U n i v e r s i t à C a’ F o s c a r i di V e n e z i a Facoltà di Lettere e Filosof ia
Corso di Laurea in Conservazione dei Beni Culturali
Anno Accademico 2002-2003
“Equalmente et in ogni parte bella” Isabella d’Este: ritratti e immagini
Tesi di Laurea di
Lorenzo Bonoldi matricola 774755
Relatore
Prof.sa Monica Centanni
Correlatori
Prof. Augusto Gentili Prof. Leandro Ventura
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Alla memoria di mio nonno, che vive dopo morte.
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INDICE
PREFAZIONE………………………………………………………………
pag. 5
I. L’EFFIGIE DI ISABELLA D’ESTE FRA ‘RITRATTO’ E ‘IMMAGINE’………..
pag. 7
II. ISABELLA IN MOSTRA…………………………………………………..
pag. 27
III. ISABELLA E I SUOI RITRATTISTI………………………………………..
pag. 37
IV. LE ACCONCIATURE DI ISABELLA D’ESTE……………………………...
pag. 59
V. SCHEDE………………………………………………………………...
pag. 69
APPROFONDIMENTI:
- LE COPIE DEL CARTONE DI LEONARDO PER UN RITRATTO DI ISABELLA D’ESTE…...
pag. 90
- ECO PRE-RAFFAELLITA DI UN (PRESUNTO) RITRATTO DI ISABELLA D’ESTE………
pag. 134
VI. UT PICTURA POËSIS.
I RITRATTI LETTERARI DI ISABELLA D’ESTE…… pag. 146
VII. TESTI - I RITRATTI DI GIAN GIORGIO TRISSINO………………………………….....
pag. 161
- ISABELLA D’ESTE NELL’ ADDITIONE DEL BETUSSI…………………………...
pag. 177
- UN’EVOCAZIONE LETTERARIA DI ISABELLA D’ESTE IN FORSE CHE SÌ, FORSE CHE NO DI GABRIELE D’ANNUNZIO……………………………………………….
pag. 180
INDICE DELLE IMMAGINI………………………………………………….
pag. 186
BIBLIOGRAFIA FONTI……………………………………………………..
pag. 188
BIBLIOGRAFIA CRITICA DI RIFERIMENTO…………………………………
pag. 190
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Bellissimo nome è questo, il quale la sorte o la divinazione paterna pose; perciò che ‘Isa’ ne la lingua greca (come sapete) suona, quanto ne la nostra ‘Equale’; tal che così composto altro non dice che ‘Equalmente et in ogni parte bella’. Gian Giorgio Trissino, I Ritratti, 1524
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Frank Cadogan Cowper, Vanity, 1907, Londra, Royal Academy
Aprire una tesi sui ritratti di Isabella d’Este con un quadro pre-raffaellita può apparire una mossa ardita: più di quattrocento anni intercorrono tra l’epoca in cui visse la marchesa di Mantova e l’epoca in cui Frank Cadogan Cowper dipinse quest’opera. Eppure in questa immagine si riconoscono molte tracce di Isabella, le eco delle sue invenzioni che influenzarono la moda e, non da ultima, anche una commistione fra le due principali iconografie isabelliane: quella leonardesca, con i capelli scesi sulle spalle, e quella tizianesca, con la capigliara. Lo sfarzo di cui la “prima donna del mondo” seppe circondarsi, le mode con cui, “fonte e origine di tutte le belle fogge d’Italia”, seppe imporre il proprio stile e, infine, l’immagine di se stessa che decise di offrire
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all’ammirazione dei contemporanei e alla memoria dei posteri, fecero sì che si avverasse il suo profondo desiderio. Quel desiderio di gloria che, sedicenne formata all’etica classica alla ‘scuola’ che era stata fondata da Guarino da Verona, volle affidare all’iscrizione incisa su un gioiello: “finch’io viva dopo morte”. Ma l’immortalità – che solo la gloria può concedere – non bastò a Isabella, che parrebbe aver chiesto a Mnemosyne, la Memoria madre delle Arti, di avere, almeno in figura, anche il dono dell’eterna giovinezza. Fu così che il ritratto di Isabella d’Este divenne l’esatto opposto del ritratto di Dorian Gray: mentre il protagonista del romanzo di Oscar Wilde scelse di tenere per sé il dono della giovinezza, demandando all’effigie dipinta il compito di invecchiare, la ‛Signora del Rinascimento’ decise saggiamente di investire sul proprio ritratto. E sessantenne veniva ritratta ancora come se fosse stata nel fiore degli anni. Così, affidata agli artifici di Leonardo da Vinci e Gian Cristoforo Romano, di Lorenzo Costa e Francesco Francia, di Tiziano Vecellio e di altri artisti, l’immagine di Isabella sopravvisse intatta allo scorrere del tempo. In vita e post mortem. Nel suo viaggio attraverso i secoli il ritratto della marchesa di Mantova, dipinto su tela o fuso in metallo, modellato in argilla o scolpito nel marmo, non mancò di generare riflessi, riverberi e persino abbagli: copie, varianti e falsi, identificazioni dubbie, controverse o erronee affollano la ‛galleria dei ritratti’ di Isabella d’Este.
Lo scopo primario di questo studio non è tanto quello di circoscrivere il corpus dei ‛veri’ ritratti di Isabella d’Este, ma piuttosto quello di indagare il ‛mito figurativo’ dell’illustre marchesa di Mantova e ricostruirne i percorsi.
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I. L’EFFIGIE DI ISABELLA D’ESTE FRA ‘RITRATTO’ E ‘IMMAGINE’ Quando si pensi che fra coloro che eseguirono o copiarono (soprattutto copiarono) il ritratto di Isabella d’Este si incontrano i nomi sovrani di Leonardo, di Tiziano, del Rubens, è superfluo soggiungere che queste ricerche non sono una mera curiosità da eruditi, ma offrono il più vivo interesse per la storia dell’arte1.
Così si esprimeva Alessandro Luzio aprendo il suo ultimo intervento sulla ritrattistica isabelliana, pubblicato in appendice al suo studio sulla vendita delle collezioni dei Gonzaga alla corona d’Inghilterra nel 1627. Oltre ai già citati Leonardo e Tiziano, fra gli artisti contemporanei a cui Isabella d’Este affidò il proprio ritratto vanno ricordati anche lo scultore Gian Cristoforo Romano e i campioni del protoclassicismo emiliano Lorenzo Costa e Francesco Francia. Nome illustre, ma escluso dal novero dei ritrattisti isabelliani, è quello di Andrea Mantegna, pittore ufficiale della corte di Mantova, reo, nel ritrarre la sua Signora, di averla “tanto mal facta, che non ha nessuna delle nostre simiglie”2. Il rifiuto da parte di Isabella del ritratto di mano del Mantegna, ritrattista perito e attento, autore fra l’altro del grande ritratto della corte Gonzaga sulle pareti della Camera degli Sposi (o Camera Picta) del Palazzo di Mantova, ben dimostra l’importanza e il valore che Isabella conferiva alla propria effigie. La Marchesa desiderava non un’imitazione pedissequa del reale, ma un calibrato equilibrio fra realtà, idea e grazia3; in conformità alle 1
Luzio 1913, p. 184. Lettera di Isabella d’Este alla Contessa di Acerra (20 aprile 1493), citata in Luzio 1913, p. 189. 3 Ventura 2003, p. 28. 2
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consuetudini ritrattistiche del tempo, Isabella non richiedeva ai propri ritrattisti effigi che le somigliassero in maniera assoluta, ma piuttosto immagini in grado di evocare, secondo i canoni di una fisiognomica simbolica ben codificata, le proprie virtù morali e intellettuali: in altre parole “i beni dell’anima” di cui parla il Trissino. Il ritratto doveva quindi rispondere prima di tutto a precise esigenze formali e culturali, pur garantendo in certa misura la riconoscibilità del personaggio. Non era pertanto necessaria una somiglianza puntuale: la fisionomia era anzi spesso sottoposta a procedimenti volti alla depurazione formale e all’idealizzazione del soggetto, al fine di rendere l’immagine il più corrispondente possibile agli ideali estetici elaborati dal contemporaneo dibattito teorico sulla bellezza e sul comportamento4. Il modello estetico convenzionale, quindi necessariamente stereotipato, di ‘donna bella e virtuosa’ a cui omologare tanto i ritratti pittorici quanto le descriptiones letterarie, era rappresentato dalla figura petrarchesca di Laura, immagine campione della cultura letteraria e dell’estetica del primo Cinquecento, considerata l’emblema perfetto del connubio fra virtus e pulchritudo5. A queste problematiche – da tenere sempre ben presenti nel caso di ritratti collocati in ambito cortigiano – va aggiunto anche che Isabella d’Este, spinta dall’insofferenza per i lunghi tempi di posa, adottò ben presto l’espediente di farsi ritrarre in absentia, facendo cioè copiare e adattare proprie effigi già esistenti. Esemplare sotto questo punto di vista è la vicenda del ritratto commissionato da Isabella sessantenne a Tiziano (cat. 20), esemplato su 4 5
Ventura 2003, p. 24. Cfr. Quondam 1989.
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un ritratto di Francesco Francia, realizzato a sua volta sul modello di un ritratto precedente. Lo stesso cartone di Leonardo (cat. 6) dipende con ogni probabilità dalla medaglia realizzata da Gian Cristoforo Romano (cat. 3), e dalla stessa medaglia deriva un ennesimo ritratto in absentia di Isabella d’Este: un rilievo marmoreo fatto eseguire a Messina nel 1506 da Eleonora Del Balzo-Orsini (cat. 12). Già durante la vita della Marchesa esistevano quindi copie di ritratti che giungevano fino a un terzo grado di lontananza dal modello reale. Fu la stessa Isabella a dare inizio al processo di mitizzazione e mistificazione della propria immagine. “Figlia dell’Umanesimo6” e “Signora del Rinascimento7”, Isabella d’Este si ritrovò già in vita attorniata da una grandissima fama che portò inevitabilmente alla realizzazione di un numero di ritratti direttamente proporzionale alla portata della sua nomea8. Dubito venire in fastidio non solum a la S.V., ma ad tuta Italia cum mandare questi miei retracti in volta, et benché malvulentieri il faccia, nondimeno essendone cum tanta instancia recircata da chi me può comandare, non posso negarli9.
Così scriveva la Marchesa a Ludovico il Moro, duca di Milano, il 13 marzo 1499, inviando alla corte sforzesca un proprio ritratto chiesto in dono da Isabella d’Aragona. 6
Bellonci 1966, p. 5. Pizzagalli 2001, p. 5. 8 Ventura 2003, p. 24. 9 Lettera di Isabella d’Este a Ludovico Sforza detto il Moro (13 marzo 1499), citata in Luzio 1913, p. 198. 7
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Il ritratto, e nel caso particolare il ritratto di Isabella d’Este, rappresentava quindi un dono prezioso, apprezzato e di frequente richiesto, con il quale omaggiare le corti d’Italia e d’Europa. Accanto a queste effigi ufficiali, spesso usate in qualità di doni diplomatici, vanno ricordati anche i ritratti a carattere domestico diffusi all’interno della cerchia degli affetti più cari, come ad esempio quello che Beatrice de’ Contrari teneva su uno scranno durante i pasti “che vedendolo me pare […] essere a tavola cum V.S. 10”. Merita qui menzione anche la statua in cera della marchesa di Mantova presente fra gli ex voto dell’Annunziata a Firenze11. La statua votiva in questione, commissionata nel 1505 e restaurata nel 1529, a detta di Filippo Benintendi, l’artefice “fa le immagini” che la aveva eseguita, era “più bella che mai, come chascuno […] mantovano che sia venuto in questa terra può fare fede12”. Il voto isabelliano fu distrutto insieme a tutte le altre immagini in cera di principi, nobili e papi da un incendio alla fine del XVIII secolo. Dopo la morte di Isabella (avvenuta nel 1539), il processo di moltiplicazione dei suoi ritratti continuò ad opera dei suoi discendenti, che, spinti dal desiderio di glorificazione dinastica, commissionavano copie, a volta adattate, dei ritratti dei propri avi (è il caso del ritratto della collezione di Ambras, cat. 17). Accanto al moltiplicarsi e al diffondersi delle effigi più o meno somiglianti della Marchesa, si verificò anche la diffusione in larghissima 10
Lettera di Beatrice de’ Contrari a Isabella d’Este (10 aprile 1495), citata in Luzio 1913, p. 186. 11 Warburg [1932] 1966, pp.139-140. 12 Lettera di Filippo Benintendi a Isabella d’Este (25 dicembre 1497), citata in Luzio 1913, p. 203.
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scala, sia in Italia che all’estero, delle mode e delle fogge inventate da Isabella d’Este. Nel 1515 il re di Francia richiedeva alla Marchesa “una puva [ovvero una bambola] vestita alla fogia che va lei di camisa, di maniche, de veste di sotto e di sopra et de abiliamenti et aconciatura di testa et di capilli” allo scopo di “far fare alcuni di quelli habiti per donare a donne in Franza13”. Nel 1523 la regina di Polonia la decretava ‘fonte e origine di tutte le belle fogge d’Italia’14. Il dilagare della moda isabelliana e il desiderio di molte dame di omologare il proprio aspetto a quello della Marchesa di Mantova costituirono un fenomeno che complica ulteriormente lo studio della ritrattistica isabelliana. Nel XVII secolo, con la dispersione delle collezioni Gonzaga e la conseguente interruzione della memoria familiare, il nome di Isabella cominciò infatti a essere abbinato ad altri ritratti femminili. La figura storica della Marchesa, infatti, era così celebre che qualsiasi ritratto femminile che possedesse una minima somiglianza con essa, peraltro spesso limitata all’abbigliamento o all’acconciatura, assumeva la qualifica di ‘ritratto di Isabella d’Este’. Esemplare da questo punto di vista il caso del ritratto di Margherita Paleologo, conservato ad Hampton Court (cat. 24): per il semplice fatto di indossare la capigliara (l’acconciatura a ciambella ideata da Isabella che ebbe una larghissima diffusione per tutto il Cinquecento), la consorte di Federico II Gonzaga venne scambiata fino a qualche anno fa per la più illustre suocera. 13
Lettera di Federico Gonzaga a Isabella d’Este (19 novembre 1515), citata in Luzio Renier 1986 (fasc. 1 giugno), p. 466. 14 Lettera di Bona Sforza, regina di Polonia a Isabella d’Este (15 giugno 1523), citata in Luzio - Renier 1986 (fasc. 16 settembre), p. 267.
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La capacità della figura di Isabella d’Este di appropriarsi delle effigi di altre dame del Rinascimento trova ulteriore conferma nel tentativo di alcuni studiosi di identificare il ritratto della marchesa di Mantova eseguito da Leonardo (mai terminato o terminato ma mai consegnato) con il più celebre fra i ritratti leonardeschi dal soggetto non ancora identificato: la Gioconda. È da sottolineare che questo processo di ‘assorbimento’ trovò un terreno particolarmente fertile nella sfera del collezionismo privato: proprio in virtù della notorietà della marchesa, un ritratto di Isabella d’Este dava più lustro alla collezione rispetto a quello di un’anonima dama. Un celebre esempio è quello di Isabella Stewart Gardner, la grande mecenate di Boston che soleva spesso paragonarsi alla Marchesa sua omonima15 e che nel 1896 – su caldo consiglio di Bernard Berenson – sborsò una cifra considerevole per acquistare un presunto ritratto di Isabella d’Este16 (fig. 1).
* * *
Uscendo dal campo dei ritratti veri e propri ed entrando in quello delle raffigurazioni più recenti e delle evocazioni per immagini di Isabella d’Este, è da notare come anche in queste riprese si possano riconoscere i due diversi tipi di iconografia isabelliana: il primo leonardesco con i capelli scesi sulle spalle, il secondo tizianesco con la capigliara. Nessuno dei due tipi è predominante in senso assoluto e il loro alternarsi è stato in 15
A. Chong 2002, intervista rilasciata a Electa in occasione dell’apertura della mostra Cosmè Tura. Painting and design in Renaissance Ferrara (Boston 2002). http://www.electaweb.com/electa/ita/ufficio_ stampa/7-152-1.jsp. 16 Hendy 1974, p. 261.
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passato il sintomo più evidente di una diatriba iniziata sul finire del XIX secolo che ebbe come protagonisti Charles Yriarte e Alessandro Luzio. La lotta fra i due tipi iconografici ebbe inizio nel 1888, quando l’Yriarte pubblicò un articolo sul periodico parigino “Gazzette des Beaux-Arts”, nel quale metteva in relazione il “ritratto a grandezza naturale di una giovane donna vista di busto”, acquistato nel 1860 dal Louvre, con il “retratto al carbono”, eseguito da Leonardo, menzionato nel carteggio di Isabella d’Este (cat. 6). Tale identificazione trovò il suo più accanito avversario in Alessandro Luzio che in due articoli, apparsi uno nello stesso 1888 e uno nel 1913, contestò con forza l’ipotesi e compilò un regesto dei ritratti della Marchesa di Mantova, dimostrando la prevalenza del tipo con capigliara. Nel contempo però Julia Cartwright, pubblicando a Londra la sua famosa biografia su Isabella d’Este (1903), divulgava in apertura del testo una fotoincisione del cartone del Louvre, accompagnata dalla dicitura ‘Isabella d’Este by Leonardo da Vinci’ (fig. 4). L’immagine contribuì notevolmente a diffondere l’immagine del profilo disegnato da Leonardo come effigie di Isabella d’Este. In Italia tuttavia l’auctoritas del Luzio continuava a ‘imporre’ il tipo isabelliano con capigliara. Un effetto dell’auctoritas del Luzio nel campo delle evocazioni per immagini di Isabella d’Este si ritrova nel busto in stucco eseguito da Clinio Lorenzetti attorno al 1929 (fig. 3). Tale opera venne realizzata in occasione del restauro della Sala dei Marchesi del Palazzo Ducale di Mantova, con l’intento di rimpiazzare un busto in stucco, opera di
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Francesco Segala, andato perduto17. Modello per Lorenzetti fu il disegno ‘con capigliara’ conservato agli Uffizi, oggi attribuito al Bachiacca, che il Luzio identificava con il ritratto di Isabella ‘al carbone’ eseguito da Leonardo (fig. 2). Anche Gabriele d’Annunzio, evocando in Forse che sì, forse che no del 1910 “la più elegante dama d’Italia18”, descriveva un’ Isabella d’Este con capigliara, dai capelli “tanto gonfiati a turbante19”. L’immagine della Marchesa costruita ed evocata dal poeta ha come unico referente iconografico – per di più dichiarato – il ritratto di Tiziano (cat. 20), il solo fra gli artisti che ritrassero Isabella a essere menzionato nel romanzo. La preferenza accordata al tipo iconografico tizianesco si pone in forte contrasto con la nota ammirazione di d’Annunzio per Leonardo e costituisce un’ulteriore prova della forte influenza esercitata dagli studi e dalle opinioni di Alessandro Luzio, anche al di fuori dell’ambito specifico degli studi storico-artistici. I taccuini di d’Annunzio riportano peraltro numerose annotazioni su Isabella desunte dall’articolo Il lusso di Isabella d’Este pubblicato dal Luzio in coppia con Rodolfo Renier nel 1896. A ulteriore riprova del debito di d’Annunzio nei confronti di questa fonte, alcune frasi dell’articolo appaiono riversate in maniera pressoché invariata nel testo di Forse che sì, forse che no. Nella seconda metà del XX secolo, in seguito a un indebolimento dell’auctoritas del Luzio, l’iconografia leonardesca desunta del cartone conservato al Louvre cominciò ad avere sempre maggior fortuna anche nel nostro Paese.
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Cottafavi 1929, p. 18. D’ANNUNZIO, p. 556. 19 D’ANNUNZIO, p. 557. 18
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Ne è prova per esempio il busto di Isabella d’Este plasmato da Selvino Sabbadini seguendo l’iconografia leonardesca (fig. 9). La scultura vinse il concorso indetto dal Comune di Mantova nel 1967 e venne esposta per qualche tempo nelle stanze isabelliane del Palazzo Ducale di Mantova. In seguito fu trasferita alla sede del Liceo Socio Psico Pedagogico “Isabella d’Este”, dove si trova tuttora. Negli ultimi decenni dello scorso secolo, la figura di Isabella, soprattutto grazie alle opere letterarie di Maria Bellonci e al succedersi di esposizioni inerenti la corte dei Gonzaga (cfr. capitolo II), venne investita da un’ondata di nuova vitalità: cicli pittorici naif ispirati a Rinascimento Privato20 (fig. 10), ma anche rievocazioni storiche e sfilate in costume rinascimentale sembrano avverare la profezia pronunciata da Ludovico Ariosto: “tal che Parnaso, Pindo ed Elicone / sempre Isabella, Isabella risuone21”. Anche la decima musa non ha mancato di omaggiare l’illustre Marchesa di Mantova: nel 1971 Renato Castellani, nel suo film sulla vita di Leonardo da Vinci, chiamava sulla scena Isabella d’Este, proponendo entrambe le iconografie isabelliane. Ovviamente, però, essendo lo sceneggiato dedicato alla vita di Leonardo, è il tipo desunto dall’opera di questo artista a trovare maggior evidenza e, nell’ultima inquadratura in cui compare la Marchesa di Mantova, il regista arriva a citare direttamente la propria fonte, riproducendo il cartone del Louvre in una sorta di tableau vivant (figg. 5 e 6). Un’altra epifania cinematografica di Isabella d’Este – la prima sul grande schermo – si ritrova in un’inquadratura del film di Ermanno Olmi Il Mestiere delle Armi (2000), in cui si ritrova una sua fugace immagine: in una scena la corte gonzaghesca si trova riunita per un concerto e una 20 21
Bellonci 1986. ARIOSTO, XIX, 29.
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donna anziana dall’aspetto austero appare su un importante scranno posto accanto a quello di Federico II (fig. 7). Questa donna non può essere altri che Isabella d’Este. La figura compare solamente in questa scena e non pronuncia nessuna battuta. Di essa non si fa menzione nemmeno nei titoli di coda. Colei che le fonti dell’epoca indicano come ‘la prima donna del mondo’, sembra essere qui ridotta a comparsa. Ma non è così. Ci troviamo infatti davanti ad una forma particolare di ciò che in gergo cinematografico è denominato cameo appearance, una comparsata d’eccezione, generalmente di un attore famoso: in questo caso invece, è un personaggio illustre (ma che resta elegantemente anonimo) a onorare la scena. Non a caso l’omaggio di Olmi è un omaggio silenzioso. In esso, infatti, è contenuto un anacronismo: Isabella d’Este non era a Mantova in quei momenti cruciali per la storia italiana, si trovava invece a Roma, dove avrebbe vissuto in prima persona i giorni terribili del Sacco del 1527. Di nuovo sul piccolo schermo, nel 2003 Isabella d’Este è interpretata da Natasha Lusenti fra i protagonisti del film-documentario di Vittorio Nevano Degli Dei la memoria e de gli Heroi. Il Palazzo Ducale di Mantova. Oltre a queste rappresentazioni ed evocazioni per immagini, l’effigie di Isabella d’Este ha conosciuto nuova vita anche come simbolo ed emblema di ricercatezza, lusso e qualità: nel 1989 una ditta mantovana sceglieva il nome e il profilo di Isabella d’Este per una linea di biancheria per la casa (fig. 11). Nel medesimo torno d’anni anche un albergo ferrarese a cinque stelle sceglieva la figura dell’Estense per il proprio logo (fig. 12).
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Tante sono le forme dell’effigie di Isabella: ritratto di stato e dono diplomatico, immagine intrisa di valore affettivo, ma anche modello di stile e statua votiva; musa ispiratrice, protagonista di romanzi e personaggio di sceneggiati televisivi, figura storica e letteraria, immagine evocata ed evocativa e, infine, persino logo commerciale. Tutto ciò è ed è stato il ritratto di Isabella d’Este: engramma che col favore di Mnemosyne e delle Muse sfugge di continuo all’attacco dell’oblio.
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Figura 1 – Francesco Torbido, Donna vestita in nero con guanto, 1515 circa, Boston, Isabella Stewart Gardner Museum
Questo ritratto venne venduto ad un’asta milanese il 14 novembre 1895 come opera di Tiziano. Nel marzo del 1896 Isabella Stewart Gardner lo acquistò sul mercato antiquario londinese tramite Bernard Berenson, che lo attribuì a Polidoro Lanzani, raccomandandolo particolarmente come ritratto di Isabella d’Este.
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Figura 2 – Francesco Bachiacca, Ritratto di Dama,1515 circa, Firenze, Galleria degli Uffizi, Gabinetto Disegni e Stampe
Alessandro Luzio, accanito detrattore dell’identificazione del cartone del Louvre (cat. 6) con il ritratto “al carbono” di Isabella d’Este eseguito da Leonardo, propose di identificare l’opera leonardesca in questo disegno.
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Figura 3 – Clinio Lorenzetti, Busto in stucco di Isabella d’Este (ornamentazione architettonica di restauro), 1929 circa, Mantova, Museo di Palazzo Ducale, Sala dei Marchesi
Il busto realizzato da Clinio Lorenzetti in sostituzione di quello andato disperso di mano di Francesco Segala ha per modello iconografico il disegno degli Uffizi identificato da Alessandro Luzio come il ritratto leonardesco di Isabella d’Este.
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Figura 4 – Pagina d’apertura della biografia di Isabella d’Este stesa da Julia Cartwright (Londra 1903). Fotoincisione della ditta Walker & Cockerell riproducente il cartone del Louvre (cat. 6), accompagnata dalla didascalia ‘Isabella d’Este by Leonardo da Vinci’
La biografia di Isabella d’Este scritta da Julia Cartwright contribuì notevolmente a diffondere l’immagine del cartone del Louvre come ritratto di Isabella d’Este. Precedentemente l’opera era nota al pubblico solo tramite l’incisione commissionata dalla Chalcographie du Louvre ad Alphonse Leroy (1865), in cui non veniva fornita nessuna indicazione sul soggetto del ritratto.
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Figura 5 – Bianca Toccafondi nel ruolo di Isabella d’Este (secondo l'iconografia leonardesca), fotogramma dallo sceneggiato televisivo La vita di Leonardo da Vinci, regia di Renato Castellani, Italia 1971
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Figura 6 – Bianca Toccafondi nel ruolo di Isabella d’Este (secondo l’iconografia tizianesca), fotogramma dallo sceneggiato televisivo La vita di Leonardo da Vinci, regia di Renato Castellani, Italia 1971
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Figura 7 – ‘Cameo Appearance’ di Isabella d’Este, fotogramma dal film Il Mestiere delle Armi, regia di Ermanno Olmi, Italia 2000
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Figura 8 – Natasha Lusenti nel ruolo di Isabella d’Este, fotogramma dal film-documentario Degli Dei la memoria e de gli Heroi – Il Palazzo Ducale di Mantova, regia di Vittorio Nevano, Italia 2003
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Figura 9 – S. Sabbadini, Busto di Isabella d’Este (scultura vincitrice del concorso indetto dal Comune di Mantova nel 1967), Mantova, Liceo Socio Psico Pedagogico "Isabella d’Este" Figura 10 – Anselma Ferrari, Ricordo, 1990, dal ciclo pittorico Isabella d’Este, collocazione ignota Figura 11 – Marchio per una linea di biancheria per la casa dedicata a Isabella d’Este, Mantova 1989 Figura 12 – Logo-insegna di un albergo ferrarese intitolato a Isabella d’Este, Ferrara 1995 circa
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II. ISABELLA IN MOSTRA
Quattro sono le mostre che hanno tentato – in maniera più o meno approfondita – di affrontare la questione della ritrattistica di Isabella d’Este. La prima fu la Mostra Iconografica Gonzaghesca, allestita nel Palazzo Ducale di Mantova nel 1937. Già all’epoca il problema del riconoscimento delle effigi della marchesa di Mantova si leggeva chiaro nel discorso inaugurale proferito da Alessandro Luzio alla presenza di Sua Altezza Reale il Principe di Piemonte Umberto di Savoia: Fra i ritratti d’Isabella d’Este, che refrattaria a “posare” ricusò di vedersi effigiata dall’austero Mantenga, mise a dura prova il pennello del Francia, di Leonardo del Costa, del Parmigianino [sic, ma recte Giulio Romano, cfr. cat. 24], di Tiziano e cadde necessariamente più tardi alle carnose esagerazioni del Rubens, qual è l’autentica figurazione più vicina 1
all’originale dell’incomparabile principessa ?
Alla ricerca di questa “autentica figurazione” il comitato esponeva undici ‘ritratti isabelliani’: la moneta-medaglia emessa in occasione delle nozze di Isabella con Francesco II Gonzaga (cat. 2); il ritrattino della collezione di Ambras (cat. 17); una copia cinquecentesca del ritratto di Tiziano conservato al Kunsthistorisches Museum di Vienna (cat. 20); una stampa di Lucas Vosterman da questo stesso quadro (cat. 21); la Dama con ritratto virile del Museo del Castello Sforzesco di Milano (cat. 30); una copia di un ritratto di Paris Bordon conservato all’Ermitage di San Pietroburgo (esposto in maniera dubitativa); il ritratto di Rubens (copia da un originale tizianesco perduto, cat. 22); un’altra copia da questo stesso Tiziano (cat. 23); la Pala della Beata Osanna Andreasi del 1
Luzio 1937, p. XVI.
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Mantova 1937, Mostra Iconografica Gonzaghesca
Bonsignori (cat. 18); la copia fiorentina del cartone leonardesco del Louvre (esposta nonostante il parere negativo del Luzio, cat. 7) e infine un esemplare della medaglia coniata per Isabella da Gian Cristoforo Romano (cat. 3). In mostra era presente anche il frammento modenese della Genealogia dei Principi d’Este, contente una miniatura con il profilo di Isabella infante (cat. 1), tuttavia il codice era aperto a un’altra pagina, per mostrare il ritratto miniato di Margherita Gonzaga, moglie di Leonello d’Este dal 1435 al 1439.
Nel 1975 il Louvre organizzò una mostra intitolata Le Studiolo d’Isabelle d’Este, dedicata principalmente al collezionismo isabelliano, ma con una sezione dedicata anche ai ritratti. Salvo il cartone di Leonardo (cat. 6), in primissimo piano e contrassegnato dal numero 1, e un esemplare della medaglia di Gian Cristoforo Romano di proprietà del Louvre, tutte le altre opere erano presenti in fotografia. Fra esse anche la Gioconda, dal momento che “a partir d’analogies de style et de ressemblance, notamment avec le carton du Louvre (n°1) certains ont cru reconnaître ici le portrait perdu d’Isabelle d’Este peint par Léonard2”. Oltre a queste tre opere, l’esposizione parigina presentava, come si è detto in riproduzione fotografica: il prezioso esemplare della medaglia conservato a Vienna (cat. 4); la Pala della Beata Osanna Andreasi (cat. 18); il ritratto di mano di Tiziano proveniente da Vienna (cat. 20); e il (presunto) ritratto di Giulio Romano proveniente a Hampton Court (cat. 24). A queste immagini isabelliane andavano ad aggiungersi un Portrait de femme, un tempo identificata con Isabella (cat. 29) e il quadro noto come Incoronazione di una dama o Allegoria della Corte di Isabella d’Este (cat. 14), proveniente dallo Studiolo di Mantova, al centro del quale si riconosce un’immagine della Marchesa. 2
Beguin 1975, p. 4.
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Parigi 1975, Le Studiolo d'Isabelle d'Este
Nel 1982 fu il Victoria and Albert Museum di Londra a prendere in considerazione la figura di Isabella d’Este all’interno della mostra
Londra 1982, Splendours of the Gonzaga
Splendours of the Gonzaga. Alla mostra furono esposti: una copia del cartone di Leonardo conservata all’Ashmolean Museum di Oxford (cat. 8); un esemplare della medaglia dalle collezioni del museo che ospitava l’esposizione (cat. 2); il ritratto di Giulio Romano di Hampton Court (cat. 24); il ritratto di Lorenzo Costa, anch’esso da Hampton Court (cat. 16); la Dama del Castello Sforzesco (cat. 30); la Pala della Beata Osanna Andreasi (cat. 18) affiancata da un disegno preparatorio del Bonsignori (cat. 19); anche in questa esposizione venne esibita l’Incoronazione del Louvre (cat. 14).
Nel 1994 fu la volta del Kunsthistorisches Museum di Vienna che, alla mostra “La Prima Donna del Mondo”. Isabella d’Este, Fürstin und Mazenatin der Renaissance, esponeva i ritratti di ‘casa’: quelli di Tiziano
Vienna 1994, “La Prima Donna del Mondo”
(cat. 20) e Rubens (cat. 22); il ritrattino della collezione di Ambras (cat. 17); due esemplari della medaglia di Gian Cristoforo Romano, fra cui quello in oro (cat. 3 e cat. 4); un cammeo in onice con il ritratto di Isabella (cat. 13); l'unico pezzo presente all'esposizione estraneo alle collezioni del museo fu un Lorenzo Costa proveniente dagli Stati Uniti d’America (cat. 15); oltre a questi fu esposta anche l’Incoronazione del Louvre (cat. 14).
Nell’elenco delle esposizioni che in qualche maniera hanno affrontato il complesso problema della ritrattistica isabelliana vanno inserite anche due mostre tenutesi a Mantova, a Palazzo Te: I Gonzaga. Moneta, Arte, Storia (1995) e Gonzaga. La Celeste Galeria. Il museo dei duchi di Mantova (2002). Alla prima furono esposti il ritratto di Tiziano
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Mantova, I Gonzaga. Moneta, Arte, Storia (1995) e La Celeste Galeria (2002)
proveniente da Vienna (cat. 20) e la medaglia di Gian Cristoforo Romano (cat. 3), presente anche nell’esemplare in oro (cat. 4). Alla seconda il ritratto di Rubens (cat. 22) e la versione preziosa della medaglia (cat. 4), entrambi prestiti del Kunsthistorisches Museum di Vienna.
Scorrendo l’elenco di questi dati, ciò che più salta all’occhio è il progressivo restringersi della cerchia dei ritratti isabelliani presenti alle esposizioni: dagli undici pezzi della Mostra Iconografica Gonzaghesca del 1937 ai due della Celeste Galeria del 2002. Il motivo di questa riduzione numerica non va ricercato semplicemente nella difficoltà, oggi soprattutto economica, di ottenere il prestito delle opere. La fossilizzazione della critica sulle posizioni esposte dal Luzio nella sua appendice a La Galleria dei Gonzaga venduta all’Inghilterra nel 1627-28 (1913) e la conseguente assenza di nuovi studi specifici e sistematici sul problema della ritrattistica isabelliana hanno fatto si che gli studiosi e i ricercatori operassero sul corpus di ritratti identificati dal Luzio in maniera non propositiva e addizionale, ma esclusivamente sottrattiva. Da questo punto di vista è da segnalare il fatto che la mostra viennese del 1994 costituisce, a livello museografico, l’unico episodio propositivo: in quell’occasione furono infatti esposti per la prima volta l’intaglio in onice (cat. 13) e il Costa proveniente da Manchester U.S.A. (cat. 15), opere precedentemente mai prese in considerazione dalla critica come effigi isabelliane. La scelta delle opere esposte alla mostra viennese – considerata dalla critica come la mostra su Isabella d’Este più completa, più esaustiva, più curata – presenta tuttavia dei punti oscuri. Se infatti è comprensibile la mancata esposizione del fragile cartone di Leonardo conservato al Louvre (che da quando è entrato nelle collezioni del museo nel 1860 ha lasciato la capitale francese una sola volta, in occasione della mostra Leonardo da Vinci tenutasi a Milano nel 1939), non si giustifica il
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fatto che neppure una delle sue numerose copie – meno fragili e meno preziose – fosse presente alla mostra. Ancora più strano il fatto che la stampa di Lucas Vosterman dal ritratto di Tiziano3 (cat. 21), di cui un esemplare è conservato presso la Biblioteca Nazionale di Vienna, già presentata alla Mostra Iconografica Gonzaghesca del 1937 in quanto elemento chiave per la storia dell’identificazione del soggetto del ritratto, pur essendo a portata di mano rispetto alla sede viennese dell'esposizione non figuri nel novero delle opere esposte. L’unica effigie isabelliana esposta a tutte le mostre prese in esame è, non a caso, la medaglia di Gian Cristoforo Romano, che già ai tempi di Isabella era investita del compito di divulgare l’immagine della marchesa presso le corti d’Italia e d’Europa. Grazie all’iscrizione presente attorno al profilo di Isabella, ISABELLA ESTEN MARC MAN, la medaglia è infatti sempre stata considerata il più autentico ritratto di Isabella. A favore dell’inserimento di questo reperto in tutte le mostre isabelliane ha giocato anche l'elevato numero di esemplari esistenti.
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In realtà la stampa del Vosterman deriva da una copia di Rubens (perduta) dal ritratto di Tiziano.
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Opere presentate alla Mostra Iconografica Gonzaghesca (Mantova 1937) come effigi di Isabella d’Este
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Opere presentate alla mostra Le Studiolo d’Isabella d’Este (Parigi 1975) come effigi di Isabella d’Este
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* Le opere contrassegnate da asterisco furono esposte in riproduzione fotografica.
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Opere presentate alla mostra Splendours of the Gonzaga (Londra 1982) come effigi di Isabella d’Este
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Opere presentate alla mostra “La Prima Donna del Mondo”. Isabella d’Este, Fürstin und Mazenatin der Renaissance (Vienna 1994) come effigi di Isabella d’Este
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Opere presentate alla mostra I Gonzaga. Moneta, Arte e Storia (Mantova, 1995) come effigi di Isabella d’Este
Opere presentate alla mostra Gonzaga. La Celeste Galeria. Il museo dei Duchi di Mantova (Mantova 2002) come effigi di Isabella d’Este
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III. ISABELLA E I SUOI RITRATTISTI
Nella primavera del 1480 Isabella d’Este dei duchi di Ferrara, che all’epoca aveva sei anni, veniva promessa in sposa al quindicenne Francesco Gonzaga, figlio dei marchesi di Mantova. A sigillo del patto nuziale le due corti si scambiarono le effigi dei promessi sposi. L’ambasciatore mantovano a Ferrara, Beltramino Cusatro, inviando il ritratto della principessa estense, così scriveva ai propri signori: Mando madonna Isabella ritrata, aciò che V. S. e D. Francesco possa vedere la effigie sua: ma più è il mirabile intellecto et inzegno suo.
L’opera, non conservata, era stata eseguita da Cosmè Tura, pittore di corte degli Estensi, come testimoniato da un’annotazione dei registri della corte in cui risulta che il 30 maggio 1480 venivano pagati quattro fiorini al pittore “per havere retracta la testa de madonna Isabella”1. Verosimilmente, nei dieci anni che intercorsero fra i patti nuziali e il matrimonio, altre effigi isabelliane – di cui non si conserva traccia – vennero inviate a Mantova. Così il ritratto di Isabella fece ingresso nella corte gonzaghesca ancor prima della principessa in persona.
Quando, nel febbraio del 1490, Isabella giunse a Mantova come sposa di Francesco II Gonzaga e nuova marchesa della città, l’artista ufficiale della corte era, già dal 1456, il padovano Andrea Mantegna. Al momento delle nozze il pittore si trovava però lontano dalla corte gonzaghesca: dal 1488 si era infatti trasferito a Roma, per eseguire alcuni lavori commissionatigli da papa Innocenzo VIII. Il pittore avrebbe fatto ritorno a Mantova solo nel settembre del 14902.
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Luzio 1913, pp. 185-186. Bätzner [1998] 2000, pp. 88, 94.
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I. Isabella e Andrea Mantegna
Al 1493 risale la commissione all’artista di un ritratto da parte di Isabella. L’opera era stata promessa in dono dalla Marchesa alla Contessa di Acerra, in cambio di un ritratto di quest’ultima. Il risultato dell’operato del Mantegna ebbe un esito inaspettato. Il 20 aprile Isabella scriveva all’amica comunicandole che: Dolne sommamente che non gli potiamo mandare al presente el nostro retracto, perché el pictore ne ha tanto mal facta che non ha alcuna de le nostre simiglie; havemo mandato per uno forestere, qual ha fama de contrafare bene el naturale; facto chel sarà lo manderemo subito a la S. V. quale non se scorderà in questo mezo che siamo tuta sua.3
Il pittore “forestere” a cui Isabella affidò il proprio ritratto fu Giovanni Santi, padre di Raffaello, “pictore de la Ill.ma Duchessa di Urbino” Elisabetta Gonzaga. Il ritratto del pittore urbinate non è conservato. Per quanto riguarda Mantegna, la cui pittura era legata a una rappresentazione del reale troppo lontana dalle esigenze e dalle aspettative di Isabella, la prova mal riuscita gli costò l’interdetto della Marchesa, che mai più volle essere ritratta da lui. La decisione fu ferrea: Isabella si rifiutò di posare anche per la grande pala votiva nota come la Madonna della Vittoria (fig. 13) dove, secondo il progetto iconografico steso dal religioso Girolamo Redini (agosto 1495) sarebbero dovuti apparire inginocchiati ai lati della Madonna da una parte Francesco II Gonzaga “armato commo capitano vittorioso” e dall’altra la “Ill.ma Consorte”4. Il pittore dovette ovviare all’assenza della Marchesa (la cui figura, come s’è visto, era prevista nel progetto originario della pala) con un 3
Lettera di Isabella d’Este alla Contessa di Acerra (20 aprile 1493), citata in Luzio 1913, p. 189. 4 Lettera di Girolamo Redini a Francesco II Gonzaga (agosto 1495), citata in Luzio 1899, p. 360.
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espediente: fra i santi Andrea, Longino, Michele e Giorgio, tutti legati a virtù guerriere o alla città di Mantova, Mantegna raffigurò, inginocchiata al posto che sarebbe spettato a Isabella, Sant’Elisabetta, la santa eponima della Marchesa5. È qui importante sottolineare che il giudizio negativo e il conseguente rifiuto di Isabella non si basano sull’abilità pittorica dell’artista, ma, appunto, sul suo modo di raffigurare – e non contraffare – il naturale. A riprova di ciò sta il fatto che la Marchesa scelse comunque Mantegna per farsi rappresentare, o meglio evocare, simbolicamente nelle tele a lui commissionate per lo Studiolo a partire dal 1498. Spinta dal desiderio di proporre un’immagine di sé più corrispondente ai canoni di una bellezza cortigiana, Isabella si rivolse quindi ad altri artisti.
È il caso, per esempio, dello scultore e medaglista Gian Cristoforo Romano, non a caso presente tra i personaggi dei dialoghi urbinati raccontati da Baldassarre Castiglione nel suo Libro del Cortigiano. Isabella conobbe il Romano alla corte della sorella minore, Beatrice d’Este, moglie di Ludovico il Moro dal 1491, di cui lo scultore realizzò all’epoca del matrimonio un busto marmoreo oggi conservato al Louvre (fig. 14). Fu con ogni probabilità la visione di quest’opera che spinse Isabella a richiedere insistentemente alla sorella e al Moro un ‘prestito’
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Bätzner [1998] 2000, p. 98. Il nome Isabella deriva dalla versione spagnola del nome Elisabetta. Significativo da questo punto di vista il fatto che Sant’Isabella del Portogallo (1271-1336), principessa della famiglia d’Aragona, sia indistintamente chiamata ora Isabella ora Elisabetta. A riprova dell’interscambiabilità dei due nomi anche una serie di quadri devozionali fiamminghi in cui le donatrici, pur chiamandosi Isabella, vengono presentate da Sant’Elisabetta. Il nome Isabella venne introdotto nel casato estense da Eleonora d’Aragona, madre di Isabella d’Este, che chiamò con questo nome d’ascendenza aragonese (quindi spagnola) la propria primogenita.
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II. Isabella e Gian Cristoforo Romano
del loro scultore6. In quel periodo, tuttavia, Gian Cristoforo era impegnato presso gli Sforza nell’esecuzione della tomba di Gian Galeazzo Visconti alla Certosa di Pavia; ad ogni modo promise di recarsi a Mantova appena fosse stato in grado di lasciare il lavoro in mano ai suoi assistenti. Dopo la morte di Beatrice d’Este e la conclusione della tomba del Visconti (1497) Gian Cristoforo Romano si stabilì quindi alla corte dei Gonzaga, dove rimase fino al 1505, anno in cui si trasferì a Roma, restando comunque in contatto con Isabella d’Este. Durante il soggiorno mantovano eseguì numerose opere per la Marchesa, fra cui le più note sono la medaglia (cat. 3), l’immagine ufficiale di Isabella, e la porta marmorea dello Studiolo. Nel carteggio fra lo scultore e Isabella si fa menzione anche di un busto marmoreo, di cui si è tentato di riconoscere uno studio preparatorio nella scultura in terracotta già nella collezione Thyssen-Bornemisza (cat. 5). Al Romano si ascrivono anche i busti in terracotta del Marchese Francesco II Gonzaga (fig. 15) e del nobile mantovano Girolamo Andreasi (fig. 16). In marmo invece il busto di Federico Gonzaga, figlio di Isabella d’Este, ritratto all’età di cinque anni circa (fig. 17)7. Sempre alla corte sforzesca avvenne l’incontro tra Isabella e Leonardo da Vinci. Le fonti ci forniscono la data precisa di questo incontro, tuttavia sappiamo con precisione che nel 1498 Isabella prese in considerazione la possibilità di farsi ritrarre da Leonardo. Il 26 aprile, infatti, la Marchesa di Mantova così scriveva a Cecilia Gallerani, la celebre Dama con l’ermellino (fig. 18): Essendone hogi accaduto vedere certi belli retracti de man de Zoanne Bellino siamo venute in ragionamento delle opere de Leonardo cum 6 7
Venturi 1888b, p. 52. Radcliffe - Baker - Gérard 1992, pp. 71-73.
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III. Isabella e Leonardo da Vinci
desiserio de vederle al paragone di queste havemo, et ricordandone che’l v’ha retracto voi al naturale vi preghiamo che per il presente cavallaro, quale mandiamo a posta per questo, ne vogliati mandare esso vostro retracto, perché ultra ch’el ne satisfarà al paragone vedremo anche volentieri il vostro volto et subito facta la comparazione vi lo rimetteremo.8
Cecilia Gallerani rispondeva a Isabella tre giorni dopo, il 29 aprile 1498: Ill.ma et Ex. ma D. ma mea hon. ma, ho visto quanto la S.A.V. a me ha scripto circa ad aver caro de vedere el ritratto mio, qual mando a quella, et più voluntiera lo manderia quando assomigliasse a me, et non creda già la S.aV. a che proceda per difecto del maestro che in vero credo non se trova allui paro, ma solo e per esser fatto esso ritratto, in una età si imperfecta che io poi ho cambiato tutta quella effigie, talmente que vedere esso et me tutto insieme non è alchuno che giudica esser fatto per me. Tuttavolta la S. a V. a prego ad aver caro el mio bon vollere, chè non solo el ritratto ma io sono aparechiata ad far magior cosa per compiacere a quella, alla quale sono deditissima schiava et infinite volte me le raccomando9.
Non ci sono fonti d’archivio che riportino l’esito del confronto fra i ritratti di Giovanni Bellini e quello di Leonardo operato da Isabella, tuttavia i fatti che seguirono non lasciano ombra di dubbio: il ritratto di Cecilia Gallerani, che Isabella restituiva un mese dopo, aveva spinto la marchesa a scegliere per il proprio ritratto la mano di Leonardo.
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Lettera di Isabella d’Este a Cecilia Gallerani (26 aprile 1498), citata in Venturi 1888a, p. 45. 9 Lettera di Cecilia Gallerani a Isabella d’Este (29 aprile 1498), citata in Beltrami 1919, p. 51.
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L’occasione per realizzare l’opera si presentò alla fine dell’anno seguente, nel dicembre del 1499, quando Leonardo, in fuga dai Francesi che avevano espugnato Milano, cercò rifugio alla corte dei Gonzaga. L’artista si trattenne a Mantova fino al febbraio seguente. Durante questo periodo egli eseguì due schizzi con il ritratto di Isabella (cat 6). Uno di essi rimase nelle mani della Marchesa, l’altro invece restò a Leonardo, che lo portò con sé a Venezia, con la promessa di colorirlo. A Venezia Leonardo incontrò Lorenzo da Pavia, corrispondente di Isabella, che così scriveva alla Marchesa il 13 marzo 1500: E l’è a Venecia Lionardo vinci el quale m’à mostrato uno retrato de la Signoria Vostra che è molto naturale a quela. Sta tanto bene fato, non è posibile farlo melio. Non altero per questa. De contenuo a quela me racomando. Vostro servo Lorenzo da Pavia in Venecia10.
Nel marzo del 1500 quindi, il disegno di Leonardo, che Isabella ebbe a definire “schizo del retracto nostro”, veniva già considerato “uno retrato de la Signoria Vostra che è molto naturale a quela. Sta tanto bene fato, non è posibile farlo melio”. Tuttavia Leonardo tenne questo ritratto “tanto bene fato” per sé e non lo inviò alla Marchesa, che ne possedeva già una copia “de carbono”. Questa copia venne però data in dono a un ignoto destinatario da Francesco II Gonzaga. Isabella, allora, dimostrando di considerare il disegno come opera in sé conclusa, il 27 marzo 1501 scrisse al suo agente in Firenze, Pietro da Novellara, affinché prendesse contatti con Leonardo. Frati Pietro de Nuvolaria R.me. Se Leonardo Fiorentino pictore si ritrova lì in Fiorenza pregamo la R.P.V. voglia informarse che vita è la sua, cioè se l’à dato principio ad alcuna 10
Lettera di Lorenzo da Pavia a Isabella d’Este (13 marzo 1500), citata in Brown Lorenzoni 1982, p. 51.
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opera, como n’è stato referto aver facto et che opera è quella, et se crede che il debba fermarse qualche tempo lì, tastandolo poi V.R. como sa lei se l’pigliaria imprese de farme uno quadro nel nostro studio, che quanto se ne contentasse, remetessimo le inventione et il tempo in arbitrio suo, ma quando la lo si ritrovasse retinente vedi almancho dei indurlo a farne un quadretto de la Madonna devoto e dolce como è il suo naturale. Apresso la pregherà ad volerne mandare uno altro schizo del retracto nostro, parrochè il Ill.mo S. nostro consorto ha donato via quello che ce lassò qua11.
Sette giorni dopo, Pietro da Novellara così rispondeva ad Isabella: Ill.ma et Ex.ma D.na etc… Hora ha avuto di V.a Ex.a et farò cum omni celerità et diligencia quanto quella mi scrive: ma per quanto occorre, la vita di Leonardo è varia e indeterminata sorte, si che pare vivere a giornata. Ha fatto solo dapoi che è a Firence uno schizo in uno cartone. Finge uno Christo bambino de età cerca de un anno che uscendo quasi de bracci ad la mamma, piglia uno agnello e pare che lo stringa12.
Leonardo promise a Pietro da Novellara di assecondare la volontà della Marchesa, "in riconoscenza della umanità che aveva usato verso lui a Mantova". Non ci è dato sapere se Leonardo mandasse ad Isabella lo schizzo da lei richiesto. Sappiamo invece che nel 1504, il 14 maggio, Isabella scrisse di persona a Leonardo, ricordando al pittore il debito che aveva nei suoi confronti: M. Leonarde, Intendendo che seti in Fiorenza siamo entrate in speranza de poter consequire quel che tanto havemo desiderato, de havere qualche cosa de
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Lettera di Isabella d’Este a Pietro da Novellara (27 marzo 1501), citata in Venturi 1888a, p. 45. 12 Lettera di Pietro da Novellara a Isabella d’Este (3 aprile 1501), citata in Venturi 1888a, p. 46.
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vostra mano; quando fusti in questa terra et che ne retrasti de carbono ne promettesti farni ogni mo’ una volta di colore. Ma perché questo seria impossibile non havendo vui comodità di trasferirvi in quà vi preghiamo che volendo satisfare a l’obligo de la fede che haveti cum noi voliati convertire el retratto nostro in un’altra figura che ne sarà anchor più grata, cioè farni un Christo giovenetto de anni circa duodeci, che seria de quella età che l’haveva quando disputò nel tempio et facto cum quella dolcezza et soavità de aiere che haveti per arte particulare in excellentia13.
A questo punto si interrompono le notizie di archivio riguardo al ritratto di Isabella eseguito (o non eseguito) da Leonardo. Riassumendo i dati che emergono dal carteggio troviamo quindi una conferma sicura dell’esistenza di due schizzi eseguiti da Leonardo nel 1500, una notizia riguardo a una terza copia richiesta da Isabella nel 1501 (probabilmente eseguita) e la rinuncia di Isabella alla versione completa del ritratto, ascrivibile al 1504. Nel torno d’anni in cui si svolgono i rapporti fra Leonardo e la Marchesa appena analizzati, le commissioni artistiche di quest’ultima riguardano principalmente opere per lo Studiolo: è questo infatti il periodo dei primi contatti con Pietro Perugino, Giovanni Bellini e Lorenzo Costa. Quest’ultimo in particolare fu l’unico pittore di cui Isabella si servì sia come ritrattista che come illustratore di allegorie per lo Studiolo. I primi contatti fra Isabella e il pittore ferrarese risalgono al 1504. All’epoca l’artista risedeva da tempo a Bologna, dove operava al servizio dei Bentivoglio. La prima opera che il Costa eseguì per Isabella fu L’Incoronazione oggi al Louvre (cat. 14). La tela, commissionata dalla Marchesa stessa, venne però pagata da Anton Galeazzo Bentivoglio e ‘donata’ alla Marchesa in cambio dell’accoglienza a Mantova della 13
Lettera di Isabella d’Este a Leonardo da Vinci (14 maggio 1504), citata in Venturi 1888a, p. 46.
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IV. Isabella e Lorenzo Costa
sorella Violante, bisognosa di un trasferimento perché afflitta da una malattia nervosa14. Se l’esecuzione materiale dell’opera avvenne a Bologna, il progetto iconografico è comunque diretta emanazione della corte gonzaghesca di Mantova. La tela è peraltro l’unica, fra quelle dello Studiolo, in cui la Marchesa viene raffigurata direttamente e non evocata per mediazione allegorica. I contatti con i Gonzaga in relazione all’esecuzione dell’Incoronazione di Isabella d’Este tornarono utili al pittore dopo i tragici eventi del 1506, annus horribilis che segnò la capitolazione e la disfatta dei Bentivoglio, fino ad allora signori di Bologna. Il Costa si trasferì infatti presso la corte mantovana, dove andò ad occupare il posto di pittore di corte, in luogo del defunto Mantegna15. Fortemente convinta della maniera costesca, caratterizzata da una forte idealizzazione dei soggetti, in cui le sembianze sono rese secondo una tipologia ritrattistica sovraindividuale quasi indifferente alla resa puntuale dei tratti fisionomici16, Isabella si fece ritrarre dal pittore nel 1508, dimostrando grande entusiasmo per l’opera realizzata dall’artista conterraneo. Il 29 giugno 1508, infatti, la Marchesa scriveva a Gian Jacopo Calandra chiedendo al letterato un distico da apporre al ritratto. E ancora, nel novembre dello stesso anno, le lodi dell’opera del Costa pronunciate alla corte degli Estensi fecero sì che Isabella mandasse un corriere da Ferrara – dove si trovava – a Mantova, per andare a prendere il quadro che desiderava mostrare ai famigliari17. Il ritratto di Isabella d’Este dipinto da Lorenzo Costa (cfr. cat. 15 e cat. 16) rappresentò la realizzazione di quell’immagine di sé che la Marchesa andava da tempo cercando e che precedentemente aveva trovato un 14
Negro - Roio 2001, p. 123. Luzio 1913, p. 210. 16 Negro - Roio 2001, p. 39. 17 Luzio 1913, p. 205. 15
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riscontro solo nell’immagine ‘all’antica’ della medaglia di Gian Cristoforo Romano. Il ritratto costesco di Isabella, divenuto l’immagine ufficiale della Marchesa, fu più volte replicato e copiato. Una copia venne da lei inviata insieme al ritratto della figlia al marchese Francesco Gonzaga al tempo della sua prigionia a Venezia. Entrambi i quadri restarono nella città lagunare dove vennero visti da Marcantonio Michiel nel 1525 in casa di Girolamo Marcello a San Tomà: El retracto de Madama Marchesana de Mantoa et de Madama sua fiola, furono de man de Lorenzo Costa, mandati a Venezia al Signor Francesco, allora che l’era preson in torresella18.
Ancora nel 1514 una copia del ritratto di Isabella eseguito dal Costa veniva inviata alla corte londinese di Enrico VIII19. Sempre al Costa va attribuito il “ritratto della marchesa Isabella” presente nell’inventario dei beni dei Gonzaga venduti all’Inghilterra nel 1627 20. Lo stesso ritrattino di Ambras (cat. 17) sembra esemplato su un modello costesco. Va menzionata anche una delle scene realizzate per la decorazione del Palazzo di San Sebastiano, nella cosiddetta Camera del Costa, una sorta di variazione sul tema dell’Incoronazione del Louvre in cui ‘è la Marchesa Isabella ritratta al naturale, che ha seco molte signore, che con varij suoni cantando fanno dolce amonia’21 (Vasari). Per quanto riguarda il Presepe, inviato come omaggio diplomatico alla regina di Francia Anna di Bretagna nel 1510 – variamente identificato dalla critica – di cui la regina ebbe a dire che “assomigliava molto il volto della Madonna dal vostro [cioè a quello di Isabella] et quello de N. 18
Marcantonio Michiel, citato in Luzio 1913, p. 209. Luzio 1913, p. 208. 20 Luzio (1913, p. 230) parla di un ritratto “con ornamento di note” che identifica con le pause dell’impresa isabelliana. Morselli (2000, p. 278) riporta invece “con ornamento di noce”. 21 VASARI, p. 134. 19
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S. al vostro primogenito et quello de San Joseph allo S. Vostro consorte perché aveva la barba22”, è da scartare l’ipotesi che si tratti di un ritratto di Isabella d’Este ‘in veste di Madonna’. La somiglianza fra il volto di Maria e quello di Isabella è infatti dovuta all’utilizzo da parte di Lorenzo Costa di un’iconografia fissa per la realizzazione dei volti femminili, anche nel caso dei ritratti. Verosimilmente la regina di Francia conosceva una delle varianti del ritratto costesco della Marchesa (che come s’è detto ne rappresentava l’immagine ufficiale) e, comparandolo con il Presepe ricevuto in dono del Costa, ravvisò la somiglianza fra i due volti proprio perché afferenti entrambi a quella tipologia ritrattistica sovraindividuale tipica della maniera costesca. Pur essendo soddisfatta in sommo grado dell’opera del Costa, ormai 23
“pittore primero” e “honorato cortigiano ” della corte gonzaghesca, Isabella non disdegnò di chiedere un ritratto anche al pittore e orefice bolognese Francesco Francia, con cui era in contatto dal 1505 per una tela (mai realizzata) per lo Studiolo24. La commissione del ritratto risale al 1511 e segue di un anno quella del ritratto del figlio di Isabella, Federico (fig. 19), fatto eseguire al Francia mentre il marchesino era sulla via per Roma, dove era stato inviato quale ospite-ostaggio di Giulio II25. Tuttavia, venutale “tanto in fastidio la patientia di star ferme e immote”, Isabella decise di non posare per il pittore e inviò alla sorellastra Lucrezia d’Este Bentivoglio un proprio ritratto, verosimilmente del Costa. Il Francia quindi, senza spostarsi da Bologna, avrebbe dovuto realizzare un ritratto in absentia della Marchesa, ricodificando un’immagine già esistente – e quindi già ‘approvata’ – anche secondo le indicazioni di 22
Lettera di Jacopo d’Atri a Isabella d’Este (6 giugno 1510), citata in Negro - Roio 2001, p. 162. 23 EQUICOLA 1521, IV, n. 25; Negro - Roio 1998, p. 155. 24 Negro - Roio 1998, p. 84. 25 Negro - Roio 1998, p. 84.
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V. Isabella e Francesco Francia
Lucrezia che aveva “tanto bene impressa” l’immagine della sorella, da poter “emendare dove il maestro mancasse26”. L’operazione si avviò non senza di difficoltà, come attestato dalla lettera di Lucrezia datata 7 settembre 1511: Ill.ma Ex.ma D.na et soror hon.ma, Gli di proximi andai studiosamente a casa del Francia pictore, per veder al suo natural quanto rasimigliava lo retracto a V.Ex. facto di sua mano. Dirò il vero senza assentatione, non mi pareva havere con essa similitudine alcuna, mostrando più saturna, più scarna, altro essere, altra effigie che de V. Ex. Et in quanto mi rapresentava la immaginativa natural il fece advertito in tutto quel che mi pareva mancare, exhortandolo per l’honor suo et contento mio ad trasferirse insin ad Mantoa per vedere la viva immagine de V. Ex aciò il suo somigliante retracto paresse el suo natural vivente, ma non gli puotè persuader tanto che mi promettesse volere il fare, con dire che era troppo pericoloso mettersi a tal paragono più presto de fortuna che da arte in voler fare uno natural retracto. Ben mi disse di nuovo il voleva riformare; et poi mutarlo et rimutarlo secondo el judicio mio; et poteria essere che gli darà magior similitudine; ma non vedendo V.Ex. quasi mi dubito non gli sarà tanto simile che se gli rasimiglie naturalmente. Io non mancherò de diligentia né de sollecitudine in persuadere che venga ad vedere Mantova27.
Isabella tuttavia rifiutò di far venire il Francia a Mantova, anche per non indispettire Lorenzo Costa, pittore ‘rivale’ del Francia28. Alla fine, il ritratto dipinto in absentia da Francesco Francia ottenne l’esito desiderato, e il 6 novembre partiva da Bologna alla volta di Mantova, insieme al quadro che era servito da modello. Il 25 novembre Isabella, ricevuto il ritratto, così scriveva al pittore: 26
Luzio 1913, p. 210. Lettera di Lucrezia d’Este Bentivoglio a Isabella d’Este (7 settembre 1511), citata in Negro - Roio 1998, p. 117. 28 Luzio 1913, p. 211. 27
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M.ro Francia. Havemo recevuto il retratto che ni aveti mandato et ciascun che l’ha veduto può molto ben judicare chel sij derivato deli mani vostre perché è in summa excellentia et nui conoscemo haverine grandissimo obligo per haverni satisfacte, et avendoni vui cum l’arte vostra facta assai più bella che non ni ha facto natura, ringratiamovine quanto più potemo. Quanto più presto ni sij data la comodità de qualche messo fidele satisferemo al debito nostro con effecti ultra l’obligo che sempre vine volemo havere, et ali piaceri vostri ni offerimo paratissime29.
Nonostante questi elogi, Isabella avrebbe voluto inviare il quadro nuovamente a Bologna, chiedendo al pittore di “commutar gli occhi da nigri in bianchi30”, tuttavia il Francia fece sapere che l’operazione sarebbe stata delicata e laboriosa, e che la superficie del quadro avrebbe presentato traccia del rifacimento. L’intento venne quindi abbandonato31. Poche settimane dopo il ritratto eseguito dal Francia fu donato da Isabella al gentiluomo ferrarese Gian Francesco Zaninello. L’anno seguente anche il ritratto franciano di Federico Gonzaga bambino giungeva in dono allo Zaninello, che era solito paragonare le due immagini a “Venere e Cupidine32”. Anni dopo Isabella chiese in prestito agli eredi del notabile ferrarese il proprio ritratto, perché Tiziano potesse utilizzarlo a sua volta come modello per un nuovo quadro (cfr. cat. 20).
I rapporti tra la Marchesa e Tiziano si collocano nel panorama più ampio delle commissioni delle corti di Mantova e Ferrara al pittore cadorino. La prima attestazione del nome del Vecellio nel carteggio isabelliano risale 29
Lettera di Isabella d’Este a Francesco Francia (25 novembre 1511), citata in Negro Roio 1998, p. 118. 30 Lettera di Lucrezia d’Este Bentivoglio a Isabella d’Este (9 dicembre 1511), citata in Luzio 1913, p. 213. 31 Negro - Roio 1998, p. 118. 32 Lettera di Gian Francesco Zaninello a Isabella d’Este (30 maggio 1912), citata in Negro - Roio 1998, p. 118.
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VI. Isabella e Tiziano
al 1519. All’epoca il pittore, al servizio del fratello di Isabella, Alfonso duca di Ferrara, visitò lo Studiolo in compagnia di Dosso Dossi. Ne offre testimonianza una lettera, datata 22 novembre, indirizzata da Girolamo Sestola a Isabella, in quei giorni lontana dalla corte: Ill.ma Sigra mia. A li dì passati quando se doveva combattere, M.o Dosso e Ticiano bon pittore quale fa a Ferara al S.r Ducha una bela tela forono a Mantova et à veduto le cosse del Mantegna e ne dise gran bene al S.re, e li à laudati li vostri studij et li ha laudato somamente el vostro tundo per el più belo chel vedese mai, el S.re n’à ancora lui uno ma dise Ticiano el vostro non à parango.33
Il fatto che il Sestola debba informare Isabella su chi sia Tiziano e cosa faccia, lascia supporre che prima del 22 novembre 1519 nessun rapporto fosse intercorso fra il pittore e la Marchesa. Eccezion fatta per alcune trattative nel 1523 circa l’acquisto di un dipinto che però non ebbero esito, i rapporti fra Isabella e Tiziano si interrompono fino al 1530, quando, a seguito della commissione al Vecellio dei Dodici Cesari da parte del figlio Federico, la Marchesa decise di farsi ritrarre dal pittore (ma non è da escludere l’ipotesi che il ritratto sia stato commissionato da Federico stesso). Riguardo questo ritratto di Isabella, eseguito quando la Marchesa aveva cinquantasei anni, le uniche testimonianze d’archivio note sono quelle legate alla vendita, insieme al resto della collezione Gonzaga, al Carlo I d’Inghilterra. L’opera è perduta e ad oggi è nota solo attraverso due copie, una di scuola di Tiziano conservata in una collezione privata (cat. 23), l’altra di Rubens, la cosiddetta Isabella in Rosso di Vienna (cat. 22) 34.
33
Lettera di Girolamo da Sestola a Isabella d’Este (22 novembre 1519), citata in Bodart 1998, p. 186. 34 Bodart 1998, p. 18.
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Più note, invece, le dinamiche della commissione del ritratto ‘retrospettivo’ chiesto da Isabella a Tiziano nel 1534 e consegnato nel 1536. L’opera venne eseguita prendendo a modello il ritratto in absentia eseguito da Francesco Francia, probabilmente esemplato su un modello costesco. Isabella chiese il dipinto in prestito agli eredi di Gian Francesco Zaninello, a cui lo aveva donato nel 1511. L’opera venne inviata in laguna, dove restò per tre anni nell’atelier del pittore. Ispirandosi all’opera del Francia, Tiziano dipinse un’Isabella del tutto ringiovanita, acconsentendo anche al desiderio della Marchesa di “commutar gli occhi da nigri in bianchi”. Come dell’opera del pittore bolognese, che l’aveva ‘facta assai più bella che non ni ha facto natura’, anche del ritratto di Tiziano Isabella ebbe a dire “dubitiamo di non esser stata in quell’etade ch’egli rappresenta di quella beltà che in sé contiene”35. Con quest’opera ibrida e retrospettiva, che mostra un’Isabella ventenne vestita secondo la moda da lei lanciata quando di anni ne aveva quaranta, si conclude la serie dei ritratti della marchesa di Mantova (per lo meno quelli eseguiti finché era in vita). Probabilmente molti di essi – soprattutto questo di Tiziano e quello del Francia, eseguiti entrambi in absentia – erano senza “alcuna de le simiglie” di Isabella, al pari del ritratto rifiutato al Mantegna. Alle effigi che la rappresentano probabilmente più bella di quanto non l’avesse fatta Natura la Marchesa affidò la continuazione della sua gloria terrena, “per vivere dopo morte”. Come voleva Isabella, molti di questi ritratti reali, idealizzati o immaginari, si sono felicemente conservati fino ai nostri giorni, e disseminati in tutto il mondo, dalle sedi museali più prestigiose alle piccole collezioni private, perpetuano la memoria del volto della Signora del Rinascimento. 35
Lettera di Isabella d’Este a Benedetto Agnello (29 maggio 1536), citata in Bodart 1998, p. 300.
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Figura 13 – Andrea Mantegna, Pala della Vittoria, 1496, Parigi, Musée du Louvre
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Figura 14 – Gian Cristoforo Romano, Beatrice d’Este, 1491, Parigi, Musée du Louvre
53
Figura 15 – Gian Cristoforo Romano, Francesco II Gonzaga, 1498 circa, Mantova, Palazzo Ducale
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Figura 16 – Gian Cristoforo Romano, Girolamo Andreasi, 1500-1505, Firenze, Museo Bardini
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Figura 17 – Gian Cristoforo Romano, Federico Gonzaga, 1505 circa, Venezia, Ca’ D’Oro
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Figura 18 – Leonardo da Vinci, La dama con l’ermellino (Ritratto di Cecila Gallerani), 1490 circa, Cracovia, Museo Czartoryski
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Figura 19 – Francesco Francia, Ritratto di Federico Gonzaga, 1510, New York, Metropolitan Museum
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IV. LE ACCONCIATURE DI ISABELLA D’ESTE
Nell’ambito degli studi sulla ritrattistica di Isabella d’Este, lo sguardo dei critici ha spesso trovato un elemento prezioso per l’economia delle loro indagini nell’analisi delle fogie da testa della Marchesa. Significativa da questo punto di vista è un’affermazione di Alessandro Luzio relativa alla capigliara: I ritratti della prima metà del Cinquecento, ove s’incontri quella “fogia de testa” hanno qualche diritto, per ciò solo, ad essere presi in considerazione come possibili raffigurazioni della Marchesa di Mantova; prescindendo pure da piccole o grandi divergenze fisionomiche1.
La capigliara, in virtù dell’auctoritas di questa affermazione del Luzio, è diventata una sorta di attributo iconografico di Isabella d’Este: come suggeriva lo studioso, infatti, ritratti di dame dai tratti diversissimi, per il solo motivo di indossare questa acconciatura, sono stati considerati ‘ritratto di Isabella d’Este’. In realtà il repertorio delle conzature da testa della Marchesa comprende anche altre tipologie, testimoniate puntualmente da documenti letterari, d’archivio e iconografici. Il bel busto in terracotta eseguito da Gian Cristoforo Romano (cat. 5), ad esempio, riprende in maniera puntuale la descrizione dell’acconciatura di Isabella riportata da Gian Giorgio Trissino nei suoi Ritratti: Ella aveva i capegli in capo diffusi, in guisa che sopra i candidi e dilicati umeri ricadeano, e questi tutti erano raccolti in una rete di seta di color tané, con maestrevole artificio lavorata, i groppi de la quale mi pareano essere di finissimo oro, e fra mezo le maglie di questa rete, le quali erano alquanto larghette vi si vedeano scintillare i capegli, i quali, quasi raggi
1
Luzio 1913, p. 228.
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del sole che uscissero, risplendevano d’ogni intorno. Ne la sommità poi de la fronte, dove questi in due parti si divideno, vi aveva un bellissimo e fiammeggiante rubino, dal quale una lucidissima e grossa perla pendeva2.
L’acconciatura qui descritta, con i capelli sciolti sulle spalle, bipartiti da una scriminatura centrale, con velo sulla parte posteriore del capo e lenza sulla fronte, è documentata in una serie di ritratti di dame dell’alta società padana degli anni a cavallo fra il XV e il XVI secolo (cfr. Tavola Acconciature I). A questa tipologia si accomuna l'acconciatura documentata dal cartone di Leonardo (cat. 6), in cui il velo, più sottile e trasparente, non è trattenuto sulla parte posteriore del capo, ma copre tutta la testa. Contemporanea è l’acconciatura a coazon, moda importata dalla Spagna negli anni settanta del Quattrocento e perdurata fino a tutto il primo decennio del secolo successivo, attestata nei ritratti costeschi (cat. 15 e cat. 16). Questa pettinatura prevede che i capelli, divisi da una scriminatura centrale, siano trattenuti da una cuffia preziosa aderente al capo sulla parte posteriore della testa, da cui poi fuoriescono intrecciati a nastri e fili di perle all’altezza della nuca. Nel caso dell’acconciatura a coazon possono essere presenti anche pendagli preziosi appesi alla lenza ai lati del capo (cfr. Tavola Acconciature II). Accanto a queste acconciature alla moda vanno ricordate quelle inventate da Isabella stessa, come quelle che sfoggiò nel 1502, in occasione delle nozze del fratello Alfonso con Lucrezia Borgia, ispirate a quelle raffigurate su antiche monete romane3. Anche l’elaborata acconciatura presente nella medaglia di Gian Cristoforo Romano (cat. 3), che sembra
2 3
TRISSINO (ed. 1729), pp. 272-273. Pizzagalli 2001, p.163.
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riproporre in forma di pettinatura la corona d’alloro degli imperatori romani, si ispira alla monetazione imperiale antica4. La Pala della Beata Osanna Andreasi (cat. 18), conservata presso il Palazzo Ducale di Mantova, offre una preziosa documentazione iconografica per l’indagine sull’abbigliamento della Marchesa di Mantova. Il dipinto, infatti, mostra Isabella vestita a lutto (l’esecuzione della Pala è da ascrivere a una data successiva al 24 Marzo 1519, giorno della morte del marchese Francesco II Gonzaga)5. Nel dipinto il capo della Marchesa è coperto da un velo giallo, secondo la consuetudine del lutto femminile del tempo6. Già anni prima, più precisamente nel 1493, in occasione del lutto per la morte della madre, Eleonora d’Aragona, Isabella si era fatta mandare da Milano dei “veli de bambace da portare in testa”7. Come risulta dallo scambio epistolare con il corrispondente mantovano alla corte degli Sforza8, questi veli da lutto potevano essere di tre colori: bianchi, grigi o, come nel caso dell’opera in questione, gialli. Per quanto riguarda la capigliara, la particolare acconciatura a ciambella a metà fra il balzo quattrocentesco e la parrucca, formata da capelli veri, ciocche posticce, galloni, fili di perle e quant’altro, testimoniata dai ritratti oggi a Vienna di Tizano e Rubens (cat. 20 e cat. 22), i documenti d’archivio la sanciscono invenzione personale di Isabella, sulla quale la Marchesa vantava addirittura una sorta di diritto d’autore. Va inoltre messo in evidenza che anche la capigliara potrebbe avere una matrice classica riconoscibile nelle sofisticate e opulente pettinature di epoca flavia. Il termine ‘capigliara’ indica generalmente un toupet posticcio o una parrucca. Fu Alessandro Luzio a definire l’acconciatura in questione 4
Bonoldi - Centanni 2000. Splendours of the Gonzaga 1981, p.179. 6 Schmitt 1961, pp. 106-107. 7 Pizzagalli 2001, p. 86 8 Zaffanella 2001, p. 216 5
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“turbante a capigliara”9. Successivamente la critica semplificò la definizione utilizzando solamente il termine ‘capigliara’ per indicare questa particolare acconciatura. Le prime attestazioni dell'utilizzo da parte di Isabella di questa ‘conzatura da testa’ si ritrovano nella corrispondenza del 1509, ma i documenti più interessanti risalgono al 1512. Il 15 aprile, Susanna Gonzaga del ramo di Bozzolo così scriveva a Isabella: Ill.ma et Ex.ma Sig. Patrona mia obser.ma Haveria grandissimo desiderio portare una maya pelosa facta cum quelli canoncini d’oro come porta la Ex. V. perché mi piace molto quella fogia, ma perché gli sono serva dubitando farli dispiacere portandone ho prima voluto intendere da lei essendo sua invenzione se la si contenta ch’io ne porti10.
Isabella replicava prontamente il giorno dopo: Ill. D.na Susane Gonzaga Ill. D.na affinis tamquam soror nostra charissima La Ill. Ma Laura nostra cognata ni haveva fatta una medesima dimanda che fa la S.V. de quella fogia da testa [corsivo nostro, N.d.R.] , alla quale non sapessimo disdire, ma intendendo lei chel non era cum troppo nostra satisfacione non l’ha voluta usare. Per questo non dicemo alla S.V. expresamente che siamo contente per non fare injuria a Ma Laura, né gli la negamo per non scompiacerla. Lei farrà mo’ quello che gli parerà. 11
Lo scambio epistolare qui riportato, pubblicato nel 1913 dal Luzio, conferma la paternità isabelliana dell’invenzione della capigliara, e il desiderio della Marchesa di mantenere l’esclusiva di questa sua fogia de testa. La moda di questa acconciatura, tuttavia, sfuggì presto al controllo
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Luzio - Renier 1896, pp. 667-668 (fasc. 16 ottobre). Lettera di Susanna Gonzaga a Isabella d’Este (15 aprile 1512), citata in Luzio 1913, p. 227. 11 Lettera di Isabella d’Este a Susanna Gonzaga (15 aprile 1512), citata in Luzio 1913, p. 227. 10
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di Isabella e si diffuse rapidamente, come attestato da numerosi ritratti di dama di Lorenzo Lotto, di Bernardino Luini, di Francesco Mazzola detto il Parmigianino, e molti altri. La moda della capigliara riportò peraltro in voga l'uso del balzo quattrocentesco. Entrambi i copricapi vennero chiamati ‘turbante’ dalla critica ottocentesca, soprattutto da quella anglosassone dato che in inglese non esistono due termini corrispondenti. Ciò implicò una confusione fra le due tipologie di acconciaturacopricapo, e la capigliara, anziché essere l’indizio chiarificatore descritto dal Luzio, si rivelò invece un elemento spesso più disorientante: la comprovata natura isabelliana dell’invenzione della capigliara, la forma vagamente orientaleggiante del balzo e, infine, la mancata distinzione dei due generi di copricapo-acconciatura in ambito anglosassone, fecero sì che ignote dame venissero chiamate indistintamente o ‘Isabella d’Este’ o ‘Schiava Turca’. In base alla presenza di questa acconciatura Alessandro Luzio arrivò a proporre un disegno oggi assegnato al Bachiacca (fig. 2) identificandolo con il “ritratto al carbono” eseguito da Leonardo. Identificazione che, in base agli stessi elementi rilevati dal Luzio, è fortemente improbabile, dal momento che il soggiorno mantovano di Leonardo si colloca in anticipo di un decennio rispetto alle prime attestazioni della capigliara. Anche il quadro acquistato da Isabella Stewart Gardner come ritratto di Isabella d’Este nel 1896, veniva identificato come tale in base alla presenza della capigliara (fig. 1). L’analisi delle acconciature di Isabella d’Este non può concludersi senza un accenno alla questione sul colore dei suoi capelli. Il ritratto di Tiziano li mostra di un biondo fulvo, mentre nella copia di Rubens (e a giudicare dalle riproduzioni in bianco e nero anche in quella già di proprietà della contessa de Vogué) sembrano piuttosto scuri. I ritratti di Lorenzo Costa mostrano una capigliatura tendente al rosso, mentre il ritrattino della
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collezione di Ambras propone una capigliatura castano scuro. In aggiunta Mario Equicola, nel suo De Mulieribus, definisce il colore dei capelli di Isabella “subflavus12”, mentre Giovan Giorgio Trissino paragona la chioma della marchesa al colore dei raggi del sole13. Dai dati biografici relativi a Isabella risulta inoltre che la Marchesa avesse l’abitudine di modificare il colore della propria chioma ora schiarendola, ora scurendola. Nel settembre del 1496, per esempio, scriveva al cortigiano milanese Bonvesino Barone chiedendo di indagare sul modo in cui il conte Francesco Sforza avesse da un giorno all’altro fatto tornare i suoi capelli del colore naturale, eliminando completamente la tinta nera14. Oltre agli espedienti cosmetici utilizzati per modificare il proprio aspetto, Isabella era solita chiedere ai propri ritrattisti di apportare correzioni alle loro opere cambiando ad esempio il colore degli occhi o dei capelli. Tali variazioni erano ancor più libere nel caso di ritratti realizzati in absentia. Per questo motivo la tinta dei capelli non può essere utilizzata come elemento guida chiarificatore. Nella mostra sullo Studiolo di Isabella tenutasi al Louvre nel 1975, ad esempio, veniva esposta una riproduzione fotografica della Gioconda di Leonardo da Vinci. Lo scopo era quello di rispondere a chi sosteneva trattarsi del ritratto perduto di Isabella d’Este, che “in ogni caso si può notare che la Gioconda ha i capelli piuttosto scuri, mentre Isabella era bionda15”. Seppure l’ipotesi dell’identificazione del dipinto di Leonardo con il ritratto della Marchesa di Mantova resti fortemente improbabile, alla luce di quanto riportato in precedenza l’argomentazione inerente al
12
EQUICOLA 1501, p.(19). TRISSINO (ed. 1729), p. 272. 14 Pizzagalli 2001, p. 114. 15 Beguin 1975, p. 4: “On peut noter, cependant, que la Joconde a les chevaux plutôt foncés alors qu’Isabelle était blonde”. 13
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colore dei capelli della dama ritratta non può essere considerata un elemento probante, in un senso o nell’altro. La differenza fra la capigliatura della Gioconda e quella di Isabella va invece ricercata nella qualità delle due chiome. Rada e senza vigore nel caso della sorridente – e alquanto stempiata – signora del Louvre, lussureggiante, viva, e tanto folta da richiedere un intero giorno per essere lavata e asciugata16 nel caso della Marchesa di Mantova.
16
Luzio - Renier 1986, pp. 670 (fasc. 16 ottobre).
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TAVOLA 1A: ACCONCIATURE I
Fig. A – Benardino de’ Conti, Ritratto di dama, inizi del XVI secolo, collezione privata, già Morrison (particolare). Fig. B – Benardino de’ Conti, Ritratto di dama, inizi del XVI secolo, Philadelphia, Museum of Art, Jonshon Collection (particolare). Fig. C – Gian Cristoforo Romano, Busto di Isabella d'Este, terracotta, 1498 ca., già Lugano, Fondazione Thyssen-Bornemisza, ora sul mercato antiquario londinese. Fig. D – Anonimo intagliatore italiano, Cammeo in onice recante il ritratto di Isabella d’Este, inizi del XV secolo, Vienna, Kunsthistorisches Museum.
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TAVOLA 1B: ACCONCIATURE II
Fig. A – Ambrogio de’ Predis, Ritratto di Bianca Maria Sforza, fine del XV secolo, Washington, National Gallery of Art (particolare). Fig. B – Lorenzo Costa (?), Ritratto di Beatrice d’Este, fine del XV secolo, Firenze, Galleria Palatina. Fig. C – Adriano Fiorentino, Medaglia di Elisabetta Gonzaga, particolare del recto, 1495, Oxford. Ashmolean Museum. Fig. D – Maestro della Pala Sforzesca, Beatrice d’Este, particolare dalla Pala Sforzesca, 1495 ca. , Milano, Pinacoteca di Brera.
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TAVOLA 1C: ACCONCIATURE III
Fig. A – Tiziano Vecellio, Ritratto di Isabella d’Este, 1536, Vienna, Kunsthistorisches Museum (particolare). Fig. B – Pieter Paul Rubens, Ritratto di Isabella d’Este (copia da Tiziano), 1605, Vienna, Kunsthistorisches Museum. (particolare). Fig. C – P. Holstein II, incisione dal Ritratto di Duchessa Italiana di Giulio Romano (Londra, Hampton Court), stampata da F. de Wit, Amsterdam 1645 ca., Modena, Biblioteca Estense. Fig. D – Francesco Mazzola detto il Parmigianino, Ritratto di Dama, detto La Schiava Turca, Parma, Pinacoteca Nazionale.
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V. SCHEDE
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Cat. 1 – Anonimo miniatore ferrarese, Profilo di Isabella d’Este infante, miniatura alla carta 3v di Genealogia dei Principi d’Este, 1479 circa, ms. membr., miniato e acquerellato, mm 362x255, cc. 4, Modena, Biblioteca Estense Universitaria, ms. α.L.5.16.= Ital. 720
La carta 3v del codice noto come Genealogia dei Principi d’Este elenca la discendenza del duca Ercole I d’Este, fra cui la figlia Isabella. La principessa estense, presentata qui come infante, indossa un abito bianco con cuffia e doppia manica. La mano sinistra poggia sulla ghirlanda di lauro che delimita la miniatura, mentre la destra è sollevata, in gesto quasi oratorio, davanti al petto. Il fondo della miniatura è campito in blu. Sotto il medaglione compare la seguente didascalia: “Questa Isabella è fiola legitima e natural de questi Hercole et Eleonora, e naque martì adì 17 mazo 1474 a hore una e meza de nocte”. Il codice completo della Genealogia è costituito da due frammenti, uno, di formato più ridotto, conservato a Modena, presso la Biblioteca Estense, l’altro, più consistente, conservato a Roma presso la Biblioteca Nazionale Vittorio Emanuele II. La Genealogia elenca i principi di Casa d’Este da Alberto Azzo, che nel 1095 affermò il proprio potere su Ferrara, fino a Ippolito, figlio di Ercole I e fratello di Isabella, che però non è stato ritratto. Essendo Ippolito nato nel 1479, è presumibile che il codice risalga a quell’epoca, ipotesi avvalorata anche dalla precisione con cui sono riportati i dati anagrafici di Isabella. Il piano dell’opera prevedeva nove ritratti per ogni carta, ma non tutti sono stati realizzati. La Genealogia comprende in toto 168 ritratti, suddivisi in 11 carte. I personaggi sono effigiati entro medaglioni cinti da una ghirlanda, presentati a mezzo busto, di profilo, di prospetto o
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di tre quarti. I volti acquerellati spiccano su fondo oro, qualora appartengano a personaggi investiti di autorità ducale, o su fondo blu intenso (conviene qui ricordare che blu e oro sono i colori araldici di casa d’Este). Sotto ogni medaglione è una scritta in volgare ferrarese con il nome del personaggio raffigurato. Fa eccezione il ritratto accuratissimo e a piena pagina del duca Borso, a figura intera su un prato erboso, con sgargianti vesti rosse ornate d’oro e lo scettro del comando nella mano destra. Sotto alla figura è una sintetica biografia di Borso. I ritratti entro le ghirlande, per gli elementi tardogotici che presentano, possono essere attribuiti a Bonifacio Bembo; il profilo di Borso ha invece una impostazione rinascimentale. La Genealogia dei Principi d’Este è un documento di particolare interesse dal punto di vista storico-genealogico, iconografico e della storia del costume. Non esistono infatti raccolte simili di ritratti di personaggi di famiglie principesche dei secoli XIII, XIV e XV. L’uso del dialetto ferrarese, la precisione dei dati anagrafici dei personaggi cronologicamente più vicini alla realizzazione del codice e l’eliminazione dalle biografie di episodi tragici della storia estense, lasciano supporre che l’autore del testo fosse un personaggio molto vicino alla corte ferrarese. La legatura del codice, in cartone rossiccio, con il dorso e gli angoli in pelle, è tipica della biblioteca del convento di Santo Spirito di Reggio Emilia. Alessandro Luzio, nel suo studio sulla ritrattistica Isabelliana pubblicato in coda a La Galleria dei Gonzaga venduta all’Inghilterra nel 1627-1628 (Milano, 1913), avvicina questa miniatura a un ritratto perduto di Isabella a cui fa riferimento un carteggio del 1532 fra la Marchesa di Mantova e il suo corrispondente ferrarese Girolamo Sestola: “che aveva visto un retrato de V.S.ria a Mantoa […] casa di la Brogna […]. El ritrato è quando V.S. era puta et à, se ben mi ricordo, una ghirlanda o fronda che zinze la fronte, con una pena in mezo la fronte, e credo che V.S. l’abbia donato a
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la Brogna perché lei mel mostrò et eravamo in casa sua1”. Isabella confermò che “il retratto mio che ho pensato esser quello del qual voi mi scrivete per essere fatto in tempo ch’io era in età di tre anni2”. Andato perso il ritratto di cui sopra ed un tondo in stucco nella cappella ducale di Ferrara con un ritratto di Isabella d’Este bambina, la miniatura qui presa in esame costituisce il più antico ritratto di Isabella a oggi conservato. Il codice della Genealogia proviene dall’Antico Fondo Estense. Il volume, però, non è sempre appartenuto a detto fondo, perché il cardinale Alessandro d’Este lasciò la propria libreria in eredità ai Teatini di Modena, nel 1624. Il codice rientrò nella Biblioteca Estense nella seconda metà del XVIII secolo, a opera del bibliotecario Girolamo Tiraboschi, incaricato dal duca Francesco III d’Este di raccogliere i codici più importanti conservati nei conventi degli ordini religiosi soppressi da papa Clemente XIV. Tiraboschi rinvenne la Genealogia nel convento dei Teatini di Reggio Emilia. All’epoca del rinvenimento del codice, il frammento oggi a Roma risultava già disperso. Nel 1887 tale frammento riapparve presso di libraio Joseph Baer di Francoforte sul Meno, che ne propose l’acquisto alla Biblioteca Nazionale di Roma.
__________ Bibliografia: Luzio 1913, pp. 184-185; La Biblioteca Estense 1987, pp. 58; F. Toniolo in Le Muse e il Principe 1991, pp. 49-57; Genealogia 1996; P. di Pietro Lombardi in Rinascimento 2001, p. 135.
1
Lettera di Girolamo da Sestola a Isabella d’Este (24 gennaio 1532), citata in Luzio 1913, p. 184. 2 Lettera di Isabella d’Este a Girolamo da Sestola (31 gennaio 1532), citata in Luzio 1913, p. 184.
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Cat. 2 – Anonimo medaglista mantovano, Medaglia nuziale di Francesco II Gonzaga e Isabella d’Este, argento, coniazione, 1490, collocazione ignota Diametro mm 16,5
recto: busti accollati e volti a sinistra di Isabella d’Este e Francesco Gonzaga, quest’ultimo in corazza e con lunga barba. Il campo è delineato da un bordo circolare di perle. Anepigrafe. verso: FR GONZAGA E L ISABELLA ESTENSIN CONIVGES IS MARCHIOS MANTVAE IIII nel campo in otto righe. Il campo è delineato da un bordo circolare di perle.
Il piccolo tondo in metallo, largo poco più di un centimetro e mezzo, presenta al recto i profili sovrapposti, volti a sinistra, di Francesco II Gonzaga e Isabella d’Este in una composizione che si ispira alla glittica ellenistica (si prendano a confronto i grandi cammei di Vienna e San Pietroburgo, alternativamente identificati con il cammeo Gonzaga). Al rovescio un’iscrizione acclama: “Francesco Gonzaga e Isabella d’Este sposi illustrissimi, quarti marchesi di Mantova”. Nel febbraio del 1490 Isabella d’Este giunse in sposa a Mantova. Secondo quanto riporta Alessandro Luzio, in occasione delle nozze “si gettarono delle monete coniate ad hoc per commemorare il fausto evento3”. La suggestiva ipotesi del lancio sul popolo festante di monete recanti il profilo del marchese e quello della sposa, nuova signora della città, la cui effigie viene così presentata per la prima volta ai sudditi, non trova conferma in nessun documento d’archivio conservato. È probabile dunque che il Luzio, sedotto dall’idea di un rito costruito sull’usanza antica della sparsio, abbia frainteso il senso del termine ‘gettare’, che in numismatica designa l’atto di realizzare una moneta o una medaglia. 3
Luzio 1913, p. 186.
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Sulla natura di questo oggetto numismatico la critica ha peraltro molto dibattuto: si tratta di una moneta o di una medaglia? Il carattere altamente celebrativo e laudativo che lo caratterizza lo connoterebbe come medaglia. D’altro canto però le dimensioni, il peso e finanche la tecnica d’esecuzione (la coniazione anziché la fusione) ricordano molto da vicino i quattrini emessi dal marchese Francesco. Converrà pertanto considerare quest’oggetto come una moneta celebrativa, genere numismatico che sta a mezza via fra la medaglia e la moneta. Alessandro Luzio, che considerava questa effigie isabelliana il suo “più autentico ritratto” in cui “le fattezze sono rese con perfetta schiettezza4” conosceva due soli esemplari di questa emissione, uno nel medagliere estense di Modena, e una al Münzkabinett di Berlino. L’esemplare di Berlino, esposto a Mantova alla mostra iconografica del 1937, andò disperso durante la seconda guerra mondiale. Anche quello di Modena risulta assente dalle collezioni numismatiche del Museo. L’esemplare qui illustrato apparteneva alla collezione D’Incerti, dispersa in asta pubblica a Milano (Montenapoleone 11-12 maggio 1988). __________ Bibliografia: Luzio 1900, p. 350; Luzio 1913, pp. 127, 186; N. Giannantoni in Mostra Iconografica Gonzaghesca 1937, p. 19; Magnaguti 1965, p. 93; D’Incerti 1971, pp. 16-17; Boccolari 1987, p. 84; Syson 1997, p. 281; M. Rossi in Le Medaglie dei Gonzaga 2000, p. 69.
4
Luzio 1913, p. 237.
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Cat. 3 – Gian Cristoforo Romano, Medaglia di Isabella d’Este, bronzo, fusione, 1498, Londra, British Museum Diametro mm 38 recto: profilo di Isabella d’Este volto a destra, con una collana di perle al collo e capelli in parte raccolti dietro la nuca in parte ricadenti in ciocche ai lati del viso. Iscrizione: ISABELLA ESTEN MARCH MAN (in alcuni esemplari MA, o MANT). verso: figura femminile alata (Nemesi) con scettro nella mano sinistra e palmizio nella destra. Davanti a lei si erge un serpente. Al di sopra di entrambi il segno zodiacale del Sagittario sormontato da una stella a otto punte. Iscrizione: BENEMERENTIUM ERGO Al recto la medaglia mostra Isabella d’Este in profilo. La giovane marchesa indossa al collo una collana di perle. I capelli sono raccolti dietro la nuca e ricadenti in ciocche ai lati del viso. Ai limiti del campo corre la scritta ISABELLA ESTEN MARCH MAN (in alcuni esemplari MA, o MANT). Al verso una figura femminile alata stante, volta a sinistra, recante nella mano destra un bastone e un palmizio nella sinistra: davanti a lei si erge un serpente. Sopra la sua testa si libra un Sagittario, volto a destra, con arco teso e freccia incoccata; sopra il suo dorso brilla una grande stella a otto punte. Intorno alle figure corre il motto BENEM ERENTIUM ERGO (in alcuni esemplari BENEMOERENTIUM). Isabella commissionò la propria medaglia a Gian Cristoforo Romano nel 14955, quando l’artista si trovava ancora a Milano al servizio di Ludovico il Moro. La commissione non fu però portata a termine prima del 1498, ovvero dopo il trasferimento del Romano alla corte dei Gonzaga. Ne è 5
Brown 1975, p. 178.
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prova una lettera di quell’anno inviata alla Marchesa dal letterato Niccolò da Correggio, che era stato incaricato da Isabella di inventare un motto da apporre al verso della medaglia. Fra le tre proposte avanzate, NATURAE OFFICIUM, GRATITUDINIS STUDIO e BENEMERENTIUM ERGO, Isabella scelse quest’ultima.6 La prima emissione della medaglia contiene un errore nell’iscrizione del verso: BENEMOERENTIUM ERGO in luogo di BENEMERENTIUM ERGO. Nella maggior parte degli esemplari la lettera in sovrabbondanza venne eliminata sui pezzi già fusi, raschiando via il metallo e correggendo il motto in BENE MERENTIUM. Un considerevole numero di esemplari sfuggì tuttavia alla correzione e venne diffuso con l’iscrizione erronea. La medaglia ebbe una larghissima diffusione: per molto tempo quest’opera, con il ritratto e l’impresa di Isabella, fu il dono preferito per omaggiare nobili, parenti e amici. Venne distribuita alle corti di Napoli, di Ferrara e di Urbino e ai molti letterati amici della Marchesa (fra i tanti il Tebaldeo, Giacomo Filippo Faella e Bernardo Accoliti). Per far fronte alle numerose richieste, nel 1505 si dovette mettere in opera una seconda versione, in cui vennero leggermente ritoccati sia il recto che il verso. Di questa seconda versione venne realizzato un esemplare prezioso, fuso in oro e montato in una ricca incastonatura con pietre preziose: l’esemplare (ora al Kunsthistorisches Museum di Vienna) viene descritto nell’Inventario Stivini del 1542 come proprietà personale di Isabella, custodito “nell’armario di meggio della Grotta in Corte vecchia”. L’esistenza di una seconda versione, per di più così accuratamente ritoccata sin nei minimi particolari (e addirittura rifinita con piccole 6
Luzio 1913, p. 193.
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correzioni sui dettagli eseguite probabilmente sui pezzi già fusi), testimonia del valore che la committente attribuiva alla medaglia e della sua intenzionale funzione celebrativa e rappresentativa. Fin dalla fine del secolo scorso numerosi studiosi si sono impegnati nella lettura della medaglia, concentrandosi in particolare nella decrittazione del verso: le due principali figure, quella femminile alata e il centauro sovrastante, presentavano grossi problemi di identificazione sia considerate singolarmente sia, soprattutto, nel loro insieme. La figura femminile stante è stata variamente interpretata come ‘Vittoria’7, ‘Astrologia’8, ‘Salus’9, ‘Virgo10’ e ‘Minerva’. Nel centauro con la stella la critica ha invece quasi sempre concordemente riconosciuto un segno zodiacale. Controverso è stato però il tentativo di trovare un collegamento tra il segno del Sagittario e le vicende biografiche di Isabella: nessun importante evento della vita della Marchesa (nascita, matrimonio, parti, imprese militari del marito Francesco) si verificò nel periodo assegnato al Sagittario. Recentemente il significato dell’impresa presente al verso della medaglia è stato chiarito attraverso il confronto con alcuni esemplari di monete imperiali romane e un’accurata rilettura astrologica dei dati anagrafici di Isabella ricavabili dal testo della Genealogia dei Principi d’Este (cfr. cat. 1). Nella figura della donna alata con asta e serpente va infatti riconosciuta Nemesi, daimon-personificazione delle giustizia ristabilita, la cui rappresentazione
deriva
puntualmente
da
un
denario
argenteo
dell’imperatore Claudio, datato al 47 d.C. e facente parte della vasta collezione di monete antiche della casa d’Este (ora nel Medagliere 7
Venturi 1888b, p. 107. Hill 1930, p. 55. 9 Habic 1922, p. 90. 10 Pollard 1995, p. 384. 8
77
Estense del Museo di Modena)11. Oltre alla sovrapponibilità della Nemesi di Isabella a quella di Claudio, un’ulteriore conferma della derivazione della medaglia dal denario si trova anche sul recto: l’acconciatura di Isabella, con due trecce sottili che partendo dalle tempie raccolgono i capelli annodandosi sulla nuca, pare una ripresa, quasi una citazione tradotta in pettinatura, della corona d’alloro con nastri sciolti tipica dei ritratti imperiali romani: la medesima acconciatura orna il capo del princeps sul recto della moneta che servì da modello. Anche il diametro piuttosto ridotto della medaglia isabelliana, caratteristica anomala rispetto alle consuetudini della medaglistica rinascimentale, conferma la derivazione da un modello antico12. Il gruppo del Sagittario con stella a otto punte presente al di sopra di Nemesi è invece la traduzione in figura della fortunata congiunzione astrale fra il locus ascendentis, la costellazione del Sagittario e il pianeta Giove verificatasi al momento della nascita di Isabella, presagio di autorità e potere. Alla luce di questi dati, il motto BENEMERENTIUM ERGO andrà letto come: “Grazie agli astri benevoli, a cui va il merito del mio successo”13. Nella propria medaglia Isabella rappresenta quindi se stessa in veste di Nemesi (si noti la somiglianza della pettinatura del ritratto con quella del daimon sul verso), e così, per figura, simboleggia la sua virtù e la sua ambizione: nata insieme alla stella del potere, sarà lei Nemesi che provvederà a “saeclum renovare”. Rappresentando simbolicamente il suo tema natale, l’impresa celebra quindi il potere personale e l’auctoritas di Isabella. Come è evidente dall’iscrizione della titolatura sul recto, a differenza di altre donne del
11
Bonoldi - Centanni 2000. Syson 1997, p. 286. 13 Bonoldi - Centanni 2000. 12
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Rinascimento (ad esempio l’amata cognata Elisabetta, che sulla propria medaglia si titola FELTRIA, in quanto sposa un Montefeltro, o Lucrezia Borgia che si dice ESTENSIS) Isabella non si rappresenta come moglie di Francesco Gonzaga, ma come Signora di Mantova, detentrice in proprio del potere.14 __________ Bibliografia: Armand 1883b, p. 99; Armand 1887, p. 49; Magnaguti 1921, n. 30; Hill 1930, p. 55; N. Giannantoni in Mostra Iconografica Gonzaghesca 1937, p. 21; Magnaguti 1965, p. 93; Hill - Pollard 1967, n. 70; J. Martineau in Splendours of the Gonzaga 1981, p. 160; Boccolari 1987, n. 62; P. Giovetti in La Sezione Gonzaghesca 1987, p. 146; Norris 1987, pp. 135-136; G. Giovannoni e P. Giovetti in Medaglisti nell’età del Mantegna 1992, pp. 77-78; Parise 1992, p. 101; Schulz 1994, 373-378; Ventura 1995, p 64; Schulz 1995, p. 447; M. Rossi in I Gonzaga 1995, p. 414; M. Rossi in Le Medaglie dei Gonzaga 2000, pp. 67-70; Signorini 1996; Syson 1997; Bonoldi - Centanni 2000; Malacarne 2001b, pp. 196198; P. Venturelli in Celeste Galeria 2002, p. 298; A.M. Visser Travagli in Un Rinascimento Singolare 2003, p. 106.
Cat. 4 – Gian Cristoforo Romano, Medaglia di Isabella d’Este, oro, fusione, 1505, Vienna, Kunsthistorisches Museum
Diametro mm 69 Questo esemplare fuso in oro della medaglia di Isabella d’Este è racchiuso entro una preziosa montatura, anch’essa in oro, con lettere in diamante che formano l’iscrizione M(archesa) I S A B E L A. Le lettere sono
intervallate
da
rosette
smaltate
in
rosso.
Il
rovescio
dell’incastonatura è invece decorato con racemi eseguiti a smalto.
14
Bonoldi - Centanni 2000.
79
Si
tratta della medaglia registrata nella
collezione isabelliana
nell’inventario del 1542, ove figura come “una medaglia d’oro con l’effigie di Madama bone memorie, quando sua signoria era giovane, con littere di diamanti atorno che dicono Isabella, con rosette tra l’una e l’altra litera smaltate di rosso, con un retortiro atorno, con rosette smaltate de bianco e azurro et de roverso una vittoria de relievo15”. Il fatto che un’incastonatura simile racchiudesse il più prezioso cammeo della collezione isabelliana, recante i profili accollati di Cesare e Livia, conservato accanto alla medaglia nell’armadio di mezzo della Grotta, conferma il valore che la Marchesa attribuiva alla propria medaglia, che, raffigurandola secondo un linguaggio fortemente caratterizzato come ‘all’antica’, la rappresentava come degna erede degli imperatori romani16. __________ Bibliografia: Hill 1930, p. 55; J. Martineau in Splendours of the Gonzaga 1981, p. 160; Norris 1987, pp. 135-136; Schulz 1994, 373-378; Ventura 1995, p 64; Schulz 1995, p. 447; M. Rossi in I Gonzaga 1995, p. 414; M. Rossi in Le Medaglie dei Gonzaga 2000, pp. 67-70; Signorini 1996; Syson 1997; Bonoldi - Centanni 2000; Malacarne 2001b, pp. 196-198; P. Venturelli in Celeste Galeria 2002, p. 298.
15 16
Brown 1985, p. 55. Brown 1995, p. 65.
80
Cat. 5 – Gian Cristoforo Romano, Busto di Isabella d’Este, terracotta, 1498 circa, già Lugano, Fondazione Thyssen-Bornemisza, ora sul mercato antiquario londinese Altezza cm 54,3 Larghezza cm 54,6
La scultura, modellata in un'argilla di colore pallido ritrae Isabella d’Este all’età di venticinque anni circa. L’abito importante, con ampie maniche staccate, assicurate al corpetto tramite fiocchi e sbuffi all’altezza delle spalle, e l’acconciatura dei capelli lunghi e fluenti, raccolti sulla schiena in una morbida coda coperta da un velo e trattenuti da un nastro passante sulla fronte, sono elementi caratteristici dell’abbigliamento alla moda delle donne d’alto rango nell’Italia settentrionale negli anni a cavallo fra il XV e il XVI secolo (cfr. tavola 1a). L’opera sembra essere stata leggermente danneggiata durante la fase di cottura: fratture alla base del busto hanno comportato la perdita di alcuni frammenti, e una lunga crepa corre sulla parte anteriore dalla base fino al collo. Risultano mancanti un’ampia porzione del basamento sul davanti e gran parte del dietro del busto. Vi è inoltre un’ampia lacuna sotto la spalla destra. Due o tre degli sbuffi della manica destra sono andati perduti. Parte del basamento inferiore è stata assicurata con cerniere e bulloni di ottone. Le crepe furono originariamente nascoste sotto uno strato policromo, del quale, nonostante un’intenzionale abrasione, rimangono alcune tracce. Fra gli sbuffi delle maniche ci sono dei fori, praticati nell’argilla prima della cottura, per attaccare fiocchi o lacci, ed un lieve solco circonda i capelli e il velo, dimostrando che un nastro cingeva il capo in questo punto, passando sulla parte più alta della fronte.
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Abito e acconciatura sono peraltro avvicinabili a quelli presenti nel cartone con il ritratto di Isabella d’Este di Leonardo da Vinci conservato al Louvre (cat. 6), sebbene questi particolari siano meglio visibili nella copia più grossolana dell’Ashmolean Museum (cat. 8). Il cartone si data alla fine del 1499, quando Leonardo fu per qualche tempo a Mantova prima di recarsi a Venezia. Il confronto del ritratto di Isabella eseguito da Leonardo con il profilo destro del busto suggerisce fortemente che entrambe le opere ritraggano la stessa persona nella medesima età (cfr. tavola 2). Notevolmente rassomiglianti sono la forma della fronte, il naso forte, leggermente ricurvo nel mezzo e con grandi narici, gli occhi incassati dietro un pronunciato ponte del naso, la bocca decisa, con il labbro superiore leggermente prominente su quello inferiore, e l’incipiente doppio mento. Nel 1932 la somiglianza con il cartone del Louvre spinse il dottor Simon Miller a suggerire un'attribuzione del busto a Leonardo da Vinci. Tuttavia il candidato più probabile è Gian Cristoforo Romano, come suggerito nel 1972 da Sir John Pope-Hennessy in una lettera a Marco Grassi, all’epoca proprietario dell’opera. L’incontro fra Isabella d’Este e Gian Cristoforo Romano avvenne all’inizio degli anni novanta del XV secolo a Milano alla corte della di lei sorella Beatrice, moglie del duca Ludovico il Moro. Con ogni probabilità fu proprio l’ammirazione per il busto della sorella minore, oggi al Louvre (fig. 14), che spinse Isabella a richiedere insistentemente la presenza di Gian Cristoforo a Mantova, dal momento che anche la Marchesa desiderava un proprio busto marmoreo. Il marmo venne procurato a Venezia a metà del luglio 1491, tuttavia l’artista non si recò a Mantova prima della morte di Beatrice d’Este e della conclusione della tomba del Visconti (1497). Si suppone che Gian Cristoforo, che rimase a Mantova al sevizio di Isabella fino al 1505, abbia portato a termine il busto,
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tuttavia non esiste ulteriore documentazione e dell’opera non v’è traccia alcuna. Il busto in terracotta qui preso in esame, conservato fino all’aprile 2002 presso la Fondazione Thyssen-Bornemisza di Lugano e ora (gennaio 2004) sul mercato antiquario londinese, fu identificato come uno studio preparatorio per la realizzazione del busto in marmo. Tuttavia le tracce residue di policromia (avorio sulle guance e sul collo, bruno nelle narici, castano chiaro sui capelli, cremisi nel velo sul capo, blu sulle maniche e verde sotto il bordo del basamento) dimostrano che il busto fu portato a termine come opera finita e che non si tratta di uno studio preparatorio. È inoltre utile ricordare che presso il Museo di Palazzo Ducale di Mantova è conservato un busto in terracotta di Francesco II Gonzaga, marito di Isabella (fig. 15). Un terzo busto, sempre in terracotta, attribuito al Romano si trova a Firenze, al Museo Bardini (fig. 16). A Gian Cristoforo Romano è attribuito in fine il busto di bambino in marmo conservato a Venezia presso la Ca’ d’Oro e identificato come Federico II Gonzaga, figlio di Isabella d’Este, nato nel 1500 (fig. 17). Non si conosce la data nella quale il busto già Thyssen venne acquistato da Luigi Grassi, tantomeno quella in cui venne venduto al dottor Otto Lanz. Nell’articolo del 1912 di Pit sulle sculture italiane nella collezione Lanz17 non se ne fa menzione, né esso apparve nell’esposizione di opere dell’arte italiana nei Paesi Bassi tenutasi nel 1934 allo Stedelijk Museum di Amsterdam, della quale Lanz fu il principale fornitore. Il busto non si vede neppure in alcuna delle numerose fotografie dell’esposizione che venne installata nella casa di Lanz ad Amsterdam. Ciò probabilmente accadde a causa dei dubbi sulla sua autenticità. La reale appartenenza del busto alla fine del XV secolo o agli inizi del XVI fu provata con un test alla termoluminescenza, effettuato nel 1973, in occasione delle trattative 17
Pit 1912, pp.39-47.
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in vista del suo acquisto da parte della fondazione Thyssen-Bornemisza. Il risultato dell’indagine indicò una data di cottura anteriore di cinquecento anni al momento in cui fu effettuato il test, con un margine di errore di sessantacinque anni. __________ Bibliografia: Fleming - Stoneham 1973, pp. 242-244; Berkes - Borghero 1977, p. 130; Borghero 1981, p351; Watteville 1989, p. 380; Radcliffe Baker - Gérard 1992, pp. 68-73.
TAVOLA 2
Fig. A – Gian Cristoforo Romano, Busto di Isabella d'Este, terracotta, 1498 circa, già Lugano, Fondazione Thyssen-Bornemisza, ora sul mercato antiquario londinese Fig. B –Leonardo da Vinci, Cartone per un ritratto di Isabella d’Este, 14991500, Parigi, Musée du Louvre, Département des Arts Graphiques
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Cat. 6 – Leonardo da Vinci, Cartone per un ritratto di Isabella d’Este, sanguigna, matita nera, con tracce di pastello, fitta foratura per spolvero, 1499-1500, Parigi, Musée du Louvre, Département des Arts Graphiques
Altezza mm 630 Larghezza mm 460 Il cartone per un ritratto di Isabella d’Este, eseguito da Leonardo da Vinci e conservato oggi presso il Département des Arts Graphiques del Louvre, ritrae la marchesa di Mantova all’età di venticinque anni. Il busto è presentato di tre quarti, mentre la testa è volta in profilo verso destra. L’indice della mano destra indica un oggetto, che il confronto con la copia conservata all’Ashmolean Museum di Oxford (cat. 8) permette di identificare con un libro chiuso. Isabella indossa una veste dallo scollo squadrato, decorata a liste, sopra una camicia, anch’essa decorata a liste, con scollo tondo ornato da una fitta orlatura ondulata. Le maniche sono staccate e assicurate al corpetto tramite lacci. Sbuffi della camicia fuoriescono all’altezza delle spalle. I capelli sono ripartiti da una scriminatura centrale, scesi sulle spalle e lasciati ricadere dietro la schiena. Su di essi un velo sottile, la cui presenza, testimoniata solo dalla foratura, è confermata dal confronto con le copie del cartone parigino. Il velo è trattenuto da una lenza che cinge il capo di Isabella passando sulla parte più alta della fronte. Nel disegno si riscontra l’utilizzo di differenti pigmenti: l’applicazione di diversi toni di nero e di sanguigna nelle linee del profilo, tracce di ocra gialla nel nastro che cinge i capelli e nelle liste della camicia e, infine,
85
leggeri lumi di biacca sul petto e sul viso. A detta di Berenson18 questa sembra essere l’unica opera di Leonardo nella quale siano presenti tracce di pastello. Il disegno è comunemente indicato col termine ‘cartone’, ovvero come un’ opera destinata a essere trasportata su un altro supporto. Tutte le linee del disegno, infatti, sono percorse da una fitta serie di fori. Tuttavia la foratura presenta alcune particolarità che la rendono, in un certo modo, sospetta. Essa percorre le linee che compongono il disegno in maniera non sempre pedissequa, con un ritmo regolare che, sebbene si infittisca nelle aree del viso, delle mani, del velo e delle righe dell’abito, mantiene sempre la caratterista della regolarità, al punto da apparire quasi una foratura meccanica. Tale regolarità non rientra nello stile di foratura di Leonardo19. Fra la realizzazione del disegno e quella della foratura è peraltro intercorso un considerevole intervallo di tempo: ne è prova il fatto che i fori attraversano anche alcune strisce di carta incollate sui bordi del verso del disegno ed un ulteriore pezzo di carta attaccato sopra di esse, in corrispondenza dell’angolo inferiore destro. Ciò indica che la foratura avvenne in un momento successivo alla creazione del disegno, quando il foglio era già danneggiato sui bordi e necessitava di rinforzi in corrispondenza delle parti indebolite. Seppur elemento non originale, la foratura è talmente accurata e regolare che solo grazie alla sua presenza è possibile ricostruire il disegno, anche nelle sue parti più problematiche, ovvero quelle in cui il pigmento è scomparso, come per esempio nelle aree del libro e del velo, elementi non visibili nell’originale ma presenti nelle copie del cartone.
18
Così Berenson ([1903] 1958, p. 247), a proposito di Leonardo: “Fra le sue opere autografe, riscontriamo tracce di pastello soltanto nel cartone per il ritratto di Isabella d'Este, eseguito al termine del primo periodo milanese”. 19 Bambach 1999, p. 111.
86
L’assenza di tracce di polvere da spolvero sul recto del cartone lascia supporre che il disegno sia stato trasportato su un "cartone sostitutivo", ovvero un foglio da carta messo sotto l’originale durante il processo di foratura. Tracce di polvere nera sul verso indicano che probabilmente il cartone venne a un certo punto utilizzato per creare un’immagine speculare del ritratto. Di questa copia ‘basculata’ non resta traccia: in tutte le copie del cartone parigino, infatti, Isabella è sempre rivolta verso destra. Il cartone venne eseguito a Mantova fra il dicembre del 1499 e il febbraio del 1500, mentre Leonardo, in fuga da Milano caduta in mano ai Francesi, soggiornava alla corte di Gonzaga. Le fonti d’archivio giustificano l’esistenza di tre copie del disegno-ritratto eseguito da Leonardo per Isabella. Due vennero eseguite durante il soggiorno mantovano: una restò a Isabella, mentre l’altra venne portata via dal pittore con la promessa di portare a termine il ritratto (mai realizzato). Essendo stata donata a un ambasciatore la copia rimasta a Mantova, Isabella chiese una terza copia del disegno nel marzo del 1501. La postura in cui Leonardo ritrae Isabella si differenzia fortemente dalle opere dell’artista di quegli anni, in particolar modo dal ritratto di Cecila Gallerani, lo stesso ritratto che convinse la Marchesa ad affidare la propria immagine alle arti del Vinci piuttosto che a quelle di Giovanni Bellini (cfr. capitolo III, paragrafo III). La postura della donna ritratta è peraltro anatomicamente falsa, come è stato sottolineato da Kenneth Clark20: le braccia conserte in primo piano sono a un’altezza troppo elevata rispetto al busto e l’angolazione della testa è palesemente innaturale. A questo punto appare chiaro che il ritratto schizzato da Leonardo non si limita a imitare la realtà, ma si pone su piani che si allontanano dalla 20
Clark [1939] 1988, p 159.
87
semplice mimesi del modello e che parlano diversi linguaggi: in primo luogo il linguaggio della rappresentazione del reale, ben leggibile nella pulsante importanza del busto, nell’arioso disegno delle vesti e nella sorprendente vitalità del gesto della mano, elementi nei quali si possono riscontrare numerose analogie con la Gioconda; poi il linguaggio dei simboli, esplicato dalla presenza del libro chiuso, che quasi come un attributo iconografico di Isabella diventa segno della sua saggezza; infine il linguaggio araldico, che porta Isabella a scegliere il profilo, come se si trattasse del ritratto impresso su una medaglia all’antica. La stretta rassomiglianza fra il profilo tracciato da Leonardo e quello gettato in metallo da Gian Cristoforo Romano nella medaglia di Isabella (cat. 3) lascia peraltro supporre che il modello del disegno sia stata proprio la medaglia, in sostituzione di Isabella stessa21. La scelta del modello non pare casuale: la medaglia, fusa l’anno precedente, costituiva all’epoca non solo il ritratto cronologicamente più vicino, ma anche l’oggetto ufficiale al quale la Marchesa affidava il compito di divulgare la propria effigie nella sua e nelle altre corti italiane. Il disegno proviene dalla collezione di Domenico Pino (1760-1828), che nel 1783 sposò la ballerina Vittoria Pelsuso, vedova di Bartolomeo Calderara, nobiluomo milanese che possedeva il cartone in quanto di erede del padre, il marchese Antonio Calderara. Alla morte di Domenico Pino (1828), il disegno venne acquistato da Giuseppe Vallardi, che così lo descriveva nell’inventario della propria collezione, pubblicato nel 1855: “ritratto a grandezza naturale di una giovane e seducente dama volta a destra […] cartone posto sotto vetro ed incorniciato22”.
21 22
Ventura 2003, p. 26. Vallardi 1855, p. 2.
88
La piegatura centrale, tuttavia, dimostra che in origine il disegno faceva parte di un codice. Tale piegatura, esattamente al centro del cartone, è ascrivibile ad un momento successivo al taglio della parte inferiore del disegno. Il disegno passò poi dal Vallardi a un suo nipote, il Cavalier A.D. di Torino, un discendente del quale lo rivendette poi a un antiquario. Da qui poi il disegno approdò all’asta pubblica tenutasi a Parigi nel 1860, nella quale venne acquistato dal Museo del Louvre. Nel 1865 la Chalcographie Impériale du Louvre incaricò Alphonse Alexandre Leroy di riprodurre in stampa il disegno acquistato. All’incisione venne apposta l’iscrizione Dessin par Leonard da Vinci, senza nessuna indicazione sull’identità della dama ritratta. Tredici anni dopo, nel 1888, Charles Yriarte pubblicava un articolo nel periodico parigino “Gazzette des Beaux-Arts”, nel quale metteva in relazione il “ritratto a grandezza naturale di una giovane donna vista di busto” acquistato dal Louvre con il “retratto al carbone” menzionato nel carteggio di Isabella d’Este23. Il più fervido oppositore di questa identificazione fu Alessandro Luzio, che propose di identificare il “retratto al carbono” menzionato nel carteggio di Isabella d’Este, con il disegno 414 E. conservato presso il Gabinetto dei Disegni e delle Stampe degli Uffizi24 (fig. 2). Tale identificazione, tuttavia, è stata ben presto abbandonata dalla critica, che oggi si presenta unanime nell’identificare il disegno conservato presso il Département des Arts Graphiques del Louvre come il cartone per il ritratto di Isabella d’Este eseguito da Leonardo fra il 1499 e il 1500. __________ Bibliografia: Vallardi 1855, p. 66; Yriarte 1888, p.121-131; Luzio 1900, p. 352-354; Berenson 1903, I, pp. 159-160; Cartwright 1903, I, 171-173; 23 24
Yriarte 1888, pp. 116-131 Luzio1913, pp. 198-201.
89
Luzio 1913, pp. 198-201; Beltrami 1919, pp. 57, 98, 211; Clark [1939] 1988, p. 159; Beguin 1975, p. 4; Romano 1981, p. 41; Splendours of the Gonzaga 1981, pp. 159-160; La Prima Donna del Mondo 1994, pp. 8890; Bambach 1999, pp. 111-114; Viatte 1999; Frison 2000, pp. 70-76; F. Viatte in Léonard de Vinci 2003, pp. 185-189; Ventura 2003, pp. 24-28.
LE COPIE DEL CARTONE DI LEONARDO PER UN RITRATTO DI ISABELLA D’ESTE
Le fonti testimoniano l’esistenza di tre versioni ‘d’autore’ del disegno di Leonardo: le due eseguite durante il soggiorno mantovano e quella richiesta da Isabella nel 1501 (cfr. capitolo III, paragrafo III). Attualmente si conoscono cinque copie del cartone del Louvre25. Una di esse è conservata presso le Gallerie degli Uffizi (cat. 7), una si trova all’Ashmolean Museum di Oxford (cat. 8), un’altra fa parte delle collezioni del British Museum (cat. 9) e le restanti due sono conservate presso la Staatliche Graphische Sammlung di Monaco di Baviera (cat. 10 e 11). Nel suo articolo del 1888 Charles Yriarte, che conosceva solamente le copie di Oxford e di Firenze, riteneva che, fortunosamente, si fossero conservate tutte e tre le varianti del disegno di Leonardo. Alessandro Luzio, portando come prova l’esistenza dei due disegni di Monaco (che, invero, sembrano essere copie ottocentesche), così sentenziava nel 1913: Questa abbondanza di copie, che io non ho potuto esaminare, mi lascia abbastanza scettico, poiché i documenti parlano di due soli, al più di tre, schizzi del ritratto leonardesco; e avendo la Marchesa rinunziato a vedersi “ritratta di colore”, non c’era per l’artista bisogno di far tanti studi preparatori26.
25 26
Bambach 1999, p. 414. Luzio 1913, p. 235.
90
Il giudizio del Luzio, fortemente pregiudicato dalla mancata visione (neppure tramite riproduzione fotografica) delle opere, non tiene conto della notevole fortuna dei disegni leonardeschi, che vennero copiati e riprodotti per lungo tempo. Oltre a non pregiudicare affatto l’originalità del cartone parigino, l’esistenza delle sue repliche si rivela interessante perché da un lato permette di ricostruirne l’aspetto originale, e dall’altro consente di studiare i complessi rapporti fra modello e copie. La storia di questi rapporti è ricostruibile grazie alla presenza o all’assenza di alcuni particolari e all’estensione delle aree del disegno riprodotte nelle copie. Sulla paternità leonardesca del cartone parigino la critica non ha dubbi. Non è però possibile stabilire con certezza quale delle tre versioni documentate dal carteggio isabelliano essa sia. La foratura, come si è visto, è infatti cronologicamente distante dalla realizzazione dell’opera, e anziché essere un dato chiarificatore rappresenta un elemento disorientante. Lo stemma delle copie del cartone leonardesco si presenta pertanto bifido già all’origine: delle due copie realizzare a Mantova fra il dicembre del 1499 e il febbraio del 1500 qual è quella oggi conservata a Parigi? O forse il cartone del Louvre è la replica richiesta nel 1501? Lasciando in sospeso la questione della radice dello stemma delle effigi leonardesche della marchesa di Mantova – irrisolvibile in assenza di documenti certi – è comunque possibile indagare i rapporti che intercorrono fra le varie copie, analizzando e confrontando le particolarità di ciascuna di esse. Sembrano derivare direttamente dal cartone parigino – o una delle sue copie autografe non conservate – i disegni di Oxford e di Firenze. Il primo riporta tutti gli elementi presenti nell’originale, restituendoci anche alcuni dettagli obliterati dal taglio che ne interessò la parte inferiore.
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Il secondo riporta in modo chiaro la testa e il decolleté, incorniciato dalle increspature della camicia, e anche alcuni elementi del corpetto. Rispetto all’originale parigino, in questa copia lo scollo della veste appare più profondo e più squadrato. Dal disegno fiorentino sembrano derivare la copia del British Museum e il disegno 2154 della Staatliche Graphische Sammlung di Monaco Nel disegno londinese (cat. 9) è ben riconoscibile l’orlatura increspata della camicia, mentre l’area del corpetto sconfina oltre i bordi del foglio. La copia di Monaco (cat. 10) presenta invece la scollatura nella sua interezza, caratterizzata da una forma e una profondità simili a quelle della versione degli Uffizi. Un fraintendimento del modello ha reso lo scollo della veste parallelo a quello della camicia, dando così l’impressione di un’unica orlatura a fascia, larga e continua, lungo tutto il decolleté. Il disegno 2155 della Staatliche Graphische Sammlung di Monaco (cat. 11) è quello che presenta maggiori difficoltà. In esso, infatti, i lineamenti del viso appaiono irrigiditi, l’altezza della fronte è notevolmente aumentata e la testa presenta un’inclinazione differente da quella, abbastanza costante, di tutte le altre repliche. Come l’altra copia di Monaco, anche questa sembra derivare dalla variante dell’originale conservata a Firenze. Tuttavia, riportando il disegno all’inclinazione originale (forse variata da un ridimensionamento del foglio), si potrà notare che le aree ed i dettagli rappresentati nel disegno sono gli stessi presenti nella copia del British Museum. Possiamo quindi supporre che il disegno 2155 di Monaco, probabilmente ascrivibile all’800, sia una copia di terzo grado dell’originale leonardesco, mediata prima dalla variante di Firenze e poi da quella di Londra.
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Cat. 7 – Scuola di Leonardo da Vinci, Ritratto di Isabella d’Este, matita rossa, tracce di matita nera, acquerellature rossicce su carta bianca filigranata incollata su tela, inizi del XVI secolo, Firenze, Galleria degli Uffizi, Gabinetto Disegni e Stampe
Altezza mm 325 Larghezza mm 238
Il Gabinetto dei Disegni e delle Stampe degli Uffizi conserva una copia del cartone per un ritratto di Isabella d’Este del Louvre. Un tempo questa copia era considerata di mano di Leonardo e superiore al cartone parigino. Si tratta invece di un disegno di scuola, databile fra il 1500 ed il 1510. Rispetto all’originale, la copia fiorentina mostra con maggior chiarezza il trattamento dell’acconciatura: i capelli sono ondulati, arricciati sul davanti e trattenuti all’altezza della fronte da un nastro. Il capo è poi coperto da un sottile velo, che si vede chiaramente sulla fronte e sulle tempie. Il profilo del viso, seppur fortemente rassomigliante a quello del Louvre, appare qui idealizzato. Lo scollo della camicia è leggermente più profondo e squadrato rispetto all’originale. La prima annotazione del rapporto fra questo disegno e il cartone parigino si ritrova nelle annotazioni dell’inventario della propria collezione, stilato da Vallardi nel 1855. Una seconda testimonianza appare nel catalogo dei disegni degli Uffizi, stilato da Nerino Ferri nel 1881, in cui dice a riguardo del disegno di Firenze: “Un disegno simile a questo trovasi nella collezione dei disegni del Louvre. Credasi il ritratto di Giovanna d’Aragona”. In seguito, presumibilmente dopo la pubblicazione dell’articolo dello Yriarte del
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1888, l’ultima frase venne così corretta: ‘Credesi il ritratto della Marchesa Isabella d’Este ed è ritenuto per il vero originale’. Delle tre copie attestate dai documenti (cfr. supra e capitolo III, paragrafo III) due vennero eseguite durante il soggiorno di Leonardo a Mantova (dicembre 1499-febbraio 1500). Una terza copia del disegno venne richiesta da Isabella nel marzo del 1501, per mezzo di Pietro da Novellara. Lo stesso Pietro da Novellara, il 3 Aprile 1501, informava Isabella che “la vita di Leonardo è varia et indeterminata sorte, sì che pare vivere a giornata”, e che il pittore aveva presso di sé due garzoni che teneva occupati “a far retratti”, correggendone alle volte le opere27. È quindi possibile supporre che questo disegno, datato agli inizi del XIV secolo e attribuito alla scuola di Leonardo da Vinci, sia opera di uno dei due garzoni che vivevano a Firenze presso il maestro. La forte idealizzazione dei tratti impedisce infatti di supporre che questo sia uno dei due ritratti eseguiti da Leonardo alla presenza di Isabella. Nel XIX secolo il disegno era esposto presso il corridoio vasariano degli Uffizi e godette di una certa fama, come dimostrato dall’esistenza delle due copie ottocentesche conservate presso la Staatliche Graphische Sammlung di Monaco di Baviera (cat. 10 e 11). __________ Bibliografia: Vallardi 1855, p. 2 ; Ferri 1881, p. 26; N. Giannantoni in Mostra Iconografica Gonzaghesca 1937, p. 20; Petrioli Tofani 1986, p. 188; Viatte 1999, p. 6.
27
Venturi 1888a, p. 46.
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Cat. 8 – Copia da Leonardo da Vinci, Profilo di Isabella d’Este, carboncino, XVI secolo, Oxford, Ashmolean Museum
Altezza mm 629 Larghezza mm 484 (su due fogli di carta a grana grossa uniti orizzontalmente) L’Ashmolean Museum di Oxford possiede una copia del cartone di Leonardo conservato al Louvre (cat. 6), pressoché identica al modello nelle dimensioni. Tale copia, seppure sia di qualità nettamente inferiore rispetto all’originale, permette di leggere con chiarezza alcuni elementi scomparsi nel disegno parigino. In particolare, presentando integra la parte inferiore, che nel cartone del Louvre è stata tagliata, permette di riconoscere chiaramente il parapetto posto davanti alla figura, sul quale si appoggiano entrambe le mani (nel cartone parigino se ne vede solo una) e dove è riposto il libro chiuso indicato dall’indice della mano destra. Nella copia di Oxford si distingue nettamente anche il velo che copre i capelli. La forma della scollatura è identica a quella del disegno leonardesco, mentre risulta variato il numero delle liste che ornano la camicia ed il corpetto dell’abito. I fiocchi che uniscono le maniche al bustino differiscono notevolmente da quelli riconoscibili in base alla foratura del cartone parigino. Anche il trattamento della capigliatura risulta essere differente: mentre nel disegno del Louvre scende fino a toccare lo scollo della camicia, qui si interrompe prima. I rapporti volumetrici fra le varie parti del disegno risultano alterati rispetto all’originale: in particolare il busto è notevolmente allungato, secondo una rappresentazione anatomicamente più veritiera.
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Il disegno entrò a far parte della collezione dell’Ashmolean Museum nel 1834, quando venne lasciato in eredità all’Università di Oxford da Francis Douce. Prima dell’acquisto da parte di Douce, il disegno si trovava nella collezione di Sir Udny. __________ Bibliografia: Luzio 1887, p. 31; Cartwright 1903, I, pp.150-151; Luzio 1913, p. 198; Parker 1972, p. 13; J. Martineau in Splendours of the Gonzaga 1981, pp. 159-160; Bambach 1999, p. 111-112.
Cat. 9 – Copia da Leonardo da Vinci. Ritratto di Isabella d’Este, matita rossa, matita nera, su carta marrone, datazione incerta (prima metà del XVI secolo?), Londra, British Museum, Department of Prints and Drawings
Altezza mm 252 Larghezza mm 183
Il British Museum conserva una copia del disegno di Leonardo con il Ritratto di Isabella d’Este, con maggior probabilità della sua variane conservata agli Uffizi. In questo disegno il modellato del viso, seppur sempre caratterizzato da una visione idealizzata del soggetto, appare più realistico rispetto al modello fiorentino: i tratti del profilo, seppur regolari, sono resi con maggior morbidezza e presentano alcune affinità con il cartone parigino. Il disegno si interrompe bruscamente nelle aree corrispondenti alla spalla destra e all’estremità della chioma, ove le linee arrivano a toccare i limiti del foglio. Lo scollo dell’abito è abbozzato in maniera piuttosto sommaria, sebbene si riescano a riconoscere le increspature della camicia.
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La datazione di questo disegno, generalmente considerato della prima parte del XVI secolo, è incerta28. Il termine ‘ante quem’ è il XVIII secolo, periodo a cui risale il supporto sul quale il disegno è incollato. Prima del suo ingresso nelle collezioni del British Museum (1940), il disegno era di proprietà di Sir Henry Watking Williams-Wynn, e precedentemente di Mrs Stanley Leighton29.
Cat. 10 – Copia da Leonardo. Profilo di Donna verso Destra. Isabella d’Este, sanguigna, XIX secolo, Monaco, Staatliche Graphische Sammlung
Altezza mm 270 Larghezza mm 217 Inv. 2154 Cat. 11 – Copia da Copia da Leonardo. Ritratto in profilo. Isabella d’Este (?), XIX secolo, sanguigna, Monaco, Staatliche Graphische Sammlung
Altezza mm 240 Larghezza mm 187 Inv. 2155
La Staatliche Graphische Sammlung di Monaco di Baviera conserva due copie del disegno ritratto di Isabella d’Este eseguito da Leonardo in forma di disegno.
28
Comunicazione personale all’autore di Hugo Chapman, conservatore dei disegni italiani del British Museum (e-mail del 30-01-2001)."No hypothesis about dating, looks first part of 16th century but impossible to be certain". 29 Comunicazione personale all’autore di Hugo Chapman (e-mail del 30-01-2001).
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Nonostante i due fogli rappresentino chiaramente lo stesso soggetto, uno di essi è catalogato in forma dubitativa. Al pari della copia londinese, anche questi due disegni sembrano derivare dal foglio conservato a Firenze. Il disegno catalogato con il numero 2154 (cat. 10) è quello che presenta maggiori affinità con la copia degli Uffizi. Le aree rappresentate nei due disegni sono infatti le stesse. Si riscontrano alcune divergenze nel trattamento del profilo: il ponte del naso è più morbido e le labbra sono più carnose. Altre differenze si ritrovano nello scollo della veste: in questa copia non è stata riportata l’increspatura della camicia e lo scollo del corpetto è stato trasformato da squadrato in rotondo, con un andamento parallelo allo scollo della camicia, creando così l’impressione di un’orlatura a fascia lungo tutta la scollatura. Il disegno 2155 (cat. 11) è catalogato in forma dubitativa. In effetti fra tutte le repliche del cartone del Louvre, questa è quella che più si discosta dall’originale. In prima evidenza l’elemento che più differenzia questo disegno dalle altre copie è l’altezza della fronte. Il profilo appare più severo. Ciò è dovuto in parte al fatto che la testa è ritratta con un’inclinazione minore rispetto alle altre copie. Le linee del disegno si interrompono bruscamente ai limiti del foglio nelle aree corrispondenti alla sommità del capo, all’estremità inferiore della chioma e alla spalla destra. A differenza dell’altro disegno di Monaco, in questa replica sono presenti le increspature della camicia. Se si esclude la lacuna presente all’estremità superiore del disegno (forse causata da un ridimensionamento del foglio), le aree e gli elementi rappresentati corrispondono esattamente a quelli presenti nella versione
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del British Museum, a sua volta copia del disegno conservato agli Uffizi. È quindi possibile considerare questo disegno una copia di terzo grado dell’originale leonardesco. Riguardo alla datazione dei due disegni conservati a Monaco, probabilmente si tratta di copie ottocentesche degli originali30.
Cat. 12 – Anonimo scultore messinese, Ritratto di Isabella d’Este, bassorilievo in marmo entro una cornice di legno dipinta in oro e blu, 1506, Barcellona, Collezione Malagelada
Altezza cm 44 Larghezza cm 31
Bassorilievo marmoreo con ritratto di dama volta a sinistra, con lussureggiante capigliatura sciolta sulle spalle e trattenuta all’altezza della fronte da una lenza ornata al centro da un gioiello in forma di fiore a sei petali. Sul decolleté una tripla collana di perle da cui pende una croce. La dama indossa un abito importante con maniche staccate assicurate al bustino tramite lacci. Il giro della spalla è circondato dagli sbuffi della camicia sottostante, che fuoriescono dalle aperture fra un laccio e l’altro. Il bassorilievo è da mettere in relazione al carteggio isabelliano del 1506, in cui si parla di una “testa de marmo”. In quell’anno, Eleonora del Balzo-Orsini, marchesa di Crotone (all’epoca Cotrone) aveva fatto eseguire a Messina, da un anonimo “maestro de 30
Comunicazione personale all’autore di Kurt Zeitler, conservatore della Staatliche Graphische Sammlung di Monaco (intervista telefonica).
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scultura molto excellente”, un ritratto in marmo di Isabella. Per realizzare l’opera l’anonimo scultore si era servito della medaglia di Gian Cristoforo Romano. L’opera era stata poi inviata a Mantova per ispezione, ma Isabella la trattenne, e dopo poco tempo la donò via. Quando la marchesa di Crotone chiese indietro l’opera, Isabella si rivolse a Gian Cristoforo Romano, come attestato da una lettera all’agente mantovano a Roma: Fareti dire [alla Marchesa di Crotone] che scriveremo a Zo. Cristoforo sculptore che’l gli facci un ritratto in marmo de la effigie nostra perché non sapendo che la volesse indietro quella che ce haveva mandato lei, noi la donassimo a persona che ce lo richiese et ne paria villania a repeterlo31.
Alessandro Luzio riteneva che sia l’opera fatta eseguire dalla marchesa di Crotone che quella commissionata da Isabella fossero busti marmorei32. In realtà, almeno nel caso della scultura fatta eseguire a Messina, pare più probabile che si trattasse di un bassorilievo: un ritratto derivante da una medaglia è infatti identificabile con più probabilità in un bassorilievo recante un profilo, piuttosto che in una scultura a tutto tondo. Il 20 marzo 1999 ad un’asta di Christie’s veniva venduto un bassorilievo attribuito a Gian Cristoforo Romano e ritenuto un ritratto di Isabella d’Este. L’opera, ora nella collezione Malagelada a Barcellona, per ragioni stilistiche non sembra da attribuire al Romano. Convincente invece è l’identificazione del soggetto in Isabella d’Este: il profilo della dama ritratta ricorda infatti molto da vicino quello presente sulla medaglia di Isabella (cfr. tavola 3). A questo punto appare probabile l’identificazione del bassorilievo ora a Barcellona con il ritratto marmoreo fatto scolpire in absentia dalla 31
Lettera di Isabella d’Este a Floramonte Brognolo (12 marzo 1506), citata in Luzio 1913, p. 202. 32 Luzio 1913, p. 203.
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marchesa di Crotone proprio sul modello della medaglia33. Il dato apparentemente
negativo
del
rovesciamento
dell’immagine
non
smentisce il nesso tra la medaglia e il rilievo: l’inversione speculare pare anzi una forte e certa conferma della presenza di un veicolo di trasmissione dal modello alla riproduzione, identificabile in un calco34. La cornice a edicola che racchiude il rilievo afferisce ad una tipologia molto diffusa in Italia centro-settentrionale a cavallo fra il XV e il XVI secolo. Le fasce piatte delle lesene, dell’architrave e della base sono decorate con racemi dorati su fondo blu. I capitelli e le modanature sono invece decorati con foglia d’oro. La policromia della cornice, offrendo un chiaro ed esplicito rimando ai colori araldici della casa d’Este, costituisce un ulteriore elemento che conferma l’identificazione della dama effigiata in Isabella. Potrebbe invece far sorgere dei dubbi la discrepanza fra la specifica tipologia della cornice, diffusa nell’Italia centro-settentrionale e poco riscontrata nel meridione, e il dato certo della realizzazione della scultura a Messina. Tuttavia la parte del rilievo incassata nel legno appare dotata di una modanatura apicale in forma di architrave. Ciò dimostra che, in origine, il rilievo fu pensato come opera conclusa in se stessa, priva di incorniciatura. Verosimilmente, quindi, la cornice venne creata in un secondo momento, probabilmente dopo l’arrivo dell’opera a Mantova. __________ Bibliografia: Luzio 1913, pp. 202-203; Christie’s 1994, n. 34; Christie’s 1999, n. 43; Bonoldi 2000; Ventura 2003, p. 26.
33 34
Bonoldi 2000. Cfr. Bonoldi - Centanni 2000.
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TAVOLA 3
Fig. A – Anonimo scultore messinese, Ritratto di Isabella d’Este, bassorilievo in marmo, 1506, Barcellona, collezione Malagelada. Fig. B – Gian Cristoforo Romano, Medaglia di Isabella d’Este (immagine basculata), 1505, Vienna, Kunsthistorisches Museum.
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Cat. 13 – Anonimo intagliatore italiano, Cammeo in onice recante il ritratto di Isabella d’Este, inizi del XV secolo, montatura in oro del XVIII secolo, Vienna, Kunsthistorisches Museum Cammeo: mm 14,5x11 Anello: diametro mm 18 Busto di giovane donna volto a destra. I capelli, trattenuti da un nastro passante sulla parte più alta della fronte, sono raccolti sulla schiena da un velo. L’acconciatura, caratteristica dell’abbigliamento alla moda delle donne d’alto rango nell’Italia settentrionale degli anni a cavallo fra il XV e il XVI secolo (cfr. tavola 1.a), è la stessa del busto in terracotta già nella fondazione Thyssen-Bornemisza (cat. 5). Alcune analogie fra il profilo di questo intaglio e quello tracciato da Leonardo da Vinci nel cartone conservato al Louvre (cat. 6) hanno portato a identificarne il soggetto con Isabella d’Este35. La passione della marchesa per le pietre intagliate è nota e documentata: cammei antichi e all’antica, ma anche intagli fatti eseguire ad hoc per veicolare i suoi motti e le sue imprese vengono nominati nel carteggio isabelliano36. La moda del cammeo, che toccherà il suo apice nel XIX secolo, rappresenta un importate filone della storia della tradizione classica: come per le medaglie, infatti, anche in questo caso si recupera, reinventandolo e attualizzandolo, un linguaggio artistico fortemente caratterizzato come ‘classico’, quando però per ‘classico’ si intende un qualcosa di assolutamente ‘moderno’. Affidando il proprio profilo all’onice intagliata, i signori del Rinascimento si connotano come eredi degli antichi, quegli stessi antichi di cui collezionavano gemme e monete. 35 36
La Prima Donna del Mondo 1994, p. 106. Luzio - Renier 1986, pp. 318 e segg. (fasc. 16 luglio).
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Di questo anello esiste un pendant, conservato anch’esso al Kunsthistorisches Museum di Vienna (fig. 22). Il soggetto dell’intaglio è stato identificato con il cardinale Ippolito d’Este, fratello prediletto di Isabella37. Un altro cammeo, sempre di proprietà del Kunsthistorisches Museum, ma privo di montatura, reca il ritratto di Borso d’Este38. Questo fatto ci porta a supporre per il ritratto in onice di Isabella una committenza ferrarese e non mantovana, supposizione avvalorata dall’inesistenza di ritratti in onice di membri della corte Gonzaga ascrivibili a quest’epoca. I cammei sono entrati nelle collezioni del Kunsthistorisches Museum tramite la collezione imperiale degli Asburgo; non si conosce alcun dato riguardante la loro collocazione anteriore al 1821. __________ Bibliografia: Eichler-Kris 1927, p. 101; La Prima Donna del Mondo 1994, p. 106; Seipel 1998, p. 62.
37 38
La Prima Donna del Mondo 1994, p. 34. La Prima Donna del Mondo 1994, p. 28.
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Cat. 14 – Lorenzo Costa, Incoronazione di Isabella d’Este, 1505-1506, Parigi, Musée du Louvre
Altezza cm 164,5 Larghezza cm 197,5
L’opera, nota anche come Allegoria della Corte di Isabella d’Este, è l’unica fra le opere dello Studiolo isabelliano in cui la Marchesa viene rappresentata direttamente e non per mediazione allegorica: per questo motivo viene qui presa in esame nel regesto dei ritratti di Isabella d’Este. Al quadro, che occupava da solo la parete di fondo dello Studiolo del Castello di San Giorgio39, era affidato l’importante compito di chiudere il ciclo allegorico commissionato dalla Marchesa. La tela rappresenta infatti una lode pittorica di Isabella e ne celebra il trionfo intellettuale e morale, mostrandone l’incoronazione a regina delle arti o, per usare le parole di Mario Equicola, a “decima musa”40. La scena si svolge in un locus amoenus, su un’altura prospiciente il mare. Entro uno spazio recintato, attorniata da personaggi recanti strumenti delle scienze e delle arti, Isabella, vestita di un abito alla moda del primo cinquecento, è al cospetto della Venere Celeste. La Marchesa china il capo mentre Anteros, sorretto dalla madre, la incorona con una ghirlanda di mirto. Sullo sfondo, presso la foce di un fiume, si svolge una battaglia, possibile allusione alle virtù belliche del marchese Francesco II Gonzaga, associate a quelle morali della moglie Isabella nel perfetto binomio della 39
Liebenwein [1977] 1988, p. 85. Mario Equicola, Nec Spe Nec Metu (red. manoscritta 1505-06, ed. a stampa 1513): “Quae Decima Musa es, Superi te servent Isabella”, citato in Liebenwein [1977] 1988, p. 176, nota 498). 40
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cultura cortigiana armae et litterae. A guardia del recinto che delimita il templum – forse il templum sapientiae di cui parla Lucrezio nel De Rerum Natura (II. 1-13)41 – sono Diana e un guerriero che ha appena decapitato un drago, forse da identificare con Cadmo, sposo di Armonia (se così fosse i guerrieri sullo sfondo potrebbero essere quelli nati dai denti del drago ucciso da Cadmo)42. Presso l’ingresso dell’area in cui avviene l’incoronazione di Isabella due fanciulle siedono a terra, incoronando con ghirlande una capra ed un bue. Si è voluto riconoscere in queste due figure le personificazioni delle Bucoliche e delle Georgiche di Virgilio43, il poeta latino da sempre vanto della città di Mantova. Qualora questa ipotesi si dimostrasse corretta, la presenza di queste due personificazioni semantizzerebbe la scena come rinascita degli antichi fasti mantovani. Dal carteggio isabelliano si deduce che il programma iconografico venne dettato a Lorenzo Costa dal letterato Paride da Ceresara nel 150444. Purtroppo i documenti d’archivio non hanno conservato il testo dell’invenzione. All’epoca il pittore si trovava ancora a Bologna alla corte dei Bentivoglio. L’opera – seppur ideata e commissionata dalla corte mantovana – venne peraltro pagata da Anton Galeazzo Bentivoglio, Signore di Bologna e ‘donata’ alla Marchesa in cambio dell’accoglienza a Mantova della sorella Violante, bisognosa di un trasferimento perché afflitta da una malattia nervosa45. Nell’inventario dei beni appartenuti a Isabella d’Este, redatto nel 1542, l’opera è descritta come ‘un quadro de pictura di mano del già messer 41
Ventura 1998, p 39. Liebenwein [1977] 1988, p. 92. 43 Negro - Roio 2001, p. 124 . 44 Liebenwein [1977] 1988, p. 94. 45 Negro - Roio 2001, p. 123. 42
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Lorenzo Costa pittore, con diverse figure dentro, ch’è dal lato della finestra a man destra e con verdure dentro et una incoronazione’. L’opera restò nelle collezioni Gonzaga fino a quando – in una data imprecisata fra il 1626 e il 1632 – Ferdinando Gonzaga la donò, insieme alle altre tele dello Studiolo, al cardinale Richelieu, al fine di ottenere intercessione diplomatica presso la Corona di Francia per il conferimento del titolo di ‘Altezza’ a Vincenzo Gonzaga46. Quando le collezioni Richelieu vennero confiscate nel 1801, i quadri dello Studiolo passarono al Musée Central des Arts, ribattezzato poi Musée Napoleon, e infine Louvre. __________ Bibliografia: D’Arco 1845, p. 324; Crowe - Cavalcaselle [1871] 1912, pp. 260-261; Venturi 1889-89, pp. 251-253; Venturi 1888-89, p. 103; Benson 1894, p. 38; Luzio 1900, pp. 354-359; Berenson 1907, p. 204; Luzio 1913, pp. 139-141, 200-201, 205-206, 234-235, 301-302; Venturi 1914, pp. 756, 794-796; Wind 1948, pp. 49-50; Marani - Perina 1961, p. 374; Brown 1966, pp. 253 segg., 434; Verheyen 1971, p. 17-20, 44-46; S. Beguin in Le Studiolo d’Isabelle d’Este 1975, pp. 47-49; J. Martineau in Splendours of the Gonzaga 1981, pp. 162-166; Romano 1981, p. 53; Tosetti Grandi 1984, p. 216; Ugolini 1987, p. 80; Paolucci 1988, p. 46; Tellini Perina 1989, pp. 24, 26, 224; Brown 1990, pp. 54-55; Iotti Ventura 1993, p. 50; S. Ferino-Pagden in La Prima Donna del Mondo 1994, pp. 229-235; Ventura 1995, pp. 39, 78, 98, 113; Brown - Lorenzoni 1997, pp. 193-194; Ventura 1998, pp. 38-41; Negro - Roio 2001, pp. 123-124.
46
Loire 2002, p. 262.
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Cat. 15 – Lorenzo Costa, Ritratto di Dama (Isabella d’Este?), 1508, Manchester (U.S.A.), The Currier Gallery of Art
Altezza cm 44,7 Larghezza cm 35,7
Busto di donna in tre quarti. La dama indossa un abito dal corpetto rosso e verde, a scollo squadrato, con maniche staccate decorate a liste gialle e rosse. Il giro della spalla è incorniciato dagli sbuffi della camicia. L’acconciatura è a coazon. Alcune ciocche ribelli volteggiano ariose ai lati del volto. Dal lato sinistro della testa – l’unico visibile – pende un gioiello composto da un balasso o un rubino legato in tavola con una perla a forma di pera come pendente. Al collo un gioiello composto da tre gemme, da cui pende una perla simile a quella che orna il capo della dama. Il busto è decorato da un’altra collana, dal giro più largo, composta da elementi poliedrici di colore scuro, forse di ambra nera, disposti a coppie. L’identificazione del ritratto con uno di quelli commissionati da Isabella d’Este al Costa nel 1508 non è pacifica. I dubbi di parte della critica sono stati sollevati riguardo all’abbigliamento e all’acconciatura della dama ritratta, che sarebbero di un decennio anteriori all’arrivo a Mantova del Costa. In realtà, se è vero che la moda spagnola del coazon fiorisce già nell’ultimo quarto del XV secolo, essa perdura almeno per tutto il primo decennio del XVI secolo, come dimostrato da una delle piastre in argento dell’Arca di San Maurelio (1512), in cui è sfoggiata da Lucrezia Borgia e da alcune dame del suo seguito (fig. 23). Se si accetta la datazione del
108
ritratto
alla
stagione
mantovana
della
produzione
costesca47,
l’identificazione dell’identità della dama con Isabella d’Este (o con la figlia Eleonora) non trova molte alternative: i documenti giustificano infatti l’esistenza di un ritratto di Laura Bentivoglio Gonzaga di mano del Costa, ma le copie/varianti del quadro in questione (almeno due) scoraggiano quest'ipotesi e avvalorano invece quella che identifica il soggetto del ritratto con la Marchesa o con la figlia, di cui esistevano numerose copie. In questo caso il confronto con altri ritratti isabelliani non è utile. L’opera ritrattistica di Lorenzo Costa, soprattutto per quanto riguarda le effigi femminili, è infatti caratterizzata da una forte idealizzazione dei soggetti, tanto che si è soliti parlare di una tipologia ritrattistica sovraindividuale in cui le sembianze sono rese in maniera ambigua, ermetica, quasi indifferente alla resa puntuale dei tratti fisionomici48: la dama di Manchester, e la somigliante Dama con cagnolino di Hampton Court (cat. 16) mostrano numerose analogie con sante e madonne dipinte dal Costa nel medesimo periodo. Una conferma della possibile identificazione della Dama di Manchester con Isabella d’Este viene invece offerta dal gioiello che la Signora mostra sul petto, simile a quello ricordato nell’Inventario Stivini: Con trei pecci di gioie, cioè un rubino grande in tavola quadro, di parangone, un diamante quadro di menor grandoccia et un smeraldo quadro della medema grandeccia, con una perla grossa in pendente in forma di pero, legata in oro, a triangolo, con fogliame.
Il gioiello qui ricordato è elencato in apertura dell’inventario dei tesori conservati nella Grotta e nello Studiolo di Isabella d’Este (1542), nel regesto delle gioie che Margherita Paleologo “illustrissima et
47 48
Perina 1961, p. 375. Negro - Roio 2001, p. 39.
109
eccellentissima signora duchessa ha presso di lei49”. Conviene qui ricordare che tutto il contenuto della Grotta, per espressa volontà testamentaria di Isabella, apparteneva al figlio Federico, tuttavia, sempre secondo gli intenti della Marchesa: L’illustrissima signora Duchessa de Mantua soprascritta l’habbi a godere et tenere in custoria et governo per suo diletto et piacere, essendo perhò la proprietà et dominio del predicto signore Duca50.
È pertanto probabile che i venticinque gioielli elencati in apertura dell’inventario come “gioie presso la duchessa” siano da intendersi per buona parte pezzi isabelliani momentaneamente distratti dal resto della collezione in virtù del diritto di usufrutto di cui era investita la Paleologo. Il gioiello che pende dalla lenza ricorda invece quello menzionato dal Trissino ne I Ritratti, in cui Isabella porta sul capo “un bellissimo e fiammeggiante rubino, dal quale una lucidissima e grossa perla pendeva51”. L’opera, proveniente da una collezione privata milanese, passò agli inizi del
XX
secolo
nelle
proprietà
della
baronessa
Mumm
von
Schwarzenstein, di qui trasmigrò oltreoceano nel 1927 e, dopo aver sostato in varie collezioni private newyorkesi, passò nel 1947 alla Currier Gallery of Art di Manchester (New Hampshire). __________ Bibliografia: Venturi 1914, p. 810; Marani - Perina 1961, p. 375; Brown 1966, pp. 253 segg., 434; Ugolini 1987, p. 80; S. Ferino-Pagden in La Prima Donna del Mondo 1994, pp. 107-110; Negro - Roio 2001, pp. 126127.
49
Inventario delle gioie che la illustrissima et eccellentissima signora duchessa ha presso di lei in Ferrari 1995, p. 16. 50 Testamento della quondam Illustrissima et Eccellentissima Signora Isabella Estense da Gonzaga Marchesana di Mantua di Felice Memoria (22 dicembre 1535), in Malacarne 2001a, pp. 252-262. 51 TRISSINO (ed. 1729), p. 273.
110
Cat. 16 – Lorenzo Costa, Ritratto di Dama con cagnolino (Isabella d’Este?), 1508, Londra, Hampton Court
Altezza cm 45,5 Larghezza cm 35,1
Busto di donna in tre quarti. La dama indossa un abito dal corpetto rosso a scollo squadrato, decorato al centro da due fiocchi allineati verticalmente. Le maniche, assicurate al corpetto tramite lacci, sono decorate a liste di colore bruno su fondo azzurro. Al centro di ogni lista una sottile fascia dorata. Il giro della spalla è incorniciato dagli sbuffi della camicia. L’acconciatura è a coazon. Il busto è decorato da una collana dal giro molto ampio, composta da elementi sferici di colore scuro, forse di ambra nera, disposti a coppie. La dama tiene in grembo un piccolo cane bianco a pelo lungo. L’opera, inizialmente ascritta al Perugino, fu restituita a Lorenzo Costa nel 1883 da Giovanni Morelli52. Il primo a proporre l’identificazione del soggetto con Isabella d’Este fu Robert Henry Benson, che avanzò l’ipotesi in occasione della mostra Exhibition of Pictures, Drawings, Photographs of the Works of the School of Ferrara-Bologna, 1440-1540 (Londra 1894)53. In seguito Alessandro Luzio54 ribadì l’identificazione aggiungendo anche la possibilità che il piccolo cane del dipinto potesse essere Aura, la “vergine cuccia” della Marchesa, sulla cui morte
52
Morelli 1883, p. 234. Benson 1894, n. 17. 54 Luzio 1900, pp. 344 e segg. 53
111
“incontrata per sfuggire gli amplessi d’un indiscreto adoratore, piansero a gara tutti i poetucoli del tempo55” L’aspetto giovanile della dama di Hampton Court persuase parte della critica che l’effigiata fosse Eleonora Gonzaga, figlia di Isabella. Il forte carattere idealizzante della pittura costesca, tuttavia, invalida sul nascere qualsiasi argomentazione basata sull’età della dama ritratta. Una piallatura sul bordo sinistro della tavola lascia peraltro supporre che il quadro fosse in origine lo sportello destro di un dittico56. La presenza del cane ha convinto parte della critica, fra cui Giovanni Romano57 e Paola Tosetti Grandi58 che il quadro non sia un ritratto, ma una generica allegoria o personificazione della fedeltà, o ancor peggio, un “Ritratto di Isabella d’Este in veste di Fedeltà59”. Pietro Marani sostiene invece che questo ritratto sia sostanzialmente una traduzione in chiave domestica della Dama con l’Ermellino chiesta al Costa da Isabella, ancora memore nel 1508 del ritratto leonardesco visto dieci anni prima.60 In realtà, la Dama con cagnolino di Hampton Court e la simile Dama di Manchester (cat. 15) sembrano semmai più avvicinabili alla Belle Ferronière del Louvre piuttosto che al ritratto di Cecilia Gallerani. Il Ritratto di Dama con cagnolino risulta nelle collezioni reali inglesi già dai tempi di Carlo II a Whitehall, in seguito risulta a Hampton Court e a Kensington Palace (1818), con attribuzione al Perugino. Nominato nell’inventario di Redgrave del 1866, risulta essere stato inviato a Windosr Castle nel 1938. Dal 1955 è conservato stabilmente ad Hampton Court. L’appartenenza alle collezioni reali inglesi da tempi così remoti, e la mancanza dell’indicazione specifica di un ritratto di Isabella d’Este di mano del Costa nell’inventario dei beni venduti all’Inghilterra nel 162755
Luzio 1919, p. 208; Luzio - Renier 1900, pp. 44-47. Sherman 1983, p. 83. 57 Romano 1981, p. 84. 58 Tosetti Grandi 1984, p. 216. 59 Frison 2000, p. 57. 60 Marani 1998, p. 41. 56
112
28, portarono il Luzio alla convinzione che fosse questo il ritratto della Marchesa inviato come dono diplomatico a Enrico VIII nel 151461. Oltre alla Dama di Manchester – simile ma non identica – un’ulteriore replica, sempre con cagnolino, ma con espressione diversa della dama, già nella collezione Strebini di Roma (cat. 16.a), fu venduta da Christie’s l’8 luglio 1938. L’attuale collocazione dell’opera non è nota. __________ Bibliografia: Powell 1853, p. 43; Morelli 1883, p. 234; Benson 1894, n. 17; Luzio 1900, pp. 334 e sgg.; Berenson 1907, p. 203; Luzio 1913, pp. 208-209, 230; Venturi 1914, p. 810; Marani - Perina 1961, p. 375; Brown 1966, pp. 253 sgg., 434; Shearman 1970, p. 76; Verheyen 1971, p. 17; Le Studiolo d’Isabelle d’Este 1975, pp. 139-140; Splendours of the Gonzaga 1981, pp. 162-164; Romano 1981, p. 84; Tosetti Grandi 1984, p. 216; Ugolini 1987, p. 80; Tellini Perina 1989, p. 26; Brown 1990, pp. 54-55; La Prima Donna del Mondo 1994, pp. 107-110; Negro - Roio 2001, pp. 125-126.
Cat. 16.a – Lorenzo Costa, Ritratto di dama con cagnolino (Isabella d’Este?), 1508 ca., già Roma, Collezione Strebini, ora collocazione ignota (Christie's, 8 luglio 1938)
Rispetto alla Dama con cagnolino di Hampton Court, la variante già Strebini mostra un’espressione del viso diversa. I capelli, almeno a giudicare dall’immagine pubblicata da Negro e Roio nel
61
Luzio 1913, p. 208.
113
200162, sembrano essere piĂš chiari. Anche il vestito differisce dalla copia inglese: le liste delle maniche hanno un ritmo differente e mancano i fiocchi chi ornano il bustino.
62
Negro – Roio 2001, p. 25.
114
TAVOLA 4A
Fig. A – Lorenzo Costa, Ritratto di Dama (Isabella d'Este?), 1508, Manchester (U.S.A.), The Currier Gallery of Art Fig. B – Leonardo da Vinci, La Belle Ferronière,1495-1500,Parigi, Musée du Louvre Fig. C – Lorenzo Costa, Ritratto di Dama con cagnolino (Isabella d'Este?), 1508, Londra, Hampton Court Fig. D – Leonardo da Vinci, La dama con l’ermellino (Ritratto di Cecila Gallerani), 1490 circa, Cracovia, Museo Czartoryski
115
TAVOLA 4B
Fig. A – Lorenzo Costa, Ritratto di Dama (Isabella d'Este?), 1508, Manchester (U.S.A.), The Currier Gallery of Art – SCHEMA COMPOSITIVO Fig. B – Leonardo da Vinci, La Belle Ferronière,1495-1500,Parigi, Musée du Louvre – SCHEMA COMPOSITIVO Fig. C – Lorenzo Costa, Ritratto di Dama con cagnolino (Isabella d'Este?), 1508, Londra, Hampton Court – SCHEMA COMPOSITIVO Fig. D – Leonardo da Vinci, La dama con l’ermellino (Ritratto di Cecila Gallerani), 1490 circa, Cracovia, Museo Czartoryski – SCHEMA COMPOSITIVO
116
Cat. 17 – Anonimo cinquecentesco, Ritratto di Isabella d’Este, olio su carta, 1582 circa, Vienna, Kunsthistorisches Museum, Collezione di Ambras
Altezza cm 13,5 Larghezza cm 10,5
Busto di Isabella d’Este di tre quarti. La Marchesa indossa un abito decorato a liste bianche, blu e dorate. I capelli, bipartiti da una scriminatura centrale, cadono sciolti lungo il viso, trattenuti sulla fronte da un nastro ornato al centro da un gioiello. Al collo un laccio dorato. Nella parte più alta del quadretto si legge l’iscrizione: ISABELLA ESTENSIS FRANCISCI MANTU MARCHIONIS QUARTI UXOR. L’opera fa parte di un corpus di più di mille ritratti di sovrani, principi e personaggi celebri, tutti delle stesse dimensioni, commissionata dall’arciduca Ferdinando d’Asburgo (1529-1595) a partire dal 1575 per il proprio castello di Ambras, presso Innsbruck. Oltre un decimo della collezione è costituito da effigi di personaggi della famiglia Gonzaga, unica famiglia italiana rappresentata in così larga misura. Ciò si lega al fatto che nel 1582 Ferdinando sposò Anna Caterina, figlia del duca di Mantova Guglielmo Gonzaga. In occasione delle nozze, quindi, i ritratti dei parenti di recente acquisizione vennero aggiunti in gran numero a quelli già presenti nella collezione. La datazione dell’aggiunta gonzaghesca è peraltro confermata da una serie di dati interni alle opere: le iscrizioni coeve, le età dei personaggi e le loro titolature. Significativa da questo punto di vista è, per esempio, la presenza di Margherita
117
Farnese come moglie del fratello di Anna Caterina, Vincenzo Gonzaga, il cui matrimonio fu dichiarato nullo nel 1583. Mentre con ogni probabilità i personaggi all’epoca in vita furono ritratti dal vivo, per i defunti si dovette necessariamente ricorrere a ritratti allora esistenti presso la corte gonzaghesca. Non si esclude però il fatto che in qualche caso – soprattutto per personaggi cronologicamente distanti – si sia lavorato di fantasia senza nessuna guida. Secondo un’ipotesi formulato da Alessandro Luzio per primo e oggi condivisa pienamente dalla critica, il ritrattino di Isabella deriva da un originale di Lorenzo Costa andato perduto. __________ Bibliografia: Kenner 1896, p. 188; Luzio 1913, pp. 208, 238; Amadei Marani 1978, p. 47; S. Ferino-Pagden in La Prima Donna del Mondo 1994, pp. 117-118; Ventura 2003, p. 28. Cat. 18 – Francesco Bonsignori, Pala della Beata Osanna Andreasi, olio su tela, 1519, Mantova, Museo di Palazzo Ducale
Altezza cm 260 Larghezza cm 154 La pala presenta al centro la figura della Beata Osanna Andreasi, venerabile mantovana vissuta fra il 1449 e il 1505. La Beata indossa l’abito delle domenicane. Sul capo porta una corona di spine, con la mano destra regge un gambo fiorito di gigli, nella sinistra tiene un cuore sormontato da un crocifisso, entrambe le mani portano il segno delle stimmate. Sotto i piedi della Beata si divincola un demone. Nella parte superiore del quadro, ai lati della figura centrale, sono raffigurate due delle sue visioni: a sinistra un angelo e a destra un giovane Cristo portacroce. Inginocchiate ai piedi della Beata cinque figure femminili: le
118
tre sulla destra indossano abiti monacali, le altre due sono avvolte in manti scuri e hanno il capo velato. La pala proviene dalla chiesa domenicana di San Vincenzo in Mantova, oggi distrutta, che conservava la tomba-altare della Beata commissionata da Isabella d’Este a Gian Cristoforo Romano. Ne è prova una lettera indirizzata alla Marchesa da fra’ Silvestro Ferrarese, domenicano incaricato da Isabella di raccogliere dati sulla vita di Osanna per ottenerne la beatificazione: Quanto all’arca, Joanne Cristoforo ha fatto un bello disegno et in tal modo che credo che gli poterà porre tra le colonne la ancona che V. S. fa fare63.
La pala – prevista già nel progetto del monumento del 1505 – va comunque datata a dopo l’8 gennaio 1515, giorno della concessione del culto (per la sola diocesi mantovana) da pare di papa Leone X. Il processo di beatificazione, iniziato subito dopo il decesso della terziaria domenicana, fu promosso da Isabella d’Este in prima persona. A questo punto appare verosimile l’ipotesi formulata da Berenson64, secondo la quale la figura inginocchiata all’immediata sinistra della Beata sarebbe la Marchesa di Mantova, a cui, peraltro, faceva chiaro riferimento anche l’epitaffio scolpito sulla tomba (oggi perduto insieme al resto del complesso): ISABELLA ESTENSIS MARCHIONISSA COSTANTISSIMAE PROBITATIS NOTITIAM HABENS BEATAE MEMORIAE POSUIT A VIRGINIS PARTU ANN. MDV65
L’epitaffio, che ricorda la data dell’erezione del monumento, è comunque da ascrivere a un momento successivo, avendo la Beata ottenuto questo titolo solo nel 1515. 63
Lettera di Fra’ Silvestro Ferrarese a Isabella d’Este, citata in Bagolini - Ferretti 1905, p. 108. 64 Berenson 1894, p. 80. 65 L’iscrizione è pubblicata in Venturi 1888b, p. 117.
119
Il fatto che la dama identificata con Isabella sia vestita a lutto sposterebbe ulteriormente la datazione post 29 marzo 1519, giorno della morte di Francesco II Gonzaga. Va però notato che il volto della dama inginocchiata è troppo giovanile per essere quello di Isabella, che all’epoca aveva quarantacinque anni. Tuttavia un disegno preparatorio del Bonsignori, conservato presso il British Museum (cat. 19), mostra la stessa dama, ma notevolmente più avanti negli anni. A questo punto la sfasatura
di
età
tra
disegno
e
dipinto
rilancia
la questione
dell’idealizzazione e del ringiovanimento tipico dei ritratti isabelliani (cfr. tavola 4). Per quanto concerne l’identificazione delle altre figure femminili, va ricordato che nel 1519 due delle tre figlie di Isabella vestivano da un anno l’abito monacale: Ippolita quello delle domenicane e Livia quello delle clarisse. Il confronto fra i ritrattini di Ambras delle due e i volti delle due suore alla destra del quadro non esclude l’ipotesi che si tratti delle stesse persone: gli abiti dei due diversi ordini sono peraltro piuttosto simili, e nella pala è visibile solamente quello di una delle due. Anche la forma del naso delle monache ricorda fortemente quella del busto in terracotta di Francesco II Gonzaga (cfr. fig. 15). A questo punto la dama velata di bianco inginocchiata dietro Isabella potrebbe essere identificata con la primogenita Eleonora, duchessa di Urbino, il cui profilo, molto prominente nella parte inferiore del viso, ricorderebbe da vicino i tratti fisionomici del padre, sottolineando così ‘l’aria di famiglia’ riscontrabile nei volti delle dame inginocchiate ai piedi della beata. L’ultima figura femminile – la più anziana fra quelle rappresentate – potrebbe essere invece raffigurare la priora delle suore domenicane. __________ Bibliografia: Donesmondi 1613, VII, p. 101; Cadioli 1763, pp. 109-110; D’Arco 1857, I, pp. 57-58; Berenson 1894, p.80; Pouncey 1951-52, pp. 99-101; G. Paccagnini in Mostra Mantegna 1961, p. 114; Shmitt 1961,
120
pp. 106-107; Marani - Perina 1961, p. 137; J. Martineau in Splendours of the Gonzaga 1981, pp. 178-179. Cat. 19 – Francesco Bonsignori, Disegno preparatorio per la Pala della Beata Osanna Andreasi, carboncino, 1519, Londra, The British Museum, Department of Prints and Drawings
Altezza mm 285 Larghezza mm 187
Il disegno con una figura di dama inginocchiata volta a destra acquistato dal British Museum nel 1895 fu messo in relazione con la Pala della Beata Osanna Andreasi (cat. 18) da Philip Pouncey66. Una serie di pentimenti nelle linee che disegnano il profilo della figura conferma la natura di studio del foglio a sfavore dell’ipotesi che si tratti di una copia grafica derivante dal dipinto. Come emerge dalle argomentazioni dello studioso, il foglio costituisce uno studio dal vivo della figura di Isabella d’Este: nel disegno infatti la Marchesa è raffigurata come una donna di mezza età, con la pelle del viso rilassata ed il doppio mento. Nella realizzazione della Pala il Bonsignori ha poi eliminato questi elementi, modificando anche l’inclinazione del corpo di Isabella, offrendo così un’immagine fortemente idealizzata della sua committente (cfr. tavola 5). __________ Bibliografia: Pouncey 1951-52, pp. 99-101; Mostra Mantegna 1961, p. 114; Schmitt 161, p. 123.
66
Pouncey 1951-52, pp. 99-101.
121
TAVOLA 5
Fig. A – Francesco Bonsignori, Disegno preparatorio per la Pala della Beata Osanna Andreasi, Londra, British Museum. Particolare del volto di Isabella d’Este. Fig. B – Francesco Bonsignori, Pala della Beata Osanna Andreasi, Museo di Palazzo Ducale. Particolare del volto di Isabella d’Este.
122
Cat. 20 – Tiziano Vecellio, Ritratto di Isabella d’Este (Isabella in Nero), olio su tela, 1536, Vienna, Kunsthistorisches Museum.
Altezza cm 102 Larghezza cm 64 (l’opera risulta decurtata su tutti i lati) Questo ritratto di Tiziano mostra Isabella d’Este seduta su uno scranno, di cui, a causa del ridimensionamento della tavola, si intravedono solamente i braccioli. La Marchesa indossa un abito scuro, da cui il nome Isabella in Nero, che lo distingue dal ritratto di Rubens – copia da un originale tizianesco andato perduto – conservato nello stesso museo, noto come Isabella in Rosso (cat. 22). Sotto la veste una camicia decorata a liste, con collo alla moda veneta, sciolto sul davanti a incorniciare la scollatura. Sul capo, sopra i capelli bipartiti e arricciati ai lati della fronte, una capigliara ornata al centro da un gioiello. Il busto è attraversato da una pelle di zibellino, secondo la moda del tempo67. Dall’orecchio sinistro, l’unico visibile, pende una perla. Il ritratto è identificato con quello menzionato nel carteggio del 1534-36, realizzato da Tiziano quando Isabella aveva più di sessant’anni. L’opera venne dipinta usando come modello un ritratto giovanile della Marchesa, di mano di Francesco Francia (cfr. capitolo III, paragrafi V e VI), per il quale Isabella non posò mai e che venne a sua volta realizzato sulla
67
Levi Pisetzky [1979] 1995, pp. 213-214.
123
scorta di un precedente dipinto, forse di mano di Lorenzo Costa. Il quadro del Francia era stato donato da Isabella al notabile bolognese Gian Francesco Zaninello, come ringraziamento per un codice delle rime di Antonio da Pistoia nel 151168. Anni dopo, verso il 1530, Isabella lo chiese in prestito agli eredi del Zaninello per inviarlo a Tiziano. Ne è prova la lettera inviata alla marchesa dal suo corrispondente ferrarese Battista Stambellino nel marzo del 1534: Ill.ma Sig.a obser.ma Mo’ terzo o quart’anno V. Ex. mi scrisse una sua lettera per la quale mi comettea ch’io dimandassi il ritratto di quella al Zaninello, fratello de Joan Francesco Zaninello di b.m. e ge lo mandassi a Mantova con promissione di rimetterelo in qua fra il termine di un mese: et io ge lo dimandai e me lo dette volentieri et io lo mandai a V.S. Ill.ma. Ma il retratto non è più mai tornato in qua. El Zaninello me ne ha parlato molte volte di questo e farro instantia grand.ma ch’io ne scrivessi a quella che lo rimandassi, non li essendo de dispiacere, perché desiderva tinirlo appresso di sé in memoria e per l’intima benevolenza e servitù che l’ha lungamente tenuta e ritiene con lei69.
Prontamente Isabella scriveva al corrispondente dei Gonzaga a Venezia: Perché coloro che ci prestarono il ritratto di noi el qual ebbe Mess. Titiano per cavarne di lui uno simile ci fanno instantia grandissima che glielo restituiamo, volemo che voi ve lo facciate rendere et che per persona fidata e discreta la qual habbi ad havergli rispetto ce lo mandiate aconcio di sorta che non vi sia pericolo di guastarsi70.
68
Luzio 1913, p. 213. Lettera di Battista Stambellino a Isabella d’Este (3 marzo 1534), citata in Bodart 1998. p. 282. 70 Lettera di Battista Stambellino a Isabella d’Este (6 marzo 1534), citata in Bodart 1998. pp. 282-283. 69
124
Passarono due anni prima che Tiziano – noto per la sua lentezza nel corrispondere alle commissioni – terminasse il ritratto di Isabella e restituisse il dipinto del Francia ai proprietari. Uno scritto della marchesa datato 29 maggio 1536 riporta: Il ritratto nostro di man di Titiano ne piace di sorte che dubitiamo di non esser stata in quell’etade ch’egli rappresenta di quella beltà che in sé contiene. Havemo ben pensato di fare qualche dimostracione con esso Titiano per la fatica usata in esso, ma habbiamo deliberato di voler prima il ritratto de Zaninelli, il che gli farete intendere sollecitando che lo restituisca acciò che homai sia renduto a quei gentiluomini che con desiderio l’aspettano et ben hanno ragione71.
Il ritratto di Isabella di mano di Tiziano restò nelle collezioni Gonzaga almeno fino al primo decennio del XVII secolo, quando Rubens ne eseguì una copia, testimoniata dall’inventario del 1640 della collezione privata del pittore, dove compare subito dopo l’Isabella in Rosso (cat. 22) come “un autre portrait de la mesme habillée de noir”72. La copia di Rubens è nota attraverso un’incisione di Lucas Vosterman (cat. 21) in cui compare l’iscrizione: E TITIANI PROTOTIPO P.P. RUBENS EXC. – ISABELLA
ESTENSIS
FRANCISCI
GONZAGAE
MARCH.
MANTOVAE UXOR. L’originale
tizianesco
trasmigrò
poi
nelle
collezioni
imperiali
dell’arciduca Leopoldo Guglielmo d’Asburgo, dove venne inventariato nel 1659 come ritratto di Caterina Cornaro, regina di Cipro. In passato l’identificazione del ritratto di Isabella d’Este di Tiziano in quest’opera non è stata del tutto pacifica. Per esempio, nel 1930, Leandro Ozzola, sulla base del confronto con il ritrattino di Isabella della collezione di Ambras (cat. 17), proponeva di identificare il ritratto 71
Lettera di Isabella d’Este a Benedetto Agnello (29 maggio 1536), citata in Bodart 1998, p. 300. 72 Muller 1989, p. 107.
125
tizianesco retrospettivo di Isabella con la Bella di Palazzo Pitti73. Oggi la critica è invece unanime nell’identificare con l’Isabella in Nero di Vienna il ritratto della marchesa di Mantova dipinto dal maestro cadorino. Frutto di una duplice – o forse triplice – adulazione cortigiana, da parte prima del Francia e poi di Tiziano, che acconsentì peraltro a mutare gli occhi da scuri in chiari secondo un desiderio della Marchesa lasciato inesaudito dal pittore bolognese, il ritratto di Vienna, l’ultimo commissionato da Isabella, poco testimonia del vero aspetto della Marchesa. Al contempo però rappresenta in pieno il procedimento di mitizzazione e mistificazione della propria immagine intrapreso e promosso dalla stessa Marchesa. __________ Bibliografia: Crowe - Cavalcaselle 1877-78, pp. 360-363; Hamel 1904, pp. 104-106; Luzio 1913, pp. 219-224; Ozzola 1930-31, pp. 491-494; Tiezte - Tiezte-Conrat 1936, pp. 136-137; Klauner - Oberhammer 1960, p. 137; Pallucchini 1969, p. 270; Whetey 1971, II, pp. 95-96; S. FerinoPagden in La Prima Donna del Mondo 1994, pp. 111-114; S. Petrocchi in I Gonzaga 1995, p. 472; C. Nicosia in Un Rinascimento Singolare 2003, p. 254.
73
Ozzola 1930-31, pp. 491-494.
126
Cat. 21 – Lucas Emil Vosterman, Ritratto di Isabella d’Este, incisione, metà del XVII secolo, Vienna, Österreichische Nationalbibliothek
Lucas Emil Vosterman eseguì quest’incisione partendo non dal quadro di Tiziano, ma da una copia – non conservata – eseguita dal Rubens, come attestato dall’iscrizione che appare in calce alla stampa: E TITIANI PROTOTIPO
P.P.
RUBENS
EXC.
–
ISABELLA
ESTENSIS
FRANCISCI GONZAGAE MARCH. MANTOVAE UXOR. La stampa ha un valore documentario molto importante per lo studio della ritrattistica isabelliana, perché è proprio grazie alla legenda riportata nell’incisione che nell’Isabella in Nero del Kunsthistorisches Museum è stato riconosciuto il ritratto della marchesa di Mantova di mano di Tiziano. L’incisione inoltre permette di ricostruire quale fosse l’aspetto del quadro prima che venisse decurtato su tutti i lati. __________ Bibliografia: Luzio 1913, pp. 219-224; Ozzola 1930-31, pp. 491-494; S. Ferino-Pagden in La Prima Donna del Mondo 1994, pp. 111-114; S. Petrocchi in I Gonzaga 1995, p. 472.
127
Cat. 22 – Pieter Paul Rubens, Ritratto di Isabella d’Este (Isabella in Rosso), copia da Tiziano, olio su tela, 1605 circa, Vienna, Kunsthistorisches Museum
Altezza cm 101,8 Larghezza cm 81
L’opera raffigura Isabella d’Este stante, in veduta frontale. La Marchesa indossa una veste in velluto rosso su una camicia a liste dorate impreziosite da perle. Sul capo una sontuosa capigliara decorata al centro da un importante gioiello. Al collo un vezzo di perle. L’opera venne realizzata da Rubens copiando un dipinto – oggi perduto – di Tiziano, noto attraverso una copia antica custodita fino al 1972 presso la collezione della contessa Charles de Vogué e precedentemente presso quella di Sir Léopold Goldschmidt (cat. 23). Il quadro di Tiziano è menzionato da Abraham van der Doort nell’elenco delle di Carlo I d’Inghilterra stilato nel 1639, dove compare come “a Picture of the Marchioness of Mantua, in a old fashioned red velvet apparel […] half figures so big so as life, in a wooden gilded frame”74. Verosimilmente il ritratto giunse in Inghilterra con la vendita della collezione Gonzaga, sebbene esso non figuri nell’inventario dei beni stilato nel 1627. Con ogni probabilità Rubens copiò l’opera di Tiziano a Mantova, prima che fosse trasferita in Inghilterra. La copia eseguita dal Rubens faceva parte della collezione privata del pittore, dove fu inventariata, nel 1640,
74
Millar 1958-60, p. 39.
128
come “un portrait d’ Isabel d’Este, Duchesse de Mantue”75. Questa definizione errata – Isabella non fu mai duchessa – trova la sua motivazione nel rapporto fra Rubens e i Gonzaga, (che all’epoca del suo soggiorno del pittore a Mantova erano già insigniti del titolo ducale): l’artista ha esteso all’ava dei i suoi committenti il loro titolo nobiliare, sebbene a lei ancora non spettasse. La presenza dell’opera nella collezione dell’artista conferma la natura di studio di questo quadro: l’attenzione di Rubens si è soffermata sui colori e sui volumi del modello, copiato perché opera di Tiziano e non in quanto ritratto di Isabella d’Este. Il confronto fra i tratti del volto di questo ritratto con quello già nella collezione della contessa de Vogué conferma l’assenza di qualsiasi valenza ritrattistica. Alessandro Luzio – mai pacato nei toni – ebbe così a parlare di questa copia: Il quadro fa un’impressione del tutto diversa, assolutamente disgustosa. Isabella ci appare là […] come una donna che nasconde le sue rughe sotto il belletto e indossa vestiti di tinta chiassosa (un abito di velluto rosso) poco in armonia con il suo volto appassito. Guardando quel dipinto del Rubens si arriva a giustificare quella lingua sacrilega di Pietro Aretino, che parlando nel 1534 [sic, ma recte 1533] in un suo libello anche della Marchesa di Mantova, la chiamava “disonestamente brutta et arcidisonestamente imbellettata” soggiungendo che aveva “i denti di ebano e le ciglia di avorio”. […] Rubens ha troppo aggiunto di suo all’originale di Tiziano, ha ingrassato e inflosciato le carni, caricato le tinte; fatto insomma quelle modificazioni personali che ogni grande artista non può non mettere anche nella copia di un altrui dipinto 76.
L’opera di Rubens, eseguita più di mezzo secolo dopo la morte di Isabella, se da una parte non può in alcun modo essere presa in considerazione come vera effigie della Marchesa, sotto un altro punto di vista va considerata come una delle prime attestazioni del mito
75 76
Muller 1989, p. 107. Luzio 1913, pp. 219, 221-222.
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figurativo, postumo e slegato dalla memoria dinastica, della figura della marchesa di Mantova. Documento importante per lo studio sui rapporti Rubens-Tiziano, l’opera fu scelta, dopo la morte del pittore, dall’arciduca Leopoldo Guglielmo d’Asburgo per le collezioni imperiali austriache, dove venne inventariata nel 1659 come “Von Rubens nach des Titiano Original”, ribadendo ancora una volta il debito della versione nei conforti di un allora noto originale del maestro cadorino. Dalle collezioni imperiali passò poi al Kunsthistorisches Museum di Vienna. __________ Bibliografia: Rooses 1886-1892, IV, pp. 199-200; Hamel 1904, pp. 104106; Luzio 1913, pp. 219-224; N. Giannantoni in Mostra Iconografica Gonzaghesca 1937, p. 21; Müller Hofstede 1967, p. 91; Whetey 1971, p. 197; Jaffé 1989, p. 156; Müller 1989, p. 107; La Prima Donna del Mondo 1994, pp. 114-117; Bodart 1998, p. 18; Morselli 2001, pp. 62-63; S. Lamenta in Celeste Galeria 2002, p. 178. Cat. 23 – Scuola di Tiziano, Ritratto di Isabella d’Este, copia da Tiziano, olio su tela, 1605 circa, collocazione ignota, già Parigi, Collezione della Contessa Charles de Voguè
Altezza cm 101 Larghezza cm 82 Il quadro di scuola di Tiziano, ricomparso da un castello inglese nella seconda metà del XIX secolo, riproduce l’originale del Vecellio che venne copiato anche da Rubens. In passato l’opera fu considerata un’originale del maestro cadorino, ovvero quel ritratto di Isabella ‘in a old fashioned red velvet apparel’ registrato nella collezione di Carlo I d’Inghilterra77. Dubbi riguardo a quest’ipotesi vennero sollevati in 77
Luzio 1913, pp. 219-220.
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concomitanza della Mostra Iconografica Gonzaghesca del 1937, in occasione della quale l’opera venne messa a diretto confronto con il quadro di Rubens, risultando inferiore per qualità. Dopo l’esposizione mantovana del ‘37 l’opera risulta non essere stata più accessibile al pubblico e non venne più presa in esame dalla critica. Dopo la riscoperta in un maniero inglese, il quadro appartenne a Léopold Goldschmidt. In seguito fu della contessa Charles de Vogué. Il 14 marzo 1972 venne venduta insieme al resto della collezione dell’estinta contessa a Parigi, Palais Galliera. __________ Bibliografia: Luzio 1913, pp. p. 221-222; N. Giannantoni in Mostra Iconografica Gonzaghesca 1937, p. 21; Succession Vogué 1972, n. 186.
Cat. 24 – Giulio Pippi detto Romano, Ritratto di una duchessa italiana (Margherita Paleologo), olio su tavola 1531 ca., Londra, Collezioni Reali Inglesi (Hampton Court).
Altezza cm 115,5 Larghezza cm 90,5
Sontuosa opera della stagione mantovana di Giulio Romano, la Duchessa italiana conservata a Hampton Court si presenta seduta in primo piano, vestita di un ricchissimo abito scuro lavorato a groppi che lascia intravedere la chiara veste sottostante. La mano destra regge un paternostro di pietre blu, mentre la sinistra poggia su un paio di guanti. La testa è ornata da una capigliara. Sullo sfondo, a destra, una figura femminile, anch’essa con capigliara, solleva la tenda di una porta, dalla
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quale entrano in scena tre figure femminili: due dame pettinate alla medesima maniera e una suora. La figura centrale porta un cane in braccio. Nel 1858 Pierre Jean Mariette identificò il soggetto di questo dipinto come ‘Ritratto di Isabella d’Este’78. L’identificazione di questa dama fastosamente abbigliata e ingioiellata con la ‛prima donna del Rinascimento’ sedusse una nutrita schiera di storici dell’arte, fra cui non mancò Alessandro Luzio, che tuttavia considerava il quadro opera del Parmigianino79. L’ipotesi, che peraltro favorì la notorietà dell’opera che conobbe a partire da quegli anni una discreta fortuna in abito preraffaellita80, venne confermata da Fredrick Hartt81, autore di una monografia su Giulio Romano. Forte di questi autorevoli consensi, l’identificazione del soggetto con la marchesa di Mantova portò l’opera all’esposizione (in riproduzione fotografica) alla mostra parigina del 1975, ove la si indicava come “tableau représentent Isabelle âgée de 51 ans” 82. Alcuni anni dopo, in occasione della mostra londinese Splendours of the Gonzaga del 1981, l’identificazione con l’estense fu messa in dubbio dalle puntuali argomentazioni di Jane Martineau83, che riconobbe nella dama ritratta Margherita Paleologo, moglie di Federico II Gonzaga, nuora di Isabella e prima duchessa di Mantova. Gli argomenti della Martineau non furono sufficienti a sradicare la convinzione di parte della critica che l’opera ritraesse la marchesa di Mantova: ancora una volta, nel 1983, John Shearman tornava a chiamare
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Mariette 1857-58, p. 176. Luzio 1913, p. 226. 80 Cfr. Parris 1984, p. 291. 81 Hartt 1958, pp. 82-84 82 Beguin 1975, p. 6. 83 Splendours of the Gonzaga 1981, pp. 160-162. 79
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la dama Isabella d’Este nel suo studio sulle opere italiane nelle collezioni di Hampton Court84. A riconfermare i dubbi e le ipotesi della Martineau tornavano nel 1989 Rita Castagna e Anna Maria Lorenzoni85. Le ricerche delle due studiose, basate sullo spoglio di fonti dì archivio e di confronti con altri ritratti isabelliani e non, produssero risultati che andarono ad avvalorare l’identificazione della dama ritratta con Margherita Paleologo. A supportare quest’ipotesi innanzitutto la titolazione “an Italian Duchesse” abbinata al quadro già nell’inventario di Giacomo II Stuart. Il titolo di duchessa, infatti, non spettò mai a Isabella, vedova con il titolo di marchesa dal 1519; fu invece la Paleologa la prima signora di Mantova a potersi fregiare di tale titolatura. Altro indizio che porta alla discendente degli imperatori di Bisanzio è il prezioso rosario in lapislazzuli mostrato nel quadro, rispondente alla descrizione che si ritrova in un inventario dei gioielli della duchessa: “una corona de lapis de sessantatre Ave Marie e nove segni fatti in forma de torricelle d’oro, assai grosse, con gli suoi tramezzini d’oro, et una medaglia de lapis, con una Santa Catherina figurata in oro”. Il paternostro raffigurato dal Romano presenta puntualmente sessantatre grani di lapislazzuli e nove segni d’oro, alcuni dei quali nascosti fra le pieghe della ricca veste. In precedenza anche l’attenzione dello Shearman era stata attratta dal paternostro, che lo studioso identificava con quello raffigurato da Rubens nel ritratto viennese (cat. 22)86. In realtà i gioielli sono diversi sia nella forma delle pause, squadrate nell’opera giuliesca e a forma di mandorla in quella di Rubens, sia nel materiale, che nel ritratto viennese ha l’apparenza della sodalite87.
84
Shearman 1983, p. 118. Castagna - Lorenzoni 1989, pp. 15-30. 86 Shearman 1983, p. 118. 87 Castagna - Lorenzoni 1989, p. 22. 85
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L’ipotesi che la ritratta sia Margherita Paleologo, sostenuta con prove convincenti e puntuali da Martineau, Castagna e Lorenzoni, trova ancora oggi forti resistenze in molti studiosi legati al campo degli studi inerenti alla storia dell’abbigliamento, fermamente convinti che solo Isabella potesse indossare un abito tanto straordinario. Una riproduzione della ricca veste traforata è stata realizzata di recente all’interno del progetto La Trama e l’Oro: Vestire i Principi, mostra itinerante sulla moda del rinascimento italiano, in cui l’abito è presentato come ‛di Isabella d’Este’. Ammesso, come probabile, che la dama ritratta sia Margherita Paleologo, nel suo sofisticato abbigliamento si possono in ogni caso riconoscere forti tracce del gusto di Isabella come si evince da una lettera di Capino de’ Cappi a Federico II Gonzaga datata 27 settembre 1531, in cui, descrivendo l’abbigliamento della futura sposa si sottolinea che: “Una croce havea di bellissimi diamanti al collo, in testa una delle schuffie che li ha mandato Vostra Excellentia e, dal lato, la corona de lapis de Vostra Excellentia”. Con ogni probabilità fu proprio Isabella, eccelsa arbitra di eleganze, a scegliere e a ideare i doni da inviare alla nuora tanto ponderatamente scelta per perpetuare la stirpe gonzaghesca. __________ Bibliografia: Mariette 1857-58, p. 176; Luzio 1913, p. 226; Hartt 1958, pp. 82-84; Beguin 1975, p. 6; J. Martineau in Splendours of the Gonzaga 1981, pp. 160-162; Shearman 1983, p. 118; Castagna - Lorenzoni 1989, pp. 15-30; La Trama e l’Oro 2002, numerazione di pagina assente.
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ECO PRE-RAFFELLITA DI UN (PRESUNTO) RITRATTO DI ISABELLA D’ESTE Il ritratto di Duchessa Italiana dipinto da Giulio Romano (cat. 24), identificato nel 1858 come Ritratto di Isabella d’Este88 e conservato a Londra presso le collezioni reali inglesi, conobbe una considerevole fortuna iconografica in ambito pre-raffaellita. La straordinaria fattura dell’abito traforato indossato dalla dama, che lascia vedere la chiara veste sottostante, ispirò dapprima Edward Burne-Jones (1833-1898), che nella sua Sidonia von Bork del 1860 (Londra, Tate Britain) iterò non solo la fattura dell’abito, ma anche la struttura compositiva del quadro giuliesco, con una figura ingrediente dalla porta che appare sullo sfondo. Nell’opera di Burne-Jones l’intreccio dell’abito si fa più fitto e meno regolare rispetto al modello. Senz’ombra di dubbio il pittore volle qui usare l’espediente figurativo dell’intricato groviglio di nodi per rendere in figura l’indole controversa della protagonista della novella Sidonia the Sorceress, opera del tedesco Johann Wilhelm Meinhold tradotta in inglese nel 1849 dalla madre di Oscar Wilde, lady Jane Wilde. La figura di Sidonia, donna bella quanto crudele, vera femme fatale, ebbe una grande presa sul milieu pre-raffaellita: la novella di Meinhold era uno dei libri preferiti di Dante Gabriel Rossetti e William Morris ne stampò una versione nel 1893. Un altro pittore pre-raffaellita che si ispirò al presunto ritratto isabelliano conservato presso le collezioni reali inglesi fu Frank Cadogan Cowper (1877-1958). La sua Vanity del 1907 (Londra, Royal Academy), opera con cui Cowper conseguì il diploma alla Royal Academy, riprende in maniera puntuale l’abito giuliesco nella foggia delle maniche: non solo la ricca sopravveste nera, lavorata a groppi bordati d’oro, ma anche i colori e i
88
Mariette 1857-58, p. 176.
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decori della veste sottostante sono ripresi pedissequamente dal modello. Diversa è invece la camicia, dallo scollo tondo ornato di una fitta orlatura ondulata. L’acconciatura di questa Vanità è alquanto bizzarra e confonde elementi del XV e del XVI secolo: i capelli ripartiti da una scriminatura centrale ricadono sciolti sulle spalle, la fronte è cinta da una lenza e la parte posteriore della testa è coronata da un balzo di stoffa rossa. Al di là di questo fraintendimento che confonde balzo e capigliara (cfr. capitolo IV), l’acconciatura, con chioma sciolta sulle spalle e lenza sulla parte più alta della fronte, ricorda da vicino l’immagine di Isabella nel cartone di Leonardo (cat. 6). In base a questa suggestione si può notare che anche la camicia sembrerà riprendere il modello del disegno parigino. A questo punto non è insostenibile l’ipotesi di un’intenzionale mescolanza di elementi dell’iconografia isabelliana nell’opera che sarebbe stata la prova finale della carriera accademica di Cowper. Va infatti considerato che il ritratto leonardesco di Isabella era ben noto nella Londra dell’epoca. Una sua riproduzione in fotoincisione, realizzata dalla ditta Walker & Cockerell, appare infatti in apertura della biografia di Isabella stesa da Julia Cartwright, pubblicata proprio a Londra pochi anni prima, nel 1903 (fig. 4). È verosimile che Cowper, pittore che spesso prese a soggetto temi storici, conoscesse questo testo e quindi anche il ritratto di Isabella eseguito da Leonardo. Pertanto un suo sfoggio di citazioni iconografiche erudite, peraltro molto conforme al gusto tipico della corrente preraffaellita per la contaminazione delle fonti, resta un’ipotesi plausibile. Cowper tornò nuovamente a ispirarsi al ritratto giuliesco, per vestire una delle sue Venetian Ladies listening to the Serenade (Ponce, Puerto Rico, Museo de Arte de Ponce). In questo caso le maglie dell’intreccio di nodi si fanno più larghe rispetto al modello, soprattutto nella parte inferiore dell’abito. Alcune citazioni puntuali (il paternostro di lapislazzuli e la nappa con cui termina la cintura) dichiarano apertamente la derivazione dal Ritratto di Duchessa Italiana di Giulio Romano.
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TAVOLA 5
Fig. A – P. Holstein II, Ritratto di Duchessa Italiana, incisione dal dipinto di Giulio Romano (F. de Wit, Amsterdam 1645 ca.), Modena, Biblioteca Estense. Fig. B – Frank Cadogan Cowper, Vanity, 1907, Londra, Royal Academy. Fig. C – Frank Cadogan Cowper, Venetian ladies listening to the serenade, 1915 circa, Ponce (Puerto Rico), Museo de Arte de Ponce. Fig. D – Edward Burne-Jones, Sidonia von Bork, 1860, Londra, Tate Britain
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Le brevi schede che seguono prendono in esame alcuni ritratti femminili nei quali si è cercato di riconoscere, anche di recente, l’effigie di Isabella d’Este. Lungi dall’essere un regesto completo ed esaustivo delle identificazioni dubbie ed erronee, questo rapido excursus vuole invece offrire un veloce riscontro per exempla della capacità della figura di Isabella d’Este di appropriarsi delle effigi di altre dame del Rinascimento.
Cat. 25 – Leonardo da Vinci, Ritratto di Dama (Monna Lisa del Giocondo?), inizi del XVI secolo, Parigi, Musée du Louvre
Sulla base di alcune analogie che intercorrono fra il cartone del Louvre (cat. 6) e la Gioconda, non sono mancati studiosi che hanno proposto di ravvisare nella sorridente e misteriosa dama l’effigie di Isabella d’Este. L’equazione che porta a identificare il celebre ritratto con quello commissionato dalla Marchesa a Leonardo da Vinci e mai consegnato dal pittore torna ciclicamente a riproporsi e, di recente, ha arriso a Maximilien Gauthier89, Hidemichi Tanaka90, Serge Bramly91 e Lenolio Frison92 (2000). Molto fantasiosa e poco probabile, quest’ipotesi va comunque tenuta in considerazione nello studio della fortuna iconografica e critica della figura di Isabella d’Este.
89
Gauthier 1971, p. 28. Tanaka 1976-77, p. 24. 91 Bramly 2000 p. 287. 92 Frison 2000. 90
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Cat. 26 – Benvenuto Tisi detto il Garofalo, Dame affacciate ad una balconata (Isabella e Beatrice d'Este?), affresco, 1506 circa, Ferrara, Palazzo Costabili detto di Ludovico il Moro
Fra i personaggi che si affacciano alla balconata del grande affresco del Garofalo nel palazzo Costabili di Ferrara si sono spesso riconosciuti, anche recentemente, i volti di Beatrice e di Isabella d’Este. La suggestione romantica – fomentata anche dal desiderio ferrarese di ‘rivendicare’ le figure storiche delle principesse estensi signore di Mantova e Milano – si scontra con l’ineluttabilità del dato cronologico. Sebbene, come s’è ampiamente visto, nelle effigi isabelliane l’età sia un dato assolutamente inaffidabile, la datazione dell’affresco al 1506, vale a dire nove anni dopo la morte di Beatrice d’Este, inficia definitivamente l’ipotesi secondo la quale le giovani dame affacciate alla balconata sarebbero le figlie di Ercole I d’Este.
Cat. 27 – Gian Cristoforo Romano (attr.), Profilo di dama (Isabella d'Aragona? Anna Sforza? Isabella d'Este?), inizi del XVI secolo, Edimburgo, National Gallery of Scotland
Acquistato nel 1989 da Christie’s come scultura attribuita al Romano, per il rilievo è stato avanzato anche il nome di Isabella d’Este. La critica mantiene forti dubbi sia sull’attribuzione che sull’identificazione del soggetto. Sono state notate peraltro forti analogie con i bassorilievi
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eseguiti dal Briosco per la corte di Milano. Pertanto le ipotesi che propongono di identificare questa dama in profilo con un membro femminile del casato sforzesco (Isabella d’Aragona o Anna Sforza) sembrano essere le più probabili.
Cat. 28 – Francesco Francia (attr.), Ritratto di Isabella d'Este (?), 1511, Collezione privata italiana
Emersa recentemente da una collezione privata italiana e pubblicata da Emilio Negro e Nicosetta Roio93, questa tela del Francia è stata indicata come il ritratto di Isabella eseguito dal pittore nel 1511 (cfr. capitolo III, paragrafo V). Tuttavia le forti discrepanze con il ritratto tizianesco di Vienna (cat. 20), che come s’è visto venne dipinto seguendo come modello l’opera del Francia, rendono fortemente dubbia questa identificazione.
93
Negro - Roio 1998, pp. 196-197.
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Cat. 29 – Giovanni Francesco Caroto, Ritratto di Dama, 1505 circa, Parigi, Musée du Louvre
Quest’opera di Giovanni Francesco Caroto venne ritenuta in passato un ritratto di Isabella d’Este per alcune analogie, inerenti soprattutto all’abbigliamento, con la figura centrale dell’Incoronazione del Costa (cat. 14). Oltre a una fisionomia fortemente caratterizzata, e comunque lontana da tutti i tipi isabelliani, anche la lenza che cinge il capo della dama, ornata dalle lettere ‘B’ ‘I’ ‘C’ ‘A’ sembra suggerire per questa signora un nome diverso da quello di Isabella d’Este. Cat. 30 – Bernardino Licinio, Dama con ritratto virile, 1535 circa, Milano, Museo d'Arte Antica del Castello Sforzesco
Alessandro Luzio (1913) suppose che il quadro rappresentasse Isabella d’Este con l’effigie del figlio Federico. L’identificazione – come quasi tutte quelle proposte dallo studioso – godette di una lunga fortuna critica. Oggi tuttavia, in base a dati desumibili dall’abbigliamento si tende a leggere quest’immagine come il ritratto di una donna vedova recante l’effigie del marito defunto (i due personaggi sembrano infatti avere la medesima età). Nessun dato biografico legato alla vita di Isabella d’Este giustifica la composizione di un simile ritratto.
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Cat. 31 – Giovan Antonio Boltraffio, Ritratto di Dama (detta Isabella d’Aragona), 1500 circa, Milano, Biblioteca Ambrosiana
Il ritratto di dama tracciato da Giovan Antonio Boltraffio, conservato alla Biblioteca Ambrosiana di Milano, ricorda da vicino quello tracciato dal suo maestro, Leonardo da Vinci, per Isabella d’Este. Fra i due disegni si riscontrano analogie di fisionomia, di abbigliamento, di pettinatura, e persino di tecnica: in entrambi infatti si riscontra l’uso del pastello, usato da Boltraffio solo a partire dagli ultimi anni del XV secolo94 e da Leonardo esclusivamente nel ritratto di Isabella d’Este95 (1499-1500). Il ritratto dell’Ambrosiana documenta quindi una fase di sperimentazione sulla tecnica del disegno in cui l’allievo sviluppa in maniera magistrale uno spunto suggeritogli da Leonardo. Sebbene riutilizzato come studio per la realizzazione di altre opere, fra cui una Santa Barbara oggi a Berlino e una Madonna con Bambino all’Accademia Carrara di Bergamo, il disegno del Boltraffio ha tutta l’intensità di un ritratto vero e proprio, tant’è che è stato a lungo considerato un ritratto di Isabella d’Aragona, nota committente del pittore. Il primo a notare le analogie fra questo disegno dell’Ambrosiana e il cartone del Louvre fu Alessandro Luzio, che tuttavia, essendo assolutamente contrario all’identificazione del soggetto dell’opera parigina con Isabella d’Este, usava l’argomento in maniera negativa: 94 95
Fiorio 1998, p. 152. Berenson [1903] 1958, p. 247.
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Avrò le traveggole, ma secondo me questi due disegni di profilo [il cartone del Louvre e la copia degli Uffizi] si riconnettono al ritratto di faccia (dell’Ambrosiana) raffigurante Isabella… d’Aragona. È l’infelice Duchessa di Milano, non la Marchesa di Mantova che tutti e tre rappresentano! 96
Riconosciuta Isabella d’Este nel cartone parigino e nella copia di Firenze ci si sarebbe aspettati che anche il disegno dell’Ambrosiana trasbordasse, seppure in forma dubitativa, nel novero dei ritratti isabelliani. Per fossilizzazione catalografica, probabilmente favorita anche dall’opinione del Luzio, ciò non accadde. La presenza di Boltraffio a Mantova è documentata nel giugno del 1498, come noti sono i suoi spostamenti fra la corte sforzesca e quella gonzaghesca in qualità di ritrattista97. Manca tuttavia la prova specifica di un ritratto di Isabella d’Este commissionato al pittore. In assenza di documenti d’archivio è quindi difficile stabilire quale sia la natura dei rapporti che intercorrono fra il cartone di Leonardo e il disegno di Boltraffio all’Ambrosiana. Identità di soggetto? Cifra stilistica della cerchia leonardesca? Afferenza ad un ideale estetico comune? Somiglianza dovuta alla consanguineità fra le due Isabelle?
Con questi interrogativi si chiude il regesto iconografico dei ritratti (e dei non ritratti) di Isabella d’Este, in attesa di nuovi studi volti a far luce su questo e su altri punti oscuri della storia ritrattistica isabelliana. E di nuove epifanie della ‘prima donna del mondo’.
96 97
Luzio 1913, pp. 235-236. Luzio 1913, p.196.
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Tavola 7
Fig. A – Giovan Antonio Boltraffio, Ritratto di dama (Isabella d’Aragona?), fine del XV secolo, Milano, Biblioteca Ambrosiana (particolare) Fig. B – Giovan Antonio Boltraffio, Santa Barbara, 1502, Berlino, Staatliche Museum (particolare) Fig. C – Leonardo da Vinci, Cartone per un ritratto di Isabella d’Este, 14991500, Parigi, Musée du Louvre, Département des Arts Graphiques (particolare) Fig. D – Scuola di Leonardo da Vinci, Ritratto di Isabella d’Este, inizi del XVI secolo, Firenze, Galleria degli Uffizi, Gabinetto Disegni e Stampe (particolare)
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Figura 22 – Anonimo intagliatore italiano, Cammeo in onice recante il ritratto di Ippolito d’Este, inizi del XV secolo, montatura in oro del XVIII secolo, Vienna, Kunsthistorisches Museum.
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Figura 23 – Giannantonio Leli da Foligno, Lucrezia Borgia, con il figlio Ercole e dame di corte al cospetto di San Maurelio (insieme e particolare), placca in argento dall’Arca del Santo, 1512, Ferrara, Basilica di San Giorgio
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VI. UT PICTURA POËSIS I RITRATTI LETTERARI DI ISABELLA D’ESTE Committente colta ed esigente e collezionista insaziabile di antichità, Isabella d’Este fu anche mecenate, amica e protettrice di alcuni fra i più importanti letterati del tempo. Nelle opere di alcuni di essi si ritrovano elementi che permettono di tracciare una prosopografia della Marchesa. “d’opere illustri e di bei studi amica”, com’ebbe a definirla l’Ariosto. Al pari delle testimonianze pittoriche, anche queste letterarie non possono essere considerate rispondenti al vero in senso assoluto: i ritratti letterari tracciati da Mario Equicola e Gian Giorgio Trissino e le lodi encomiastiche pronunciate da Ludovico Ariosto alludono infatti spesso a un insieme di virtù morali e fisiche che si riflettono le une nelle altre, secondo il principio di una rinnovata (e astratta) kalokagathia. Un primo ritratto letterario di Isabella d’Este viene stilato da Mario Equicola nel suo De Mulieribus, trattato in latino del 1501 dedicato a Margherita Cantelma. Dopo aver passato in rassegna le figure di importanti donne dell’antichità, l’Equicola delinea i ritratti di tre dame contemporanee: la dedicataria Margherita Cantelma, la sua congiunta Susanna e Isabella d’Este. La Marchesa di Mantova è così descritta: Presentem Divam Isabellam estensem Mantuae principem, si rerum natura pateretur non ne sibi ascribi optaret antiquitas? Quae corpus quadratum neque gracile neque obesum, subflavos capillus, niger oculos, clarus et nitidus: tranquillas illas astuque micantes oculorum faces coronans superciliorum acus. Nasus venustissime deductus. Plenior et ruboris plena lactea facies, lactea dentium compago. Teres ex lato pectore surgens collum: arctior cum cingula sit minimusque zonae orbis. Manus oblonga et succi plena. Totiusque corporis habitudo profecto longe lateque supra mortalem ostentat. Si mores sanctissimos actionesque inspicias divinam iudicabis: nemo pensius cogitat, agit consultius, maturius expedit. Cives suos circunspecta providentia protegit et defendit.
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Isabella d’Este nel De Mulieribus di Mario Equicola
Donat plurimum, nihil exprobrat suo exemplo suum famuletium ad honestatem et laudanda omnia invitat. Siquid autem ab oeconomicis politicisque resipiscit negotii chitaram sumit et heroicos ita melicis et rhytmicis astructionibus versus decantat aut mira modulari solertia ita miserabiles deflet elegos, ut divinitus Aristotelem locutum putem, dum contendit discere imitarique feminas ingeniosiosque mares1.
Alcuni anni più tardi, nel 1514, Isabella, in villeggiatura presso la sua residenza estiva di Cavriana, nei pressi del lago di Garda, riceveva dal letterato vicentino Gian Giorgio Trissino un componimento a lei dedicato intitolato I Ritratti. L’opera, un dialogo fra Pietro Bembo e Vincenzo Macro ambientato nel 1507 (lo stesso anno in cui si collocano i dialoghi urbinati del Cortegiano), è costruita sul modello di un omonimo componimento di Luciano di Samosata2. I testi di Luciano e del Trissino seguono il medesimo schema: due personaggi si incontrano mentre uno dei due è sotto l’effetto della visione di una donna bellissima, della quale tutto ignora salvo il luogo d’origine (Smirne in un caso, Ferrara nell’altro) e descrive la donna all’interlocutore per conoscerne l’identità.
1
EQUICOLA, pp. (19), (20). Se la natura lo permettesse, forse che l’antichità non vorrebbe ascrivere a se stessa Isabella d’Este, nostra contemporanea e Signora di Mantova? Ella è di solida corporatura, né esile né obesa, biondo chiaro i capelli, neri gli occhi, luminosi e penetranti: a quei lumi sereni e scintillanti fa da corona l’arco delle sopracciglia. Bellissimo il profilo del naso. Il candido viso è tondeggiante e perfuso di rossore, candida la chiostra dei denti. Snello si erge il collo dall'ampio petto, mentre la cintura è stretta e ridottissimo il giro di vita. Le mani affusolate, morbide, carnose. Nel complesso i lineamenti e l’atteggiamento rivelano caratteri certamente di gran lunga superiori ai mortali. Se si prendono in esame le sue abitudini e le sue azioni, la di giudicherà divina: nessuno medita più profondamente di lei; nessuno opera più ponderatamente; nessuno agisce più prontamente. Protegge e difende i suoi concittadini con estrema oculatezza. Concede privilegi in quantità, non rimprovera nulla ai suoi servi, ma col proprio esempio esorta tutti ad agire onestamente e lodevolmente. Se poi talvolta sente un po’ di stanchezza per le questioni politiche ed economiche, comincia a suonare il liuto e declama versi di poemi esametrici, cantandoli e scandendoli ritmicamente, oppure intona tristi versi elegiaci con tale perizia che direi che Aristotele abbia parlato per ispirazione divina, quando si sofferma sulla conoscenza ed imitazione delle grandi personalità, sia donne che uomini. 2 Sul rapporto fra le Eikones di Lucano e I Ritratti del Trissino cfr. Beer 1993.
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I Ritratti di Gian Giorgio Trissino
Da ritratto verbale l’interlocutore riconosce la donna (rispettivamente Pantea, la favorita dell’imperatore Lucio Vero, e Isabella d’Este) e aggiunge alla descrizione della bellezza del corpo quella delle virtù dell’animo. A questo punto il ritratto è completo e la Signora pienamente identificata: “Non andate più oltre, Messer Vincenzo – disse allora il Bembo – si per tutte queste cose, che di lei ci avete narrato, come ancora per la patria, la quale poco davanti diceste, questa donna conosco. Sappiate che essa è la Signora Marchesana di Mantova, quella a tutto il mondo rigurardevole e cara; la quale fu figliola di Ercule Estense invittissimo Duca di Ferrara, e di Leonora figlia di Ferrando re di Napoli”. A questo gridò Macro: “O fortunatissimo padre, e felicissima madre; ma sopra gli uomini tutti beatissimo marito; o come è convenevole cosa, che una tanta bellezza sia di così nobilissimo legnaggio discesa, et a cusì nobile e valoroso congiunta. Ma non vi sia noja di farmi ancora il suo nome manifesto”. “Questo parimente – disse il Bembo – giudicherete molto bello, e molto convenirsi a lei. Il nome suo è Isabella”. “Convenevolissimo veramente – disse Macro – e bellissimo nome è questo, il quale la sorte o la divinazione paterna pose; perciò che Isa ne la lingua greca (come sapete) suona, quanto nella nostra Equale; tal che così composto altro non dice che equalmente, et in ogni parte bella”. “Ma – disse il Bembo – più equalmente bella la giudichereste, se tutto quello, che costei ha di bello in se, vi fosse manifesto; perciò che, avendola voi, quasi come un trascorrente baleno, una volta sola veduta, queste cose di fuori, cioè l’effigie, avete sommamente lodato; ma i beni dell’anima non sapete; la bellezza de la quale è in lei di gran lunga maggiore, e più divina di quelle del corpo; et io il so, perciò che più volte ho con lei parlato, et uso familiarmente nella sua corte. Là onde la mansuetudine, la magnanimità, la temperanza, le erudizione, e le altre virtù assai più lodo in lei della bellezza e queste a quella prepongo”3 3
TRISSINO (ed. 1729), p. 273.
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Nella sua opera il Trissino – sempre seguendo il modello lucianeo – fornisce tre ritratti di Isabella. Il primo riguarda le bellezze del corpo, descritte secondo il criterio dell’imitazione per elezione: le cinque donne più belle dell’aristocrazia italiana prestano ciò che in loro è più donato di bellezza per la realizzazione del ritratto di Isabella, che diviene così – nell’artificiosa creazione di questo ritratto – la “bella fra la belle”. Il riferimento, dichiarato apertamente nel testo del Trissino e omesso in Luciano, è all’effigie di Elena dipinta da Zeusi, per la realizzazione della quale il pittore si ispirò alle fattezze delle cinque più avvenenti ragazze di Crotone. Per il ritratto di Isabella delineato dall’autore, le ispiratrici sono Giovanna detta Ericyna e Bianca Trissino, rispettivamente la prima e la seconda moglie dello scrittore, che forniranno “le chiome né troppo folte, né troppo rade”, “la misuratissima qualità della fronte” e le guance; la moglie del genovese Bettino Spinola, la più bella donna che avesse mai visto il re di Francia, le darà invece il “naso di mirabile misura e di convenevole qualità”; la milanese contessa di Cajazzo offrirà la “equale e convenevolissima bocca, e le delicatissime labbra e anchora lo eguale e proporzionato collo, e la grandezza della persona, la quale né in sconcia lunghezza si estende, né in pargolezza discende”; infine di Clemenzia de’ Pazzi, la più bella dama di Firenze e di tutta la Toscana, si prenderà il petto “temperatissimamente rilevato”. Il ‘disegno’ del corpo della Signora così composto verrà poi colorito, ma l’impresa non sarà affidata a un pittore. E a questo fare, né il Mantegna, né il Vinci, né Apelle, né Euphranore, se ci fussero, sarebbero per aventura sufficienti; ma noi il nobilissimo di tutti i pictori Messer Francesco Petrarca chiameremo, e a questa impresa a fare il daremo; il quale primariamente colorirà le chiome, come fece quelle della sua Laura, faccendole d’oro fino, e sopra or terso bionde. Et il volto
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farà di calda neve o più tosto di quelle candide rose con vermiglie in vasel d’oro; le labra parimente di rose vermiglie, e le ciglia di ebano togliendo; et il bel dolce, suave, bianco e nero de gli occhi a due lucentissime stelle assembrando, con quel non so che dentro, che in un punto può far chiara la notte, oscuro il giorno, ‘l miele amaro, et addolcir l’assentio. Le guancie apresso di fiamma, o rose sparse in dolce falda di viva neve colorendo; e la bianchezza del collo tale faciendo, dove ogni latte perderia sua prova; et agguagliando le mai bianche, e sottili al colore de le perle orientali, farà lei generalmente una donna più bella assai, che ‘l Sole, e più lucente; dicendo molto più ragionevolmente di lei, che non fece di Laura; Leggiadria, ne beltade simil non vide il sol, credo, giammai. Tale adunque è questa meravigliosissima donna, come le nostre parole, et il nobile Poeta ve l’hanno dipinta4.
Dopo aver colorito il primo ritratto – ovvero la forma fisica dell’ignota Signora – l’autore passa alla descrizione del suo habitus, puntuale omaggio all’eleganza e all’amore per il lusso della Marchesa: i capelli sciolti sulle spalle e trattenuti da un velo, il gioiello nel mezzo della fronte, un vezzo di perle al collo, l’abito di prezioso velluto nero decorato da fibbie dorate. Anche l’accenno alla carrozza da cui la Signora scese al momento dell’incontro con uno dei personaggi del dialogo inscenato dal Trissino è realistico: furono infatti Isabella d’Este e il fratello Ippolito a introdurre in Italia l’uso di questa vettura5. Dopo la descrizione dell’abito avviene il riconoscimento dell’Ignota. A questo punto, esattamente come nel modello lucianeo, il locatore che conosce e riconosce la Signora, Bembo in questo caso, ne traccia un ulteriore ritratto, riguardante le virtù morali. L’encomio, secondo una consuetudine retorica, parte dal nome della dama, in Trissino tramite una falsa etimologia, in Luciano invece attraverso il ricordo di personaggi 4 5
TRISSINO (ed. 1729), p 272. Luzio - Renier 1986, pp. 285 e segg. (fasc. 16 settembre).
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illustri che lo hanno portato. Al pari del ritratto del corpo, anche quello delle virtù è delineato secondo il criterio dell’imitazione per elezione. In questo caso gli exempla sono tratti dall’antichità romana (tutti da Valerio Massimo): Porzia per la fortezza, Antonia per la continenza, Emilia, Claudia e Sulpizia per la giustizia. A queste si aggiungono due virtù peculiari di Isabella: la liberalità e la magnanimità, entrambe virtù principesche. Nell’ambito della liberalità – che come si vedrà sarà un elemento ripreto da Ariosto – il Trissino fa rientrare anche la passione per il collezionismo: Chi meglio e più volentieri di costei sa spendere nelle cose lodevoli, e spendere dove il bisogno conosce; e questa sua liberalità si può chiaramente comprendere da le splendide sue vestimenta, da i paramenti di casa magnifici, e da le fabriche belle, dilettevoli, quasi divine, con alcuni dolcissimi camerini pieni di rarissimi libri, di picture bellissime, di antique sculture meravigliose, e di moderne, che si avvicinano a quelle, di camei, di tagli, di medaglie, di gemme elegantissime, et insomma di tante altre cose pretiose e rare abondevoli sono, che ad un tempo diletto grandissimo, e non piccola meraviglia porgono ai riguardanti6.
L’encomio dedicato dal Trissino a Isabella venne accolto con benevolenza dalla Marchesa, che tuttavia, accettando l’omaggio cortigiano del letterato, così gli scriveva: Domino Jo. Georgio Trissino. Magnifice Amice noster honorande. La lettera, versi et opereta vostra non ci poteriano essere stati presentati in loco più conveniente alla professione vostra quanto sono, essendo questa rivera di Garda, ove hora ni ritroviamo tutta disposta a poesia e speculatione. Havemoli acceptati et letti molto volentieri solo per essere compositione vostra, et al nostro judicio ellegantissima et ingeniosa, se ben troppo et fori de verità excede
6
TRISSINO (ed. 1729), p. 275.
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in laudarmi et per il vulgar proverbio è: so che tu non dici il vero, pur ni piace.7
Come riconosciuto da Isabella stessa, l’opera del Trissino non è estranea dal processo di adulazione (l’autore, all’epoca espulso da Vicenza, era in cerca di protezione). Spia di ciò il doppio ringiovanimento della figura di Isabella all’interno dell’opera: alla retrodatazione del dialogo al 1507, anno in cui la Marchesa aveva trentatré anni, si aggiunge un’ulteriore stima di età apparente con uno sconto di dieci anni rispetto all'età reale, come si evince dall’affermazione del Macro: “et etiandio l’etate, la quale, secondo il mio giudizio, non molto sopra ventitre anni trapassa”. Tuttavia l’opera non va letta semplicemente come encomio adulatorio: la puntuale ripresa del modello ellenistico presuppone anche una volontà di disvelamento. Il gioco cortigiano fra la Marchesa e il letterato, tutto giocato all’insegna della simulazione e della dissimulazione nasconde sotto il velo della semplice adulazione il riferimento erudito a un’opera antica – il testo di Luciano – che sicuramente Isabella conosceva e riconosceva. Per la coincidenza cronologica della datazione dei dialoghi, e per l’identità di uno degli interlocutori, ovvero il Bembo, I Ritratti del Trissino chiamano in causa il Libro del Cortegiano di Baldassarre Castiglione. All’interno dell’opera Isabella è nominata una sola volta, nel catalogo delle dame illustri: Se verrete nella Lombardia vi occorrerà la signora Isabella marchesa di Mantova, alle eccellentissime virtù della quale ingiuria di faria parlandone così sobriamente, come saria forza in questo loco a chi pur volesse parlarne8.
7
Lettera di Isabella d’Este a Gian Giorgio Trissino (25 marzo 1514), citata in Iotti 2001, p. 173. 8 CASTIGLIONE, 3, XXXVI.
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I Ritratti del Trissino e il Libro del Cortegiano: estetica della Grazia
Al di là di questa semplice citazione il Libro del Cortegiano è un documento importante per i canoni estetici in esso elencati, che corrispondono esattamente alle descrizioni di Isabella delineate dal Trissino: il criterio della felix medietas o aurea mediocritas, elemento caratterizzante della grazia, si riscontra puntualmente nella descrizione della corporatura di Isabella “la quale né in sconcia lunghezza si estende, né in pargolezza discende9”. Lo stesso concetto era già espresso anni prima dall’Equicola, nel suo De Mulieribus: “corpus quadratum neque gracile neque obesum10”. Anche la descrizione della bellezza nascosta della dentatura segna un punto di contatto fra il testo del Castiglione e quello del Trissino. Se infatti nel Libro del Cortegiano si afferma che: Piacciono molto in una bella donna i bei denti, perché non essendo così scoperti come la faccia, ma per lo più tempo stanno nascosti, creder si po che non vi si ponga tanta cura per fargli belli, come nel volto11.
Puntualmente, ne i Ritratti, il Macro ci informa che Isabella nel favellare, come alcuna volta acade, sorridendo, dimostrò fra la rossezza delle labbra un ordine di equali e candidissimi denti, i quali si possono assimigliare a bianca neve12.
La chiostra dei denti di Isabella era peraltro già stata definita dall’Equicola “lactea dentium compago13”. Alle descrizioni dell’Equicola e del Trissino fa da controcanto quella stilata da Pietro Aretino nel suo Pronostico dell’anno MDXXXIIII in cui si afferma che:
9
TRISSINO (ed. 1729), p. 274. EQUICOLA, p. (19). 11 CASTIGLIONE, 1, XL. 12 TRISSINO (ed. 1729), p. 273. 13 EQUICOLA, p. (19). 10
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Un ritratto di Isabella delineato da Pietro Aretino
Tutti i segni, tutti i cieli e tutti i pianeti calcolati dal quadrante affermano che la mostruosa Marchesana di Mantova, la quale ha i denti de ebano e le ciglia di avorio, dishonestamente brutta et arcideshonestamente imbellettata, partorirà in senettute sue senza copula maritale; et un simile miraculo farà la signora Veronica Gambara meretrice laureata.14
Interessante a questo punto è soffermarsi sul rovesciamento puntuale e beffardo che si riscontra nella breve e lapidaria descrizione dell’Aretino rispetto alla retorica encomiastica del Trissino. Le ciglia ricavate dall’ebano descritte da Vincenzo Macro e i denti simili alla neve diventano nel pronostico del Flagello dei Principi, come lo stesso Aretino di autodefinisce, “denti de ebano e ciglia di avorio”. La marchesa di Mantova “equalmente et in ogni parte bella” lodata dal Trissino è qui detta “dishonestamente brutta et arcideshonesatmente imbellettata”. Va inoltre sottolineato che il componimento dell’Aretino si colloca cronologicamente a ridosso delle trattative fra Isabella d’Este e Tiziano per la realizzazione del ritratto retrospettivo della Marchesa (cfr. cat. 20). Consapevole dell’investimento di Isabella sulla propria immagine, l’Aretino scagliò i suoi strali mirando proprio a quella, rovesciando volutamente i canoni dell’estetica cortigiana.
Un anno prima che l’Aretino preparasse la sua invettiva, nell’ottobre del 1532, Ludovico Ariosto porgeva a Isabella il suo omaggio: Illustrissima et Excellentissima Signora mia observandissima, io mando a vostra Excellentia uno de li miei Orlandi furiosi che havemoli meglio corretti et ampliati di sei canti e di molte stanze sparse chi qua chi là pel libro mi parrebbe molto uscir dal debito mio inanzi a tutti gli altri non ne facessi copia a vostra Excellentia come a quella che riverisco e adoro et alla quale so che le mie compositioni, sieno come se vogliono, essere
14
ARETINO, cap. VI.
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Evocazioni di Isabella nell’Orlando Furioso di Ludovico Ariosto
gradittisme sogliono. Quella se degnerà di accettarlo insieme col buono animo col quale io le fo questo piccol dono15.
Isabella era stata infatti testimone in prima linea della stesura del poema dell’Ariosto già da quando, nel 1507, il poeta era stato inviato a Mantova dal cardinale Ippolito d’Este per felicitarsi con la sorella per la nascita del figlio Ferrante e, per l’occasione, leggeva alla Marchesa le prime ottave del suo Orlando Furioso. All’interno del poema – e in particolare in due dei sei canti aggiunti nell’edizione del 1532, il ventinovesimo e il quarantaduesimo – si riscontrano numerosi omaggi alla marchesa di Mantova. È il caso, per esempio, dell’inserzione dell’omonima eroina, il cui exemplum costituisce di fatto l’unica creazione ariostesca di carattere agiografico: Per l’avvenir vo’ che ciascuna ch’aggia il nome tuo, sia di sublime ingegno, e sia bella, gentil, cortese e saggia, e di vera onestade arrivi al segno: onde materia agli scrittori caggia di celebrare il nome inclito e degno; tal che Parnasso, Pindo ed Elicone sempre Isabella, Isabella risuone. 16
Oltre all’encomio onomastico è ovviamente presente anche quello dinastico, già presente nell’editio princeps del 1516, fatto pronunciare dalla voce di Merlino nel tredicesimo canto:
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Lettera di Ludovico Ariosto a Isabella d’Este (9 ottobre 1532), citata in Iotti 2001, p. 182. 16 ARIOSTO, XIX, 29.
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De la tua chiara stirpe uscirà quella d’opere illustri e di bei studi amica, ch’io non so ben se più leggiadra e bella mi debba dire, o più saggia e pudica, liberale e magnanima Isabella, che del bel lume suo dì e notte aprica farà la terra che sul Menzo siede, a cui la madre d’Ocno il nome diede:
dove onorato e splendido certame avrà col suo dignissimo consorte, chi di lor più le virtù prezzi ed ame, e chi meglio apra a cortesia le porte. S’un narrerà ch’al Taro e nel Reame fu a liberar da’ Galli Italia forte; l’altra dirà: - Sol perché casta visse Penelope, non fu minor d’Ulisse. - 17
L’accento torna quindi sulle qualità morali di Isabella, fra cui spicca la liberalità su cui si era già soffermato il Trissino. Accanto a questi encomi, nel testo dell’Orlando Furioso si ritrova anche menzione di un’effigie della Marchesa di Mantova. Nel canto quarantaduesimo l’eroe Rinaldo giunge presso una fonte custodita da un padiglione ottagonale. Otto cariatidi in forma di donna sorreggono con un braccio la volta dell’edificio. Con l’altra mano reggono una cornucopia da cui sgorga l’acqua della fonte. Ogni cariatide è a sua volta sorretta da altre due statue, raffiguranti personaggi maschili nell’atto di reggere cartigli. Le otto statue di donna sono i ritratti di importanti signore legate alla corte estense: Lucrezia Borgia, Isabella d’Este, Elisabetta Gonzaga, Eleonora Gonzaga, Beatrice d’Este, Lucrezia 17
ARIOSTO, XIII 59, 60.
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d’Este Bentivoglio, Diana d’Este e un’ottava dama innominata. Le statue che sorreggono questi simulacri raffigurano invece poeti e letterati legati alle dame effigiate. La statua di Isabella, sorretta dal Calandra e dal Bardellone, è menzionata per seconda, subito dopo quella di Lucrezia Borgia: Non men gioconda statua né men bella si vede appresso, e la scrittura dice: - Ecco la figlia d’Ercole, Isabella, per cui Ferrara si terrà felice via più, perché in lei nata sarà quella, che d’altro ben che prospera e fautrice e benigna Fortuna dar le deve, volgendo gli anni nel suo corso lieve. -
I duo che mostran disiosi affetti che la gloria di lei sempre risuone, Gian Iacobi ugualmente erano detti, l’uno Calandra, e l’altro Bardelone.18
Nel novero dei ritratti letterari di Isabella d’Este vanno inserite anche le pagine dedicatele da Giuseppe Betussi. Nel 1545, a sei anni dalla morte della Marchesa, il poligrafo veneziano, traducendo e pubblicando il De Mulieribus Claris di Giovanni Boccaccio, componeva anche un nuovo testo, con lo scopo di aggiungere alla selezione boccaccesca cinquanta nuove figure. Fra esse non poteva mancare Isabella d’Este, a cui è dedicato il capitolo trentaseiesimo. La breve biografia si apre con l'enunciazione dei dati anagrafici della Marchesa, la cui nobiltà deriva dall'essere figlia dei duchi di Ferrara e sposa del signore di Mantova:
18
ARIOSTO, XLII 84, 85.
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Isabella d’Este nell’ Additione del Betussi
Isabella, adunque, figliola d’Ercule, secondo duca di Ferrara e primo di questo nome, e di Leonora d’Aragona, che di sopra abbiamo ricordata, non punto dissimile alla madre, fu moglie di Francesco da Gonzaga, marchese di Mantova. La quale, se non per altro almeno per questo non deve essere stata poco riguardevole, avendo avuto un così degno e valoroso marito, del cui valore in altre carte che in queste ho fatto, non voglia dir memoria, non mi persuadendo i miei scritti di essere eterni, ma più ampio ricordo. Ma veramente non men degna è stata ella di lui di quello ch’egli sia stato di lei19.
Seguono poi, come di consueto, le lodi delle doti morali di Isabella, accompagnate da un accenno al noto “insaciabile desiderio di cose antique” della Marchesa e alla sua collezione, con particolar attenzione per il Cupido di Prassitele, uno dei pezzi più ammirati della Grotta isabelliana: Fu donna generosa, liberale, di grandissimo governo, piena di infinito valore, benigna e caritatevole quanto dir si possa, giudicando […]. Dirò bene che molto è stata notabile per non aver avuto l’animo basso e vile […]. Di generoso core si dispose di veder molti paesi e gli volle vedere, tratta dal desiderio di aver cognizione delle cose del mondo ne quale siamo nati […]. E dove seppe ch’in città o in loco alcuno fosse cosa rara e degna, non lasciò di voler senza temer fatica alcuna col mezzo de gli occhi corporei di soddisfare a quegli della mente e al desiderio dell’animo e di sorte si dilettò di cose notabili antiche e moderne che dove seppe esservi alcuna antichità rara e degna non restò per spesa alcuna, mentre fosse possibile averla, di non la volere appresso a sé. Fece fare in Mantova nel palazzo della rocca una stanza sotterranea cavata tra certi sassi, la quale chiamò la Grotta, e fin oggidì si dice la Grotta di Madama, e ancor dura, dove a guisa d’un bellissimo e caro studio bene adornato, vi fece accorre le più degne e rare antichità d’immagini, di medaglie e d’altre cose simili che poté ritrovare e avere, e ivi le pose, pigliando 19
BETUSSI, cap. XXXVI.
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grandissimo contento d’una così ornata impresa. E tra l’altre cose ch’ivi sono di gran pregio, e di non piccolo valore, non mi par di tacere d’un cupido antichissimo e così bello e bene formato che si riconosce la natura esse stata superata dall’arte, e fu opera di Prassitele, eccellentissimo e tanto nomato scultore. Infinite gioie di gran prezzo ancor vi sono20.
Betussi conclude poi la sua digressione su Isabella d’Este riportando il giudizio sulla Marchesa pronunciato da Carlo V: L’ultimo suo ornamento, per essere breve, ch’io voglio dare a questa generosissima Isabella, oltre l’esser stata liberalissima quanto immaginar si possa, sarà il giudizio che di lei diede l’invittissimo Carlo quinto imperatore. Ch’ebbe a dire a i giorni suoi di non aver mai veduto né udito ragionar donna più rara né più singolare di questa saggia e illustre Isabella21.
Come s’è visto, la dissertazione del Betussi su Isabella, già in Ariosto genericamente “leggiadra e bella22”, non contempla considerazioni sull’aspetto fisico della Marchesa e si concentra principalmente sulla sua attività di collezionista. Il tema, presente già in Trissino come elemento connesso alla virtù della liberalità, rappresenterà d’ora in poi la costante più tenace del mito letterario e storiografico di Isabella d’Este.
20
BETUSSI, cap. XXXVI. BETUSSI, cap. XXXVI. 22 ARIOSTO, XIX, 29. 21
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VII. TESTI
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I RITRATTI DI M. GIOVAN GIORGIO TRISSINO Stampata in Roma per Lodovico de gli Arrighi Vicentino, e Lautitio Perugino. Nel MDXXIIII di Ottobre con la prohibitione, e gratia di N.S. come ne l’altre.
Ritrovandosi Messer Lucio Pompilio in Ferrara, et in casa di Madonna Margarita Cantelma Illustre Duchessa di Sora, ne’ la quale v’era una brigata di valorose donne, e di accostumatissimi Giovani, da le preghiere di tutti constretto, così a parlare incominciò. Se io ho bene la intenzione vostra inteso Gratiosissima, et Illustre Madonna, e parimente quella di tutta questa nobilissima compagnia, voi volete, che per me vi si narrino quelli ragionamenti, che furono tra Messer Pietro Bembo, e Messer Vicentio Macro fatti in Milano; de’ i quali conciò sia cosa che voi n’habbiate udito ragionare da chi ne nomi, ne luoghi, ne tempi vi seppe ordinatamente distinguere; hora da me, come da persona, che presente vi fue, questo paritamente ne ricercate; et io lo farò più che volentieri; perciò che’, havendoli altre volte ridetti, parmi assai bene ne’ la memoria tenerli, e potervi in ciò assai cumodamente satisfare, Ma si come a colui, che’ di tutto fu fattore, piacque a le’ cose fatte da lui mirabile ordine porre, et etiandio dare la luce al Sole, da la quale quest’opere terrene prendessero tutte qualche chiareza; così a me pare, che nel parlare humano ogniuno si deggia affaticare in essere ordinato, e chiaro. Ond’io per questo fare, comincierò alquanto più avanti i miei ragionamenti, che quelli, i quali vi deggio raccontare, non si furono cominciati. Voi adunque vi devete ricordare, che’ nel tempo, che Luigi Re di Francia, scacciato Lodovico Sforza, e poi havutolo ne’ le mani, possedeva il Ducato di Milano, nacque in Genova una certa differentia tra Gentilhomini, e Populani, per la quale i Gentilhomini furono da i Populani scacciati; il perchè,
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ridotti eglino in Francia dal Re, furono cagione, che esso in Italia con grandissimo numero di gente d’arme venisse; con le quali rihavuta che hebbe Genova, e rimessi gli usciti in casa, e racconcio il stato loro. E di quella città. Se ne venne a stare alcun giorno in Milano; ove si ridussero molti Signori, e molte ambasciarie; quali per loro bisogni, e quali per fare solamente riverentia al Re. Advenne che in questo tempo anchor io in que’ luoghi mi ritrovai; e conciò fusse cosa, ch’io desiderasse di conoscere Messer Demetrio Chalcondyle; il quale ogniuna di voi almeno per fama conobbe; perciò che’ in dottrina, in candidissimi costumi, et in santità di vita non hebbe a questi nostri tempi pare; da questo desiderio tirato me n’andai un giorno a la casa sua per visitarlo; et entrato dentro, e fattali la debita riverentia. Et usate quelle parole, che’ ne’ i principii usare si sogliono migliori, trovai per avventura esser ivi non molto avanti per simile cagione Messer Pietro Bembo nostro arrivato, et entrati insieme in suavissimi ragionamenti, buona peza del giorno con quel santissimo vecchio si trapassoe. Ma, poscia che’ da lui, pur da lui ragionando, partiti ci fummo, apena eravamo ne’ la piaza del Vescovado giunti, che’ fu per noi veduto Messer Vicentio macro; il quale con passo lento ne’ veniva, e ponendo il labro inferiore talhora sopra de l’altro, e risguardando al Cielo segni mostrava di non piccola meraviglia; il che vedendo Messer Piero, che’ con lui molta dimestichezza haveva, così primieramente li disse. Che’ meraviglia è questa Messer Vicentio mio, che in voi, se’ la vista non m’inganna, comprendo? Al quale rispose macro, in questo già non v’ingannate Messer Piero, perciò che’ in tal maniera ogni sentimento occupato m’haveva, che’ di voi anchora accorto non m’era; ma donde ne’ venite a quest’hora? A cui rispose il Bembo; da Messer Demetrio ne’ vegniamo, col quale habbiamo fatto assai lunga dimora; ma voi non ci volete far partecipi di questa vostra meraviglia? S’ella è però di cosa, de la quale con noi sene possa liberamente parlare.
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Liberamente parlare sene puo, disse Macro, et a voui volentieri lo dirò. Meco medesimo mi meravigliava de la divina bellezza di una donna; la quale, non è molto, ch’io vidi; per cui poco vi mancò, che anchor io, come coloro, che videro anticamente Medusa, non mi sia converso in sasso. Meravigliosa cosa, disse il Bembo, veramente ci narrate, che beltà di donna v’habbia così fieramente commosso; perciò che adorneza di cose mortali apò voi non soleva essere in molto pregio, si come persona intenta a la Philosophia, et a la belleza de le cose immutabili, et eterne; ma non vi sia discaro di dirci chi si sia questa nuova Medusa; acciò che anchora noi conoscere lei, e la sua forza possiamo. Io sono certo, disse macro, che se voi solamente da lontano la vedessi, che, come statua di Marmo, immobile rimarresti. Ma s’ella per avventura guardasse voi, quale arte poi, o quale ingegno si potrebbe trovare, che’ da costei alluntanare vi potesse? La quale in ogni luogo seco, si come calamita ferro, vi tirerebbe. A cui disse il Bembo; lasciate un poco da parte, o caro Messer Vicentio, lo andarci formando una mostruosa bellezza; e diteci se vi piace, chi questa donna si sia. Al quale disse Macro; ben m’aveggio, che le mie parole da voi sono stimate meno, che vere, e del subjetto maggiori; et io temo, che s’ella sarà da voi veduta, che alhora un debile laudatore, e povero di parole mi giudicherete. Hora chi costei si sia non vi so chiaramente dire; vero è, che la compagnia honorevole, e grande, la moltitudine de’ la famiglia, lo adornamento de’ le donçelle, e l’altre cose parimente tutte mi parvero assai maggiori di quello, che a privata donna richiedere si potesse. Non sapete voi, disse il Bembo, il nome suo? Non io, diss’egli; solo questo so di lei, che la patria sua si dimanda Ferrara; perciò che uno di coloro, che stavano a mirarla, come fu trapassata, rivolto verso un altro, il quale gliera vicino, disse. Tali sono le bellezze, che produce Ferrara; e non è meraviglia, se quella bellissima cittade, ha la più bella di tutte le donne del mondo prodotto. E da questo suo gloriarsi, costui essere Ferrarese parimente mostrava. Hor, disse il bembo, poi che havete fatto cosa
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veramente da pietra, a non seguirla dove andava, o non dimandare a quel Ferrarese chi ella si fosse; disegnateci, vi prego, almeno con le parole quali si sono le sue fatteze; che forse per quelle conoscere la potrei. Grandissima cosa, rispose macro, è questa, che voi mi dimandate, a volere, che per le mie parole vi sia una così meravigliosa figura dipinta; ne la quale Apelle, e Phidia, e gli altri pictori, e scultori antichi, non che i moderni, rimarrebbero tutti vinti, e confusi; si che l’originale, per la deboleza dell’arte mia, offendere si potrebbe; et appresso poi non ho tempo; perciò che per certi miei bisogni mi fa mestieri di andare qui fuori fino alla Pace. Per questo non rimarrà, disse il Bembo; perciò che noi altro che fare non habbiamo, la onde con voi volentieri ne verremo; et in questo, piacendovi, ci potrete così andando satisfare; ne dovete havere rispetto di cosa alcuna con noi, perciò che amicissimi vi siamo. Poi che così vi piace, diss’egli, andiamo; e per meglio satisfarvi chiamerò quello antico Zeusi; il quale m’insegnerà con la natura istessa formarvi questo ritratto. A cui disse il Bembo; questa cosa non intendo; ma con voi ne vegniamo; e, se grave non vi sia, ce la farete manifesta. Così farò, diss’egli; ma ditemi prima, siete voi mai stato a Vicenza? Molte fiate rispose il Bembo; et una volta fra l’altre più giorni vi dimorai. Adunque, disse Macro, voi devete havere non solamente Erycina, ma etiandio qualche altra de le belle donne di quella città veduto. Ben sarei, disse il Bembo, stato indegno di vista; se’, essendo ivi, per me non si fosse fatta ogni diligentia di vedere la famosa bellezza di Erycina; et anchora vi vedemmo una bellissima Giovinetta, la quale Bianca Trissina si chiamava. A cui disse Macro, le più belle di quella terra havete veramente veduto; et appresso io aviso; che qui in Milano sia stata per voi la beltà de’ la Contessa di Cajazzo considerata; et in Genova forse quella de la moglie di Battino Spinola contemplata. Vero è, rispose il Bembo, perciò che spesse fiate de l’una, e de l’altra di queste belleze sono stato risguardatore; e so de la Spinola, che il Re di Francia ne i giorni passati, essendo in Genova,
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per la più bella donna, che havesse infino a quel tempo veduto, la giudicò; la onde il suo partire, come che per tempo si fosse, andò a la casa di lei, e fecela dimandare, dove essa alhora uscita del letto, così senzi altrimente acconciarsi vi venne con tanta gratia, che la opinione, la quale haveva prima il Re, e ciscun altro, ch’era ivi, de’ la sua belleza molto in quel punto si crebbe. Disse Macro; voi sapete diligentemente ogni cosa; ma ditemi appresso, essendo stato, come so che siete, a Fiorenza, quale essere la più bella di quella terra vi parve? Quale altra, rispose il Bembo, mi potrebbe parere, che Clementia de’ pacci, de la cui belleza non solamente in Fiorenza, ma in tutta Toscana se ne ragiona. Bellissime certo, disse macro, sono tutte queste donne, le quali hora ci havete nominate; e saranno bastanti a quello, che’ di loro fare ci bisogna. Hora, si come Zeusi, quando Helena nel tempio de’ Crotoniati dipinse, di tutte le fanciulle di quella città ne’ elesse cinque, ne’ le quali quello di excellente, che’ ne l’una mancava, da l’altra raccogliendo, fece sì, che Helena sua bellissima ne’ divenne; Così anchor io queste opere elette da la natura a le mie parole darò; le quali imparando da Zeusi, con più convenevole giuntura, che saperanno, faranno uno ritratto, il quale le parti excellenti di ciascuna di queste haverà. A cui disse il Bembo; hora posso dire, che in parte v’intendo; e stò con disio ad aspettare, con qual arte di tante una fare ne saperete, la quale non sia in se’ medesima discorde. Alhora disse Macro; poi che ‘l tempo è da darvi questo ritratto; le nostre parole, le quali di così fatta impresa saranno le maestre, pigliando primieramente di Ericyna la testa, ne la quale le chiome ne troppo folte, ne rare, e la misuratissima qualità de la fronte, et il liniamento de le belle ciglia, e parimente gli occhi alquanto humidi, con quello di allegro, e di grato, ch’entro vi si vede, mescolato con una certa venerabile maestà, lasceranno come in lei la natura le formò; et oltre aciò la bella giuntura de le morbide braccia e le dilicate mani, le mani altresì, con quelle dita lunghe, e che quasi insensibilmente si assottigliano fino alla somità loro, da
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splendidissime ongie raccolte, come in Erycina si truovano, rimarranno. Le gote poi, e quella parte, che confina con le chiome, e quella, che circonscrive gli occhi da Vicenza anchora, e da la Trissina prenderanno; et il mansueto, dolcissimo riso, che fa obliare qualunque il mira, et il santissimo pudore, e la gravità de l’andare, e la veneratione del stare etiandio da questa torranno. Il naso poi di mirabile misura, e di convenevole qualità, et il ben formato mento, e la tenerazza di quelle parti, che da lui si diffundeno, quali ne le guancie, e quali sotto a se, e confinano con il collo, et il contorno tutto de la faccia, la Spinola le darà. Ma la suave, e convenevolissima bocca, e le dilicatissime labra, et anchora lo equale, e ben proportionato collo, e la grandeza de la persona, la quale ne in sconcia lungheza si extende, ne in pargoleza discende, vogliono da la Contessa, e da Milano pigliare. Il petto poi dove fa mestieri temperatissimamente rilevato, e la quadratura de le spalle, e la largheza loro, un poco scendendo da gli humeri fino a la possatura del collo, e con quello attissimamente congiunti, da quella d’e’ Pacci si piglierà: et etiandio la etate, la quale, secondo il mio giudicio, non di molto sopra ventitre anni trapassa, mostra essere tanta, quanta è quella di costei. Veramente, disse il Bembo, molto bello è riuscito questo vostro ritratto. Ma più bello vi parerà, disse Macro, quando sarà perfettamente compiuto. Adunque, disse il Bembo, voi non l’havete perfettamente compiuto? Ma che di bello vi puo mancare, havendo in lui così puntalmente ogni cosa raccolto? Molto vi manca, disse Macro, se i colori a la belleza di quel grandissimo momento, ch’io mi credo, si sono. Ma perciò che queste parti da noi raccolte, oltre che la varietà de i colori non sia in tutte loro, come si richiede, perfetta; cioè il nero non è perfettamente nero, e quelle parti, che’ vogliono essere bianche; non sono perfettamente bianche; ne il rosso per entro loro così, come devrebbe, fiorisce. Anchora non sono fra le medesme molto concordi, perciò che ‘l bianco de’ l’una è più bianco, o meno bianco di quello de l’altra. E
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così ne’ gli altri colori apertissima differentia si vede; il perché io aviso, che ci fia mestieri di persona, che’ tutte poste insieme ce le colorisca; et a questo fare, ne il Mantegna, ne il Vinci, ne Apelle, et Euphranore, se ci fussero, sarebbeno per aventura sufficienti; ma noi il nobilissimo di tutti e’ pictori Messer Francesco Petrarca chiameremo, e questa impresa a fare li daremo, il quale primieramente colorirà le chiome, come fece quelle della sua Laura, faccendole di oro fino, e sopra or terso bionde; Et il volto farà di calda neve, o più tosto di quelle candide rose con vermiglia in vasel d’oro; La labra parimente di rose vermiglie, e le ciglia di hebano togliendo; Et il bel, dolce, suave, bianco, e nero de’ gli occhi a due lucidissime stelle assembrando, con quel non so che dentro, che in un punto può far chiara la notte, oscuro il giorno, e’l mele amaro, et addolcir l’assentio. Le guancie appresso di Fiamma, o rose sparse in dolce falda di viva neve colorendo; e la biancheza del collo tale faccendo, dove ogni latte perderia sua pruova; et aguagliando le mani bianche, e sottili al colore de le perle orientali, farà lei generalmente una donna più bella assai, che ‘l Sole, e più lucente; dicendo molto più ragionevolmente di lei che non fece di Laura; Leggiadria, ne beltate Simil non vide il Sol, credo, giamai. Tale adunque è questa meravigliosissima donna, come le nostre parole, et il nubile Poeta ve l’hanno dipinta. Ma quello, che sopra vanza, e fiorisce in tutta questa figura, è la gratia, che l’accompagna; anzi, tutte le gratie, e tutti gli amori le vanno ballando, e scherzando sempre dintorno; et, adornando ogni suo minimo atto, la fanno tale, che apena si può con la mente comprendere, non che con parole, o con altra arte humana ritrarre. Divina cosa veramente, rispose il Bembo, è questa, che voi dite, la quale si puo bene dire, che’ sia rarissimo dono dal Cielo a le mondane genti concesso. Ma non vi sia grave anchora di dirci l’habito suo, et in che maniera la vedeste. Ella, disse Macro, haveva gli capegli in capo diffusi, in guisa, che sopra i candidi, e dilicati humeri ricadeano; e questi tutti erano raccolti da una rete di seta di color tanè, con maestrevole artificio lavorata, i groppi de
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la quale mi pareano essere di finissimo oro, e fra meço le maglie di questa rete, le quali erano alquanto larghette, vi si vedeano scintillare i capegli, i quali, quasi raggi del Sole, che uscissero, risplendevano d’ognintorno. Ne la sommità poi de la fronte, dove questi in due parti si divideno, vi haveva un bellissimo, e fiammeggiante rubino, dal quale una lucidissima, e grossa perla pendeva; et al collo haveva un filo di grossissime, equali, e splendendissime perle, il quale da l’una, e da l’altra parte del petto scendendo quasi fin a la cintola n’agiungea; ma indosso haveva una bella, e ricca robba di velluto nero, carica di alcune fibie d’oro, tanto ben poste, e tanto ogni cosa, che’ haveva dintorno, era mirabilmente lavorata, che’ pareva gli artefici, per ornar costei, haver voluto con la natura istessa contendere. Questa (si come io aviso) non molto davanti discesa di carretta se n’entrava nel domo per orare; et haveva un libro in mano aperto, del quale parte mostrava haverne letto poco avanti, e con uno di quelli, che l’accompagnavano, ragionarne; ma non così alto diceva, che’ io intendere la potesse. Vero è, che nel favellare, come alcuna volta accade, sorridendo dimostrò, fra la rosseza de le labra un ordine di eguali, e candidissimi denti, i quali si ponno assimigliare a la bianca neve, che disse Messer Cino da Pistoia essere fra le rose vermiglie d’un tempo. Non andate più oltre Messer Vincenzio, disse alhora il Bembo, io certamente, si per tutte queste cose, che’ di lei ci havete narrato, come anchora per la patria, la quale poco davanti diceste, questa donna conosco. Sappiate, che’ essa è la Signora Marchesana di Mantova, quella a tutto il mondo riguardevole, è cara; La quale fu figliuola di Hercule Estense Invictissimo Duca di Ferrara, e di Leonora figlia di Ferrando Re di Napoli. A questo grido macro, o fortunatissimo padre, e felicissima madre, ma sopra gli huomini tutti beatissimo marito, o come è convenevole cosa, che una tanta bellezza sia da così nobilissimo legnaggio discesa, et a così nobile, e valoroso congiunta; ma non vi sia noja di farmi anchora il nome
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suo manifesto. Questo parimente, disse il Bembo, giudicherete molto bello, e molto convenirsi a lei. Il nome suo è Isabella. Convenevolissimo veramente, disse Macro, e bellissimo nome è questo, il quale la sorte, o la divinatione paterna le pose; perciò che’ Isa ne’ la lingua Greca (come sapete) suona, quanto ne’ la nostra equale; tal che’ così composto altro non dice, che equalmente, et in ogni parte bella. Ma ben, disse il Bembo, più equalmente bella la giudicherete, se tutto quello, che ha costei di bello in se’ vi fosse manifesto, perciò che’ havendola voi, quasi come un transcorrente baleno, una volta sola veduta, queste cose di fuori, cioè la effigie, havete sommamente lodato; mi è beni de l’anima non sapete; la belleza de la quale è in lei di gran lunga maggiore, e più divina di quella del corpo; et io il so; perciò che più volte ho con lei parlato, et uso familiarmente ne la sua corte; La onde la Mansuetudine, la Magnanimità, la Temperantia, la Eruditione, e le altre virtù assai piu lodo in lei de la belleza, e queste a quella prepongo, perciò che altrimente fare mi parrebbe cosa non ragionevole, e degna di muovere riso; come se alcuno piu la vesta, che la donna con admiratione riguardasse; con ciò sia cosa che quella giudico essere solamente perfetta belleza, ove in un medesmo subjetto la virtù de l’anima, e la formosità del corpo concorreno. Et io potrei dimostrarvi donne essere di effigie molto bella, ne l’altre parti poi deprimere, et offuscare la loro belleza, in guisa che solamente odendole ragionare tanto tosto quello, che era in loro di bello, si dissolve, e guasta; quasi vergognandosi di essere da un animo vile signoreggiato; e queste cotali mi pajono simili a i tempii anticamente di Egitto; l’edificio de i quali era bello, e grande, e di pretiosissime pietre composto, e di splendidissimo oro riguardevole, et ornato; ma chi il Dio di quello dentro ricercava, o Simia, o Bove, o Gatta, o cosa simile v’havrebbe trovato. E però la belleza da persè non vale, s’ella non è dai deviti ornamenti accompagnata; non dico, ne da gemme, ne da oro, ne da preziosissime veste; ma essere vuole la temperantia, da Mansuetudine, e da le altre virtù, e da i lodevoli costumi, che da
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queste ne nascono, adornata. Adunque, disse macro, rendeteci anchora voi parole per parole, con quella medesima misura, come si dice overo con migliore; il che so, potete facilmente fare; e però a me uno ritratto de l’anima dimostrate; acciò che io costei non admiri solamente per la metà. A cui il Bembo rispondendo disse; picciola contentione veramente non è questa, che voi suavissimo amico mi comandate, imperò che non è pari cosa lodare quello, che a tutti è manifesto, e quello, che non si vede, con parole mostrare. Ma pur io per non disdirvi lo farò, avegna che a me parimente farà mestieri di persone, che mi diano ajuto a formare questi ritratti; e non di Pictori, ne di Poeti, come a voi, ma di Philosophia, acciò che io, secondo le regole loro, queste imagini vi dipinga. E primieramente la feremo con voce, come dice il Petrarca, chiara suave, angelica, e divina parlare; et una dolcezza da la sua lingua venire assai maggiore di quella, la quale Homero descrive, che da la bocca del vecchio nestore usciva; et acciò che ogni cosa piu particularmente nota vi sia; il tono de la voce non è molto tenue, ne tale, che’l sia troppo femminile, overo disciolto, ma è suave, e mansueto, come sarebbe quello di uno fanciullo, il quale non fosse anchora a la giovineza venuto; e questo tono tenerissimamente intrando ne le orecchie altrui genera un certo dolce rimbombo in esse; il quale anchora che sia cessata la voce, dentro però suavemente vi resta, e fa dopo lui alcune reliquie di parlare, e certe dolceze piene di persuasione ne l’anima rimanere. Ma quando poi questa alcuna volta canta, e specialmente nel liuto, ben credo, che Orpheo, et Amphione, i quali seppero le cose inanimate dal canto loro tirare, sarebbero, udendo costei, rimasti stupefatti di meraviglia; e non dubito, che il serbare diligentissimamente l’harmonia, in guisa che in niuna cosa il ritmo si varchi, ma a tempo con elevatione, e depressione misurare il canto, e tenerlo con lo liuto concorde, e ad un tratto accordare la lingua, e l’una, e l’altra mano con le inflexioni dei canti, niuno di loro havrebbe così bene saputo fare; La onde, se voi l’aveste una sola volta udita cantare, son certo, che vi sarebbe, come a coloro,
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che udirono le Sirene, e la patria, e la propria casa uscita di mente; e se ben state vi fossero con cera chiuse le orecchie, per entro quella vi sarebbe penetrato il canto. Ma, recando le molte parole in una, tale è questo cantare, quale per tali labri, e tali denti, come havete veduti, vi parrebbe, che fossi convenevole di uscire. La loquela sua poi non è patria pura, ne pura Toscana, ma il bello de l’una, e de l’altra ha scelto, e di quello insieme, mescolato dolcissimamente favella, et ha in se alcune gratie, et halcuni motti oltra modo piacevoli, e pronti, i quali a tempo detti da lei mai non turbano altrui, ma dilettano sempre; il perché facilmente giudichereste l’ingegno, e la eruditione essere in lei mirabilmente congiunti. Eccovi adunque uno ritratto de la voce, e del canto, avegna ch’egli si sia del vero molto minore. Dopo questo gli altri vi formeremo; perciò che io non ve ne voglio componere di molti uno, come voi fatto ci havete; il che è di fatica per aventura minore, e cosa più convenevole a pictori, et a scultori, che ad altri; ma io per ciascuna de le virtù de l’animo uno ritratto intendo di dimostrarvi più a l’originale simile, che potrò. Veramente, disse Macro, egli mi pare, che ci vogliate rendere la misura maggiore; misurate adunque; perciò che niuna cosa per voi fare a me più grata, e più dilettevole di questa si può. Hora, perciò che egli è necessaria cosa, seguì il Bembo, che’ la eruditione a tutte le degne operationi sia maestrevole scorta, uno ritratto faremo, il quale sarà di molta varietà, e di molte figure; tal che forse anchora in questa parte non saremo da la vostra imagine superati. Adunque tutti i beni di Castalia, e di Parnaso facciamola havere, e non una cosa sola, come Calliope, Clio, Polymnia, o l’altre sapere; ma quello di tutte le Muse insieme, et appresso di Mercurio, e di Apolline essereli manifesto; e di tutte quelle cose, che i Poeti ornano in versi, gli historici scrivono in prosa, et i Philosophi ne l’uno, e ne l’altro ammoniscono; di queste adorno il nostro ritratto si truova; e non è, come si dice, di sopra solamente colorito, ma nel profondo la tintura perviene; e sopra il tutto di Poetica si diletta, e molto in quella si dimora; il che convenevolissimo pare, essendo la patria di
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Virgilio da questa signoreggiata; et insomma è tale che se Hipparchia, Anete, Aria, et Hypatia; se Saffo, Corinna, Praexilla, con le altre sei lyrice Donne, di che Grecia si vanta, fossero tutte in una sola ridotte, a quella non anchora bene si potrebbe questa nostra figura assembrare. Quinci venendo a le vertù, le quali sono i beni maggiori de’ l’anima, e questa essendo di tre parti, secondo il divino Platone, e de la parte rationale la Prudentia essere la virtù dicendo, de’ la irascibile parte la Mansuetudine, e la Forteza, de la concupiscibile poi la Temperantia, e la Continentia, e di tutta l’anima insieme la Giustitia, la Liberalità e la Magnanimità ponendo, per ciascuna di queste virtù uno ritratto vi farò, de’ i quali quello de la prudentia sarà il primo; la quale è di tutte le cose, che guidano l’homo a la felicità, preparatrice. Questa adunque fa lei volentieri, e con chi deve, diligentemente consigliarsi; e sapere le cose buone da le men buone discernere; et ottimamente i beni da Dio, e da la natura a lei concessi usare; e con ogni qualità di persone accomodatamente, e gratiosamente conversare. Questa le fa di tutte le cose degne, utili, et honeste grandissima experientia havere, e massimamente di quelle, che s’appertengono a reggere stato, ne’ le quali tutte le occasioni meravigliosissimamente antivede, e salle a luogo, e tempo in opere, et in parole pigliare; tal che da Mammea, da Aspasia, e da quella da Platone, e Socrate Diotima celebrata la simiglianza di questa figura si piglierà. Alhora disse Macro; bellissime certamente queste vostre imagini sono, e con molta diligentia dipinte; per il che mi recano, e desiderio, e speranza de l’altre. A questo il Bembo altro non rispose; ma seguendo disse. Ne la mansuetudine poi ad Arete, moglie di Alcinoo, et a sua figliuola nausicaa l’assimigliaremo; et a qualunque altra, la quale ne la grandeza de le cose temperatamente si resse; perciò che, e mediocri ripensioni, e mediocri dispreggi costei sa patientemente tolerare; e non per minime cagioni s’adira; ne si può n’e suoi costumi niente di amaro, niente di ritroso, o di contentioso vedere; anzi una ferma quiete, et una continua tranquillità d’animo
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sempre si ritruova. Dietro a questo quello de la Fortezza verrà, per la quale oltre il consueto de’ le donne, non è timida, ne di pericoli, ne di morte; anzi più tosto quella honorevole si eleggerebbe, che la candideza de la sua vita in niuna minima cosa macchiare, et a Portia moglie di Bruto, et ad Harmonia, figliuola di Hierone simile si farà. Di non pregiare poi le dilettantioni del corpo, anzi desiderio di niuno meno che honesto piacere, non potere in quell’animo intrare, e di una suave modestia, con uno vergognoso, e quasi sopra modo rispetto, et appresso, di un ordine, et assetamento ne le cose della sua vita meraviglioso il ritratto de la temperanza orneremo; et a Penelope di Ulisse, et ad Alceste di Admeto l’aguaglieremo. E de la continentia, la quale con la ragione ogni men bello appetito supera, e discaccia da Antonia, che fu moglie di Druso, e figliuola di Antonio la simiglianza torremo, e così fatte queste imagini per hora le riporremo. Mirabili, disse Macro, veramente le riponete; Et appresso quelle di tutta l’anima insieme ci darete. Così farò, disse il Bembo; Ma perché in tre guise la Giustitia s’adopra, cioè verso Dio, verso la Patria, e verso quelli, che sono di questa vita passati; quivi di molti exempi ci farebbe mestieri; ma noi con Emilia vergine vestale, e con Claudia, e con Sulpitia uno ritratto faccendo, in quello porremo una vera, e singulare religione, in opre assai piu, che ne le dimostrationi profonda; ne tutto il giorno con monache, o con frati si dimora, ma lasciando quelli ne’ le loro celle orare, le messe, e gli offitii con somma divotione ascolta; et i digiuni, e le elemosine, e l’altre cose da la chiesa ordinate non pretermette; et etiandio ha una ferma, et inviolabile fede, accompagnata da un santissimo servare di promesse, con una veritiera lingua, da cui giamai parola non vera si sciolse; et appresso di quella pietà, e tenereza, verso la Patria, e verso il Padre, e la Madre, mentre che viveano, et hora verso i Fratelli maggiore, che in altri mai veduta si sia la adorneremo. E le agiungeremo come secondo la dignità, et i meriti di ciascuno, vuole che i premii, le utilità, e gli honori, siano distribuiti; e che la santità de le leggi sia fermissimamente servata;
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Per le quali i buoni con premio, et i cattivi non senza pena rimangano. Ma quale fatica hora circa la liberalità ci resta? In cui sola, si può dire, che solamente in questi nostri tempi si veggia. Chi meglio, e più volentieri di costei sa spendere ne le cose lodevoli, e spandere dove il bisogno conosce; e questa sua liberalità si può chiaramente comprendere da le splendide sue vestimenta, da i paramenti di casa magnifici, e da le fabriche belle, dilettevoli, e quasi divine, con alcuni dolcissimi camerini pieni di rarissimi libri, di picture bellissime, di antique sculture meravigliose, e di moderne, che si avvicinano a quelle, di Camei, di tagli, di Medaglie, e di gemme elettissime. Et insomma di tante altre cose pretiose, e rare abondevoli sono che ad un tempo diletto grandissimo, e non piccola meraviglia, porgono a i riguardanti. Ma molto più liberale costei si dimostra ne’ i benefici, i quali altrui concede. Ne di cosa, che’ di faccia, tanto s’allegra, o tanto si gode, quanto di quello, che in far bene alle genti dispensa; e non molto a buffoni, a pazi, et a trombetti, o a simili canaglie dona; ma a persone buone, virtuose, e dotte; da le’ quali non aspetta, che le siano danari, panni, o simili cose richieste; anzi, dove il bisogno loro intende, prestamente soccorre; e così largamente gli dà, che dissolve loro ogni cura, che a procurarsi il vivere s’appartenga; per la qual cosa alcuni di costoro cercano sempre, che il nome suo in versi, et in prose consecrato rimanga; e di qui a mille, e mill’anni in bocca de le genti dimori. Ma voi per iscusato m’harete, se questo ritratto a niuna de le antique donne simiglio; perciò che fra loro, a cui propriamente assembrare la possa, nulla ne’ ritruovo; si che senza simiglia la riporremo. Così diligentemente, disse Macro, l’havete fatto, che d’altre simiglianze non ha mestieri, e massimamente essendo costei tale, che sol se stessa, e null’altra simiglia; e vorrei ch’el medesimo voi facessi del rimanente, che a fare vi resta. Quello che in ciò vi diletta, disse il Bembo, per me sarà fatto; e Theano, e Zenobia, e l’altre magnanime donne, da le quali l’originale di questa mia dipintura voleva pigliare, da l’un de’ lati lasciando, la sua
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magnanimità, meglio che si potrà, per me dimostrata vi fia. E prima è da sapere, che, per essere molto honorata, non più si stima, ne, per non essere appregiata, si sdegna; ne s’invaghisse, per havere famiglia honoratissima, e grande; ne per l’abondantia, che’ ha di tutte quelle cose, a le quali desiderio humano si possa appoggiare, ne’ perché s’habbia libertà di poter mettere in executione tutto quello, che ne l’appetito, suo cadesse di fare; anzi con una profondità, e grandeza di mente poco, o nulla di queste cose terrene si cura; ma, pigliando l’intelletto per guida, se ne penetra con l’anima al Cielo, e con l’occhio di quella discerne molte di quelle cose, ch’a la nostra mortalità sono contese; e di queste si gode, et in loro s’acqueta. Oltre di questo, una certa schietteza, et una generosità in tutti i suoi costumi si vede; et uno non essere vaga di punire chi la offende, ma prontissima a perdonare a chi d’haverla offesa si pente. E si come le cose nojose, et adverse patientissimamente sopporta, così ritrovandosi in tanta altezza, et in tanta felicità, non è punto sopra l’humana misura levata; ne per questo nulla di altero, nulla di vezoso, o di satievole addopra; anzi coloro, che o per bisogno, o per altro a lei ne vanno, tutti con acoglienze grate, e suavi, e con humanità singulare raccoglie, e con loro familiarmente, come con suo equale, ragiona; le quali cose tanto sono, più grate a i conversanti, quanto che vengono da persona maggiore, e che niente di tumido, o di superbo ritengono. E veramente questi cotali, che hanno la grandezza loro, non in superbia, ma in benefitio, de le genti usata, soli secondo il mio giuditio sono d’e’ beni havuti da la Fortuna dignissimi; e soli giustamente ponno la invidia fuggire, la quale ne gli inferiori non regnerebbe, vedendo il superiore ne’ la felicità mediocre, et equale: e non andare, come quella Ate di Homero, sopra le teste degli huomini, e calpestare i piu bassi; il che fanno alcuni miseri, per poco giuditio, e per poca experientia, che hanno de la Fortuna. Ma questa nostra essendo tale, come v’ho detto, ne’ la prosperità, condegno frutto di queste sue opre raccoglie; perciò che ogniuno l’ama, ogniuno la reverisce, ogniuno l’adora; e priga
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Idio, che’ in tanta felicità continuamente la conservi, e che sempre in maggiori beni, e maggiori la prosperi, et augmenti. Anchora io priego, che così sia, rispose Macro, come che molto più meriti, essendo sì bella, sì amabile, sì valorosa anima in così belle membra rinchiusa; E ben di questa si può giustamente dire, essere ogni virtute, ogni belleza, ogni real costume giunti in un corpo con mirabil tempre; o piu tosto quello sì può verissimamente gridare; O muracolo humano, o vivo exempio di virtù, di bellezza e di costumi, che alteramente il secol nostro honora. Io, che infino alhora con molto mio diletto era stato le loro parole attentissimemente ad udite, vedendo già essere pervenuto il fine di quelle, ad ambi loro rivolto; così timidamente dissi. Tanto mi sono sopramodo piaciuti questi vostri ritratti, che anchor io, (se da voi mi sarà permesso) voglio circa di loro un poco di fatica pigliare; e questa fia di mescolare insieme tutti i ritratti, che havete fatto, sì de’ la bellezza del corpo, come de’ l’anima; e farne un solo, il quale non sarà per aventura manco stabile, e manco durevole, che se’l fosse per mano di Apelle, o di Parrasio stato dipinto, circa il quale, e quelli, che sono hora, e quelli che dopo noi verranno, sì potranno, e dilettare, e meravigliare, e forse a questa donna divina, se mai a le sue mani pervenirà, tanto sarà più grato, quanto che, ne di metalli, ne di marmi, ne di colori il vederà; ma fatto di parole, e di sententie da le Muse dettate. A questo mio parlare il Bembo, e macro consentirono lietamente. Et io mi sforzerò a voi gratiosissime donne a qualche altro tempo più commodamente di dimostrarlo. Stampata in Roma per Lodovico de gli Arrighi Vicentino, e Lautitio Perugino. Nel MDXXIIII di Ottobre con la prohibitione, e gratia di N.S. come ne l’altre.
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LIBRO DI M. GIO. BOCCACCIO DELLE DONNE ILLUSTRI, TRADOTTO PER MESSER GIUSEPPE BETUSSI con una additione fatta dal medesimo delle donne famose dal tempo di M. Giovanni fino ai giorni nostri, e alcune altre state per inanzi con la vita del Boccaccio XXXVI - D’Isabella da Este, Marchesana di Mantova. Essendo costei a i giorni nostri, non pur suoi, stata un vero lume di molte rare virtù, ch’in donna degna e onorata si ponno ritrovare, direttamente a me conviene il nome suo degno di più lunga memoria che di quella che mi sforzo io a lei e a molte altre dar io. Isabella, adunque, figliola d’Ercule, secondo duca di Ferrara e primo di questo nome, e di Leonora d’Aragona, che di sopra abbiamo ricordata, non punto dissimile alla madre, fu moglie di Francesco da Gonzaga, marchese di Mantova. La quale, se non per altro almeno per questo non deve essere stata poco riguardevole, avendo avuto un così degno e valoroso marito, del cui valore in altre carte che in queste ho fatto, non voglia dir memoria, non mi persuadendo i miei scritti di essere eterni, ma più ampio ricordo. Ma veramente non men degna è stata ella di lui di quello ch’egli sia stato di lei. Imperoché, oltre che fu donna generosa, liberale, di grandissimo governo, piena di infinito valore, benigna e caritatevole quanto dir si possa, giudicando, senza particolarmente in ogn’una di queste donne ch’io nomino fare altro discordo di queste virtù ch’ogn’uno che leggerà questa mia fatica debba presupporre ciascuna d’esse esserne stata adornata; non starò in ciascuno di questi capitoli e maggiormente in questo di costei, altrimenti a ricordarle. Dirò bene che molto è stata notabile per non aver avuto l’animo basso e vile, come molte che solamente si contentano, non della propria patria, ma della
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sola camera. Poiché costei di generoso core si dispose di veder molti paesi e gli volle vedere, tratta dal desiderio di aver cognizione delle cose del mondo ne quale siamo nati, affine col corpo e con l’animo di essercitarsi per avere conoscenza delle cose ch’Iddio con giusto ordine ha diversamente partite e a beneficio nostro ordinate. E dove seppe ch’in città o in loco alcuno fosse cosa rara e degna, non lasciò di voler senza teme fatica alcuna col mezzo de gli occhi corporei di sodisfare a quegli della mente e al desiderio dell’animo e di sorte si dilettò di cose notabili antiche e moderne che dove seppe esservi alcuna antichità rara e degna non restò per spesa alcuna, mentre fosse possibile averla, di non la volere appresso a sé. Fece fare in Mantova nel palazzo della rocca una stanza sotterranea cavata tra certi sassi, la quale chiamò la Grotta, e fin oggidì si dice la Grotta di Madama, e ancho dura, dove a guisa d’un bellissimo e caro studio bene adornato, vi fece accorrere le più degne e rare antichità d’imagini, di medaglie e d’altre cose simili che puotè ritrovare e avere, e ivi le pose, pigliando grandissimo contento d’una così ornata impresa. E tra l’altre cose ch’ivi sono di gran pregio, e di non piccolo valore, non mi par di tacere d’un cupido antichissimo e così bello e bene formato che si riconosce la natura esse stata superata dall’arte, e fu opera di Prasitele, eccellentissimo e tanto nomato scultore. Infinite gioie di gran prezzo ancho vi sono. Se non per altro per questo merita così magnanima donna che sia fatta memoria di lei. L’ultimo suo ornamento, per essere breve, ch’io voglio dare a questa generosissima Isabella, oltre l’esser stata liberalissima quanto imaginar si possa, sarà il giudicio che di lei diede l’invittissimo Carlo quinto imperatore. Ch’ebbe a dire a i giorni suoi di non aver mai veduto né udito ragionar donna più rara né più singolare di questa saggia e illustre Isabella. Onde se il giudicio d’un tanto Imperatore s’inchinò a dir questo, quanto maggiormente debbo io e confermarlo e con l’essempio suo non restar mai sazio di ragionar non le virtù di lei, ma di quello, che son tenuto io per onor mio?
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Ebbe costei tre figliuoli maschi. Federico, che successe al padre, Ercole, cardinale e creato a questa dignità in sua presenza, essend’ella a Roma, e Don Ferrante, così valoroso e magnanimo signore. Morì negli anni di Cristo MDXXXIX con grandissimo dolore di chi la conobbe e di sé lasciando immortale ed eterna fama.
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UN’EVOCAZIONE
LETTERARIA DI ISABELLA D’ESTE IN FORSE CHE NO DI GABRIELE D’ANNUNZIO
FORSE
CHE SÌ,
Nel brano che segue – tratto dal romanzo di Gabriele d’Annunzio Forse che sì, forse che no (1910) – Isabella Inghirami, in compagnia della sorella Vana e dei rispettivi spasimanti Aldo e Paolo, si addentra nelle stanze del Palazzo Ducale di Mantova guidata dal volo di un’ape. Più si addentra nelle sale della reggia più la giovane donna si identifica con la Marchesa sua omonima. Infine, davanti alla porta marmorea dello Studiolo, l’anamnesi è completa: riconoscendo stipi e armadi, Isabella Inghirami si presenta come Isabella d’Este rediviva.
Una piccola porta di marmo era dinanzi a lei, una porta gemmea, trattata anch’essa con ceselli da orafo come quella d’un ciborio, a cui i dischi di nero antico alternati coi tondi candidi in basso rilievo davan qualcosa di funebre quasi che s’aprisse sopra il sepolcro d’una delle «pute» mantovane, forse di Livia, forse di Delia, morta di baci. Un fregio di grifi sovrastava all’architrave; i fondi dei riquadri brillavano di pagliuzze d’oro come incrostati di venturina; e la figura avvolta d’un peplo piegoso, in atto di tenere il flauto di Pan, era la Musica ed era Isabella. Ma chi era, nel basso rilievo sottoposto, la donna ignuda avente sul capo i chiusi volumi, sotto il piede un teschio umano? “Ecco un’allegoria oscura come l’impresa delle Pause” disse Aldo inginocchiandosi per indagare l’imagine. “Tu stessa l’ispirasti a Tullo Lombardo?” Ella si chinava con le due mani su le spalle di lui a guardare. “Ti somiglia.” soggiunse sottovoce il fratello. “È vero.” ella assentì sommessa. Ed entrambi rimanevano intenti, s’indugiavano. La sorda gelosia rimorse il cuore del taciturno.
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La figura, scolpita a guisa di un cammeo, aveva anch’essa le lunghe gambe lisce e l’un ginocchio molto proteso innanzi nell’atto d’incedere con quella maniera espedita che dava tanta pieghevolezza al passo della giovine signora e, distendendo la stretta gonna, palesava nel gioco alterno il disegno della coscia fino all’anca e l’inflessione del grembo sparente. “Aldo, Aldo, scacciala!” Ella si raddrizzò, si schermì, sentendo il ronzio dell’ape presso la sua gota. Con un balzo varcò la soglia; e i suoi piccoli gridi sonavano sotto il cielo d’oro, ché l’ape la perseguitava importuna; e le sue mani s’agitavano alla difesa puerile. “Ahi! M’ha punta.” In uno di quei gesti scomposti la pecchia provocata l’aveva punta alla mano manca, nel polpaccio del pollice. “Mi fa male. Bisogna suggere forte, Aldo!” Aldo non rideva più. Ella gli tendeva la mano supina, ed egli pose le labbra su la puntura per medicarla. “Sì, così.” Egli suggeva più forte. “Basta!” Ella rideva d’un riso che a Paolo sconvolto pareva l’eco attenuata di quello già udito lungo il canale delle ninfee dopo il passaggio del carro carico di tronchi. “Basta. Non mi duole quasi più. Mi brucia un poco soltanto.” […] “Riconosco, riconosco. Non avevo in questi armadii le mie più belle vesti? Non erano tappezzati di velluto cremisi i miei stipi?” Ella aveva scoperto in un angolo del nudo legno un frammento del prezioso drappo. “Non li ho lasciati qui i miei broccati i miei rasi i miei tabì?” “Isabella! Isabella!” Aldo leggeva il nome nelle targhette che allacciava il meandro d’ulivo.
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“Eri anche allora la più elegante dama d’Italia” disse egli adulando la giovane donna come soleva. “Oggi hai per rivali Luisa Casati, Ottavia Sanseverino, Doretta Rudinì; allora gareggiavi con Beatrice Sforza, con Renata d’Este, con Lucrezia Borgia. Allora la marchesa di Cotrone ti mandava a chiedere per modello una sbèrnia, come oggi Giacinta Cesi ti manda a chiedere un mantello. Che erano al confronto i grandi corredi d’Ippolita Sforza, di Bianca Maria Sforza e di Leonora d’Aragona? Ma quella Beatrice era veramente la spina del tuo cuore. S’era fatti ottantaquattro vestiti nuovi in due anni! Tu l’anno scorso per le quattro stagioni te ne facesti novantatre. E la Borgia, quando andò sposa ad Alfonso, aveva con sé duecento camicie maravigliose! Tu superasti e l’una e l’altra. Chiedevi ai tuoi corrispondenti milanesi e ferraresi notizie minutissime delle due duchesse, in vestiario e in biancheria, per non restar mai indietro. Anche allora tu eri una inventrice di fogge nuove. Tu inventavi le mode. Portasti a Roma quella della carrozza. Avevi il desiderio smanioso delle novità eleganti. Ti raccomandavi ai tuoi fornitori perché cercassero «di cavar de sotto terra qualche cosetta galantissima». Anche allora amavi gli smeraldi, ed eri riuscita a possedere il più bello dell’epoca. A Venezia a Milano a Ferrara avevi mediatori con orefici. Non ti contentavi d’aver le più belle gioie ma le volevi squisitamente legate: anelli collane cinture bottoni braccialetti catene frange sigilli. Il tuo orefice prediletto fu quell’ebreo convertito, di nome Ercole de’ Fedeli, che fece lavori di niello e di cesello incomparabili, tra cui forse la famosa spada di Cesare Borgia, ch’è in Casa Caetani, e la cinquedea del marchese di Mantova, ch’è al Louvre.” Egli pareva aver bevuto il vino di quattrocent’anni in uno di quei vasi di calcedonio o di diaspro forniti d’oro, che la estense aveva raccolti innumerevoli negli armarii della Grotta in Corte vecchia. Era ebro di passato ma provava un piacere quasi malsano nel mescolare le cose vive alle cose morte, nel confondere le due eleganze, nel frugare le due intimità. Ella lo secondava, quasi per
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una volontà d’inesistenza, con le ciglia senza palpito e col sorriso durevole dei ritratti magnetici. “Ricordami ancora!” ella diceva per incitarlo, a ogni intervallo, come s’egli non le narrasse cose nuove ma le risvegliasse la memoria. “La duchessa di Camerino Caterina Cibo faceva fare a Mantova i suoi vestiti sotto la tua sorveglianza, come ora Giacinta Cesi non va dalla sarta se tu non l’accompagni.” “Ricordami!” “Nel tuo viaggio di Francia l’ammirazione per le tue guise fu unanime, come oggi gli occhi delle Parigine ti divorano quando tu esci da un teatro o entri in un salotto ben frequentato. Perfino Francesco I ti chiese qualche veste da donare alle sue donne; e Lucrezia Borgia, la tua rivale, dovette rivolgersi a te per avere un ventaglio di bacchette d’oro con piume nere di struzzo, dopo aver cercato invano d’imitare quella tua «capigliara» a turbante che porti nel ritratto tizianesco.” “Avevo i capelli che ho, castagni?” “Castagni con forti riflessi biondi; e, per averli tanto tempo gonfiati a turbante, ora li serri in due trecce e li giri e li schiacci con le forcine e ti fai una piccola piccola testa che mi piace assai più.” “Belle mani?” “Più belle ora: ti si sono smagrite e allungate. La destra dipinta dal Vecellio, con l’anello nell’indice, ha fini le dita ma un po’ grasso il carpo. Per curarle facevi ricerca delle forbici più sottili e aguzze e delle «lime da ungie”più delicate. E ordinavi i tuoi guanti a Ocagna e a Valenza, i più morbidi e i più odorosi del mondo.” “Perché amavo anche allora i profumi.” “N’eri folle. Li componevi tu stessa. Ambivi il nome di «perfecta perfumera». La tua «compositione» era d’un’eccellenza insuperabile. Tutti imploravano la grazia d’un bussoletto. Ne donavi a re a regine a cardinali a principi a poeti. E il tuo Federico, quand’era in Francia, non ti chiedeva mai denari senza chiederti profumi, e tanto spesso gli uni, credo, quanto gli altri.”
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“Eri ben tu Federico allora? Ti riconosco.” Risero forte entrambi, prendendosi le mani, guardandosi negli occhi splendidi. “Ma spesso tu mandavi invece di denari un bussoletto, perch’eri piena di debiti.” “Oh, no.” “Sì, sì; ne avevi fin sopra ai capelli, affogavi.” “Federico!” “Avevi sempre una voglia pazza di comprare tutto quello che ti piaceva; e poi non potevi pagare. Allora, debiti su debiti.” “Non è vero.” “Perfino con Sua Santità, e poi col Sermoneta, col Chigi... So tutto. C’è la lettera al Trissino: miseria extrema di dinari... ” “Mi smungeva Federico.” “…per non haver ancora restituiti molti ducati tolti in prestito...” “Federico!” “E mettevi le gioie in pegno.” Ridevano come monelli, con una gaiezza irresistibile che travolgeva il sogno, con qualcosa di furbesco nell’angolo dell’occhio, quasi fossero soli, immemori dei due che dal vano della finestra parevano assistere a una scena di mimi. “E le maschere, le maschere!” “Quali maschere?” “Come le amavi! Ne fabbricavano tante nella tua Ferrara. Ne mandasti cento in dono al Valentino: cento maschere a Cesare Borgia.” “Quanto mi piace questo!” disse Isabella con un subito mutamento di tono, perché aveva sentito dietro di sé l’ostilità dei due spettatori ed era di nuovo pronta a far soffrire. “Se ne ritrovassi qualcuna dentro gli armadii?” “Una vecchia maschera, una vecchia veste, una vecchia catena. Apri, apri.” Ella aperse. Le ributtò il triste odore. “È pieno di ragnateli” disse, e richiuse.
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“Sono certo i ricami portentosi di quella femminetta greca che avesti da Costanza d’Avalos.” E fu l’ultimo sorriso della finzione; ché dall’armadio aperto un soffio di malinconia s’era diffuso, e lo spirito delle Pause, il canto senza parole, l’ardore senza concento. “Andiamo, andiamo.” Ella ripassò per la porta gemmea, ritraversò la cassa dorata del clavicembalo senza tastiera, ridiscese la scaletta di tredici gradini. La seguivano gli altri, in silenzio. I passi risonarono per un lungo andito bianco; poi giù per un’altra scala desolata; poi per l’ombra di un’aula cinta di nicchie in forma di conche, verdastra come una caverna marina. Una porta stridette su cardini rugginosi; e tutto l’argento del vespero brillò fra le due imposte.
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INDICE DELLE IMMAGINI Fig. 1
Francesco Torbido, Donna vestita in nero con guanto, 1515 circa, Boston, Isabella Stewart-Gardner Museum
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Fig. 2
Francesco Bachicca, Ritratto di Dama,1515 circa, Firenze, Galleria degli Uffizi, Gabinetto Disegni e Stampe
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Fig. 3
Clinio Lorenzetti, Busto in stucco di Isabella d'Este,(ornamentazione architettonica di restauro), 1929 circa, Mantova, Museo di Palazzo Ducale, Sala dei Marchesi
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Fig. 4
Pagina d’apertura della biografia di Isabella d’Este stesa da Julia Cartwright, (Londra 1903)
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Fig. 5
Bianca Toccafondi nel ruolo di Isabella d'Este (iconografia leonardesca), fotogramma dallo sceneggiato televisivo La vita di Leonardo da Vinci, regia di Renato Castellani, Italia 1971
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Fig. 6
Bianca Toccafondi nel ruolo di Isabella d'Este (iconografia tizianesca), fotogramma dallo sceneggiato televisivo La vita di Leonardo da Vinci, regia di Renato Castellani, Italia 1971
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Fig. 7
'Cameo Appearance' di Isabella d'Este, fotogramma dal film Il Mestiere delle Armi, regia di Ermanno Olmi, Italia 2000
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Fig. 8
Natasha Lusenti nel ruolo di Isabella d'Este, fotogramma dal film-documentario Degli Dei la memoria e de gli Heroi – Il Palazzo Ducale di Mantova, regia di Vittorio Nevano, Italia 2003
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Fig. 9
Selvino Sabbadini, Busto di Isabella d'Este (scultura vincitrice del concorso indetto dal Comune di Mantova nel 1967), Mantova, Liceo Socio Psico Pedagogico "Isabella d'Este"
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Fig. 10
Anselma Ferrari, Ricordo, 1990, dal ciclo pittorico Isabella d'Este, collocazione ignota
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Fig. 11
Marchio per una linea di biancheria per la casa dedicata a Isabella d'Este, Mantova, 1989
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Fig. 12
Logo-insegna di un albergo ferrarese intitolato a Isabella d'Este, Ferrara 1995 circa
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Fig. 13
Andrea Mantegna, Pala della Vittoria, 1496, Parigi, Musée du Louvre
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Fig. 14
Gian Cristoforo Romano, Beatrice d’Este, 1491, Parigi, Musée du Louvre
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Fig. 15
Gian Cristoforo Romano, Francesco II Gonzaga, 1498 circa, Mantova, Palazzo Ducale
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Fig. 16
Gian Cristoforo Romano, Girolamo Andreasi, 1500-1505, Firenze, Museo Bardini
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Fig. 17
Gian Cristoforo Romano, Federico Gonzaga, 1505 circa, Venezia, Ca’ D’Oro
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Fig. 18
Leonardo da Vinci, La dama con l’ermellino (Ritratto di Cecila Gallerani), 1490 circa, Cracovia, Museo Czartoryski
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Fig. 19
Francesco Francia, Ritratto di Federico Gonzaga, 1510, New York, Metropolitan Museum
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Fig. 20
Anonimo cinquecentesco, Ritratto di Livia Gonzaga (monaca francescana), Vienna, Kunsthistorisches Museum
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Fig. 21
Anonimo cinquecentesco, Ritratto Ippolita Gonzaga (monaca domenicana), Vienna, Kunsthistorisches Museum
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Fig. 22
Anonimo intagliatore italiano, Cammeo in onice recante il ritratto di Ippolito d’Este, inizi del XV secolo, montatura in oro del XVIII secolo, Vienna, Kunsthistorisches Museum
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Fig. 23
Giannantonio Leli da Foligno, Lucrezia Borgia, con il figlio Ercole e dame di corte al cospetto di San Maurelio (insieme e particolare), placca in argento dall’Arca del Santo, 1512, Ferrara, Basilica di San Giorgio
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BIBLIOGRAFIA FONTI
GENEALOGIA – Genealogia dei principi d’Este, riproduzione in facsimile del ms. α.L.5.16 (= Ital.720) della Biblioteca Estense Universitaria di Modena e del ms. Vitt. Em. 293 della Biblioteca Nazionale Centrale di Roma, Modena 1996. EQUICOLA 1501 – Mario Equicola, De Mulieribus, Mantova 1501. EQUICOLA 1521 – Mario Equicola, Commentari Mantuani, Mantova 1521. TRISSINO – Gian Giorgio Trissino, I Ritratti, Roma 1524. TRISSINO (ed. 1729) – Gian Giorgio Trissino, I Ritratti, in Tutte le opere di Giovan Giorgio Trissino gentiluomo vicentino non più raccolte, in Verona, presso Jacopo Vallarsi, 1729. CASTIGLIONE – Baldassarre Castiglione, Il libro del Cortigiano, edizione a cura di A. Quondam, Milano 1981. ARIOSTO – Ludovico Ariosto, Orlando Furioso, in Tutte le opere di Ludovico Ariosto, a cura di C. Segre, Milano 1964. ARETINO – Pietro Aretino, Pronostico dell’anno MDXXXIII composto da Pietro Aretino, Flagello de Principi et quinto evangelista, edizione e commento a cura di A. Luzio, Bergamo 1900. TESTAMENTO – Testamento della quondam Illustrissima et Eccellentissima Signora Isabella Estense da Gonzaga Marchesana di Mantua di Felice Memoria (22 dicembre 1535), in G. Malacarne, Chi ha ammazzato Isabella d’Este?, Mantova 2001, pp. 252-262. STIVINI – Inventario della collezione di Isabella d’Este nello Studiolo e nella Grotta di Corte Vecchia in Palazzo Ducale a Mantova (Codice Stivini), riproduzione in facsimile del ms. conservato presso l’Archivio di Stato di Mantova, Modena 1995. BETUSSI – Giuseppe Betussi, Libro di M. Gio. Boccaccio delle donne illustri, tradotto per messer Giuseppe Betussi con una additione fatta dal medesimo delle donne famose dal tempo di M. Giovanni fino ai giorni nostri, e alcune altre state per inanzi con la vita del Boccaccio, et la tavola di tutte le historie e cose principali che nell’opera si contengono, in Vinegia, per Comin da Trino di Monferrato a istanza di M. Andrea
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Arrivabene, al segno del pozzo, 1545 [i capitoli inerenti a donne di casa Gonzaga sono pubblicati in S. Kolsky, Donne Gonzaghesche nella Additione al Libro delle donne illustri di Giuseppe Betussi (1545), “Civiltà Mantovana” 107, 1998, pp. 78-88]. VASARI – Giorgio Vasari, Le vite dei più eccellenti pittori, scultori ed architetti scritte da Giorgio Vasari pittore aretino, con nuove annotazioni e commenti di G. Milanesi, vol. III, Firenze 1878. D’ANNUNZIO–
G. d’Annunzio, Forse che sì, Forse che no [1910], in Gabriele d’Annunzio. Prose di Romanzi, vol. II, edizione a cura di E. Raimondi, Milano 1989.
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201
cat. 1
Genealogia dei Principi d’Este, carta 3 v., 1479 circa, Modena, Biblioteca Estense Universitaria
202
cat. 2
Anonimo medaglista mantovano, Medaglia nuziale di Francesco II Gonzaga e Isabella d’Este (recto), 1490, collocazione ignota
203
cat. 2
Anonimo medaglista mantovano, Medaglia nuziale di Francesco II Gonzaga e Isabella d'Este (verso), 1490, collocazione ignota
204
cat. 3
Gian Cristoforo Romano, Medaglia di Isabella d’Este (recto), 1498, Londra, British Museum.
205
cat. 3
Gian Cristoforo Romano, Medaglia di Isabella d’Este (verso), 1498, Londra, British Museum
206
cat. 4
Gian Cristoforo Romano, Medaglia di Isabella d’Este (recto), 1505, Vienna, Kunsthistorisches Museum
207
cat. 4
Gian Cristoforo Romano, Medaglia di Isabella d’Este (verso), 1505, Vienna, Kunsthistorisches Museum
208
cat. 5
Gian Cristoforo Romano, Busto di Isabella d’Este, 1498 circa, già Lugano, Fondazione Thyssen-Bornemisza, ora sul mercato antiquario londinese
209
cat. 5
Gian Cristoforo Romano, Busto di Isabella d’Este, 1498 circa, già Lugano, Fondazione Thyssen-Bornemisza, ora sul mercato antiquario londinese
210
cat. 6
Leonardo da Vinci, Cartone per un ritratto di Isabella d’Este, 1499-1500, Parigi, Musée du Louvre, Département des Arts graphiques
211
cat. 7
Copia da Leonardo, Ritratto di Isabella d’Este, inizi del XVI secolo, Firenze, Galleria degli Uffizi, Gabinetto Disegni e Stampe
212
cat. 8
Copia da Leonardo, Ritratto di Isabella d’Este, XVI secolo, Oxford, Ashmolean Museum
213
cat. 9
Copia da Leonardo, Ritratto di Isabella d’Este, prima metà del XVI secolo, Londra, British Museum
214
cat. 10
Copia da Leonardo, Ritratto di donna verso destra (Isabella d’Este), XIX secolo, Monaco, Staatliche Graphische Sammlung
215
cat. 11
Copia da Leonardo, Ritratto di donna verso destra (Isabella d’Este?), XIX secolo, Monaco, Staatliche Graphische Sammlung
216
cat. 12
Anonimo scultore messinaese, Bassorilievo con ritratto di Isabella d’Este, 1506, Barcellona, Collezione Malagelada
217
cat. 13
Anonimo intagliatore italiano, Cammeo in onice con ritratto di Isabella d’Este, inizi del XVI secolo, Vienna, Kunsthistorisches Museum
218
cat. 14
Lorenzo Costa, Incoronazione di Isabella d’Este, 1505-1506, Parigi, Musée du Louvre
219
cat. 14
Lorenzo Costa, Incoronazione di Isabella d’Este (particolare), 1505-1506, Parigi, MusÊe du Louvre
220
cat. 15
Lorenzo Costa, Ritratto di Dama (Isabella d’Este?), 1508, Manchester (U.S.A.), The Currier Gallery of Art
221
cat. 16
Lorenzo Costa, Ritratto di Dama con cagnolino (Isabella d’Este?), 1508, Londra, Hampton Court
222
cat. 16.a
Lorenzo Costa, Ritratto di dama con cagnolino (Isabella d’Este?), 1508, già Roma, Collezione Strebini, ora collocazione ignota (Christie's, 8 luglio 1938)
223
cat. 17
Anonimo cinquecentesco, Ritratto di Isabella d’Este, 1582 circa, Vienna, Kunsthistorisches Museum, Collezione di Ambras.
224
cat. 18
Francesco Bonsignori, Pala della Beata Osanna Andreasi, 1519, Mantova, Museo di Palazzo Ducale
225
cat. 18
Francesco Bonsignori, Pala della Beata Osanna Andreasi (particolare del profilo di Isabella d’Este), 1519, Mantova, Museo di Palazzo Ducale
226
cat. 19
Francesco Bonsignori, Disegno preparatorio per la Pala della Beata Osanna Andreasi (particolare del profilo di Isabella d’Este), 1519, Londra, British Museum
227
cat. 19
Francesco Bonsignori, Disegno preparatorio per la Pala della Beata Osanna Andreasi, 1519, Londra, British Museum
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cat. 20
Tiziano Vecellio, Ritratto di Isabella d’Este (Isabella in nero), 1536, Vienna, Kunsthistorisches Museum
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cat. 21
Lucas Emil Vosterman, Ritratto di Isabella d’Este, metà del XVII secolo, Vienna, Österreichische Nationalbibliothek
230
cat. 22
Pieter Paul Rubens, Ritratto di Isabella d’Este (Isabella in Rosso), 1605 circa, Vienna, Kunsthistorisches Museum
231
cat. 23
Scuola di Tiziano, Ritratto di Isabella d’Este, fine del XVI secolo, collocazione ignota, già Parigi, collezione della Contessa Charles de Voguè
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cat. 24
Giulio Pippi detto Romano, Ritratto di una duchessa italiana (Margherita Paleologo), 1531 circa, Londra, Collezioni Reali Inglesi (Hampton Court)
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cat. 25
cat. 26
Leonardo da Vinci, Ritratto di Dama (Monna Lisa del Giocondo?), inizi del XVI secolo, Parigi, Musée du Louvre
Benvenuto Tisi detto il Garofalo, Dame affacciate ad una balconata (Isabella e Beatrice d’Este?), 1506 circa, Ferrara, Palazzo Costabili
cat. 27
cat. 28
Gian Cristoforo Romano (attr.), Profilo di dama (Isabella d’Aragona? Anna Sforza? Isabella d’Este?), inizi del XVI secolo, Edimburgo, National Gallery of Scotland
Francesco Francia (attr.), Ritratto di Isabella d'Este (?), 1511, Collezione privata italiana
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cat. 29
Giovanni Francesco Caroto, Ritratto di Dama, 1505 circa, Parigi, MusĂŠe du Louvre cat. 30
Bernardino Licinio, Dama con ritratto virile, 1535 circa, Milano, Museo d'Arte Antica del Castello Sforzesco
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cat. 31
Giovan Antonio Boltraffio, Ritratto di Dama (detta Isabella d’Aragona), 1500 circa, Milano, Biblioteca Ambrosiana
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Alla conclusione di questo lavoro, voglio ringraziare prima di ogni altro i miei genitori e mia nonna, che nei più svariati modi hanno reso possibile la realizzazione di questo studio. La mia gratitudine va in modo particolare a Claudia Daniotti e Alessandra Pedersoli, per la loro preziosissima e impagabile collaborazione. Ringrazio Monica Centanni per l’esigenza, il sostegno e l’incoraggiamento usati nei confronti della mia ricerca; Leandro Ventura per il vivo interesse dimostrato nei confronti di questo lavoro; Augusto Gentili per la fiducia e la pazienza con le quali ha osservato lo sviluppo della tesi; Fabrizio Lollini, per la disponibilità che sempre lo contraddistingue e per le preziose consulenze. Sono grato al Seminario di Tradizione Classica (IUAV) e alla redazione di engramma, all’interno di quali è nata la prima idea di una galleria dei ritratti di Isabella d’Este. Ringrazio di cuore tutte le persone senza il cui aiuto questa tesi avrebbe anche solo una riga – o un’ immagine – in meno: Sara Beschi, Gianluca Bontempi, Roberto Brandazzoni, Chiara Cobelli, Giacomo Dalla Pietà, Chiara Gorgaini, Veronica Harrach, Gianna Pinotti, Valentina Rachiele, Erika Zacchè, tutto il personale dell’Accademia Virgiliana e in particolare Sara, Christine Badér, Vittorio Boni, Piru Cantarell de Andreu (Christie’s, Barcellona), Caroline Campbell (Ashmolean Museum, Oxford), Hugo Chapman (The British Museum, Londra), Daniela Ferrari (Archivio di Stato di Mantova), Catherine Goguel (Musée du Louvre, Parigi), Carole Haensler (Fondazione Thyssen-Bornemisza, Zurigo), Richard Lingner (Isabella Stewart Gardner Museum, Boston), Stefano L’Occaso (Sovrintendenza per il patrimonio storico artistico e demo-antropologico della provincia di Mantova), Gregory D. Jecmen (National Gallery of Art, Washington), Franz Kirchweger (Kunsthistorisches Museum, Vienna), Juan Ramon Malagelada, Anna Martini (Sovrintendenza per il patrimonio storico artistico e demo-antropologico della provincia di Mantova), Ernesto Milano (Biblioteca Estense Universitaria, Modena), Liz Mitchell (Sotheby's, Londra), Ursula Oldenburg (Bridgeman Art Library, Londra), Paola Ortolani (Biblioteca Estense Universitaria, Modena), Rolf Petri, Daniela Pizzagalli, Ulrike Polnitzky (Österreichische Nationalbibliothek, Vienna), Marta Ragozzino (Sovrintendenza per il patrimonio storico artistico e demo-antropologico della provincia di Mantova), Martin Royalton-Kisch (The British Museum, Londra), Luke Syson, Aidan Weston-Lewis (National Gallery of Scotland). Un ringraziamento del tutto particolare va a Andrea Busca, Daniele Caiola, Matteo Cauzzi e Alberto Facchini, gli amici di sempre, ormai rassegnati a vedere ogni vacanza e ogni gita trasformate in spedizioni sulle tracce di Isabella d’Este.
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