Numero 1 Vino e dintorni

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Spedizione in abbonamento postale – Anno I numero 1 – ottobre-novembre 2011 – € 3,90

JACOPO BIONDI SANTI E LE SUE VIGNE 2011 LE TANTE DIVERSE VENDEMMIE D’ITALIA VIAGGIO IN SICILIA TRA VINO E BAROCCO




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e dintorni

Da “Il Chianti e le terre del vino” all’intero Paese: una rivista e un sito per rispondere alle esigenze di un mercato enogastronomico sempre più attento ed esigente. I mille diversi modi di mangiare e di bere, i riti e i costumi, il bello e il buono della vita saranno raccontati con notizie e servizi giornalistici e fotografici.

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I

l vino, l’enogastronomia e il turismo enogastronomico sono il cuore del sistema dell’industria del tempo libero: lo dicono i dati sul consumo delle famiglie italiane e le ricerche europee di settore. Anche in altri continenti e paesi – come la Cina o il Brasile – c’è ora un interesse non casuale ai prodotti italiani. La scelta di far nascere una nuova rivista è dettata proprio dall’idea di rispondere a queste tendenze. “Vino e dintorni” continua l’esperienza de “Il Chianti e le terre del vino”, un periodico che a lungo ha narrato le vicende di tanti personaggi dell’enogastronomia e seguito l’evoluzione di un territorio particolare come la Toscana. La nuova rivista allarga i suoi orizzonti all’intero Paese, ai suoi mille modi diversi di mangiare e di bere, alle sue molteplici pratiche enologiche e ai suoi riti, al bello e al buono della vita. “Vino e dintorni” è un magazine a stampa e un sito web provvisto di canali multimediali. La rivista punterà sui reportage, sui servizi e sulle interviste di qualificati giornalisti di settore e sarà corredato da scatti di fotogra-

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fi professionisti; il sito web informerà costantemente sulle news, dialogando in maniera aperta e bidirezionale, anche attraverso appositi blog, con i produttori, i consumatori e i lettori in genere. Sia la rivista che il sito offriranno un valido supporto informativo a chi produce vino ed enogastronomia e a chi consuma godendo dei frutti della natura. Questo sarà fatto ribadendo il profondo legame con i territori in cui la cultura del bere e del mangiare, del produrre cose buone e belle, del vivere in maniera non occasionale il turismo, sono una pratica costante. Nel nome della rivista, Vino e dintorni, sta infine un’altra motivazione del suo stesso modo d’essere. Se il vino è il prezioso filo con cui si intrecciano tante pagine, i dintorni sono lo scenario in cui queste vicende accadono, sono il contesto antropologico e culturale in cui si sviluppa la vita dei luoghi a vocazione enogastronomica e turistica. Si leggeranno così storie che raccontano di antiche botteghe, di vecchie trattorie e di slowfood, di un’agricoltura sempre più attenta al bio e ai procedimenti naturali, di sport, come il golf, che uniscono la pratica fisica al rispetto dell’ambiente.


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e dintorni

Da “Il Chianti e le terre del vino” all’intero Paese: una rivista e un sito per rispondere alle esigenze di un mercato enogastronomico sempre più attento ed esigente. I mille diversi modi di mangiare e di bere, i riti e i costumi, il bello e il buono della vita saranno raccontati con notizie e servizi giornalistici e fotografici.

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l vino, l’enogastronomia e il turismo enogastronomico sono il cuore del sistema dell’industria del tempo libero: lo dicono i dati sul consumo delle famiglie italiane e le ricerche europee di settore. Anche in altri continenti e paesi – come la Cina o il Brasile – c’è ora un interesse non casuale ai prodotti italiani. La scelta di far nascere una nuova rivista è dettata proprio dall’idea di rispondere a queste tendenze. “Vino e dintorni” continua l’esperienza de “Il Chianti e le terre del vino”, un periodico che a lungo ha narrato le vicende di tanti personaggi dell’enogastronomia e seguito l’evoluzione di un territorio particolare come la Toscana. La nuova rivista allarga i suoi orizzonti all’intero Paese, ai suoi mille modi diversi di mangiare e di bere, alle sue molteplici pratiche enologiche e ai suoi riti, al bello e al buono della vita. “Vino e dintorni” è un magazine a stampa e un sito web provvisto di canali multimediali. La rivista punterà sui reportage, sui servizi e sulle interviste di qualificati giornalisti di settore e sarà corredato da scatti di fotogra-

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fi professionisti; il sito web informerà costantemente sulle news, dialogando in maniera aperta e bidirezionale, anche attraverso appositi blog, con i produttori, i consumatori e i lettori in genere. Sia la rivista che il sito offriranno un valido supporto informativo a chi produce vino ed enogastronomia e a chi consuma godendo dei frutti della natura. Questo sarà fatto ribadendo il profondo legame con i territori in cui la cultura del bere e del mangiare, del produrre cose buone e belle, del vivere in maniera non occasionale il turismo, sono una pratica costante. Nel nome della rivista, Vino e dintorni, sta infine un’altra motivazione del suo stesso modo d’essere. Se il vino è il prezioso filo con cui si intrecciano tante pagine, i dintorni sono lo scenario in cui queste vicende accadono, sono il contesto antropologico e culturale in cui si sviluppa la vita dei luoghi a vocazione enogastronomica e turistica. Si leggeranno così storie che raccontano di antiche botteghe, di vecchie trattorie e di slowfood, di un’agricoltura sempre più attenta al bio e ai procedimenti naturali, di sport, come il golf, che uniscono la pratica fisica al rispetto dell’ambiente.


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EDITORIALE

Cina: cento enoteche italiane David Taddei

Nasce, in collaborazione con l’Ente Nazionale Vini, un progetto che prevede l’apertura di cento enoteche della nostra miglior produzione enologica all’ombra della Grande Muraglia. I dati in crescita non lasciano dubbi: è la Cina il nuovo mercato.

C

i sono storie italiane che a volte ti sorprendono per come nascono e si sviluppano. A Volte il caso e un po’ di naso, un’opportunità, gettano un seme che poi diventa pianta e porta frutti impensabili. Poco meno di due anni fa, ero a pranzo con David Rossi, responsabile dell’area Comunicazione del gruppo Mps. Davanti ad un bicchiere di un ottimo rosso italiano cercavamo, da buoni amici, un’idea per lanciare il nuovo vino che avrebbe avuto come nome “1472”, data di nascita del prestigioso istituto bancario. Ci sembrò riduttivo però che una banca tanto importante si avvicinasse a questo mondo solo con un prodotto e ci venne un’idea: lanciare un forum nazionale che raccogliesse produttori e operatori per parlare insieme della commercializzazione del vino italiano e del valore delle produzioni. Un vuoto che secondo me esisteva da tempo nella ridda di mostre, fiere, convegni, eventi, degustazioni che affollano la penisola. Quell’idea è diventata realtà lo scorso anno con un discreto successo di presenze e di uscite sulla stampa nazionale, tanto è vero il 25 novembre

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va in scena la seconda edizione del Forum. In quella occasione coinvolgemmo da subito l’Enoteca Italiana (Ente Nazionale Vini) per avere contatti con gli operatori dei nuovi mercati, quelli che più ci interessavano. Così arrivò come relatore Sen Liu, presidente di Beijing Zhengyuan Youshi una società leader per la distribuzione del vino italiano all’ombra della Grande Muraglia. Oggi l’Enoteca, attraverso il suo braccio operativo di Shanghai, e Sen Liu Yishang sono insieme per realizzare in Cina ben 100 enoteche “made in Italy”. Dieci saranno già operative entro la fine del 2011: proporranno esclusivamente vini italiani. Quando ne parlavamo, il vino italiano toccava forse il fondo della crisi, oggi il mercato invece è in netta ripresa e la fase espansiva ha coinvolto in modo massiccio i nuovi mercati. È molto evidente sia in valore (Cina +145% e Russia +69%.) sia in volume (Cina +218%, Russia +123%). I dati di crescita del mercato cinese sono confermati anche da numerose ricerche. Si prevede un aumento per i rossi del 36,4% entro il 2012 e del 38% per i bianchi. La Cina, entro il 2014, diventerà il sesto mercato al mondo per consumo di vino, con un incremento previsto del 20% all’anno. E ci aspettano ancora il Brasile, l’India, mondi interi da scoprire.


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EDITORIALE

Cina: cento enoteche italiane David Taddei

Nasce, in collaborazione con l’Ente Nazionale Vini, un progetto che prevede l’apertura di cento enoteche della nostra miglior produzione enologica all’ombra della Grande Muraglia. I dati in crescita non lasciano dubbi: è la Cina il nuovo mercato.

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i sono storie italiane che a volte ti sorprendono per come nascono e si sviluppano. A Volte il caso e un po’ di naso, un’opportunità, gettano un seme che poi diventa pianta e porta frutti impensabili. Poco meno di due anni fa, ero a pranzo con David Rossi, responsabile dell’area Comunicazione del gruppo Mps. Davanti ad un bicchiere di un ottimo rosso italiano cercavamo, da buoni amici, un’idea per lanciare il nuovo vino che avrebbe avuto come nome “1472”, data di nascita del prestigioso istituto bancario. Ci sembrò riduttivo però che una banca tanto importante si avvicinasse a questo mondo solo con un prodotto e ci venne un’idea: lanciare un forum nazionale che raccogliesse produttori e operatori per parlare insieme della commercializzazione del vino italiano e del valore delle produzioni. Un vuoto che secondo me esisteva da tempo nella ridda di mostre, fiere, convegni, eventi, degustazioni che affollano la penisola. Quell’idea è diventata realtà lo scorso anno con un discreto successo di presenze e di uscite sulla stampa nazionale, tanto è vero il 25 novembre

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va in scena la seconda edizione del Forum. In quella occasione coinvolgemmo da subito l’Enoteca Italiana (Ente Nazionale Vini) per avere contatti con gli operatori dei nuovi mercati, quelli che più ci interessavano. Così arrivò come relatore Sen Liu, presidente di Beijing Zhengyuan Youshi una società leader per la distribuzione del vino italiano all’ombra della Grande Muraglia. Oggi l’Enoteca, attraverso il suo braccio operativo di Shanghai, e Sen Liu Yishang sono insieme per realizzare in Cina ben 100 enoteche “made in Italy”. Dieci saranno già operative entro la fine del 2011: proporranno esclusivamente vini italiani. Quando ne parlavamo, il vino italiano toccava forse il fondo della crisi, oggi il mercato invece è in netta ripresa e la fase espansiva ha coinvolto in modo massiccio i nuovi mercati. È molto evidente sia in valore (Cina +145% e Russia +69%.) sia in volume (Cina +218%, Russia +123%). I dati di crescita del mercato cinese sono confermati anche da numerose ricerche. Si prevede un aumento per i rossi del 36,4% entro il 2012 e del 38% per i bianchi. La Cina, entro il 2014, diventerà il sesto mercato al mondo per consumo di vino, con un incremento previsto del 20% all’anno. E ci aspettano ancora il Brasile, l’India, mondi interi da scoprire.


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SOMMARIO 08 10

v NEWS

18 24

A CASA CECCHI NASCE COEVO

il vino di femfert, nettare degli dei

30 34

sada, il successo non basta

la parabola dei fratelli fattoi

40 46

la murgia dei liantonio

l’uomo che dà carattere al vino

50 54

illy, il chicco è d’uva

Vendemmiare in tempo di crisi

58 60

si colmi il calice

66 68

hamburger vs supplì

70 73

Considero valore

74 78

marsala, il vino di ogni tempo

80 83

il golfista, pirata e signore

85 92

bruchi, l’italia va avanti

AGENDA

IL BUON VINO SI FA IN VIGNA

“Controcorrente”

ivv, eccellenza e sostenibilità

d news

nel regno del barocco

sicilia, ovunque è vino intervista a dario cartabellotta

bordeaux en primeur annata 2010

7

“Vivere slow”

“Giardini pensili”

“appunti di viaggio”

“fuori dal green”


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SOMMARIO 08 10

v NEWS

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A CASA CECCHI NASCE COEVO

il vino di femfert, nettare degli dei

30 34

sada, il successo non basta

la parabola dei fratelli fattoi

40 46

la murgia dei liantonio

l’uomo che dà carattere al vino

50 54

illy, il chicco è d’uva

Vendemmiare in tempo di crisi

58 60

si colmi il calice

66 68

hamburger vs supplì

70 73

Considero valore

74 78

marsala, il vino di ogni tempo

80 83

il golfista, pirata e signore

85 92

bruchi, l’italia va avanti

AGENDA

IL BUON VINO SI FA IN VIGNA

“Controcorrente”

ivv, eccellenza e sostenibilità

d news

nel regno del barocco

sicilia, ovunque è vino intervista a dario cartabellotta

bordeaux en primeur annata 2010

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“Vivere slow”

“Giardini pensili”

“appunti di viaggio”

“fuori dal green”


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AGENDA

5-7 novembre. Il Merano Wine Festival compie vent’anni e li festeggia degnamente: tra le novità, i visitatori avranno modo di celebrarne l’anniversario degustando vini d’annata presso gli espositori presenti. Interverranno poi i Grands Cru di Bordeaux e alcune tra le più rinomate cantine sudafricane. Da non perdere anche i divertenti show-cooking, organizzati da rinomati chef, che introdurranno ai sapori della cucina sperimentale. Il Festival ospiterà inoltre “Aquavitae&Liquores”, “BeerPassion”, “Wine Resorts”, e “Byo&dynamica e Culinaria”, appuntamenti che non fanno che arricchire un evento di grande richiamo. www.meranowinefestival.com

15 e 22 novembre. Riapre “Appassimenti aperti”, manifestazione dedicata alla valorizzazione della Vernaccia di Serrapetrona Docg e del Serrapetrona Doc. Nell’omonima cittadina del Maceratese un’occasione per incontrare i produttori e degustare i loro prodotti.

22-26 NOVEMBRE. È una delle accoppiate più vincenti nel mondo del vino: al polo fieristico di Rho (Milano), Enovitis e Simei saranno di nuovo insieme. Il primo salone, unico in Italia, è dedicato alle tecniche per la viticoltura e l’olivicoltura e sorprende per specificità, completezza e quantità di attrezzature e prodotti presentati; il secondo, il più grande al mondo, è dedicato alle macchine per l’enologia e l’imbottigliamento, utili a migliorare la qualità e contenere i costi di produzione. www.enovitis.it; www.simei.it

21 novembre. Torna in Belgio “Barolo&Friends”, dopo i successi dell’anno passato, in un’area che vede crescere il consumo di vini piemontesi. Per i visitatori ci saranno due seminari: uno sui bianchi, focalizzato sul Moscato d’Asti Docg e uno sui rossi, con protagonista il Dogliani Docg.

8

12-13 novembre. Il vino ed i suoi molti volti. Al Castello di Levizzano Rangone, Modena, è questo lo slogan: le donne nel vino, insieme al cibo ed alle arti. Due giorni di convegni, musica, poesia e scultura, con ospiti internazionali e degustazioni prestigiose.

3-5 novembre. Il Vinitaly d’Oriente nel 2010 ha attratto 14.000 visitatori. Quest’anno il partner della fiera sarà l’Italia, una delle prime sostenitrici, con la partecipazione di più di cento espositori. http://hkwinefair.hktdc.com

11-12 NOVEMBRE. Si svolgerà a Gorizia, presso il Palazzo de Bassa, il primo summit internazionale sull’enologia in bianco, utile per scoprire opportunità e rischi del mercato estero. Tra gli ospiti anche Robert Parker di “The Wine Advocate”, strenuo sostenitore dei vini rossi.


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AGENDA

5-7 novembre. Il Merano Wine Festival compie vent’anni e li festeggia degnamente: tra le novità, i visitatori avranno modo di celebrarne l’anniversario degustando vini d’annata presso gli espositori presenti. Interverranno poi i Grands Cru di Bordeaux e alcune tra le più rinomate cantine sudafricane. Da non perdere anche i divertenti show-cooking, organizzati da rinomati chef, che introdurranno ai sapori della cucina sperimentale. Il Festival ospiterà inoltre “Aquavitae&Liquores”, “BeerPassion”, “Wine Resorts”, e “Byo&dynamica e Culinaria”, appuntamenti che non fanno che arricchire un evento di grande richiamo. www.meranowinefestival.com

15 e 22 novembre. Riapre “Appassimenti aperti”, manifestazione dedicata alla valorizzazione della Vernaccia di Serrapetrona Docg e del Serrapetrona Doc. Nell’omonima cittadina del Maceratese un’occasione per incontrare i produttori e degustare i loro prodotti.

22-26 NOVEMBRE. È una delle accoppiate più vincenti nel mondo del vino: al polo fieristico di Rho (Milano), Enovitis e Simei saranno di nuovo insieme. Il primo salone, unico in Italia, è dedicato alle tecniche per la viticoltura e l’olivicoltura e sorprende per specificità, completezza e quantità di attrezzature e prodotti presentati; il secondo, il più grande al mondo, è dedicato alle macchine per l’enologia e l’imbottigliamento, utili a migliorare la qualità e contenere i costi di produzione. www.enovitis.it; www.simei.it

21 novembre. Torna in Belgio “Barolo&Friends”, dopo i successi dell’anno passato, in un’area che vede crescere il consumo di vini piemontesi. Per i visitatori ci saranno due seminari: uno sui bianchi, focalizzato sul Moscato d’Asti Docg e uno sui rossi, con protagonista il Dogliani Docg.

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12-13 novembre. Il vino ed i suoi molti volti. Al Castello di Levizzano Rangone, Modena, è questo lo slogan: le donne nel vino, insieme al cibo ed alle arti. Due giorni di convegni, musica, poesia e scultura, con ospiti internazionali e degustazioni prestigiose.

3-5 novembre. Il Vinitaly d’Oriente nel 2010 ha attratto 14.000 visitatori. Quest’anno il partner della fiera sarà l’Italia, una delle prime sostenitrici, con la partecipazione di più di cento espositori. http://hkwinefair.hktdc.com

11-12 NOVEMBRE. Si svolgerà a Gorizia, presso il Palazzo de Bassa, il primo summit internazionale sull’enologia in bianco, utile per scoprire opportunità e rischi del mercato estero. Tra gli ospiti anche Robert Parker di “The Wine Advocate”, strenuo sostenitore dei vini rossi.


Inizia il lavoro di Vi.Te., Associazione dei “Viticoltori dei vini e del Tempo”, strumento di comunicazione della viticoltura campana e nazionale.

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NEWS

NEWS

L’Associazione dei “Viticoltori dei vini e del Tempo” ha iniziato il suo lavoro presso il Campus universitario di Fisciano. La neonata associazione, presieduta da Daniela De Gruttola, produttrice di vini da vigne storiche, ha dato il via al suo primo programma, teso a far conoscere e promuovere questa preziosa realtà fatta di storia ma anche di attenzione verso il consumatore: i vini saranno controllati e posti nelle condizioni di essere raccontati secondo le loro spiccate peculiarità, influenzate benignamente dal tempo e dalla costanza

La Lombardia si automatizza nel settore vinicolo. Da questa vendemmia infatti i viticoltori della regione con una sola procedura online potranno presentare l’iscrizione del vigneto nello schedario vitivinicolo, la rivendicazione della denominazione delle produzioni e la dichiarazione di vendemmia e di produzione. Tale sistema consente un’ingente riduzione dell’iter burocratico che le aziende sono costrette ad affrontare: da ora potranno compilare una dichiarazione unica, connettendosi al Sistema Informativo Agricolo Regionale, per certificare la produzione ed ottenere i contributi comunitari.

1936: la casuale nascita di un vino destinato ad entrare nella storia dell’enologia italiana, l’Amarone.

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nei metodi di coltivazione e di trasformazione, rispettando i processi naturali frutto dello stretto rapporto tra vite, ambiente circostante e uomo. Oltre ai “viticoltori del tempo”, all’Associazione aderiscono anche i titolari del territorio dove operano le aziende che, da generazioni, credono nei vitigni impiantati, cullati dalla passione e dall’attaccamento alla terra. Il passato delle vigne secolari diventa così futuro, permettendo ai viticoltori di diventare protagonisti del mercato e di un’immagine sana ed unica della viticoltura.

Attenzione al Drosophilia Suzuki Matsumara, il parassita silenzioso che fa appassire la frutta matura, anche l’uva.

La sua presenza è passata quasi sotto silenzio ma è letale. Viene dalla Cina e ha già fatto sentire la sua minaccia in Italia ed Europa. È il Drosophilia Suzuki Matsumura, conosciuto come “drosofila del ciliegio” ma capace di intaccare qualsiasi tipo di frutta, uva compresa. Misura 2-3 mm di lunghezza, ha occhi rossi e corpo color brunogiallastro: questo è l’identikit del nuovo, micidiale parassita. I viticoltori sono avvertiti: non esistono ancora rimedi chimici ma alcune indicazioni naturali sul sito della Fondazione E. Mach www.iasma.it.

Lombardia: i produttori certificano il loro vino online. Si snellisce l’iter burocratico per la certificazione della produzione.

Sul settore vinicolo romagnolo soffia un vento nuovo. Dopo due anni la Doc Romagna è finalmente realtà: la nuova denominazione, oltre ad apportare alcune modifiche, riunisce in un solo disciplinare quelle già esistenti per salvaguardare e promuovere territorio e prodotti. Grande soddisfazione da parte del Consorzio Vini di Romagna il cui Presidente, Giordano Zinzani afferma: “Il nuovo disciplinare non ha stravolto le vecchie denominazioni ma aiuta a migliorare la qualità dei nostri vini. Inoltre il nome geografico in premessa aiuta nell’immediata identificazione del territorio”.

Nasce la Doc Romagna, denominazione che, riunendo quelle esistenti, permetterà di promuovere meglio i vini della regione.

L’Amarone è uno dei simboli dell’enologia italiana: oggi è possibile ammirare la sua bottiglia più antica, datata 1939 e custodita nella prima azienda che lo imbottigliò, la Cantina Valpolicella Negrar. La sua origine pare sia casuale: nel 1936 il cantiniere della Negrar si accorse di aver lasciato fermentare troppo una botte di Recioto. Il direttore lo assaggiò restandone affascinato. Il nome venne da sé e tre anni dopo venne imbottigliato l’Amarone Extra della Valpolicella. Nel 2010 abbiamo assistito alla prima vendemmia Docg.

La vendemmia 2011, dopo un secolo, riporta il vino nell’isola di Favignana: la Sicilia scopre nuovi territori da valorizzare.

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Un ambiente di raro fascino e una vite da rimpiantare dopo 100 anni: una sfida importante. A un secolo dall’ultima vendemmia, l’azienda Firriato ha appena concluso la prima “ vendemmia del ritorno” all’interno del “Progetto Insulae”. Si tratta di cinque ettari di suoli sabbiosi e fertili, di natura calcarea, e bagnati da impianti d’irrigazione di soccorso nei giorni più caldi. I vini si preannunciano preziosi e di nicchia ed andranno a fare compagnia a quelli delle tenute sull’Etna o sulle colline dell’agro trapanese.


Inizia il lavoro di Vi.Te., Associazione dei “Viticoltori dei vini e del Tempo”, strumento di comunicazione della viticoltura campana e nazionale.

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L’Associazione dei “Viticoltori dei vini e del Tempo” ha iniziato il suo lavoro presso il Campus universitario di Fisciano. La neonata associazione, presieduta da Daniela De Gruttola, produttrice di vini da vigne storiche, ha dato il via al suo primo programma, teso a far conoscere e promuovere questa preziosa realtà fatta di storia ma anche di attenzione verso il consumatore: i vini saranno controllati e posti nelle condizioni di essere raccontati secondo le loro spiccate peculiarità, influenzate benignamente dal tempo e dalla costanza

La Lombardia si automatizza nel settore vinicolo. Da questa vendemmia infatti i viticoltori della regione con una sola procedura online potranno presentare l’iscrizione del vigneto nello schedario vitivinicolo, la rivendicazione della denominazione delle produzioni e la dichiarazione di vendemmia e di produzione. Tale sistema consente un’ingente riduzione dell’iter burocratico che le aziende sono costrette ad affrontare: da ora potranno compilare una dichiarazione unica, connettendosi al Sistema Informativo Agricolo Regionale, per certificare la produzione ed ottenere i contributi comunitari.

1936: la casuale nascita di un vino destinato ad entrare nella storia dell’enologia italiana, l’Amarone.

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nei metodi di coltivazione e di trasformazione, rispettando i processi naturali frutto dello stretto rapporto tra vite, ambiente circostante e uomo. Oltre ai “viticoltori del tempo”, all’Associazione aderiscono anche i titolari del territorio dove operano le aziende che, da generazioni, credono nei vitigni impiantati, cullati dalla passione e dall’attaccamento alla terra. Il passato delle vigne secolari diventa così futuro, permettendo ai viticoltori di diventare protagonisti del mercato e di un’immagine sana ed unica della viticoltura.

Attenzione al Drosophilia Suzuki Matsumara, il parassita silenzioso che fa appassire la frutta matura, anche l’uva.

La sua presenza è passata quasi sotto silenzio ma è letale. Viene dalla Cina e ha già fatto sentire la sua minaccia in Italia ed Europa. È il Drosophilia Suzuki Matsumura, conosciuto come “drosofila del ciliegio” ma capace di intaccare qualsiasi tipo di frutta, uva compresa. Misura 2-3 mm di lunghezza, ha occhi rossi e corpo color brunogiallastro: questo è l’identikit del nuovo, micidiale parassita. I viticoltori sono avvertiti: non esistono ancora rimedi chimici ma alcune indicazioni naturali sul sito della Fondazione E. Mach www.iasma.it.

Lombardia: i produttori certificano il loro vino online. Si snellisce l’iter burocratico per la certificazione della produzione.

Sul settore vinicolo romagnolo soffia un vento nuovo. Dopo due anni la Doc Romagna è finalmente realtà: la nuova denominazione, oltre ad apportare alcune modifiche, riunisce in un solo disciplinare quelle già esistenti per salvaguardare e promuovere territorio e prodotti. Grande soddisfazione da parte del Consorzio Vini di Romagna il cui Presidente, Giordano Zinzani afferma: “Il nuovo disciplinare non ha stravolto le vecchie denominazioni ma aiuta a migliorare la qualità dei nostri vini. Inoltre il nome geografico in premessa aiuta nell’immediata identificazione del territorio”.

Nasce la Doc Romagna, denominazione che, riunendo quelle esistenti, permetterà di promuovere meglio i vini della regione.

L’Amarone è uno dei simboli dell’enologia italiana: oggi è possibile ammirare la sua bottiglia più antica, datata 1939 e custodita nella prima azienda che lo imbottigliò, la Cantina Valpolicella Negrar. La sua origine pare sia casuale: nel 1936 il cantiniere della Negrar si accorse di aver lasciato fermentare troppo una botte di Recioto. Il direttore lo assaggiò restandone affascinato. Il nome venne da sé e tre anni dopo venne imbottigliato l’Amarone Extra della Valpolicella. Nel 2010 abbiamo assistito alla prima vendemmia Docg.

La vendemmia 2011, dopo un secolo, riporta il vino nell’isola di Favignana: la Sicilia scopre nuovi territori da valorizzare.

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Un ambiente di raro fascino e una vite da rimpiantare dopo 100 anni: una sfida importante. A un secolo dall’ultima vendemmia, l’azienda Firriato ha appena concluso la prima “ vendemmia del ritorno” all’interno del “Progetto Insulae”. Si tratta di cinque ettari di suoli sabbiosi e fertili, di natura calcarea, e bagnati da impianti d’irrigazione di soccorso nei giorni più caldi. I vini si preannunciano preziosi e di nicchia ed andranno a fare compagnia a quelli delle tenute sull’Etna o sulle colline dell’agro trapanese.


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NEWS

Colli Senesi e Chianti Classico, una vendemmia precoce che fa ben sperare: i presidenti Cinughi e Pallanti ci raccontano come andrà quest’annata tra soddisfazione per l’andamento climatico, fiducia nei produttori e volontà di riconquistare il mercato.

Buone nuove dalle vendemmie del Chianti. Al Consorzio Colli Senesi si aspettano infatti un’annata di tutto rispetto, con una vendemmia che, grazie al particolare andamento climatico di quest’anno, si è rivelata molto precoce. Fresco ed umidità primaverili hanno consentito alle piante di godere di una discreta riserva idrica che ha permesso loro di passare agevolmente l’estate calda ed assolata. “Tutto ciò fa sperare non poco per una ripresa dei prezzi di mercato” dice Cino Cinughi, Presidente del Consorzio Chianti Colli Senesi, dimostrandosi fiducioso in una risalita della quotazione del Chianti, ormai da troppo tempo sminuito di valore dal mercato. “Sono inoltre felice di notare che fra le aziende associate si sta vivendo una certa volontà di ripresa e una forte determinazione, malgrado la crisi economica, a continuare nel difficile compito di pre-

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sidio di un territorio così bello e generoso come il nostro, a testimonianza di quanto ancora il legame fra enoviticoltura, paesaggio e tessuto economico e sociale sia quanto mai inscindibile e irrinunciabile. Ad ogni modo, per quanto riguarda questa vendemmia, per le stelle aspettiamo la svinatura”. Identico l’entusiasmo sul versante del Chianti Classico, dove si azzardano le prime previsioni sull’annata che verrà, con un prudente ottimismo. Il 2011 infatti, secondo i produttori e gli addetti ai lavori, potrebbe essere una delle migliori annate recenti. La stagione ha regalato un frutto perfettamente equilibrato, il territorio collinare ed argilloso ha frenato gli effetti del caldo recente, effetti ai quali, comunque, il Sangiovese si è perfettamente abituato, traendone addirittura beneficio, tanto da portare i grappoli alla maturazione con una, due settimane di anticipo. Similmente a quanto accaduto nei Colli Senesi, le piogge hanno garantito un’ottima riserva idrica alle piante che hanno poi accelerato il loro sviluppo sotto gli effetti della canicola estiva. “Sotto il profilo sanitario l’andamento climatico della stagione è stato ottimo, quasi perfetto direi” specifica Marco Pallanti, Presidente del Consorzio Vino Chianti Classico. “Le uve arrivate in laboratorio si presentano in eccezionali condizioni. Le varietà complementari ammesse dal nostro Disciplinare, come Merlot e Cabernet, sono state vendemmiate precocemente mentre il Sangiovese ha richiesto l’usuale pazienza. Ma il lavoro del vignaiolo ci insegna a non anticipare i tempi perché è la natura che ci indica il ‘da fare’. Confidando nel ‘savoire faire’ dei produttori, per fare ognuno in casa propria le scelte migliori, non possiamo che augurarci l’ottima riuscita di questa vendemmia 2011, nonché dei vini che ne usciranno”.


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Colli Senesi e Chianti Classico, una vendemmia precoce che fa ben sperare: i presidenti Cinughi e Pallanti ci raccontano come andrà quest’annata tra soddisfazione per l’andamento climatico, fiducia nei produttori e volontà di riconquistare il mercato.

Buone nuove dalle vendemmie del Chianti. Al Consorzio Colli Senesi si aspettano infatti un’annata di tutto rispetto, con una vendemmia che, grazie al particolare andamento climatico di quest’anno, si è rivelata molto precoce. Fresco ed umidità primaverili hanno consentito alle piante di godere di una discreta riserva idrica che ha permesso loro di passare agevolmente l’estate calda ed assolata. “Tutto ciò fa sperare non poco per una ripresa dei prezzi di mercato” dice Cino Cinughi, Presidente del Consorzio Chianti Colli Senesi, dimostrandosi fiducioso in una risalita della quotazione del Chianti, ormai da troppo tempo sminuito di valore dal mercato. “Sono inoltre felice di notare che fra le aziende associate si sta vivendo una certa volontà di ripresa e una forte determinazione, malgrado la crisi economica, a continuare nel difficile compito di pre-

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sidio di un territorio così bello e generoso come il nostro, a testimonianza di quanto ancora il legame fra enoviticoltura, paesaggio e tessuto economico e sociale sia quanto mai inscindibile e irrinunciabile. Ad ogni modo, per quanto riguarda questa vendemmia, per le stelle aspettiamo la svinatura”. Identico l’entusiasmo sul versante del Chianti Classico, dove si azzardano le prime previsioni sull’annata che verrà, con un prudente ottimismo. Il 2011 infatti, secondo i produttori e gli addetti ai lavori, potrebbe essere una delle migliori annate recenti. La stagione ha regalato un frutto perfettamente equilibrato, il territorio collinare ed argilloso ha frenato gli effetti del caldo recente, effetti ai quali, comunque, il Sangiovese si è perfettamente abituato, traendone addirittura beneficio, tanto da portare i grappoli alla maturazione con una, due settimane di anticipo. Similmente a quanto accaduto nei Colli Senesi, le piogge hanno garantito un’ottima riserva idrica alle piante che hanno poi accelerato il loro sviluppo sotto gli effetti della canicola estiva. “Sotto il profilo sanitario l’andamento climatico della stagione è stato ottimo, quasi perfetto direi” specifica Marco Pallanti, Presidente del Consorzio Vino Chianti Classico. “Le uve arrivate in laboratorio si presentano in eccezionali condizioni. Le varietà complementari ammesse dal nostro Disciplinare, come Merlot e Cabernet, sono state vendemmiate precocemente mentre il Sangiovese ha richiesto l’usuale pazienza. Ma il lavoro del vignaiolo ci insegna a non anticipare i tempi perché è la natura che ci indica il ‘da fare’. Confidando nel ‘savoire faire’ dei produttori, per fare ognuno in casa propria le scelte migliori, non possiamo che augurarci l’ottima riuscita di questa vendemmia 2011, nonché dei vini che ne usciranno”.


Il vino si sente nelle ossa: una ricerca inglese stabilisce che un bicchiere di rosso al giorno toglie l’osteoporosi di torno.

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Continuano le ricerche medico-scientifiche sui benefici del vino. Un recente studio pubblicato sull’American Journal of Clinical Nutrition afferma che un bicchiere di vino rosso al giorno sia ingrado di rafforzare le ossa. Ben tre università inglesi sono state coinvolte nel progetto, rilevando differenze di densità delle ossa di spina dorsale e anca tra bevitori e non, pare, grazie ai polifenoli. A beneficiare maggiormente dell’azione di questi polifenoli sarebbero le donne, che diminuirebbero notevolmente il pericolo dell’osteoporosi. Sono

Contaminare la Cina è possibile. Ci prova l’Enoteca Italiana a Shangai che ha avviato un progetto di promozione per le etichette italiane: presentare i nostri vini nei locali cinesi, per farli apprezzare e acquistare. Il programma prevede inoltre corsi di formazione per sommelier, direttori e chef di grandi ristoranti locali. Gli esercizi coinvolti avranno a disposizione una wine list speciale, mentre alla fine del progetto le etichette più richieste andranno ad arricchire le consuete carte dei vini. Ma Shangai è solo la prima tappa: la “contaminazione tra cibo cinese e vino italiano” toccherà anche molte altre città.

Sannio, sono quattro adesso le denominazioni riconosciute con l’arrivo della Falanghina del Sannio e dell’Aglianico del Tamburlo.

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state analizzate le abitudini di un campione di mille donne, tra cui coppie di gemelle. Tra le discriminanti impiegate le abitudini alimentari, la frequenza di assunzione di vino e quella di altri alcolici. Ma, se il nettare di Bacco utilizzato con moderazione, appare salvifico, lo stesso non si può dire dell’opulenta dieta inglese. Bocciata quindi la tipica english breakfast, fatta di bacon, salsicce, fritto, uova e fagioli: la loro assunzione costante, soprattutto nelle quantità a cui sono abituati gli inglesi, provoca l’indebolimento delle ossa.

Lazio, crescono i riconoscimenti con le due Docg Frascati e Cannellino e l’Igt Costa Etrusco Romana.

2 nuove Docg laziali: il Frascati Superiore e il Cannellino di Frascati, insieme all’Igt Costa Etrusco Romana. Sale così a 36 il numero delle denominazioni riconosciute del Lazio: 3 Docg, 6 Igt e 27 Doc. In queste è compresa anche la recente Doc Roma, che si è sovrapposta alle preesistenti Doc. “Le nuove Docg innalzano sicuramente il livello dei nostri vini di qualità”, ha spiegato il commissario straordinario dell’Arsial, Erder Mazzocchi, “in quanto hanno requisiti stringenti e testimoniano una fama internazionale acquisita grazie ai premi ricevuti”.

L’Enoteca Italiana “invade” con i nostri vini migliori la Cina, dove l’eccellenza italiana sembra non conoscere ostacoli.

Cinquant’anni fa gli americani bevevano francese. Pazienza, accordi e sapienti campagne d’informazione hanno invertito questa tendenza a nostro favore. “Wine Experience” è qua a dimostrarlo. L’evento, che si è tenuto all’Hotel Marquis, Times Square, dal 20 al 22 ottobre scorsi, era riservato alle cantine selezionate dalla rivista “Wine Spectator”. Accedervi costava 250 dollari, ma era possibile degustare i vini di 260 aziende, 45 delle quali italiane. Merito del lavoro dei produttori, dicono, che hanno visto crescere i loro introiti di pari passo con la qualità della ristorazione d’oltreoceano.

Il vino italiano oltrepassa oceani e dogane: al prestigioso “Wine Experience” newyorkese erano 45 le aziende italiane sulle 260 selezionate.

Sono stati pubblicati i tre decreti inerenti le nuove denominazioni. Sono riconosciute la nuova Doc Falanghina del Sannio e la Docg Aglianico del Tamburno. Grande la soddisfazione del Presidente del Consorzio Samnium, Libero Rillo: “ha inizio il cammino verso la costruzione di un nuovo valore ed una maggiore qualificazione del vino del Sannio, non solo in termini economici ma anche sociali ed ambientali, in cui i produttori, dovranno costruire un rinnovato consenso con il territorio, le istituzioni e naturalmente con il mercato”.

Il Consorzio Agrario di Siena e l’associazione Rondine di Arezzo insieme per vendemmiare l’Igt toscano Vigna della Pace 2011.

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A Castelnuovo Berardenga si è tenuta una vendemmia speciale, grazie alla collaborazione tra il Consorzio Agrario e l’associazione Rondine. Nelle vigne studenti provenienti da Paesi afflitti dalla guerra. Nasce così un Igt toscano buono da “fare”, il Vigna della Pace. “I valori della fratellanza e della solidarietà - ha affermato Maria Cristina Rocchi, presidente del Consorzio – sono da sempre nelle nostre vigne ma oggi allargano i propri confini, come quella rondine dell’associazione con la quale collaboriamo per il quarto anno consecutivo”.


Il vino si sente nelle ossa: una ricerca inglese stabilisce che un bicchiere di rosso al giorno toglie l’osteoporosi di torno.

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Continuano le ricerche medico-scientifiche sui benefici del vino. Un recente studio pubblicato sull’American Journal of Clinical Nutrition afferma che un bicchiere di vino rosso al giorno sia ingrado di rafforzare le ossa. Ben tre università inglesi sono state coinvolte nel progetto, rilevando differenze di densità delle ossa di spina dorsale e anca tra bevitori e non, pare, grazie ai polifenoli. A beneficiare maggiormente dell’azione di questi polifenoli sarebbero le donne, che diminuirebbero notevolmente il pericolo dell’osteoporosi. Sono

Contaminare la Cina è possibile. Ci prova l’Enoteca Italiana a Shangai che ha avviato un progetto di promozione per le etichette italiane: presentare i nostri vini nei locali cinesi, per farli apprezzare e acquistare. Il programma prevede inoltre corsi di formazione per sommelier, direttori e chef di grandi ristoranti locali. Gli esercizi coinvolti avranno a disposizione una wine list speciale, mentre alla fine del progetto le etichette più richieste andranno ad arricchire le consuete carte dei vini. Ma Shangai è solo la prima tappa: la “contaminazione tra cibo cinese e vino italiano” toccherà anche molte altre città.

Sannio, sono quattro adesso le denominazioni riconosciute con l’arrivo della Falanghina del Sannio e dell’Aglianico del Tamburlo.

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state analizzate le abitudini di un campione di mille donne, tra cui coppie di gemelle. Tra le discriminanti impiegate le abitudini alimentari, la frequenza di assunzione di vino e quella di altri alcolici. Ma, se il nettare di Bacco utilizzato con moderazione, appare salvifico, lo stesso non si può dire dell’opulenta dieta inglese. Bocciata quindi la tipica english breakfast, fatta di bacon, salsicce, fritto, uova e fagioli: la loro assunzione costante, soprattutto nelle quantità a cui sono abituati gli inglesi, provoca l’indebolimento delle ossa.

Lazio, crescono i riconoscimenti con le due Docg Frascati e Cannellino e l’Igt Costa Etrusco Romana.

2 nuove Docg laziali: il Frascati Superiore e il Cannellino di Frascati, insieme all’Igt Costa Etrusco Romana. Sale così a 36 il numero delle denominazioni riconosciute del Lazio: 3 Docg, 6 Igt e 27 Doc. In queste è compresa anche la recente Doc Roma, che si è sovrapposta alle preesistenti Doc. “Le nuove Docg innalzano sicuramente il livello dei nostri vini di qualità”, ha spiegato il commissario straordinario dell’Arsial, Erder Mazzocchi, “in quanto hanno requisiti stringenti e testimoniano una fama internazionale acquisita grazie ai premi ricevuti”.

L’Enoteca Italiana “invade” con i nostri vini migliori la Cina, dove l’eccellenza italiana sembra non conoscere ostacoli.

Cinquant’anni fa gli americani bevevano francese. Pazienza, accordi e sapienti campagne d’informazione hanno invertito questa tendenza a nostro favore. “Wine Experience” è qua a dimostrarlo. L’evento, che si è tenuto all’Hotel Marquis, Times Square, dal 20 al 22 ottobre scorsi, era riservato alle cantine selezionate dalla rivista “Wine Spectator”. Accedervi costava 250 dollari, ma era possibile degustare i vini di 260 aziende, 45 delle quali italiane. Merito del lavoro dei produttori, dicono, che hanno visto crescere i loro introiti di pari passo con la qualità della ristorazione d’oltreoceano.

Il vino italiano oltrepassa oceani e dogane: al prestigioso “Wine Experience” newyorkese erano 45 le aziende italiane sulle 260 selezionate.

Sono stati pubblicati i tre decreti inerenti le nuove denominazioni. Sono riconosciute la nuova Doc Falanghina del Sannio e la Docg Aglianico del Tamburno. Grande la soddisfazione del Presidente del Consorzio Samnium, Libero Rillo: “ha inizio il cammino verso la costruzione di un nuovo valore ed una maggiore qualificazione del vino del Sannio, non solo in termini economici ma anche sociali ed ambientali, in cui i produttori, dovranno costruire un rinnovato consenso con il territorio, le istituzioni e naturalmente con il mercato”.

Il Consorzio Agrario di Siena e l’associazione Rondine di Arezzo insieme per vendemmiare l’Igt toscano Vigna della Pace 2011.

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A Castelnuovo Berardenga si è tenuta una vendemmia speciale, grazie alla collaborazione tra il Consorzio Agrario e l’associazione Rondine. Nelle vigne studenti provenienti da Paesi afflitti dalla guerra. Nasce così un Igt toscano buono da “fare”, il Vigna della Pace. “I valori della fratellanza e della solidarietà - ha affermato Maria Cristina Rocchi, presidente del Consorzio – sono da sempre nelle nostre vigne ma oggi allargano i propri confini, come quella rondine dell’associazione con la quale collaboriamo per il quarto anno consecutivo”.


A Villa di Capezzana si festeggia: compie novant’anni Ugo Contini Bonacossi, fondatore nel 1972 della Congregazione di Carmignano, ente che ha riscoperto e valorizzato l’omonimo vino, tanto da garantirgli la Docg nel 1990.

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Ha compiuto novant’anni sabato 3 settembre, Ugo Contini Bonacossi e li ha festeggiati nella sua “reggia”, la Villa di Capezzana, a Carignano, in provincia di Prato. Nato a Roma il 15 agosto 1921, Contini ha occupato un ruolo centrale nella vitivinicoltura italiana dell’ultimo mezzo secolo, guidando la rinascita e la valorizzazione del vino Carmignano: è stato lui infatti a fondare la Congregazione del Carmignano nel 1972 e a credere tra i primi nella qualità di questo vino, tanto da dare la spinta necessaria perché il territorio omonimo, selezionato nel 1716 dal Granduca Cosimo III de’ Medici come una delle quattro zone a vocazione viticola del Granducato di Toscana, dopo una parentesi di “oscuramento”, fosse nuovamente riconosciuto per il proprio valore, così da avere la DOC nel 1975 e la DOCG nel 1990.

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Prima ancora, all’inizio degli anni ‘50, aveva fondato con degli amici, tra cui Lapo Mazzei, la “Castoro”, società specializzata nella costruzione dei laghi collinari che, partendo dall’Italia, arrivò a costruire bacini artificiali in Africa, Medio Oriente e Sudamerica. Il pranzo si è tenuto nella Vinsantaia, la grande sala dove da metà settembre a febbraio appassiscono le uve di Trebbiano e San Colombano, dalle quali si produce l’ormai famoso Vinsanto di Carmignano Riserva DOC, riconosciuto con l’annata 2000 dalla giuria dell’International Wine Challenge di Londra come il miglior vino dolce del mondo. Accanto ad Ugo c’era la compagna di una vita, Elisabetta Giustiniani, la nobildonna veneto-toscana sposata nel 1947: dalla loro unione sono nati 7 figli, 16 nipoti e 2 bisnipoti. È stata quindi l’occasione giusta per lanciare il Sessanta, un merlot in purezza prodotto nel 2007 per celebrare i sessant’anni di matrimonio di Ugo e Lisa è uscito il 20 ottobre 2011 in un limitatissimo numero di bottiglie, 4.642 bordolesi da 0,75 e 594 magnum da 1,5 litri. Insieme al Sessanta sono stati degustati anche gli altri vini fiore all’occhiello dell’azienda: primo fra tutti il Capezzana 804, di uvaggio Syrah in purezza, creato nel 2004 dalla famiglia Contini Bonacossi per ricordare i 12 secoli di storia di produzione vinicola in Capezzana, come documentato in una pergamena dell’804 d.C. ritrovata dalla figlia dei Conti Ugo e Lisa, Sandra, nell’archivio di Stato di Firenze, e di seguito le anteprime di Trebbiano IGT 2008, Trefiano Carmignano DOCG 2007 e Ghiaie della Furba IGT 2007 e il Villa di Capezzana Carmignano DOCG 2007. Accanto al patriarca, a spegnere le candeline c’era anche Olivia, una delle due bisnipoti, che proprio il 3 settembre compie gli anni, due in quell’occasione.

La resa più bassa degli ultimi sessant’anni: in Sicilia la Commissione Agricoltura alla Camera chiede la calamità naturale.

In 60 anni non si era mai vista una vendemmia così avara, dovuta alle bizzarrie del clima estivo. Si prevedono 40 milioni di ettolitri, 7 meno della vendemmia passata. In Sicilia l’allarme arriva dalla Commissione Agricoltura alla Camera: “con la bassa resa ottenuta, i viticoltori rischiano di vendere a prezzi bassi: questa situazione si aggiunge ai problemi storici del settore”. Sono parole del capogruppo Oliverio che chiede di “dichiarare lo stato di calamità naturale, considerate le ripercussioni economiche che gravano sui produttori”.

Il vino è un’ancora di salvezza in tempo di crisi. Lo dicono i risultati di un’indagine condotta dall’istituto Piepoli e promossa da Marchesi de’ Frescobaldi. Il campione di 300 intervistati si dice, per la maggior parte, attento alla qualità quando sceglie un vino, con un occhio al territorio di provenienza e la produzione limitata, mentre un quinto riconosce nel vino un investimento sicuro in tempi di crisi, tendenza ormai diffusa in tutta Europa ed in Asia. In Germania e Svizzera sono nate addirittura delle “banche del vino”, che serbano le bottiglie con futuristiche misure di sicurezza.

Vino, investimento che scongiura la crisi: nascono in Germania e Svizzera le sue “banche”.

Pompei, con la Villa dei Misteri si riscopre la vendemmia ai tempi dell’Impero Romano.

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Vendemmiare e tuffarsi nel passato. A Pompei lo hanno fatto per il dodicesimo anno: all’interno del sito archeologico infatti è stata raccolta l’uva per la produzione del vino Villa dei Misteri. L’iniziativa, datata 1994, nata per volontà della dottoressa Maria Ciarallo, punta a riprodurre il vino dell’epoca romana. Molte le fonti storiche che descrivono la vinificazione di duemila anni fa, anche se oggi, alcune tecniche sono modernizzate. Il progetto copre una superficie vitata di 50 ettari e rappresenta un modo curioso per raccontare Pompei e la sua storia.


A Villa di Capezzana si festeggia: compie novant’anni Ugo Contini Bonacossi, fondatore nel 1972 della Congregazione di Carmignano, ente che ha riscoperto e valorizzato l’omonimo vino, tanto da garantirgli la Docg nel 1990.

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Ha compiuto novant’anni sabato 3 settembre, Ugo Contini Bonacossi e li ha festeggiati nella sua “reggia”, la Villa di Capezzana, a Carignano, in provincia di Prato. Nato a Roma il 15 agosto 1921, Contini ha occupato un ruolo centrale nella vitivinicoltura italiana dell’ultimo mezzo secolo, guidando la rinascita e la valorizzazione del vino Carmignano: è stato lui infatti a fondare la Congregazione del Carmignano nel 1972 e a credere tra i primi nella qualità di questo vino, tanto da dare la spinta necessaria perché il territorio omonimo, selezionato nel 1716 dal Granduca Cosimo III de’ Medici come una delle quattro zone a vocazione viticola del Granducato di Toscana, dopo una parentesi di “oscuramento”, fosse nuovamente riconosciuto per il proprio valore, così da avere la DOC nel 1975 e la DOCG nel 1990.

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Prima ancora, all’inizio degli anni ‘50, aveva fondato con degli amici, tra cui Lapo Mazzei, la “Castoro”, società specializzata nella costruzione dei laghi collinari che, partendo dall’Italia, arrivò a costruire bacini artificiali in Africa, Medio Oriente e Sudamerica. Il pranzo si è tenuto nella Vinsantaia, la grande sala dove da metà settembre a febbraio appassiscono le uve di Trebbiano e San Colombano, dalle quali si produce l’ormai famoso Vinsanto di Carmignano Riserva DOC, riconosciuto con l’annata 2000 dalla giuria dell’International Wine Challenge di Londra come il miglior vino dolce del mondo. Accanto ad Ugo c’era la compagna di una vita, Elisabetta Giustiniani, la nobildonna veneto-toscana sposata nel 1947: dalla loro unione sono nati 7 figli, 16 nipoti e 2 bisnipoti. È stata quindi l’occasione giusta per lanciare il Sessanta, un merlot in purezza prodotto nel 2007 per celebrare i sessant’anni di matrimonio di Ugo e Lisa è uscito il 20 ottobre 2011 in un limitatissimo numero di bottiglie, 4.642 bordolesi da 0,75 e 594 magnum da 1,5 litri. Insieme al Sessanta sono stati degustati anche gli altri vini fiore all’occhiello dell’azienda: primo fra tutti il Capezzana 804, di uvaggio Syrah in purezza, creato nel 2004 dalla famiglia Contini Bonacossi per ricordare i 12 secoli di storia di produzione vinicola in Capezzana, come documentato in una pergamena dell’804 d.C. ritrovata dalla figlia dei Conti Ugo e Lisa, Sandra, nell’archivio di Stato di Firenze, e di seguito le anteprime di Trebbiano IGT 2008, Trefiano Carmignano DOCG 2007 e Ghiaie della Furba IGT 2007 e il Villa di Capezzana Carmignano DOCG 2007. Accanto al patriarca, a spegnere le candeline c’era anche Olivia, una delle due bisnipoti, che proprio il 3 settembre compie gli anni, due in quell’occasione.

La resa più bassa degli ultimi sessant’anni: in Sicilia la Commissione Agricoltura alla Camera chiede la calamità naturale.

In 60 anni non si era mai vista una vendemmia così avara, dovuta alle bizzarrie del clima estivo. Si prevedono 40 milioni di ettolitri, 7 meno della vendemmia passata. In Sicilia l’allarme arriva dalla Commissione Agricoltura alla Camera: “con la bassa resa ottenuta, i viticoltori rischiano di vendere a prezzi bassi: questa situazione si aggiunge ai problemi storici del settore”. Sono parole del capogruppo Oliverio che chiede di “dichiarare lo stato di calamità naturale, considerate le ripercussioni economiche che gravano sui produttori”.

Il vino è un’ancora di salvezza in tempo di crisi. Lo dicono i risultati di un’indagine condotta dall’istituto Piepoli e promossa da Marchesi de’ Frescobaldi. Il campione di 300 intervistati si dice, per la maggior parte, attento alla qualità quando sceglie un vino, con un occhio al territorio di provenienza e la produzione limitata, mentre un quinto riconosce nel vino un investimento sicuro in tempi di crisi, tendenza ormai diffusa in tutta Europa ed in Asia. In Germania e Svizzera sono nate addirittura delle “banche del vino”, che serbano le bottiglie con futuristiche misure di sicurezza.

Vino, investimento che scongiura la crisi: nascono in Germania e Svizzera le sue “banche”.

Pompei, con la Villa dei Misteri si riscopre la vendemmia ai tempi dell’Impero Romano.

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Vendemmiare e tuffarsi nel passato. A Pompei lo hanno fatto per il dodicesimo anno: all’interno del sito archeologico infatti è stata raccolta l’uva per la produzione del vino Villa dei Misteri. L’iniziativa, datata 1994, nata per volontà della dottoressa Maria Ciarallo, punta a riprodurre il vino dell’epoca romana. Molte le fonti storiche che descrivono la vinificazione di duemila anni fa, anche se oggi, alcune tecniche sono modernizzate. Il progetto copre una superficie vitata di 50 ettari e rappresenta un modo curioso per raccontare Pompei e la sua storia.


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Il buon vino si fa in vigna Martina Cenni

Nella tenuta di Montepò Jacopo Biondi Santi sperimenta le “microzone” vinicole e coltiva un sogno: una cantina completamente interrata. Il castello di Montepò

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Il buon vino si fa in vigna Martina Cenni

Nella tenuta di Montepò Jacopo Biondi Santi sperimenta le “microzone” vinicole e coltiva un sogno: una cantina completamente interrata. Il castello di Montepò

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Un legame solido e autentico, quello dei Biondi Santi con il vino. Nonno Tancredi aveva convinto la balia ad aggiungerne qualche goccia nel latte di Jacopo.

D

o p p o tre in quattro miglia di camino arrivammo a Monte Po’.È questo un antico fortilizio appartenente al Nobile Signor Filippo Sergardi di Siena, situato in un poggio isolato. Questa descrizione del Castello di Montepò è di Giorgio Santi, importante naturalista vissuto nel Settecento, che nel suo Viaggio al Montamiata descrive così la dimora di Sergardi di Siena, ignaro che un giorno quel luogo sarebbe stato della sua famiglia. Lì abita oggi Jacopo Biondi Santi, sesta genera-

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zione della famosa famiglia del Brunello. Fu il suo antenato Clemente Santi, nipote di Giorgio, ad inventare il Brunello di Montalcino nel 1869, dopo aver selezionato cloni di Sangiovese che ancora oggi portano le iniziali della famiglia. BBS11, Brunello Biondi Santi 11, è infatti il nome del vitigno figlio di questa casa, unica al mondo ad aver dato il proprio cognome ad un’uva. Il babbo Franco e il nonno Tancredi avevano paura che l’astemia della madre avesse “colpito” anche Jacopo e così convinsero la balia ad aggiungere qualche goccia di vino nel latte. “Il suo mondo del vino”, come lo definisce fiero, comincia quindi da bambino. La gavetta, la potatura delle viti, le vendemmie, le divisioni con la mezzadria e le pese, e poi


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Un legame solido e autentico, quello dei Biondi Santi con il vino. Nonno Tancredi aveva convinto la balia ad aggiungerne qualche goccia nel latte di Jacopo.

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o p p o tre in quattro miglia di camino arrivammo a Monte Po’.È questo un antico fortilizio appartenente al Nobile Signor Filippo Sergardi di Siena, situato in un poggio isolato. Questa descrizione del Castello di Montepò è di Giorgio Santi, importante naturalista vissuto nel Settecento, che nel suo Viaggio al Montamiata descrive così la dimora di Sergardi di Siena, ignaro che un giorno quel luogo sarebbe stato della sua famiglia. Lì abita oggi Jacopo Biondi Santi, sesta genera-

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zione della famosa famiglia del Brunello. Fu il suo antenato Clemente Santi, nipote di Giorgio, ad inventare il Brunello di Montalcino nel 1869, dopo aver selezionato cloni di Sangiovese che ancora oggi portano le iniziali della famiglia. BBS11, Brunello Biondi Santi 11, è infatti il nome del vitigno figlio di questa casa, unica al mondo ad aver dato il proprio cognome ad un’uva. Il babbo Franco e il nonno Tancredi avevano paura che l’astemia della madre avesse “colpito” anche Jacopo e così convinsero la balia ad aggiungere qualche goccia di vino nel latte. “Il suo mondo del vino”, come lo definisce fiero, comincia quindi da bambino. La gavetta, la potatura delle viti, le vendemmie, le divisioni con la mezzadria e le pese, e poi


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la chiave del futuro

Jacopo Biondi Santi in un salone del castello

gli assaggi e le ricolmature con il nonno Tancredi, che per primo lo ha iniziato al mestiere della cantina che Jacopo non ha più abbandonato. Montalcino e il Greppo, la tenuta Biondi Santi in direzione di Sant’Antimo, sono stati lo sfondo del percorso di Jacopo, che però non si è accontentato del ruolo di semplice erede del patrimonio vitivinicolo della famiglia. Così dopo gli studi universitari, dopo il lavoro al Greppo accanto al padre Franco, uomo preciso e metodologico, dopo la gestione commerciale dell’azienda, decide di creare una nuova base operativa. L’idea nasce dal Sassoalloro, nuova interpretazione del Sangiovese realizzato a Montalcino proprio da Jacopo. “È un vino che ha avuto subito successo e così ho cercato di

trovare un luogo di produzione che fosse fuori da Montalcino. Era troppo facile e anche rischioso creare a Montalcino una linea di vini nuovi accanto a quella del Brunello, avrebbe portato via immagine e avrebbe avuto dei rischi. Così, con l’aiuto di Annibale Parisi, che è stato un grande amico e consigliere, ci siamo messi a cercare il luogo adatto per creare questa nuova linea di prodotti”. Arrivati in Maremma da est, dopo aver visto alcune tenute della zona, Montepò ha rappresentato da subito il posto giusto, l’ambiente giusto, il luogo con le attitudini, l’esposizione e i terreni adatti agli studi micro zonali che Jacopo aveva in mente di realizzare. E dopo un’attenta e minuziosa analisi i terreni sono stati classi22

ficati e divisi in microzone con tipicità spiccate e grande valore, che hanno aperto orizzonti importanti alle produzioni Biondi Santi. La superficie coltivata a vitigno è cresciuta dai 3 ettari iniziali ai 52 di oggi, divisi tra BBS11 per un 80% e il restante distribuito tra Cabernet Sauvignon e Merlot. Tre vitigni per i vini italiani probabilmente più famosi nel mondo. Da queste uve Jacopo Biondi Santi è partito per creare il suo Sassoalloro, 100% BBS11, il Morellino Annata e Riserva, secondo l’età dei vitigni: Morellino Annata, 95% BBS11 e 5% Cabernet Sauvignon e la Riserva, dove la percentuale di Cabernet Sauvignon sale all’8%, “perché essendo più intensa la quantità di antociani nelle uve più vec-

chie, avevo bisogno di più taglio col Cabernet per avere lo stesso balance dell’Annata”. Da queste tre linee l’erede della casa del Brunello ha poi creato un Cabernet in purezza: il Montepaone. Un Igt che grazie alla particolarità del microclima e del galestro della microzona in cui cresce è un rosso morbido ed elegante, un vino di rara lunghezza. C’è poi lo Schidione, 40% BBS11, 40% Cabernet Sauvignon e 20% Merlot, “perché – come spiega il suo ideatore – il Sangiovese mi dà il corpo, il fisico della persona, il Cabernet Sauvignon gli allarga le spalle e il 20% del merlot mi dà l’eleganza, i profumi, mi completa tutto”. E poi ancora il Morione (100% Merlot), il Braccale, il Sàfiro, la grappa

e l’olio extra vergine d’oliva di Montepò. Tante microzone per tanti prodotti diversi, cercati, voluti. Oggi Montepò produce circa 400.000 bottiglie, per 50 ettari di vigna, ma le potenzialità di questa tenuta di oltre 500 ettari sono ancora più elevate. La vigna potrebbe essere estesa a circa 200 ettari per 1 milione e mezzo di bottiglie, una produzione enorme per la quale Jacopo ha già previsto la progettazione di una nuova cantina, efficientissima, altamente innovativa e completamente interrata. Questa rappresenterebbe davvero il coronamento dell’intero progetto Montepò ed è già parte, in effetti, del piano di miglioramento aziendale. “Sarà una sala operatoria, una cantina operativa, un posto di trasformazione”. 23

Se la storia tra i Biondi Santi e il vino dura da più di 700 anni è perché in famiglia tutti sanno che il futuro non si fa aspettare e che il loro è un patrimonio di cui aver cura e che si deve saper meritare. Così fanno già Clio, Tancredi e Clemente, figli di Jacopo, già consapevoli di ciò che significa essere un Biondi Santi. Clio, 21 anni, che ha ereditato il nome dalla bisnonna, studia Biochimica in Inghilterra e viaggia spesso col padre tra manifestazioni, degustazioni e presentazioni dei prodotti dell’azienda. Tancredi, nome importante che era di suo nonno, ha invece 20 anni e studia Viticoltura all’università di Firenze in attesa di trasferirsi in California per continuare con la specializzazione in Enologia. Infine il più piccolo, Clemente, ha solo 16 anni e frequenta il liceo scientifico. Di lui il padre dice che “già capisce cos’è la campagna e comincia ad apprezzarla”. E il futuro in effetti è già qui. Questo anfiteatro di colline aperto a nord e sovrastato dall’imponente figura del Castello di Montepò, forse è l’immagine che meglio descrive questa antica famiglia del Brunello, che continua ad innovare e fare ricerca non paga dei successi passati. Chiusi a cerchio a protezione delle loro vigne, ma aperti al cambiamento, tutti contribuiscono alla continuazione di questa meravigliosa storia che oggi si chiama Jacopo Biondi Santi.


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la chiave del futuro

Jacopo Biondi Santi in un salone del castello

gli assaggi e le ricolmature con il nonno Tancredi, che per primo lo ha iniziato al mestiere della cantina che Jacopo non ha più abbandonato. Montalcino e il Greppo, la tenuta Biondi Santi in direzione di Sant’Antimo, sono stati lo sfondo del percorso di Jacopo, che però non si è accontentato del ruolo di semplice erede del patrimonio vitivinicolo della famiglia. Così dopo gli studi universitari, dopo il lavoro al Greppo accanto al padre Franco, uomo preciso e metodologico, dopo la gestione commerciale dell’azienda, decide di creare una nuova base operativa. L’idea nasce dal Sassoalloro, nuova interpretazione del Sangiovese realizzato a Montalcino proprio da Jacopo. “È un vino che ha avuto subito successo e così ho cercato di

trovare un luogo di produzione che fosse fuori da Montalcino. Era troppo facile e anche rischioso creare a Montalcino una linea di vini nuovi accanto a quella del Brunello, avrebbe portato via immagine e avrebbe avuto dei rischi. Così, con l’aiuto di Annibale Parisi, che è stato un grande amico e consigliere, ci siamo messi a cercare il luogo adatto per creare questa nuova linea di prodotti”. Arrivati in Maremma da est, dopo aver visto alcune tenute della zona, Montepò ha rappresentato da subito il posto giusto, l’ambiente giusto, il luogo con le attitudini, l’esposizione e i terreni adatti agli studi micro zonali che Jacopo aveva in mente di realizzare. E dopo un’attenta e minuziosa analisi i terreni sono stati classi22

ficati e divisi in microzone con tipicità spiccate e grande valore, che hanno aperto orizzonti importanti alle produzioni Biondi Santi. La superficie coltivata a vitigno è cresciuta dai 3 ettari iniziali ai 52 di oggi, divisi tra BBS11 per un 80% e il restante distribuito tra Cabernet Sauvignon e Merlot. Tre vitigni per i vini italiani probabilmente più famosi nel mondo. Da queste uve Jacopo Biondi Santi è partito per creare il suo Sassoalloro, 100% BBS11, il Morellino Annata e Riserva, secondo l’età dei vitigni: Morellino Annata, 95% BBS11 e 5% Cabernet Sauvignon e la Riserva, dove la percentuale di Cabernet Sauvignon sale all’8%, “perché essendo più intensa la quantità di antociani nelle uve più vec-

chie, avevo bisogno di più taglio col Cabernet per avere lo stesso balance dell’Annata”. Da queste tre linee l’erede della casa del Brunello ha poi creato un Cabernet in purezza: il Montepaone. Un Igt che grazie alla particolarità del microclima e del galestro della microzona in cui cresce è un rosso morbido ed elegante, un vino di rara lunghezza. C’è poi lo Schidione, 40% BBS11, 40% Cabernet Sauvignon e 20% Merlot, “perché – come spiega il suo ideatore – il Sangiovese mi dà il corpo, il fisico della persona, il Cabernet Sauvignon gli allarga le spalle e il 20% del merlot mi dà l’eleganza, i profumi, mi completa tutto”. E poi ancora il Morione (100% Merlot), il Braccale, il Sàfiro, la grappa

e l’olio extra vergine d’oliva di Montepò. Tante microzone per tanti prodotti diversi, cercati, voluti. Oggi Montepò produce circa 400.000 bottiglie, per 50 ettari di vigna, ma le potenzialità di questa tenuta di oltre 500 ettari sono ancora più elevate. La vigna potrebbe essere estesa a circa 200 ettari per 1 milione e mezzo di bottiglie, una produzione enorme per la quale Jacopo ha già previsto la progettazione di una nuova cantina, efficientissima, altamente innovativa e completamente interrata. Questa rappresenterebbe davvero il coronamento dell’intero progetto Montepò ed è già parte, in effetti, del piano di miglioramento aziendale. “Sarà una sala operatoria, una cantina operativa, un posto di trasformazione”. 23

Se la storia tra i Biondi Santi e il vino dura da più di 700 anni è perché in famiglia tutti sanno che il futuro non si fa aspettare e che il loro è un patrimonio di cui aver cura e che si deve saper meritare. Così fanno già Clio, Tancredi e Clemente, figli di Jacopo, già consapevoli di ciò che significa essere un Biondi Santi. Clio, 21 anni, che ha ereditato il nome dalla bisnonna, studia Biochimica in Inghilterra e viaggia spesso col padre tra manifestazioni, degustazioni e presentazioni dei prodotti dell’azienda. Tancredi, nome importante che era di suo nonno, ha invece 20 anni e studia Viticoltura all’università di Firenze in attesa di trasferirsi in California per continuare con la specializzazione in Enologia. Infine il più piccolo, Clemente, ha solo 16 anni e frequenta il liceo scientifico. Di lui il padre dice che “già capisce cos’è la campagna e comincia ad apprezzarla”. E il futuro in effetti è già qui. Questo anfiteatro di colline aperto a nord e sovrastato dall’imponente figura del Castello di Montepò, forse è l’immagine che meglio descrive questa antica famiglia del Brunello, che continua ad innovare e fare ricerca non paga dei successi passati. Chiusi a cerchio a protezione delle loro vigne, ma aperti al cambiamento, tutti contribuiscono alla continuazione di questa meravigliosa storia che oggi si chiama Jacopo Biondi Santi.


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A casa Cecchi nasce Coevo Andrea Cappelli

Il prezioso Igt toscano presta il nome ad un volume di scatti d’autore e a un viaggio nella gastronomia italiana.

S

e il nome dei Cecchi si lega al vino fin dal lontano 1893, abbracciando così ben tre secoli, la storica griffe di Castellina non solo è ormai un caposaldo dell’economia chiantigiana da più di cinquant’anni, quando la gestiva un gentiluomo vecchio stampo come Luigi Cecchi, ma negli ultimi venti, coi figli Andrea e Cesare al timone, ha saputo sintonizzarsi con le richieste del mercato internazionale. “Coevo” è l’ultima creazione di Casa Cecchi, un prezioso Igt Toscana, la cui zona di produzione è Castellina in Chianti per Sangiovese e Cabernet Sauvignon e la Maremma Toscana per Merlot e Petit Verdot. E We Love Coevo è il titolo che i fratelli Cecchi, con la collaborazione artistico-creativa del fotografo Fedinando Cioffi, hanno dato all’elegante volume che è stato 24

Anita Cecchi fra i due figli Cesare ed Andrea

presentato lunedì 3 ottobre nella nuova cantina. Il volume raccoglie 154 ritratti di chef stellati, artisti, maitre e sommelier, collezionisti, vip, giornalisti, enotecari storici, imprenditori, patron di ristoranti e hotel, che hanno partecipato al “Coevo tour”, un viaggio in Italia con soste in cinque ristoranti - Enoteca Pinchiorri, Le Calandre, Da Vittorio, Dal Pescatore e La Pergola – e in Germania presso l’Acquarello di Mario Gamba a Monaco di Baviera. Chi sono i protagonisti di questi scatti d’autore? Un parterre dove non manca davvero nessuno, una raccolta di ritratti delle star del red carpet enogastronomico d’Italia: dai più grandi chef (Heinz Beck, Massimiliano e Raffaele Alajmo, Andrea Berton, Massimo Bottura, Moreno Cedroni, i Cerea, Carlo Cracco, Gennaro Esposito, Oliver Glowig, Davide Oldani, Giancarlo Perbellini, la famiglia Santini al completo, Davide Scabin e tutto

il suo staff, Luciano Zazzeri, per citarne solo alcuni) a enotecari del calibro di Osvaldo Longo, Paola Trimani, ma anche il presidente della Worldwide Sommelier Association e patron di Ais-Bibenda e della Guida “Duemilavini” Franco Maria Ricci, e sommelier come Luca Gardini, il grande calciatore Andreas Brehme, la pianista Olga Scheps, lo storico produttore Gelasio Gaetani d’Aragona Lovatelli, e tanti giornalisti italiani e internazionali del wine & food e non solo. “È stato un susseguirsi di emozioni uniche - ha detto Cesare Cecchi - Ferdinando ha magistralmente fermato il tempo per ognuno dei nostri ospiti, cogliendo la loro anima e incorniciandola in uno spazio e in un tempo sconosciuto ai più, donando loro quell’eternità che solo l’artista sa e può dare. Ogni immagine che compone questo racconto, in un certo senso d’amore, rappresenta una singola storia e una singola emozione”. “Ogni ritratto rivela un

Il fotografo del volume We love Coevo, Ferdinando Cioffi

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A casa Cecchi nasce Coevo Andrea Cappelli

Il prezioso Igt toscano presta il nome ad un volume di scatti d’autore e a un viaggio nella gastronomia italiana.

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e il nome dei Cecchi si lega al vino fin dal lontano 1893, abbracciando così ben tre secoli, la storica griffe di Castellina non solo è ormai un caposaldo dell’economia chiantigiana da più di cinquant’anni, quando la gestiva un gentiluomo vecchio stampo come Luigi Cecchi, ma negli ultimi venti, coi figli Andrea e Cesare al timone, ha saputo sintonizzarsi con le richieste del mercato internazionale. “Coevo” è l’ultima creazione di Casa Cecchi, un prezioso Igt Toscana, la cui zona di produzione è Castellina in Chianti per Sangiovese e Cabernet Sauvignon e la Maremma Toscana per Merlot e Petit Verdot. E We Love Coevo è il titolo che i fratelli Cecchi, con la collaborazione artistico-creativa del fotografo Fedinando Cioffi, hanno dato all’elegante volume che è stato 24

Anita Cecchi fra i due figli Cesare ed Andrea

presentato lunedì 3 ottobre nella nuova cantina. Il volume raccoglie 154 ritratti di chef stellati, artisti, maitre e sommelier, collezionisti, vip, giornalisti, enotecari storici, imprenditori, patron di ristoranti e hotel, che hanno partecipato al “Coevo tour”, un viaggio in Italia con soste in cinque ristoranti - Enoteca Pinchiorri, Le Calandre, Da Vittorio, Dal Pescatore e La Pergola – e in Germania presso l’Acquarello di Mario Gamba a Monaco di Baviera. Chi sono i protagonisti di questi scatti d’autore? Un parterre dove non manca davvero nessuno, una raccolta di ritratti delle star del red carpet enogastronomico d’Italia: dai più grandi chef (Heinz Beck, Massimiliano e Raffaele Alajmo, Andrea Berton, Massimo Bottura, Moreno Cedroni, i Cerea, Carlo Cracco, Gennaro Esposito, Oliver Glowig, Davide Oldani, Giancarlo Perbellini, la famiglia Santini al completo, Davide Scabin e tutto

il suo staff, Luciano Zazzeri, per citarne solo alcuni) a enotecari del calibro di Osvaldo Longo, Paola Trimani, ma anche il presidente della Worldwide Sommelier Association e patron di Ais-Bibenda e della Guida “Duemilavini” Franco Maria Ricci, e sommelier come Luca Gardini, il grande calciatore Andreas Brehme, la pianista Olga Scheps, lo storico produttore Gelasio Gaetani d’Aragona Lovatelli, e tanti giornalisti italiani e internazionali del wine & food e non solo. “È stato un susseguirsi di emozioni uniche - ha detto Cesare Cecchi - Ferdinando ha magistralmente fermato il tempo per ognuno dei nostri ospiti, cogliendo la loro anima e incorniciandola in uno spazio e in un tempo sconosciuto ai più, donando loro quell’eternità che solo l’artista sa e può dare. Ogni immagine che compone questo racconto, in un certo senso d’amore, rappresenta una singola storia e una singola emozione”. “Ogni ritratto rivela un

Il fotografo del volume We love Coevo, Ferdinando Cioffi

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v amico, talvolta un esempio da seguire, spesso un riferimento professionale d’eccellenza prosegue Andrea Cecchi - con loro abbiamo voluto condividere un momento importante per la nostra famiglia e la nostra azienda, facendoli diventare i protagonisti della nostra storia”. Parlare di vino significa, per i fratelli Cecchi, parlare di tavola e cibo, ma in particolare di terra, natura, sperimentazione, artigianalità, condivisione, impresa, quindi persone. Ecco allora il perché di questo “racconto per immagini”, che viene letto attraverso i volti di coloro che, giornalmente, si impegnano a diffondere la cultura del cibo e del vino nel mondo. “Ci auguriamo – concludono Cesare e Andrea – che queste pagine, che nel loro insieme rappresentano un’opera d’arte, possano emozionare tanto quanto un bicchiere di buon vino”. Per l’occasione l’elegante sede aziendale ha accolto fra le barriques circa 200 amici, fra cui circa 50 stelle Michelin

in un susseguirsi di immagini ed emozioni, il tutto allietato dalla conduzione di Fede e Tinto, autori e conduttori di Decanter, la trasmissione dedicata al mondo del vino in onda su Rai Radio2. Per il pranzo, la cucina portava la firma del tristellato Enoteca Pinchiorri di Firenze, mentre per i vini come aperitivo è stato proposto lo Champagne Dom Picard Blanc de Blanc, ottimo prodotto che i fratelli Cecchi distribuiscono in Italia dallo scorso aprile, a seguire Coevo Igt Toscana Rosso 2006 e 2007, rigorosamente in magnum, e un monumentale Villa Cerna Chianti Classico Riserva Docg 1988. Nel solco di una rigorosa decisione aziendale di riservare l’imbottigliamento del “vino bandiera” solo alle annate eccelse, quest’anno il Coevo non uscirà poiché nell’annata 2008 il supertuscan di casa Cecchi, una delle griffe più famose del Chianti Classico, non ha soddisfatto il livello qualitativo atteso e quindi l’azienda ha pre-

I fratelli Cecchi sul palco con Fede e Tinto di Rai Radio2 e la brigata dell’Enoteca Pinchiorri

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ferito saltare il millesimo. Giorgio Pinchiorri e Annie Feolde hanno realizzato il menu, leggero, come si conviene a un pranzo del lunedì, ma sublime: trippa baccalà e ceci; risotto con nervetti di vitella, funghi porcini e fonduta di Parmigiano Reggiano; piccione grigliato e poi marinato all’olio extravergine d’oliva con polenta incatenata al cavolo nero; pane e cioccolato, olio e sale. Un cadeau sul finale per questo simposio di gran classe: Château d’Yquem 1997. Raggianti per l’esito dell’incontro, Cesare e Andrea, che sono riusciti a creare un’aura magica intorno alla loro perla enologica, hanno detto parole semplici e vere, dense di modestia: “Sembra un sogno, cinque anni fa non avremmo neppure immaginato di vivere una giornata come questa”. Ma il momento più emozionante è stato il lungo applauso riservato a mamma Anita, sempre al fianco dei figli nella gestione aziendale.


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v amico, talvolta un esempio da seguire, spesso un riferimento professionale d’eccellenza prosegue Andrea Cecchi - con loro abbiamo voluto condividere un momento importante per la nostra famiglia e la nostra azienda, facendoli diventare i protagonisti della nostra storia”. Parlare di vino significa, per i fratelli Cecchi, parlare di tavola e cibo, ma in particolare di terra, natura, sperimentazione, artigianalità, condivisione, impresa, quindi persone. Ecco allora il perché di questo “racconto per immagini”, che viene letto attraverso i volti di coloro che, giornalmente, si impegnano a diffondere la cultura del cibo e del vino nel mondo. “Ci auguriamo – concludono Cesare e Andrea – che queste pagine, che nel loro insieme rappresentano un’opera d’arte, possano emozionare tanto quanto un bicchiere di buon vino”. Per l’occasione l’elegante sede aziendale ha accolto fra le barriques circa 200 amici, fra cui circa 50 stelle Michelin

in un susseguirsi di immagini ed emozioni, il tutto allietato dalla conduzione di Fede e Tinto, autori e conduttori di Decanter, la trasmissione dedicata al mondo del vino in onda su Rai Radio2. Per il pranzo, la cucina portava la firma del tristellato Enoteca Pinchiorri di Firenze, mentre per i vini come aperitivo è stato proposto lo Champagne Dom Picard Blanc de Blanc, ottimo prodotto che i fratelli Cecchi distribuiscono in Italia dallo scorso aprile, a seguire Coevo Igt Toscana Rosso 2006 e 2007, rigorosamente in magnum, e un monumentale Villa Cerna Chianti Classico Riserva Docg 1988. Nel solco di una rigorosa decisione aziendale di riservare l’imbottigliamento del “vino bandiera” solo alle annate eccelse, quest’anno il Coevo non uscirà poiché nell’annata 2008 il supertuscan di casa Cecchi, una delle griffe più famose del Chianti Classico, non ha soddisfatto il livello qualitativo atteso e quindi l’azienda ha pre-

I fratelli Cecchi sul palco con Fede e Tinto di Rai Radio2 e la brigata dell’Enoteca Pinchiorri

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ferito saltare il millesimo. Giorgio Pinchiorri e Annie Feolde hanno realizzato il menu, leggero, come si conviene a un pranzo del lunedì, ma sublime: trippa baccalà e ceci; risotto con nervetti di vitella, funghi porcini e fonduta di Parmigiano Reggiano; piccione grigliato e poi marinato all’olio extravergine d’oliva con polenta incatenata al cavolo nero; pane e cioccolato, olio e sale. Un cadeau sul finale per questo simposio di gran classe: Château d’Yquem 1997. Raggianti per l’esito dell’incontro, Cesare e Andrea, che sono riusciti a creare un’aura magica intorno alla loro perla enologica, hanno detto parole semplici e vere, dense di modestia: “Sembra un sogno, cinque anni fa non avremmo neppure immaginato di vivere una giornata come questa”. Ma il momento più emozionante è stato il lungo applauso riservato a mamma Anita, sempre al fianco dei figli nella gestione aziendale.




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Il vino di Femfert, nettare degli Dei Ilaria Acciai

Il gallerista di Francoforte compra la tenuta che fu di Michelangelo. Nella Fattoria Nittardi la storia del vino amato dai papi.

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er aspera ad astra è il motto dell’imp r e s a Nittardi. Nome ital i a n o , tradizione toscana, storia millenaria per questo podere oggi di proprietà del signor Peter Femfert, “il tedesco più italiano e al tempo stesso l’italiano più tedesco” che Carlo Ferrini, consulente enologo dell’azienda, dice di aver mai conosciuto. Peter, originario di Francoforte, dove da tanti anni dirige un’importante galleria d’arte, arriva nel Chianti nel 1983 con la semplice idea di comprare una casa per le vacanze nella verde Toscana. Lui e sua moglie Stefania Canali, storica veneziana, scelgono il Nectar Dei. Curioso e senza dubbio benaugurate l’antico nome della torre fortificata 30

al centro del podere, oggi Fattoria Nittardi, che nel XVI secolo fu di proprietà di Michelangelo Buonarroti. Fu proprio l’artista, che nel 1549 era impegnato ad affrescare la Cappella Sistina, a cominciare la storia del vino di questa proprietà, facendosi inviare dal nipote Lionardo, che amministrava le sue tenute nel Chianti, alcune bottiglie per omaggiare papa Giulio II. La storia si è ripetuta centinaia di anni più tardi, quando Peter e Stefania hanno donato a papa Benedetto XVI le prime bottiglie del loro Nectar Dei, il vino proveniente dalle vigne della nuova proprietà nella Maremma. “La nostra forza è stata l’inconsapevolezza della gioventù”, dice Peter, che ormai da 30 anni, insieme a Stefania, cura e fa crescere Nittardi, il loro “terzo figlio”, dopo Leon e Damiano. Nelle colline tra Firenze e Siena, poco distante da Castellina in 31


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Il vino di Femfert, nettare degli Dei Ilaria Acciai

Il gallerista di Francoforte compra la tenuta che fu di Michelangelo. Nella Fattoria Nittardi la storia del vino amato dai papi.

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er aspera ad astra è il motto dell’imp r e s a Nittardi. Nome ital i a n o , tradizione toscana, storia millenaria per questo podere oggi di proprietà del signor Peter Femfert, “il tedesco più italiano e al tempo stesso l’italiano più tedesco” che Carlo Ferrini, consulente enologo dell’azienda, dice di aver mai conosciuto. Peter, originario di Francoforte, dove da tanti anni dirige un’importante galleria d’arte, arriva nel Chianti nel 1983 con la semplice idea di comprare una casa per le vacanze nella verde Toscana. Lui e sua moglie Stefania Canali, storica veneziana, scelgono il Nectar Dei. Curioso e senza dubbio benaugurate l’antico nome della torre fortificata 30

al centro del podere, oggi Fattoria Nittardi, che nel XVI secolo fu di proprietà di Michelangelo Buonarroti. Fu proprio l’artista, che nel 1549 era impegnato ad affrescare la Cappella Sistina, a cominciare la storia del vino di questa proprietà, facendosi inviare dal nipote Lionardo, che amministrava le sue tenute nel Chianti, alcune bottiglie per omaggiare papa Giulio II. La storia si è ripetuta centinaia di anni più tardi, quando Peter e Stefania hanno donato a papa Benedetto XVI le prime bottiglie del loro Nectar Dei, il vino proveniente dalle vigne della nuova proprietà nella Maremma. “La nostra forza è stata l’inconsapevolezza della gioventù”, dice Peter, che ormai da 30 anni, insieme a Stefania, cura e fa crescere Nittardi, il loro “terzo figlio”, dopo Leon e Damiano. Nelle colline tra Firenze e Siena, poco distante da Castellina in 31


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Le etichette in edizione limitata realizzate da grandi artisti

Peter Femfert

Chianti, Fattoria Nittardi si estende per circa 160 ettari sulle morbide colline tra San Donato e Panzano. 120 ettari di bosco, 4 di uliveto e 29 di vigna, divisi tra una maggioranza di Sangiovese e una percentuale minore coltivata a Canaiolo e Merlot. Qui nascono il Chianti Classico Casanuova di Nittardi e il Riserva Nittardi. Entrambi ottenuti quasi completamente dalle pregiate uve Sangiovese di Nittardi, che crescono a più di 450 metri di altitudine, vengono completati rispettivamente con piccole percen-

tuali di Canaiolo e Merlot. Il Casanuova dopo un affinamento di 9 mesi in botti di rovere francese acquista così morbidezza e rotondità, mentre il Riserva, che ha ottenuto negli anni premi prestigiosi come i 3 Bicchieri del Gambero Rosso, il Decanter Award e le 5 bottiglie de I vini d’Italia de “L’Espresso”, è il risultato dell’aggiunta di un 5% di Merlot. Questo Chianti Classico ottenuto da uve raccolte separatamente nella “vigna alta”, dopo i 24 mesi di affinamento in barrique, acquisisce una varietà aromatica che non

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modifica però il gusto delle uve di origine. Negli anni la famiglia Nittardi si è poi allargata quando Peter e Stefania, non paghi della loro esplorazione chiantigiana, dopo lunga ricerca, nel 1999 hanno iniziato a piantare vigneti nel cuore della Maremma. Nella nuova proprietà di 37 ettari tra Magliano e Scansano, con splendida vista sul Monte Argentario, uve autoctone come il Sangiovese e l’Alicante crescono accanto a quelle internazionali come il Merlot, il Cabernet Sauvignon, il Syrah e il Petit Verdot. Da

queste unioni nascono i giovani di casa Nittardi, Ad Astra e Nectar Dei. Il primo è un cuvèe di Cabernet Sauvignon, Merlot, Syrah e Sangiovese che, coccolate dal sole e dalle brezze marine, crescono a 280 metri di altitudine. Necter Dei è “un vino davvero internazionale. Manca il Sangiovese e ci sono invece il Cabernet, il Merlot, il Syrah e il Petit Verdot”. Una cuvèe insolita, ma vincente, visto che il vino principe di Nittardi è stato premiato come “miglior vino della costa maremmana” con

il prestigioso Decanter Award e Ad Astra 2008 Igt Maremma si è appena aggiudicato i 3 bicchieri del Gambero Rosso. Anche qui, come nel Chianti, Peter ha saputo creare un gruppo di collaboratoti esperti, “alla fine sono loro che fanno il vino. Io vengo qui spesso, vivo qui, ma ho persone di fiducia che seguono i lavori giornalmente e che fanno veramente un bel lavoro”. Sì, perché Peter non ha mai lasciato il suo lavoro di gallerista ed editore a Francoforte, ma anzi è riuscito negli anni a coniugare

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vino ed arte in un connubio unico che ha reso i prodotti Nittardi famosi nel mondo. Dal 1981, infatti, le etichette del Chianti Classico Casanuova vengono realizzate da grandi artisti internazionali che traducono la passione di Peter e Stefania in schizzi inediti che ornano un numero limitato di bottiglie e le rivestono sotto forma di carta seta, ideata per accompagnare l’etichetta. Così il vino di Nittardi diventa un pezzo da collezione, se già le uve e il lavoro d’amore di Peter e Stefania non lo rendessero tale.


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Le etichette in edizione limitata realizzate da grandi artisti

Peter Femfert

Chianti, Fattoria Nittardi si estende per circa 160 ettari sulle morbide colline tra San Donato e Panzano. 120 ettari di bosco, 4 di uliveto e 29 di vigna, divisi tra una maggioranza di Sangiovese e una percentuale minore coltivata a Canaiolo e Merlot. Qui nascono il Chianti Classico Casanuova di Nittardi e il Riserva Nittardi. Entrambi ottenuti quasi completamente dalle pregiate uve Sangiovese di Nittardi, che crescono a più di 450 metri di altitudine, vengono completati rispettivamente con piccole percen-

tuali di Canaiolo e Merlot. Il Casanuova dopo un affinamento di 9 mesi in botti di rovere francese acquista così morbidezza e rotondità, mentre il Riserva, che ha ottenuto negli anni premi prestigiosi come i 3 Bicchieri del Gambero Rosso, il Decanter Award e le 5 bottiglie de I vini d’Italia de “L’Espresso”, è il risultato dell’aggiunta di un 5% di Merlot. Questo Chianti Classico ottenuto da uve raccolte separatamente nella “vigna alta”, dopo i 24 mesi di affinamento in barrique, acquisisce una varietà aromatica che non

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modifica però il gusto delle uve di origine. Negli anni la famiglia Nittardi si è poi allargata quando Peter e Stefania, non paghi della loro esplorazione chiantigiana, dopo lunga ricerca, nel 1999 hanno iniziato a piantare vigneti nel cuore della Maremma. Nella nuova proprietà di 37 ettari tra Magliano e Scansano, con splendida vista sul Monte Argentario, uve autoctone come il Sangiovese e l’Alicante crescono accanto a quelle internazionali come il Merlot, il Cabernet Sauvignon, il Syrah e il Petit Verdot. Da

queste unioni nascono i giovani di casa Nittardi, Ad Astra e Nectar Dei. Il primo è un cuvèe di Cabernet Sauvignon, Merlot, Syrah e Sangiovese che, coccolate dal sole e dalle brezze marine, crescono a 280 metri di altitudine. Necter Dei è “un vino davvero internazionale. Manca il Sangiovese e ci sono invece il Cabernet, il Merlot, il Syrah e il Petit Verdot”. Una cuvèe insolita, ma vincente, visto che il vino principe di Nittardi è stato premiato come “miglior vino della costa maremmana” con

il prestigioso Decanter Award e Ad Astra 2008 Igt Maremma si è appena aggiudicato i 3 bicchieri del Gambero Rosso. Anche qui, come nel Chianti, Peter ha saputo creare un gruppo di collaboratoti esperti, “alla fine sono loro che fanno il vino. Io vengo qui spesso, vivo qui, ma ho persone di fiducia che seguono i lavori giornalmente e che fanno veramente un bel lavoro”. Sì, perché Peter non ha mai lasciato il suo lavoro di gallerista ed editore a Francoforte, ma anzi è riuscito negli anni a coniugare

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vino ed arte in un connubio unico che ha reso i prodotti Nittardi famosi nel mondo. Dal 1981, infatti, le etichette del Chianti Classico Casanuova vengono realizzate da grandi artisti internazionali che traducono la passione di Peter e Stefania in schizzi inediti che ornano un numero limitato di bottiglie e le rivestono sotto forma di carta seta, ideata per accompagnare l’etichetta. Così il vino di Nittardi diventa un pezzo da collezione, se già le uve e il lavoro d’amore di Peter e Stefania non lo rendessero tale.


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Sada, il successo non basta Jacopo Rossi

Chi guarda avanti non si può accontentare. Ăˆ cosĂŹ che Davide porta la filosofia di famiglia nella sua passione per il vino. Davide Sada con il figlio Alfonso

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Sada, il successo non basta Jacopo Rossi

Chi guarda avanti non si può accontentare. Ăˆ cosĂŹ che Davide porta la filosofia di famiglia nella sua passione per il vino. Davide Sada con il figlio Alfonso

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ella seconda metà dell’Ottocento Pietro Sada, noto gas t r o n o mo milanese, nella sua bottega vendeva un lesso di carne molto apprezzato dai clienti. Spesso il successo può appagare ma non è questo il caso: Sada infatti iniziò a studiare nuovi sistemi di produzione e nel 1881 inscatolò la sua carne dopo accurati processi di sterilizzazione. Le vendite decollarono insieme alla mongolfiera dello svizzero Gondrand che, nel trasvolare le Alpi, nella sua scorta di viveri trovò un’ingente quantità della carne in scatola offertagli da Sada stesso. Il trionfo dell’impresa sancì il trionfo del nuovo prodotto, simbolo, si credeva, del progresso incalzante. Alla fine della Prima Guerra Mondiale, nel 1923, fu il figlio di Pietro, Alfonso, a fondare l’odierna Simmenthal e ad avviare la produzione a livello industriale della carne in gelatina.

Carne però che vuole perdere qualsiasi vezzo d’artificiosità: note e longeve sono infatti le collaborazioni tra l’azienda e famosi chef italiani, tese a creare ricette classiche della cucina italiana pronte all’uso, riproducibili su scala industriale. Un’azienda che ha accompagnato la storia del Paese, seguendo gli italiani all’estero, macaronì emigrati in cerca di fortuna, fornendo loro, con le sue scatolette, pietanze della terra natia, altrimenti introvabili a chilometri da casa. Un’azienda che ha voluto prima di tutto “capire” il cibo. Ed è in quest’ambiente che nasce e cresce Davide Sada, bisnipote del Pietro gastronomo protagonista dell’abbrivio di questo articolo. Davide abbraccia di buon grado la filosofia di famiglia, ne è affascinato, la esporta quando, appena ventenne, vive da solo negli Stati Uniti e cerca di ricreare l’atmosfera della tavola italiana con gli amici del luogo, mettendosi sovente, se non sempre, ai fornelli. Dal mangiare al bere il passo è

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più che breve, automatico. Suo padre Claudio, “era un grande appassionato di vino. Faceva parte di un’associazione in Borgogna e spesso mi portava ai loro incontri. Ero un ragazzino e rimanevo esterrefatto di fronte a queste persone, ai loro lunghi mantelli di velluto e agli enormi tastevin d’argento che portavano al collo”. Rappresentavano, parole sue, la sublimazione di ciò che la sua famiglia cercava e faceva da anni nell’ambito del “mondo del gusto”. Approda in Toscana, dove la minuziosa ricerca geologica si conclude nella zona bolgherese. Qua, oltre al terroir tanto cercato, incontra anche Maurizio Castelli, noto enologo, con il quale, dalla fine degli anni Novanta, inizia una collaborazione che continua ancora oggi, all’insegna di un’identica visione del vino e della sua filosofia. Ed il risultato è oggi un’azienda che si estende su un centinaio di ettari, sedici dei quali vitati, divisi in tre corpi, ognuno dedicato a precisi uvaggi: Casale Marittimo, Bibbona e Bolgheri.

Il marchio Sada si è fatto strada nel vino tenendo fede a quell’arte del gusto a cui anche De Chirico ha reso omaggio.

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Casale Marittimo, nel 2000, rappresentò la prima tappa di Davide Sada nel mondo del vino: diventò l’habitat naturale del Vermentino in purezza. La prima vendemmia, del 2005, palesò subito la particolarità di questo bianco, esaltato dalla perfezione del terreno e dall’ottimale situazione climatica. Qui è presente anche una piccola microzona dove è possibile attendere pazientemente la vendemmia tardiva capace di regalare un passito di qualità, “un’estasi di gusto capace di creare un’atmosfera intensa ed intellettuale nell’accompagnare i cibi”. Il secondo corpo si trova a Bibbona, al confine con Bolgheri. Cabernet Sauvignon, Cabernet Franc, Montepulciano, Petit Verdot e Alicante trovano qua la loro casa ideale, ed i loro blend danno vita a due dei rossi dell’azienda, Integolo, Baldoro e Carpoli. Il primo viene da un blend di Sauvignon, Montepulciano, Alicante ed è un vino semplice, per tutti i giorni, sui 12,5%, costato comunque una laboriosa ed annosa ricerca a Sada, e Castelli. Il secondo, di blend simile, proviene però da uve defogliate, che, colpite appieno dal sole, vedono crescere i loro zuccheri e, di conseguenza, il gradiente alcolico, tanto caro ai consumatori anglosassoni. Il terzo corpo è una “boutique, con le uve coltivate ad alberello, insieme ad alberi da frutto e olivi. Si crea una situazione che ricorda da vicino il podere che giustificava la sopravvivenza della famiglia contadina”. Verranno prodotte circa 5.000 bottiglie di Bolgheri Superiore Doc, blend di Sauvignon, Franc e Petit Verdot, di classica lavorazione bolgherese, che cerca di richiamare i classici vini della zona. Vini per ogni palato dunque, ma di qualità, che s’integrano a quel concetto di “arte del gusto” che i Sada hanno legato a quell’arte vera e propria: nelle “reclame” di De Chirico, nel packaging, nelle etichette dei loro vini.


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ella seconda metà dell’Ottocento Pietro Sada, noto gas t r o n o mo milanese, nella sua bottega vendeva un lesso di carne molto apprezzato dai clienti. Spesso il successo può appagare ma non è questo il caso: Sada infatti iniziò a studiare nuovi sistemi di produzione e nel 1881 inscatolò la sua carne dopo accurati processi di sterilizzazione. Le vendite decollarono insieme alla mongolfiera dello svizzero Gondrand che, nel trasvolare le Alpi, nella sua scorta di viveri trovò un’ingente quantità della carne in scatola offertagli da Sada stesso. Il trionfo dell’impresa sancì il trionfo del nuovo prodotto, simbolo, si credeva, del progresso incalzante. Alla fine della Prima Guerra Mondiale, nel 1923, fu il figlio di Pietro, Alfonso, a fondare l’odierna Simmenthal e ad avviare la produzione a livello industriale della carne in gelatina.

Carne però che vuole perdere qualsiasi vezzo d’artificiosità: note e longeve sono infatti le collaborazioni tra l’azienda e famosi chef italiani, tese a creare ricette classiche della cucina italiana pronte all’uso, riproducibili su scala industriale. Un’azienda che ha accompagnato la storia del Paese, seguendo gli italiani all’estero, macaronì emigrati in cerca di fortuna, fornendo loro, con le sue scatolette, pietanze della terra natia, altrimenti introvabili a chilometri da casa. Un’azienda che ha voluto prima di tutto “capire” il cibo. Ed è in quest’ambiente che nasce e cresce Davide Sada, bisnipote del Pietro gastronomo protagonista dell’abbrivio di questo articolo. Davide abbraccia di buon grado la filosofia di famiglia, ne è affascinato, la esporta quando, appena ventenne, vive da solo negli Stati Uniti e cerca di ricreare l’atmosfera della tavola italiana con gli amici del luogo, mettendosi sovente, se non sempre, ai fornelli. Dal mangiare al bere il passo è

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più che breve, automatico. Suo padre Claudio, “era un grande appassionato di vino. Faceva parte di un’associazione in Borgogna e spesso mi portava ai loro incontri. Ero un ragazzino e rimanevo esterrefatto di fronte a queste persone, ai loro lunghi mantelli di velluto e agli enormi tastevin d’argento che portavano al collo”. Rappresentavano, parole sue, la sublimazione di ciò che la sua famiglia cercava e faceva da anni nell’ambito del “mondo del gusto”. Approda in Toscana, dove la minuziosa ricerca geologica si conclude nella zona bolgherese. Qua, oltre al terroir tanto cercato, incontra anche Maurizio Castelli, noto enologo, con il quale, dalla fine degli anni Novanta, inizia una collaborazione che continua ancora oggi, all’insegna di un’identica visione del vino e della sua filosofia. Ed il risultato è oggi un’azienda che si estende su un centinaio di ettari, sedici dei quali vitati, divisi in tre corpi, ognuno dedicato a precisi uvaggi: Casale Marittimo, Bibbona e Bolgheri.

Il marchio Sada si è fatto strada nel vino tenendo fede a quell’arte del gusto a cui anche De Chirico ha reso omaggio.

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Casale Marittimo, nel 2000, rappresentò la prima tappa di Davide Sada nel mondo del vino: diventò l’habitat naturale del Vermentino in purezza. La prima vendemmia, del 2005, palesò subito la particolarità di questo bianco, esaltato dalla perfezione del terreno e dall’ottimale situazione climatica. Qui è presente anche una piccola microzona dove è possibile attendere pazientemente la vendemmia tardiva capace di regalare un passito di qualità, “un’estasi di gusto capace di creare un’atmosfera intensa ed intellettuale nell’accompagnare i cibi”. Il secondo corpo si trova a Bibbona, al confine con Bolgheri. Cabernet Sauvignon, Cabernet Franc, Montepulciano, Petit Verdot e Alicante trovano qua la loro casa ideale, ed i loro blend danno vita a due dei rossi dell’azienda, Integolo, Baldoro e Carpoli. Il primo viene da un blend di Sauvignon, Montepulciano, Alicante ed è un vino semplice, per tutti i giorni, sui 12,5%, costato comunque una laboriosa ed annosa ricerca a Sada, e Castelli. Il secondo, di blend simile, proviene però da uve defogliate, che, colpite appieno dal sole, vedono crescere i loro zuccheri e, di conseguenza, il gradiente alcolico, tanto caro ai consumatori anglosassoni. Il terzo corpo è una “boutique, con le uve coltivate ad alberello, insieme ad alberi da frutto e olivi. Si crea una situazione che ricorda da vicino il podere che giustificava la sopravvivenza della famiglia contadina”. Verranno prodotte circa 5.000 bottiglie di Bolgheri Superiore Doc, blend di Sauvignon, Franc e Petit Verdot, di classica lavorazione bolgherese, che cerca di richiamare i classici vini della zona. Vini per ogni palato dunque, ma di qualità, che s’integrano a quel concetto di “arte del gusto” che i Sada hanno legato a quell’arte vera e propria: nelle “reclame” di De Chirico, nel packaging, nelle etichette dei loro vini.




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La parabola dei fratelli Fattoi Da mezzadri a proprietari terrieri. Piantano la prima vite nel 1966. Oggi producono 25.000 bottiglie di Brunello e 20.000 di Rosso di Montalcino.

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ell’ascoltare il r a c c o n to del successo della famiglia Fattoi viene in mente la storia di Cenerentola. Quella ragazza povera, semplice e un po’ sfortunata. Quel brutto anatroccolo divenuto cigno e quel riscatto ammirevole e potente che ci commuove e rende orgogliosi. È la storia di mezzadri che si trasformano in proprietari terrieri, che lavorano e producono e che oggi esportano vini in tutto il mondo. Vini “veraci, capaci di emozionare”, dal “profumo intenso e ampio” e “dall’impronta autentica e genuina”. Quello che è stato scritto sui Fattoi, sul loro Brunello di Montalcino Docg e sul Rosso di Montalcino Doc è l’omaggio ad una passione per la terra che ha restituito grandi frutti e che ha avuto 40

inizio nel 1965. Quell’anno Ofelio Fattoi e il fratello, mezzadri al Castello di Poggio alle Mura, decidono di acquistare il podere la Capanna, vicino alla Pieve di Santa Restituta. Una splendido terreno a sud di Montalcino, che scende in direzione del mare verso la valle in cui si incontrano l’Orcia e l’Ombrone. Una delle zone più vocate della denominazione dove i vigneti, influenzati dai venti che soffiano dal mare, raggiungono una maturazione ottimale delle uve. 70 ettari di superficie di cui 9 coltivati a vigneto, 5 occupati da un antico oliveto che conta circa 800 piante, e il resto divisi tra bosco, seminativo e prati di cui l’occhio perde la fine. Un ettaro dopo l’altro i Fattoi hanno iniziato la loro storia di produttori piantando la prima vite nel 1966. Da allora il terreno de La Capanna si è riempito qua e là di vigne parcellizzate che consentono alla famiglia 41


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La parabola dei fratelli Fattoi Da mezzadri a proprietari terrieri. Piantano la prima vite nel 1966. Oggi producono 25.000 bottiglie di Brunello e 20.000 di Rosso di Montalcino.

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ell’ascoltare il r a c c o n to del successo della famiglia Fattoi viene in mente la storia di Cenerentola. Quella ragazza povera, semplice e un po’ sfortunata. Quel brutto anatroccolo divenuto cigno e quel riscatto ammirevole e potente che ci commuove e rende orgogliosi. È la storia di mezzadri che si trasformano in proprietari terrieri, che lavorano e producono e che oggi esportano vini in tutto il mondo. Vini “veraci, capaci di emozionare”, dal “profumo intenso e ampio” e “dall’impronta autentica e genuina”. Quello che è stato scritto sui Fattoi, sul loro Brunello di Montalcino Docg e sul Rosso di Montalcino Doc è l’omaggio ad una passione per la terra che ha restituito grandi frutti e che ha avuto 40

inizio nel 1965. Quell’anno Ofelio Fattoi e il fratello, mezzadri al Castello di Poggio alle Mura, decidono di acquistare il podere la Capanna, vicino alla Pieve di Santa Restituta. Una splendido terreno a sud di Montalcino, che scende in direzione del mare verso la valle in cui si incontrano l’Orcia e l’Ombrone. Una delle zone più vocate della denominazione dove i vigneti, influenzati dai venti che soffiano dal mare, raggiungono una maturazione ottimale delle uve. 70 ettari di superficie di cui 9 coltivati a vigneto, 5 occupati da un antico oliveto che conta circa 800 piante, e il resto divisi tra bosco, seminativo e prati di cui l’occhio perde la fine. Un ettaro dopo l’altro i Fattoi hanno iniziato la loro storia di produttori piantando la prima vite nel 1966. Da allora il terreno de La Capanna si è riempito qua e là di vigne parcellizzate che consentono alla famiglia 41


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v I terreni sono sabbiosi e argillosi, ma mutano a seconda delle zone della tenuta. Sciolto e più sassoso quello negli appezzamenti intorno alla grande casa, , ricco di creta e terra topacea nella parte a sud. Sangiovese e terra buona dunque, sono la ricetta della produzione semplice e genuina della famiglia Fattoi, che vanta annate ottime riscoperte da poco tempo. “L’85 – come ci racconta Leonardo – è una delle annate più apprezzate e anche l’anno di nascita di mia figlia. Quando compì 18 anni chiesi ad un mio cliente e amico di Milano, che negli anni si è costruito una discreta cantina di Fattoi, se poteva riportarmi 6 bottiglie di quell’annata. È stata un’immensa soddisfazione, ma non l’unica”. “Quasi commovente” la definizione data da Paolo Massobrio dell’assaggio del Brunello di Montalcino 2001, “autentico, vivo, contadino, che marca le grandi annate con una puntualità quasi d’altri tempi”. E ancora il premio per il Rosso di Montalcino 2007 inserito nella Guida al vino quotidiano promossa da Slow Food, tra i migliori vini italiani per l’ottimo rapporto qualità-prezzo. “Raffinate note di sottobosco, di lavanda e di eucalipto. Ha un tannino vellutato, con trama gustativa sapida ai frutti rossi e sfumatamente amaricante. Il finale resiste in una sensazione pseudocalorica che addolcisce il fruttato e lo speziato” per il Brunello 2005 dalla rivista “De Vinis” e, per concludere, dalla guida Slowine il Brunello di Montalcino Riserva 2004: “succede che nelle grandi annate il suolo e la sapienza contadina siano gli unici parametri della riuscita di un vino. Così è andata per questa etichetta, potente, elegante, verticale e profonda: una delle migliori prove aziendali, da seguire negli anni a venire”. Niente da aggiungere a questa tradizione che resiste. MC

Il padre Ofelio con i figli Lamberto e Leonardo

di produrre oggi 25.000 bottiglie di Brunello e 20.000 di Rosso di Montalcino. Una produzione che privilegia la qualità a discapito della quantità e che regala, solo nelle annate migliori, un Brunello di Montalcino Docg Riserva di grande carattere e aderenza territoriale, che viene messo in vendita dopo sei anni. Una delle Riserve più convenienti che si possono trovare oggi sul mercato. Con il tempo il padre Ofelio è stato poi affiancato nel lavoro in azienda dai due figli Lamberto e Leonardo, che si occupano rispettivamente della vigna e della cantina, dalle loro mogli e dalla nipote Lucia che cura la parte amministrativa. Un’intera famiglia che si dedica con sacrificio e l’amore indispensabile a sopportare le fatiche della terra, all’azienda che li ha

resi conosciuti e apprezzati in America, Giappone e Paesi Bassi, non solo per i vini, ma anche per l’olio extravergine di oliva e la grappa. Dalla prima bottiglia del 1979 le tradizioni sono rimaste intatte e, oggi come allora, i metodi di vinificazione e invecchiamento sono semplici e lineari, privi di sovrastrutture, nel rispetto della storia contadina di questa antica famiglia. È qui che il Sangiovese ad un’altitudine di 350 metri con una densità di impianto di circa 4.000 piante per ettaro e allevato a cordone speronato, trova una delle sue massime espressioni nel Brunello “contadino” di casa Fattoi. Un termine che ricorre spesso quando si parla del rubino luminoso e del sapore fruttato del Brunello o della piacevole tannicità e del carattere spiccato del Rosso.

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Il Brunello “contadino” di casa Fattoi: suolo e sapienza come parametri per la riuscita del vino.

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v I terreni sono sabbiosi e argillosi, ma mutano a seconda delle zone della tenuta. Sciolto e più sassoso quello negli appezzamenti intorno alla grande casa, , ricco di creta e terra topacea nella parte a sud. Sangiovese e terra buona dunque, sono la ricetta della produzione semplice e genuina della famiglia Fattoi, che vanta annate ottime riscoperte da poco tempo. “L’85 – come ci racconta Leonardo – è una delle annate più apprezzate e anche l’anno di nascita di mia figlia. Quando compì 18 anni chiesi ad un mio cliente e amico di Milano, che negli anni si è costruito una discreta cantina di Fattoi, se poteva riportarmi 6 bottiglie di quell’annata. È stata un’immensa soddisfazione, ma non l’unica”. “Quasi commovente” la definizione data da Paolo Massobrio dell’assaggio del Brunello di Montalcino 2001, “autentico, vivo, contadino, che marca le grandi annate con una puntualità quasi d’altri tempi”. E ancora il premio per il Rosso di Montalcino 2007 inserito nella Guida al vino quotidiano promossa da Slow Food, tra i migliori vini italiani per l’ottimo rapporto qualità-prezzo. “Raffinate note di sottobosco, di lavanda e di eucalipto. Ha un tannino vellutato, con trama gustativa sapida ai frutti rossi e sfumatamente amaricante. Il finale resiste in una sensazione pseudocalorica che addolcisce il fruttato e lo speziato” per il Brunello 2005 dalla rivista “De Vinis” e, per concludere, dalla guida Slowine il Brunello di Montalcino Riserva 2004: “succede che nelle grandi annate il suolo e la sapienza contadina siano gli unici parametri della riuscita di un vino. Così è andata per questa etichetta, potente, elegante, verticale e profonda: una delle migliori prove aziendali, da seguire negli anni a venire”. Niente da aggiungere a questa tradizione che resiste. MC

Il padre Ofelio con i figli Lamberto e Leonardo

di produrre oggi 25.000 bottiglie di Brunello e 20.000 di Rosso di Montalcino. Una produzione che privilegia la qualità a discapito della quantità e che regala, solo nelle annate migliori, un Brunello di Montalcino Docg Riserva di grande carattere e aderenza territoriale, che viene messo in vendita dopo sei anni. Una delle Riserve più convenienti che si possono trovare oggi sul mercato. Con il tempo il padre Ofelio è stato poi affiancato nel lavoro in azienda dai due figli Lamberto e Leonardo, che si occupano rispettivamente della vigna e della cantina, dalle loro mogli e dalla nipote Lucia che cura la parte amministrativa. Un’intera famiglia che si dedica con sacrificio e l’amore indispensabile a sopportare le fatiche della terra, all’azienda che li ha

resi conosciuti e apprezzati in America, Giappone e Paesi Bassi, non solo per i vini, ma anche per l’olio extravergine di oliva e la grappa. Dalla prima bottiglia del 1979 le tradizioni sono rimaste intatte e, oggi come allora, i metodi di vinificazione e invecchiamento sono semplici e lineari, privi di sovrastrutture, nel rispetto della storia contadina di questa antica famiglia. È qui che il Sangiovese ad un’altitudine di 350 metri con una densità di impianto di circa 4.000 piante per ettaro e allevato a cordone speronato, trova una delle sue massime espressioni nel Brunello “contadino” di casa Fattoi. Un termine che ricorre spesso quando si parla del rubino luminoso e del sapore fruttato del Brunello o della piacevole tannicità e del carattere spiccato del Rosso.

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Il Brunello “contadino” di casa Fattoi: suolo e sapienza come parametri per la riuscita del vino.

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La Murgia dei Liantonio Tra le asperità e i contrasti della Puglia, Torrevento si fa ambasciatrice della migliore tradizione vinicola grazie ad un’identità precisa.

T

Francesco Liantonio

ra torri senza tempo e mare infinito, Puglia, ti stendi, porte aperte, verso Oriente... muri bianchi, pietre fitte, sapor di rosmarino, profumo d’assoluto. Del tacco dello stivale d’Italia, raccontiamo d’un territorio aspro e selvaggio, che si estende, assolato, su di un altopiano nel Parco Rurale dell’Alta Murgia. Costellato di masserie, jazzi e cappelle rurali, per lunghi tratti vi si dispongono solamente lente file di pietra, chilometri di muretti a secco, che, senza distonie col paesaggio circostante, delimitano gli agri, divisi nei secoli. Questo ordito di pietra si accompagna ad articolati sistemi di manufatti rurali risalenti in origine a Federico II di Svevia, che li volle per l’allevamento di giumenti e stalloni, poste 46

legate al fenomeno della transumanza. Era il 1920 quando la famiglia Liantonio intraprese, a Palo del Colle, la prima attività nel mondo del vino, gli albori di una passione che, nel 1948, portò i Fratelli Liantonio a fare il gran passo: al centro della Murgia Barese, nella zona contrassegnata dal maestoso maniero federiciano di Castel del Monte e precisamente nell’allora sconosciuta contrada di “Torre del Vento” decisero di acquistare un’affascinante struttura masserizia interamente in pietra, un ex-monastero del Seicento, di cui conservava intatte la vecchia cantina, le stalle e le grandi mura ma, soprattutto, i 57 ettari di vigneto collocati intorno alla tenuta. Fu con Gaetano Liantonio che, all’inizio degli anni Cinquanta, ebbe inizio l’attività di trasformazione delle uve e, nel contempo, le prime opere di ristrutturazione. Accanto al padre, il giovane Francesco, fra studi universitari e vendemmie, alla

fine degli anni Ottanta fece sua quella stessa grande passione per il vino, ma, prima ancora, per quella terra, troppo spesso considerata arida e improduttiva e che, invece, ai suoi occhi, apparve ricca di uve con un’identità ben precisa, che potevano permettere al territorio di essere rivalutato e apprezzato. Oggi imponenti mura di pietra lavorata a secco, dello spessore di oltre un metro, cingono la grande e moderna cantina e gli antichi sotterranei, a otto metri di profondità, costituiscono i perfetti locali per la conservazione dei vini e per l’affinamento in legno. Torrevento coi suoi 200 ettari di vigneti di proprietà e ulteriori 200 in conduzione in differenti zone della Puglia, tra antichi vitigni e moderne tecnologie, manualità e imprenditorialità, sintesi perfetta di tradizione e innovazione, si colloca tra le strutture più attente alla vinificazione dei vitigni autoctoni - Nero di Troia, Aglianico, Bombino Nero, Bombino Bianco, Pampanuto, Moscato Reale e Negroamaro - rendendosi moderna interprete delle antiche tradizioni vinicole e degna ambasciatrice del gusto e della cultura di Puglia. AC

Castel del Monte, uno dei castelli normanni più famosi della Puglia

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La Murgia dei Liantonio Tra le asperità e i contrasti della Puglia, Torrevento si fa ambasciatrice della migliore tradizione vinicola grazie ad un’identità precisa.

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Francesco Liantonio

ra torri senza tempo e mare infinito, Puglia, ti stendi, porte aperte, verso Oriente... muri bianchi, pietre fitte, sapor di rosmarino, profumo d’assoluto. Del tacco dello stivale d’Italia, raccontiamo d’un territorio aspro e selvaggio, che si estende, assolato, su di un altopiano nel Parco Rurale dell’Alta Murgia. Costellato di masserie, jazzi e cappelle rurali, per lunghi tratti vi si dispongono solamente lente file di pietra, chilometri di muretti a secco, che, senza distonie col paesaggio circostante, delimitano gli agri, divisi nei secoli. Questo ordito di pietra si accompagna ad articolati sistemi di manufatti rurali risalenti in origine a Federico II di Svevia, che li volle per l’allevamento di giumenti e stalloni, poste 46

legate al fenomeno della transumanza. Era il 1920 quando la famiglia Liantonio intraprese, a Palo del Colle, la prima attività nel mondo del vino, gli albori di una passione che, nel 1948, portò i Fratelli Liantonio a fare il gran passo: al centro della Murgia Barese, nella zona contrassegnata dal maestoso maniero federiciano di Castel del Monte e precisamente nell’allora sconosciuta contrada di “Torre del Vento” decisero di acquistare un’affascinante struttura masserizia interamente in pietra, un ex-monastero del Seicento, di cui conservava intatte la vecchia cantina, le stalle e le grandi mura ma, soprattutto, i 57 ettari di vigneto collocati intorno alla tenuta. Fu con Gaetano Liantonio che, all’inizio degli anni Cinquanta, ebbe inizio l’attività di trasformazione delle uve e, nel contempo, le prime opere di ristrutturazione. Accanto al padre, il giovane Francesco, fra studi universitari e vendemmie, alla

fine degli anni Ottanta fece sua quella stessa grande passione per il vino, ma, prima ancora, per quella terra, troppo spesso considerata arida e improduttiva e che, invece, ai suoi occhi, apparve ricca di uve con un’identità ben precisa, che potevano permettere al territorio di essere rivalutato e apprezzato. Oggi imponenti mura di pietra lavorata a secco, dello spessore di oltre un metro, cingono la grande e moderna cantina e gli antichi sotterranei, a otto metri di profondità, costituiscono i perfetti locali per la conservazione dei vini e per l’affinamento in legno. Torrevento coi suoi 200 ettari di vigneti di proprietà e ulteriori 200 in conduzione in differenti zone della Puglia, tra antichi vitigni e moderne tecnologie, manualità e imprenditorialità, sintesi perfetta di tradizione e innovazione, si colloca tra le strutture più attente alla vinificazione dei vitigni autoctoni - Nero di Troia, Aglianico, Bombino Nero, Bombino Bianco, Pampanuto, Moscato Reale e Negroamaro - rendendosi moderna interprete delle antiche tradizioni vinicole e degna ambasciatrice del gusto e della cultura di Puglia. AC

Castel del Monte, uno dei castelli normanni più famosi della Puglia

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L’uomo che dà carattere al vino Massimo Piccin: la natura è capricciosa, deve scegliere la sua strada.

L

Simone Setti, responsabile dei vigneti

L’enologo Alessandro Nannelli, responsabile di cantina

a prima immagine che ci regala il sito web di Podere Sapaio raccoglie in un flash tutte le caratteristiche di questa azienda nel cuore della Maremma livornese. Tre elementi: il sole, un uomo e la sua ombra che si allunga al calare del giorno e che assume la forma di una bottiglia di vino. Non a caso Massimo Piccin, proprietario e direttore dell’azienda, sottolinea che l’uomo insieme al suolo, al clima e al vitigno è l’elemento centrale nel carattere del vino. “Il nostro vino siamo noi. Noi vignaioli che immaginiamo un’idea e la inseguiamo per anni. Noi uomini e donne che trasformiamo l’uva in vino con le nostre conoscenze, i nostri errori e le nostre tecnologie. Non possono esistere grandi vini senza la grande passione degli 50

uomini”. La stessa di Massimo, ingegnere veneto arrivato al vino poco più di dieci anni fa e incappato, per caso, in questo magnifico podere di quasi 40 ettari tra Castagneto Carducci e Bibbona, ad un passo dal mare. Acquistata nel 1999, la tenuta si divide in diversi appezzamenti che ospitano altrettante vigne piantate tra il ’99, il 2003 e le ultime nel 2005. Un totale di 25 ettari di vitigni di diverse varietà: Cabernet Sauvignon, Cabernet Franc, Merlot e Petit Verdot. Vitigni bordolesi in terra di Bolgheri. Una sfida affascinate che è stata un successo fin dall’inizio, fin dal 2003 con quel primo Vòlpolo Igt ottenuto dall’intera raccolta della vendemmia. La prima vera annata, però, è stata quella del 2004. È da allora che Podere Sapaio produce i suoi vini: il Vòlpolo Bolgheri Rosso Doc e il Sapaio Bolgheri Doc Superiore, due vini “che esprimono in modi diversi la stessa vendemmia». Il Vòlpolo

Massimo Piccin

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L’uomo che dà carattere al vino Massimo Piccin: la natura è capricciosa, deve scegliere la sua strada.

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Simone Setti, responsabile dei vigneti

L’enologo Alessandro Nannelli, responsabile di cantina

a prima immagine che ci regala il sito web di Podere Sapaio raccoglie in un flash tutte le caratteristiche di questa azienda nel cuore della Maremma livornese. Tre elementi: il sole, un uomo e la sua ombra che si allunga al calare del giorno e che assume la forma di una bottiglia di vino. Non a caso Massimo Piccin, proprietario e direttore dell’azienda, sottolinea che l’uomo insieme al suolo, al clima e al vitigno è l’elemento centrale nel carattere del vino. “Il nostro vino siamo noi. Noi vignaioli che immaginiamo un’idea e la inseguiamo per anni. Noi uomini e donne che trasformiamo l’uva in vino con le nostre conoscenze, i nostri errori e le nostre tecnologie. Non possono esistere grandi vini senza la grande passione degli 50

uomini”. La stessa di Massimo, ingegnere veneto arrivato al vino poco più di dieci anni fa e incappato, per caso, in questo magnifico podere di quasi 40 ettari tra Castagneto Carducci e Bibbona, ad un passo dal mare. Acquistata nel 1999, la tenuta si divide in diversi appezzamenti che ospitano altrettante vigne piantate tra il ’99, il 2003 e le ultime nel 2005. Un totale di 25 ettari di vitigni di diverse varietà: Cabernet Sauvignon, Cabernet Franc, Merlot e Petit Verdot. Vitigni bordolesi in terra di Bolgheri. Una sfida affascinate che è stata un successo fin dall’inizio, fin dal 2003 con quel primo Vòlpolo Igt ottenuto dall’intera raccolta della vendemmia. La prima vera annata, però, è stata quella del 2004. È da allora che Podere Sapaio produce i suoi vini: il Vòlpolo Bolgheri Rosso Doc e il Sapaio Bolgheri Doc Superiore, due vini “che esprimono in modi diversi la stessa vendemmia». Il Vòlpolo

Massimo Piccin

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matura per 14 mesi in barrique e per i successivi 6 in bottiglia. È un vino fresco e facile da bere, le note di frutta fresca sono ben marcate, ma nonostante la fruibilità ha un bel corpo a ricordare la reale Bolgheri da cui proviene. Il Sapaio invece è un vino più complesso e impegnativo, ha più corpo, è elegante e ha bisogno di qualche anno in più per arrivare ad esprimersi al meglio. Prima di essere immesso sul mercato richiede 18 mesi di invecchiamento in barrique e 8-10 mesi di affinamento in bottiglia. Nel Sapaio c’è la ricerca di un’espressione di longevità, nei limiti di vitigni che hanno solo 10 anni di vita. Ma l’idea in divenire c’è. Così in questi terreni più asciutti, sassosi e ricchi di argille in collina e alluvionali e freschi in pianura, le diverse varietà di uve del Podere Sapaio raggiungono maturazioni ottimali e subiscono gli stessi trattamenti. “Tutti i vigneti sono coltivati con la stessa

cura, cerchiamo di ottenere il meglio da ognuno di essi”. Simone Setti che si occupa della conduzione agronomica ed enologica dell’azienda ci spiega, infatti, che non esistono nella tenuta vigneti da Vòlpolo e vigneti da Sapaio. Nessuna distinzione viene fatta a priori. I vigneti vengono vendemmiati secondo la divisione dei terreni, vinificati a parte e, se adatti, imbarriccati. Le uve rimangono quindi separate per varietà e per vigna per 14 mesi e, dopo l’assaggio dell’enologo Alessandro Nannelli, si decide cosa è più indicato per il Vòlpolo e cosa per il Sapaio. Solo allora nascono i due blend di casa Sapaio. Il Vòlpolo che va in vasca e resta in bottiglia 7 mesi per l’affinamento prima di poter essere venduto e il Superiore Bolgheri che torna in barrique per altri 4 mesi. Due attitudini per un’unica filosofia: lasciare che la natura capricciosa scelga la sua strada. All’uomo non rimane che riconoscerla e

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v

interpretarla con maestria. Come quella dello staff che gira intorno alla figura di Massimo Piccin, che in poco più di un decennio è riuscito a far conoscere i suoi vini nel mondo e a ricevere riconoscimenti importanti come quelli di Decanter World Wine Record per le annate 2007, 2008, 2009 e 2010 o i Tre Bicchieri di Gambero Rosso per il Bolgheri Sapaio Superiore 2006 e 2007. 25 ettari di vigneti per 100.000 bottiglie di ottimo vino. Questa è la duplice anima di podere Sapaio, che divide la sua produzione tra 80.000 bottiglie di Vòlpolo e circa 20.000 di Sapaio, 30.000 nelle annate migliori. Ricerca, studio, scelta dei tempi, dei materiali e delle uve. Il lavoro attento e appassionato in vigna e in cantina, guidato dalla consulenza enologica di Carlo Ferrini, è davvero un omaggio alla nobiltà del vino, da sempre marcata dalla corona che contraddistingue tutta l’immagine di Podere Sapaio. MC

La corona, che contraddistingue l’immagine di Podere Sapaio, è un omaggio alla nobiltà del vino. 53


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matura per 14 mesi in barrique e per i successivi 6 in bottiglia. È un vino fresco e facile da bere, le note di frutta fresca sono ben marcate, ma nonostante la fruibilità ha un bel corpo a ricordare la reale Bolgheri da cui proviene. Il Sapaio invece è un vino più complesso e impegnativo, ha più corpo, è elegante e ha bisogno di qualche anno in più per arrivare ad esprimersi al meglio. Prima di essere immesso sul mercato richiede 18 mesi di invecchiamento in barrique e 8-10 mesi di affinamento in bottiglia. Nel Sapaio c’è la ricerca di un’espressione di longevità, nei limiti di vitigni che hanno solo 10 anni di vita. Ma l’idea in divenire c’è. Così in questi terreni più asciutti, sassosi e ricchi di argille in collina e alluvionali e freschi in pianura, le diverse varietà di uve del Podere Sapaio raggiungono maturazioni ottimali e subiscono gli stessi trattamenti. “Tutti i vigneti sono coltivati con la stessa

cura, cerchiamo di ottenere il meglio da ognuno di essi”. Simone Setti che si occupa della conduzione agronomica ed enologica dell’azienda ci spiega, infatti, che non esistono nella tenuta vigneti da Vòlpolo e vigneti da Sapaio. Nessuna distinzione viene fatta a priori. I vigneti vengono vendemmiati secondo la divisione dei terreni, vinificati a parte e, se adatti, imbarriccati. Le uve rimangono quindi separate per varietà e per vigna per 14 mesi e, dopo l’assaggio dell’enologo Alessandro Nannelli, si decide cosa è più indicato per il Vòlpolo e cosa per il Sapaio. Solo allora nascono i due blend di casa Sapaio. Il Vòlpolo che va in vasca e resta in bottiglia 7 mesi per l’affinamento prima di poter essere venduto e il Superiore Bolgheri che torna in barrique per altri 4 mesi. Due attitudini per un’unica filosofia: lasciare che la natura capricciosa scelga la sua strada. All’uomo non rimane che riconoscerla e

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interpretarla con maestria. Come quella dello staff che gira intorno alla figura di Massimo Piccin, che in poco più di un decennio è riuscito a far conoscere i suoi vini nel mondo e a ricevere riconoscimenti importanti come quelli di Decanter World Wine Record per le annate 2007, 2008, 2009 e 2010 o i Tre Bicchieri di Gambero Rosso per il Bolgheri Sapaio Superiore 2006 e 2007. 25 ettari di vigneti per 100.000 bottiglie di ottimo vino. Questa è la duplice anima di podere Sapaio, che divide la sua produzione tra 80.000 bottiglie di Vòlpolo e circa 20.000 di Sapaio, 30.000 nelle annate migliori. Ricerca, studio, scelta dei tempi, dei materiali e delle uve. Il lavoro attento e appassionato in vigna e in cantina, guidato dalla consulenza enologica di Carlo Ferrini, è davvero un omaggio alla nobiltà del vino, da sempre marcata dalla corona che contraddistingue tutta l’immagine di Podere Sapaio. MC

La corona, che contraddistingue l’immagine di Podere Sapaio, è un omaggio alla nobiltà del vino. 53


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Illy, il chicco è d’uva Andrea de Fabrizi

Le radici contadine del nonno Francesco rivivono oggi a Mastrojanni. Il successo viene dalla terra.

L

’ottobre del 2008 segna l’arrivo della famiglia Illy a Montalcino per intraprendere una nuova avventura nel campo del vino con l’acquisto dell’azienda Mastrojanni. Un rapporto, quello tra l’agricoltura e la famiglia Illy, che parte da lontano, dal nonno Francesco, che, come dice oggi il nipote Riccardo, Presidente del Gruppo Illy “comprò un’azienda agricola in Istria, vicino a Buje, a pochi chilometri da Trieste, che venne nazionalizzata dal governo jugoslavo alla fine della Seconda Guerra Mondiale”. L’amore per la campagna quindi come componente fondamentale nel DNA degli Illy, così come la curiosità e la volontà di innovarsi, distinguersi e scoprire nuovi settori dove investire, mai paghi 54

dei già ragguardevoli successi raggiunti. Senza dimenticare, appunto, le radici. È quando la famiglia Mastrojanni ha deciso di vendere l’azienda, che aveva fondato nel 1975 per investire nel territorio di Montalcino, gli Illy non hanno perso l’occasione: “Da un lato era un modo per riscoprire le nostre radici contadine, di nostro nonno prima di noi, dall’altro quello vitivinicolo è un settore importantissimo a livello globale, che produce ottimi fatturati, è in crescita, soprattutto per quanto riguarda i vini di qualità, e si apre continuamente verso nuovi Paesi”. Un investimento dunque anche e soprattutto per la prossima generazione, che, se assistita dai trend di mercato, potrà impegnarsi anche su questo fronte, partendo da un’azienda che, per Riccardo Illy, possiede tre qualità fondamentali: “Basta guardar fuori, una è la bellezza del territorio, la seconda la qualità dei pro55


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Illy, il chicco è d’uva Andrea de Fabrizi

Le radici contadine del nonno Francesco rivivono oggi a Mastrojanni. Il successo viene dalla terra.

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’ottobre del 2008 segna l’arrivo della famiglia Illy a Montalcino per intraprendere una nuova avventura nel campo del vino con l’acquisto dell’azienda Mastrojanni. Un rapporto, quello tra l’agricoltura e la famiglia Illy, che parte da lontano, dal nonno Francesco, che, come dice oggi il nipote Riccardo, Presidente del Gruppo Illy “comprò un’azienda agricola in Istria, vicino a Buje, a pochi chilometri da Trieste, che venne nazionalizzata dal governo jugoslavo alla fine della Seconda Guerra Mondiale”. L’amore per la campagna quindi come componente fondamentale nel DNA degli Illy, così come la curiosità e la volontà di innovarsi, distinguersi e scoprire nuovi settori dove investire, mai paghi 54

dei già ragguardevoli successi raggiunti. Senza dimenticare, appunto, le radici. È quando la famiglia Mastrojanni ha deciso di vendere l’azienda, che aveva fondato nel 1975 per investire nel territorio di Montalcino, gli Illy non hanno perso l’occasione: “Da un lato era un modo per riscoprire le nostre radici contadine, di nostro nonno prima di noi, dall’altro quello vitivinicolo è un settore importantissimo a livello globale, che produce ottimi fatturati, è in crescita, soprattutto per quanto riguarda i vini di qualità, e si apre continuamente verso nuovi Paesi”. Un investimento dunque anche e soprattutto per la prossima generazione, che, se assistita dai trend di mercato, potrà impegnarsi anche su questo fronte, partendo da un’azienda che, per Riccardo Illy, possiede tre qualità fondamentali: “Basta guardar fuori, una è la bellezza del territorio, la seconda la qualità dei pro55


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L’azienda Mastrojanni, dal nome del precedente proprietario, è oggi una delle 10 migliori aziende ilcinesi.

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dotti, la terza, importantissima, la qualità delle persone che qui lavorano, tutte, dalla vigna agli uffici”. Ma, da buon imprenditore, è anche realista e sa che sta parlando di un settore che richiede non poca pazienza, visto che vive di tempi lunghi e di risorse ingenti. Risorse che sono state impegnate nella realizzazione della nuova cantina d’invecchiamento: due anni di lavori per costruire una nuova ala progettata da Ernesto Illy, figlio di Francesco, oggi Presidente di Mastrojanni, e ispirata alla tradizione toscana del costruire - oggi bioarchitettura - tutta mattoni, calce e travi di castagno, senza uso di ferro, che può generare correnti galvaniche dannose per i tre lunghi anni

d’invecchiamento in botte del Brunello di Montalcino. Durante la visita alla nuova cantina, l’amministratore delegato Andrea Machetti, alla guida dell’azienda fin dal 1992, parla dell’aspetto produttivo: “Oggi abbiamo ventiquattro ettari di vigneto, quasi tutti piantati a Sangiovese, destinati in gran parte a produrre Brunello e in parte minore Rosso di Montalcino. L’area di Castelnuovo dell’Abate è unica sotto il profilo ampelografico, infatti la presenza del Monte Amiata e del fiume Orcia hanno donato a questa zona caratteristiche microclimatiche difficilmente riscontrabili altrove, con una varietà di terreni straordinaria che ci dona una grande materia prima, che noi cerchiamo solo di valorizzare al meglio vinificando in tini di cemento e invecchiando i vini esclusivamente nelle tradizionali botti grandi”. Maurizio Castelli, enologo a Mastrojanni da sempre, conferma “ Il nostro Brunello non è certo un vino da signorine: ha grande personalità, con tannini maschi, profondi, è contraddistinto da marcata mineralità e acidità, naturalmente destinato a un lungo invecchiamento”. “A queste caratteristiche prosegue Andrea Machetti - fa seguito un lavoro scrupoloso in vigna, con un limitato uso della chimica, secondo il Protocollo Integrato delle Regione Toscana. In cantina, le uve sono selezionate sul tavolo di cernita per essere poi diraspate e avviate alla fermentazione nella cantina storica”. E i risultati di questa meticolosa lavorazione sono eccellenti, tanto che Mastrojanni risulta costantemente tra le dieci migliori aziende ilcinesi. Riconoscimenti conquistati con la qualità delle bottiglie: dal Brunello Schiena d’Asino, prodotto in meno di cinquemila esemplari, al Brunello di Montalcino, al Rosso di Montalcino, all’IGT San Pio per finire col Botrys, il Moscadello ricavato da uve Moscato, Malvasia e Sauvignon Blanc.

Andrea Machetti, amministratore delegato Mastrojanni s.r.l.

Riccardo Illy, presidente gruppo Illy

Architetto Ernesto Illy, progettista della nuova cantina, e Francesco Illy, presidente Mastrojanni s.r.l.

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L’azienda Mastrojanni, dal nome del precedente proprietario, è oggi una delle 10 migliori aziende ilcinesi.

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dotti, la terza, importantissima, la qualità delle persone che qui lavorano, tutte, dalla vigna agli uffici”. Ma, da buon imprenditore, è anche realista e sa che sta parlando di un settore che richiede non poca pazienza, visto che vive di tempi lunghi e di risorse ingenti. Risorse che sono state impegnate nella realizzazione della nuova cantina d’invecchiamento: due anni di lavori per costruire una nuova ala progettata da Ernesto Illy, figlio di Francesco, oggi Presidente di Mastrojanni, e ispirata alla tradizione toscana del costruire - oggi bioarchitettura - tutta mattoni, calce e travi di castagno, senza uso di ferro, che può generare correnti galvaniche dannose per i tre lunghi anni

d’invecchiamento in botte del Brunello di Montalcino. Durante la visita alla nuova cantina, l’amministratore delegato Andrea Machetti, alla guida dell’azienda fin dal 1992, parla dell’aspetto produttivo: “Oggi abbiamo ventiquattro ettari di vigneto, quasi tutti piantati a Sangiovese, destinati in gran parte a produrre Brunello e in parte minore Rosso di Montalcino. L’area di Castelnuovo dell’Abate è unica sotto il profilo ampelografico, infatti la presenza del Monte Amiata e del fiume Orcia hanno donato a questa zona caratteristiche microclimatiche difficilmente riscontrabili altrove, con una varietà di terreni straordinaria che ci dona una grande materia prima, che noi cerchiamo solo di valorizzare al meglio vinificando in tini di cemento e invecchiando i vini esclusivamente nelle tradizionali botti grandi”. Maurizio Castelli, enologo a Mastrojanni da sempre, conferma “ Il nostro Brunello non è certo un vino da signorine: ha grande personalità, con tannini maschi, profondi, è contraddistinto da marcata mineralità e acidità, naturalmente destinato a un lungo invecchiamento”. “A queste caratteristiche prosegue Andrea Machetti - fa seguito un lavoro scrupoloso in vigna, con un limitato uso della chimica, secondo il Protocollo Integrato delle Regione Toscana. In cantina, le uve sono selezionate sul tavolo di cernita per essere poi diraspate e avviate alla fermentazione nella cantina storica”. E i risultati di questa meticolosa lavorazione sono eccellenti, tanto che Mastrojanni risulta costantemente tra le dieci migliori aziende ilcinesi. Riconoscimenti conquistati con la qualità delle bottiglie: dal Brunello Schiena d’Asino, prodotto in meno di cinquemila esemplari, al Brunello di Montalcino, al Rosso di Montalcino, all’IGT San Pio per finire col Botrys, il Moscadello ricavato da uve Moscato, Malvasia e Sauvignon Blanc.

Andrea Machetti, amministratore delegato Mastrojanni s.r.l.

Riccardo Illy, presidente gruppo Illy

Architetto Ernesto Illy, progettista della nuova cantina, e Francesco Illy, presidente Mastrojanni s.r.l.

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CONTROCORRENTE

CONTROCORRENTE

Vendemmiare in tempo di crisi Gianfranco Soldera

Gianfranco Soldera continua su questa rivista le riflessioni già avviate su “Il Chianti e le terre del Vino”, affrontando, in particolare, il tema della qualità. Se dovessimo numerare i capitoli dei suoi appunti, questo sarebbe il trentesimo.

L

a vendemmia è terminata. L’annata viticola è stata per me la più difficile delle trentasette fatte a Case Basse: siamo passati da novembre 2010, con quantità di piogge superiori a quante cadevano in tutto un anno, a un’estate (luglio – agosto – settembre) con quattro temporali di scarsissima portata; dicembre – gennaio con tantissima pioggia e primavera con pochissima pioggia. Sino al 18 agosto avevamo un’uva bellissima, sana, che aveva iniziato a invaiare con circa dieci giorni d’anticipo, con foglie verdissime ben stese, cariche di sostanze (ho chiamato amici vignaioli a vedere com’era bella la vigna nel suo complesso); nessuna malattia, nessun parassita; ho lasciato l’uva coperta dalle foglie, in attesa di toglierle dopo le piogge che, di solito, a Case Basse rompono l’estate verso il 20/25 di agosto; ci eravamo complimentati coi professori che seguono gli studi e le sperimentazioni nell’incontro annuale di fine luglio per l’ottimo andamento sta-

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gionale. Premesso tutto ciò, il 19/20/21 agosto il calore del sole è stato così forte che, oltre il 50% dell’uva, in tutte le mie vigne, presentava sintomi di appassimento, cosicché, da annata fantastica, si è passati ad annata difficilissima. Devo ringraziare Gabriele e Pietrandrea Ficai, che sono riusciti a trovare una diraspatrice (che io cercavo da anni, senza mai trovare), che mantiene gli acini integri e li seleziona ottimamente, eliminando, in questo caso, quelli passiti; ciò mi ha permesso di scegliere in modo ottimale l’uva, anche con un controllo manuale dopo la diraspatura; il non utilizzo di pompe per il trasporto nei tini degli acini interi ha migliorato ulteriormente la qualità del mosto e facilitato il lavoro dei miei lieviti autoctoni naturali. Devo inoltre ringraziare il prof. Vincenzini che, nell’ambito delle convenzioni di ricerca in corso con Case Basse, ha svolto con le mie uve operazioni di microvinificazioni anticipate, in modo che potessimo avere indicazioni sia per la data della raccolta sia per quali acini dovessero entrare nei tini di fermentazio-

ne. Anche quest’anno abbiamo imparato tanto, anche grazie al prof. Fregoni, che sempre ci stimola a nuove sperimentazioni. Il tema di assoluta attualità è la crisi economico-finanziaria che colpisce tutti i paesi occidentali; l’Italia è particolarmente fragile ed esposta per i motivi che elenco di seguito: sono circa 20 anni che 1 delocalizziamo buona parte della nostra produzione industriale con queste conseguenze: 1 le industrie normal a mente debbono rinnovare e ammortizzare i macchinari ogni cinque anni, anche perché la tecnologia cambia e produce strumenti migliori e più efficienti; con la delocalizzazione abbiamo mandato all’estero macchinari che non sono stati sostituiti in questo periodo e abbiamo prodotto manufatti peggiorati nel tempo e perciò sempre meno competitivi sui mercati mondiali. La delocalizzazione 1 b ha fatto sì che la professionalità dei nostri operai e dei nostri tecnici si perdesse, non avendo la possibilità di rinnovarsi in assenza di industrie che sono state delocalizzate. 1 Un’ulteriore perdita c è data dalla trasformazione di questa forza lavoro da produttori a “passa carte” (è aumentato così notevolmente il peso del settore pubblico improduttivo). La perdita d’immagine 2 è altra causa importantissima di disastri economici: l’Italia sta perdendo velocissimamente tutta l’immagine politica, economica, turistica, industriale che faticosamente gli italiani avevano ricostruito nel Dopoguerra (Olivetti col primo computer - Natta

con la chimica – gli elettrodomestici leader assoluti – primi nel mondo per il turismo, per la moda e tanti altri settori, compresa la ricerca). In questo momento siamo agli sgoccioli della credibilità spendibile in tutti i campi; con un governo che non governa e rimanda continuamente la soluzione dei gravissimi problemi, con la Confindustria che dà i sette giorni al governo, con la Fiat che esce da Confindustria, col Presidente del Consiglio che non sceglie chi deve essere il Governatore della Banca d’Italia, con la Chiesa che invita la classe politica italiana a comportamenti diversi. Tutto ciò e molto altro - che purtroppo è ogni giorno sui giornali di tutto il mondo - fanno sì che le agenzie di rating ci declassino, che la differenza di interessi tra i nostri titoli di Stato e quelli tedeschi sia notevolmente alta, che i mercati esteri siano diffidenti nei confronti dei nostri prodotti. C’è un unico modo, a mio avviso, per invertire questa situazione negativa: lavorare meglio e di più, diminuire i costi dei nostri prodotti, che dovranno essere fatti in Italia. Nel 2009, durante la crisi mondiale dell’auto, Toyota riuscì a superare bene la situazione senza interventi dello Stato, decidendo di diminui-

re a tutti i dipendenti e/o collaboratori i compensi del 10%; la Volkswagen, che non ha delocalizzato, aumenterà nei prossimi tre anni di 50mila unità i suoi occupati in Germania. Certamente bisognerà studiare molto di più e meglio, bisognerà innovare e sviluppare al meglio la nostra inventiva, bisognerà dimostrare al mondo che l’Italia è ritornata affidabile, responsabile, competitiva nel più breve tempo possibile, pena una rapida decadenza culturale, economica, industriale, finanziaria, sociale, disastrosa per i nostri figli e i nostri nipoti. Voglio riportare, dal Corriere della Sera del 15 aprile 2011, un’indagine svolta da una società di consulenza aziendale che, rifacendosi a Peter Drucker, affermava l’assonanza tra l’organizzazione aziendale e un’orchestra sinfonica, evidenziava i quattro paradigmi della musica occidentale: a) Ritmo (cultura delle regole) b) Melodia (innovazione) c) Timbro (identità e brand) d) Armonia (organizzazione) individuando i migliori risultati aziendali quando l’orchestra (manager) suona con armonia, ritmo, melodia e timbro (cioè quando tutti i vogatori remano bene e insieme per raggiungere una meta ben precisa). Cosa ne pensate?

Solo ritrovando gli elementi essenziali dell’armonia si possono ottenere i risultati per uscire dal tunnel.

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Vendemmiare in tempo di crisi Gianfranco Soldera

Gianfranco Soldera continua su questa rivista le riflessioni già avviate su “Il Chianti e le terre del Vino”, affrontando, in particolare, il tema della qualità. Se dovessimo numerare i capitoli dei suoi appunti, questo sarebbe il trentesimo.

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a vendemmia è terminata. L’annata viticola è stata per me la più difficile delle trentasette fatte a Case Basse: siamo passati da novembre 2010, con quantità di piogge superiori a quante cadevano in tutto un anno, a un’estate (luglio – agosto – settembre) con quattro temporali di scarsissima portata; dicembre – gennaio con tantissima pioggia e primavera con pochissima pioggia. Sino al 18 agosto avevamo un’uva bellissima, sana, che aveva iniziato a invaiare con circa dieci giorni d’anticipo, con foglie verdissime ben stese, cariche di sostanze (ho chiamato amici vignaioli a vedere com’era bella la vigna nel suo complesso); nessuna malattia, nessun parassita; ho lasciato l’uva coperta dalle foglie, in attesa di toglierle dopo le piogge che, di solito, a Case Basse rompono l’estate verso il 20/25 di agosto; ci eravamo complimentati coi professori che seguono gli studi e le sperimentazioni nell’incontro annuale di fine luglio per l’ottimo andamento sta-

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gionale. Premesso tutto ciò, il 19/20/21 agosto il calore del sole è stato così forte che, oltre il 50% dell’uva, in tutte le mie vigne, presentava sintomi di appassimento, cosicché, da annata fantastica, si è passati ad annata difficilissima. Devo ringraziare Gabriele e Pietrandrea Ficai, che sono riusciti a trovare una diraspatrice (che io cercavo da anni, senza mai trovare), che mantiene gli acini integri e li seleziona ottimamente, eliminando, in questo caso, quelli passiti; ciò mi ha permesso di scegliere in modo ottimale l’uva, anche con un controllo manuale dopo la diraspatura; il non utilizzo di pompe per il trasporto nei tini degli acini interi ha migliorato ulteriormente la qualità del mosto e facilitato il lavoro dei miei lieviti autoctoni naturali. Devo inoltre ringraziare il prof. Vincenzini che, nell’ambito delle convenzioni di ricerca in corso con Case Basse, ha svolto con le mie uve operazioni di microvinificazioni anticipate, in modo che potessimo avere indicazioni sia per la data della raccolta sia per quali acini dovessero entrare nei tini di fermentazio-

ne. Anche quest’anno abbiamo imparato tanto, anche grazie al prof. Fregoni, che sempre ci stimola a nuove sperimentazioni. Il tema di assoluta attualità è la crisi economico-finanziaria che colpisce tutti i paesi occidentali; l’Italia è particolarmente fragile ed esposta per i motivi che elenco di seguito: sono circa 20 anni che 1 delocalizziamo buona parte della nostra produzione industriale con queste conseguenze: 1 le industrie normal a mente debbono rinnovare e ammortizzare i macchinari ogni cinque anni, anche perché la tecnologia cambia e produce strumenti migliori e più efficienti; con la delocalizzazione abbiamo mandato all’estero macchinari che non sono stati sostituiti in questo periodo e abbiamo prodotto manufatti peggiorati nel tempo e perciò sempre meno competitivi sui mercati mondiali. La delocalizzazione 1 b ha fatto sì che la professionalità dei nostri operai e dei nostri tecnici si perdesse, non avendo la possibilità di rinnovarsi in assenza di industrie che sono state delocalizzate. 1 Un’ulteriore perdita c è data dalla trasformazione di questa forza lavoro da produttori a “passa carte” (è aumentato così notevolmente il peso del settore pubblico improduttivo). La perdita d’immagine 2 è altra causa importantissima di disastri economici: l’Italia sta perdendo velocissimamente tutta l’immagine politica, economica, turistica, industriale che faticosamente gli italiani avevano ricostruito nel Dopoguerra (Olivetti col primo computer - Natta

con la chimica – gli elettrodomestici leader assoluti – primi nel mondo per il turismo, per la moda e tanti altri settori, compresa la ricerca). In questo momento siamo agli sgoccioli della credibilità spendibile in tutti i campi; con un governo che non governa e rimanda continuamente la soluzione dei gravissimi problemi, con la Confindustria che dà i sette giorni al governo, con la Fiat che esce da Confindustria, col Presidente del Consiglio che non sceglie chi deve essere il Governatore della Banca d’Italia, con la Chiesa che invita la classe politica italiana a comportamenti diversi. Tutto ciò e molto altro - che purtroppo è ogni giorno sui giornali di tutto il mondo - fanno sì che le agenzie di rating ci declassino, che la differenza di interessi tra i nostri titoli di Stato e quelli tedeschi sia notevolmente alta, che i mercati esteri siano diffidenti nei confronti dei nostri prodotti. C’è un unico modo, a mio avviso, per invertire questa situazione negativa: lavorare meglio e di più, diminuire i costi dei nostri prodotti, che dovranno essere fatti in Italia. Nel 2009, durante la crisi mondiale dell’auto, Toyota riuscì a superare bene la situazione senza interventi dello Stato, decidendo di diminui-

re a tutti i dipendenti e/o collaboratori i compensi del 10%; la Volkswagen, che non ha delocalizzato, aumenterà nei prossimi tre anni di 50mila unità i suoi occupati in Germania. Certamente bisognerà studiare molto di più e meglio, bisognerà innovare e sviluppare al meglio la nostra inventiva, bisognerà dimostrare al mondo che l’Italia è ritornata affidabile, responsabile, competitiva nel più breve tempo possibile, pena una rapida decadenza culturale, economica, industriale, finanziaria, sociale, disastrosa per i nostri figli e i nostri nipoti. Voglio riportare, dal Corriere della Sera del 15 aprile 2011, un’indagine svolta da una società di consulenza aziendale che, rifacendosi a Peter Drucker, affermava l’assonanza tra l’organizzazione aziendale e un’orchestra sinfonica, evidenziava i quattro paradigmi della musica occidentale: a) Ritmo (cultura delle regole) b) Melodia (innovazione) c) Timbro (identità e brand) d) Armonia (organizzazione) individuando i migliori risultati aziendali quando l’orchestra (manager) suona con armonia, ritmo, melodia e timbro (cioè quando tutti i vogatori remano bene e insieme per raggiungere una meta ben precisa). Cosa ne pensate?

Solo ritrovando gli elementi essenziali dell’armonia si possono ottenere i risultati per uscire dal tunnel.

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Monica Granchi

Si colmi il calice Protagonisti del buon bere, i bicchieri da degustazione esaltano le proprietĂ del vino e amplificano la percezione sensoriale.

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Monica Granchi

Si colmi il calice Protagonisti del buon bere, i bicchieri da degustazione esaltano le proprietĂ del vino e amplificano la percezione sensoriale.

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02

01 01

Calice Bianco Sant’Antimo. I profumi liberati dal vino vengono raccolti dall’alto camino per la massima espressione del frutto al naso

04

02

Calice Brunello. La pancia, abbastanza alta, dà la massima espressività anche alle componenti aromatiche più restie a concedersi

03

Calice Moscatello Frizzante. Deformazione del flute, concede un’ampia superficie del vino e un’altezza sufficiente per il prolungamento del perlage

04 03

Calice Moscatello Vendemmia Tardiva. Soddisfa le esigenze del prodotto passito esaltandone qualità cromatiche, profumi e pienezza del gusto

Linea bicchieri da degustazione Arnolfo di Cambio

62

* S

i colmi il calice di vino eletto era l’invito che Lady Macbeth rivolgeva ai suoi ospiti nell’opera verdiana. Si sa. Quando si vuol gustare un buon bicchiere di vino, tutta la nostra attenzione è rivolta a lui. Il vino, appunto. Azienda, zona, annata. E poi denominazione, bouquet, proprietà organolettiche e molto altro per i più esperti. Non tutti, però, sanno che, per dirla con Verdi, c’è calice e calice. Il bicchiere è, in effetti, l’altro vero protagonista del buon bere. Ormai da decenni aziende di tutto il mondo si tengono al passo col l’universo dell’enologia fornendo prototipi di bicchieri che sono il frutto di ricerche e sperimentazioni su forme e materiali. Se le vetrine ci invitano all’acquisto facendo leva sulla particolarità dei colori e l’originalità delle fogge che appagano il nostro senso estetico e, spesso, creano la giusta atmosfera del nostro living, le aziende di vetro e cristallo puntano dritte al gusto. È così. Anche se potrà

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sembrarvi strano, forma, peso, dimensione, spessore, trasparenza e addirittura quantità di materia prima, possono rendere diverso il vino al vostro olfatto e al vostro palato. Se più o meno tutti sanno che si deve evitare di scaldare il vino tenendo il bicchiere con la mano aperta (lo stelo non è dunque un mero abbellimento), molti ignorano che il classico, panciuto Napoleon, ormai d’abitudine per la degustazione del brandy, non è adatto ad una alcolicità che, superati i 40 gradi, diventa molto volatile e produce un irritante sensazione di bruciore per il naso. E così via, più nel dettaglio. Se la trasparenza incide sulla percezione del colore e, dunque, sulla valutazione del vino, lo spessore incide sulla temperatura e l’apertura sulla capacità di trattenere gli aromi. Una realtà tutta da scoprire, quella dei bicchieri da degustazione, che conta sempre più estimatori. Certo, non è facile orientarsi ma, come in ogni ricerca che si rispetti, anche nella ricerca del gusto la fatica fa parte del piacere. Se di sicuro non potete anda-


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Calice Bianco Sant’Antimo. I profumi liberati dal vino vengono raccolti dall’alto camino per la massima espressione del frutto al naso

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Calice Brunello. La pancia, abbastanza alta, dà la massima espressività anche alle componenti aromatiche più restie a concedersi

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Calice Moscatello Frizzante. Deformazione del flute, concede un’ampia superficie del vino e un’altezza sufficiente per il prolungamento del perlage

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Calice Moscatello Vendemmia Tardiva. Soddisfa le esigenze del prodotto passito esaltandone qualità cromatiche, profumi e pienezza del gusto

Linea bicchieri da degustazione Arnolfo di Cambio

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i colmi il calice di vino eletto era l’invito che Lady Macbeth rivolgeva ai suoi ospiti nell’opera verdiana. Si sa. Quando si vuol gustare un buon bicchiere di vino, tutta la nostra attenzione è rivolta a lui. Il vino, appunto. Azienda, zona, annata. E poi denominazione, bouquet, proprietà organolettiche e molto altro per i più esperti. Non tutti, però, sanno che, per dirla con Verdi, c’è calice e calice. Il bicchiere è, in effetti, l’altro vero protagonista del buon bere. Ormai da decenni aziende di tutto il mondo si tengono al passo col l’universo dell’enologia fornendo prototipi di bicchieri che sono il frutto di ricerche e sperimentazioni su forme e materiali. Se le vetrine ci invitano all’acquisto facendo leva sulla particolarità dei colori e l’originalità delle fogge che appagano il nostro senso estetico e, spesso, creano la giusta atmosfera del nostro living, le aziende di vetro e cristallo puntano dritte al gusto. È così. Anche se potrà

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sembrarvi strano, forma, peso, dimensione, spessore, trasparenza e addirittura quantità di materia prima, possono rendere diverso il vino al vostro olfatto e al vostro palato. Se più o meno tutti sanno che si deve evitare di scaldare il vino tenendo il bicchiere con la mano aperta (lo stelo non è dunque un mero abbellimento), molti ignorano che il classico, panciuto Napoleon, ormai d’abitudine per la degustazione del brandy, non è adatto ad una alcolicità che, superati i 40 gradi, diventa molto volatile e produce un irritante sensazione di bruciore per il naso. E così via, più nel dettaglio. Se la trasparenza incide sulla percezione del colore e, dunque, sulla valutazione del vino, lo spessore incide sulla temperatura e l’apertura sulla capacità di trattenere gli aromi. Una realtà tutta da scoprire, quella dei bicchieri da degustazione, che conta sempre più estimatori. Certo, non è facile orientarsi ma, come in ogni ricerca che si rispetti, anche nella ricerca del gusto la fatica fa parte del piacere. Se di sicuro non potete anda-


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d re in giro muniti di bilancia e righello, potete senz’altro prestare attenzione alla prima delle indicazioni fornita dal bicchiere stesso: la denominazione CEE per i vetri di piombo certificata da un’apposita etichetta. Per essere tale, il cristallo deve avere almeno il 24% di piombo; nel caso del cristallo superiore, il piombo supera il 30%. È questo che ne caratterizza la brillantezza, l’elevato indice di rifrazione della luce e il basso punto di “rammollimento” (temperatura e pressione alle quali il vetro collassa). Per orientare i vostri acquisti, forniamo di seguito un piccolo elenco di aziende e di relative linee di bicchieri da degustazione impegnate nella ricerca della “forma perfetta del vino”. Tutte le linee presentano una scelta di diverse tipologie di bicchiere per tipologie di vino: il flute per cogliere la persistenza e l’evoluzione delle bollicine dello spumante secco; la coppa per apprezzare la fragranza dello spumante dolce; il calice svasato per concentrare i profumi e convogliare gli aromi ai lati

della lingua, adatto ai vini bianchi giovani e freschi; il calice ampio che si stringe ai bordi per i bianchi più strutturati di cui si valorizza la concentrazione dei profumi; il calice ampio e aperto adatto alla delicatezza dei rosati; il calice allungato per i vini frizzanti o i rossi giovani; il ballon che permette l’ossigenarsi dei rossi strutturati e invecchiati; il piccolo calice da dessert. Insomma, ad ogni vino il suo bicchiere. Questo sembra essere il motto di uno dei pionieri del settore, Claus Riedel, che, nel 1973, con il vaglio dell’Associazione Italiana Sommeliers, presentò la sua prima serie di bicchieri da degustazione composta da 10 pezzi. La linea Sommeliers dell’azienda Riedel è ancora oggi la più prestigiosa e costosa linea di bicchieri da degustazione. Tra le linee internazionali più conosciute e apprezzate per perfezione formale e varietà di scelta, ricordiamo la Oenologie della Baccarat, azienda fondata su concessione di Luigi XV, nota per il suo cristallo, e le molte linee della Schott Zwiesel

così diversificate da offrire tutto ciò di cui si può avere bisogno. Non mancano anche linee di bicchieri da degustazione attente ad un giusto equilibrio tra qualità e prezzo come quella della Bottega del vino Crystal di Chicago, azienda sviluppatasi da un’osteria veronese nata alla fine dell’Ottocento. Molte sono, naturalmente, le linee made in Italy dedicate al vino. Tra tutte, la linea pensata appositamente per i vini toscani dalla Arnolfo di Cambio di Colle Val d’Elsa, cittadina del cristallo che annovera tra le sue linee di bicchieri anche quelle dei maestri artigiani della Vilca; e ancora la linea Accademia del Vino ideata dalla Vetreria Luigi Bormioli di Parma e quella Esperienze della Zafferano di Federico de Majo in cui i calici sono avvolti, alla base, da ondulazioni del vetro sonoro che consentono di osservare meglio i riflessi del vino e di ossigenarlo maggiormente. E allora, non ci resta che brindare e dire con lady Macbeth: si colmi il calice di vino eletto, nasca il diletto muoia il dolor.

Bicchieri da Cognac 64

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d re in giro muniti di bilancia e righello, potete senz’altro prestare attenzione alla prima delle indicazioni fornita dal bicchiere stesso: la denominazione CEE per i vetri di piombo certificata da un’apposita etichetta. Per essere tale, il cristallo deve avere almeno il 24% di piombo; nel caso del cristallo superiore, il piombo supera il 30%. È questo che ne caratterizza la brillantezza, l’elevato indice di rifrazione della luce e il basso punto di “rammollimento” (temperatura e pressione alle quali il vetro collassa). Per orientare i vostri acquisti, forniamo di seguito un piccolo elenco di aziende e di relative linee di bicchieri da degustazione impegnate nella ricerca della “forma perfetta del vino”. Tutte le linee presentano una scelta di diverse tipologie di bicchiere per tipologie di vino: il flute per cogliere la persistenza e l’evoluzione delle bollicine dello spumante secco; la coppa per apprezzare la fragranza dello spumante dolce; il calice svasato per concentrare i profumi e convogliare gli aromi ai lati

della lingua, adatto ai vini bianchi giovani e freschi; il calice ampio che si stringe ai bordi per i bianchi più strutturati di cui si valorizza la concentrazione dei profumi; il calice ampio e aperto adatto alla delicatezza dei rosati; il calice allungato per i vini frizzanti o i rossi giovani; il ballon che permette l’ossigenarsi dei rossi strutturati e invecchiati; il piccolo calice da dessert. Insomma, ad ogni vino il suo bicchiere. Questo sembra essere il motto di uno dei pionieri del settore, Claus Riedel, che, nel 1973, con il vaglio dell’Associazione Italiana Sommeliers, presentò la sua prima serie di bicchieri da degustazione composta da 10 pezzi. La linea Sommeliers dell’azienda Riedel è ancora oggi la più prestigiosa e costosa linea di bicchieri da degustazione. Tra le linee internazionali più conosciute e apprezzate per perfezione formale e varietà di scelta, ricordiamo la Oenologie della Baccarat, azienda fondata su concessione di Luigi XV, nota per il suo cristallo, e le molte linee della Schott Zwiesel

così diversificate da offrire tutto ciò di cui si può avere bisogno. Non mancano anche linee di bicchieri da degustazione attente ad un giusto equilibrio tra qualità e prezzo come quella della Bottega del vino Crystal di Chicago, azienda sviluppatasi da un’osteria veronese nata alla fine dell’Ottocento. Molte sono, naturalmente, le linee made in Italy dedicate al vino. Tra tutte, la linea pensata appositamente per i vini toscani dalla Arnolfo di Cambio di Colle Val d’Elsa, cittadina del cristallo che annovera tra le sue linee di bicchieri anche quelle dei maestri artigiani della Vilca; e ancora la linea Accademia del Vino ideata dalla Vetreria Luigi Bormioli di Parma e quella Esperienze della Zafferano di Federico de Majo in cui i calici sono avvolti, alla base, da ondulazioni del vetro sonoro che consentono di osservare meglio i riflessi del vino e di ossigenarlo maggiormente. E allora, non ci resta che brindare e dire con lady Macbeth: si colmi il calice di vino eletto, nasca il diletto muoia il dolor.

Bicchieri da Cognac 64

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IVV, eccellenza e sostenibilità Il miglior vetro per trasparenza e brillantezza è quello che l’Industria Vetraria Valdarnese realizza unendo passato e futuro.

R

ispetto per l ’ a m biente e per la sicurezza delle persone. La mission di IVV, Industria Vetraia Valdarnese è racchiusa in questi intenti. L’azienda toscana, fondata nel 1952 per volontà di un gruppo di esperti maestri vetrai, si è affermata negli anni tra i protagonisti europei nella produzione del vetro soffiato e fatto a mano. Oggi riesce a coniugare le antiche tecniche di tradizione artigiana e il gusto estetico delle creazioni con la ricerca e il controllo dei processi di produzione, per fare dei propri oggetti interpretazioni di responsabilità sociale ed etica. Così il maestro vetraio plasmando l’oggetto gli confe-

risce il carattere e infonde alla forma una leggerezza e un’energia che solo la passione artigiana può donare. Dall’altra la selezione delle materie prime e la ricerca tecnologica nei processi di produzione, seguono il concetto di eco sostenibilità che la cooperativa sta perseguendo. Il risultato sono le creazioni estrose del design IVV realizzate per reinterpretare lo spazio e la tavola. Le linee da degustazione Cantico, Punto gusto e I distillati rispondono non solo a questi dictat, ma anche all’esigenza più goduriosa e non banale di assaporare al meglio vini, spumanti, campagne e stillati. Svasature, vetro cristallino, studio delle forme e degli spessori: tutte scelte fondamentali per la creazione di oggetti funzionali alla degustazione e che influiscono sul momento del 66

bere e sulle sensazioni che restituisce. Ossigenazione, percezione visiva, temperatura e diffusione degli aromi sono strettamente e incredibilmente legati alle caratteristiche dei calici e alla ricerca e maestria con cui vengono realizzati. L’incontro tra la sapienza artigianale e l’innovazione dei processi raggiunge in IVV il risultato e ha così generato in cinquant’anni lo stile dell’azienda, riconoscibile in ogni nuova collezione. Una produzione ininterrotta che porta in sé la storia dell’impresa toscana, in un’ideale continuità tra passato e futuro. Un ponte temporale che consente di immaginare sempre nuovi progetti che si aprono alle culture del mondo senza dimenticare la propria identità. Collezioni che portano il segno di uno stile inconfondibile. MC


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IVV, eccellenza e sostenibilità Il miglior vetro per trasparenza e brillantezza è quello che l’Industria Vetraria Valdarnese realizza unendo passato e futuro.

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ispetto per l ’ a m biente e per la sicurezza delle persone. La mission di IVV, Industria Vetraia Valdarnese è racchiusa in questi intenti. L’azienda toscana, fondata nel 1952 per volontà di un gruppo di esperti maestri vetrai, si è affermata negli anni tra i protagonisti europei nella produzione del vetro soffiato e fatto a mano. Oggi riesce a coniugare le antiche tecniche di tradizione artigiana e il gusto estetico delle creazioni con la ricerca e il controllo dei processi di produzione, per fare dei propri oggetti interpretazioni di responsabilità sociale ed etica. Così il maestro vetraio plasmando l’oggetto gli confe-

risce il carattere e infonde alla forma una leggerezza e un’energia che solo la passione artigiana può donare. Dall’altra la selezione delle materie prime e la ricerca tecnologica nei processi di produzione, seguono il concetto di eco sostenibilità che la cooperativa sta perseguendo. Il risultato sono le creazioni estrose del design IVV realizzate per reinterpretare lo spazio e la tavola. Le linee da degustazione Cantico, Punto gusto e I distillati rispondono non solo a questi dictat, ma anche all’esigenza più goduriosa e non banale di assaporare al meglio vini, spumanti, campagne e stillati. Svasature, vetro cristallino, studio delle forme e degli spessori: tutte scelte fondamentali per la creazione di oggetti funzionali alla degustazione e che influiscono sul momento del 66

bere e sulle sensazioni che restituisce. Ossigenazione, percezione visiva, temperatura e diffusione degli aromi sono strettamente e incredibilmente legati alle caratteristiche dei calici e alla ricerca e maestria con cui vengono realizzati. L’incontro tra la sapienza artigianale e l’innovazione dei processi raggiunge in IVV il risultato e ha così generato in cinquant’anni lo stile dell’azienda, riconoscibile in ogni nuova collezione. Una produzione ininterrotta che porta in sé la storia dell’impresa toscana, in un’ideale continuità tra passato e futuro. Un ponte temporale che consente di immaginare sempre nuovi progetti che si aprono alle culture del mondo senza dimenticare la propria identità. Collezioni che portano il segno di uno stile inconfondibile. MC


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vivere slow

Hamburger vs supplì Marco Bolasco

Il re della cucina italiana, Gualtiero Marchesi, cambia le carte in tavola e firma il più famoso panino statunitense. Sarà vera concorrenza? Crediamo di no. Il nostro più tradizionale supplì basterebbe da solo a rubargli lo scettro.

C

erchiamo e cercheremo, in queste poche righe, di affrontare temi strettamente legati al nostro modo di mangiare e vivere il mondo del cibo e del vino. Che tanto fa parte della nostra cultura materiale quanto continua ad essere poco ragionato: presente com’è, ovunque, nei media ma spesso in maniera superficiale. Partiamo allora da una delle notizie più “cliccate” e discusse delle ultime due settimane: Gualtiero Marchesi, il cuoco che più ha dato alla recente storia dell’alta cucina italiana, si è dato al fast food. Da qualche giorno cura personalmente la ricetta di due nuovi panini della ben nota catena statunitense. La cosa peraltro avviene nello stesso paese in cui un ministro dell’agricoltura ha sostenuto personalmente la campagna per il rilancio di un altro sandwich, a base di prodotti italiani. Ora, considerato che finalmente - dopo che mezzo mondo invidiava il nostro patrimonio gastronomico mentre noi continuavamo a relegarlo al

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rango di peccatuccio golosoabbiamo capito quanto e cosa vale la cultura e la ricchezza che gira intorno al mondo del cibo e del vino, resta da capire meglio come possiamo valorizzarlo. Possibile che dobbiamo rincorrere gli hamburger? Siamo davvero convinti che è sufficiente sostituire una sottiletta con un formaggio DOP o aggiustare l’abbinamento di una salsa per rendere speciale il panino del fast-food? Siccome il panino l’ho assaggiato posso dire serenamente che non rende giustizia al genio di Marchesi, alla sua idea di cucina “bella”, colta e raffinata, e - soprattutto - ha ben poco di italiano. Anche perché è e resta un hamburger american style. Faccio allora una proposta al Ministro del Turismo, che con Marchesi ha lavorato e sta lavorando su vari fronti: perché non offre al “divino” lo stesso compenso che gli offrono gli americani e non gli propone di rilanciare invece l’immagine di quella meravigliosa polpetta di riso al pomodoro chiamata supplì? A Roma ci sono almeno un paio di milioni di persone, tra romani e turisti, che non vedono l’ora di assaggiarlo.


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Hamburger vs supplì Marco Bolasco

Il re della cucina italiana, Gualtiero Marchesi, cambia le carte in tavola e firma il più famoso panino statunitense. Sarà vera concorrenza? Crediamo di no. Il nostro più tradizionale supplì basterebbe da solo a rubargli lo scettro.

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erchiamo e cercheremo, in queste poche righe, di affrontare temi strettamente legati al nostro modo di mangiare e vivere il mondo del cibo e del vino. Che tanto fa parte della nostra cultura materiale quanto continua ad essere poco ragionato: presente com’è, ovunque, nei media ma spesso in maniera superficiale. Partiamo allora da una delle notizie più “cliccate” e discusse delle ultime due settimane: Gualtiero Marchesi, il cuoco che più ha dato alla recente storia dell’alta cucina italiana, si è dato al fast food. Da qualche giorno cura personalmente la ricetta di due nuovi panini della ben nota catena statunitense. La cosa peraltro avviene nello stesso paese in cui un ministro dell’agricoltura ha sostenuto personalmente la campagna per il rilancio di un altro sandwich, a base di prodotti italiani. Ora, considerato che finalmente - dopo che mezzo mondo invidiava il nostro patrimonio gastronomico mentre noi continuavamo a relegarlo al

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rango di peccatuccio golosoabbiamo capito quanto e cosa vale la cultura e la ricchezza che gira intorno al mondo del cibo e del vino, resta da capire meglio come possiamo valorizzarlo. Possibile che dobbiamo rincorrere gli hamburger? Siamo davvero convinti che è sufficiente sostituire una sottiletta con un formaggio DOP o aggiustare l’abbinamento di una salsa per rendere speciale il panino del fast-food? Siccome il panino l’ho assaggiato posso dire serenamente che non rende giustizia al genio di Marchesi, alla sua idea di cucina “bella”, colta e raffinata, e - soprattutto - ha ben poco di italiano. Anche perché è e resta un hamburger american style. Faccio allora una proposta al Ministro del Turismo, che con Marchesi ha lavorato e sta lavorando su vari fronti: perché non offre al “divino” lo stesso compenso che gli offrono gli americani e non gli propone di rilanciare invece l’immagine di quella meravigliosa polpetta di riso al pomodoro chiamata supplì? A Roma ci sono almeno un paio di milioni di persone, tra romani e turisti, che non vedono l’ora di assaggiarlo.


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NEWS

Prada entra in borsa e festeggia con un tour mondiale: ad accompagnarla l’Oreno 2008, vino premiato dalla critica internazionale.

L’Armagnac en Fête: nell’omonima cittadina si celebra una delle più famose acquaviti al mondo.

Labastide d’Armagnac, ai margini del Dipartimento delle Lande, nel Sud della Francia, è una minuscola cittadina di appena 700 abitanti. Qui si produce una delle più famose acquaviti del mondo, secondo un sistema di lavorazione vecchio di secoli, l’Armagnac, appunto, che verrà festeggiato il prossimo finesettimana. Sabato 29 e domenica 30 infatti, nel centro storico i numerosi produttori locali presenteranno le loro produzioni e spiegheranno al pubblico tutti i passaggi della lavorazione, dalla vendemmia alla distillazione.

Questa è la mia terra tradotto in lingua inglese: Biondi Santi ha scavalcato confini e frontiere.

CameraCantina non può essere soltanto una stanza d’albergo. Nomen omen, l’atmosfera ricorda i luoghi di un’azienda vinicola: pavimenti in cotto e rovere, strumenti per la raccolta dell’uva, poggia valigie ricavati da vecchie barriques. Qui le aziende possono raccontarsi agli ospiti, con le loro storie e la loro passione. Ognuna di esse può infatti firmare la propria CameraCantina, partecipando al progetto e personalizzando la stanza. Inoltre, nei locali dell’Hotel Giò Wine Area è previsto un fitto calendario di appuntamenti che non fa che arricchire un’offerta già di per sé appetitosa ed innovativa.

Nasce a Perugia il primo Hotel dedicato al vino italiano: il Giò Wine Area, con le sue camere firmate da aziende, consorzi e Strade del Vino.

Quello tra vino ed arte è un connubio ormai consolidato. Ma probabilmente mai era successo che un’azienda sponsorizzasse un restauro. È successo a Castiglion d’Orcia, dove il Podere Forte ha finanziato il restauro della Madonna in trono del Vecchietta. L’artista quattrocentesco, celebre per gli affreschi del Battistero e dell’Ospedale di Santa Maria della Scala, nel dipinto raffigura la Vergine col bambino e gli angeli intorno. Torna al Palazzo Comunale l’opera del pittore che i castiglionesi considerano quasi un illustre concittadino.

In provincia di Potenza, a Barile, si terrà il “Premio Enogenius”, concorso di pittura legato al vino, che ha l’obiettivo di promuovere gli aspetti paesaggistici, naturalistici e storico-architettonici, nonché le tradizioni culturali e le peculiarità enogastronomiche del territorio che ospita la manifestazione, il Vulture. Il tema sarà “Italia patria del vino” ed i vincitori verranno premiati martedì 1° Novembre presso il locale Palazzo Frusci. La manifestazione è promossa dalla Pro Loco, le associazioni Orme, Arca e Basilicata in Arte.

Barile, nel Vulture, patria dell’Aglianico, dove il vino diventa pennello e colore sulle tele del “Premio Enogenius”.

Prada nel suo recente roadshow per celebrare l’ingresso in Borsa si è fatto accompagnare da un partner di tutto rispetto: l’Oreno 2008. Prodotto nella toscana Tenuta Sette Ponti, è un vino già pluripremiato dalla critica internazionale e spesso occupa la vetta delle classifiche stilate da riviste del settore. L’annata in questione si è anche fregiata del prestigioso “Decanter World Wine Award”, attribuito dall’omonima rivista. Non a caso dunque Prada, icona nella moda, ha scelto Oreno 2008, eccellenza nel vino.

Franco Biondi Santi è un nome fondamentale nella storia del Brunello, vino nato dall’intuizione di suo nonno, che ai tempi della fillossera ne individuò il vitigno, il Sangiovese Grosso. Ed è una storia che merita d’esser raccontata. Due anni fa è uscito Questa è la mia terra, libro della Protagon Editori che racconta la storia del noto produttore, dagli inizi fino a episodi più recenti. Il successo di pubblico l’ha ben accolto, se mai qualcuno dubitava, ma la sua fama e quella dei suoi vini hanno valicato i confini nazionali tanto che, recentemente, il libro è uscito nella sua edizione inglese.

Il Podere Forte sponsorizza il restauro della Madonna del Vecchietta, permettendone il ritorno “da protagonista” a Castiglion d’Orcia.

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Prada entra in borsa e festeggia con un tour mondiale: ad accompagnarla l’Oreno 2008, vino premiato dalla critica internazionale.

L’Armagnac en Fête: nell’omonima cittadina si celebra una delle più famose acquaviti al mondo.

Labastide d’Armagnac, ai margini del Dipartimento delle Lande, nel Sud della Francia, è una minuscola cittadina di appena 700 abitanti. Qui si produce una delle più famose acquaviti del mondo, secondo un sistema di lavorazione vecchio di secoli, l’Armagnac, appunto, che verrà festeggiato il prossimo finesettimana. Sabato 29 e domenica 30 infatti, nel centro storico i numerosi produttori locali presenteranno le loro produzioni e spiegheranno al pubblico tutti i passaggi della lavorazione, dalla vendemmia alla distillazione.

Questa è la mia terra tradotto in lingua inglese: Biondi Santi ha scavalcato confini e frontiere.

CameraCantina non può essere soltanto una stanza d’albergo. Nomen omen, l’atmosfera ricorda i luoghi di un’azienda vinicola: pavimenti in cotto e rovere, strumenti per la raccolta dell’uva, poggia valigie ricavati da vecchie barriques. Qui le aziende possono raccontarsi agli ospiti, con le loro storie e la loro passione. Ognuna di esse può infatti firmare la propria CameraCantina, partecipando al progetto e personalizzando la stanza. Inoltre, nei locali dell’Hotel Giò Wine Area è previsto un fitto calendario di appuntamenti che non fa che arricchire un’offerta già di per sé appetitosa ed innovativa.

Nasce a Perugia il primo Hotel dedicato al vino italiano: il Giò Wine Area, con le sue camere firmate da aziende, consorzi e Strade del Vino.

Quello tra vino ed arte è un connubio ormai consolidato. Ma probabilmente mai era successo che un’azienda sponsorizzasse un restauro. È successo a Castiglion d’Orcia, dove il Podere Forte ha finanziato il restauro della Madonna in trono del Vecchietta. L’artista quattrocentesco, celebre per gli affreschi del Battistero e dell’Ospedale di Santa Maria della Scala, nel dipinto raffigura la Vergine col bambino e gli angeli intorno. Torna al Palazzo Comunale l’opera del pittore che i castiglionesi considerano quasi un illustre concittadino.

In provincia di Potenza, a Barile, si terrà il “Premio Enogenius”, concorso di pittura legato al vino, che ha l’obiettivo di promuovere gli aspetti paesaggistici, naturalistici e storico-architettonici, nonché le tradizioni culturali e le peculiarità enogastronomiche del territorio che ospita la manifestazione, il Vulture. Il tema sarà “Italia patria del vino” ed i vincitori verranno premiati martedì 1° Novembre presso il locale Palazzo Frusci. La manifestazione è promossa dalla Pro Loco, le associazioni Orme, Arca e Basilicata in Arte.

Barile, nel Vulture, patria dell’Aglianico, dove il vino diventa pennello e colore sulle tele del “Premio Enogenius”.

Prada nel suo recente roadshow per celebrare l’ingresso in Borsa si è fatto accompagnare da un partner di tutto rispetto: l’Oreno 2008. Prodotto nella toscana Tenuta Sette Ponti, è un vino già pluripremiato dalla critica internazionale e spesso occupa la vetta delle classifiche stilate da riviste del settore. L’annata in questione si è anche fregiata del prestigioso “Decanter World Wine Award”, attribuito dall’omonima rivista. Non a caso dunque Prada, icona nella moda, ha scelto Oreno 2008, eccellenza nel vino.

Franco Biondi Santi è un nome fondamentale nella storia del Brunello, vino nato dall’intuizione di suo nonno, che ai tempi della fillossera ne individuò il vitigno, il Sangiovese Grosso. Ed è una storia che merita d’esser raccontata. Due anni fa è uscito Questa è la mia terra, libro della Protagon Editori che racconta la storia del noto produttore, dagli inizi fino a episodi più recenti. Il successo di pubblico l’ha ben accolto, se mai qualcuno dubitava, ma la sua fama e quella dei suoi vini hanno valicato i confini nazionali tanto che, recentemente, il libro è uscito nella sua edizione inglese.

Il Podere Forte sponsorizza il restauro della Madonna del Vecchietta, permettendone il ritorno “da protagonista” a Castiglion d’Orcia.

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GIARDINI PENSILI

Considero valore Monica Granchi

Con il Colosso di Rodi e il Faro di Alessandria, i Giardini pensili di Babilonia sono annoverati tra le sette Meraviglie del mondo antico. Esempio di rara bellezza, sono l’espressione più autentica dell’ingegno dell’uomo. La loro esistenza è sospesa tra mito e realtà.

L

a prima cosa che mi è venuta in mente quando ho pensato a una rubrica di cultura per una rivista che ruota attorno ai temi del vino è stata proprio l’immagine dei giardini pensili. Forse per via delle vigne così dette “urbane”, quelle che invadono ormai i confini delle città, fanno correre i filari sotto i ponti, si accampano sotto le antiche cinte murarie, sbucano di soppiatto in grandi terrazze di antichi palazzi o sui tetti dei nuovi grattacieli. La natura torna protagonista in maniera a volte inaspettata, come in Corso Emanuele nel cuore di Napoli, a volte consolidando una storia secolare, come negli orti delle valli che abbracciano Siena grazie a un lungimirante piano regolatore dell’immediato dopoguerra, altre volte con quel piglio innovativo e originale ma sempre un po’ blasé delle metropoli cosmopolite come Milano o New York. O forse perché i giardini pensili per eccellenza, quelli di Babilonia, una delle Meraviglie dell’antichità, sono per me una delle rappresentazioni più belle dell’idea di cultura. Si

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narra che Semiramide, regina della città, trovasse ogni giorno delle rose fresche nei suoi giardini, a dispetto del clima arido di Babilonia. Potere del mito, direte. Ma anche di una stupefacente opera ingegneristica che aveva reso fertili i terrazzamenti. La cultura, in fondo, non è che un atto di volontà. E quanta ne trovereste nelle storie di famiglie che per secoli hanno dedicato la loro esistenza alla lavorazione della terra, alla coltivazione dei filari; nella vita di chi ha scommesso tutto, in un faccia a faccia col destino, costretto dentro i limiti di un ambiente ingrato, come nella viticoltura eroica; nell’amore, nella cura paziente, nella dedizione necessaria quotidianamente alla riuscita del buon vino. Ecco. Credo sia la fatica il tratto che, nei giardini pensili di ieri e di oggi, lega cultura e natura, tradizione e vino, piacere e dovere. Ma proprio come una rosa in mezzo alla città di Babilonia anche la fatica può essere inutile. Proprio come una rubrica di cultura in una rivista di vino. Così, per non prenderla troppo sul serio, concludo prendendo a prestito alcune bellissime parole di Erri De Luca che offrono la giusta misura delle cose: considero valore il vino finché dura il pasto.


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GIARDINI PENSILI

Considero valore Monica Granchi

Con il Colosso di Rodi e il Faro di Alessandria, i Giardini pensili di Babilonia sono annoverati tra le sette Meraviglie del mondo antico. Esempio di rara bellezza, sono l’espressione più autentica dell’ingegno dell’uomo. La loro esistenza è sospesa tra mito e realtà.

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a prima cosa che mi è venuta in mente quando ho pensato a una rubrica di cultura per una rivista che ruota attorno ai temi del vino è stata proprio l’immagine dei giardini pensili. Forse per via delle vigne così dette “urbane”, quelle che invadono ormai i confini delle città, fanno correre i filari sotto i ponti, si accampano sotto le antiche cinte murarie, sbucano di soppiatto in grandi terrazze di antichi palazzi o sui tetti dei nuovi grattacieli. La natura torna protagonista in maniera a volte inaspettata, come in Corso Emanuele nel cuore di Napoli, a volte consolidando una storia secolare, come negli orti delle valli che abbracciano Siena grazie a un lungimirante piano regolatore dell’immediato dopoguerra, altre volte con quel piglio innovativo e originale ma sempre un po’ blasé delle metropoli cosmopolite come Milano o New York. O forse perché i giardini pensili per eccellenza, quelli di Babilonia, una delle Meraviglie dell’antichità, sono per me una delle rappresentazioni più belle dell’idea di cultura. Si

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narra che Semiramide, regina della città, trovasse ogni giorno delle rose fresche nei suoi giardini, a dispetto del clima arido di Babilonia. Potere del mito, direte. Ma anche di una stupefacente opera ingegneristica che aveva reso fertili i terrazzamenti. La cultura, in fondo, non è che un atto di volontà. E quanta ne trovereste nelle storie di famiglie che per secoli hanno dedicato la loro esistenza alla lavorazione della terra, alla coltivazione dei filari; nella vita di chi ha scommesso tutto, in un faccia a faccia col destino, costretto dentro i limiti di un ambiente ingrato, come nella viticoltura eroica; nell’amore, nella cura paziente, nella dedizione necessaria quotidianamente alla riuscita del buon vino. Ecco. Credo sia la fatica il tratto che, nei giardini pensili di ieri e di oggi, lega cultura e natura, tradizione e vino, piacere e dovere. Ma proprio come una rosa in mezzo alla città di Babilonia anche la fatica può essere inutile. Proprio come una rubrica di cultura in una rivista di vino. Così, per non prenderla troppo sul serio, concludo prendendo a prestito alcune bellissime parole di Erri De Luca che offrono la giusta misura delle cose: considero valore il vino finché dura il pasto.


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itinerari

Maurizio Boldrini

Nel regno del barocco I balconi barocchi, con le loro linee circonflesse e i caldi colori della pietra, addolciscono il paesaggio e legano idealmente tutta la valle.

L

a Sicilia è come un labirinto nel quale puoi, entrandoci, perderti o, se hai fortuna, rintracciare, con l’aiuto di qualche misterioso filo di Arianna, un percorso dalle fisionomie più distinte. Il fatto è che ogni qual volta si mettono i piedi su un pezzo di quell’irregolare triangolo si va automaticamente alla ricerca di legami di senso tra il fantastico e il reale. Così è, se vi pare, il viag-

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giare in Sicilia. Puoi perderti nei neri calanchi che dominano dapprima i castagneti e poi i vigneti e infine le verdi valli che circondano Catania per cercare lassù, la bocca del cratere, come ha fatto con le sue mirabili parole Maria Corti, una sorta di “archeologia dello spirito”. Quindi, tante diverse geografie compongono un’identità che solo il mare e il caos genitore di popoli, lingue e culture tanto diverse, tengono ancora uniti. Solo per questo continuiamo a chiamare tutte queste terre Sicilia. Infatti ti senti in Grecia, in quella classica,


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itinerari

Maurizio Boldrini

Nel regno del barocco I balconi barocchi, con le loro linee circonflesse e i caldi colori della pietra, addolciscono il paesaggio e legano idealmente tutta la valle.

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a Sicilia è come un labirinto nel quale puoi, entrandoci, perderti o, se hai fortuna, rintracciare, con l’aiuto di qualche misterioso filo di Arianna, un percorso dalle fisionomie più distinte. Il fatto è che ogni qual volta si mettono i piedi su un pezzo di quell’irregolare triangolo si va automaticamente alla ricerca di legami di senso tra il fantastico e il reale. Così è, se vi pare, il viag-

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giare in Sicilia. Puoi perderti nei neri calanchi che dominano dapprima i castagneti e poi i vigneti e infine le verdi valli che circondano Catania per cercare lassù, la bocca del cratere, come ha fatto con le sue mirabili parole Maria Corti, una sorta di “archeologia dello spirito”. Quindi, tante diverse geografie compongono un’identità che solo il mare e il caos genitore di popoli, lingue e culture tanto diverse, tengono ancora uniti. Solo per questo continuiamo a chiamare tutte queste terre Sicilia. Infatti ti senti in Grecia, in quella classica,


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NOTO E I SUOI BALCONI

La Cattedrale di Noto

A volte dalle grandi disgrazie nascono grandi cose. Il tremendo terremoto del 1693 distrusse infatti l’antica città di Noto e fu allora che i baroni di quella parte della Sicilia che si contavano a centinaia decisero di spostarla e di fondarla ex novo. Fu aperto un gigantesco cantiere e furono chiamati urbanisti ed architetti per costruire quella che sarebbe diventata la città espressione del tardo barocco. Così com’era quando fu progettata è tornata ad essere oggi dopo i restauri seguiti all’ultimo terremoto. È da visitare metro per metro: dalla cattedrale dedicata a san Niccolò alla chiesa di san Francesco, ai tanti palazzi che si incontrano nelle due vie principali, come Palazzo Ducezio e Palazzo Trigona. Ogni palazzo è abbellito dai balconi in stile barocco con facce umane o divine che ti scrutano mentre passeggi; in particolare, conviene soffermarsi a rimirare quello di Palazzo Nicolaci. Un consiglio: salite su uno dei campanili che vengono tenuti appositamente aperti per guardare la città dall’alto. Si potranno ammirare non solo le bellezze ma anche il complesso impianto urbanistico della città. Una visita la merita anche il teatro con il suo impianto neoclassico e con l’interno che rimanda all’epoca baronale.

se rimiri l’isolato e dorico tempio di Se gesta e ti senti un moderno Don Chisciotte se ti metti ad inseguire i tanti mulini a vento che tra gli alti cumuli di sale ti conducono verso Mozia. Puoi sentirti arabo se ti capita, a Palermo, di frescheggiare dentro le robuste mura della Zisa o di mangiare un piatto di caponata o di cous cous in uno dei ristoranti che si affacciano su san Giovanni degli eremiti. Ti senti in Spagna se ti aggiri in quella parte orientale del triangolo che culmina con la punta sud dell’isola. Quel grande pezzo di terra che l’Unesco, nel 2002, ha sancito essere patrimonio dell’umanità. È questo il regno dell’architettura tardo barocca che da sotto l’Etna si spande fino a Capo Rizzuto e comprende parte delle province di Catania, Siracusa, Ragusa e Caltanissetta. A tutti viene di chiamarla la Valle di Noto. Invece no. Il Val di noto è maschile, in quanto sta a indicare un valico, uno di quelli che costituivano l’unità geografica in cui la Sicilia era divisa in epoca arabo normanna. Nel territorio del Val di Noto

d si trovano città e paesi i cui nomi evocano paesaggi dalle inimitabili scenografie urbane: da Caltagirone a Ibla, da Modica a Noto, fino a Scicli. Caltagirone sta su un alto colle e nelle giornate autunnali, in mezzo ad una nebbia così fitta che gli stessi abitanti del luogo chiamano con affetto “la paesana”, appena se ne intravede la sommità. Eppure è una città robusta, con grandi palazzi dai ricchi balconi che la delimitano come fosse un capoluogo, con un centro storico armonioso nel quale si giunge dopo aver attraversato un ponte che sta sospeso e ti porta fin dentro le terrazze di case che si arrampicano fin lassù dalle vie sottostanti. Si sale, a Caltagirone, si sale sempre. O attraverso le vie abitate da chiese e palazzi o attraverso la mirabile scalinata di santa Maria del Monte che, con i suoi mille scalini contrassegnati dalle preziose e tradizionali maioliche, ti conduce alla Basilica di San Giacomo. Un consiglio: merita qualche ora di tempo la visita al museo storico delle maioliche, magari prima di acqui-

Tonnara di Vendicari

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La Marina di Marzamemi, provincia di Siracusa

Tra cultura e natura, il Val di Noto esprime tutte le anime di una storia e una tradizione complesse che hanno reso grande la Sicilia.

starne qualcuna in una delle tante botteghe. Ibla, l’antico quartiere di Ragusa, contiene da solo cinquanta chiese, quasi tutte del periodo tardo barocco. Si annuncia con il Portale di san Giorgio che con il suo stile gotico catalano segnala che lì esisteva una chiesa trecentesca distrutta dal terremoto di fine Seicento. Accanto al portale, un giardino adornato da piante d’arancio e limone che fanno intravedere sullo sfondo altre chiese, queste barocche. Attraverso il Corso principale si risale alla piazza del Duomo, sulla quale insistono un originale “Circolo della Conversazione” e i balconi di palazzo Casentini. La scalinata del Duomo di san Giorgio e l’intera piazza sono stati lo scenario naturale in cui molti registi hanno ambientato i loro film. Due suggerimenti: è divertentissimo percorrere le viuzze di Ibla con il trenino che ogni mezz’ora parte da piazza Duomo; l’occasione per visitare la parte più antica e percorribile solo a piedi del centro storico. Mangiate, poi, in uno dei tanti bar del centro, gli arancini: sono tra i più buoni dell’intera Sicilia.

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Modica si appoggia come un presepe, con le case addossate le une alle altre, case che spesso sono l’estensione di antiche grotte. È stata per lungo tempo la quarta città dell’intera Sicilia e questo si nota dalla sua struttura urbana e dalla monumentalità dei palazzi e delle chiese. Il Duomo di san Giorgio è considerato un monumento simbolo del barocco siciliano e, in bellezza, l’altro Duomo, quello di san Pietro, compete con il chiostro di santa Maria del Gesù. Appena fuori dal centro, una campagna rigogliosa, una maglia di verde fitta di muri a secco con i rari alberi di carrubo, di olivi e viti e d’aranceti. È una Sicilia verde, non arida. Anche in questo caso, due consigli: comprate il cioccolato locale, tipico prodotto dell’artigianato alimentare che viene esportato nel mondo, e visitate la casa natale del nobel Salvatore Quasimodo. Scicli è un piccolo gioiello e vi si arriva da Modica percorrendo il lungo vallone di san Bartolomeo che sfocia al mare. Oltre al barocco, si trovano qui molte chiese ricostruite in stile neoclassico e, tra queste, santa Maria La Nova.


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NOTO E I SUOI BALCONI

La Cattedrale di Noto

A volte dalle grandi disgrazie nascono grandi cose. Il tremendo terremoto del 1693 distrusse infatti l’antica città di Noto e fu allora che i baroni di quella parte della Sicilia che si contavano a centinaia decisero di spostarla e di fondarla ex novo. Fu aperto un gigantesco cantiere e furono chiamati urbanisti ed architetti per costruire quella che sarebbe diventata la città espressione del tardo barocco. Così com’era quando fu progettata è tornata ad essere oggi dopo i restauri seguiti all’ultimo terremoto. È da visitare metro per metro: dalla cattedrale dedicata a san Niccolò alla chiesa di san Francesco, ai tanti palazzi che si incontrano nelle due vie principali, come Palazzo Ducezio e Palazzo Trigona. Ogni palazzo è abbellito dai balconi in stile barocco con facce umane o divine che ti scrutano mentre passeggi; in particolare, conviene soffermarsi a rimirare quello di Palazzo Nicolaci. Un consiglio: salite su uno dei campanili che vengono tenuti appositamente aperti per guardare la città dall’alto. Si potranno ammirare non solo le bellezze ma anche il complesso impianto urbanistico della città. Una visita la merita anche il teatro con il suo impianto neoclassico e con l’interno che rimanda all’epoca baronale.

se rimiri l’isolato e dorico tempio di Se gesta e ti senti un moderno Don Chisciotte se ti metti ad inseguire i tanti mulini a vento che tra gli alti cumuli di sale ti conducono verso Mozia. Puoi sentirti arabo se ti capita, a Palermo, di frescheggiare dentro le robuste mura della Zisa o di mangiare un piatto di caponata o di cous cous in uno dei ristoranti che si affacciano su san Giovanni degli eremiti. Ti senti in Spagna se ti aggiri in quella parte orientale del triangolo che culmina con la punta sud dell’isola. Quel grande pezzo di terra che l’Unesco, nel 2002, ha sancito essere patrimonio dell’umanità. È questo il regno dell’architettura tardo barocca che da sotto l’Etna si spande fino a Capo Rizzuto e comprende parte delle province di Catania, Siracusa, Ragusa e Caltanissetta. A tutti viene di chiamarla la Valle di Noto. Invece no. Il Val di noto è maschile, in quanto sta a indicare un valico, uno di quelli che costituivano l’unità geografica in cui la Sicilia era divisa in epoca arabo normanna. Nel territorio del Val di Noto

d si trovano città e paesi i cui nomi evocano paesaggi dalle inimitabili scenografie urbane: da Caltagirone a Ibla, da Modica a Noto, fino a Scicli. Caltagirone sta su un alto colle e nelle giornate autunnali, in mezzo ad una nebbia così fitta che gli stessi abitanti del luogo chiamano con affetto “la paesana”, appena se ne intravede la sommità. Eppure è una città robusta, con grandi palazzi dai ricchi balconi che la delimitano come fosse un capoluogo, con un centro storico armonioso nel quale si giunge dopo aver attraversato un ponte che sta sospeso e ti porta fin dentro le terrazze di case che si arrampicano fin lassù dalle vie sottostanti. Si sale, a Caltagirone, si sale sempre. O attraverso le vie abitate da chiese e palazzi o attraverso la mirabile scalinata di santa Maria del Monte che, con i suoi mille scalini contrassegnati dalle preziose e tradizionali maioliche, ti conduce alla Basilica di San Giacomo. Un consiglio: merita qualche ora di tempo la visita al museo storico delle maioliche, magari prima di acqui-

Tonnara di Vendicari

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La Marina di Marzamemi, provincia di Siracusa

Tra cultura e natura, il Val di Noto esprime tutte le anime di una storia e una tradizione complesse che hanno reso grande la Sicilia.

starne qualcuna in una delle tante botteghe. Ibla, l’antico quartiere di Ragusa, contiene da solo cinquanta chiese, quasi tutte del periodo tardo barocco. Si annuncia con il Portale di san Giorgio che con il suo stile gotico catalano segnala che lì esisteva una chiesa trecentesca distrutta dal terremoto di fine Seicento. Accanto al portale, un giardino adornato da piante d’arancio e limone che fanno intravedere sullo sfondo altre chiese, queste barocche. Attraverso il Corso principale si risale alla piazza del Duomo, sulla quale insistono un originale “Circolo della Conversazione” e i balconi di palazzo Casentini. La scalinata del Duomo di san Giorgio e l’intera piazza sono stati lo scenario naturale in cui molti registi hanno ambientato i loro film. Due suggerimenti: è divertentissimo percorrere le viuzze di Ibla con il trenino che ogni mezz’ora parte da piazza Duomo; l’occasione per visitare la parte più antica e percorribile solo a piedi del centro storico. Mangiate, poi, in uno dei tanti bar del centro, gli arancini: sono tra i più buoni dell’intera Sicilia.

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Modica si appoggia come un presepe, con le case addossate le une alle altre, case che spesso sono l’estensione di antiche grotte. È stata per lungo tempo la quarta città dell’intera Sicilia e questo si nota dalla sua struttura urbana e dalla monumentalità dei palazzi e delle chiese. Il Duomo di san Giorgio è considerato un monumento simbolo del barocco siciliano e, in bellezza, l’altro Duomo, quello di san Pietro, compete con il chiostro di santa Maria del Gesù. Appena fuori dal centro, una campagna rigogliosa, una maglia di verde fitta di muri a secco con i rari alberi di carrubo, di olivi e viti e d’aranceti. È una Sicilia verde, non arida. Anche in questo caso, due consigli: comprate il cioccolato locale, tipico prodotto dell’artigianato alimentare che viene esportato nel mondo, e visitate la casa natale del nobel Salvatore Quasimodo. Scicli è un piccolo gioiello e vi si arriva da Modica percorrendo il lungo vallone di san Bartolomeo che sfocia al mare. Oltre al barocco, si trovano qui molte chiese ricostruite in stile neoclassico e, tra queste, santa Maria La Nova.


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APPUNTI DI VIAGGIO

APPUNTI DI VIAGGIO

Marsala, il vino di ogni tempo Andrea Zanfi

Cicerone la definì splendidissima urbs. Marsala, ancora oggi, accoglie il viaggiatore in una girandola di sensazioni: i colori intensi della terra e del mare, il bagliore delle saline, il suono delle “acque chete”, il sapore dei pistacchi salati. E un bicchiere di Stravecchio.

A

nche chi è abituato a muoversi in mezzo alla vite rimarrà colpito nel viaggiare sulle strade della provincia di Trapani dove si troverà di fronte ad un ininterrotto susseguirsi di vigne che si alternano ad altre vigne e poi ad altre vigne ancora. Qui ogni angolo è coltivato in nome e per conto del Dio Bacco e in quest’angolo di Sicilia, più che da altre parti, si nota come l’ultimo ceppo di vite è stato piantato sul limite estremo del campo tanto che capita spesso di vedere un trattore far manovra, fra un filare e l’altro, in mezzo alla strada. Se deciderete di seguire queste itinerario lasciatevi alle spalle le dolci colline di Alcamo e percorrendo la provinciale che da Calatafimi e Salemi conduce verso Marsala immergetevi in una distesa sconfinata di viti. Vi attendono settanta chilometri di declivi che a primavera sono colorati di un verde lussureggiante, dai

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quali spuntano vecchie dimore di campagna dal fascino unico: i Bagli. Architetture storiche di queste campagne trapanasi che sono una più bella dell’altra, le quali arricchiranno di suggestione il vostro viaggio di trasferimento da Palermo alla terra del Marsala e da questa alla cittadina di Marsala, definita, già da Cicerone nel 76 a. C.,“splendidissima urbs”. Sappiate che il vostro dovrà essere un viaggio lento, svolto alla scoperta di angoli di un’isola che avete sicuramente conosciuto attraverso i libri di storia nei quali si narra dello sbarco di Garibaldi e delle sue battaglie contro i Borboni. Terra che vi si aprirà mostrandovisi con pennellate vive, dai colori così forti e così intensi che stenterete a riconoscere come appartenenti alla natura. Di questo mi darete ragione se avrete la voglia di assistere ad un tramonto sulle saline a Marsala, magari sorseggiando un bicchiere di Marsala stravecchio accompagnato da qualche pistacchio salato, nel piccolo bar, mentre il sole si nasconde all’orizzonte, o dietro ad un mulino o in fondo alle vasche ricche

“dell’acqua cheta” che fiorisce, mentre sullo sfondo si erge l’isola di Favignana e sulla destra la striscia di terra dell’isola di Mozia che delimita lo Stagnone. Qui, forse per la prima volta vedrete sia il cielo, sia l’acqua tingersi di un rosso arancio intenso e, come faccio sempre io, tacerete davanti a quello spettacolo. Come del resto taccio sempre nel degustare un grande Marsala, rimanendo tutte le volte affascinato al pensiero di quanta sagacia necessiti il processo di lavorazione, attivato dall’uomo, per ottenere questo vino, definito dal Briosi “il vino delle contrade della provincia di Trapani, mescolato o tagliato entro enormi tini, per dargli unità di tip,o e poi invecchiato e depurato con opportune chiarifichi”. Un prodotto enologico unico, originale per la qualità delle uve. Interagiscono inoltre gli aspetti pedoclimatici, come scriveva il secolo passato Beniamino Ingham, nelle sue istruzioni sulla produzione del Marsala, citando che “La zona di produzione, con le sue condizioni pedoclimatiche, è di fondamentale importanza”, e anche le diverse tecniche di vinificazione con le quali sono lavorati i mosti; fasi alle quali si deve aggiungere inoltre la qualità dei legni usati, il tempo di maturazione e di ossidazione del vino e la relativa aggiunta della cosiddetta “concia”, una ricetta costituita soprattutto da alcol, che varia da cantina a cantina. Dopo anni stento ancora a rammentare la complessità della normativa che regola la produzione di questo vino, ricordandomi solo che nel Marsala Ambra viene unito del mosto cotto e/o anche del mosto concentrato, per infondere dolcezza e morbidezza, e/o l’aggiunta sostanziale della “mistella”, detta anche “sifone”, formata da mosto di uva di Gril-

lo, raccolta tardivamente, e alcol e che riveste anch’essa funzione addolcente, aiutando a completare l’equilibrio gustativo del vino. Penso a tutto questo, osservo il mio bicchiere di Marsala che sorseggio lentamente mentre il sole scende nelle saline, cercando di scoprire, per quanto mi sia possibile, quale sia lo stato d’invecchiamento del vino che mi è stato servito, che varia a seconda della tipologia. Un invecchiamento che si effettua in grandi botti di rovere e può svolgersi anche nella maniera definita Soleras, dal nome del metodo usato a Jerez, in Spagna, per la produzione dello Sherry. In pratica, si mettono cinque botti di capienza diversa, costruite con legni differenti, in verticale una sopra l’altra. Nel momento in cui si aggiunge del Marsala a invecchiare nella botte posta in sommità, una pari quantità del contenuto viene trasferita nella botte sottostante svuotatasi per evaporazione, e così si prosegue fino ad arrivare a quella posta al suolo, dove il vino tolto viene imbottigliato. Grazie a questa geniale tecnica di invecchiamento, il vino più giovane acquista la “saggezza” e i caratteri di suadenza e morbidezza tipici dei vini più maturi, mentre questi ultimi verranno continuamente “rinfrescati” dalle miscele composte con gli ultimi aggiunti. Che dire poi degli aspetti organolettici del Marsala che variano molto in base alla tipologia; infatti il colore può essere dorato, oppure ambrato se presente del mosto cotto, o rosso vivo per la versione Rubino a base di uve rosse. In quest’ultimo caso prevalgono aromi assai incisivi di frutti maturi. Negli altri casi i sentori principali spaziano dalla frutta secca come mandorle e nocciole, alla frutta essiccata come fichi, datteri e albicocche, 79

con una sensazione ossidativa che prevale sull’insieme. Al gusto, quelli che risultano di sapore secco forniscono una sensazione di grande pulizia, mentre in quelli dal sapore dolce prevarrà la componente morbida, che permetterà di godere di sensazioni vellutate e glicerinose. In entrambi i casi il gusto sarà intenso e persistente come sono quelli che scopro nel mio bicchiere. Quanto agli abbinamenti gastronomici, molto dipende dalla tipologia e dai gusti. Per me, ad esempio, un Marsala Vergine o un Superiore Riserva Semisecco o Secco può essere utilizzato come aperitivo, magari abbinandolo a dei pesci salati ed essiccati, a del polpo, o servito fresco a 12°C per accompagnare antipasti a base di fegato d’oca o magari ponendoli al fianco di formaggi molto stagionati e/o a quelli piccanti e/o erborinati. Un Superiore Dolce vi potrà risultare abbinabile invece con un cioccolato fondente di Modica, essendo non eccessivamente amaro, potrà inoltre accompagnare frutta secca, compresi i datteri o un gelato alla cannella che rinfresca le papille gustative. Un Superiore o un Fine Secco potrà meravigliarvi invece se abbinato a del pesce affumicato (aringhe, tonno o pesce spada), mentre un Vergine sta perfettamente bene in compagnia di un cibo sapido e penetrante come la bottarga di tonno. E che dire dell’universo della pasticceria siciliana, soprattutto quella palermitana, spesso a base di pasta di mandorle, ricchissima e dai sapori quasi barocchi con la quale un Marsala dolce si sposa perfettamente. Penso a questo mentre il mio bicchiere si è svuotato. Mi alzo, pago il conto e con la bocca buona mi avvio verso le luci della notte che si sono gia accese a Marsala che da qui, è poco distante.


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APPUNTI DI VIAGGIO

APPUNTI DI VIAGGIO

Marsala, il vino di ogni tempo Andrea Zanfi

Cicerone la definì splendidissima urbs. Marsala, ancora oggi, accoglie il viaggiatore in una girandola di sensazioni: i colori intensi della terra e del mare, il bagliore delle saline, il suono delle “acque chete”, il sapore dei pistacchi salati. E un bicchiere di Stravecchio.

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nche chi è abituato a muoversi in mezzo alla vite rimarrà colpito nel viaggiare sulle strade della provincia di Trapani dove si troverà di fronte ad un ininterrotto susseguirsi di vigne che si alternano ad altre vigne e poi ad altre vigne ancora. Qui ogni angolo è coltivato in nome e per conto del Dio Bacco e in quest’angolo di Sicilia, più che da altre parti, si nota come l’ultimo ceppo di vite è stato piantato sul limite estremo del campo tanto che capita spesso di vedere un trattore far manovra, fra un filare e l’altro, in mezzo alla strada. Se deciderete di seguire queste itinerario lasciatevi alle spalle le dolci colline di Alcamo e percorrendo la provinciale che da Calatafimi e Salemi conduce verso Marsala immergetevi in una distesa sconfinata di viti. Vi attendono settanta chilometri di declivi che a primavera sono colorati di un verde lussureggiante, dai

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quali spuntano vecchie dimore di campagna dal fascino unico: i Bagli. Architetture storiche di queste campagne trapanasi che sono una più bella dell’altra, le quali arricchiranno di suggestione il vostro viaggio di trasferimento da Palermo alla terra del Marsala e da questa alla cittadina di Marsala, definita, già da Cicerone nel 76 a. C.,“splendidissima urbs”. Sappiate che il vostro dovrà essere un viaggio lento, svolto alla scoperta di angoli di un’isola che avete sicuramente conosciuto attraverso i libri di storia nei quali si narra dello sbarco di Garibaldi e delle sue battaglie contro i Borboni. Terra che vi si aprirà mostrandovisi con pennellate vive, dai colori così forti e così intensi che stenterete a riconoscere come appartenenti alla natura. Di questo mi darete ragione se avrete la voglia di assistere ad un tramonto sulle saline a Marsala, magari sorseggiando un bicchiere di Marsala stravecchio accompagnato da qualche pistacchio salato, nel piccolo bar, mentre il sole si nasconde all’orizzonte, o dietro ad un mulino o in fondo alle vasche ricche

“dell’acqua cheta” che fiorisce, mentre sullo sfondo si erge l’isola di Favignana e sulla destra la striscia di terra dell’isola di Mozia che delimita lo Stagnone. Qui, forse per la prima volta vedrete sia il cielo, sia l’acqua tingersi di un rosso arancio intenso e, come faccio sempre io, tacerete davanti a quello spettacolo. Come del resto taccio sempre nel degustare un grande Marsala, rimanendo tutte le volte affascinato al pensiero di quanta sagacia necessiti il processo di lavorazione, attivato dall’uomo, per ottenere questo vino, definito dal Briosi “il vino delle contrade della provincia di Trapani, mescolato o tagliato entro enormi tini, per dargli unità di tip,o e poi invecchiato e depurato con opportune chiarifichi”. Un prodotto enologico unico, originale per la qualità delle uve. Interagiscono inoltre gli aspetti pedoclimatici, come scriveva il secolo passato Beniamino Ingham, nelle sue istruzioni sulla produzione del Marsala, citando che “La zona di produzione, con le sue condizioni pedoclimatiche, è di fondamentale importanza”, e anche le diverse tecniche di vinificazione con le quali sono lavorati i mosti; fasi alle quali si deve aggiungere inoltre la qualità dei legni usati, il tempo di maturazione e di ossidazione del vino e la relativa aggiunta della cosiddetta “concia”, una ricetta costituita soprattutto da alcol, che varia da cantina a cantina. Dopo anni stento ancora a rammentare la complessità della normativa che regola la produzione di questo vino, ricordandomi solo che nel Marsala Ambra viene unito del mosto cotto e/o anche del mosto concentrato, per infondere dolcezza e morbidezza, e/o l’aggiunta sostanziale della “mistella”, detta anche “sifone”, formata da mosto di uva di Gril-

lo, raccolta tardivamente, e alcol e che riveste anch’essa funzione addolcente, aiutando a completare l’equilibrio gustativo del vino. Penso a tutto questo, osservo il mio bicchiere di Marsala che sorseggio lentamente mentre il sole scende nelle saline, cercando di scoprire, per quanto mi sia possibile, quale sia lo stato d’invecchiamento del vino che mi è stato servito, che varia a seconda della tipologia. Un invecchiamento che si effettua in grandi botti di rovere e può svolgersi anche nella maniera definita Soleras, dal nome del metodo usato a Jerez, in Spagna, per la produzione dello Sherry. In pratica, si mettono cinque botti di capienza diversa, costruite con legni differenti, in verticale una sopra l’altra. Nel momento in cui si aggiunge del Marsala a invecchiare nella botte posta in sommità, una pari quantità del contenuto viene trasferita nella botte sottostante svuotatasi per evaporazione, e così si prosegue fino ad arrivare a quella posta al suolo, dove il vino tolto viene imbottigliato. Grazie a questa geniale tecnica di invecchiamento, il vino più giovane acquista la “saggezza” e i caratteri di suadenza e morbidezza tipici dei vini più maturi, mentre questi ultimi verranno continuamente “rinfrescati” dalle miscele composte con gli ultimi aggiunti. Che dire poi degli aspetti organolettici del Marsala che variano molto in base alla tipologia; infatti il colore può essere dorato, oppure ambrato se presente del mosto cotto, o rosso vivo per la versione Rubino a base di uve rosse. In quest’ultimo caso prevalgono aromi assai incisivi di frutti maturi. Negli altri casi i sentori principali spaziano dalla frutta secca come mandorle e nocciole, alla frutta essiccata come fichi, datteri e albicocche, 79

con una sensazione ossidativa che prevale sull’insieme. Al gusto, quelli che risultano di sapore secco forniscono una sensazione di grande pulizia, mentre in quelli dal sapore dolce prevarrà la componente morbida, che permetterà di godere di sensazioni vellutate e glicerinose. In entrambi i casi il gusto sarà intenso e persistente come sono quelli che scopro nel mio bicchiere. Quanto agli abbinamenti gastronomici, molto dipende dalla tipologia e dai gusti. Per me, ad esempio, un Marsala Vergine o un Superiore Riserva Semisecco o Secco può essere utilizzato come aperitivo, magari abbinandolo a dei pesci salati ed essiccati, a del polpo, o servito fresco a 12°C per accompagnare antipasti a base di fegato d’oca o magari ponendoli al fianco di formaggi molto stagionati e/o a quelli piccanti e/o erborinati. Un Superiore Dolce vi potrà risultare abbinabile invece con un cioccolato fondente di Modica, essendo non eccessivamente amaro, potrà inoltre accompagnare frutta secca, compresi i datteri o un gelato alla cannella che rinfresca le papille gustative. Un Superiore o un Fine Secco potrà meravigliarvi invece se abbinato a del pesce affumicato (aringhe, tonno o pesce spada), mentre un Vergine sta perfettamente bene in compagnia di un cibo sapido e penetrante come la bottarga di tonno. E che dire dell’universo della pasticceria siciliana, soprattutto quella palermitana, spesso a base di pasta di mandorle, ricchissima e dai sapori quasi barocchi con la quale un Marsala dolce si sposa perfettamente. Penso a questo mentre il mio bicchiere si è svuotato. Mi alzo, pago il conto e con la bocca buona mi avvio verso le luci della notte che si sono gia accese a Marsala che da qui, è poco distante.


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INTERVISTA

Sicilia, ovunque è vino Conversazione con Dario Cartabellotta, presidente dell’Istituto regionale della Vite e del Vino.

I

l Dottor Dario Cartabellotta, p r e s i d e n te dell’Istituto Regionale della Vite e del Vino della Sicilia, ci racconta come il settore economico più importante dell’isola abbia acquisito, soprattutto negli ultimi anni, un ruolo dinamico e importante non solo a livello nazionale. Trasformazione, sviluppo, nuovi mercati e green economy: le domande che abbiamo rivolto al Presidente e le risposte ricevute, tracciano un quadro completo della meravigliosa 80

e liminare terra siciliana, terra di grandi vini. Visitando le terre di Sicilia e seguendo l’evoluzione del settore agroalimentare dell’isola si ha sempre più l’impressione che ci si trovi di fronte ad una rapida e benefica evoluzione di questo settore. È così? La Sicilia possiede oggi un’immagine forte e dinamica nell’ambito dell’enologia italiana e viene spontaneo chiedersi: come mai è successo proprio adesso, all’improvviso? Storia, paesaggi, colori, odore di mare e viti nell’isola non c’erano anche prima? Tutto inizia nel 1985 con Diego

Planeta che diventa Presidente dell’Istituto Regionale della Vite e del Vino di Sicilia e chiama l’enologo Giacomo Tachis, a dirigere la Cantina Sperimentale dell’Istituto: iniziano a soffiare i venti della ricerca, dell’innovazione e del cambiamento e nell’arco di 20 anni, la Sicilia, da terra dei vini sfusi per la cura delle anemie dei vini francesi, piemontesi e toscani, si trasforma in brand di elevato prestigio dell’enologia internazionale che evoca territori di straordinaria vocazione vitivinicola, di lunga storicità e una forte relazione tra produzioni enologiche, cultura, tradizioni e paesaggio. Una classe di imprenditori onesti e decisi trasforma le vigne, le cantine, il paesaggio e soprattutto la mentalità; la Sicilia del vino di qualità deve molto alle sue donne. Sono diventate, nel tempo, le ambasciatrici, orgogliose e credibili, della propria terra all’estero, girando il mondo, portando con se passione, conoscenza, eleganza e determinazione. Giovani e donne assumono ruoli decisionali nelle proprie aziende e incarnano nel tessuto produttivo della Sicilia, un modello imprenditoriale moderno, culturalmente elevato, capace di generare identità competitiva e una nuova immagine del vino Made in Sicily. E se è così, su quali elementi poggia questo settore e comunque quali sono gli intralci e i ritardi che ne impediscono il pieno sviluppo? Il cambiamento è stato molto rapido e la trasformazione velocissima: su circa 120 mila ettari quasi la metà (60.000 ha) sono stati riconvertiti alla viticoltura e l’enologia di qualità; quel che resta o trova spazio nel mercato oppure e destinato a scomparire. Accanto alle eccellenze storiche – penso al Marsala – si stanno sviluppando sempre più nuovi modelli di produzione e di commercializzazione di prodotti della natura siciliana. Qual è l’attenzione e quali

le priorità che un’istituzione come la sua dedica a questo vasto settore? L’Istituto Regionale della Vite e del Vino (IRVV) è un Ente Pubblico della Regione Siciliana. A partire dalla fine degli anni 80 l’IRVV ha orientato l’attività verso la qualificazione dei Vini di Sicilia con una chiarezza di obiettivi che va dalla valorizzazione dell’identità territoriale dei vini di Sicilia, coniugando la tradizione e la qualità dei prodotti ai luoghi di produzione e alle diverse attrattive naturali e storico-culturali del territorio, alla promozione e comunicazione finalizzate allo sviluppo competitivo del mercato dei vini siciliani nel mondo, anche attraverso l’aggregazione di aziende. Dalla ricerca applicata volta allo sviluppo di nuovi prodotti, processi e tecnologie nel campo viticolo ed enologico, valorizzando le competenze scientifiche, strumentali e professionali dell’IRVV, quale ente di ricerca della Regione Siciliana, alla certificazione dei Vini di Sicilia a Denominazione di Origine (DOC), quale soggetto riconosciuto dal MIPAF ai sensi della normativa comunitaria e a seguito di procedura di accreditamento internazionale per la competenza, la specificità e l’imparzialità. E ancora dalla valorizzazione enogastronomica dei territori di Sicilia per favorire la vendita diretta, l’enoturismo e la formazione di una cultura Wine in Moderation secondo le strategie formulate dall’Unione Europea, alla formazione delle imprese su innovazione, export management ed enoturismo. La Sicilia è da sempre conosciuta e apprezzata nel mondo per la qualità dei prodotti della sua terra. Qual è l’attenzione che i produttori, la sua Istituzione e la Regione dedicano alla tutela di queste qualità? I vini di Sicilia hanno attratto l’interesse dei consumatori per la forte personalità e il carattere identitario. Un’unica grande anima, la

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Sicilia, dentro tutti i suoi molteplici luoghi, diversi per morfologia, tradizioni, spirito e carattere. E cosa sono i vini siciliani se non la possibilità di assaporare questa realtà, unica e sfaccettata, armonica e complessa, immobile e in continua evoluzione. Perché bere un bicchiere di vino è come gustare un lembo di quella terra, ingerire un pezzo di storia, cultura e tradizioni. I consumatori apprezzano i vini perché portano con il sapore dell’uva che li ha prodotti e del sole che ne ha fatto maturare i grappoli. Verso questa direzione è finalizzato il lavoro dell’istituzione e quello delle imprese. È possibile in una regione come la Sicilia fare coesistere gli aspetti della sua grande tradizione con le nuove specie in campo agroalimentare e ambientale, come ad esempio le nuove forme della green economy? Tradizione e innovazione possono coesistere soprattutto nei luoghi naturalisticamente più importanti come l’Etna, il vulcano attivo più alto d’Europa. Questa terra purpurea come la lava, unica al mondo, va dall’Etna ai caratteristici paesi: comuni antichi, ricchi di storia, beni artistici ed ambientali. Questo luogo si racconta attraverso i suoi ambienti differenti per morfologia e tipologia: le sue coltivazioni fino a mille metri, le colline, i fitti boschi, i tornanti che cingono il monte, i rigogliosi frutteti e le coltivazioni di pistacchi, i caratteristici muri a secco di nera pietra lavica, le zone brulle e quelle urbanizzate. E anche di come non abbia eguali nella viticoltura: alle pendici del vulcano si producono vini dalle caratteristiche sempre diverse, grazie al gioco dei climi e dei suoli che fanno dell’Etna un piccolo continente. La “verde economia” trova un terreno fertile e coniuga la tutela ambientale con l’attività imprenditoriale. MB


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INTERVISTA

Sicilia, ovunque è vino Conversazione con Dario Cartabellotta, presidente dell’Istituto regionale della Vite e del Vino.

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l Dottor Dario Cartabellotta, p r e s i d e n te dell’Istituto Regionale della Vite e del Vino della Sicilia, ci racconta come il settore economico più importante dell’isola abbia acquisito, soprattutto negli ultimi anni, un ruolo dinamico e importante non solo a livello nazionale. Trasformazione, sviluppo, nuovi mercati e green economy: le domande che abbiamo rivolto al Presidente e le risposte ricevute, tracciano un quadro completo della meravigliosa 80

e liminare terra siciliana, terra di grandi vini. Visitando le terre di Sicilia e seguendo l’evoluzione del settore agroalimentare dell’isola si ha sempre più l’impressione che ci si trovi di fronte ad una rapida e benefica evoluzione di questo settore. È così? La Sicilia possiede oggi un’immagine forte e dinamica nell’ambito dell’enologia italiana e viene spontaneo chiedersi: come mai è successo proprio adesso, all’improvviso? Storia, paesaggi, colori, odore di mare e viti nell’isola non c’erano anche prima? Tutto inizia nel 1985 con Diego

Planeta che diventa Presidente dell’Istituto Regionale della Vite e del Vino di Sicilia e chiama l’enologo Giacomo Tachis, a dirigere la Cantina Sperimentale dell’Istituto: iniziano a soffiare i venti della ricerca, dell’innovazione e del cambiamento e nell’arco di 20 anni, la Sicilia, da terra dei vini sfusi per la cura delle anemie dei vini francesi, piemontesi e toscani, si trasforma in brand di elevato prestigio dell’enologia internazionale che evoca territori di straordinaria vocazione vitivinicola, di lunga storicità e una forte relazione tra produzioni enologiche, cultura, tradizioni e paesaggio. Una classe di imprenditori onesti e decisi trasforma le vigne, le cantine, il paesaggio e soprattutto la mentalità; la Sicilia del vino di qualità deve molto alle sue donne. Sono diventate, nel tempo, le ambasciatrici, orgogliose e credibili, della propria terra all’estero, girando il mondo, portando con se passione, conoscenza, eleganza e determinazione. Giovani e donne assumono ruoli decisionali nelle proprie aziende e incarnano nel tessuto produttivo della Sicilia, un modello imprenditoriale moderno, culturalmente elevato, capace di generare identità competitiva e una nuova immagine del vino Made in Sicily. E se è così, su quali elementi poggia questo settore e comunque quali sono gli intralci e i ritardi che ne impediscono il pieno sviluppo? Il cambiamento è stato molto rapido e la trasformazione velocissima: su circa 120 mila ettari quasi la metà (60.000 ha) sono stati riconvertiti alla viticoltura e l’enologia di qualità; quel che resta o trova spazio nel mercato oppure e destinato a scomparire. Accanto alle eccellenze storiche – penso al Marsala – si stanno sviluppando sempre più nuovi modelli di produzione e di commercializzazione di prodotti della natura siciliana. Qual è l’attenzione e quali

le priorità che un’istituzione come la sua dedica a questo vasto settore? L’Istituto Regionale della Vite e del Vino (IRVV) è un Ente Pubblico della Regione Siciliana. A partire dalla fine degli anni 80 l’IRVV ha orientato l’attività verso la qualificazione dei Vini di Sicilia con una chiarezza di obiettivi che va dalla valorizzazione dell’identità territoriale dei vini di Sicilia, coniugando la tradizione e la qualità dei prodotti ai luoghi di produzione e alle diverse attrattive naturali e storico-culturali del territorio, alla promozione e comunicazione finalizzate allo sviluppo competitivo del mercato dei vini siciliani nel mondo, anche attraverso l’aggregazione di aziende. Dalla ricerca applicata volta allo sviluppo di nuovi prodotti, processi e tecnologie nel campo viticolo ed enologico, valorizzando le competenze scientifiche, strumentali e professionali dell’IRVV, quale ente di ricerca della Regione Siciliana, alla certificazione dei Vini di Sicilia a Denominazione di Origine (DOC), quale soggetto riconosciuto dal MIPAF ai sensi della normativa comunitaria e a seguito di procedura di accreditamento internazionale per la competenza, la specificità e l’imparzialità. E ancora dalla valorizzazione enogastronomica dei territori di Sicilia per favorire la vendita diretta, l’enoturismo e la formazione di una cultura Wine in Moderation secondo le strategie formulate dall’Unione Europea, alla formazione delle imprese su innovazione, export management ed enoturismo. La Sicilia è da sempre conosciuta e apprezzata nel mondo per la qualità dei prodotti della sua terra. Qual è l’attenzione che i produttori, la sua Istituzione e la Regione dedicano alla tutela di queste qualità? I vini di Sicilia hanno attratto l’interesse dei consumatori per la forte personalità e il carattere identitario. Un’unica grande anima, la

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Sicilia, dentro tutti i suoi molteplici luoghi, diversi per morfologia, tradizioni, spirito e carattere. E cosa sono i vini siciliani se non la possibilità di assaporare questa realtà, unica e sfaccettata, armonica e complessa, immobile e in continua evoluzione. Perché bere un bicchiere di vino è come gustare un lembo di quella terra, ingerire un pezzo di storia, cultura e tradizioni. I consumatori apprezzano i vini perché portano con il sapore dell’uva che li ha prodotti e del sole che ne ha fatto maturare i grappoli. Verso questa direzione è finalizzato il lavoro dell’istituzione e quello delle imprese. È possibile in una regione come la Sicilia fare coesistere gli aspetti della sua grande tradizione con le nuove specie in campo agroalimentare e ambientale, come ad esempio le nuove forme della green economy? Tradizione e innovazione possono coesistere soprattutto nei luoghi naturalisticamente più importanti come l’Etna, il vulcano attivo più alto d’Europa. Questa terra purpurea come la lava, unica al mondo, va dall’Etna ai caratteristici paesi: comuni antichi, ricchi di storia, beni artistici ed ambientali. Questo luogo si racconta attraverso i suoi ambienti differenti per morfologia e tipologia: le sue coltivazioni fino a mille metri, le colline, i fitti boschi, i tornanti che cingono il monte, i rigogliosi frutteti e le coltivazioni di pistacchi, i caratteristici muri a secco di nera pietra lavica, le zone brulle e quelle urbanizzate. E anche di come non abbia eguali nella viticoltura: alle pendici del vulcano si producono vini dalle caratteristiche sempre diverse, grazie al gioco dei climi e dei suoli che fanno dell’Etna un piccolo continente. La “verde economia” trova un terreno fertile e coniuga la tutela ambientale con l’attività imprenditoriale. MB


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FUORI DAL GREEN

Il golfista, pirata e signore

Q

u a n d o l’editore di “Vino e Dintorni” mi ha chiesto di curare una rubrica di golf, non ci ho pensato su più tanto.. chiedere a un golfista di parlare di golf è come invitare una lepre a correre, è come parlare di donne a… Palazzo Grazioli, è come offrire un Brunello al mio amico (golfista) Corsino. Il Golfista, infatti, prova una sorta di eccitazione fisica nel parlare di golf. Si esalta, esagera, balbetta, sputacchia, sbava, urla senza motivo e, specie se in compagnia di un altro golfista, riesce a rovinare qualsiasi serata, cena, convivio e ritrovo tra amici, isolandosi in un angolo e continuando per ore a mimare movimenti, situazioni di gioco, disavventure, colpi spettacolari, disastri, fuori limite e sfighe mostruose. Prima della partenza per una cena conviviale, le mogli dei golfisti si fanno spesso giurare sulla testa dei figli che sarà bandito, durante le conversazioni a tavola, ogni

Roberto Martini

e qualsiasi riferimento a mazze, palline, campi, gare e tecnica golfistica. È assai curioso osservare i golfisti che parlano tra di loro (ovviamente solo di golf) e i loro gesti, la loro mimica, la fonetica sono oggetto di studio da parte dei più autorevoli etologi e studiosi del comportamento animale. Il Golfista è un pirata ed un signore, un simpatico cialtrone, un cazzaro, un bambino, un bugiardo, un sognatore, un gagà, uno “psicopatico” pieno di manie, fissazioni, tic e fisime, un playboy, un poeta, un gaudente, un artista, un esteta e, molto spesso, un uomo vessato, vilipeso e tartassato da un essere immondo: “la moglie del golfista”. Un noto aforisma anglosassone dice più o meno: “Se hai un handicap fra 24 e 18, controlla tuo swing; se è fra 18 e 10, controlla i tuoi affari; se è fra 0 e 10, controlla tua moglie”. In realtà, se il suo handicap è sceso sotto 10, al golfista medio non gliene può fregare di meno di quel che fa la moglie… (chiunque infatti baratterebbe uno splendido handicap 9,9 con la certificazione di “Cornuto ISO 9001”) e vive una condizione simile a quella dei “separati

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in casa”.La tragedia, invece, si materializza per i golfisti/coniugati con handicap alto, che ancora si illudono di poter… salvare capra e cavoli. Trattasi della categoria che suscita le maggiori simpatie e la più sincera solidarietà umana da parte della minoranza di golfisti… ”a piede libero”, posto che i golfisti/coniugati (i c.d. uxoreclusi) vivono con profonda rassegnazione la loro condizione di ristretti agli arresti domiciliari, con evidente incapacità di reagire e di dare una svolta alla loro vita. Sono costretti, infatti, a pietosi escamotages pur di vivere la loro passione golfistica: fingono di avere un’amante per giustificare ore ed ore di assenza, nascondono la sacca presso parenti o amici, si iscrivono alle gare sotto falso nome, praticano di nascosto nel bagno fingendo di masturbarsi… La maggior parte di loro spera che prima o poi la moglie riesca a farsi un’amante giovane ed aitante; alcuni, ahimè, si vedono costretti a scannarla con un machete, dopo averli costretti ad un sabato all’IKEA in tragica concomitanza con la Coppa del Presidente…


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FUORI DAL GREEN

Il golfista, pirata e signore

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u a n d o l’editore di “Vino e Dintorni” mi ha chiesto di curare una rubrica di golf, non ci ho pensato su più tanto.. chiedere a un golfista di parlare di golf è come invitare una lepre a correre, è come parlare di donne a… Palazzo Grazioli, è come offrire un Brunello al mio amico (golfista) Corsino. Il Golfista, infatti, prova una sorta di eccitazione fisica nel parlare di golf. Si esalta, esagera, balbetta, sputacchia, sbava, urla senza motivo e, specie se in compagnia di un altro golfista, riesce a rovinare qualsiasi serata, cena, convivio e ritrovo tra amici, isolandosi in un angolo e continuando per ore a mimare movimenti, situazioni di gioco, disavventure, colpi spettacolari, disastri, fuori limite e sfighe mostruose. Prima della partenza per una cena conviviale, le mogli dei golfisti si fanno spesso giurare sulla testa dei figli che sarà bandito, durante le conversazioni a tavola, ogni

Roberto Martini

e qualsiasi riferimento a mazze, palline, campi, gare e tecnica golfistica. È assai curioso osservare i golfisti che parlano tra di loro (ovviamente solo di golf) e i loro gesti, la loro mimica, la fonetica sono oggetto di studio da parte dei più autorevoli etologi e studiosi del comportamento animale. Il Golfista è un pirata ed un signore, un simpatico cialtrone, un cazzaro, un bambino, un bugiardo, un sognatore, un gagà, uno “psicopatico” pieno di manie, fissazioni, tic e fisime, un playboy, un poeta, un gaudente, un artista, un esteta e, molto spesso, un uomo vessato, vilipeso e tartassato da un essere immondo: “la moglie del golfista”. Un noto aforisma anglosassone dice più o meno: “Se hai un handicap fra 24 e 18, controlla tuo swing; se è fra 18 e 10, controlla i tuoi affari; se è fra 0 e 10, controlla tua moglie”. In realtà, se il suo handicap è sceso sotto 10, al golfista medio non gliene può fregare di meno di quel che fa la moglie… (chiunque infatti baratterebbe uno splendido handicap 9,9 con la certificazione di “Cornuto ISO 9001”) e vive una condizione simile a quella dei “separati

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in casa”.La tragedia, invece, si materializza per i golfisti/coniugati con handicap alto, che ancora si illudono di poter… salvare capra e cavoli. Trattasi della categoria che suscita le maggiori simpatie e la più sincera solidarietà umana da parte della minoranza di golfisti… ”a piede libero”, posto che i golfisti/coniugati (i c.d. uxoreclusi) vivono con profonda rassegnazione la loro condizione di ristretti agli arresti domiciliari, con evidente incapacità di reagire e di dare una svolta alla loro vita. Sono costretti, infatti, a pietosi escamotages pur di vivere la loro passione golfistica: fingono di avere un’amante per giustificare ore ed ore di assenza, nascondono la sacca presso parenti o amici, si iscrivono alle gare sotto falso nome, praticano di nascosto nel bagno fingendo di masturbarsi… La maggior parte di loro spera che prima o poi la moglie riesca a farsi un’amante giovane ed aitante; alcuni, ahimè, si vedono costretti a scannarla con un machete, dopo averli costretti ad un sabato all’IKEA in tragica concomitanza con la Coppa del Presidente…


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approfondimento

Bordeaux en primeur

annata 2010

Paolo Baracchino

Anche i semplici appassionati di vino possono trarre dall’analisi di un grande esperto informazioni utili per una degustazione consapevole.

Q

uesto articolo è la seconda parte dell’approfondimento iniziato nel numero 70 de “Il Chianti e le terre del vino”. Le mie valutazioni sono per i soli appassionati di vino che amano leggere le analisi di degustazione ed il conseguente punteggio che sintetizza la complessa analisi sotto i profili visivo, olfattivo e gustativo. Se si vuole fare una corretta analisi del vino ci vuole tempo, le cose fatte bene, o almeno con l’intenzione di farle bene, richiedono tempo ed attenzione. Devo confessare che il mio lavoro mi gratifica perché spessissimo mi confronto con i tecnici ed i produttori di vino, dopo avere degustato i loro vini, e molto spesso trovo consensi sulle mie valutazioni. Delle volte mi chiedo se i miei 85

articoli, le mie analisi dei vini, sono capiti ed apprezzati dai lettori. È vero che sono abbastanza tecnici ma è vero, altresì, che cerco di esprimermi in modo comprensibile per tutti. Spesso trovo dei produttori che mi ringraziano perché le mie analisi aiutano nella crescita qualitativa dei vini. So bene che talvolta i miei giudizi, anche se condivisi, possono contrariare un produttore. Tra la stesura del primo articolo sull’En Primeur 2010 di Bordeaux ed il secondo, sono ritornato a Bordeaux per il Vinexpo 2011 e sono stato invitato, per l’inaugurazione della manifestazione, alla cena di gala tenutasi presso lo Château Bouscaut (Pessac – Leognan) dove ho incontrato molti amici giornalisti stranieri e molti produttori anche della denominazione Pessac – Leognan. Al mio tavolo avevo sulla destra il direttore generale dell’azienda californiana Harlan - Estate, Signor Don Weaver con il quale ho parlato a lungo dei suoi vini, complimentandomi per la qualità


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approfondimento

Bordeaux en primeur

annata 2010

Paolo Baracchino

Anche i semplici appassionati di vino possono trarre dall’analisi di un grande esperto informazioni utili per una degustazione consapevole.

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uesto articolo è la seconda parte dell’approfondimento iniziato nel numero 70 de “Il Chianti e le terre del vino”. Le mie valutazioni sono per i soli appassionati di vino che amano leggere le analisi di degustazione ed il conseguente punteggio che sintetizza la complessa analisi sotto i profili visivo, olfattivo e gustativo. Se si vuole fare una corretta analisi del vino ci vuole tempo, le cose fatte bene, o almeno con l’intenzione di farle bene, richiedono tempo ed attenzione. Devo confessare che il mio lavoro mi gratifica perché spessissimo mi confronto con i tecnici ed i produttori di vino, dopo avere degustato i loro vini, e molto spesso trovo consensi sulle mie valutazioni. Delle volte mi chiedo se i miei 85

articoli, le mie analisi dei vini, sono capiti ed apprezzati dai lettori. È vero che sono abbastanza tecnici ma è vero, altresì, che cerco di esprimermi in modo comprensibile per tutti. Spesso trovo dei produttori che mi ringraziano perché le mie analisi aiutano nella crescita qualitativa dei vini. So bene che talvolta i miei giudizi, anche se condivisi, possono contrariare un produttore. Tra la stesura del primo articolo sull’En Primeur 2010 di Bordeaux ed il secondo, sono ritornato a Bordeaux per il Vinexpo 2011 e sono stato invitato, per l’inaugurazione della manifestazione, alla cena di gala tenutasi presso lo Château Bouscaut (Pessac – Leognan) dove ho incontrato molti amici giornalisti stranieri e molti produttori anche della denominazione Pessac – Leognan. Al mio tavolo avevo sulla destra il direttore generale dell’azienda californiana Harlan - Estate, Signor Don Weaver con il quale ho parlato a lungo dei suoi vini, complimentandomi per la qualità


degli stessi e sottolineando che in generale i vini californiani non sono di mio gusto poiché il frutto è quasi sempre sovrammaturo, cioè confettura di frutta, ed il legno è presente, a mio giudizio, in modo eccessivo. Tre giorni dopo ero ad un’altra cena presso lo Château Haut – Bailly, a Léognan, invitato da Veronique Sanders, direttrice dell’azienda, signora deliziosa e piena di charme. Prima della cena ho potuto fare, come tutti gli invitati, una verticale del vino Haut – Bailly dal 2001 al 2010. Ovviamente si è trattato di una verticale veloce, in quanto fatta in piedi ed in tempo abbastanza limitato, ma ciò è bastato a confermare il mio pensiero più che positivo sul vino prodotto da questa stupenda azienda. In genere il problema che aveva questo vino, prima del 2000, era la mancanza di equilibrio gustativo, in quanto la massa alcolica, tendeva a superare la freschezza. Con l’annata 2000 c’è stato un grande cambiamento ed il vino, da quel momento, è diventato completamente equilibrato. L’Haut – Bailly è un vino che ti delizia il palato, ha classe, eleganza e piacevolezza. I tannini sono setosi e la freschezza, con l’aiuto del tannino, domina la massa alcoolica. In gioventù nei vini di questo Château si sente, in genere, un po’ il legno ma con il passare del tempo questo si fonde al vino. Alla cena presso lo Château Haut – Bailly, destino incredibile, mi sono trovato di nuovo al mio tavolo, sulla mia destra, con mio grande piacere, il direttore generale dell’azienda californiana Harlan – Estate con il quale ho parlato di alcune aziende californiane di mio gradimento, tra cui Screaming Eagle. A tale mia affermazione mi sentivo dire da Don Weaver che il proprietario di Screaming Eagle era seduto al nostro tavolo davanti a me, come pure era seduto davanti a me il Signor Gabriel Vialard direttore tecnico dello Château Haut Bailly. A questa cena, come a quella precedente presso lo Château

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approfondimento

approfondimento

Bouscaut, c’erano tanti personaggi importanti del mondo del vino che io non conoscevo, pur conoscendo i loro vini. Mi trovavo a contatto con tante persone che avevano contribuito e stavano contribuendo a creare la storia del vino di alto livello mondiale. Durante i giorni del Vinexpo ho conosciuto varie persone ed ho assaggiato anche dei vini che non conoscevo tra cui gli Champagne Armand de Brignac prodotti dalla Maison Cattier che ha una gamma di bollicine, numerosa e di qualità. Il figlio del proprietario, Signor Alexandre Cattier dopo una breve presentazione, pur non conoscendomi, mi ha dato la possibilità di assaggiare, ciò che volevo, della sua azienda. Abbiamo iniziato a degustare sei champagne Cattier e per ogni champagne ho fatto, come mia abitudine, l’analisi visiva, olfattiva e degustativa. Vedevo nel Signor Alexandre Cattier un particolare interesse nell’ascoltarmi, perché, a suo dire, non era facile incontrare una persona che facesse un’analisi così scrupolosa dei vini. Abbiamo poi degustato gli champagne Armand de Brignac, il blanc de blancs, il brut, il rosè e per finire il demi - sec. Si tratta di champagne di piccola produzione, esclusivi e ricercati, collocati in una fascia di prezzo abbastanza di rilievo. Le note degustative comuni a tutti e quattro gli champagne erano la mineralità, la grafite in particolare e tutti gli champagne avevano bollicine delicate e piacevoli. Il Signor Alexandre Cattier mi faceva presente che per il demi – sec la produzione era di alcune centinaia di bottiglie per anno e che l’apertura di quello specifico champagne avveniva solitamente solo presso la Maison. A tale frase, mi sono sentito molto privilegiato ed ho capito che avevo conquistato la stima del Signor Alexandre poiché mi aveva concesso di degustarlo in quel momento. Per terminare questa mia appendice sul Vinexpo voglio citare la verticale del vino italiano Ornellaia della Tenuta Ornellaia, di

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Bolgheri, alla quale sono stato invitato e dove sono stati degustati i vini dal 1985 al 2008. A questa degustazione era presente il gotha del giornalismo mondiale. I vini degustati erano tutti in formato magnum. I vini erano tanti, purtroppo però il tempo non era adeguato all’importanza della degustazione. Devo fare due precisazioni e cioè la prima che il 2006 da me degustato durante la presentazione del nuovo ingresso alla cantina dell’azienda mi aveva colpito negativamente per l’eccessiva presenza di alcool. È opportuno ricordare che a Bolgheri l’annata 2006 è stata caratterizzata dalla eccessiva presenza di alcool nei vini, ma più che altro dalla mancanza di un buon equilibrio gustativo. Il 2006 che avevo degustato durante la verticale era completamente diverso, era bevibile, perché il vino era più equilibrato. La seconda è stata la conferma di quello che era il mio pensiero e cioè che i migliori vini della verticale erano stati il 2004 e subito dopo il 2001, nonostante che qualcuno avesse scritto, a mio modo di vedere, delle eresie valutative di altre annate. Il 2004 aveva al gusto una bella succosità di prugna mentre il 2001 aveva al gusto il fieno secco, la menta ed una bella persistenza. È stata una bellissima esperienza. Ma adesso passiamo alle note di degustazione dei restanti vini dell’En Primeur di Bordeaux 2010. Per quanto riguarda la larghezza del tannino è importante che faccia le precisazioni che seguono affinché possa essere compresa. Io sento il tannino del vino sulla gengiva superiore. La totale larghezza del tannino è 6/6, cioè tutta la larghezza della gengiva superiore. Ovviamente se il tannino è meno largo potrà essere per esempio 5/6 e così via. La larghezza del tannino è importante quando la qualità dello stesso è di buono o alto livello. Più il tannino è largo più il vino è degno di attenzione, ma il tannino come ho precisato deve essere in ogni caso di buona qualità.

Aïle d’argent 2010 Bordeaux – bianco (Sauvignon 60% e Semillon 40%)

È il vino bianco prodotto dallo Château Mouton Rothschild. Veste giallo paglierino. Al naso offre sentori di foglia di pomodoro, foglia di ruta, affumicato, episperma (pelle interna del marrone bollito), menta, pepe bianco, iodio, fiori bianchi, lieve garofano, terra bagnata, sedano fresco, per terminare con dei rimandi di sapone di Marsiglia. Gusto caratterizzato da una abbondante sapidità, accompagnata da una misurata mineralità. Il corpo non è partico-

Aspetto giallo paglierino con riflessi grigio verdi. Naso caratterizzato da note di lievito di birra intense, seguite da iodio, salsedine, pietra focaia, boisé, pepe bianco, biancospino, per terminare con soffi di sapone di Marsiglia. Bocca con note boisé ed agrumate. Vino sapido, minerale, equilibrato con una

piacevole e dominante spalla acida. Lunga è la sua persistenza aromatica intensa con finale boisé. Vino nell’insieme piacevole che dovrà, con l’affinamento in bottiglia, perdere un po’ il legno. Vino ben fatto, come il 2009, anche se il 2010 ha in più note agrumate che lo rendono più interessante e piacevole.

Bouscaut 2010 Pessac – Léognan - rosso (Merlot 55% e Cabernet Sauvignon 45%)

Bellissimo rosso rubino con marcati bagliori porpora vivo, con cuore intenso. Si innalzano copiose note fruttate di ciliegia, lievemente matura, accompagnate da cioccolata, intense, fumé, menta, caucciù, liquirizia, per terminare, l’esame olfattivo, con piacevoli sentori di mirtillo. Al gusto si gode da subito un buon equilibrio, con asse alcool – acidi-

Carbonnieux 2010 Pessac – Léognan - bianco (Sauvignon blanc 65% e Semillon 35%)

Rosso rubino nero intenso, concentrato. L’approccio olfattivo è caratterizzato da note di cioccolata, ciliegia, lievemente matura, tabacco biondo della Virginia, pelle, amido dell’acqua del riso bollito, pepe nero fine per terminare con dei rimandi di oliva nera. Al gusto si presenta delicato, di buona beva, ma con non tanta struttura. Vino abbastanza equilibrato con spalla acida in evidenza sulla massa al-

tà – tannino in perfetta armonia tra loro. Il tannino è quasi completamente largo (6/6 -), dolce e setoso. Lunga è la sua persistenza aromatica intensa con finale di prugna e fumé. Si ha l’impressione che il corpo sia un po’ sfuggente. Colpiscono la piacevole acidità e la setosità del tannino. Nel suo insieme è un bel vino. 92/94

Risplende di un giallo paglierino con riflessi grigi. Espressione olfattiva di buon impatto con piacevoli fiori maturi, evoluti, accompagnati da note speziate intense di pepe bianco, seguiti da profumi di pasticceria, buccia di banana matura, foglia di ruta, iodio, agrumi, lievi, amido di cotone, vegetali, lievi, per terminare con il cuoio fresco. All’esame gustativo si mostra equilibrato con generosa spalla acida e

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larmente strutturato. Vino equilibrato con spalla acida che supera, senza problemi, la massa alcoolica, grazie anche alla sua abbondante sapidità. Non lunga è la sua persistenza aromatica intensa con finale di episperma. Vino piacevole ma che difetta un po’ di struttura e di persistenza. L’amico direttore tecnico, Philippe Dhalluin, mi faceva presente, durante la degustazione del vino, che le vigne sono giovani, pertanto con l’invecchiare delle stesse il vino prenderà più struttura e persistenza. 89/91

Bouscaut 2010 Pessac – Léognan - bianco (Sauvignon blanc 60% e Semillon 40%)

coolica ma con un tannino non tanto largo (4/6 ++) inizialmente dolce e vellutato per diventare poi un po’ asciutto e dare una sensazione calorica alla gengiva superiore. Persistenza non particolarmente lunga, con finale boisé. Il tannino del 2009 era molto più largo anche se finiva con la stessa sensazione calorica sulla gengiva superiore, ed il vino aveva più persistenza. Trovo che il 2009 sia un po’ superiore a questo 2010. 88/90

Branaire Ducru 2010 Saint – Julien - rosso (Cabernet Sauvignon 70%, Merlot 23%, Petit Verdot 4% e Cabernet Franc 3%)

sapidità che sovrastano la massa alcolica. Il corpo non è particolarmente importante ed abbastanza lunga è la sua persistenza, con finale agrumato che ricorda l’esame olfattivo. Vino piacevole, a mio avviso, più equilibrato del 2009 ed anche con minore presenza di legno. In questo momento questo 2010 mi è piaciuto più all’olfatto che al gusto. 89/91


degli stessi e sottolineando che in generale i vini californiani non sono di mio gusto poiché il frutto è quasi sempre sovrammaturo, cioè confettura di frutta, ed il legno è presente, a mio giudizio, in modo eccessivo. Tre giorni dopo ero ad un’altra cena presso lo Château Haut – Bailly, a Léognan, invitato da Veronique Sanders, direttrice dell’azienda, signora deliziosa e piena di charme. Prima della cena ho potuto fare, come tutti gli invitati, una verticale del vino Haut – Bailly dal 2001 al 2010. Ovviamente si è trattato di una verticale veloce, in quanto fatta in piedi ed in tempo abbastanza limitato, ma ciò è bastato a confermare il mio pensiero più che positivo sul vino prodotto da questa stupenda azienda. In genere il problema che aveva questo vino, prima del 2000, era la mancanza di equilibrio gustativo, in quanto la massa alcolica, tendeva a superare la freschezza. Con l’annata 2000 c’è stato un grande cambiamento ed il vino, da quel momento, è diventato completamente equilibrato. L’Haut – Bailly è un vino che ti delizia il palato, ha classe, eleganza e piacevolezza. I tannini sono setosi e la freschezza, con l’aiuto del tannino, domina la massa alcoolica. In gioventù nei vini di questo Château si sente, in genere, un po’ il legno ma con il passare del tempo questo si fonde al vino. Alla cena presso lo Château Haut – Bailly, destino incredibile, mi sono trovato di nuovo al mio tavolo, sulla mia destra, con mio grande piacere, il direttore generale dell’azienda californiana Harlan – Estate con il quale ho parlato di alcune aziende californiane di mio gradimento, tra cui Screaming Eagle. A tale mia affermazione mi sentivo dire da Don Weaver che il proprietario di Screaming Eagle era seduto al nostro tavolo davanti a me, come pure era seduto davanti a me il Signor Gabriel Vialard direttore tecnico dello Château Haut Bailly. A questa cena, come a quella precedente presso lo Château

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approfondimento

approfondimento

Bouscaut, c’erano tanti personaggi importanti del mondo del vino che io non conoscevo, pur conoscendo i loro vini. Mi trovavo a contatto con tante persone che avevano contribuito e stavano contribuendo a creare la storia del vino di alto livello mondiale. Durante i giorni del Vinexpo ho conosciuto varie persone ed ho assaggiato anche dei vini che non conoscevo tra cui gli Champagne Armand de Brignac prodotti dalla Maison Cattier che ha una gamma di bollicine, numerosa e di qualità. Il figlio del proprietario, Signor Alexandre Cattier dopo una breve presentazione, pur non conoscendomi, mi ha dato la possibilità di assaggiare, ciò che volevo, della sua azienda. Abbiamo iniziato a degustare sei champagne Cattier e per ogni champagne ho fatto, come mia abitudine, l’analisi visiva, olfattiva e degustativa. Vedevo nel Signor Alexandre Cattier un particolare interesse nell’ascoltarmi, perché, a suo dire, non era facile incontrare una persona che facesse un’analisi così scrupolosa dei vini. Abbiamo poi degustato gli champagne Armand de Brignac, il blanc de blancs, il brut, il rosè e per finire il demi - sec. Si tratta di champagne di piccola produzione, esclusivi e ricercati, collocati in una fascia di prezzo abbastanza di rilievo. Le note degustative comuni a tutti e quattro gli champagne erano la mineralità, la grafite in particolare e tutti gli champagne avevano bollicine delicate e piacevoli. Il Signor Alexandre Cattier mi faceva presente che per il demi – sec la produzione era di alcune centinaia di bottiglie per anno e che l’apertura di quello specifico champagne avveniva solitamente solo presso la Maison. A tale frase, mi sono sentito molto privilegiato ed ho capito che avevo conquistato la stima del Signor Alexandre poiché mi aveva concesso di degustarlo in quel momento. Per terminare questa mia appendice sul Vinexpo voglio citare la verticale del vino italiano Ornellaia della Tenuta Ornellaia, di

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Bolgheri, alla quale sono stato invitato e dove sono stati degustati i vini dal 1985 al 2008. A questa degustazione era presente il gotha del giornalismo mondiale. I vini degustati erano tutti in formato magnum. I vini erano tanti, purtroppo però il tempo non era adeguato all’importanza della degustazione. Devo fare due precisazioni e cioè la prima che il 2006 da me degustato durante la presentazione del nuovo ingresso alla cantina dell’azienda mi aveva colpito negativamente per l’eccessiva presenza di alcool. È opportuno ricordare che a Bolgheri l’annata 2006 è stata caratterizzata dalla eccessiva presenza di alcool nei vini, ma più che altro dalla mancanza di un buon equilibrio gustativo. Il 2006 che avevo degustato durante la verticale era completamente diverso, era bevibile, perché il vino era più equilibrato. La seconda è stata la conferma di quello che era il mio pensiero e cioè che i migliori vini della verticale erano stati il 2004 e subito dopo il 2001, nonostante che qualcuno avesse scritto, a mio modo di vedere, delle eresie valutative di altre annate. Il 2004 aveva al gusto una bella succosità di prugna mentre il 2001 aveva al gusto il fieno secco, la menta ed una bella persistenza. È stata una bellissima esperienza. Ma adesso passiamo alle note di degustazione dei restanti vini dell’En Primeur di Bordeaux 2010. Per quanto riguarda la larghezza del tannino è importante che faccia le precisazioni che seguono affinché possa essere compresa. Io sento il tannino del vino sulla gengiva superiore. La totale larghezza del tannino è 6/6, cioè tutta la larghezza della gengiva superiore. Ovviamente se il tannino è meno largo potrà essere per esempio 5/6 e così via. La larghezza del tannino è importante quando la qualità dello stesso è di buono o alto livello. Più il tannino è largo più il vino è degno di attenzione, ma il tannino come ho precisato deve essere in ogni caso di buona qualità.

Aïle d’argent 2010 Bordeaux – bianco (Sauvignon 60% e Semillon 40%)

È il vino bianco prodotto dallo Château Mouton Rothschild. Veste giallo paglierino. Al naso offre sentori di foglia di pomodoro, foglia di ruta, affumicato, episperma (pelle interna del marrone bollito), menta, pepe bianco, iodio, fiori bianchi, lieve garofano, terra bagnata, sedano fresco, per terminare con dei rimandi di sapone di Marsiglia. Gusto caratterizzato da una abbondante sapidità, accompagnata da una misurata mineralità. Il corpo non è partico-

Aspetto giallo paglierino con riflessi grigio verdi. Naso caratterizzato da note di lievito di birra intense, seguite da iodio, salsedine, pietra focaia, boisé, pepe bianco, biancospino, per terminare con soffi di sapone di Marsiglia. Bocca con note boisé ed agrumate. Vino sapido, minerale, equilibrato con una

piacevole e dominante spalla acida. Lunga è la sua persistenza aromatica intensa con finale boisé. Vino nell’insieme piacevole che dovrà, con l’affinamento in bottiglia, perdere un po’ il legno. Vino ben fatto, come il 2009, anche se il 2010 ha in più note agrumate che lo rendono più interessante e piacevole.

Bouscaut 2010 Pessac – Léognan - rosso (Merlot 55% e Cabernet Sauvignon 45%)

Bellissimo rosso rubino con marcati bagliori porpora vivo, con cuore intenso. Si innalzano copiose note fruttate di ciliegia, lievemente matura, accompagnate da cioccolata, intense, fumé, menta, caucciù, liquirizia, per terminare, l’esame olfattivo, con piacevoli sentori di mirtillo. Al gusto si gode da subito un buon equilibrio, con asse alcool – acidi-

Carbonnieux 2010 Pessac – Léognan - bianco (Sauvignon blanc 65% e Semillon 35%)

Rosso rubino nero intenso, concentrato. L’approccio olfattivo è caratterizzato da note di cioccolata, ciliegia, lievemente matura, tabacco biondo della Virginia, pelle, amido dell’acqua del riso bollito, pepe nero fine per terminare con dei rimandi di oliva nera. Al gusto si presenta delicato, di buona beva, ma con non tanta struttura. Vino abbastanza equilibrato con spalla acida in evidenza sulla massa al-

tà – tannino in perfetta armonia tra loro. Il tannino è quasi completamente largo (6/6 -), dolce e setoso. Lunga è la sua persistenza aromatica intensa con finale di prugna e fumé. Si ha l’impressione che il corpo sia un po’ sfuggente. Colpiscono la piacevole acidità e la setosità del tannino. Nel suo insieme è un bel vino. 92/94

Risplende di un giallo paglierino con riflessi grigi. Espressione olfattiva di buon impatto con piacevoli fiori maturi, evoluti, accompagnati da note speziate intense di pepe bianco, seguiti da profumi di pasticceria, buccia di banana matura, foglia di ruta, iodio, agrumi, lievi, amido di cotone, vegetali, lievi, per terminare con il cuoio fresco. All’esame gustativo si mostra equilibrato con generosa spalla acida e

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larmente strutturato. Vino equilibrato con spalla acida che supera, senza problemi, la massa alcoolica, grazie anche alla sua abbondante sapidità. Non lunga è la sua persistenza aromatica intensa con finale di episperma. Vino piacevole ma che difetta un po’ di struttura e di persistenza. L’amico direttore tecnico, Philippe Dhalluin, mi faceva presente, durante la degustazione del vino, che le vigne sono giovani, pertanto con l’invecchiare delle stesse il vino prenderà più struttura e persistenza. 89/91

Bouscaut 2010 Pessac – Léognan - bianco (Sauvignon blanc 60% e Semillon 40%)

coolica ma con un tannino non tanto largo (4/6 ++) inizialmente dolce e vellutato per diventare poi un po’ asciutto e dare una sensazione calorica alla gengiva superiore. Persistenza non particolarmente lunga, con finale boisé. Il tannino del 2009 era molto più largo anche se finiva con la stessa sensazione calorica sulla gengiva superiore, ed il vino aveva più persistenza. Trovo che il 2009 sia un po’ superiore a questo 2010. 88/90

Branaire Ducru 2010 Saint – Julien - rosso (Cabernet Sauvignon 70%, Merlot 23%, Petit Verdot 4% e Cabernet Franc 3%)

sapidità che sovrastano la massa alcolica. Il corpo non è particolarmente importante ed abbastanza lunga è la sua persistenza, con finale agrumato che ricorda l’esame olfattivo. Vino piacevole, a mio avviso, più equilibrato del 2009 ed anche con minore presenza di legno. In questo momento questo 2010 mi è piaciuto più all’olfatto che al gusto. 89/91


Robe rosso rubino con trame porpora. Naso imperioso che evoca, intensamente, la cioccolata e la prugna seguite da ciliegia, pepe nero, lieve, mirtillo, menta eucalipto, boisé, per terminare con dei rimandi di pelle vegetale (è la pelle che si avvicina alla dolcezza del cuoio fresco). Corpo pieno e bilanciato, retto da tannini abbastanza larghi (5/6) dolci

Carruades de Lafite 2010 Pauillac - rosso (Cabernet Sauvignon 50%, Merlot 42,5%, Petit Verdot 2,4% e Cabernet Franc 5,1%)

Vino fatto dal Signor Philippe Baillarguet, enologo interno dello Château Ausone, produzione annua di circa 1.800 bottiglie. Colore rosso rubino con trame intense porpora. Al naso esplodono profumi di ciliegia, con perfetta maturità, seguiti dalla cioccolata, menta, pepe nero, noce moscata, pelle, erbe medicinali, confetto, per terminare con note minerali di grafite. In bocca è piacevole con sentori di

Clos Fourtet 2010

v

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approfondimento

approfondimento

e setosi. Lunga è la sua persistenza aromatica intensa con finale di prugna, cioccolata e caffè freddo. Ricordo che il 2009 aveva la frutta più matura del 2010, mentre quest’ultimo ha più presenza del legno rispetto alla prima. Vino piacevole che dovrà perdere un po’ il legno. 91/93

Bel rosso rubino con riflessi porpora. Bouquet di cuoio fresco, cioccolata, mela rossa, smalto di vernice, intensi, menta, pepe nero, prugna, alloro, ciliegia, per terminare con note minerali di ruggine. Gusto caratterizzato da una bella prugna accompagnata dalla cioccolata. Vino equilibrato con la freschezza che domina la massa alcoolica, mentre

prugna e ciliegia. Vino equilibrato con l’acidità che conduce il comando dell’equilibrio gustativo grazie anche ad un tannino dolce, abbastanza largo (5/6+) e setoso. Lunga è la sua persistenza aromatica intensa con finale di ciliegia sotto spirito, ma senza alcool e cioccolata. Vino piacevole. Ricordo che il 2009 aveva un po’ di presenza di legno ma il tannino era più largo di quello del 2010. In entrambe le annate la ciliegia aveva una maturità perfetta. 91/93

Saint – Émilion - rosso (Merlot 87%, Cabernet Sauvignon 10% e Cabernet Franc 3%)

Rosso rubino con trame porpora. Bouquet di cioccolata, menta, ciliegia, prugna, pelle, pomodoro secco e poi nel finale di nuovo ritorna la cioccolata. Vino ben fatto e piacevole con un buon equilibrio gustativo, grazie anche ad un tannino largo (6/6-) dolce e setoso.

Veste rosso rubino e porpora intensi. Olfatto di carattere con note di cuoio e scatole di sigari cubani intense seguite da profumi di menta, prugna, mela rossa, pepe nero, noce moscata, ciliegia marasca, per terminare con rimandi di pomodoro secco. Bella bocca caratterizzata da sapori di cioccolata, prugna e scatola di sigari. Vino abbastanza equilibrato con alcool e freschezza che in questo mo-

mento cercano di avere ciascuno la guida del comando dell’equilibrio gustativo. Il tannino è dolce, vellutato ed abbastanza largo (5/6 - ). Buona mineralità, corpo medio con abbastanza lunga persistenza aromatica intensa. Nelle mie note ho scritto: “vino d’impatto”. Il 2009 era più equilibrato del 2010, i tannini sono larghi, allo stesso modo, come pure la persistenza è similare. 90/92

88

Carbonnieux 2010

Figeac 2010 Saint – Émilion - rosso (Cabernet Sauvignon 1/3, Cabernet Franc 1/3 e Merlot 1/3)

Colore di grande impressione: rosso rubino intenso con bordo porpora. Olfatto piacevole con evidenti note di pelle vegetale (pelle che tende al dolce del cuoio), cioccolata, menta, pepe nero, ciliegia, caucciù, per terminare con l’olio di lino. Al gusto si sentono in modo evidente la ciliegia un po’ matura e la cioccolata. Vino equilibrato con spalla acida in evidenza sulla massa alcoolica, men-

il tannino è abbastanza largo (4/6+) dolce e vellutato. Abbastanza lunga è la sua persistenza aromatica intensa, con finale di prugna. A questo vino manca un po’ di persistenza ed ho notato che quando entra in bocca non si allarga ma rimane centrale e lungo. Mi era piaciuto di più il 2009 poiché aveva il tannino più largo ed era più persistente di questo 2010. 88/90

Colore rosso rubino intenso. Naso dall’intrigante vena di note fruttate, di ciliegia lievemente matura, seguite dalla cioccolata, pelle, liquirizia, pepe nero, episperma, lieve (seconda pelle del marrone bollito), menta, eucalipto (mi ricorda la pastiglia “Valda”), caucciù, per terminare con delle carezze di caffè. Al gusto si gode la stessa ciliegia sentita all’olfatto. Vino con buon equilibrio gustativo,

con spalla acida che, grazie al tannino dolce, largo (6/6-) e setoso, riesce ad avere, senza problemi, la supremazia sulla massa alcoolica. Lunga è la sua persistenza aromatica intensa con finale di episperma. Il tannino è largo come quello del 2009. Il 2008 aveva al gusto il tartufo nero. Il legno del 2010 è più dosato rispetto al 2009. Bel vino che dovrà perdere un po’ il legno, ma che nell’insieme è lievemente superiore al 2009. 91/93

Clos des Baies 2010

Latour Martillac 2010

Saint – Émilion - rosso (Merlot 70% e Cabernet Franc 30%)

Pessac – Leognan - bianco (Sauvignon 63% e Semillon 37%)

Pessac – Léognan - rosso (Cabernet Sauvignon 60%, Merlot 30% e Cabernet Franc 10%)

Lunga è la sua persistenza aromatica intensa con finale di cioccolata e ciliegia. Nel suo insieme vino piacevole, peccato che gli manchi un po’ di struttura. Questo 2010 è più equilibrato del 2009 ed ha anche il tannino più largo. 90/93

Duhart – Milon 2010 Pauillac - rosso (Cabernet Sauvignon 73% e Merlot 27%)

Melange di rosso rubino e porpora vivi, con cuore intenso. Svela profonde sensazioni di ciliegia matura, cioccolata, intense, prugna, menta, alcool denaturato, lievi, liquirizia, caffè, oliva nera, eucalipto e boisé. Vino con buon equilibrio gustativo e con un tannino dolce, largo (6/6) inizialmente setoso che termina con una sensazione di asciuttezza della gengiva superiore.

Leoville Poyferre 2010 Saint – Julien - rosso (Cabernet Sauvignon 61%, Merlot 30%, Petit Verdot 6% e Cabernet Franc 3%)

Veste giallo paglierino con riflessi grigio – verdi. Al naso emergono note floreali di biancospino, foglia di pomodoro, foglia di ruta, pepe bianco, cuoio fresco, iodio, salmastro, menta, episperma (seconda pelle del marrone bollito), per terminare con profumi di agrumi vari. Al gusto ha una piacevole, ricca, sapidità, accompagnata da una più mode-

Corpo lievemente inferiore alla media. Lunga è la sua persistenza aromatica intensa con finale di ciliegia matura e di lieve boisé. Il tannino del 2009 è largo come quello del 2010. Al naso il 2010 ha un po’ di alcool che non ho sentito al gusto. Mi era piaciuto di più il 2009 poiché non aveva la ciliegia matura che ho trovato nel 2010. 89/91

Smagliante e trasparente rosso rubino con trame porpora. Naso di buona complessità e piacevolezza che svela sentori di ciliegia, con perfetta maturità, menta, prugna, cassetta di medicine, lievi, caucciù, pepe nero, per terminare con una spolverata di polvere di cacao. All’assaggio è di una elegante piacevolezza evidenziata dalla presenza di una bella ciliegia e dalla cioccolata.

89

tre il tannino è dolce, abbastanza largo (5/6 - -) e setoso. Corpo medio con lunga persistenza aromatica intensa con finale di ciliegia abbastanza matura. La larghezza di questo tannino è simile al 2008 mentre il 2009 era un po’ meno largo. In tutte e tre le annate 2008, 2009 e 2010 la ciliegia, per me, è un po’ evoluta anche se nell’insieme il vino è piacevole. 89/91

Gazin 2010 Pomerol - rosso (Merlot 86%, Cabernet Sauvignon 10% e Cabernet Franc 4%)

rata mineralità. Vino ben equilibrato con acidità, sapidità, mineralità e freschezza che dominano completamente la massa alcoolica. Il corpo è medio mentre lunga è la sua persistenza aromatica intensa con finale di agrumi, in particolare di limone, di sale, di biancospino e di lieve episperma. Vino piacevole che mi ha entusiasmato più del, già buono, 2009. 91/93

Latour Martillac 2010 Pessac – Leognan - rosso (Cabernet Sauvignon 55%, Merlot 40% e Petit Verdot 5%)

Vino ben equilibrato con spalla acida in rilievo mentre il tannino è dolce, inizialmente setoso per poi nel finale asciugarsi un po’ e dare una lieve sensazione calorica alla gengiva superiore. Corpo medio con piacevole sapidità. Lunga è la sua persistenza aromatica intensa con finale di ciliegia e cioccolata. Vino molto piacevole. Spero che il tannino possa migliorare con la sosta del vino in bottiglia. 91/94


Robe rosso rubino con trame porpora. Naso imperioso che evoca, intensamente, la cioccolata e la prugna seguite da ciliegia, pepe nero, lieve, mirtillo, menta eucalipto, boisé, per terminare con dei rimandi di pelle vegetale (è la pelle che si avvicina alla dolcezza del cuoio fresco). Corpo pieno e bilanciato, retto da tannini abbastanza larghi (5/6) dolci

Carruades de Lafite 2010 Pauillac - rosso (Cabernet Sauvignon 50%, Merlot 42,5%, Petit Verdot 2,4% e Cabernet Franc 5,1%)

Vino fatto dal Signor Philippe Baillarguet, enologo interno dello Château Ausone, produzione annua di circa 1.800 bottiglie. Colore rosso rubino con trame intense porpora. Al naso esplodono profumi di ciliegia, con perfetta maturità, seguiti dalla cioccolata, menta, pepe nero, noce moscata, pelle, erbe medicinali, confetto, per terminare con note minerali di grafite. In bocca è piacevole con sentori di

Clos Fourtet 2010

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approfondimento

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e setosi. Lunga è la sua persistenza aromatica intensa con finale di prugna, cioccolata e caffè freddo. Ricordo che il 2009 aveva la frutta più matura del 2010, mentre quest’ultimo ha più presenza del legno rispetto alla prima. Vino piacevole che dovrà perdere un po’ il legno. 91/93

Bel rosso rubino con riflessi porpora. Bouquet di cuoio fresco, cioccolata, mela rossa, smalto di vernice, intensi, menta, pepe nero, prugna, alloro, ciliegia, per terminare con note minerali di ruggine. Gusto caratterizzato da una bella prugna accompagnata dalla cioccolata. Vino equilibrato con la freschezza che domina la massa alcoolica, mentre

prugna e ciliegia. Vino equilibrato con l’acidità che conduce il comando dell’equilibrio gustativo grazie anche ad un tannino dolce, abbastanza largo (5/6+) e setoso. Lunga è la sua persistenza aromatica intensa con finale di ciliegia sotto spirito, ma senza alcool e cioccolata. Vino piacevole. Ricordo che il 2009 aveva un po’ di presenza di legno ma il tannino era più largo di quello del 2010. In entrambe le annate la ciliegia aveva una maturità perfetta. 91/93

Saint – Émilion - rosso (Merlot 87%, Cabernet Sauvignon 10% e Cabernet Franc 3%)

Rosso rubino con trame porpora. Bouquet di cioccolata, menta, ciliegia, prugna, pelle, pomodoro secco e poi nel finale di nuovo ritorna la cioccolata. Vino ben fatto e piacevole con un buon equilibrio gustativo, grazie anche ad un tannino largo (6/6-) dolce e setoso.

Veste rosso rubino e porpora intensi. Olfatto di carattere con note di cuoio e scatole di sigari cubani intense seguite da profumi di menta, prugna, mela rossa, pepe nero, noce moscata, ciliegia marasca, per terminare con rimandi di pomodoro secco. Bella bocca caratterizzata da sapori di cioccolata, prugna e scatola di sigari. Vino abbastanza equilibrato con alcool e freschezza che in questo mo-

mento cercano di avere ciascuno la guida del comando dell’equilibrio gustativo. Il tannino è dolce, vellutato ed abbastanza largo (5/6 - ). Buona mineralità, corpo medio con abbastanza lunga persistenza aromatica intensa. Nelle mie note ho scritto: “vino d’impatto”. Il 2009 era più equilibrato del 2010, i tannini sono larghi, allo stesso modo, come pure la persistenza è similare. 90/92

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Carbonnieux 2010

Figeac 2010 Saint – Émilion - rosso (Cabernet Sauvignon 1/3, Cabernet Franc 1/3 e Merlot 1/3)

Colore di grande impressione: rosso rubino intenso con bordo porpora. Olfatto piacevole con evidenti note di pelle vegetale (pelle che tende al dolce del cuoio), cioccolata, menta, pepe nero, ciliegia, caucciù, per terminare con l’olio di lino. Al gusto si sentono in modo evidente la ciliegia un po’ matura e la cioccolata. Vino equilibrato con spalla acida in evidenza sulla massa alcoolica, men-

il tannino è abbastanza largo (4/6+) dolce e vellutato. Abbastanza lunga è la sua persistenza aromatica intensa, con finale di prugna. A questo vino manca un po’ di persistenza ed ho notato che quando entra in bocca non si allarga ma rimane centrale e lungo. Mi era piaciuto di più il 2009 poiché aveva il tannino più largo ed era più persistente di questo 2010. 88/90

Colore rosso rubino intenso. Naso dall’intrigante vena di note fruttate, di ciliegia lievemente matura, seguite dalla cioccolata, pelle, liquirizia, pepe nero, episperma, lieve (seconda pelle del marrone bollito), menta, eucalipto (mi ricorda la pastiglia “Valda”), caucciù, per terminare con delle carezze di caffè. Al gusto si gode la stessa ciliegia sentita all’olfatto. Vino con buon equilibrio gustativo,

con spalla acida che, grazie al tannino dolce, largo (6/6-) e setoso, riesce ad avere, senza problemi, la supremazia sulla massa alcoolica. Lunga è la sua persistenza aromatica intensa con finale di episperma. Il tannino è largo come quello del 2009. Il 2008 aveva al gusto il tartufo nero. Il legno del 2010 è più dosato rispetto al 2009. Bel vino che dovrà perdere un po’ il legno, ma che nell’insieme è lievemente superiore al 2009. 91/93

Clos des Baies 2010

Latour Martillac 2010

Saint – Émilion - rosso (Merlot 70% e Cabernet Franc 30%)

Pessac – Leognan - bianco (Sauvignon 63% e Semillon 37%)

Pessac – Léognan - rosso (Cabernet Sauvignon 60%, Merlot 30% e Cabernet Franc 10%)

Lunga è la sua persistenza aromatica intensa con finale di cioccolata e ciliegia. Nel suo insieme vino piacevole, peccato che gli manchi un po’ di struttura. Questo 2010 è più equilibrato del 2009 ed ha anche il tannino più largo. 90/93

Duhart – Milon 2010 Pauillac - rosso (Cabernet Sauvignon 73% e Merlot 27%)

Melange di rosso rubino e porpora vivi, con cuore intenso. Svela profonde sensazioni di ciliegia matura, cioccolata, intense, prugna, menta, alcool denaturato, lievi, liquirizia, caffè, oliva nera, eucalipto e boisé. Vino con buon equilibrio gustativo e con un tannino dolce, largo (6/6) inizialmente setoso che termina con una sensazione di asciuttezza della gengiva superiore.

Leoville Poyferre 2010 Saint – Julien - rosso (Cabernet Sauvignon 61%, Merlot 30%, Petit Verdot 6% e Cabernet Franc 3%)

Veste giallo paglierino con riflessi grigio – verdi. Al naso emergono note floreali di biancospino, foglia di pomodoro, foglia di ruta, pepe bianco, cuoio fresco, iodio, salmastro, menta, episperma (seconda pelle del marrone bollito), per terminare con profumi di agrumi vari. Al gusto ha una piacevole, ricca, sapidità, accompagnata da una più mode-

Corpo lievemente inferiore alla media. Lunga è la sua persistenza aromatica intensa con finale di ciliegia matura e di lieve boisé. Il tannino del 2009 è largo come quello del 2010. Al naso il 2010 ha un po’ di alcool che non ho sentito al gusto. Mi era piaciuto di più il 2009 poiché non aveva la ciliegia matura che ho trovato nel 2010. 89/91

Smagliante e trasparente rosso rubino con trame porpora. Naso di buona complessità e piacevolezza che svela sentori di ciliegia, con perfetta maturità, menta, prugna, cassetta di medicine, lievi, caucciù, pepe nero, per terminare con una spolverata di polvere di cacao. All’assaggio è di una elegante piacevolezza evidenziata dalla presenza di una bella ciliegia e dalla cioccolata.

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tre il tannino è dolce, abbastanza largo (5/6 - -) e setoso. Corpo medio con lunga persistenza aromatica intensa con finale di ciliegia abbastanza matura. La larghezza di questo tannino è simile al 2008 mentre il 2009 era un po’ meno largo. In tutte e tre le annate 2008, 2009 e 2010 la ciliegia, per me, è un po’ evoluta anche se nell’insieme il vino è piacevole. 89/91

Gazin 2010 Pomerol - rosso (Merlot 86%, Cabernet Sauvignon 10% e Cabernet Franc 4%)

rata mineralità. Vino ben equilibrato con acidità, sapidità, mineralità e freschezza che dominano completamente la massa alcoolica. Il corpo è medio mentre lunga è la sua persistenza aromatica intensa con finale di agrumi, in particolare di limone, di sale, di biancospino e di lieve episperma. Vino piacevole che mi ha entusiasmato più del, già buono, 2009. 91/93

Latour Martillac 2010 Pessac – Leognan - rosso (Cabernet Sauvignon 55%, Merlot 40% e Petit Verdot 5%)

Vino ben equilibrato con spalla acida in rilievo mentre il tannino è dolce, inizialmente setoso per poi nel finale asciugarsi un po’ e dare una lieve sensazione calorica alla gengiva superiore. Corpo medio con piacevole sapidità. Lunga è la sua persistenza aromatica intensa con finale di ciliegia e cioccolata. Vino molto piacevole. Spero che il tannino possa migliorare con la sosta del vino in bottiglia. 91/94


Risplende un bel rosso rubino con intense trame porpora. Bouquet che si schiude completamente con intensissime piacevoli note di ciliegia e cioccolata seguite da caucciù, pepe nero, scatola di sigari, lievi, per terminare con lievi rimandi di menta e di eucalipto. Bocca suadente con note di cioccolata e ciliegia che ricordano l’approccio olfattivo. Si rimane colpiti dalla bella

Lusseau 2010 Saint - Émilion - rosso (Merlot 75% e Cabernet Franc 25%)

Colore rosso rubino e porpora vivi, con cuore intenso. Olfatto di cioccolata, intenso, ciliegia con maturità perfetta, menta, pelle, lemongrassa, crema di latte bollito, per terminare con dei soffi boisé. Al gusto mostra charme ed eleganza anche se la nota boisé è un po’ evidente. Vino con asse alcool – acido – tan-

Nenin 2010 Pomerol - rosso (Merlot 82% e Cabernet Franc 18%)

Bel rosso rubino chiaro con riflessi porpora. Naso vinoso cioè di vino appena fatto seguito da profumi di ciliegia, mirtillo, prugna, cioccolata, mela rossa, lievi, confetto (tipico del matrimonio in Italia), per terminare con lievi soffi di pepe nero. Al gusto si è appagati da una bella

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approfondimento

approfondimento

struttura di questo vino e dal suo equilibrio gustativo nel quale la spalla acida si mostra abbondante e piacevole. Il tannino è dolce, abbastanza largo (5/6-) e vellutato. Lunga è la sua persistenza aromatica intensa. Questo 2010 è nettamente superiore sia al 2009 che al 2008. Il 2008 aveva una ciliegia più matura del 2009, ma questo 2010 ha anche un equilibrio gustativo ed una struttura superiori. 90/92

È il vino prodotto dall’enologo di Gerard Perse, proprietario di Château Pavie. Robe rosso rubino con trame porpora. Al naso spiccano sentori di ciliegia abbastanza matura, seguiti da menta, cuoio, eucalipto, pelle, tobacco biondo della Virginia, per terminare con note speziate di pepe nero e noce moscata. Al gusto si evidenzia il suo buon equilibrio con spalla acida che domina la massa alcoolica grazie anche al tannino che è dolce, largo (6/6-)

nico in buon equilibrio. Il tannino è dolce, abbastanza largo (5/6) e setoso. Corpo medio con lunga persistenza aromatica intesa. La frutta del 2010 è meno matura del 2009. Vino elegante ma che dovrà perdere un po’ di legno con l’affinamento in bottiglia. Questo 2010 è lievemente superiore al 2009. 91/93

Già all’esame visivo fa capire la sua piacevolezza, mostrando un bellissimo rosso porpora. Profilo olfattivo articolato su toni di grafite e lavanda, intensi, seguiti dalla ciliegia, prugna e mirtillo, per terminare con dei piacevoli tocchi di cioccolata. Vino con buon equilibrio gustativo, la spalla acida domina, senza esitazione, la massa alcoolica, mentre il tannino è dolce, abbastanza largo

prugna e da un bel mirtillo accompagnati dalla cioccolata. Vino ben equilibrato con freschezza in rilievo. Il tannino è dolce, non molto largo (4/6++) e setoso. Corpo medio con lunga persistenza aromatica intensa. Questo 2010 ricorda il 2009. Vino piacevole ed elegante. 90/92

90

Lucia 2010 Saint – Émilion - rosso (Merlot 90% e Cabernet Franc 10%)

compatto e vellutato. Buona è la sua persistenza aromatica intensa con finale di pelle. Questo 2010 è il migliore di quelli da me degustati di questo Château. La maturità della ciliegia del 2010 è sicuramente la migliore. Normalmente ho degustato vini di questo Château con la ciliegia troppo matura. Il tannino è largo e compatto, tipico dell’annata. Mi auguro che la strada iniziata con il 2010 continui per il futuro. 89/91

Malartic Lagraviere 2010 Pessac – Leognan - rosso (Cabernet Sauvignon 45%, Merlot 45%, Cabernet Franc 5% e Petit Verdot 5%)

(5/6 --), inizialmente vellutato, per poi nel finale fare sentire una lieve sensazione calorica sulla gengiva superiore. Corpo medio con lunga persistenza aromatica intensa con retrogusto di prugna e cioccolata. Questo 2010 non solo è superiore al 2009 ma è superiore a tutte le annate di questo vino da me degustate fino ad oggi. È uno dei vini che mi ha sorpreso di più per il miglioramento qualitativo. 91/93

Sanctus 2010 Saint – Émilion - rosso (Merlot 70% e Cabernet Sauvignon 30%)

Veste un bel rosso rubino intenso. Timbro accattivante e deciso di cioccolata seguita dalla menta, chinotto, scatola di sigari cubani, pelle, noce moscata, pepe nero, lemongrassa, per terminare con piacevoli profumi di prugna e ciliegia. Vino ben equilibrato con freschezza in evidenza rispetto all’alcool. Il tannino è dolce, abbastanza largo

Alla visiva è un bellissimo rosso rubino, vivace con riflessi porpora chiaro. Ampio e traboccante di note erbacee, di prugna, peperone verde, menta, boisé, amido per stirare (appretto), pepe nero, alloro, per terminare con il cuoio fresco. Gusto avvolto da una piacevole e succosa prugna fresca.

Vino ben equilibrato con spalla acida in evidenza sulla massa alcoolica grazie anche ad un tannino dolce, largo (6/6-) setoso e avvolgente. Bella sapidità e mineralità che rivestono il corpo medio del vino. Lunga è la sua persistenza aromatica intensa con finale di prugna secca. Bel vino, ben fatto e piacevole. 92/94

La Tour du Pin 2010 Saint - Émilion - rosso (Merlot 75% e Cabernet Franc 25%)

Veste un bel rosso rubino con riflessi porpora. Al naso arriva da subito, in modo importante, lo smalto di vernice seguito dal pepe nero, ciliegia, un po’ matura, concentrata, cioccolata, menta, per terminare con rimandi boisé. Bocca piacevole con sentori di cioccolata e ciliegia. Vino con buon equilibrio gustativo con spalla acida in rilievo sulla massa

Bel rosso rubino vivo lucente. Olfatto espresso con profumi di ciliegia lievemente matura, menta, pelle, eucalipto, cioccolata, grafite, erbacei, lievi, fumé, intensi, prugna, intensi, per terminare con il pomodoro secco. Gusto appagato da piacevoli sensazioni fruttate di ciliegia e prugna, giustamente mature. Vino ben equilibrato con piacevoli sensazioni sapido – minerali. Il tan-

alcoolica. Il tannino è dolce, denso, cioccolatoso, largo (6/6-), inizialmente vellutato per poi nel finale diventare abbastanza asciutto e polveroso a causa della presenza,un po’ invasiva, del legno. Lunga è la sua persistenza aromatica intensa con finale di cioccolata e boisé. Vino piacevole ma che avrà bisogno di un po’ di tempo per esprimersi al meglio. 90/92

Pavillon Rouge du Châteaux Margaux 2010

(5/6) e vellutato. Corpo medio con lunga persistenza aromatica intensa, con finale di prugna e ciliegia. Vino piacevole che rispetto al 2009 è più equilibrato, ha più corpo e più acidità. Sicuramente preferisco questo 2010 al già buono 2009, anche se quest’ultimo aveva il tannino più largo. 90/92

Talbot 2010 Saint – Julien - rosso (Cabernet Sauvignon 62%, Merlot 33% e Petit Verdot 5%)

nino è dolce, largo (6/6 - ) e setoso. Il corpo è misurato. Lunga è la sua persistenza aromatica intensa con finale di ciliegia. Bella e piacevole beva. Il tannino del 2010 è più largo del 2009. Il 2008 aveva al naso la violetta tipica, in tanti vini, dell’annata 2008. Questo 2010 è simile al 2009 anche se il tannino del primo è più largo di quello del secondo. 90/92 86/88

Troplong Mondot 2010 Saint - Émilion - rosso (Merlot 83%, Cabernet Sauvignon 12% e Cabernet Franc 5%)

Il presente articolo è tradotto in francese e in inglese sul sito www. baracchino-wine.it. Le note di degustazione dei vini che non sono nel prospetto finale del precedente numero e che non compaiono nell’articolo sono visibili nel suddetto sito.

Margaux - rosso (Cabernet Sauvignon 66%, Merlot 30% e Petit Verdot 4%)

91


Risplende un bel rosso rubino con intense trame porpora. Bouquet che si schiude completamente con intensissime piacevoli note di ciliegia e cioccolata seguite da caucciù, pepe nero, scatola di sigari, lievi, per terminare con lievi rimandi di menta e di eucalipto. Bocca suadente con note di cioccolata e ciliegia che ricordano l’approccio olfattivo. Si rimane colpiti dalla bella

Lusseau 2010 Saint - Émilion - rosso (Merlot 75% e Cabernet Franc 25%)

Colore rosso rubino e porpora vivi, con cuore intenso. Olfatto di cioccolata, intenso, ciliegia con maturità perfetta, menta, pelle, lemongrassa, crema di latte bollito, per terminare con dei soffi boisé. Al gusto mostra charme ed eleganza anche se la nota boisé è un po’ evidente. Vino con asse alcool – acido – tan-

Nenin 2010 Pomerol - rosso (Merlot 82% e Cabernet Franc 18%)

Bel rosso rubino chiaro con riflessi porpora. Naso vinoso cioè di vino appena fatto seguito da profumi di ciliegia, mirtillo, prugna, cioccolata, mela rossa, lievi, confetto (tipico del matrimonio in Italia), per terminare con lievi soffi di pepe nero. Al gusto si è appagati da una bella

v

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approfondimento

approfondimento

struttura di questo vino e dal suo equilibrio gustativo nel quale la spalla acida si mostra abbondante e piacevole. Il tannino è dolce, abbastanza largo (5/6-) e vellutato. Lunga è la sua persistenza aromatica intensa. Questo 2010 è nettamente superiore sia al 2009 che al 2008. Il 2008 aveva una ciliegia più matura del 2009, ma questo 2010 ha anche un equilibrio gustativo ed una struttura superiori. 90/92

È il vino prodotto dall’enologo di Gerard Perse, proprietario di Château Pavie. Robe rosso rubino con trame porpora. Al naso spiccano sentori di ciliegia abbastanza matura, seguiti da menta, cuoio, eucalipto, pelle, tobacco biondo della Virginia, per terminare con note speziate di pepe nero e noce moscata. Al gusto si evidenzia il suo buon equilibrio con spalla acida che domina la massa alcoolica grazie anche al tannino che è dolce, largo (6/6-)

nico in buon equilibrio. Il tannino è dolce, abbastanza largo (5/6) e setoso. Corpo medio con lunga persistenza aromatica intesa. La frutta del 2010 è meno matura del 2009. Vino elegante ma che dovrà perdere un po’ di legno con l’affinamento in bottiglia. Questo 2010 è lievemente superiore al 2009. 91/93

Già all’esame visivo fa capire la sua piacevolezza, mostrando un bellissimo rosso porpora. Profilo olfattivo articolato su toni di grafite e lavanda, intensi, seguiti dalla ciliegia, prugna e mirtillo, per terminare con dei piacevoli tocchi di cioccolata. Vino con buon equilibrio gustativo, la spalla acida domina, senza esitazione, la massa alcoolica, mentre il tannino è dolce, abbastanza largo

prugna e da un bel mirtillo accompagnati dalla cioccolata. Vino ben equilibrato con freschezza in rilievo. Il tannino è dolce, non molto largo (4/6++) e setoso. Corpo medio con lunga persistenza aromatica intensa. Questo 2010 ricorda il 2009. Vino piacevole ed elegante. 90/92

90

Lucia 2010 Saint – Émilion - rosso (Merlot 90% e Cabernet Franc 10%)

compatto e vellutato. Buona è la sua persistenza aromatica intensa con finale di pelle. Questo 2010 è il migliore di quelli da me degustati di questo Château. La maturità della ciliegia del 2010 è sicuramente la migliore. Normalmente ho degustato vini di questo Château con la ciliegia troppo matura. Il tannino è largo e compatto, tipico dell’annata. Mi auguro che la strada iniziata con il 2010 continui per il futuro. 89/91

Malartic Lagraviere 2010 Pessac – Leognan - rosso (Cabernet Sauvignon 45%, Merlot 45%, Cabernet Franc 5% e Petit Verdot 5%)

(5/6 --), inizialmente vellutato, per poi nel finale fare sentire una lieve sensazione calorica sulla gengiva superiore. Corpo medio con lunga persistenza aromatica intensa con retrogusto di prugna e cioccolata. Questo 2010 non solo è superiore al 2009 ma è superiore a tutte le annate di questo vino da me degustate fino ad oggi. È uno dei vini che mi ha sorpreso di più per il miglioramento qualitativo. 91/93

Sanctus 2010 Saint – Émilion - rosso (Merlot 70% e Cabernet Sauvignon 30%)

Veste un bel rosso rubino intenso. Timbro accattivante e deciso di cioccolata seguita dalla menta, chinotto, scatola di sigari cubani, pelle, noce moscata, pepe nero, lemongrassa, per terminare con piacevoli profumi di prugna e ciliegia. Vino ben equilibrato con freschezza in evidenza rispetto all’alcool. Il tannino è dolce, abbastanza largo

Alla visiva è un bellissimo rosso rubino, vivace con riflessi porpora chiaro. Ampio e traboccante di note erbacee, di prugna, peperone verde, menta, boisé, amido per stirare (appretto), pepe nero, alloro, per terminare con il cuoio fresco. Gusto avvolto da una piacevole e succosa prugna fresca.

Vino ben equilibrato con spalla acida in evidenza sulla massa alcoolica grazie anche ad un tannino dolce, largo (6/6-) setoso e avvolgente. Bella sapidità e mineralità che rivestono il corpo medio del vino. Lunga è la sua persistenza aromatica intensa con finale di prugna secca. Bel vino, ben fatto e piacevole. 92/94

La Tour du Pin 2010 Saint - Émilion - rosso (Merlot 75% e Cabernet Franc 25%)

Veste un bel rosso rubino con riflessi porpora. Al naso arriva da subito, in modo importante, lo smalto di vernice seguito dal pepe nero, ciliegia, un po’ matura, concentrata, cioccolata, menta, per terminare con rimandi boisé. Bocca piacevole con sentori di cioccolata e ciliegia. Vino con buon equilibrio gustativo con spalla acida in rilievo sulla massa

Bel rosso rubino vivo lucente. Olfatto espresso con profumi di ciliegia lievemente matura, menta, pelle, eucalipto, cioccolata, grafite, erbacei, lievi, fumé, intensi, prugna, intensi, per terminare con il pomodoro secco. Gusto appagato da piacevoli sensazioni fruttate di ciliegia e prugna, giustamente mature. Vino ben equilibrato con piacevoli sensazioni sapido – minerali. Il tan-

alcoolica. Il tannino è dolce, denso, cioccolatoso, largo (6/6-), inizialmente vellutato per poi nel finale diventare abbastanza asciutto e polveroso a causa della presenza,un po’ invasiva, del legno. Lunga è la sua persistenza aromatica intensa con finale di cioccolata e boisé. Vino piacevole ma che avrà bisogno di un po’ di tempo per esprimersi al meglio. 90/92

Pavillon Rouge du Châteaux Margaux 2010

(5/6) e vellutato. Corpo medio con lunga persistenza aromatica intensa, con finale di prugna e ciliegia. Vino piacevole che rispetto al 2009 è più equilibrato, ha più corpo e più acidità. Sicuramente preferisco questo 2010 al già buono 2009, anche se quest’ultimo aveva il tannino più largo. 90/92

Talbot 2010 Saint – Julien - rosso (Cabernet Sauvignon 62%, Merlot 33% e Petit Verdot 5%)

nino è dolce, largo (6/6 - ) e setoso. Il corpo è misurato. Lunga è la sua persistenza aromatica intensa con finale di ciliegia. Bella e piacevole beva. Il tannino del 2010 è più largo del 2009. Il 2008 aveva al naso la violetta tipica, in tanti vini, dell’annata 2008. Questo 2010 è simile al 2009 anche se il tannino del primo è più largo di quello del secondo. 90/92 86/88

Troplong Mondot 2010 Saint - Émilion - rosso (Merlot 83%, Cabernet Sauvignon 12% e Cabernet Franc 5%)

Il presente articolo è tradotto in francese e in inglese sul sito www. baracchino-wine.it. Le note di degustazione dei vini che non sono nel prospetto finale del precedente numero e che non compaiono nell’articolo sono visibili nel suddetto sito.

Margaux - rosso (Cabernet Sauvignon 66%, Merlot 30% e Petit Verdot 4%)

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Bruchi, l’Italia va avanti L’Europa modifica la classificazione dei vini a denominazione. L’Italia coglie l’occasione per un passo avanti.

L

Roberto Bruchi

’Associazione Prod u t t o r i V i t i vinicoli T o s c a n i “A.PRO. VI.TO” è la prima associazione costituitasi e riconosciuta a livello regionale nel settore vino. La sua costituzione è avvenuta attraverso un’assemblea svoltasi a Empoli nel giugno del 1988 ed è stata riconosciuta ufficialmente dalla Regione Toscana nel 1990. L’Associazione nacque da una volontà precisa dei produttori di organizzarsi in modo più opportuno e specifico in un settore che, in Toscana, rappresenta una parte importante e fondamentale dell’economia agricola. Contando oggi su ben 600 soci viticultori, è divenuta con gli anni un punto di riferimento per gli operatori del settore, 92

con l’obiettivo della salvaguardia e incentivazione dello sviluppo della produzione vitivinicola. Fin dalla sua costituzione, Aprovito è sempre stata guidata dall’enologo Roberto Bruchi, una passione per il vino totale e senza condizioni e una formazione che lo porta a conseguire nel 1983 il titolo di Enotecnico e nel 1992 quello di Enologo, facendo del vino la sua professione, un settore per il quale, fin da giovanissimo, dimostra un’indubbia inclinazione, spendendosi sia dal punto di vista formativo che didattico. Ex componente del Cda di Enoteca Italiana, già docente presso l’Università di Pisa, Roberto Bruchi è stato confermato più volte tra i membri del “Comitato Nazionale per la Tutela e la Valorizzazione delle Denominazioni di Origine e delle Indicazioni Geografiche Tipiche dei

vini” - organo del Ministero delle Politiche Agricole con competenza consultiva, propositiva e amministrativa su tutti i vini designati con nome geografico - in qualità di vicepresidente di Unavini, l’Unione Nazionale fra associazioni di produttori vitivinicoli. Il “Comitato Nazionale Vini”, presieduto dal dottor Giuseppe Martelli e composto da 40 membri espressione dell’interprofessione italiana del settore vino, è la fotografia dell’intera filiera vitivinicola italiana, una sorta di parlamentino del vino italiano. “Faccio parte di questo organismo ministeriale,che ha controllato i riconoscimenti delle nuove Denominazioni e le modifiche ai disciplinari, sovrintendendo tutto il sistema che queste denominazioni rappresentano fin dal lontano 1966, ormai da 12 anni – dice Bruchi – un impegno che mi ha permesso di conoscere tutta l’Italia del vino, valicando i confini toscani e intessendo rapporti istituzionali con le Regioni, con le Province e con tutti i grandi personaggi che hanno ruotato attorno al variegato mondo della vitivinicultura italiana. E che mi ha fatto crescere molto dal punto di vista professionale, culturale, tecnico e scientifico”. Con l’approvazione nel 2009 della nuova Organizzazione Comune di Mercato europea per il settore vino, sono cambiate radicalmente le classificazioni dei vini a Denominazione, imponendo procedure europee molto più lunghe, complesse e difficili per la richiesta di nuove indicazioni geografiche e per la modifica dei disciplinari. Fatte salve, ovviamente, tutte le Docg, Doc e Igt già

riconosciute alla data del 31 luglio 2009, le quali verranno automaticamente registrate nel registro europeo delle denominazioni protette e per le quali i singoli stati membri dovranno produrre, entro il 31 dicembre 2011, i fascicoli tecnici. E a gran passi è proceduto l’iter della riforma, che sarà completata col passaggio dei nostri vini a Docg, Doc e Igt nel sistema europeo delle Dop e Igp, col mantenimento delle nostre menzioni tradizionali specifiche (le sigle Docg, Doc e Igt), ma col passaggio del momento “decisionale” legato al riconoscimento delle nuove denominazioni da Roma a Bruxelles, analogamente a quanto succede oggi per i prodotti a Dop e Igp. Qui si inserisce il ruolo del Comitato che, negli ultimi tre anni, ha dovuto sopportare un super-lavoro per il sistema del vino italiano: potendo utilizzare le più snelle procedure nazionali, ha licenziato oltre 300 pratiche, contribuendo così a una ricomposizione dell’enografia nazionale. “Questo ha permesso, in particolare alle Denominazioni riconosciute molti anni fa e non solo – ci racconta Bruchi - di diventare compatibili con le esigenze normative, tecniche e di mercato, quindi in linea anche con le richieste degli operatori, una grande occasione per far fare un ulteriore passo in avanti al nostro sistema delle Denominazioni di Origine dei vini, ponendoci all’avanguardia sullo scacchiere internazionale. Aprovito, in questo processo evolutivo e di grandi cambiamenti per il settore vitivinicolo ha sostenuto e affiancato i produttori toscani, mettendo

93

a disposizione le proprie competenze ed esperienze, seguendo con successo buona parte delle pratiche presentate per la regione Toscana. Così il lavoro del Comitato si è rivelato particolarmente prezioso in un periodo di crisi, ma che ha anche visto crescere il prestigio e il valore del nostro vino nel mondo, con un ruolo insostituibile per la massima valorizzazione di un comparto strategico per l’agroalimentare italiano. Tutte le regioni hanno sentito in modo forte l’esigenza di ridisegnare la propria enografia, in particolare Piemonte, Veneto, Toscana, Marche, Puglia, Sicilia, così oggi, con circa 600 denominazioni, abbiamo un quadro completamente diverso rispetto a pochi anni fa. L’Italia ha riconfermato il proprio attaccamento alle produzioni di qualità, dimostrandosi un paese ancora molto radicato nelle singole realtà territoriali, ricche di centinaia di vitigni autoctoni, con climi, situazioni storiche e di tradizioni diverse, che contribuiscono a creare un panorama viticolo molto ricco e variegato: questo è il nostro vero valore aggiunto da spendere sui mercati internazionali. Ormai abbiamo alle spalle cinquant’anni di esperienze sui terreni, sui vitigni, sui processi produttivi dei vini a denominazione e c’era bisogno di una ricomposizione geografica del sistema delle denominazioni: è come se si fosse scattata una nuova fotografia per rappresentare la nuova realtà che si è determinata negli ultimi anni nel solco di una territorializzazione ancora più spinta”. AC


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Bruchi, l’Italia va avanti L’Europa modifica la classificazione dei vini a denominazione. L’Italia coglie l’occasione per un passo avanti.

L

Roberto Bruchi

’Associazione Prod u t t o r i V i t i vinicoli T o s c a n i “A.PRO. VI.TO” è la prima associazione costituitasi e riconosciuta a livello regionale nel settore vino. La sua costituzione è avvenuta attraverso un’assemblea svoltasi a Empoli nel giugno del 1988 ed è stata riconosciuta ufficialmente dalla Regione Toscana nel 1990. L’Associazione nacque da una volontà precisa dei produttori di organizzarsi in modo più opportuno e specifico in un settore che, in Toscana, rappresenta una parte importante e fondamentale dell’economia agricola. Contando oggi su ben 600 soci viticultori, è divenuta con gli anni un punto di riferimento per gli operatori del settore, 92

con l’obiettivo della salvaguardia e incentivazione dello sviluppo della produzione vitivinicola. Fin dalla sua costituzione, Aprovito è sempre stata guidata dall’enologo Roberto Bruchi, una passione per il vino totale e senza condizioni e una formazione che lo porta a conseguire nel 1983 il titolo di Enotecnico e nel 1992 quello di Enologo, facendo del vino la sua professione, un settore per il quale, fin da giovanissimo, dimostra un’indubbia inclinazione, spendendosi sia dal punto di vista formativo che didattico. Ex componente del Cda di Enoteca Italiana, già docente presso l’Università di Pisa, Roberto Bruchi è stato confermato più volte tra i membri del “Comitato Nazionale per la Tutela e la Valorizzazione delle Denominazioni di Origine e delle Indicazioni Geografiche Tipiche dei

vini” - organo del Ministero delle Politiche Agricole con competenza consultiva, propositiva e amministrativa su tutti i vini designati con nome geografico - in qualità di vicepresidente di Unavini, l’Unione Nazionale fra associazioni di produttori vitivinicoli. Il “Comitato Nazionale Vini”, presieduto dal dottor Giuseppe Martelli e composto da 40 membri espressione dell’interprofessione italiana del settore vino, è la fotografia dell’intera filiera vitivinicola italiana, una sorta di parlamentino del vino italiano. “Faccio parte di questo organismo ministeriale,che ha controllato i riconoscimenti delle nuove Denominazioni e le modifiche ai disciplinari, sovrintendendo tutto il sistema che queste denominazioni rappresentano fin dal lontano 1966, ormai da 12 anni – dice Bruchi – un impegno che mi ha permesso di conoscere tutta l’Italia del vino, valicando i confini toscani e intessendo rapporti istituzionali con le Regioni, con le Province e con tutti i grandi personaggi che hanno ruotato attorno al variegato mondo della vitivinicultura italiana. E che mi ha fatto crescere molto dal punto di vista professionale, culturale, tecnico e scientifico”. Con l’approvazione nel 2009 della nuova Organizzazione Comune di Mercato europea per il settore vino, sono cambiate radicalmente le classificazioni dei vini a Denominazione, imponendo procedure europee molto più lunghe, complesse e difficili per la richiesta di nuove indicazioni geografiche e per la modifica dei disciplinari. Fatte salve, ovviamente, tutte le Docg, Doc e Igt già

riconosciute alla data del 31 luglio 2009, le quali verranno automaticamente registrate nel registro europeo delle denominazioni protette e per le quali i singoli stati membri dovranno produrre, entro il 31 dicembre 2011, i fascicoli tecnici. E a gran passi è proceduto l’iter della riforma, che sarà completata col passaggio dei nostri vini a Docg, Doc e Igt nel sistema europeo delle Dop e Igp, col mantenimento delle nostre menzioni tradizionali specifiche (le sigle Docg, Doc e Igt), ma col passaggio del momento “decisionale” legato al riconoscimento delle nuove denominazioni da Roma a Bruxelles, analogamente a quanto succede oggi per i prodotti a Dop e Igp. Qui si inserisce il ruolo del Comitato che, negli ultimi tre anni, ha dovuto sopportare un super-lavoro per il sistema del vino italiano: potendo utilizzare le più snelle procedure nazionali, ha licenziato oltre 300 pratiche, contribuendo così a una ricomposizione dell’enografia nazionale. “Questo ha permesso, in particolare alle Denominazioni riconosciute molti anni fa e non solo – ci racconta Bruchi - di diventare compatibili con le esigenze normative, tecniche e di mercato, quindi in linea anche con le richieste degli operatori, una grande occasione per far fare un ulteriore passo in avanti al nostro sistema delle Denominazioni di Origine dei vini, ponendoci all’avanguardia sullo scacchiere internazionale. Aprovito, in questo processo evolutivo e di grandi cambiamenti per il settore vitivinicolo ha sostenuto e affiancato i produttori toscani, mettendo

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a disposizione le proprie competenze ed esperienze, seguendo con successo buona parte delle pratiche presentate per la regione Toscana. Così il lavoro del Comitato si è rivelato particolarmente prezioso in un periodo di crisi, ma che ha anche visto crescere il prestigio e il valore del nostro vino nel mondo, con un ruolo insostituibile per la massima valorizzazione di un comparto strategico per l’agroalimentare italiano. Tutte le regioni hanno sentito in modo forte l’esigenza di ridisegnare la propria enografia, in particolare Piemonte, Veneto, Toscana, Marche, Puglia, Sicilia, così oggi, con circa 600 denominazioni, abbiamo un quadro completamente diverso rispetto a pochi anni fa. L’Italia ha riconfermato il proprio attaccamento alle produzioni di qualità, dimostrandosi un paese ancora molto radicato nelle singole realtà territoriali, ricche di centinaia di vitigni autoctoni, con climi, situazioni storiche e di tradizioni diverse, che contribuiscono a creare un panorama viticolo molto ricco e variegato: questo è il nostro vero valore aggiunto da spendere sui mercati internazionali. Ormai abbiamo alle spalle cinquant’anni di esperienze sui terreni, sui vitigni, sui processi produttivi dei vini a denominazione e c’era bisogno di una ricomposizione geografica del sistema delle denominazioni: è come se si fosse scattata una nuova fotografia per rappresentare la nuova realtà che si è determinata negli ultimi anni nel solco di una territorializzazione ancora più spinta”. AC


PERCORRENDO LA CHE DI

DIRE PER LE MURA

STRADA DAL

CHE

CENTRO

DANNEGGIATE

CASTELNUOVO

BERARDENGA CONDUCE AL CASTELLO DI BROLIO, S’INCONTRA IL CASTELLO DI SAN GUSMÈ IN CHIANTI, PERFETTAMENTE CONSERVATO CON LA SUA ANTICA STRUTTURA, GLI ARCHI SOVRASTATI DA STEMMI, LE SUE CASE STRETTE E LE ANGUSTE STRADINE IN SALITA. NEI PRESSI, IN CIMA A UNA COLLINA, UN PICCOLO GRUPPO DI PITTORESCHE CASE COLONICHE E UNA PICCOLA CHIESA SON TUTTO QUELLO CHE È RIMASTO DEL PAESE DI CAMPI. UN PÒ PIÙ IN BASSO, POCO RESTA ANCHE DEL CASTELLO DI SESTA, CHIAMATO SESTACCIA, ACQUISTATO NEL 1388 DAL COMUNE DI SIENA DA FARINATA E ADRIANO UBERTINI: LA FORTEZZA, CON UN CIRCUITO MURARIO A PIANTA ELLITTICA, È RIMASTA IN BUONE CONDIZIONI, MA NON ALTRETTANTO SI PUÒ

RISULTANO

MALAPENA DAL

SUOLO.

O

A

AFFIORANTI ANCHE

DEL

VICINO CASTELLO DI CETAMURA, GIÀ FEUDO DEI RICASOLI, POSTO AL DI LÀ DELLA GOLA DELL’ANCHERONA, RESTA SOLO IL RUDERE DELLA PORTA D’ACCESSO. MA QUELLO CHE RESTA DI QUESTI LUOGHI È A OGNI MODO IL FASCINO ANTICO CHE FA DA SFONDO A UN LUOGO CULT DEL CHIANTI VERO, QUELLO CHE TUTT’ORA RIMANE IL POLO AGGREGANTE DI SAN GUSMÈ, IL RISTORANTE ENOTECA “SIRA & REMINO”, CHE NESSUNO NEI PARAGGI E OLTRE PUÒ DIRE DI NON CONOSCERE. UN LUOGO CHE NON È SOLO UN LOCALE DOVE MANGIAR BENE, MA CHE È DIVENUTO UN MODO DI PASSARE UNA SERATA, UN MOMENTO RICREATIVO E SOCIALIZZANTE CHE VA BEN OLTRE IL CIBO.


PERCORRENDO LA CHE DI

DIRE PER LE MURA

STRADA DAL

CHE

CENTRO

DANNEGGIATE

CASTELNUOVO

BERARDENGA CONDUCE AL CASTELLO DI BROLIO, S’INCONTRA IL CASTELLO DI SAN GUSMÈ IN CHIANTI, PERFETTAMENTE CONSERVATO CON LA SUA ANTICA STRUTTURA, GLI ARCHI SOVRASTATI DA STEMMI, LE SUE CASE STRETTE E LE ANGUSTE STRADINE IN SALITA. NEI PRESSI, IN CIMA A UNA COLLINA, UN PICCOLO GRUPPO DI PITTORESCHE CASE COLONICHE E UNA PICCOLA CHIESA SON TUTTO QUELLO CHE È RIMASTO DEL PAESE DI CAMPI. UN PÒ PIÙ IN BASSO, POCO RESTA ANCHE DEL CASTELLO DI SESTA, CHIAMATO SESTACCIA, ACQUISTATO NEL 1388 DAL COMUNE DI SIENA DA FARINATA E ADRIANO UBERTINI: LA FORTEZZA, CON UN CIRCUITO MURARIO A PIANTA ELLITTICA, È RIMASTA IN BUONE CONDIZIONI, MA NON ALTRETTANTO SI PUÒ

RISULTANO

MALAPENA DAL

SUOLO.

O

A

AFFIORANTI ANCHE

DEL

VICINO CASTELLO DI CETAMURA, GIÀ FEUDO DEI RICASOLI, POSTO AL DI LÀ DELLA GOLA DELL’ANCHERONA, RESTA SOLO IL RUDERE DELLA PORTA D’ACCESSO. MA QUELLO CHE RESTA DI QUESTI LUOGHI È A OGNI MODO IL FASCINO ANTICO CHE FA DA SFONDO A UN LUOGO CULT DEL CHIANTI VERO, QUELLO CHE TUTT’ORA RIMANE IL POLO AGGREGANTE DI SAN GUSMÈ, IL RISTORANTE ENOTECA “SIRA & REMINO”, CHE NESSUNO NEI PARAGGI E OLTRE PUÒ DIRE DI NON CONOSCERE. UN LUOGO CHE NON È SOLO UN LOCALE DOVE MANGIAR BENE, MA CHE È DIVENUTO UN MODO DI PASSARE UNA SERATA, UN MOMENTO RICREATIVO E SOCIALIZZANTE CHE VA BEN OLTRE IL CIBO.


v e dintorni

Anno I - Numero 1 Ottobre - Novembre 2011 Direttore responsabile David Taddei Direttore editoriale Maurizio Boldrini Caporedattore Monica Granchi Progetto grafico Marco Michelini/Catoni Associati Grafica e impaginazione Claudia Gasparri Foto Bruno Bruchi Si ringrazia Carlo Vigni per gli scatti sul viaggio in Sicilia Redazione Ilaria Acciai, Andrea Cappelli, Martina Cenni, Andrea de Fabrizi, Vanessa David, Jacopo Rossi, Andrea Settefonti, Elena Vannucci Collaborazioni Marco Bolasco, Paolo Baracchino, Roberto Martini, Gianfranco Soldera, Andrea Zanfi Relazioni esterne Andrea Cappelli Responsabile commerciale Marilena Masia +39 0577 905316 masia@salviettiebarabuffieditori.com Spedizione in abbonamento postale Stampa Cooprint Industria Grafica, Colle Val d’Elsa (SI) In attesa di registrazione presso il Tribunale di Siena In copertina Jacopo Biondi Santi, foto Bruno Bruchi Edizioni Salvietti & Barabuffi Editori, Colle Val d’Elsa (SI) Amministratore Unico Milena Galli

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v e dintorni

Anno I - Numero 1 Ottobre - Novembre 2011 Direttore responsabile David Taddei Direttore editoriale Maurizio Boldrini Caporedattore Monica Granchi Progetto grafico Marco Michelini/Catoni Associati Grafica e impaginazione Claudia Gasparri Foto Bruno Bruchi Si ringrazia Carlo Vigni per gli scatti sul viaggio in Sicilia Redazione Ilaria Acciai, Andrea Cappelli, Martina Cenni, Andrea de Fabrizi, Vanessa David, Jacopo Rossi, Andrea Settefonti, Elena Vannucci Collaborazioni Marco Bolasco, Paolo Baracchino, Roberto Martini, Gianfranco Soldera, Andrea Zanfi Relazioni esterne Andrea Cappelli Responsabile commerciale Marilena Masia +39 0577 905316 masia@salviettiebarabuffieditori.com Spedizione in abbonamento postale Stampa Cooprint Industria Grafica, Colle Val d’Elsa (SI) In attesa di registrazione presso il Tribunale di Siena In copertina Jacopo Biondi Santi, foto Bruno Bruchi Edizioni Salvietti & Barabuffi Editori, Colle Val d’Elsa (SI) Amministratore Unico Milena Galli

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