Fluid. Identità di genere e stili comunicativi nel mare dei simboli della società contemporanea.

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Marco Calabrese Anno accademico 2019/2020 Tesi di Laurea in Teoria e Tecniche della comunicazione di massa.

Fluid. Identità di genere e stili comunicativi nel mare dei simboli della società contemporanea.

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Indice Introduzione

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Parte I 10

Capitolo primo Identità e self.

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Capitolo secondo L’identità di genere

Parte II 47

Capitolo primo

Costruzione del genere nell’interazione visuale con i media. - Il self cerca il genere

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- Stereotipi e modi di vedere

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- Cultura e performance

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Capitolo secondo Identità telematiche di genere e Social Media - La performance e il genere nella CMC

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- Interazione di genere attraverso i social media

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- Usi e contenuti visuali dei teenager sui social media - Visibility e LGBTQI+

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- Self-sexualization

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Osservazioni conclusive

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Bibliografia

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Ringraziamenti

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Introduzione


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Era la fine del duemilasedici e da pochi giorni ero entrato nella casa in affitto a Granada, in Spagna, dove stavo iniziando il mio percorso Erasmus. Il mio compagno dell’università conosciuto da poche settimane mi chiamò e mi invitò a vedere una ciarla feminista. Conoscevo pochissimo lo spagnolo, quindi sapevo che non ci avrei capito molto, ma decisi di andare, magari qualcosa sarebbe arrivata. Mi portò in un posto della città che non conoscevo, un centro sociale occupato a venti minuti di cammino da casa mia. Il posto era gremito, a stento ci si poteva sedere per terra. Un riflettore puntò il muro di cemento e lei arrivò, con la sua maglietta enorme e i suoi pantaloni larghi. ‘Ecco, roba femminista in una lingua che a malapena conosco di cui non capirò nulla.’ Mi dissi. ‘Se non ci capisco nulla al massimo me ne vado’. Mi sedetti lì, cercando di carpire qualche senso e successe l’inaspettato. Gesti, tonalità, dialetti e interazioni con il pubblico: forte come un treno in corsa, dritto nello stomaco e nello spazio tra i miei occhi il messaggio arrivò e mi colpi direttamente lì dove doveva colpirmi. Il monologo teatrale No Solo Duelen Los Golpes (Non solo i colpi fanno male) era interpretato da Pamela Palenciano e raccontava della violenza di genere attraverso le esperienze che Pamela aveva vissuto nella sua infanzia, nella sua adolescenza e postadolescenza. Attraverso i messaggi culturali ricevuti dalla sua famiglia, attraverso la sua educazione, attraverso i comportamenti dei suoi fidanzati, delle sue amiche, dei suoi amici, attraverso i suoi stessi compor

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tamenti, era riuscita a riconoscere e trasmettere gli schemi che la cultura patriarcale inculca nelle persone e nella violenza insita in questi schemi culturali. Ma il messaggio principale era che l’amore, se è amore no duele! Il messaggio arrivò e io non fui più lo stesso. Scoprii che quel centro sociale occupato chiamava La Redonda e che era diverso da tutti i centri sociali occupati quelli che avevo frequentato fino ad allora: era gestito da un collettivo anarcofemminista. Quella sera tornai a casa e scrissi una lunga lettera alle ragazze che avevo frequentato, una lunga lettera aperta in cui iniziai a chiedere scusa per tutti i comportamenti sessisti e maschilisti che avevo avuto in vita mia. Li cominciai ad individuare e lì cominciai il lento processo di decostruzione della mia identità di genere che ancora oggi prosegue. Gettai una luce diversa sulla mia educazione familiare, sul modo di fare dei coetanei della mia città e del mio quartiere, sui programmi televisivi con cui ero cresciuto, sulle parole che circolavano sui social, sul modo di scherzare che avevo con i miei amici, soprattutto su come mi rapportavo con l’altro sesso. Quel centro sociale fu per me un laboratorio identitario fortissimo e lo furono anche le persone che conobbi lì, che mi insegnarono a vedere le persone prima che il loro genere, ed a vedere il genere come una scelta, qualcosa che si è solo se si vuole essere, che si può essere senza implicitamente compiere violenza su un altro genere. Fluid. Identità di genere e stili comunicativi nel mare della cultura contemporanea nasce così, da un monologo che poi ho rivisto due o tre volte e che continua a rivelarmi cose di me stesso, che potrebbe rive

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lare cose di se stessi a chiunque si nato in quella parte di mondo dove “l’uomo sta sopra e la donna sta sotto”. Nasce dalla scoperta che sotto quelli che crediamo essere i blocchi di cemento della nostra identità, vi è un essenza che naviga in un mare di simbologie e possibilità, tutte legate a chi possiamo essere e cosa possiamo scegliere. Quando Charles Baudelaire, nella celebre poesia Corrispondenze (Baudelaire, 1857) nel diciannovesimo secolo, descrisse la natura come un bosco di simboli che solo l’uomo (in quel caso il poeta) può decifrare ed utilizza la metafora della foresta proprio perché simboleggia il luogo in cui l’uomo facilmente può perdersi. La metafora che in questa sede intendo utilizzare, per descrivere l’implacabile ed inafferrabile vastità di simboli che ci circondano nella nostra cultura è il mare. Un mare di simboli, mutevole e liquido, come liquida descriveva la vita Zygmunt Bauman, in cui ogni modello era in liquefazione, ogni struttura in trasformazione. L’elaborato si pone in obiettivo di indagare, attraverso testi e articoli che riguardano la semiotica e la sociologia della comunicazione, il complesso processo di costruzione dell’identità e dell’identità di genere. La prima parte si muove dal rapporto più essenziale di individuo e cultura, passando per la costruzione dell’identità (contenuto del primo capitolo) e per la costruzione socializzata del genere, definendo la natura culturale del genere (contenuto del secondo capitolo). Si passa in seguito, nella seconda parte, ad analizzare la

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funzione che la cultura, attraverso i media visivi, ha nella costruzione del genere e della sua idea estetica (contenuto del primo capitolo) per poi verificarne la natura assolutamente performativa, quindi legata ai processi comunicativi che si riproducono in differenze e stili comunicativi nel mondo della rete (contenuto del secondo capitolo). Due concetti fondamentali per iniziare questa indagine sono il potere di Michel Foucault e la negoziazione di Stuart Hall. Per Michel Foucault il potere va compreso nella quotidianità e negli effetti che produce nella vita sociale e nelle relazioni tra gli individui. Stato, politici e classe che detiene il controllo economico sono solo manifestazioni delle relazioni di potere tra gli individui e queste relazioni attraverso il corpo organizza le masse degli individui. Va quindi ricercato in ciò che sta sotto e dietro la superficie dei fenomeni. Quando parliamo di negoziazione o di lettura negoziata, in ambito di massmedia e decodifica di messaggi Stuart Hall intende “quando il destinatario accetta il codice dominante ma elabora proprie definizioni e/o tenta di fornire interpretazioni parzialmente autonome. In questo caso, si evidenzia una sostanziale asimmetria dei soggetti attivi nel circuito comunicativo massmediatico (distorsione comunicativa), ciò nonostante l’audience appare dotata di una buona capacità critica e di un alto livello di attività (Di Napoli, 2018). A livello identitario, quindi, traccerebbe una linea di mistero tra ciò che l’individuo tocca con mano nella sua vita quo

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tidiana e ciò che poi diventa struttura, ricordo ed esperienza nella sua percezione; è l’esterno che fa conti matematici con l’interno con algoritmi che non comprendiamo mai fino in fondo e che da poi risultati che possiamo solo raccogliere empiricamente nel tempo, osservando come gli individui continueranno a relazionarsi ai propri simili. Buona lettura.

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Parte I

— Capitolo Primo Identità e Self

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“Ci sono questi mutanti che vivono in mezzo a noi, persone dalla fine del XXI secolo che vivono in mezzo a noi ma non c’è un contesto per loro. Se vivevi in Tunguska 200 anni fa ed eri epilettico avresti avuto un contesto: saresti stato uno sciamano. Oggi semplicemente l’epilessia è una malattia. Oggi se guardi i mutanti, o come li chiama la nostra cultura, il disturbo delle personalità multiple, questo è ciò che esiste oltre la personalità, oltre l’identità, oltre l’IO: la libertà di mutare con le circostanze.” (Grant Morrison, 2000)

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La psiche umana è a metà tra un albero ed un mandala: si costruisce dal suo centro, dal suo core più semplice e si dipana in tutte le direzioni, in modo astratto e complesso, e in una sintesi tra gli algoritmi già presenti nel suo centro e le circostanze di ciò che incontra, come superfici ostiche, correnti di vento, mutamenti nella luce solare, cambia mantenendosi sempre riconoscibile a sé stesso, se chi osserva è capace di carpire il suo percorso e le sue forme essenziali. Anche lo stesso punto di vista dal quale si guarda l’essere umano come individuo e come attore sociale muta o influenza la definizione che ne si da. Da questo possiamo partire per dare a tutto ciò che riteniamo di conoscere e di stabilire una base mutevole e relativa, così come comprenderemo essere la natura dell’identità stessa dell’homo sapiens sapiens e dell’ homo sapiens sapiens socialis. Secondo esperti psiconauti, siamo un processo, una specie di enorme “millepiedi” che va dalla pancia di nostra madre fino al luogo in cui ci troviamo in questo momento, una manifestazione spaziotemporale tridimensionale della nostra esistenza, presenza e movimento nell’Universo, così almeno visti dagli occhi di esseri della Quinta Dimensione, dove il tempo e lo spazio non esistono… Ma se dovessimo vederci con i nostri occhi? O con gli occhi di chi sta nello specchio? O con gli occhi di chi ci incontra per strada? Chi ci incontra per strada quanto sa di noi? Dando come premessa la relatività

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della conoscenza e delle narrazioni che si fanno sul Sé, che potrebbe portarci a perderci in un labirinto di immagini, ricostruzioni, decostruzioni ed ipotesi, voglio partire da cosa è appunto l’uomo per i suoi simili, da come quindi l’uomo stesso si costruisce in mezzo ai suoi simili. Dagli occhi di un antropologo, ogni informazione necessaria all’essere umano per sopravvivere viene acquisita dal momento della sua nascita durante la formazione delle sue funzioni cerebrali. L’età che secondo lo psicologo svizzero Jean Piaget corrisponde alla formazione di queste capacità di comprensione di quello che è il mondo circostante va dai 3 ai 15 anni; secondo altre fonti, l’età spugna va dai 3 ai 7 anni. Nel processo di percezione del Sé nel mondo, l’umano riconosce prima di tutto il suo nome. Quella parola sarà il primo modo che egli avrà per distinguersi dalle altre persone e che spesso le varie strutture istituzionali, politiche e sociali avranno per riconoscerlo. (Fabietti, 2015) Cosa assorbe l’umano in questo frangente di tempo? Gli antropologi concordano sul fatto che la specie homo sapiens nasca incompleta e abbia come strumento di sopravvivenza, a differenza degli altri animali, la capacità di assorbire metodi tramandati dai suoi simili per adattarsi e sopravvivere. È quindi qui che si comincia a delineare la sua natura “sociale” (per citare Aristotele). L’uomo dipende quindi da quella che in antropologia viene chiamata cultura: "è un complesso di idee, simboli, comportamenti e disposizioni storicamente tramandati, acquisiti, selezionati e condivisi da parte di individui e gruppi con i quali essi si accostano

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alla realtà in senso pratico ed intellettuale”. (Tylor, 1871 in ivi. p. 19). L’umano capirà dai suoi simili come comunicare, imparerà come si usano gli utensili e come muoversi, assimilerà i costumi e si abituerà a suoni, odori e prassi del sistema culturale in cui cresce. Ciò ci aiuta quindi a comprendere che egli non sviluppa una coscienza di Sé che possa essere mai disgiunta da ciò che comprende e rintraccia nel suo nucleo familiare e sociale. Ogni parte di sé, se consideriamo quindi il suo modo di fare, di agire, di pensare e le esperienze fatte come costitutive della sua Identità è quindi frutto della cultura in cui si trova a nascere e crescere. Come fa quindi, l’essere umano ad assorbire questi modelli? Come vengono elaborati, disposti e inscritti nel suo Sistema Operativo mentale? Secondo lo psicologo Lev Vygotskij i processi cognitivi elementari comuni ad ogni essere umano non colpito da patologie o disturbi particolari sono: l’astrazione (la capacità di fissarsi su un aspetto di un complesso di elementi: per esempio il colore prevalentemente rosso dei pomodori maturi), l’induzione(dallo specifico al generale: se delle cose si somigliano, appartengono tutte alla stessa classe), la deduzione (dal generale allo specifico: se tra alcune cose esistono delle similitudini, ci sono però caratteristiche che le distinguono tra loro) e la categorizzazione (capacità di raggruppare gli elementi in gruppi o classi: distinguere i quadrupedi dagli uccelli, ad esempio).

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L’umano utilizza queste funzioni anche in ambito sociale, costruendo e riconoscendo categorie e modelli culturali che formano il suo modo di pensare e la sua cultura. (Fabietti, 2015) Questa necessità è presente anche nel momento in cui l’uomo si relaziona a sé stesso ed ai suoi simili, cioè nel momento in cui “interagisce socialmente”, quando ha quindi bisogno di un ulteriore e più visibile punto di riferimento che gli dica “io sono” rispetto ad un “io non sono”. Nella seconda metà del ‘900 lo psicosociologo Henri Tajfel introduce la Teoria Dell’Identità Sociale (SIT) che estende i concetti legati all’identità del singolo nei confronti di sé stesso a quello che è il singolo in relazione ad uno o più gruppi. Questa teoria mette in luce il fatto che ogni essere umano, in base a varie categorie di riconoscimento (età, sesso, genere, provenienza, colore della pelle, ecc.), crea dei gruppi a cui sente di appartenere rispetto ad altri che definirà appunto “altri” rispetto a sé e al proprio gruppo. In questo modo avviene una parte di ciò che è l’identizzazione, ovvero l’individuazione, il sentirsi socialmente localizzati all’interno di un gruppo di individui. Questa dimensione “sociale” estende la dimensione “psicologica” dell’identità. Il “polo psicologico” è quindi in un continuum estensivo con il “polo sociale”, in cui l’esperienza dell’io e i ricordi e le esperienze assimilate si categorizzano e si confrontano col vissuto sociale e con i gruppi con i quali ci si interrela. Questo crea in lui un determinato senso di sicurezza nel trovarsi all’interno di un gruppo e nel ritrovare in

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se e nei suoi vicini sociali dei caratteri affini e di utilizzare delle categorie (più o meno ampie e allo stesso modo reali e verificabili) per avere una bussola che possa aiutarlo a muoversi nell’oceano sociale della geografia della sua città, della sua nazione o spesso del suo stesso quartiere. Questo tipo di identità, si manifesta nell’Habitus, cioè il “sistema di schemi percettivi, di pensiero e di azione acquisiti in maniera duratura e generati da condizioni oggettive, ma che tendono a persistere anche dopo il mutamento di queste condizioni.” (DeMatteis, 2017 p.57) È quindi un elemento centrale nella riproduzione sociale e culturale ed è assolutamente relativo al contesto culturale di appartenenza. Questo aspetto dell’identità umana, questo agglomerato di simboli è uno dei tratti dal quale gli umani possono riconoscere gli altri individui umani e possono categorizzarli. Il processo di riconoscimento e creazione di simboli comportamentali e fisici è alla base della formazione dell’identità individuale e collettiva dell’essere umano. Questi simboli si trasmettono e permettono la riproduzione sociale delle individualità e delle collettività. Come afferma De Matteis (ibid. p.42): “Siamo introdotti alla vita imitando; e costruiamo la nostra “autonomia” grazie al fondamentale uso della parola e così facciamo il nostro mondo: lo definiamo, lo costruiamo, lo trasformiamo. Adottiamo il mondo che ci viene dato, lo acquisiamo, lo trasformiamo e ci confrontiamo continuamente con esso.”

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Tramite atti involontari, come riporta nel suo libro attraverso un esperimento sull’assimilazione di modelli comportamentali condotto all’Università di Salerno, noi scegliamo dei modelli per i nostri linguaggi corporei e comportamentali. Questi modelli possono venire riscontrati o nei gruppi familiari, come avviene prevalentemente nella cultura occidentale, o nel cosiddetto gruppo dei pari, dando luogo ad imitazioni alternative: queste ultime si manifestano quando “ci si relaziona con persone al di fuori del proprio ambiente di provenienza e sono frutto di mediazioni tra la naturale disposizione e l’apertura individuale che incanala nella figura simmetrica le possibilità che i soggetti si danno per sperimentare esperienze nuove e diverse’’. Nei bambini, come negli adulti, sostiene De Matteis (ivi.), questo processo è continuo ed inconsapevole. Negli adulti fanno apparentemente più resistenza ad entrare nel sistema comportamentale per la quantità di “strati” di modelli già presenti rispetto ai bambini che, come detto in precedenza, hanno un cervello-spugna. Negli adolescenti il gruppo dei pari, ad esempio, e la necessità di iniziare a sentirsi appartenenti ad un gruppo scelto al di fuori della famiglia che cominci a esprimere l’indipendenza del soggetto dal suo nucleo di nascita, fa si che si assorbano modelli estetici e comportamentali , come marche di vestiti e gruppi musicali che in parte sono responsabili anche di scelte consumistiche e di conseguenza di strategie di marketing ben definite (Aime, Pietropolli 2014). Ciò che quindi si assimila, si elabora, si comunica e si tramanda, sono, come li definisce alla fine degli anni Settanta

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Richard Dawkins, i memi: “unità di trasmissione culturale o unità d’imitazione, spermatozoi che saltano di cervello in cervello tramite il processo di imitazione.”(ivi. p. 48) Essi possono replicarsi e avere vita più o meno longeva, possono resistere nella loro forma più pura o possono essere frutto di rielaborazione che ci renda più indipendenti nel loro utilizzo, ma restano comunque parte della nostra cultura e della nostra esperienza sociale e collettiva. In ogni caso, è la riconoscibilità delle unità culturali a renderle trasmissibili e ripetibili. Ciò che a noi interessa è appunto la loro riconoscibilità, in quanto ci permette di comprendere quanto dell’identità della persona sia appunto assimilazione del suo circostante socioculturale più vicino o più lontano.

Secondo Mario G. Giacomarra(2015), da un punto di vista sociologico, l’identità è il modo in cui l’individuo si pensa e si relaziona rispetto a sé, al gruppo a cui afferisce e ai gruppi esterni percepiti come alterità rispetto a Sé. È il risultato di due processi: quello di identificazione in cui il soggetto sociale si rifà a caratteristiche comuni, a gruppi a cui si sente di appartenere e quindi si inizia a sentir parte di un “noi”, un’entità collettiva che condizionerà le sue scelte in diversi momenti temporali; per secondo quello di individuazione, in cui egli individua le distinzioni con gli appartenenti al suo stesso gruppo o a gruppi esterni. Sono i tracciati e i confini che quindi definiscono la persona rispetto

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alle altre. Questo intrinseco interazionismo necessario per costituire la persona, rende quindi il concetto di identità tanto reale quanto fluido e “circostanziale’’. Per spiegarlo con le parole di Tessarin: “esiste una stretta relazione tra l’identità come elemento individuale o come esperienza soggettiva, e l’identità come elemento inter-soggettivo, condiviso cioè da più soggetti.” Giacomarra qui segue le teorie di Erikson (1968) ampliate poi da Sciolla nel 1983 nel definire la complessità delle dimensioni dell’identità. L’identità, dunque, ha una dimensione psicologica (la sicurezza del soggetto data da ciò in cui crede, ciò che ha vissuto e ciò che sa) e una dimensione sociale (accomuna la sua esperienza individuale a quella dei soggetti che ne condividono il sentire). Queste secondo Erikson sono strettamente legate arrivando quindi a dare all’identità l’attributo di psicosociale. A questo Sciolla aggiunge tre ulteriori dimensioni: quella locativa, attraverso cui l’individuo definisce il campo simbolico in cui collocarsi, quindi stabilisce differenze tra sè, l’altro e il mondo; quella selettiva, attraverso cui l’individuo definisce i propri confini e i suoi sistemi di rilevanza che usa per determinare scelte, priorità e preferenze; una integrativa, attraverso cui l’individuo dispone di un quadro integrativo che integra l’esperienza del presente e del passato in un’unità di biografia e significazione (quest’ultima dimensione garantisce nel tempo la continuità del sé). Secondo Clifford Geerts “L’individuo è (aggiungo io necessariamente) una costruzione sociale”. Seguendo la prospettiva di origine durkheimiana la persona non

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può sottrarsi al rapporto sociale. La sua identità è un liquido costrutto di percezioni, riflessioni, negoziazioni, opposizioni e rielaborazioni di esperienze e codici comportamentali e linguistici assimilati in modi spesso irriconoscibili dalla mente umana in continua formazione. È un complesso mosaico di simboli che esiste SOLO nel momento in cui si trova a doversi confrontare con l’altro: sia questo una collettività, siano questi gli occhi di un individuo che come uno specchio ci invitano a riflettere su chi siamo e come scegliamo per poter comprendere la differenza e poter presentare la nostra. De Matteis (2017) critica come questa idea sociologizzata e negoziata dalle relazioni dell’identità e del self sia la figlia prediletta del Novecento, secolo che ha visto nascere e crescere il brutale fenomeno della globalizzazione e che ha trasformato la nostra percezione di noi stessi, del tempo dello spazio e della vita stessa in qualcosa di incredibilmente cangiante, inconsistente e fluido. La società liquida Baumaniana è appunto il concetto di riferimento di tutta la sociologia che cerca di raccapezzarsi nel mondo postmoderno globalizzato. De Matteis mette a confronto gli schemi di pensiero derivati da William James con la sua idea esperienziale del Self e quelli derivati da tutto il ramo interazionista ,in cui Goffman ha contribuito a creare inconsapevolmente confusione con La vita quotidiana come rappresentazione (1959). Secondo James (1890):

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“ Il Self empirico di ciascuno di noi è tutto ciò che siamo tentati di chiamare con il nome di me. Ma è evidente che tra ciò che un uomo chiama me, e ciò che chiama semplicemente mio è difficile tracciare una linea di separazione. Noi percepiamo e agiamo verso alcune cose che ci appartengono, in modo assai simile a come agiamo e percepiamo verso noi stessi. La nostra reputazione, i nostri figli, l’opera nelle nostre mani, ci possono essere care quanto il nostro corpo, e suscitare in noi le stesse emozioni e gli stessi atti di rappresaglia in caso di aggressione . E i nostri corpi sono semplicemente nostri o noi stessi? Certamente gli uomini sono stati pronti a ripudiare il loro stesso corpo e a considerarlo come una semplice veste o addirittura una prigione di argilla dalla quale dovrebbero essere un giorno lieti di scappare. Si vede quindi che abbiamo a che fare con un materiale mutevole. Lo stesso oggetto viene ora trattato come una parte di me stesso, altre volte semplicemente come qualcosa di mio e altre ancora come se io non avessi nulla a che fare con esso. Nel senso più ampio possibile, tuttavia il Self di un uomo è la somma totale di tutto ciò che egli PUO’ chiamare suo, non solo il suo corpo e le sue facoltà psichiche, ma i suoi abiti e la sua casa, sua moglie e i suoi figli, i suoi antenati e i suoi amici, la sua reputazione e le sue opere, le sue terre e i suoi cavalli, i suoi yacht e il suo conto in banca. Tutte queste cose gli procurano le medesime emozioni. “ (James, 1890 in DeMatteis, 2017 p.205)

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È quindi chiaro che qui l’identità e il Self sono costituiti dall’esperienza (i vissuti del pensiero e delle emozioni) che l’uomo fa di se rispetto a ciò che lo circonda durante il suo quotidiano. Un processo di riflessione che va dall’esterno verso l’interno, verso la comprensione delle cose che più ci affezionano. È quindi un’interazione continua con le significazioni di tutto ciò che sopra viene elencato, che diventa quindi simbolo. Al contrario, nel corso del Novecento lo sguardo è all’esterno, alla infinita e fitta rete di relazioni ed azioni che definiscono chi è l’uomo in base a cosa fa e come lo fa. È il mondo esterno a definire chi siamo e noi siamo i meccanismi che creiamo per gestire ciò che accade attorno a noi e che accade dentro di noi rispetto al fuori. In La vita quotidiana come rappresentazione la metafora teatrale di Goffman (1959) nella gestione dei meccanismi sociali quotidiani che l’uomo applica per comprendere e controllare sé stesso rispetto agli altri, dà adito di pensare che l’identità sia qualcosa che esiste solo in base alla negoziazione delle relazioni, un qualcosa che si costruisce, come un mosaico, dai resti di ciò che accade nel nostro rapporto con l’esperienza con l’esterno. La mutevolezza delle situazioni da gestire illude però che l’identità sia qualcosa di assolutamente dinamico e insondabile e fa allontanare dalla sensazione che ci sia uno scheletro di fondo, una persona che prosegue in modo coerente attraverso il tempo. Il sé sembra essere quindi interpretabile alla stregua di un gioco di specchi, immagini e colori completamente adattabili e intercambiabili per poter star dietro alla

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turbolenta frenesia della società moderna, tutto a seconda delle necessità, volontà, occasioni e strategie del soggetto. “I vari personaggi rischiano di essere confusi con il loro interprete.” (DeMatteis, 2017 p.213) Allora, secondo De Matteis, è qui che interviene un altro concetto a dare all’identità come maschera un certo tipo di continuità e di senso dialogico: è il Self. Mentre l’identità si configura quindi come una negoziazione, una costruzione spesso fittizia condivisa e convenzionata con l’esterno e con l’Altro che si incontra nelle varie situazioni e inserisce nuova esperienza e significazione ad ogni parte della persona, una continua modificazione in accordo con la storia dell’ individuo nella storia degli individui; il Self si configura come il dialogo razionale e strategico che la mente dell’individuo attua per mantenere salda la percezione che si ha di tutta questa mutevolezza. È il punto di vista interno, particolare, di chi vive l’identità e immagina sé stesso. È la mente, il nocciolo che mantiene la coerenza tra il prodotto delle caratteristiche individuali e relazionali, dei costrutti sociali incarnati e delle fattualità storiche che legano l’individuo alle collettività. Ne risulta quindi una descrizione dell’individuo non come solo fluido e liquido, ma anche capace di utilizzare la propria mente per scegliere dove e come fluire, interrogando sé stesso e facendo quella che sopra chiamavamo una selezione di esperienze che lo defini

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scono e lo autodeterminano e gli permettono di scegliere il proprio percorso nel mare cangiante ed incontrollabile di stimoli ed eventi che è la vita sul Pianeta Terra. Alla luce delle considerazioni psicologiche, sociologiche ed antropologiche viste fin’ora, sembra che l’identità sia ciò che il Self crei rielaborando la cultura assorbita rispetto alla coscienza di sé nel momento in cui essa si trova a doversi confrontare e relazionare con un altro sé.

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“Essere un individualità comprende l’esistenza del Sé e del Non-Sé.[…] Dove io mi fermo, dove si fermano i miei confini fisici ed ideologici, ciò che c’è dall’altra parte definisce la mia individualità.[…] Agli estremi dell’IO, oltre la personalità, dove risiede quello che la cultura moderna chiama disturbo da personalità multipla troviamo il Sé che interroga il Sé e si ripete all’infinito “Sto facendo la cosa giusta? Sono sulla strada giusta? È questo il modo giusto di pensare? Mi sto avvicinando bene alle persone che ho attorno? Li sto coinvolgendo?” Cosa succederebbe se abbandonassimo la personalità che cerchiamo di chiudere in un singolo contesto ed abbracciassimo le personalità multiple?” (Grant Morrison, 2000)

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Parte I Capitolo secondo —— L’identità di genere

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Cinzia è il romanzo grafico di Leo Ortolani uscito per Bao Publishing nel 2018. Racconta con un equilibrio perfetto tra comicità e drammaticità la storia di Cinzia, transessuale alla ricerca di un ‘identità’ che le permetta di vivere nella società di tutti i giorni. Cinzia vuole potersi innamorare, trovare un lavoro, rapportarsi ai più senza sentire su di lei il peso di una macchia. Un’identità che si adatti ai suoi gusti estetici, che non stoni con le sue forme biologiche, che le permetta di poter soddisfare i suoi desideri: chi sono io? È la domanda che sembra nascere in lei; con che sigla devo esprimermi? Quanto è difficile far combaciare tutto questo nella sigla “uomo” e “donna”?’ Sono le domande che nascono in noi. Cinzia attraverso le esperienze scopre se stessa; attraverso delusioni e ostacoli riesce a capire come nuotare in un mare di etichette e pregiudizi, di forme e predisposizioni che sembrano affogare chi non si ‘definisce’, chi non ha fatto del suo sesso una verità improrogabile per la scelta di se stessi.

Ampio e lungo è stato il dibattito (e la lotta femminista, di conseguenza, nelle sue più svariate forme) che ha cercato di portare la cultura dominante alla consapevolezza del fatto che il genere e il sesso siano due cose diverse; un lungo cammino volto a dimostrare che il determinismo causale tra le due cose ha una natura puramente storica e culturale, quindi convenzionale .

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Elisabetta Ruspini, nel suo esauriente manuale orientativo sul tema delle identità di genere dal titolo omonimo, ci spiega le definizioni necessarie a comprendere questa fondamentale differenza. Il sesso riguarda le differenze biologiche ed anatomiche tra maschio e femmina. Dalla sesta settimana dopo il concepimento, appaiono i cromosomi XX sul ventitreesimo piano. In potenza sono sia maschi che femmine. Se intorno all’ottava settimana appare il cromosoma Y affianco a quello X, allora le gonadi iniziano a mutare in testicoli. Il gene TDF (Testis Determining Factor) nel cromosoma Y inizierà a far rilasciare ai testicoli una quantità di ormoni che svilupperà i fattori biologici verso la forma maschile, in caso di insufficienza ormonale, il corpo resterà femminile. “In mancanza di precise informazioni genetiche, cromosomiche e ormonali, la morfogenesi e il successivo sviluppo, almeno per i mammiferi, proseguono spontaneamente in direzione femminile: in altre parole, nella fase iniziale della vita embrionale, l’esistenza o l’assenza del cromosoma Y indirizza lo sviluppo fisico dell’organismo in una o nell’altra direzione.” (Ruspini, Le Identità di genere, Carocci Ed, Roma, 2009 p.10) Il genere è invece ciò che culturalmente consegue al riconoscimento del sesso ed è la prima cosa che notiamo quando abbiamo un contatto diretto con una persona. Nella cultura occidentale, gli organi genitali, quindi la categoria “sesso” sono intesi come indicatori causali sia del genere sia del desiderio sessuale che diventano

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espressione della sessualità: preannunciano relazioni ben precise e stabili tra queste varie dimensioni lungo l’arco della vita. Come su un nastro trasportatore, una volta certificato che la persona sia maschio o femmina, verrà indirizzato il nascituro inconsapevolmente e senza diritto di scelta verso una serie di insegnamenti, comportamenti, simboli e valori che la società ritiene necessari. L’ambiente sociale, quindi, interagisce in modo arbitrario sulla biologia del nascituro. Come l’antropologa Margaret Mead ha dimostrato nella sua ricerca Sesso e temperamento riguardo i comportamenti sociali riscontrati nei due sessi in tre popolazioni della Papua Nuova Guinea, ogni società crea delle aspettative nei confronti di situazioni nelle quali ogni sesso dovrà rispondere in un certo modo. Essendo la cultura l’insieme di modelli e dei valori che i membri di un dato gruppo riconoscono e condividono, la ricerca antecedente getta già negli anni ’40 del secolo scorso una luce sul fatto che la categoria genere è una costruzione puramente culturale. Il genere è quindi quell’ etichetta in base alla quale svilupperemo determinati processi mentali in cui riconosceremo la nostra identità di genere. Secondo Butler (1999) la distinzione sesso/genere e la categoria di sesso di cui si dota il discorso femminista sembra presupporre una generalizzazione “del corpo” che preesiste all’acquisizione del suo significato sessuato. Il corpo, quindi, viene posto come medium passivo su cui interviene una fonte culturale “esterna” a dargli significato. È una fatticità muta che viene devastata dalla storia e dalla cultura; quindi essa stessa

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perde la sua consistenza come termine “naturale” nella proporzione mente/corpo=cultura/natura. Il corpo è una superficie su cui si iscrivono eventi. Ogni volta che lo si guarda e lo si definisce avviene un processo di iscrizione di significati. La storia, in quanto creazione di valori e significati a opera di una pratica significante della cultura collettiva, dà significato a sua volta a tutto ciò che la cultura produce e riconosce, né è custode e fonte di nuova significazione. Allo stesso modo le permette di incidere sul corpo genitalmente riconoscibile e categorizzabile la sua categoria sessuale che diventa inizio di tutta la pratica di costruzione del genere. Per identità di genere intendiamo la percezione sessuata del sé e del proprio comportamento, acquisita attraverso l’esperienza personale e collettiva, che rende gli individui capaci di relazionarsi con gli altri. (Ruspini, 2009) È quindi uno dei segni fondamentali nel processo di formazione dell’identità ma è anche una di quelle istanze che è in continuo rimodellarsi e ridiscutersi, rispecchiando appunto la fluidità del concetto di identità. Seguendo le basi sociologiche dell’ interazionismo fenomenologico, l’identità è il prodotto di un processo autoriflessivo nel quale il soggetto si confronta con le definizioni di sé che emergono dalle relazioni sociali che interiorizza ed elabora. (Wallace, Wolf 1994). L’uomo quindi risponde, reagisce e riconosce simboli nell’interazione col mondo che concorrono a formare la percezione che ha di se stesso. Da questo processo riconosciamo come miliare la ricerca che Garfinkel ne

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gli anni Sessanta del Millenovecento fa su Agnese e sul suo processo di costruzione di un background comportamentale ed esperienziale di genere. Prima di parlare del caso di Agnese è però opportuno fare un punto sul binarismo di matrice eterosessuale sul quale si stanziano i generi e sullo stigma deviante con il quale la cultura occidentale ha per secoli marcato il genere intersessuale e tutte le differenze dell’orientamento sessuale sul quale è organizzata la società. Premetto quindi che l’indagine teorica che stiamo conducendo si riferisce preminentemente alla cultura occidentale di stampo capitalista/neoliberale europea, statunitense e (di conseguenza) italiana. Tenendo conto dell’anatomia, ciò che apparentemente consegue è una concezione del genere rigida, bipolare e dualistica. La dicotomia stretta, secondo Butler (1999), impone che i due termini siano necessariamente reciproci, escludenti in termini di identificazione e desiderio. Il genere intersessuale, quello in cui il sesso si manifesta in una zona “intermedia” sul soggetto, sia a livello di conformazione genitale che di sviluppi ormonali, è stato sempre visto come un disordine sessuale, spesso come un difetto che la chirurgia e la medicina hanno imparato a correggere, spingendo i soggetti verso uno dei due termini, per permettere all’educazione di scegliere verso quale strada indirizzare la trasmissione di simboli e valori. Secondo una ricerca del 2011 dell’ Australian Human Rights Commission sarebbero riconoscibili ben ventitré tipi di identità di genere (omosessuali, i bises

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suali, i transgender, i trans, i transessuali, gli intersex, gli androgini, gli agender, i crossdresser, i drag king, i drag queen, i genderfluid, i genderqueer, gli intergender, i neutrois, i pansessuali, i pan gender, i third gender, i third sex, le sistergirl e i brotherboy). “Non si tratta di sinonimi o di semplici variazioni di un unico fenomeno, ma di specifiche e distinte categorie legate al misterioso universo del sesso. C’è chi le definisce perversioni sessuali, e chi invece le qualifica come legittimi orientamenti sessuali, degni di trovare piena tutela giuridica” dice Gianfranco Amato in un articolo dell’avvenire, riportando che in Italia giuridicamente esistono solo i generi “uomo” e “donna”. Senza dilungarci sulla natura storica di tale visione, possiamo dedurre che si considera la “normalità” un sinonimo di “eterosessualità”, in quanto i due generi/ sessi sono biologicamente complementari. Secondo Butler (ivi.), il genere può denotare un’unità di esperienza, di sesso, genere e desideri, solo quando il sesso può essere inteso come ciò che necessita del genere (laddove il genere è una designazione psichica e/o culturale del sé) e il desiderio (laddove il desiderio è eterosessuale e perciò si differenzia attraverso una relazione oppositiva rispetto all’altro genere che desidera). La coerenza interna o unità di entrambi i generi richiede pertanto un’eterosessualità che sia stabile e oppositiva allo stesso tempo. Tale eterosessualità istituzionale richiede e produce al contempo l’univocità di ognuno dei termini di genere che costituiscono il limite delle possibilità di genere all’interno di un sistema di genere binario e oppositivo. Questa concezione riflette quindi

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il nesso causale tra sesso, desiderio e genere e ipotizza che il genere rifletta ed esprima un desiderio e viceversa. La dislocazione strategica del genere su due poli sessuali opposti e complementari istituisce una eterosessualità obbligatoria e naturalizzata e regola il genere quale relazione binaria in cui il termine al maschile si differenzia da quello al femminile e lo “desidera”. (Butler, ivi.) Come rivela Foucault in Storia della sessualità, è la scarsa conoscenza delle evoluzioni storiche e sociali, quindi il potere che l’apparato di produzione culturale ha su di noi a generare l’illusione che il sesso sia “causa” dell’esperienza del desiderio sessuale come dei comportamenti, quando invece il suo primato è solo “effetto” di una pratica discorsiva culturale volta al mantenimento di un determinato ordine gerarchico binario. Scrive Barbagli nel 2003: Il nostro sistema di classificazione si basa su una sorta di dimorfismo sessuale. Noi pensiamo che vi siano due sessi biologici(maschile e femminile) e due generi (uomo e donna). Ma vi sono stati periodi storici nei quali si riteneva che vi fossero due generi ma tre sessi biologici (uomo, donna ed ermafrodito). Un grande cambiamento iniziò in alcuni paesi d’Europa nel Settecento, quando si fece strada a poco a poco un sistema di classificazione in due sessi biologici e tre generi: maschile, femminile e “mollies” (come furono chiamati a Londra), cioè uomini invertiti o effeminati. Negli ultimi decenni del Settecento, a questi tre generi

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se ne aggiunse un altro: quello delle “tommies” o “sapphists”, cioè donne mascolinizzate. E ancora Lorber nel 1995: Le società occidentali hanno solo due generi, “uomo” e “donna”. Altre società possiedono invece tre generi differenti: uomini, donne e berdache[tra gli indiani d’America] oppure Hijra [in India] o sanità [nell’Oman]. Questa terza categoria indica individui che biologicamente sono maschi ma che si comportano, vestono, lavorano e sono trattati dal punto di vista sociale prevalentemente come donne, quindi non possono essere definiti uomini e nemmeno donne con caratteristiche femminili: nella nostra lingua sono “donne maschili”. Altre società che hanno istituzionalizzato gli uomini appartenenti a un terzo genere sono i Koniag in Alaska, i Tanala in Madagascar, i Mesakin nella Nubia e i Chukchee in Siberia. Tra gli africani e gli indiani americani esistono società che hanno un genere chiamato donne dal cuore maschile: si tratta biologicamente di femmine che però lavorano, si sposano e assumono il ruolo di genitori in qualità di uomini; il loro stato sociale è quello di “uomini femminili”. La problematicità su cui viene posto l’accento è la natura costruttivista dell’atto di “rappresentare” un genere. “Costruire” il genere è quindi un atto linguistico, un atto esperienziale ed un atto estetico, come ci fa notare Cinzia cambiando il suo modo di esprimersi, di vestirsi, di portare i capelli e di raccontare se stessa per con

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quistare l’uomo che di cui è infatuata, cambiando il nome con cui si presenta da Cinzia a Paul. Harold Garfinkel, nel suo saggio Agnese (1967) racconta in maniera documentaristica (senza riportare mai esplicitamente un’identificazione di genere) il caso di questa donna di nome Agnese nata con un pene ed uno scroto e con equilibri ormonali che autonomamente hanno sviluppato in lei un corpo con armonie e forme femminili. Le definizioni da noi conosciute la direbbero intersessuale. Agnese è quindi definibile anche transessuale, in quanto nata maschio ed in procinto di spostarsi verso il genere femminile. Ciò su cui si sofferma il sociologo è la sua costruzione dell’essere donna, essendo stata cresciuta ed educata come uomo fin dalla nascita. Il personaggio di Agnese, nei casi studiati dalle interviste, attua una vera e propria dissimulazione di tutto ciò che è il comportarsi da “donna”, di tutti i “riti di passaggio” destinati dalla società ad una donna e di tutto quello che è quindi il suo background esperienziale necessario perché le sia riconosciuta una certa identità di genere. Riporta Fele nel 2002: “Agnese è impegnata in una doppia operazione: in primo luogo saper riconoscere nel mondo i comportamenti appropriati che devono essere adottati in determinate circostanze; in secondo luogo deve saperli eseguire alla perfezione (non perché vadano eseguiti bene, ma perché questo è un requisito di comportamento naturale)”. Garfinkel con questa ricerca analizza la difficoltà nel “costruire la naturalezza” dell’essere uomo o donna, la sua performatività e quindi la sua natura assolutamente sociale, andando ad

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approfondire le ricerche di genere di stampo interazionista di Erving Goffman prima di lui. Seguendo le teorie esposte da Butler (1999) il sesso non andrebbe interpretato come qualcosa di destinante, ma come qualcosa che la cultura utilizza per costruire il genere. Quest’ultimo è appunto un artificio fluttuante che si evolve in base ai contesti storici e culturali divenendo nel tempo qualcosa di completamente indipendente dal fattore “naturalizzante” del sesso. È “il mezzo discorsivo/culturale con cui la ‘natura sessuata’ o ‘un sesso naturale’ vengono prodotti e fissati in quanto ‘pre-discorsivi’, precedenti la cultura, una superficie politicamente neutrale SU CUI agisce la cultura.” (Butler,1999, p.13) Dalle analisi fatte finora, le correnti sociologiche dell’interazionismo simbolico e del costruttivismo sociale delineano la categoria genere come qualcosa di fluido, plasmato da modelli che riprogettano in continuazione gli equilibri tra i sessi. La filosofia antica ha posto come “naturali” le differenze tra i sessi e le ha collegate al concetto di famiglia come istituzione di derivazione naturale e necessaria. Questo ha fatto si che le donne fossero allontanate dalla vita pubblica e politica e relegate all’ambito domestico. Anche nel linguaggio, si è spesso utilizzata la “donna” come definizione al negativo di “ciò che non è uomo”. Secondo Butler (1996), la maternità fisiologica nella donna, quindi il doversi prendere cura di un cucciolo

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d’individuo dalla tenera età fino a quella adulta, le ha affibbiato tutte le significazioni possibili in termini di affettività, sensibilità e irrazionalità, arrivando storicamente poi a collegare in maniera automatica la donna con la poesia, l’arte, le emozioni, la passività e l’uomo (di contro) con la scienza, la razionalità, l’azione e la produttività. Procedendo ad una generale analisi che parte dalla più vicina età moderna, proviamo a ricostruire la nascita dei ruoli di genere che la famiglia (primo agente di socializzazione dell’individuo) trasmette ai soggetti in fase di crescita e cerchiamo di comprendere come dall’età moderna si sia via via andato calcificando il nucleo familiare tradizionale, che buona parte del pensiero anti-gender vede come naturale e necessariamente immutabile. In fase di industrializzazione, con i processi di inurbamento dovuti all’ingente aumento del lavoro in fabbrica, la famiglia ha iniziato a cambiare la sua forma dando vita lentamente a quello che conosciamo oggi come il nucleo familiare patriarcale ristretto. Mentre prima le famiglie avevano un carattere sociale spesso più votato a valori di vicinanza, parentela e comunità, avendo comunque come metodo di sostentamento basilare la condivisione di bestiami, terre, attività artigianali o mestieri tramandati per generazioni, in cui tutti contribuivano, ora le famiglie offrivano individui alle fabbriche; i lavoratori erano soggetti a controllo, orari e schemi produttivi che necessitavano quindi che qualcuno si occupasse di tutto ciò che stava fuori dal luogo

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lavorativo, cioè la cura della casa, la crescita e l’educazione dei figli e i bisogni primari. Le donne fornivano i servizi informali che sostenevano la vita urbana e i processi produttivi (Ruspini, 2009). La separazione si fa netta, e alle donne spetta quindi lo “stare a casa” mentre all’uomo di “portare il pane a casa”. La società si organizza in base a questa divisione, permettendo al solo lavoro salariato dell’uomo di provvedere alla famiglia quasi per intero. Scrive Collins (1992): “Con l’avvento delle società ‘moderne’ si assiste a un netto cambiamento della posizione delle donne: le donne della classe media in genere cominciano ad essere idealizzate, si diffuse l’idea che le donne erano moralmente superiori agli uomini […] ed emersero standard ‘civili’ di deferenza nei confronti delle donne (essere all’altezza delle buone maniere) intesi come il segno di uno status sociale elevato. Al tempo stesso questo nuovo ruolo ‘vittoriano’ assegnato alle donne ebbe gravi ripercussioni nella sfera economica: si pensava che le donne fossero madri e mogli tenere, idealizzate e premurose, da proteggere dagli aspetti ‘più rozzi’ della vita virile.” (Collins, 1992, p.218) La famiglia diviene luogo di socializzazione primaria, di privatezza e la donna ne diviene la custode. Si accentua anche la separazione tra la donna/madre/casalinga e la donna/lavoratrice/non sposata che riceve tutt’altro investimento di valori e meno “rispettabilità” di colei che invece dedica la sua vita a portare avanti la

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famiglia, assolvendo apparentemente al suo “compito naturale”. La rivoluzione industriale conferisce quindi un connotato nucleare ancora più ristretto alla sfera domestica, trasformandola nel modello a cui il mercato fa riferimento per la produzione di beni e di individui sociali. È l’unità sociale sulla quale si costruisce la società tutta: in questa unità le tendenze egoistiche vanno quindi piegate al bene comune. In questa unità esistono ruoli ben definiti che gli individui in fase di crescita imparano a riconoscere, rispettare ed interpretate in funzione della conservazione di un ordine e di un’armonia sociale. È quindi evidente che il primo luogo in cui si possono individuare le strategie e le necessità dell’emancipazione dal ruolo di genere imposto è nella vita quotidiana che ha base nella famiglia e nell’educazione. La società dei consumi, il marketing, i media creano prodotti basando le loro analisi su questa unità sociale che ha chiari ruoli e preferenze; veicolano messaggi necessari al mantenimento di questa netta divisione tra uomo, donna e figli. Sarà capitato ad ognuno di noi di dover comperare un regalo per un futuro nascituro: chi ha optato per un vestitino rosa o un bambolotto se il figlio è maschio? Quanti di noi hanno cercato di mettere in forse l’identità di genere culturalmente condivisa (ciò che noi pensiamo sia “giusto”, “adatto”, “appropriato” per un bambino o una bambina) attraverso pratiche, atteggiamenti, doni “poco convenienti”?

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Sono quindi gli adulti in primis a definire e contribuire alla costruzione dei messaggi che la società rende habitus riguardo il genere e la sua costruzione. Giddens (1991) conduce un’osservazione sull’interazione di cinque giovani madri con una bambina di sei mesi di nome Beth. Le donne tendevano a sorriderle spesso e ad offrirle bambole per giocare. La bambina era giudicata “dolce”ed aveva un “pianto tenero”. Le reazioni di un secondo gruppo di madri nei confronti di un bambino della stessa età di nome Adam furono sensibilmente diverse. Per giocare gli venivano offerti di norma dei trenini o altri “giocattoli maschili”. In realtà, Beth e Adam erano lo stesso bambino, vestito in modi diversi. È proprio dalla ricerca di Giddens che riusciamo a ricavare quindi come il genere sia qualcosa che la cultura applica al sesso, qualcosa che viene quindi costruito ed espresso per essere riconosciuto, per essere giudicato più o meno “consono” o “coerente”. Il genere è un insieme di memi (vedi Cap 1), scelte estetiche e stilistiche, influenzate più o meno dall’orientamento sessuale e molto di più dalla resistenza che la cultura dominante nella quale si cresce applica al riconoscimento della fluidità dell’identità di genere. Il problema è che queste scelte spesso non vengono prese dall’individuo stesso, ma quest’ultimo si trova a doversi confrontare con un’identità a cui deve opporsi o che deve rinegoziare.

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La critica mossa da Butler (1999) è volta proprio a scardinare la naturalizzazione del nesso causale di sesso/genere: il genere, avendo una natura puramente culturale, assume automaticamente una caratteristica fluida e tutt’altro che fissa. Secondo l’autrice, assolutamente non consegue, se non in campi semantici consolidati e convenzionalizzati, che la costruzione “uomo” derivi esclusivamente dal corpo di sesso maschile o che il termine “donna” derivi solo da un sesso femminile. Da questo ragionamento si può desumere che se il sesso è binario, non è detto che anche il genere debba esserlo. Il genere, quindi, non riguarda solo il “prodotto” culturale, ma anche il suo processo produttivo, in cui sono iscritte tutte le istituzioni sociali e le agenzie di socializzazione necessarie alla formazione dell’individuo. L’idea di costruzione suggerisce appunto un’agency, un sistema di leggi, poteri e messaggi che ne veicolano il processo. Se il genere è appunto un artefatto culturale, allora anche l’identità (come abbiamo argomentato nel paragrafo precedente) lo è. Per la Butler le persone acquisiscono una “intelligibilità” solo quando acquisiscono una connotazione di genere conforme a riconoscibili standard di genere. Questa è una delle prime consapevolezze ordinanti che spesso il Self utilizza per direzionare la negoziazione di significati ed esperienze nel processo di costruzione identitario. Ma se la persona, è qualcosa che va oltre i ruoli e le funzioni sociali riconoscibili “all’esterno”, qualcosa di legato alla coscienza, alle capacità mentali e morali (il Self, per come lo abbiamo inteso nel paragrafo 1), allora anche la “coe

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renza” e la “continuità” della “persona” sono norme di intelligibilità socialmente istituite e conservate. La richiesta legge di coerenza di un genere in relazione a sesso, pratica sessuale e desiderio, sono proprio quelle che producono le “discontinuità” o le incoerenze che manifestano la reale fluidità del genere e lasciano comprendere come la nozione fissa e binaria di questo sia qualcosa di squisitamente funzionale ad un ordine sociale costituito e giustificato da motivazioni culturali e storiche. “I generi ‘intelligibili’ sono quelli che in un certo senso istituiscono e mantengono relazioni di coerenza e continuità tra sesso, genere, pratica sessuale e desiderio. In altre parole, gli spettri della discontinuità e dell’incoerenza, pensabili solo in relazione alle norme di coerenza e continuità vigenti, sono costantemente sottoposti a divieto e prodotti da quelle stesse leggi che cercano di stabilire linee di connessione causale o espressiva tra sesso biologico, generi culturalmente costituiti e la loro ‘espressione’ o ‘effetto’ nella manifestazione del desiderio sessuale attraverso la pratica sessuale.” (Butler, 1999, p. 27) L’identità di genere va quindi intesa come la definizione ai fini espressivi e sociali di tutti quelli che sono gli elementi estetici, comportamentali, di desiderio sessuale ed orientamento sessuale che una persona sceglie di mantener parte del suo vissuto quotidiano in relazione alla dicotomia culturale fluida di sesso/genere.

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Ogni società mantiene ed esprime in modo diverso quelle che sono le significazioni relative alle manifestazioni organico/corporee della categoria di sesso. Per concludere, rimando al videoreportage del Guardian, sottotitolato dal sito della rivista internazionale.it, “ La città messicana dove il genere è fluido”. Qui viene mostrato come il Terzo Genere, la Muxe, sia stato adottato e venga vissuto come altra via rispetto a quelli che sono i due termini definitori uomo/donna.

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Parte II Capitolo Primo —— Costruzione del genere nell’interazione visuale con i Media

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“La trappola nel quale siamo incastrati è quella di suddividere uno spettro infinito di emozioni e colori in ciò che è maschio e ciò che è femmina” Jumana Mustafa1,

Il self cerca il genere Una traccia impercettibile inizia a interagire con il mondo. Osserva ciò che gli accade attorno da dentro al suo corpo. Assorbe movimenti, suoni, immagini, piccole prime esperienze che prima o poi in qualche modo riprodurrà. È quasi impossibile comprendere ancora quale sia l’algoritmo esatto con cui queste esperienze vengono elaborate dal cervello e come questa traccia d’essere, di spirito inizi a dipingere il suo mosaico chiamato identità. Ogni secondo, questo mosaico sta cambiando, sta indossando nuovi abiti e prendendo nuove svolte, sta prendendo scelte che rompono e rinnovano oppure restano in accordo con se stesse. Senza un suono reale, in una danza di luci fatta di piccoli input elettrici tra i neuroni, in un processo energetico che riordina tutto sotto la pelle, questo spirito, questa traccia, questo Self è la linea di continuità che principalmente fa i conti con “ciò che è da donne” e ”ciò che non è da uomini”. I tabù che abbiamo assimilato e i modelli su cui navighiamo la nostra quotidianità culturale sono dei manifesti introiettati dentro la nostra coscienza per poter compiere il più banale ma comunque

poetessa palestinese ed attivista per i diritti del popolo palestinese. (Citazione ripresa dal dibattito con il pubblico durante una lettura di sue poesie per la rassegna Femminile Palestinese, 2019)

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complesso degli atti dell’essere umano che gli permette di vivere nella società: comunicare Sè stesso. La persona si trova tra i suoi simili, gli viene assegnato un copione che si costruisce nel tempo per poter impersonare un ruolo nella società. Il copione però non è tutto già scritto, deve essere il Self a comprendere come comporlo, ricercando tutt’attorno le forme che più si addicono alla parte che ci si aspetta che interpreti. Nella nostra società infiniti sono i simboli che danno al genere una forma definita dei comportamenti da assumere, situazione per situazione. Le pubblicità ambientate in situazioni domestiche danno una chiara definizione dei prototipi di famiglia: un uomo, spesso più alto e in veste lavorativa a essere perno centrale della vita produttiva e la donna, che con le maniche rimboccate ma con un aspetto delicato ed impeccabile ha curato il vestiario dei pargoli, il nutrimento e la casa. Il rapporto genitore-figlio è il primo modello in cui si assorbono i ruoli di genere in quanto la famiglia è primo agente di socializzazione (Goffman, 1979). Fin dall’individuazione del genere del pargolo, per scelta dei genitori, si farà in modo che il soggetto capisca quali sono i propri futuri ruoli: se un padre e una madre (ragionando sempre sulla base di famiglia eterosessista standard) ritengono giusto il modello familiare con cui stanno educando e crescendo due esseri umani, perché non fare in modo che in quest’ultimi le medesime strutture di ruolo non si conservino? Il modello di nucleo familiare così tende a conservarsi (Ruspini, 2009). Ma non è questa l’unica agency che continua a a fare riferimento ad un modello non di rottura di umano e di

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famiglia in conforme con un genere: l’altro agente fondamentale sono i media. “I linguaggi densi di di significati utilizzati dai media costituiscono universi simbolici che contribuiscono a formare soggetti, sia dal punto di vista della trasmissione del sapere (attraverso processi di autoformazione) che della costruzione dell’identità di genere. I media, dunque possono rappresentare l’ambito dove è possibile sperimentare vissuti, desideri e immagini lontani dalle pratiche ed esperienze quotidiane, sottoposte a tempi di trasformazione più lenti e vincoli sociali più resistenti. […] I modelli di genere proposti dai media non hanno, infatti, un reale valore normativo perché sottoposti continuamente a confronti, ridefinizioni, resistenze, rifiuti nelle pratiche quotidiane di ricezione e di interiorizzazione da parte dei fruitori: i significati mediali, in altre parole, sono costantemente filtrati e negoziati dai vissuti culturali, personali e collettivi.” (ibid.) Siamo a casa, davanti alla tv e immagini scorrono nei programmi, nelle serie, immagini che i nostri occhi assorbono, significati da suoni e parole. Per strada cartelloni pubblicitari mostrano corpi e definiscono strutture a cui noi crediamo di non far caso ma il processo di osservazione/assorbimento non si ferma mai. I social media come Facebook, Instagram, Flickr, Pinterest e Tumblr sono piattaforme nelle quali i linguaggi video e i linguaggi statici delle immagini rappresentative e pubblicitarie si condensano in un unico flusso ed in un

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unico movimento di scorrimento continuo in cui il nostro occhio e di conseguenza il nostro cervello si abituano ad una velocità che fa sì che poche strutture restino nell’attenzione e che i significati profondi spesso vengano persi. Le dita scorrono, scorrono scorrono. Le immagini volano ad una velocità assurda, alcune vengono fermate altre passano inosservate. Crediamo che quei corpi, quelle prospettive, quelle linee di fuga non abbiano alcuna influenza su di noi, ma in realtà stiamo assorbendo schemi. Il nostro occhio sta riconoscendo ed elaborando segni visivi che prima o poi riutilizzerà. Il nostro cervello sta immagazzinando informazioni su come si utilizza il corpo per mandare messaggi, spesso senza sapere esattamente quale messaggio stiamo mandando. Potremmo perderci nel fare esempi di come la tv generalista o la produzione cinematografica del filone mainstream abbiano trovato e dato comfort alle simbologie eteropatriarcali riguardo la femminilità e la mascolinità. Queste due categorie, sono andate modificandosi, dando più emancipazione riguardo il corpo ad una e più possibilità di entrare a contatto con altre categorie di sensibilità e fragilità all’altra, fino a lasciare andare le redini alla fluidità solo nei tempi recenti, con pubblicità che mostrano famiglie non binarie, giocattoli non eterosessualizzati e personaggi non caratterizzati narrativamente per il loro non-binario posizionamento di genere: ma siamo solo all’inizio del percorso. Accendete la tv restando al massimo per tre minuti su ogni canale e poi dannotate come sono vestite e cosa dicono le donne, cosa fanno gli uomini, che posto oc

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cupano nella narrazione i personaggi omosessuali, o transessuali, o transgender, che posto occupano nella narrazione, come viene rappresentata la loro situazione se non in modo evidentemente deviante rispetto allo standard sociale, tanto da necessitare un ruolo particolare, la loro condizione, all’interno della storia. Questo tipo di processo di decodifica semiotica sui messaggi e i linguaggi trasmessi dai media della cultura dominante è quello che secondo Stuart Hall2 poteva permetterci di comprendere le influenze che il potere aveva su di noi bombardandoci di significazioni laddove la nostra immaginazione era più fragile. Il risultato di questo esperimento, se compiuto facendo riferimento a programmi del 1970, poi del 1990, poi del 2005, poi del 2010, darebbe risultati straordinari agli occhi di tutti perché “uomo e donna” evolvono insieme alla storia e alla società. “Il rapporto tra sesso e genere è anche storico e dinamico. L’essere donna e l’essere uomo sono il prodotto di un processo storico che ha attraversato le diverse culture e società, all’interno delle quali sono stati diversamente definiti il maschile e il femminile, creando specifiche identità collettive e individuali. Il sesso biologico è dunque rappresentato e incanalato verso ruoli differenti secondo modalità culturalmente variabili: di pari passo con l’evolversi dei costumi, degli stili di vita e- più in generale- della complessa relazione tra eco-

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cfr. Introduzione

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nomia e società, alcune prerogative che contraddistinguono il genere maschile e femminile e femminile sono andate incontro a numerose variazioni e altrettante ne subiranno in futuro. Anche le relazioni di genereche si riferiscono alle relazioni sociali tra donne e uomini e che riassumono le loro posizioni relative nella divisione di risorse e responsabilità, benefici e diritti, poteri e privilegi- cambiano costantemente, così come variano tra culture le norme sociali che regolano e approvano i comportamenti individuali. Maschilità e femminilità costituiscono collezioni di significati in continuo mutamento che noi costruiamo attraverso le relazioni con noi stessi, l’uno nei confronti dell’altro e con il mondo in cui siamo immersi “(Kimmel, 2002 in Ruspini, 2009 ) “La storia è creazione di valori e significati a opera di una pratica significante che richiede l’assoggettamento del corpo” (Foucault 1971, in Butler, 1999)

Stereotipi e modi di vedere A questo proposito Ruspini propone il confronto tra stereotipi di genere, cioè immagini e rappresentazioni comuni e ipersemplificate della realtà che influenzano il pensiero collettivo riempiendo di specifici contenuti le convinzioni e le idee di un determinato gruppo sociale rispetto a uomini e donne e ai rapporti tra di essi, tra gli anni sessanta e gli anni novanta.

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(ivi. pp.69-70)


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Questa analisi divide nettamente il mondo in due parti e codifica nettamente i ruoli; fa sì che il Self, in base al suo documento biologico comprenda in che campo semantico collocarsi assumendo comportamenti conformi a ciò che il senso comune propone del genere. John Berger nel secondo episodio del suo saggio/documentario Ways Of Seeing, mandato in onda dal canale BBC Two in Inghilterra nel 1972, espone come la cultura pittorica e visiva occidentale suddivida il mondo in due categorie perfettamente assimilabili con le due categorie del genere: donna/oggetto dello sguardo e uomo/spettatore . Questo particolare studio ha influenzato parecchio il movimento femminista nel decodificare lo “sguardo maschile” all’interno di quelli che poi verranno ritenuti i parametri visivi ed estetici del patriarcato. Così in modo approfondito e capillare Laura Mulvey nel 1975 pubblica Visual Pleasure and Narrative Cinema per decostruire la cinematografia hollywoodiana partendo dalle teorie psicoanalitiche di Lacan e Freud per incrociarle con le teorie femministe esponendo il concetto di male gaze, cioè la posizione dello spettatore rispetto ai desideri del personaggio e alle emozioni legate alla narrazione che sono sempre inserite in un contesto maschile3. Per Berger, nella cultura occidentale la donna è sempre stata rappresentata come qualcosa di bello da guardare, qualcosa da desiderare; inoltre afferma che

3cfr.

Cinema e piacere visivo, Laura Mulvey, Bulzoni Ed., Roma 2013

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“le donne sono abituate fin dall’infanzia a curare la loro estetica e fare attenzione a ciò che gli uomini e le persone attorno vedono” (Berger, 1972). Per capire come si costruisce culturalmente il modo di vedere la donna, bisogna risalire al dipinto ad olio rinascimentale, in particolare al dipinto di nudo. Nudo non è senza vestiti. Nudo è l’individuo quando è senza vestiti ma guardato da qualcuno; quando, di conseguenza, sta facendo travestimento della sua postura, della sua stessa pelle, dei suoi gesti, delle sue espressioni. Nudo è esibizione pensata di sé stessi, fino a non essere più sé stessi ma solo ciò che si esibisce e si rappresenta. Nel dipinto di nudo rinascimentale, le donne significano qualcosa per generare determinate sensazioni in chi le guarda, avendo come solo obiettivo l’occhio dello spettatore. Ciò che viene generato è desiderio, in quanto nella rappresentazione, i soggetti femminili sono senza veli, in pose e sguardi languidi, con pelli candide e delicate, lì ad attendere di essere possedute da chi guarda, riproponendo l’ormai atavico paradigma di passività che si contrappone a quello di attività ed azione dell’uomo. La generazione del desiderio deve portare lo spettatore a voler possedere il quadro: questo stesso tipo di processo viene applicato all’utilizzo che si fa della figura femminile nella pubblicità (ibid.). Portandolo al mondo della Rete, l’utilizzo del proprio corpo come metodo di generazione del desiderio per possedere un artefatto visivo può essere riferito anche a fenomeni come

, sito internet su cui giovani

modelli e modelle vendono foto di sé stesse e del pro

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prio corpo: il commercio di queste foto è differenziato da fasce di prezzo che corrispondono a diversi pattern estetici, di nudità e di erotismo; la commissione può essere anche personale e i contenuti possono anche essere video con contenuti esplicitamente pornografici, rendendo i clienti simili ai “mecenati” rinascimentali che commissionavano su richiesta quadri erotici o di nudo. Alla base di queste sensazioni di possesso e desiderio erotico, vi è quindi uno sguardo culturalmente eterosessualizzato, che crea canoni e schemi di ciò che è piacevole e desiderabile. Albrecht Dürer, pittore rinascimentale, utilizzava pezzi di corpi diversi per costruire il corpo ideale (ibid.); allo stesso modo oggi, le persone si basano su corpi ideali per iniziare diete, sottoporsi a stress fisici ed allenamenti durissimi e chirurgie plastiche per poter far rientrare la propria immagine negli standard che la propria cultura di riferimento ritiene piacevoli e desiderabili. Il piacere e il desiderio sono sentimenti riconducibili all’ambito sessuale e sono quindi alla base del rapporto estetico che si instaura tra uomo e donna, ma questo rapporto estetico è principalmente negli occhi di chi osserva: se ogni volta che osserviamo il nostro corpo, che componiamo la nostra estetica, diciamo di volerci piacere, dobbiamo sapere che spesso piacciamo a noi stessi facendo vestire ai nostri occhi i panni di chi sappiamo ci guarderà e proverà piacere nel guardarci, di chi ci desidererà. Ecco che diventiamo attori e spettato

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ri per noi stessi. Ecco che nello specchio vediamo un prodotto culturale e che di fronte allo specchio cerchiamo di fare una gestione (preventiva) della nostra impressione su chi ci guarderà (Goffman, 1959), fingendo di esser noi dei giudici culturali. Lo sguardo eterosessualizzato alla bellezza che conforma i canoni del piacere eterosessista sembra coerente con ciò che abbiamo esposto nel Capitolo II Parte Prima, nel quale richiamavamo all’accoppiamento eterosessuale tra maschio e femmina ai di fini della conservazione della cultura dominante basata sulla famiglia tradizionale. Goffman (1979) cita Darwin dicendo che l’esibizione comportamentale del genere è alla base dell’interazionismo sociale in quanto alla base dell’interazione tra gli animali vi è la necessità di accoppiarsi. Questo porterebbe gli individui a gestire in modo differente il loro comportamento sociale, la loro rappresentazione e gestione situazionale in base al genere, riproducendo modelli e copioni maturati dall’insegnamento familiare o dai reperti culturali che mostrano il “corretto funzionamento situazionale”. Il genere quindi diviene ancor più qualcosa di relazionato alla connotazione estetica e comportamentale dell’individuo, qualcosa di performativo. È il primo “biglietto da visita”, la prima informazione utile all’attore sociale per scegliere a quale database comportamentale fare riferimento nel momento in cui inizia a interattuare. È la prima cosa che si nota, la prima cosa che all’occhio rende possibile una categorizzazione, semplicemente.

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Pose, nudo, estetica, gestualità sembrano quindi rimandare al corpo come soggetto della significazione di genere e come oggetto primario dell’iscrizione culturale, come materia prediscorsiva sul quale viene scritto “sesso” e poi viene fatto dire “genere”. Sul corpo viene fatto un discorso in quanto vi viene applicata prima di tutto una definizione che si riferisce alla sua funzione biologico riproduttiva. Questa divisione scientifica (già in effetti culturale in quanto scelta come categoria divisoria di base esperibile) è quella iniziale sul quale poi si richiamano le più variegate differenziazioni di genere. Se la funzione riproduttiva è quindi alla base della categorizzazione dei corpi, vale sì dire che l’approccio psicologico che si farà di fronte ad un corpo esposto per creare sensazione di piacere e desiderio sarà di base un approccio eterosessualizzato. Tutta l’estetica costruita sulle forme del corpo, sulle posizioni assunte nelle foto pubblicitarie, sull’attrezzatura vestiaria e sui colori, sarà qualcosa che deve ricondurre l’osservatore al piacere visuale, al voler possedere la carne ed a voler vivere l’esperienza estetica che si accompagna a tutto ciò che viene rappresentato. Così i media creano “vissuti e immaginari” che penetrano nella costruzione che gli individui fanno di loro stessi nel momento in cui cercano di capire come approcciarsi alla sessualità e al desiderio che vogliono provare o generare. Questo accade soprattutto nella fascia d’età dei teenager. In quel momento della vita si sperimentano la maggior parte dei riti di passaggio che definiscono l’identità e spesso la costruzione del genere è influenzata in gran parte dalla cultura mediale con

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cui essi si trovano a negoziare e che circola in un continuo scambio e diffusione di artefatti, messaggi e simboli tra i coetanei. La costruzione corporea ed estetica dell’individuo legato al genere è chiamata antropopoiesi, in particolare andropoiesi per gli uomini e ginecopoiesi per le donne. Processi che, attraverso una serie di atti rituali o una costante e continua educazione, portano non solo gli individui a diventare davvero “umani”, ma anche a definire in modo chiaro e socialmente necessario le differenze di genere. (Aime, 2014). “L’idea che la cultura Occidentale sia generalmente ‘sessualizzata’, o che contenuti sessuali più espliciti siano continuamente resi ’mainstream’ attraverso processi come la normalizzazione dell’immagine pornografica nei discorsi mediali quotidiani è stata ampiamente discussa da molti autori. La ‘sessualizzazione’ della cultura fa riferimento ad un ben più ampio range di fenomeni mentre la ‘pornificazione’ è un più specifico punto d’arrivo dell’aumentata visibilità ottenuta dalle pornografie hard- e softcore che hanno assottigliato i confini con la cultura mainstream. La ricerca femminista sull’emergere del ‘porno-chic’ come parte della contemporanea ‘mascherata postfemminista’, e la ‘ipersessualizzazione’ delle donne e delle ragazze giovani nei media e nelle pubblicità sta incrementando, così come la ricerca parallela di come le ragazze ‘navigano e negoziano’ questi trend” (Ringrose, 2011) Osserviamo vari reperti presi da vari media di massa e ripercorriamo brevemente l’utilizzo che si fa del cor

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po per costruire una estetica del genere che possa venire riprodotta. Gli uomini, ad esempio, scrivono il proprio corpo sulla base del mito della virilità, della dimostrazione di quell’aggressione attiva che può permettergli di prendere e possedere il corpo e la sessualità femminile che lo attende nel suo ruolo. (ibid.). L’illusione dell’essere dalla loro natura biologica destinati alla conquista del mondo terreno e al suo controllo, associa all’uomo il concetto di potere materiale, che nella simbologia della nostra cultura è associata al lavoro, al possesso di oggetti, all’ostentazione di potenza e virilità in quanto azione.

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Nell Gwynne, Lely 1618-1680

Catalogo 1980 del brand di intimo Victoria’s Secret (fonte: vintagenewsdaily.com)

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La presentatrice Barbara D’Urso nel suo programma Pomeriggio 5, in onda su Canale 5 (fonte: skupmagazine.it)

Riae, fashion blogger che vende le sue foto di intimo e nudo su patreon.com e si pubblicizza tramite Instagram. (fonte: Instagram, @riae_ )

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@crifabrizi, studentessa universitaria (fonte: Instagram, @crifabrizi)

Luigi XIII, Re di Francia ritratto da Philippe de Champaigne, 1655

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Gerard Butler in un advertising per il brand di profumi da uomo Hugo Boss (fonte: gerardbutlergals.com )

Cristiano Ronaldo in un advertising per lo studio pubblicitario Studio Marcucci (fonte: @studiomarcucci )

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@michelebarbato, studente universitario (fonte: @michelebarbato )

Carlo I di Portogallo di JosĂŠ Malhoa, 1891

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Cultura e performance Evolve lo sguardo insieme alla cultura. Berger punta l’attenzione sul fatto che dal dipinto ad olio del rinascimento fino alla pubblicità novecentesca, evolva il modo di concepire la psicologia del soggetto femminile nell’opera: da uno sguardo languido, che attrae e mostra passività, che attende azione da parte dell’osservatore, si passa ad uno sguardo sempre più consapevole, che arriva oggi a quello provocante, quello della rivendicazione e della piena percezione del proprio corpo e delle proprie forme, riconoscimento del potere su sé stessi: oggi si cerca di fare un controllo totale sull’impressione. Il dibattito femminista si concentra molto sulla riappropriazione del corpo oltre i dettami dello sguardo maschilizzato e del potere patriarcale di imprimere vergogna nella nuda esibizione della carne, dei concetti di pudore e buoncostume di stampo tradizionale e cattolico. L’iperestetizzazione del corpo nudo, il suo utilizzo spasmodico e la ricerca da parte degli spettatori di un adattamento agli schemi visivi di “sedere tondo, addominali scolpiti, pelle abbronzata, zigomi marcati, spalle grosse, seno prosperoso” quanto hanno di realmente conflittuale con la polarizzazione eterosessista dei corpi stereotipati costruiti dalla cultura dominante di stampo patriarcale? Se l’uso del proprio corpo in modo libero e disinibito, che nella nostra cultura contemporanea in cui siamo immersi in mari in tempesta di immagini (in movimento e non), si tramuta nell’esposi

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zione tramite media visivi delle forme corporee perfette che fanno da perno per veicolare messaggi estetici di tutti i tipi (dalla presentazione di un talk show alla publicizzazione di una marca di mutande da uomo), allora quanto questo uso riesce effettivamente a creare rottura nella stilizzazione di genere del corpo maschile e femminile? Se il corpo veicola un messaggio, in che modo utilizzarlo per creare una performance che vada a creare conflitto con le forme di esposizione eterosessualizzate della cultura dominante patriarcale? A questa domanda sembra rispondere l’utilizzo del corpo che fa il genere drag che nel prossimo capitolo esporremo insieme al fenomeno del Gender Swapping nella Computer Mediated Communication. “…il genere è l’operare del sesso, laddove sesso è un’ingiunzione obbligatoria rivolta al corpo a diventare un segno culturale, a materializzare se stesso obbedendo a una possibilità storicamente delimitata e a farlo, non una o due volte, ma in un progetto accettato e ripetuto dal corpo.” (Butler, 1999) Gli atti del genere, ripetuti e ritualizzati, resi artefatto culturale che veicola simboli attraverso i media di massa e i social media, che sedimenta stili corporei e forme da vedere e del vedere che permeano e si lasciano permeare dal significare il concetto di “sesso naturale” o di “uomo vero” (ibid.). Viene deificata (oltre che essere semplicemente reificata) la forma corporea tanto da essere passe-partout necessario per il ricono

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scimento del proprio genere e della propria bellezza all’interno dei canali di diffusione d’immagine. (Che cosa comunicano gli stereotipi visivi di bellezza nella musica pop o nei reality show, ad esempio come Temptation Island o il Grande Fratello? Cosa riferiscono riguardo ai ruoli di genere i loro stili di comunicazione?) “Questa ripetizione è allo stesso tempo un riattare e un rifare esperienza di una serie di significati già istituiti socialmente; è la forma corrente e riutilizzata della loro legittimazione. Per quanto ci siano corpi individuali che attuano queste significazioni divenendo stilizzati secondo modalità di genere, questa ‘azione’ è un’ azione pubblica. Sono azioni che hanno una dimensione temporale e collettiva, e il loro carattere pubblico non è irrilevante; in effetti la performance è realizzata allo scopo strategico di mantenere il genere all’interno di questa cornice binaria, uno scopo che non può essere attribuito ad un soggetto, ma che, anzi, va inteso come ciò che fonda e consolida il soggetto.” (ivi.) Il genere quindi si rivela essere riproduzione di atti assimilati da icone di riferimento, che spesso nell’età della formazione dell’individuo divengono le celebrità o le immagini che la cultura produce attraverso i media. Nell’era moderna dei social media, dove tutti possono avere un audience sufficiente ad accedere allo status di celebrità attraverso accorgimenti comunicativi e stilistici, quantomai la perfomatività e la ripetizione stilizzata degli atti che caratterizzano il genere, diventano

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necessari per strutturare in modo definito e riconoscibile la propria identità.

(fonte:https://wearesocial.com/it/blog/2019/01/digital-in-2019) Instagram è un social network che predilige l’uso delle immagini e conta nel 2019 più di mezzo milione di utenti4. Quelli che appunto vengono scrollati durante il giorno sono artefatti visivi spesso attentamente studiati nella loro forma, che espongono in larga parte i corpi. Come possiamo vedere in alto, i profili più seguiti sono quelli di celebrità dello sport, della musica e del cinema, persone le cui immagini sono presenti su svariate piattaforme mediali. Se il loro seguito li rende idoli e icone, allora la loro estetica diventa modello, il loro corpo diviene tendenza da seguire e tendenza seguita per poter restare sull’onda della stessa: il corpo 4fonte:

(https://blog.hootsuite.com/instagram-demographics/)

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diviene veicolo potentissimo per lanciare altri messaggi riguardo lo stile di vita, il successo ed altre caratteristiche della persona. Ancora una volta il corpo5 è il nodo fisico di una serie di significazioni che in modo centrifugo e spesso incontrollabile veicola una serie di contenuti ed immaginari. Gli attributi di genere non sono pertanto espressione di un soggetto, quantopiù performance costruttiva di esso. Ci troviamo infine a poter collegare il genere al concetto di comunicazione: il genere attua performance perlopiù corporee per poter interagire e veicolare messaggi e scambiare significazioni che generano esperienza e memoria, che diventano poi identità. Emerge la questione che affronteremo nel prossimo capitolo, che si occuperà della comunicazione del genere nel mondo online: quanto questa categoria influisce nell’uso dei social media dove il corpo è solo virtualmente presente e quanto la polarizzazione binaria di questo siano riscontrabili nella comunicazione online? È l’effetto naturale del genere o semplicemente la conseguenza di una trasposizione delle differenze di genere anche nel mondo telematico, dove in tempi non sospetti era stato promesso al Self la possibilità di sperimentare all’infinito i mosaici orizzonti dell’identità?

Nell’ultima parte del suo documentario, Berger intervista cinque donne di estrazione sociale differente e con il vestiario, il trucco, il lavoro fisico per scolpire i muscoli, le diete, gli oli per far risaltare la luce sulle forme, le chirurgie estetiche 5

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le sottopone alle sue teorie e al materiale da lui utilizzato per esporle. Vi riporto trascritte alcune delle dichiarazioni delle intervistate (assegno le lettere dell’alfabeto in base all’ordine con cui sono intervenute.) B: […] La fotografia e la pubblicità sono quelle che io ho per primo utilizzate per rapportarmi a me stessa. A: Effettivamente, ci stiamo sempre vestendo per una rappresentazione. Le donne sono abituate a vestire sempre per un ruolo da rappresentare: la madre, la donna lavoratrice, la ragazza pulita. La nudità è un’uniforme che dice: sono pronta per il piacere sessuale. (Berger, 1972)

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Parte II Capitolo Secondo — Identità telematiche di genere e Social Media

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La performance e il genere nella CMC. Il genere è una performance, qualcosa che si vede, si riconosce, che impatta i sensi. Durante i primi anni di diffusione di Internet tra le masse (fine anni ’80), quando la comunicazione era legata soltanto alla forma testuale su schermo, il clima di pensiero generale vedeva il mondo online come un luogo in cui sarebbero state possibili la democrazia e la parità di genere. Era promesso lo sviluppo di un ambiente comunicativo libero dalle differenze e dalle dominazioni di un genere sull’altro, di un ceto sociale sull’altro e di una provenienza culturale rispetto ad un’altra. La Computer Mediated Communication permetteva quindi una decontestualizzazione sociale che avrebbe portato le donne a creare processi di equalizzazione del genere sul piano comunicativo (Herring, 1993). Per Computer Mediated Communication (CMC) si intende una varietà di modalità socio-tecnologiche interattive incluse email, discussioni, web forum, chat, MUDs ( Multi- User Dimensions) e MOO (MUDs, Object Oriented), IM (Instant Messaging), text messaging (SMS), weblogs (blogs), e microblogs che prevedono la modalità testuale visibile su uno schermo (ibid.). La nozione di democrazia emerge proprio dalle caratteristiche della CMC, dove ogni soggetto può esprimersi districandosi dai ruoli e dalle differenze di gene-

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re che vengono applicati alla sua espressione nella vita offline. L’articolo della Herring (ibid.) riporta le regole che il filosofo tedesco Habermas riconosce analizzando la Cmc nel 1983:

1. Ogni soggetto con competenze per parlare ed agire è abilitato a prendere parte nella discussione. 2. A tutti è permesso fare qualunque osservazione, fare domande, introdurre argomentazioni, esprimere desideri, bisogni e capacità in merito. 3. A nessun partecipante può essere proibito, da forme di coercizione interne o esterne, di esercitare i suoi diritti come espresso in (1) e (2). Seguendo questa regolamentazione, il mezzo e il suo accesso si delineano come una via per sviluppare una democrazia paritaria tra tutti gli utenti. Stesso la caratteristica testuale della CMC sembra abbattere quindi le barriere razziali, socioculturali e soprattutto legate a quella che è la rappresentazione del genere che si ha nella comunicazione faccia a faccia (accento, apparenza estetica, voce, sesso) tramite quella che viene definita come la proprietà principale per poter riprogrammare la propria identità online e poter fruire della piena libertà sociale: l’anonimato. Nella comunicazione testuale il genere non dovrebbe essere quindi riscontrabile, ma, come vedremo, questa categoria riesce ad influenzare anche le modalità di approccio linguistico e le caratteristiche stesse del lin

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guaggio, che manifestano il modo di pensare e di socializzare degli individui. Una dimostrazione di questo tipo di fenomeno viene dalla ricerca che la Herring svolge nel 19936 analizzando 261 messaggi in due discussioni tra accademici (ambiente nei quali si è più diffuso l’utilizzo di forme di CMC durante gli anni 90 e nel quale si è riscontrata la prima vera partecipazione quasi numericamente egualitaria di donne). La ricerca ha cercato di riscontrare le forme di linguaggio comunemente associate alle donne e agli uomini e le differenze nella partecipazione. Nella prima discussione la percentuale di donne era il 36% e nella seconda il 42%. Le caratteristiche linguistiche per le donne erano le seguenti: affermazioni e rivendicazioni attenuate, scuse, giustificazioni esplicite, domande, opinioni personali, supporto per gli altri partecipanti, complimentandosi o esprimendo il loro allineamento con l’opinione altrui; inoltre spesso si trovano ad utilizzare un linguaggio più forte e oltraggiante in gruppi dominati da uomini. Per gli uomini erano: promozione di sé, affermazioni forti e decise, presupposizioni, domande retoriche, orientamento autoritario nel linguaggio, tono di sfida, umorismo e sarcasmo, la lunghezza dei messaggi è maggiore, hanno una tendenza ad aprire e chiudere le discussioni, a esporre il loro punto di vista come realtà fattuale e ad utilizzare insulti.

Herring S., GENDER AND DEMOCRACY IN COMPUTER-MEDIATED COMMUNICATION in EJC/ REC Vol. 3, No. 2, 1993

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Nei capitoli precedenti abbiamo analizzato come queste caratteristiche linguistiche derivino non in modo casuale dal percorso che l’individuo fa nella società attraverso la costruzione del suo genere. La ricerca mostra come l’assorbimento di questi schemi mentali sia riscontrabile e venga automaticamente messo in luce anche nella comunicazione in un ambiente che doveva abbattere teoricamente tali differenze, andando a confermare l’ipotesi femminista di dover individuare e combattere le differenze di genere all’interno della cultura patriarcale per poter davvero creare società libere e democratiche. Nelle due discussioni gli uomini e le donne hanno infatti mostrato di polarizzare il loro linguaggio sulle modalità sopracitate. “Il 68% dei messaggi prodotti dalle donne contiene una o più caratteristiche del linguaggio femminile, a confronto con il solo 31% di quelli prodotti dagli uomini. In contrasto, il 48% dei messaggi prodotti dagli uomini contiene solo caratteristiche del linguaggio maschile, comparato con il 18% dei messaggi delle donne. Appare interessante che mentre la maggioranza dei messaggi delle donne (46%) combina un mix di figure retoriche maschili e femminili, molti meno messaggi da parte degli uomini (14%) hanno mischiato queste caratteristiche. Questa rilevanza supporta l’osservazione che è più facile per gli uomini mantenere uno stile distinto (maschile, femminile o neutrale ) rispetto alle donne, che devono impiegare alcune forme del linguaggio maschile per essere prese seriamente

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come accademiche, e alcune forme femminili per non essere considerate troppo aggressive o poco accomodanti.” (ibid.) L’ultima affermazione ci porta ancora a credere che il linguaggio autoritario, severo, distaccato ed aggressivo sia qualcosa che venga inculcato nel modo di gestire il mondo del genere uomo fin dall’infanzia, in quanto la cultura educativa fin da quell’età incanala i due generi verso ruoli sociali ben definiti. Le donne vanno quindi a rompere codici comunicativi nel momento in cui cercano di imporre la propria opinione o attaccare gli altri partecipanti, mentre per gli uomini la cosa passa inosservata, dando adito a pensare che lo standard comunicativo si allinei con gli stereotipi comportamentali esposti nella Tabella del capitolo precedente. Herring, infatti, evidenzia come in queste discussioni le donne facessero più fatica a ricevere risposta, dovendo ricorrere a connotazioni linguistiche “non consone” al loro genere. Queste caratteristiche hanno causato reazioni da parte dei partecipanti (tutti uomini) che hanno minacciato l’abbandono della discussione, il sabotaggio della stessa o il richiamo delle partecipanti ritenute eccessivamente aggressive da parte dei moderatori. Anche la CMC mostra quindi chiare strutture di potere e gerarchie che pongono il genere donna al di sotto del genere uomo: l’attenzione data al genere femminile rispetto alla partecipazione alle discussioni è

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minore, situazione vista come standard; una volta che aumenta il rating di post e l’insistenza nel chiedere risposte, quindi di porsi alla pari, il tono della discussione viene percepito come violento dai partecipanti di genere maschile. Qui si mostra che le donne sono ritenute in generale più dolci e remissive nella comunicazione e nella presa di posizione: diventando “simili” agli uomini sembrano voler essere aggressive, destando irritazione e fastidio.

“Le donne sono consone a prendere offese e battute da parte degli uomini che questi ultimi vedono come convenzionali strutture della conversazione” (Coates, 1986 in Herring, 1993).

Bruckman (1993) ha intervistato i partecipanti di un MOO e ha scoperto che molte donne utilizzavano pseudonimi che non potessero ricondurre al loro genere per evitare attenzioni sessuali o vari tipi di violenze tra cui quelle sopracitate (Herring, 2013). La ricerca della Bruckman sul fenomeno dello gender swapping all’interno dei MUD e dei MOO ha dimostrato che i comportamenti legati al genere si manifestano maggiormente qualora il genere di un partecipante viene reso esplicito ad un altro partecipante. I MUD sono piattaforme di gioco text-base nelle quali i personaggi creano degli alter ego con cui interagire con altri personag

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gi all’interno dei dungeon. Compiono missioni, avanzano di livello, ottengono premi. Moltissimi giocatori spesso impersonano vari personaggi di genere differente per poter sperimentare differenti sfaccettature dell’identità online. Una donna arrivò ad avere tre diversi personaggi, uno di quelli era un uomo, un’altro era una donna dalle fattezze molto attraenti e sensuali, completamente diverse da quelle di cui lei era in possesso nella realtà offline (Bruckman, 1998). Risulta che i personaggi femminili vengono spesso bersagliati da avance e attenzioni, offerte di avanzamento di livello o varie dritte sul gioco, nonché con pagamenti in moneta del gioco, in cambio anche di richieste di baci o di passare alla comunicazione privata, se non di iniziare ad interagire fuori dal gioco. Questo ha spinto molte giocatrici a creare personaggi di sesso maschile per essere “prese sul serio” o evitare questo tipo di approcci ed ha spinto molti giocatori a creare personaggi donne (spesso con atteggiamenti promiscui e linguaggi spinti) per attirare questo tipo di attenzioni e ricevere vantaggi durante il gioco. Quest’ultima scoperta però mi porta a due considerazioni: la prima è che la rappresentazione che gli uomini fanno delle donne tende a sessualizzare il loro ruolo all’interno del gioco e la loro interazione con altri personaggi e questo porta alla seconda considerazione, cioè che a lungo andare, come conferma anche la Her-

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ring in un altro studio del 19987, la performance di un genere che ne impersona un’altro può venir svelata: le caratteristiche del genere che è realmente calcificato nell’ identità rispetto a quello che si può fingere online sono perfettamente riconoscibili nel tempo nella maggior parte dei casi. La questione interessante nel lavoro della Bruckman, che rende ancora attuale una ricerca su un videogioco completamente testuale, è che proprio l’impronta text-base che assume il genere nella realtà virtuale descritta, porta a proiettare tutti i valori e le significazioni che gli individui hanno nella loro mente sul concetto di uomo/donna e sulla relazione tra essi semplicemente facendo riferimento ad una sigla, un codice o delle descrizioni testuali che appaiono su uno schermo, facendoci riflettere su quanto siano effettivamente costruiti su framework e immaginari i nostri modi di relazionarci al genere. Quest’ultimo si rivela sempre di più essere qualcosa di fondamentale nell’interazione umana, portandoci a pensare che sia assurdo che qualcuno non lo abbia. Spesso risulta difficile osservare come questa categoria impatti nel nostro agire quotidiano e per questo ricerche di questo tipo ci aiutano a notare come l’assenza,

Herring, Susan C. 1998. “Virtual Gender Performances.” Talk presented at Texas A&M University, September 25. 7

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l’ambiguità o la finzione di un genere ne mettano in luce le caratteristiche comportamentali, esse, inoltre, ci informano sull’importanza dell’ormai relativamente antica promessa di Internet di poterci immergere in un infinito laboratorio di ricerca e riprogrammazione della nostra identità, completamente slegato dalla nostra esperienza personale e culturale offline, in un agire anonimo e non filtrato dalle differenze di genere. Il gender sembra poter essere quindi recitato. La ricerca sui MUD rivela che è possibile saltare da un genere all’altro, non avendo le catene del corpo sul quale la cultura ha iscritto le etichette performative del genere. Si possono “vestire altri panni” e ottenere vantaggi e svantaggi degli ambienti di riferimento nei quali ci si trova a compiere la recita. Offline, le persone di sesso maschile che indossano abiti e trucco da donna per esibirsi in spettacoli artistici e viceversa vengono definiti drag. Chi impersona nella vita di tutti i giorni un genere differente da quello convenzionalmente assegnato al proprio corpo viene definito crossdresser. (Ruspini, 2009) Interpretare un genere è una forma di rappresentazione che spesso serve a liberarsi dai dettami comportamentali che vengono imposti al corpo e alla persona, nonché degli schemi di potere che sono alla base delle relazioni reciproche, sperimentando online le dimensioni della personalità

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fino a quel momento represse o nascoste nella vita quotidiana (Turkle 1995 in Rotisciani 2015 a cura di Diana Salzano): “nelle sue forme più complesse, [il drag] è una doppia inversione che dice “l’apparenza è un’illusione”. Il drag dice [personificazione fatta da Newton] “il mio aspetto ‘esteriore’ è al femminile, ma la mia essenza ‘interiore’ [il corpo] è al maschile” Allo stesso tempo è simbolo dell’inversione opposta: “il mio aspetto ‘esteriore’ [il mio corpo, il mio genere] è al maschile, ma la mia essenza ‘interiore’ [il mio sé] è al femminile.” (E. Newton, 1972 in Butler 1999) “La performance del drag gioca sulla distinzione tra l’anatomia di chi compie la performance e il genere oggetto della performance. Ma in realtà siamo in presenza di tre dimensioni contingenti di corporeità significativa: il sesso anatomico, l’identità di genere e la performance di genere. Se l’anatomia di chi compie la performance è già distinta dal suo genere ed entrambi sono distinti dal genere della performance, allora la performance indica una dissonanza non solo tra il sesso e la performance. Il drag, così come crea un’immagine unificata della “donna” (cosa che viene spesso contestata), rivela anche la istintività di quegli aspetti dell’esperienza connotata dal punto di vista del genere che vengono falsamente naturalizzati come un’unità attra

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verso la finzione regolativa della coerenza eterosessuale. Nell’imitare il genere, il drag rivela implicitamente la struttura imitativa del genere stesso, nonché la sua contingenza.” (Butler 1999) La provocatoria analisi che Butler fa della performance drag ci aiuta a dare un ulteriore ruolo fondamentale alla marcatura visiva nel costruire le identità dei soggetti online, avvicinandoli sempre più ad una presentazione coerente e riconoscibile del self in conformità quindi con le marcature designate per il genere. Herring e Stoerger (2013) elencano una serie di studi che dimostrano come dall’età dei teenager fino a quella adulta gli stili discorsivi di genere si mantengano simili e polarizzati soprattutto in ambito più privato, in piccoli gruppi di chat o in blog, anche se con l’ equalizzazione dell’accesso di uomini e donne ad Internet ed alle professioni ad esso correlate agli inizi del 2000, il ricorso a questi stili discorsivi è in percentuale più basso e meno riscontrabile. Ciò accade ancora di più tra i teenager che hanno vissuto una domestication dei mezzi di comunicazione via Internet durante il periodo della socializzazione con il loro gruppo dei pari e con la società in larga scala, diventando per loro, il Social Media, media prediletto per la comunicazione interpersonale e per la comunicazione del sé, oltre che per l’esplorazione dello stesso. Durante l’adolescenza, il soggetto acquisisce la capacità di pensare in termini ipotetico-deduttivi e si confronta con la vasta gamma

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dei sé possibili. Gli altri giocano un ruolo fondamentale nella definizione e nella successiva esplorazione delle identificazioni possibili (Rotisciani, 2015), facendo dei social network il mezzo più utile a superare spazi, tempi e barriere culturali e linguistiche nel confronto con storie e vissuti differenti.

Interazione di genere attraverso i social media. Il processo globale di digitalizzazione ha superato esattamente la metà della popolazione mondiale: il sito pubblica il report sull’utilizzo globale e in seguito paese per paese della rete compilato da che trasmette il dato del 57% della popolazione mondiale attiva su internet nel 2019, con il 42% su social media da dispositivo mobile. L’uso dei social media come Facebook, addirittura registra un numero di accessi pari a più di 2 miliardi.

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Combinando l’audience di Facebook (piattaforma e Messenger) e di Instagram, i dati riportano i maggiori picchi d’uso tra gli uomini della fascia d’età tra i diciotto e i trentaquattro anni, con un audience femminile lievemente più bassa.

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Tra i due generi non cambia solo la quantità d’uso, ma anche la qualità. Essi si assestano su modalità d’uso sensibilmente differenti che dipendono anche dalle affordance8 delle varie piattaforme. Le affordance influenzano l’uso, così come le diverse stanze di una casa influenzano il tempo che vi si passa all’interno e quali componenti della famiglia vi interagiscono, in base ai loro orari, bisogni ed interessi. I social network incoraggiano, attraverso la loro struttura, un tipo di uso rispetto ad un altro.

La piattaforma di Facebook, ad esempio, permette un uso a trecentosessanta gradi dell’esperienza di condivisione di elementi multimediali con le persone, come possiamo vedere nell’immagine qui sopra.

Nel 1979 lo psicologo James Gibson definisce affordance come la “gamma di azioni permesse da un determinato oggetto. Applicata in seguito alla tecnologia ed ai social media, definisce un insieme correlato e interoperativo di meccanismi e funzioni possibili e richieste dalla piattaforma (Davis and Chouinard 2017 in Hanckel, vv.aa. 2019) 8

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I dati9 sopra riportati ci aiutano ad osservare come le pratiche di incorporazione di internet nella vita quotidiana siano diventate più mirate e consapevoli. Il soggetto (a differenza dell’entusiasmo esplorativo e dissociativo dei tempi del CMC) si pone ora l’obbiettivo di preservare una sua riconoscibilità online, rivendicando sempre più spesso il carattere della parola data che rappresenta il mantenimento di una promessa, la stabilità etica e responsabile di un sé che esiste nello spazio e nel tempo delle relazioni (Ricoeur, 1990 in Salzano 2015). Le molteplici connessioni sociali della Rete aumentano il carattere fluido dell’identità (Pacharissi, 2011 in Salzano 2015): la sopravvivenza dell’identità online e la sua possibilità di convivere in queste molteplici spinte sociali fa sì che sia frutto di una operazione strategica di adattamento sociale: la persona filtra e rappresenta cioè gli aspetti del sé che più si conformano a 9

Fonte foto statistiche:

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criteri di desiderabilità. L’operazione appena citata si chiama optimized self-presentation. È proprio nell’atto pensato di scrivere, fotografare, pubblicare, condividere, trasformare in simboli le varie parti del sé che l’identità diventa qualcosa che possiamo manipolare: nella continua autoriflessione biografica la persona si accorge della possibilità di oggettivizzare la propria identità e di poter giocare con la sua esposizione attraverso gli strumenti forniti dai social media. Una volta che vita online e vita offline cercano di essere l’una specchio dell’altra, di essere momenti e modi diversi di dare senso ad una stessa esistenza, o addirittura di essere la prima significazione della seconda che ne diventa solo performance dimostrativa, allora si arriva a cercare gruppi di riferimento o modelli che permettano di avere una “via da seguire”(e se ne possono avere molteplici). Con le sperimentazioni della rete viene a confermarsi il concetto di identità-puzzle Baumaniano: l’identità si struttura attraverso spinte esterne dovute al tentativo di incastro sia con la situazione corrente di volta in volta vissuta sia col “desiderio d’essere” o, in un ambiente freddo e mediato come la rete, in cui non si tocca carne o calore, col “desiderio di sembrare”. Il Self trova la possibilità di vivere e costruirsi dei simboli dell’idolo scelto (che esso sia rappresentato da una singola persona socialmente accettata e desiderata o che quest’idolo sia una collettività) trova nella rete e nei processi di reciproca conferma (like, commenti positivi, condivisioni) il suo banco d’esame per l’identità performata: il mondo diventa icona e la capacità di

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rappresentare l’icona diventa sacra, sacralizzando l’icona stessa10. E se l’icona è qualcosa che entra in contatto con i nostri sensi attraverso la vista, allora ciò che va ad interessare questa parte del processo di identizzazione online è proprio la rappresentazione visiva del sé che i social permettono. Tra gli adolescenti l’uso dei social media si costruisce principalmente sull’aspetto visuale e le affordance visuali sono quelle da loro preferite, quelle che sembrano dare adito ad un tipo di sperimentazione del sé che più facilmente può rispecchiare e rispecchiarsi nella vita offline. Qui asserisco che il fondamento della questione è semplice: tanto più è veloce lo scorrimento di immagini ed il confronto continuo del sé con altri sé vicini e lontani, che rimbalzano e ridiscutono schemi a velocità pazzesche, tanto più l’identità diventa qualcosa di liquido, effimero, mai coerente con sé stesso se non nel progetto di chi ne studia i prossimi passi evolutivi: niente c’è di più veloce del movimento dell’iride.

vedi Identità in bilico: dall’iconizzazione del Sé al rifugio nel collettivo. Di Agata Piromallo Gambardella in Turning Around The Self a cura di Diana Salzano. 2015 10

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Usi e contenuti visuali dei teenager sui social media.11

Maschi e femmine aggiustano i loro stili comunicativi in base alle piattaforme in differenti modi. Customizzare visualmente sé stessi sembra essere la strategia migliore per veicolare messaggi su di se e sembra essere un’operazione compiuta da entrambi i generi. Le ragazze sembrano più attratte da contenuti visuali che girano intorno alla propria estetica, mentre i ragazzi più da contenuti che informano sul loro fare ed interessarsi quotidiano (Mike Thelwall, Farida Vis, 2017). La piattaforma di Facebook incoraggia gli utenti a creare dei profili che rispondano alla loro identità offline, anche se in un’età come quella dei giovani adulti, l’identità è in fase di sperimentazione e l’analisi di una qualsiasi bacheca potrebbe aiutarci a comprendere il cambiamento in fatto di gusti musicali, culturali, di stati d’animo come del cambiamento fisico di un utente. La prima cosa da fare è creare un profilo di sé stessi, quindi chiedersi, come appaio? Come sono fatto? Come agisco?

Possono essere riconosciuti diversi tipi di utilizzi tra ragazzi e ragazze basandosi sui contenuti postati sui

Delle ricerche analizzate, abbiamo preferito utilizzare i dati che potessero dare una panoramica generale sull’uso di Internet al di fuori dei contesti socioculturali di ogni Paese. Le ricerche riguardano per la maggior parte gli U.S.A. e gli U.K. ma alcuni dati sono riportati anche da Paesi europei come la Svizzera e la Svezia. Le piattaforme di cui maggiormente segnaliamo i dati sono Facebook e Instagram 11

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profili. I ragazzi, sono più orientati a discorsi sullo sport, la tecnologia e lo humor, facendo apparire questo comportamento come ‘maschile’ e rendendo simbolicamente più affabili le ragazze che si comportano in questo modo. Le ragazze adolescenti sono solite utilizzare i social per mantenere attivi i loro rapporti preesistenti, mentre i ragazzi utilizzano la piattaforma Facebook per conoscere nuove persone, farsi nuovi amici ed interagire con gruppi al di fuori del loro normale ‘giro’ (Herring e Kapidzic 2015).La ragione principale per cui i giovani adulti negli US utilizzano i social è per interessarsi a ciò che riguarda il loro gruppo dei pari e per interagirvi (ibid.). Importante per la costruzione di un’identità online sembra essere il proprio orientamento sessuale, come l’enfatizzare la propria partecipazione ad una relazione sentimentale o la propria emancipazione da questo tipo di legame, come dimostra lo studio di Sveningsson Elm del 2007 (Herring e Kazipdic 2015). Le ragazze postano foto in cui appaiono “carine” mentre i maschi sono inclini a condividere immagini e commenti che fanno un self-promoting della loro persona, parlando anche delle loro vite sessuali e con riferimenti all’alcool e al divertimento estremo. (Peluchette and Karl, 2008). Le ragazze sembrano più inclini a postare foto informali di sé stesse divertendosi con amici (Herring, Kapidzic 2015) ed a ‘controllare’ il loro essere taggate in altre foto, come farsi vedere in momenti e pose poco “attrattivi” o con persone poco desiderabili sul social network, o facendo cose poco accettate dal loro seguito (Strano & Queen 2013 in Herring e Stoerger, 2013) Questo è

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molto più comune in un social come Instagram, piattaforma che permette un attento lavoro puramente visuale sul Self e sui contenuti che costituiscono la propria bacheca, costruendo un’immagine della propria identità individuale. Anche gli stili delle foto profilo su Facebook si possono differenziare a seconda del genere. Le foto maschili accentuano uno status (usando oggetti e vestiti formali) e atteggiamenti avventurosi (outdoor setting), mentre le foto femminili accentuano le relazioni affettive e le espressioni emozionali (contatto visivo, sorriso intenso). Le donne nascondono meno emozioni, mostrano di più i loro lati sensibili, comunicano sentimenti mentre gli uomini invece sembrano dover mostrare potere per conquistare o mantenere uno status sociale, così come la storia culturale ha fatto evolvere il genere (Sigal Tifferet , Iris Vilnai-Yavetz 2014). Le donne, inoltre, interagiscono di più con Like e commenti su Instagram mentre gli uomini hanno questo comportamento più su Facebook (Mike Thelwall, Farida Vis, 2017): le due piattaforme hanno un tipo di sviluppo della networked identity molto diverso. Le donne sembrerebbero modificare di più le loro foto, ritoccando spesso tratti fisici ed estetici mentre gli uomini concentrerebbero di più la modifica delle foto per enfatizzare le azioni che compiono.

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La privacy è un aspetto da non sottovalutare sul social web, incluso per le immagini. I ragazzi sono molto più inclini rispetto alle ragazzea condividere il loro numero di telefono e la loro posizione (Lenhart and Madden, 2007b; Pujazon-Zazik et al., 2012), oltre che a interagire con sconosciuti, lasciando i loro profili aperti (Thellwall &Vis 2017): questo spesso è dovuto alla quantità di molestie e comportamenti invadenti a cui le ragazze sono soggette navigando nei social. Patchin and Hinduja (2010) hanno condotto un’analisi dei contenuti di 2423 profili di adolescenti sui più popolari siti di social media per determinare in che misura condividono le loro informazioni personali; hanno riscontrato che le ragazze sono inclini 1,5 volte in più rispetto ai ragazzi a restringere l’accesso ai loro profili.(Herring and Kapidzic, 2015).Riscontri simili sono riportati da Thelwall nel 2008 in un’analisi dei profili di giovani adulti su Myspace nel quale il 21% dei ragazzi aventi un profilo negli U.S. hanno scelto il profilo “aperto” rispetto al 12% tra le ragazze. Tre quarti delle ragazze intervistate hanno limitato l’accesso ai loro profili solo ai loro amici. Nel sondaggio Growing Up With Media, i risultati evidenziano la grande tendenza nelle giovani ad essere molestate a partire dal loro comportamento di genere, con dei dati che riportano più di 1500 individui tra i 10 e i 15 anni di genere femminile hanno rivevuto online sollecitazioni sessuali (foto o richieste a parlare di sesso) o

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commenti forti e molestie di vario tipo.(Ybarra and Mitchell, 2009 in Herring and Kapidzic, 2015). Le opzioni sulla privacy danno controllo sul pubblico dell’utente. Molti utenti non utilizzano o conoscono le opzioni per la privacy, ignorando o lasciando al caso il pubblico con il quale si relazionano. Internet, prima dei social network, non possedeva questo tipo di limitazioni per la sicurezza. Ora che le identità personali circolano in rete, sembra diventato molto importante evitare che persone che non dovrebbero venire a conoscenza di determinate informazioni o aspetti della persona vi entrino in contatto, creando quello che si chiama un collasso di contesti, un momento nel quale i diversi pubblici di contesti sociali diversi in cui si agisce entrano in contatto, creando una frattura nel controllo che l’attore fa sulla sua rappresentazione di sé e sull’impressione. Questo è importante per i teenager che costruiscono indissolubilmente la loro identità sui social e attraverso i social ed entrano in contatto con svariati tipi di informazioni e spesso non hanno percezione di chi può interagire con le loro identità o le loro informazioni. La Rete sembrava promettere l’uguaglianza di genere, rendendo le differenze sociali di genere nella comunicazione invisibili o irrilevanti. Questa promessa non è stata mantenuta; molte delle differenza di genere tradizionali sono state trasportate dentro la CMC. Diventando la vita online uno specchio di quella offline, le differenze, le preferenze e le violenze sono anche qui

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riprodotte. Gli uomini e le donne scelgono prodotti, servizi e intrattenimenti diversi su Facebook, seguendo gli stereotipi di genere (Glenn, 2013). Spesso, tendono a comunicare online riguardo diversi argomenti, in differenti contesti, per differenti motivazioni e spesso, con stili comunicativi diversi. Le differenze sembrano essere rimaste stabili durante 20 anni, suggerendo che le identità di genere sono socialmente facilitative nel momento in cui ci si trova in processi eteronormativi . (Kapidzic e Herring 2011) Il fatto che molte ragazze e donne in CMC testuali decidono di rivelare il loro genere e produrre immagini gendered (incluso self-sexualized) supporta questa visione. “The Internet and CMC reproduce the larger societal gender status quo.” (Herring & Stoerger 2013)

Visibility e LGBTQI+ A questo punto, ci tocca aprire un ventaglio sull’impatto della visibility12 sulla costruzione dell’identità di genere. Può essere considerata un’affordance dei social network, in quanto l’utente è obbligato a dover comprendere i meccanismi di visibilità relazionati alla sua persona e ai suoi contenuti una volta sul social media.

La visibility (o visibilità) fa riferimento all’abilità di vedere e localizzare informazioni ed azioni di altri utenti potendo accedere al sito o al sistema dove esse sono condivise (Treem and Leonardi, 2012 in Hanckel et. Al 2019) Ogni piattaforma, in base alle caratteristiche di ricerca e ai risultati, ha un certo grado di visibilità come affordance e permette agli utenti di oscurare più o meno questa caratteristica relativa alla loro identità nel sistema. 12

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Un’interessante aspetto della costruzione dell’identità di genere online relazionato ai concetti di visibilità e privacy viene dalla ricerca effettuata da Hanckel e colleghi (2019) sui dati presi dal sito che gettano luce sull’uso che i teenager LGBTQI+ australiani fanno dei social e come curano la propria identità. La società contemporanea occidentale, spesso, incoraggia le persone LGBTQI+ a “rendersi visibili”, come politica del non doversi vergognare o nascondere rispetto al proprio essere e alle proprie scelte. Ciò che viene fuori è che spesso questa visibility policy non tiene conto dei rischi che le persone di questa comunità corrono e nei differenti gradi di difficoltà personali e psicologiche nell’interagire attraverso i social media con questo aspetto della loro identità. La “targa” LGBTQI+ comprende una fetta ampissima e culturalmente eterogenea di popolazione mondiale quindi le realtà normative con le quali si confronta la loro costruzione identitaria sono diversificate e spesso non accostabili fra loro. Ciò può rendere l’affordance della visibilità per diversi utenti limitativa oppure un’opportunità. Può essere uno spazio utile per difendere la “causa” di genere e dibattere sulla questione, per potersi informare tramite risorse locali attraverso funzionalità di ricerca come per sperimentare nuovi aspetti possibili della propria identità. Possiamo citare come esempio il fatto che Facebook già nel 2014 ha aggiunto la possibilità di selezionare tra 50 identità di genere nella creazione di un profilo, inserendo in più una funzione che chiede al soggetto il

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pronome con il quale vuole che vi si faccia riferimento. Instagram solo nel 2019 aggiunge la possibilità di selezionare tra 39 generi differenti. Possiamo citare ad esempio il fatto che mettendo Like ad una pagina di temi LGBTQI+ su Facebook, molte persone possono visualizzare quest’interesse e gli utenti che hanno messo questo Like possono non voler discutere o dover parlare di questa loro scelta con colleghi e familiari che potrebbero visualizzarla. (ibid.) Nello studio di Duguay’s (2014) sull’uso di Facebook da parte di studenti universitari LGBTQI+, ha riscontra-

to che quest’aspetto porta a stress e ansie intensificate, soprattutto per coloro che non si sentono pronti a mostrare la loro identità sessuale o di genere ad altre persone. Per questo molti utenti scelgono di curare soprattutto l’aspetto dei pubblici di default con i quali condividere aspetti e contenuti dei loro profili, scegliendo delle forme di profilo “molto chiuse” per cercare di rimuovere la possibilità di incontrare persone che possano incorrere in comportamenti homo/bi/transfobici. Controllare il collasso dei contesti permette di parlare in modo specifico e diretto ad una serie di pubblici (come Facebook permette di fare) con cui si sentono più liberi di aprirsi riguardo a tematiche di genere e sessualità.

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Anche la curation13 del nome ricopre un aspetto importante della cura del Sé online. Nel caso di Jasmine (Hanckel et al. 2019), la quale, in fase di transizione ha sperimentato il cambio del nome sulla piattaforma (Facebook) ma il suo vecchio nome risultava ancora visibile dall’URL del profilo. In questo caso si può parlare di violenza normativa di genere delle affordance strutturali del medium, nel momento in cui determinate pratiche di cambio di identità non sono avvallate o percepite da strutture predefinite, aumentando la possibilità per soggetti che attraversano delicate fasi di costruzione e definizione del sé di incorrere in traumi psicologici. Le affordance strutturali spesso rispecchiano una definizione del sé coesa e coerente, non fluida e mutevole nel tempo per quanto riguarda le definizioni che culturalmente sono considerate “nucleari” come il nome o il genere, e si aspettano dagli utenti, quindi, tale tipo di identificazione. “Curation is an ongoing process on social media platforms and some platform affordances allow for this identity work, even if that was not the intention behind their design” (ibid.) La cura per il profilo e per la condivisione di contenuti per quanto riguarda gli utenti LGBTQI è spesso molto difficile. Capita che Facebook non ritenga offensivi quelli che sono commenti violenti o comportamenLa data curation è un termine usato per indicare le attività di gestione necessarie per mantenere i dati di ricerca a lungo termine in modo che siano disponibili per il riutilizzo e la conservazione. Nella scienza, data curation può indicare il processo di estrazione di informazioni importanti da testi scientifici, come ad esempio articoli di ricerca di esperti, per essere convertiti in un formato elettronico, come una ennupla di un database biologico. (fonte: https://it.wikipedia.org/wiki/Data_curation) 13

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ti omofobi. La possibilità di evitare materiali fortemente discriminatori sta quindi all’utente di oscurarli o bloccarli, ma spesso questo non aiuta la “causa” né mette a proprio agio persone non polarizzate sui generi canonici a difendere la loro libertà nel definire la loro identità. Quest’argomento è caldo, se vediamo che ci son o paesi come la Polonia che hanno appena emanato una legge sul trattamento di materie di educazione sessuale e di genere come “materiale pedofilo” ed altre che si accingono, ad approvare il matrimonio e l’adozione per coppie non-eterosessuali. Attualmente poco più della metà dei Paesi del continente europeo riconosce il matrimonio LGBTQI+ come legale (fonte: ) La capacità dei social media di far fronte alle problematiche e alle necessità di quelle che sono le persone che necessitano degli stessi diritti, degli stessi canali e delle stesse opportunità di tutti gli altri utenti per poter sperimentare la propria libertà identitaria sul web non sempre va alla stessa velocità e rispetta le stesse tappe della società offline. Self-sexualization Altra questione relativa alla visibility è quella della self-sexualization. È stato riscontrato che molti soggetti tendono ad esagerare graficamente tratti del proprio corpo relativi alle caratteristiche sessuali secondarie (seno, sedere, addominali, fianchi, muscoli, spalle) per poter avere tratti sessuali già desiderabili. Le radici culturali di questa tendenza sono state analizzate nel capi

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tolo precedente ed ora vedremo come vengono messe in luce sui social media e nella CMC. I primi studi ad approcciarsi al fenomeno degli avatar grafici sono stati condotti da Nowak e Rauh nel 2005 e hanno riferito che nei primi tempi gli utenti preferivano avere la possibilità di mostrarsi così come appaiono in realtà. Altre ricerche hanno riportato che negli ambienti in cui gli avatar erano in 3-D, i tratti corporei sessualizzati venivano portati all’esagerazione (Scheidt, 2004 in Herring e Stoerger, 2013). Anche qui si è riscontrato il fenomeno del Gender Swapping per ottenere vantaggi o per evitare molestie. Gli stili comunicativi erano comunque influenzati dal genere offline: a lungo andare non hanno rispecchiato il genere dell’avatar 3-D. I primi studi sulla self-presentation fotografica erano sulle homepage personali e Blair e Takayoshi nel 199914 riscontrarono l’atteggiamento sessualizzato e provocativo di molte donne nei vestiti o nelle pose. Questa pratica sembra diventata la norma sui social media e su internet in generale: una ricerca di Wilelm, Crescenzi e Tortajada nel 201115 ha dimostrato che se le ragazze ai primi accessi non hanno postato foto sessualizzate, hanno piano piano aderito a quello stile poi nel tempo. Blair e Takayoshi criticano l’uso non adeBlair, Kristine, and Pamela Takayoshi. 1999. “Mapping the Terrain of Feminist Cyberscapes.” In Feminist Cyberscapes: Mapping Gendered Academic Spaces, edited by Kristine Blair and Pamela Takayoshi, 1-18. Stamford, CT: Ablex. 14

Willem, Cilia, Núria Araüna, Lucrezia Crescenzi, and Iolanda Tortajada. 2011. “Girls on Fotolog: Reproduction of Gender Stereotypes or Identity Play?” Interactions: Studies In Communication & Culture, 2(3): 225-242. 15

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guatamente educato delle foto sessualizzate in quanto oggettificano il corpo del soggetto e aumentano l’uso del materiale per violenne e molestie, denunciando l’uso di pagine Facebook (poi chiuse) come “12-years slutty” che utilizzava questo tipo di materiale per riempire di insulti misogini le ragazzine. La self sexualization è riconducibile alle teorie esposte nel capitolo prima sullo sguardo mascolinizzato dei prodotti mediatici visuali? Iniziamo dal dire che i contenuti visuali sono risorse centrali per creare un’impressione online (Ellison et al. 2006 in Herring e Kapidzic, 2015) e secondo Salimkhan16 (2010) gli adolescenti e i giovani adulti che si approcciano ai social media puntano buona parte della loro costruzione identitaria online sulla scelta delle foto. Il principale criterio per la scelta di foto per il loro profilo è la convinzione di apparire bene17. Manago e colleghi, in una ricerca del 200818 condotta su giovani adulti negli U.S. hanno evidenziato la maggiore enfasi che le ragazze mettono nella selezione delle foto del profilo in cui sono più attraenti e la ricerca di Thellwall e Vis (2017) ha sottolineato in loro modificata o aggiornata molto più frequentemente rispetto ai ragazzi. Riporta anche che gli schemi simbolici seguiti sono Salimkhan, G., Manago, A., Greenfield, P., 2010. The construction of the virtual self on MySpace. Cyberpsychology: Journal of Psychosocial Research on Cyberspace. 4(1). http://cyberpsychology.eu/view.php?cisloclanku=2010050203&article=1 (accessed 15.10.12). 16

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come riferimento utile è consigliato rivedere le immagini del capitolo precedente

Manago, A.M., Graham, M.B., Greenfield, P.M., Salimkhan, G., 2008. Self-presentation and gender on MySpace. Journal of Applied Developmental Psychology. 29(6),446-458. 18

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stereotipizzati sul genere: donne attraenti e uomini forti. Kapidzic e Herring (2011) scoprono che la maggior parte delle ragazze presenta il proprio self visuale su internet con codici postulai seduttivi (guardando su o di lato allo spettatore) e spesso con un abbigliamento che evidenzia o scopre forme corporee. I ragazzi, di seguito, sono passati dal seguire una gamma simbolica un po’ più vasta (guardare da un’altra parte con frasi sul successo, mostrare oggetti e essere vicino ad auto) ma non lontano dallo stereotipo di genere del “conquistatore”, all’iniziare a mostrare il proprio corpo (spesso in pose in cui venisse evidenziata la muscolatura) senza maglietta (Herring e Kapidzic, 2015). Il trend del mostrare il proprio possesso, la propria capacità di potere sul mondo terreno è una caratteristica del dipinto che riguarda il genere maschile già dal rinascimento (Berger, 1972). Il pubblico connesso sembra quindi approcciarsi all’immagine del ragazzo e della ragazza in modo differente, riconoscendo lo stereotipo visuale del soggetto nella foto dopo averlo introiettato per via dell’uso massivo e continuo (quasi mai consapevolmente negoziato) che ne viene fatto dagli utenti. Questi comportamenti (vedi foto in capitolo precedente) riproducono gli stereotipi culturali di genere e i ritratti mediali della donna sessualmente disponibile e dell’uomo forte ed emotivamente distante (Kapidzic and Herring, 2011; Siibak, 2010). Proprio Siibak, nella stessa ricerca, studia come il trend del ventunesimo secolo per entrambi i generi sia di auto-sessualizzare la propria self-presentation e

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questo fa parte di un più ampio fenomeno di auto-mercificazione. Donnelly (2011) suggerisce che questo fenomeno dipende dall’interiorizzazione inconscia delle immagini mediali. Spesso però l’internalizzazione non negoziata delle immagini, non distingue la mercificazione del corpo e della sessualizzazione a scopo pubblicitario o commerciale, a scopo artistico e a scopo pornografico, lasciando agli utenti in fase di sviluppo spesso solo l’idea che quello sia il modo migliore per esporre sé stessi, per performare con il proprio corpo e il proprio essere online e ottenere visibilità, per emergere ed imparare a navigare nel mare dei simboli e magari lasciare una traccia di sé(lf) nella carne del mondo. (Salzano, 2015)

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Osservazioni conclusive 

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Fioccano i dati Istat, Euroistat, World Economic Forum ecc. sulle disparità sociali ed economiche che le donne sperimentano nella loro vita rispetto agli uomini. Le disparità, come abbiamo visto, se fanno parte della cultura che educa gli individui, si riprodurranno in ogni situazione sociale, da un ufficio, fino ad una chat, o a una pagina Facebook. La disparità di genere esiste perché la cultura mediatica di stampo patriarcale finora l’ha alimentata. La violenza di genere, in tutte le sue forme è una conseguenza. Otto giornalisti su dieci ad essere oggetto di minacce ed insulti sui social media per ciò che scrivono, riporta una ricerca di The Guardian19, sono donne. I suicidi di uomini rispetto alle donne sono il doppio e molti, riportano gli psicologi20, sono legati alle difficoltà che gli uomini riportano nel doversi confrontare con la carica simbolica che esse riportano legate alla loro virilità (perdere il lavoro, essere traditi, non poter mantenere una famiglia, non essere eterosessuali ecc.). Le icone maggiormente seguite su Instagram potrebbero contribuire secondo me a promuovere questa cultura differenziata tra i generi e a creare esempi da seguire di successo, bellezza, capacità, status economico-sociale ecc. Il pubblico di Instafonte: (https://www.gadgette.com/2016/04/12/810-of-the-guardians-most-abused-writers-arewomen/) 19

fonte: (https://thevision.com/attualita/uomini-suicidi-virilita/?fbclid=IwAR3LE6a6jzc1VP_Ecocq42S-2HBpPES2QB76CnQfSX2gDGJ-snsJcRHnZos) 20

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gram nel 2019 è di più di mezzo miliardo21 tra i millennials, cioè proprio coloro che sono cresciuti insieme alla rete, nascendo nello stesso periodo in cui Internet ha iniziato a diffondersi tra le masse e diventando di uso e consumo di tutti. Possiamo citare l’emergenza di richieste di chirurgie plastiche tra le giovani (under25) per conformare i loro corpi, la loro immagine e il loro profilo ai modelli di Instagram e al modello estetico femminile che viene più seguito. La bellezza diventa di serie dice Jennifer Guerra sul sito The Vision e ci accompagna in un viaggio tra filtri digitali smascherati e problematiche create da questo nuovo modello che sembra marchiare l’identità delle giovani donne della generazione millennial. (Guerra, 2019) Tutto ha voluto essere tranne che un’analisi moralista e uno sguardo moralizzante sulla costruzione sessualizzata del genere. L’obiettivo è quello di contribuire modestamente al discorso femminista con un’analisi sull’impatto che la costruzione dell’identità femminile e maschile veicolata dai media ha sui soggetti in formazione senza un’accurata educazione sessuale che filtri e permetta la decodifica e la negoziazione: che crei consapevolezza. Scopo è anche informare sull’utilizzo dei social network, da sempre ritenuti nuove piazze identitarie in cui mettersi e rimettersi in discussione,

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fonte: (https://blog.hootsuite.com/instagram-demographics/)

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come possibile luogo dove riscontrare gli effetti di tale processo. Punto di partenza fondamentale è appunto la costruzione dell’occhio e la costruzione del corpo: soggetto ed oggetto che si scambiano i ruoli ma entrambi protagonisti del fenomeno di socializzazione attraverso il genere. La cultura mediatica, da pochi anni, ma dopo moltissimi anni di lotte da parte di studiosi radicali dagli anni ’60 in poi, sta facendo qualcosa di concreto nel modificare l’impatto che ha sulle menti delle persone, assumendosi implicitamente la responsabilità degli immaginari che genera promuovendo o denigrando figure e narrazioni. Esempi di ciò che dico sono nello spot che Gillette22, storico marchio di prodotti da barba da uomo, ha pubblicato a gennaio 2019 riconoscendo la necessità di rieducare gli uomini di domani riguardo i comportamenti stereotipati considerati ‘normali’ per il genere maschile: “The boys watching today will be the men of tomorrow.” è il messaggio che chiude lo spot, accusato di essere uno ‘spot che svilisce inutilmente la mascolinità’23. Critica mossa anche all’iniziativa di Mattel, casa produttrice di giocattoli, di introdurre bambole gender-free nel mercato che i più piccoli possono comporre con gli attributi estetici che vogliono, fonte: (https://twitter.com/Gillette/status/1084850521196900352?ref_src=twsrc%2525255Etfw%2525257Ctwcamp%2525255Etweetembed%2525257Ctwterm%2525255E10848911337575 87456&ref_url=https:/www.rt.com/news/448892-piers-morgan-gillette-ad-toxic-masculinity/) 22

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citazione dell’articolo riportato in (2)

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su corpi non sessualizzati. Altro esempio di lotta alla cultura patriarcale può essere lo spot inclusivo della pasta Barilla24, noto brand alimentare che veicola con se simbologie legate all’italianità nel mondo e alla famiglia, che mostra figure del calibro di Sophia Loren (storica icona della bellezza femminile nel cinema italiano) insieme a drag queen, queers ed altri personaggi di genere meno definibile. Altro esempio a sostenere la mia tesi della potenza dei media nel veicolare messaggi di progresso nella lotta alle simbologie binarie ed oppressive del genere sono le scelte estetiche della nota figura pop contemporanea Achille Lauro che, insieme al suo collega Boss Doms utilizza atteggiamenti comunemente associati a figure di orientamento sessuale non etero e di genere non binario25. Ciò che si ritiene di aver dimostrato nell’elaborato è quindi il nesso che lega l’individuo, il suo genere, la cultura, i media e i social media ed il potere che agency di questo tipo hanno sulla sua indipendenza psicologica e relazionale, nonché ideologica. Il patriarcato si ritiene sia alla base di tutta la cultura e che la cultura popolare, i miti e le icone di riferimento, siano uno dei luoghi principali da cui iniziare ad estirpare questa struttura ideologica che soggiace a buonaparte dei problemi umani e sociali degli individui. Il patriarcato va indivi24

https://www.ninjamarketing.it/2019/10/23/gcds-barilla-nuovo-spot-sophia-loren/

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vedi foto in basso, fonte:(Instagram, @achilleidol)

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duato e combattuto in tutte le sue forme a partire dalle sue forme invisibili, da decodificare all’interno di ciò che è dalla società e cultura dominante trasmesso e riprodotto. Vanno individuate le forme di potere che generano violenza e oppressione a partire dai rapporti intimi che le persone hanno con sé stesse e con il loro prossimo. Solo individuando queste forme di potere e rimuovendole da ciò con cui le persone interagiscono fin dagli albori della loro esperienza sociale e durante la loro vita quotidiana, allora si potrà davvero pensare di creare una società libera, non fondata sul principio strutturale del potere dell’individuo su un altro individuo.

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Bibliografia fotografica (link incorporati)

Foto Victoria'S Secret (pag 62)

Foto Barbara D'urso (pag 63)

Foto @riae (pag 63)

Foto @crifabrizi (pag 64)

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Ringraziamenti Ringrazio i docenti che si sono impegnati a dare agli studenti la possibilità di espandere la loro mente e la loro coscienza, lavorando ogni giorno e curando il loro lavoro, attraverso approfondimenti, nuovi testi e lezioni meravigliose: non smettete mai di credere nella generazione che viene, perché abbiamo bisogno che qualcuno tenga la luce accesa! Ringrazio di cuore la professoressa Diana Salzano per aver seguito i miei voli pindarici ed aver sostenuto il mio lavoro. Soprattutto la ringrazio per l’entusiasmo con cui ha tenuto il suo corso quando ero solo una matricola e capii l’importanza fondamentale degli studi sociologici di comunicazione. La ringrazio per i seminari, per i focus-group, per i saggi e per i titoli: non vi ringrazierò mai abbastanza per la passione che mettete nel vostro lavoro. Ringrazio le persone incontrate in questo percorso, le idee scambiate e condivise, i pomeriggi tra gli edifici e le scalinate, i compagni di corso che ora hanno preso il largo e stanno navigando le loro rotte: che il vento sia con voi. Ringrazio le compagne e i compagni (soprattutto quell* di Link Fisciano che mi hanno aiutato a sconfiggere il mostro della burocrazia ed aiutano tanti studenti quotidianamente a farlo) perché continuano a credere in un’Università ed in un mondo migliore anche quando io non lo faccio. Siamo in tanti, siamo diversi, siamo instancabili e continueremo ad esserlo. Ringrazio la mia famiglia, per avermi cresciuto, avermi inculcato radici che bene o male fanno parte di

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me, per avermi sostenuto mentre ero in Spagna e per avermi accompagnato in ogni mio assurdo progetto:avete dato delle vele alla mia nave in ogni avventura da me intrapresa. Ringrazio i miei fratelli e sorelle, che hanno vissuto insieme a me tutte le tempeste e i temporali, hanno gioito delle creste dell’onda e hanno riposato su mari calmi, che hanno conosciuto tutte le personalità che si sono succedute in questo corpo: se ci siete ancora è perché avete saputo voler bene a tutte noi e ognuno di voi ha un pezzo di me e ad ognuno di voi devo un momento della vita in cui davvero ho avuto bisogno e ci siete stati. Ringrazio mio fratello Alessio per ostinarsi ogni giorno a dimostrare che non servono fogli di carta per inseguire i propri sogni, ma solo dedizione e voglia di fare: per me sei un’ispirazione, Keep it Real! Ringrazio il mio Prossimo Sole, che è arrivato dopo anni di nubi, perché ogni mattina riscalda il giorno che inizia e rende limpide le acque su cui galleggio: il tuo amore è pura luce. Il ringraziamento più importante va a mia madre, che mi ha dato l’ossigeno, il sangue e lo spirito, sapendo che lo avrei trasformato in qualcosa di bello: il nostro cordone non si spezzerà mai.

Pace, Amore, Anarchia.

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