Lovely people 24x32

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amanda donohoe


copyright Vittoria Amati All rights reserved. ISBN - 0-8118-4567-X Book Design Domenico De Arcangelis Umberto Allemandi Editore

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aliai forte


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Gli anni ottanta Nel guardare il lavoro fotografico, ritratti ambientati e non, che Vittoria ha scattato durante gli anni ‘80 si riscopre una immediatezza creativa e una positività dimenticata. Oggi guardiamo la fotografia con atteggiamento più intellettuale e cerchiamo di trovare in essa uno spessore di opera d’arte che allora certamente non era ricercato, perdendo il divertimento e l’allegria di chi non aveva certo paura del futuro (anche se proprio allora iniziavano le prime globali preoccupazioni dall’ambiente alla mutazione di dimensione). Le immagini di Vittoria riportano tutta la carica vitale del periodo con una sensibilità istintiva a cogliere gli umori e a far recitare i suoi soggetti la loro parte vera con spontaneità e complicità. La sua bravura è di non avere schemi e saper seguire la sua intuizione e la sua capacità di sintonizzarsi con chi fotografa con grande sicurezza e usando appunto il colore con una grande freschezza facendolo diventare un carattere stilistico. Nel processo evolutivo della fotografia, non necessariamente migliorativo o risolutivo, il colore ne segna i passi e racconta molte cose che altri aspetti trascurano o non riescono a dire. Ci siamo abituati, anche sospinti dalla critica, a considerare già una sorta di colore il bianco e nero dei grandi classici come Rodchenko, Cartier Bresson, Arthur Fellig (Weegee), (che meraviglia!!) e più recentemente, forse più a ragione, Mapplethorpe o altri di quella generazione. Quella pastosità e quella profondità del ruolo unico che aveva la fotografia sia nel reportage che nel ritratto, soddisfano ora un’introspezione più attenta che include l’analisi antropologica e sociale e uno sguardo moderno che non può prescindere dal colore come fatto acquisito (vedi la ricolorazione di tanti film in bianco e nero che non sono più riconoscibili come bianchi e neri). Il colore di oggi ha perso la contrapposizione al bianco e nero e il suo ruolo reale nella narrativa dell’immagine e ha acquisito, all’inseguimento del desiderio artistico citato pocanzi, una valenza complessa e artefatta dall’avvento di tecnologie sofisticate come Photoshop e altri software, che permettono una interpretazione pittorica manomessa, sofisticata e piegata ad altri obiettivi. Gli anni ‘80 sono un decennio più definito di altri che ha marcato una curva storica e ha chiuso il lungo dopoguerra cominciando a tessere i due decenni dopo e la lunga decadenza che li ha caratterizzati. Anni forti che hanno visto l’arrivo della superficie come scelta operativa e l’individualità come religione sostitutiva, dominati culturalmente come non mai dall’America come mito mondiale e dall’americano Edonismo Reaganiano. Finalmente l’Occidente si rende conto di essere ricco e che… non è poi così male. Che il mondo operaio più che in paradiso può andare in pensione. La moda non è più appannaggio di pochi, ma di tutti. Quella italiana più fresca e moderna vince su quella francese, Armani ne è il guru, Versace, Valentino, Ferré gli ballano intorno. Anche la cucina italiana si fa strada e comincia a osare di avere un suo spazio.

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E’ ancora tempo delle supremazie creative delle grandi capitali, Londra che con la musica rock era riuscita a soppiantare anche per dinamismo Parigi, ormai troppo borghese, deve chinarsi di fronte a New York beneficiata finalmente dai voli che costano sempre meno e che quindi diventa accessibilissima. I fermenti culturali degli anni settanta, il basso costo, le grandi possibilità, i grandi spazi, la sfrenatezza sociale, la libertà sessuale, la rendono punto di riferimento di chi vuole vivere dove si fa tendenza. Bruce Weber tornisce corpi maschili di michelangiolesca bellezza sponsorizzato da Calvin Klein, che scopre le mutande e con Ralph Lauren e Donna Karan affermano una nuova moda yankee che occhieggia l’Europa e dove si crea il seguito. La danza, il teatro, la musica sono newyorkesi, i creativi del mondo vanno lì per essere parte, tutti sono accessibili. I socialnomadi chiamati eurotrash si trovano lì e si incontrano nelle discoteche più grandi e strabilianti del mondo (il 54, Paradise Garage…) si mischiano nelle opening delle gallerie con Keith Haring o Andy Warhol, Larry Gagosian è ancora un ragazzone che vende poster, Leo Castelli domina la scena. Le case d’aste si impongono luoghi dove sfoggiare la ricchezza. Le spalle si restringono e le sneakers di Westside Story, o della Nike, diventano le scarpe del mondo. La Borsa vola, arrivano gli Yappies. La musica si fa Disco. Madonna, Michael Jackson sono icone mondiali. L’Italia guarda e ammira. Dopo il terrorismo, i rapimenti e la crisi petrolifera degli anni settanta ritrova un suo boom. C’è Craxi che ci pensa. Berlusconi si rafforza, e raggruppa le televisioni private in unico vero concorrente della Rai. Il debito pubblico è devastante, ma si macina un PIL galoppante. A Torino i manager alzano la testa e recuperano dignità. Tutti in giro a parlar da soli per la strada con un nuovo strumento: il telefonino. La tecnologia galoppa pure lei, anzi tende al protagonismo, il computer invade la nostra vita, diventa portatile.Milano è una girandola, è da bere, è moda. Modelle, fotografi. Mecenati e politica iniziano a scoprire che la cultura può essere utile per lustrare l’immagine e fare affari nel suo retrobottega. Schiere di finte bionde e amanti vengono arruolate. Fioriscono i salotti e la socialità. Anche la televisione con Arbore e Boncompagni ritrova una gioventù che non aveva forse mai avuta. Tutti noi andiamo e veniamo da New York, qualcuno gira dall’altra parte e va in India. Il cattolicesimo vacilla nelle classi alte. Ma arriva un Papa super Star Wojtyla, che tanto fa che riesce alla fine a far crollare il muro di Berlino. Di Cina parla solo Antonioni. La droga del momento non è più l’eroina che ha fatto troppi morti o le canne, ma la cocaina che esalta la velocità e l’individualismo. Si va a vela. Agnelli è ancora il Principe. Qualcuno compra l’elicottero, ma la vera chiccheria è volare non commercial e si cerca ad ogni costo un passaggio sull’aereo dell’amico facoltoso. Sankt Moritz, comincia a rifarsi su Cortina. La Germania è sconosciuta, la Svizzera un buon rifugio, specialmente per tutti i guadagni. La Spagna torna tra noi. Gli Emirati fanno esercizi di integrazione. Arrivano anche i Giapponesi, il loro stile il loro minimalismo fanno scuola, la loro efficienza fa paura. Ma di paure poche: il futuro è ancora lì a un passo, è raggiungibile, anzi cavalcabile e pieno di opportunità. Tutto è più vicino! Sì qualcuno parla di globalizzazione, ma nessuno sa precisamente che cosa è, anche internet è uno sconosciuto, almeno ai più. Arriva l’AIDS, mina New York, e uccide tanto e non solo lì. E’ una metafora, qualcuno cita Babele. Ma che fa? E una cosa da gay. Si parla di mazzette, ma è cosa minima, c’è spazio per tutto e per tutti. L’Arte Contemporanea, che ha risanato interi quartieri di NY si propone anche in Italia, un po’ di star le abbiamo anche noi Francesco Clemente, Sandro Chia, Mimmo Paladino, ci ritornano made in NY. Ma i musei italiani sono trascurati e il paesaggio subisce altri danni, anche se ci si comincia a rendere conto dei problemi dell’ambiente. Insomma tutti i nodi che si intrappolano nel nostro pettine prendono forma e inizio in quegli anni. Anni ricchi di inventiva e creatività, anni belli, divertenti, in cui il cinismo era ancora ingenuo! Che lasciano un grande conto da pagare ma anche tanto investimento. Come queste foto. Angelo bucarelli

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Gli anni ottanta IN ITALIA E A LONDRA Milano 4 giugno 2012 È inevitabile. La moda vive di corsi e ricorsi. Guardare al passato serve per trarre energia, ispirazione, serve a capire che cosa è già stato fatto per proporre cose nuove o reinterpretare ciò che potrebbe essere ancora attuale. Una sorta di “esame di coscienza” senza nostalgia e con un pizzico di ironia.In realtà l’unica vera rivoluzione degli ultimi decenni è stata quella degli anni 60 e 70. Erano i tempi in cui Fernanda Pivano scriveva che si era passati dal vestito “subito” al vestito “inventato”, emblema di una contestazione più culturale e sociale che politica. Non è un caso che per definire questo nuovo corso della moda sia stato utilizzato proprio il termine New Look (lo stesso usato da Christian Dior un ventennio prima per esprimere il cambiamento apportato dalle sue linee ampie, dopo le ristrettezze della guerra). Negli anni 80 si compie poi la completa maturazione del fenomeno di “democratizzazione” della moda: prima di allora esisteva solo l’Alta Moda da una parte e l’industria della moda confezionata dall’altra che, a sua volta, imitava l’Alta Moda. Un duopolio che si conclude definitivamente portando alla ribalta i più importanti stilisti di tutti i tempi come Giorgio Armani, Gianni Versace, Gianfranco Ferré, Romeo Gigli, solo per citarne alcuni. Le loro collezioni si ispirano alla strada ma anche allo stile hippie e all’eleganza classica, con un occhio sempre molto attento e furbo al mercato: un mix davvero esplosivo. Negli anni 80 nascono anche sodalizi inossidabili come quello tra Domenico Dolce e Stefano Gabbana che con il marchio Dolce&Gabbana introducono la sensualità siciliana, proponendo nuovi e irresistibili canoni di bellezza e seduzione. Gli anni 80 sono quindi gli anni che io chiamo della “restaurazione”: dal progetto rivoluzionario degli anni 60 e 70 si ritorna al classico modernizzato, perché riaffiora il desiderio, che sembrava ormai superato, di appartenere di nuovo a classi sociali, di riconoscersi e incontrarsi solo in certi ambienti. La moda con il prêt-à-porter diventa un lusso raggiungibile, non è solo appannaggio esclusivo di un’élite come lo era l’Alta Moda, promette (e mantiene) bellezza ed eleganza per tutti (o quasi) diventando un indispensabile strumento di marketing e comunicazione in un momento in cui il successo e il potere nel lavoro sembrano gli obiettivi primari di uomini e donne. Sono anni di contraddizioni, di benessere, di ottimismo che si esprime anche nel colore, si passa dall’essere all’apparire, dagli hippie agli yuppie, “restaurando” così una nuova forma di conformismo. Negli anni 80 si confrontano massimalismo e minimalismo, sullo sfondo di una Milano da bere e di una Londra che si concentra più intorno alla City che alla Carnaby Street della Swinging London. È un terreno fertile, su cui sperimentare nuovi innesti estetici, nuove formule di rappresentazione della moda, supportati da una importante ripresa economica e dall’interesse di aziende lungimiranti nello sviluppare un’industria che a breve diventerà una delle maggiori voci del mercato mondiale. La velocizzazione delle informazioni (la rivoluzione di Apple è degli anni 80…) spinge ormai a utilizzare un linguaggio comune, globale, trasversale che si esprime anche attraverso la moda. Con le sue foto Vittoria Amati ha voluto così ripercorrere quel periodo, restituendoci quell’atmosfera da “Eldorado” in un ideale dialogo visivo tra Milano e Londra. Due mondi a confronto, per capire quanto siamo cambiati e quanto siamo invece rimasti sempre gli stessi, anche se un po’ più poveri, meno ottimisti e decisamente più anticonformisti e disinteressati all’apparenza. Meno male. elio fiorucci

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Ricordi dal set cinematografico Non’è mai stato facile per me parlare del mio lavoro, potrei cominciare con una frase che mio padre mi diceva ogni volta che parlavamo di fotografia: fare il fotografo è sempre meglio che andare a lavorare. Devo dire che aveva ragione. Poi fotografare su un set cinematografico è ancora più stimolante e divertente, poi se i film che fai sono diretti da Fellini De Sica Coppola Scorsese Donner Lester ecc. ecc. non è più lavoro ma divertimento nel senso più puro. Io ho avuto il piacere e l’onore di lavorare un po’ con tutti i registi di tre o quattro generazioni .. Parlo del periodo dal 60 al2000 e del periodo dove il fotografo che sapeva esasperare in positivo tutto quello che di bello era sul set, era apprezzato e utile a far vendere il film . Adesso con le nuove tecnologie è un mestiere in disuso, vengono ancora utilizzati ma solo per la pubblicità. Prima la produzione sceglieva 50 60 foto che raccontavano il film , venino stampate e mandate a gli esercenti che decidevano d’inserire il film nella loro programmazione. Adesso con una spesa infinitamente minore stampano un DVD con tutto il film e mandano quello. Ma non voglio parlare di questo fatto negativo, ma del piacere che si prova a stare su un set, in maniera sempre diversa si costituisce una troup che bene o male deve vivere insieme per per due o tre mesi. Una famiglia che si proietta nel la realizzazione di questo film, tutto è in mano al regista lui fa e disfa sempre con il consenso del produttore. Tutti i reparti sono costituiti da gruppi piu o meno numerosi, il fotografo è solo non dipende da nessuno e nessuno indaga sul suo operato, già questo stato di cose rendeva eccitante questo mestiere. I registi da piccoli a grandi sono tutte persone interessanti, divertenti, e pieni di fantasia . Certo poi ce ne sono stati alcuni che avevano tutto questo in grande eccesso, mi riferisco a F. Fellini Coppola e tanti altri, con Fellini poi stare su un suo set eè stata l’esperienza più stimolante, tutti i giorni era una cosa diversa e non sapevi mai come sarebbe andata a finire. Ricordo che dopo un paio di mesi che stavamo sul set senza sapere o intuire quale fosse la storia che stavamo girando vedemmo un copione su la sua sedia, era l’ora di pranzo, nessuno della troup si mosse dal set, appena Fellini uscì dal teatro, ci buttammo tutti sul copione, non ci volle molto per capire che di tutto quello che avevamo girato in quei due mesi, nel copione non c’era nemmeno una parola. Il film lo aveva solo in testa lui. Potrei raccontare un centinaio di storie divertentissime successe solo su quel film. Era un altro aspetto del fotografo di scena di quel periodo, osservare osservare e osservare. L’osservazione è anche una banale scusa del fotografo di set, si usa quando si è un pochino stanchi, ci si siede e si osserva quello che succede. Il problema nasce quando dall’osservare si passa al sonno profondo. Tuttavia la cosa non dura molto , i tecnici del cinema molto spesso non vedono di buon occhio il fotografo. Al fotografo vengono fatti gli scherzi più pesanti

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specie quando dorme, secchiate d’acqua, stracci bagnati lasciati cadere dalle capriate ecc. ecc. Tutto questo adesso ,per fortuna non succede più. Non ci sono più le lunghe preparazioni di una volta che permettevano tutto questo. Era comunque sempre divertente, in qualche modo anche piacevole, subire gli scherzi della troupe significava essere accettati e ben voluti, e facilitava sensibilmente il lavoro. Su un film di De Sica, ricordo, che mentre stavo facendo le foto a Sofia Loren con un gruppo di bambini in un interno, il apo macchinista mi mise un tubo dell’acqua in tasca e aprì il rubinetto, In un secondo avevo tutti i pantaloni bagnati come se me la fossi fatta sotto, la cosa non m’imbarazzo più di tanto, continuai a fotografare senza problemi. Tutto questo succedeva nei film italiani, in quelli americani la storia era diversa, anche se il mio approccio sul set era lo stesso di sempre, ricordo quando fui chiamato da Coppola per il primo padrino, lui mi chiese di fare dei primi piani a Pacino per che aveva messo in bocca fra le gingive un ferro che lo faceva salivare in eccesso, e la cosa gli provocava un irritazione che avrebbe potuto alterargli la fisionomia , quindi serviva questa foto di raccordo. Comincia a gridare, che è Al Pacino?? Dove è questo Al Pacino, c’erano diverse comparse, ma davanti a me ce ne era una che mi diceva che Al Pacino era lui, io seccato lo spingevo da una parte pregandolo di non rompere le scatole. Non poteva essere la Star del film , era alto 1 metro e 65 con 45 di piedi, insomma non aveva l’aspetto di una star. La cosa andò avanti per una decina di minuti, finche venne una persona della produzione che mi disse ,che se cercavo Al Pacino che quello era la lui. Racconto tutto questo per cercare di far rivivere atmosfere in ripetibili. Adoravo stare sul set, ma purtroppo ad un certo punto ho scoperto che gli attori erano infinitamente più vanitosi delle attrici,e questa cosa mi fece allontanare dai set cinematografici. Mi prese un avversione per gli attori che scemarono il mio interesse per il cinema. Feci un sacco di altre cose, moda , foto per giornali per adulti, pubblicità. in somma un pochino di tutto. Non durò molto, i fratelli Vanzina mi chiesero di fare una foto per il poster di un loro film ( VIA MONTE NAPOLEONE) successivamente, di fotografare le scene di un loro film, e tutto ricominciò. La passione per il set non era affatto scemata, anzi forse era pure aumentata, fatto sta che ancora lavoro, naturalmente sui set cinematografici, con meno divertimento meno spazi per osservareper che si è tutto velocizzato ma con la certezza assoluta che mio padre aveva pienamente ragione, fare il fotografo sul set è sempre meglio che lavorare. emilio lari

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by grazia fantasia Aprire il libro fotografico di Vittoria Amati e sfogliare i ritratti divertenti ed originali da lei realizzati negli anni 80’, in particolare, a Londra è stato per me un tuffo nostalgico e stimolante nel passato. Un passato che non esiste più, se non in questi scatti solari e colorati, ricchi di fantasia e spontaneità di cui sono stata, a volte, promotrice e testimone. Allora vivevo nella cosmopolita ed effervescente capitale londinese dove avevo iniziato, giovanissima, a collaborare come giornalista cinematografica per alcune importanti riviste italiane. Una Londra ricca di fermenti e stimoli creativi, di opportunità professionali, di personaggi internazionali da intervistare senza troppe difficoltà e divieti da parte dei loro press-agent, oggi sempre più impegnati a smistare le infinite richieste della variopinta fiera mediatica. Reduci dalla gloriosa e rivoluzionaria “swinging London”, di cui sono stati influenti artefici e protagonisti, Norman Parkinson, David Bailey e Lord Snowdon si contendevano da oltre un ventennio le copertine delle più prestigiose riviste di moda. Osservarli nel back-stage mentre organizzavo con perfezionismo reverenziale i servizi redazionali per Vogue-Uomo è stata una chance eccezionale per comprendere ed apprezzare da vicino il valore dell’ immagine fotografica. Ad immortalare divi emergenti e consacrati, oltre al noto fotografo di scena inglese David Appleby, si incrociavano, sui grandi set internazionali, gli obiettivi potenti e nostrani di Emilio Lari, il quale iniziò la sua carriera proprio in Inghilterra ritraendo i mitici Beatles in “Help” di Richard Lester. Grazie all’irresistibile simpatia e bravura, Emilio godeva della stima e fiducia di celebri registi, tra cui Sergio Leone che lo scelse per fissare le memorabili scene di “C’era una volta in America”. Lui stesso cercò di convincere Robert De Niro a rilasciarmi un’intervista dopo la lunga sessione fotografica realizzata durante estenuanti ore di trucco per invecchiare di più di 30 anni il volto espressivo di Noodles. Ma il grande attore americano, conosciuto per la sua riservatezza, non volle parlare e per me non ci fu nulla da fare. Emilio riprovo’, in seguito, con Tom Selleck che al posto delle colorate camicie hawaiane di Magnum P.I indossava in quel momento (‘84) gli abiti eleganti di “Lassiter”, affascinante ladro gentiluomo degli anni Trenta. Andai a trovarli a Pinewood Studios e, tra battute spiritose e fragorose risate, riuscii finalmente a scrivere il mio articolo. Tra questi affermati professionisti, si è fatta largo con determinazione e sensibilità, la splendida Vittoria Amati che grazie alla contagiosa vitalità e curiosità artistica era sempre in cerca di volti nuovi ed interessanti come, ad esempio, la diafana ed androgina Tilda Swinton, oggi tra le attrici più versatili del cinema mondiale. Con lo sguardo fresco ed intrigante, è stata capace di stupire ed affascinare non solo chi osserva queste immagini ma soprattutto chi si trovava davanti al suo obiettivo. Ricordo con allegria le nostre avventure professionali, quando io munita di microfono e lei di macchine fotografiche, luci ed ombrellino, partivamo per realizzare il servizio da pubblicare su “Amica”. Un incontro indimenticabile è stato quello con Jeremy Irons, protagonista accanto a De Niro di “Mission” il film di Roland Joffè premiato nell’86 con la Palma d’oro a Cannes. L’attore più richiesto ed acclamato del momento, recitava con la Royal Shakespearen Company a Stratford-on-Avon in una commedia intitolata “The Rover”. Dopo un lungo viaggio arrivammo al Swam Theatre trafelate ma piene di entusiasmo. Entrambe ci aspettavamo di incontrare l’interprete di padre Gabriel, l’avventuroso missionario gesuita dall’aspetto monacale e la barba scura per il quale era stato nominato ai Golden Globes. Quando si aprì la porta del camerino, con nostra sorpresa, ci trovammo di fronte ad un uomo atletico ed elegante dai lunghi capelli biondi, come il romantico cavaliere del ‘700 che stava impersonando. Nonostante l’ufficio stampa ci avesse concesso poco tempo, Irons si dimostrò molto disponibile e si abbandonò con complicità, posando sul palcoscenico fino a pochi istanti prima dell’inizio dello spettacolo. Infine ci invitò a rimanere per assistere alla sua straordinaria performance. Le cose andarono diversamente con Mickey Rourke. L’attore, allora 27 enne, aveva appena terminato le riprese di “A prayer for a dying” (Preghiera per un morente) nel panni di un terrorista dell’Ira pentito. Arrivò all’appuntamento al Blake’s Hotel con un’ora di ritardo, indossando un maglione sgualcito e un paio di pantaloni larghi. 12


Aveva un’aria stanca di chi si era appena svegliato dopo una notte di bagordi. Barba incolta, mani non curate, capelli tinti di rosso e un paio di occhiali scuri per nascondere gli occhi gonfi ed arrossati. Dov’era finito il bello e perverso broker newyorkese di “Nove settimane e mezzo” che ,oltre alla sensualissima Kim Basinger, aveva sedotto il pubblico femminile di tutto il mondo? Annullato il servizio fotografico, l’attuale e commovente ex-lottatore di “The Wrestler” si scusò imbarazzato, affermando di aver festeggiato fino all’alba la fine delle riprese. Mi rivelò con orgoglio di avere origini irlandesi e, dopo aver trascorso un periodo a Belfast, si era immerso anima e corpo nel doloroso travaglio interiore di quest’uomo che lotta contro tutti per gli ideali a cui crede, a costo di uccidere. Un ruolo scomodo, difficile, faticoso che gli aveva procurato un forte esaurimento nervoso ma gli era servito per strapparsi di dosso l’etichetta di sex-symbol. Poi, con un sorriso irresistibile, mi offrì una coppa di champagne e tutti i suoi sforzi svanirono in un istante. Con Keith Carradine ci eravamo conosciuti alcuni anni prima in Tunisia sul set de “L’inchiesta” di Damiano Damiani, accanto ad Harvey Keitel, suo storico rivale ne “I duellanti” di Ridley Scott. In un villaggio sperduto ed assolato nel deserto, Tozer, il giovane e romantico cantante folk di “Nashville”di Robert Altman impersonava un inquisitore romano incaricato dall’imperatore Tiberio di ritrovare in Palestina il corpo scomparso di Cristo. Dopo una lunga serie di successi, dallo scandaloso “Pretty Baby” di Louis Malle a “Maria’s Lovers”, accanto a Nastassia Kinski, alla fine degli anni ottanta, l’erede della dinastia dei Carradine, arrivò a Londra, reduce dal sofisticato film di Roberto Faenza “Mio caro dottor Grasler”, tratto da un racconto di Arthur Schnitzler ed ambientato in una stazione termale in Ungheria alla vigilia della prima Guerra Mondiale. Il tempo aveva lievemente scalfito i lineamenti aristocratici del suo bel volto rendendolo ancora più intenso ed attraente. Il famoso interprete di tanti ruoli anticonformisti e tormentati, mi concesse amichevolmente parte della sua giornata per realizzare il servizio fotografico con Roberto Granata. Terminata l’intervista per “Marie Claire”, prese la sua inseparabile chitarra ed intono’ “I’m easy” la canzone di “Nashville” per cui aveva vinto l’Oscar, entrando nell’olimpo di Hollywood. Good by to all that!

Grazia Fantasia

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jeremy irons

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tilda swinton

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Joely richardson

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Joely richardson


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Richard Branson


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heini thyssen


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Rocco Forte


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clio goldsmith


ted goldsmith

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Paolo filo della torre

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Nagasi oshima


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mario vargas llosa


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salman rushdie


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p. d. james


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Iris murdoch

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Domitilla get-

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isa lorenzo


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Lord & lady brocket

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Alessandro & rocco benetton

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Michelangelo Pistoletto


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Elizabeth flach

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Amanda donohoe


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marie helvin


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baroness sandra portanova


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Helen mirren


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Jennifer hall


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Patrick lichfield


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Anita roddick


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benazir bhutto

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benazir bhutto


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Mohammed ali


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Gianni minĂ & Mohammed ali

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Monica vitti


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sergio rubini

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aliai forte


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mario monicelli


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dado ruspoli

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Marco ferreri, ingrid thulin,

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dado ruspoli

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bernardo bertolucci

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marco ferreri


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ugo tognazzi


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Philippe Leroy


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Philippe Leroy

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lina Wertmuller & michele placido


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Enrico job, lina Wertmuller, michele

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dario argento

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adriano pappalardo


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laura antonelli & Sergio corbucci


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pierre carniti

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marco pannella

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marco pannella

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renzo arbore filmed by antonio climati

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renzo arbore

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katia & Pippo Baudo

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maria amelia monti

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james senese

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albano & romina

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Roberto d’agostino

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paolo hendel


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Daniele formica

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Antonello venditti


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Antonello venditti

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renzo arbore


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giovanni pezzoli - Stadio


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lucio dalla


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Marina & lucrezia lante

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Antonella & antonellina interlenghi

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amanda sandrelli

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Giulia boschi


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the end

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Chaka Khan


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Monica vitti


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