia. «Un pastore tedesco?» «Si chiama Buck. Lo adoro!» 81


Ancora confuso per quell'improvvisa rivelazione, nascose la testa sul seno di Betta e finalmente sciolse il gelo che gli serrava il cuore da anni. «Anche mia madre diceva che saresti stata la moglie ideale per me.» «Non correre. Per ora cercherò di essere la fidanzata ideale. Adesso vado, non è bene che resti a casa tua in vestaglia.» «Va bene, a dopo.» «A dopo. E buon Natale!» La baciò con ardore e quando lei uscì, rimase inebetito a fissare la porta aperta. Non era suggestionabile ma quel giorno il ritratto di mamma parve ridere di gusto.

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