Icone russe a Umbertide

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Con il patrocinio di:

REGIONE UMBRIA

DIOCESI DI GUBBIO

PROVINCIA DI PERUGIA

CURIA PROVINCIALE MINORI FRANCESCANI DELL’UMBRIA

COMUNE DI UMBERTIDE

COMUNITÀ MONTANA ALTO TEVERE UMBRO

ICONE RUSSE della Collezione Orler nella chiesa di San Francesco a Umbertide 14 maggio - 12 giugno 2005 Chiesa di San Francesco, Umbertide (PG) Comitato promotore • “Oratorio Santa Maria” Frati Minori di Umbertide Fr. Giuseppe Rossato Fr. Igino Gagliardoni Fr. Luca Baino “Associazione Culturale S. Maria” • Comune di Umbertide Sindaco dr. Giampiero Giulietti Ufficio Stampa Biblioteca Comunale Servizio turistico associato A.V.T. I.A.T. Umbertide Testi delle schede Giovanna Parravicini Foto Renato Idi - Archivio "Russia Cristiana" Seriate (Bg) - Foto Galmacci (Umbertide) Catalogo C&M Arte Grafica e layout del catalogo Giampaolo Trotta In copertina: Volto di Cristo, icona russa, fine XVII-inizio XVIII secolo, particolare, collezione Orler. In IV di copertina: Esaltazione della croce, icona russa, fine del XVIII secolo, Collezione Orler. © C&M Arte - Arezzo Archivio Orler - via Col S. Martino, 39 - 30030 Favaro Veneto (Venezia) www.collezioneorler.com


ICONE RUSSE della Collezione Orler nella chiesa di San Francesco a Umbertide

Arte



IL VESCOVO DI GUBBIO

M

i accingo, con questo mio intervento, ad aprire l'artistico e prezioso catalogo delle “Icone russe”, esprimendo subito il mio compiacimento al Comune di Umbertide e all'Oratorio di S. Maria per aver realizzato questa sacra esposizione nella comunità umbertidese, parte della nostra diocesi di Gubbio. Un grazie particolare agli Orler, possessori delle Icone russe, per aver dato questo privilegio ad Urnbertide e mi compiaccio con loro per l'opera missionaria che svolgono attraverso queste sacre ed artistiche immagini dei volti di Cristo, della Madonna e dei Santi. La tradizione di proporre come oggetto di culto il Volto di Cristo e della sua Santissima Madre risale agli inizi del cristianesimo: dalla Veronica che asciugò il volto sanguinante di Cristo sulla via del Calvario, al volto della Madonna che la tradizione vuole averlo disegnato dallo stesso evangelista Luca. Le Icone più antiche possono essere datate all'inizio del IV secolo quando ormai il cristianesimo, nonostante le ripetute e drammatiche persecuzioni da parte degli imperatori romani, era penetrato nelle coscienze dei popoli. La mostra delle Icone russe ad Umberticie sottolinea, tra l'altro, la vera storia religiosa del popolo russo che, nonostante i tanti decenni di ateismo e di persecuzione religiosa, è rimasta così viva nel popolo, proprio attraverso il culto clelle sacre immagini delle Icone, presenti anche nelle più umili abitazioni. Siamo certi che la mostra delle "Icone russe" esposte nella chiesa di S. Francesco ad Umbertide (dal 14 maggio al 12 giugno 2005), sarà di profondo godimento religioso ed artistico per tutti i visitatori che, siamo certi, saranno numerosissimi. Gubbio 19 marzo 2005

+ MARIO CECCOBELLI Vescovo di Gubbio



Il

Comune di Umbertide è stato sempre sensibile a tutte le manifestazioni artistiche e culturali che associazioni o privati ogni volta hanno proposto. Ricordiamo, in particolare, i lunghi anni in cui l'oratorio di Santa Maria ha organizzato il premio nazionale "Fratta" di pittura che è stato portato fino alla sua 25a edizione e in quella occasione il Comune ha favorito e sostenuto l'iniziativa, che per l'importanza e la lunga durata negli anni è stata

uno dei momenti più qualificanti del "Settembre Umbertidese". Oggi l'Amministrazione comunale patrocina questa singolare mostra sulle icone russe, organizzata dall'o-

ratorio di Santa Maria di Umbertide, che la Collezione Orler, la più importante del mondo, ha scelto di esporre proprio ad Umbertide. La nostra città è fiera di essere sede di un così raro evento culturale e il Comune, che finalmente ha riportato nel pieno del suo splendore artistico la trecentesca chiesa di San Francesco, è ben lieto che questo spazio sacro ospiti lo straordinario insieme di opere che testimoniano l'antica, tradizionale religiosità del popolo russo. Considerato l'estremo interesse di questo avvenimento, nonché la sua unicità (le mostre della Collezione Orler vengono programmate solo in grandi città), e visto che ad Umbertide è stata concessa peraltro l'esclusiva per la nostra regione, invitiamo tutti i concittadini a voler onorare con la loro presenza questo grande evento culturale.

Il sindaco GIAMPIERO GIULIETTI



Il

20 giugno 2004 ho avuto la gioia di presiedere la celebrazione eucaristica di ringraziamento per il ritorno ad Umbertìde, dopo 40 anni, dei Frati minori (1964-2004). Questo evento, oltre ad aggiungersi ad altri importanti eventi commemorativi, è stata per me l'occasione per ripercorrere la storia del rapporto tra i francescani e la comunità civile e religiosa di Umbertide.

Il 10 aprile 1481 il Papa Sisto IV autorizzò i frati ad erigere la Chiesa e il convento di S. Maria della

Pietà. La benevolenza degli Umbertidesi verso i frati francescani ha permesso, da allora, il loro inserimento nel tessuto sociale e culturale, l'inizio della loro opera di promozione umana e di educazione della gioventù, l'annuncio del Vangelo di Cristo: la messa a disposizione del terreno di Mercatale e la costruzione della Chiesa di S. Maria, nel 1486, la cura dei poveri e degli ammalati condotta dai francescani, l'insegnamento di materie letterarie e sociali offerto nei locali del convento S. Maria, sono solo alcuni esempi eloquenti di questo felice rapporto di benevolenza e servizio. Oggi, la realizzazione di questa eccezionale Mostra delle Icone russe della prestigiosa Collezione Orler

nella Chiesa di S. Francesco, recentemente restaurata, è un altro segno di questa fattiva benevolenza esistente tra Umbertide e i frati. Il Comune insieme all'Oratorio S. Maria dei Frati minori ha programmato e organizzato questo straordinario evento culturale e religioso, al quale con gioia e con gratitudine, in qualità di Ministro della Provincia Serafica OFM dell'Umbria, do il mio Patrocinio, congratulandomi sentitamente con gli organizzatori. Le icone sono finestre di luce, aperte sul mistero dell'amore di Dio, del quale il nostro mondo secolarizzato avverte sempre più la mancanza e la nostalgia. Il Papa Giovanni Paolo II, nella sua ultima visita ad Assisi il 24 gennaio 2002, disse: "Vogliamo recare il nostro contributo per allontanare le nubi del terrorismo, dell'odio, dei conflitti armati, nubi che in questi ultimi mesi si sono particolarmente addensate all'orizzonte dell'umanità [...]. Le tenebre si allontanano accendendo fari di luce". Che la luce proveniente da queste Icone, come quella riflessa in tanti segni di solidarietà e collaborazione tra la città e i francescani, aiutino ancora tanti uomini e donne di buona volontà, in particolare i giovani, a vivere nella speranza e nella pace. Umbertide, 19 marzo 2005 Provincia Serafica dei Frati minori - Ministro provinciale FR. MASSIMO RESCHIGLIAN OFM



Sommario 12

Brevi note storiche su Umbertide a cura dell’Ufficio Stampa del COMUNE DI UMBERTIDE

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Chiesa di San Francesco di Giovanni VALDAMBRINI

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Convento e chiesa francescana di Santa Maria della Pietà dei Frati Minori di Igino GAGLIARDONI

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Collegiata di Santa Maria della Reggia di Pietro VISPI

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Chiesa di Cristo Risorto di Roberto SCIURPA

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Sulle orme degli antichi iconografi di Paola CORTESI

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Le icone russe di Davide ORLER

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IL TEMPO DELLA SALVEZZA schede a cura di Giovanna PARRAVICINI 1. In cammino verso l’Eternità 2. Il tempo dell’attesa 3. Il ciclo Pasquale 4. La Chiesa in cammino 5. Il Pantocratore 6. Le icone in fusione di metallo di Alfonso SAMPIERI

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BREVI NOTE STORICHE SU

UMBERTIDE

N

ell'antichità Umbertide fu certamente un importante emporio sulle rive del Tevere per gli scambi commerciali tra Umbri ed Etruschi; al tempo di Roma fu conosciuta con il nome di Pitulum. Medaglie, iscrizioni, colonne, una stipe votiva a monte Acuto ed un insediamento in prossimità di S. Maria di Sette confermano l'esistenza di questo borgo distrutto poi dai Goti di Totila. La tradizione vuole che fosse ricostruita sul luogo dove sorge attualmente, verso la fine dell'VIII secolo dai figli di Uberto Marchese di Toscana, e detta per questo “Fracta filiorum Uberti”. Nel 1189 il marchese Ugolino di Uguccione per evitare i frequenti saccheggi mise il territorio di Fratta sotto la protezione di Perugia. Nel 1362 ebbe propri statuti, mentre al 1374 risale la prima testimonianza relativa alla Rocca che poi, nel 1385, sarebbe stata ristrutturata da Angelo di Cecco detto Trocascio, architetto: in essa nel 1394 fu tenuto prigioniero Braccio Fortebracci da Montone. Nel 1550 Giulio III diede Fratta a Paolo di Niccolò Vitelli ma la concessione fu revocata nello stesso anno. Nel 1643 Fratta si oppose alle truppe del Granduca di Toscana che erano entrate in Umbria passando per la Val di Pierle. Rimase sotto il dominio pontificio fino al 1860, anno in cui fu annessa al Regno d'Italia. Il 25 gennaio 1863 l'antico nome fu cambiato con quello di Umbertide, in onore dei figli di Uberto antichi riedificatori della città. PRINCIPALI EDIFICI STORICI La Rocca Superba fortezza medioevale, da sempre simbolo di Umbertide. Sulla sua costruzione alcuni autori affermano che i lavori iniziarono nel luglio 1374, altri che l’incarico di costruire la Rocca fu affidato da Perugia al Guidalotti nel 1385, durante le lotte tra nobili e popolani. Le opinioni sono invece concordi nell’affermare che l’opera nel 1389 era terminata e che il direttore dei lavori fu Alberto Guidalotti e progettista l’architetto Angeluccio di Ceccolo, detto il Trocascio.

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La Rocca

Abbazia ed eremo di Montecorona

La fortezza è costituita da una torre quadrata di m. 7,60 di lato e di m.31,60 di altezza di fronte al torrente Reggia. Le solide mura sono spesse alla base m. 2,20. Verso l’interno della città sono uniti alla torre due torrioni circolari più bassi ed un terzo baluardo quadrato. Oggi la Rocca presenta una sola porta nella Piazza Fortebracci, ma un tempo ne aveva un’altra in direzione della Reggia, detta " del soccorso" , entrambe munite di ponti levatoi. Nel 1394 nella Rocca fu rinchiuso prigioniero Braccio Fortebracci da Montone. Il Papa Leone X, nel 1521, affidò la custodia della Rocca alle persone più ragguardevoli di Fratta per sette anni e tale onore fu prorogato da Clemente VII per altri dieci, affinché lo stipendio, che altrimenti si doveva versare al castellano e ai soldati, venisse impiegato nel restauro delle mura. In quel periodo la Camera Apostolica versava annualmente alla Fratta un contributo di sessanta scudi per la manutenzione e le riparazioni della Rocca, pretendendo che il castellano offrisse in cambio due libbre di cera alla cappella del magistrato perugino. Con l’avvento del Governo repubblicano francese nel 1798, la sovvenzione perugina fu abolita; ritornato il Papa nello Stato pontificio la Rocca fu destinata al servizio delle pubbliche carceri e tale utilizzazione continuò fino al 1923. Da questa data subì alcune trasformazioni interne e furono coperti i due torrioni circolari per destinare il complesso a civile abitazione. Fu abitata fino al 1974. Nel 1984 l’Amministrazione comunale ha iniziato l’intervento di recupero della struttura e dopo un intenso impegno di progettazione e di lavoro la Rocca, il 17 maggio 1986, è stata restituita alla città. Dal 1991 è la sede permanente del “Centro per l’Arte Contemporanea”. In questa veste ha ospitato nel corso degli anni esposizioni di grande livello artistico, divenendo un punto di riferimento in ambito sia nazionale che internazionale. Abbazia ed Eremo di Montecorona L’abbazia di San Salvatore di Montecorona si trova a quattro chilometri da Umbertide, ai piedi del colle omonimo. Secondo la tradizione sarebbe stato San Romualdo a fondare, nell’XI secolo, il monastero di San Salvatore di Monte Acuto. L’antica cripta seminterrata è di notevole valore artistico e culturale. È composta di un vasto locale diviso in cinque navate, con colonne di vari stili che sorreggono le basse volte. La chiesa superiore,

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a tre navate, fu consacrata nel 1105; conserva resti di affreschi ed un coro ligneo di buona fattura. Interessante il campanile a pianta ottagonale e circolare, forse anticamente torre di difesa, con l’orologio recentemente restaurato. Dall’abbazia si sale ai 705 metri dell’Eremo, lungo una strada circondata da boschi di faggi e castagni e punteggiata da edicole votive. Anticamente era collegata alla Badia da un sentiero detto la mattonata, largo circa due metri e costruito a secco con blocchi di pietra arenaria, riaperto n occasione di una passeggiata ecologica che ha permesso di riscoprire il fascino di una natura ancora intatta. L’Eremo è un antico monastero la cui costruzione risale al XVI Secolo per opera dei padri Camaldolesi e Coronesi. Castello di Civitella Ranieri È uno dei luoghi più suggestivi e maestosi dell’Umbria, costruito sopra un colle nei pressi della strada Gubbio Umbertide in posizione strategica per la vicinanza con Perugia, Gubbio e Città di Castello. Il castello di Civitella Ranieri era al centro di una contea appartenuta ai nobili Signori Ranieri. Il bosco secolare che lo circonda conferisce ancora oggi alla fortezza un fascino magico. È costituito da torri rotonde, a scarpata, con archi aggettanti che si ripetono sulla facciata, tutta percorsa da beccatelli, nel cui interno si trovano le finestre. È cinto da mura che permettono l’accesso interno attraverso due porte, una a sud ed una a nord. Questa è la più antica con resti di un ponte levatoio. L’attuale castello sorge nel luogo di un primitivo insediamento militare, vicino alle abbazie di Camporeggiano e San Salvatore, la cui costruzione venne iniziata nel 1078 ad opera di Raniero, fratello del duca Guglielmo di Monferrato. L’opera venne portata a termine dal figlio Uberto che fece costruire una cittadella. Di qui l’origine del nome Civitella. Nel 1361, durante la lunga lotta tra nobili e popolani perugini fu acquistato dai Michelotti, che si proclamarono conti di tale castello. Il 16 giugno 1407, però, Ruggero II Ranieri detto Kahn (soprannome che in Oriente si dava ai condottieri), poi volgarizzato in Cane, figlio di Costantino I, alla testa

Abbazia di Montecorona, interno.

Castello di Civitella Ranieri

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dei suoi armati recuperò il castello ridotto purtroppo in cattive condizioni e si adoperò per ricostruirlo nuovamente. Nel 1900, circa, il Castello fu ereditato dal figlio di Emanuele Ranieri di Sorbello, uomo di profonda religiosità e insigne studioso, il quale riordinò la biblioteca e l’archivio di famiglia. Nel 1992 venne costituito il Civitella Ranieri Center, punto d’incontro per giovani interessati all’arte, alla musica, alla letteratura e alla poesia, finanziato da una fondazione americana. L'attuale struttura architettonica, oggi trasformata internamente in accoglienti appartamenti, studi per artisti e uffici, è frutto di successivi interventi che nel corso degli anni ne hanno modificato l’aspetto originario. Chiesa della SS. Trinità in S. Francesco in Preggio

Chiesa della SS. Trinità in S. Francesco in Preggio

Il pittoresco borgo di Preggio è situato a 18 Km da Umbertide, immerso nel verde di querce e castagni. Sulle sue origini si hanno notizie incerte: secondo alcune fonti un primo nucleo sarebbe stato fondato dai romani sfuggiti alla sanguinosa battaglia del Trasimeno nel 217 a.c.; secondo altre sarebbe sorto attorno ad un'antica abbazia benedettina oggi scomparsa. Di certo si sa che nell’anno 917 l’Imperatore Berengario I confermò al Marchese Uguccione II della famiglia dei Bourbon, la signoria di questo luogo e di altre terre limitrofe. Nel XIII secolo era il castello più popolato del Comune di Perugia, che ogni sei mesi provvedeva ad eleggere un podestà che governava la collettività rendendone conto ai magistrati perugini. Verso la fine del XIV secolo fu costruita la Rocca della quale oggi rimangono alcuni ruderi. Nel 1798, sotto il regime napoleonico, Preggio entrò a far parte del territorio di Umbertide (allora Fratta) e, con la Restaurazione, nel 1817 fu Università appodiata e poi frazione. Di notevole interesse la Chiesa della SS. Trinità in S.Francesco (1223) che conserva un reliquiario d'argento in cui è custodita una Sacra Spina, la Chiesa della Madonna delle Grazie (1400) ed i resti dell'antica Rocca. Piazza San Francesco

Piazza San Francesco

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Situata nel Borgo Inferiore, questa piazza colpisce per la sua caratteristica forma allungata e la chiara impronta medioevale. Qui si affacciano alcuni tra i più interessanti edifici della città:


Chiesa e Museo di Santa Croce La chiesa, così come la vediamo oggi, è il risultato di una serie di interventi di ampliamento. Nell’area dove sorge l’attuale edificio si trovava una piccola chiesa, forse identificabile con quella ricordata dalle fonti con il titolo di SS. Pietro e Paolo, che già esisteva nel 1295. La chiesina, almeno dai primi del Trecento, doveva fungere da oratorio per la Confraternita dei disciplinati di Santa Maria (il primo documento sulla confraternita è del 1337), che gestiva anche un ospedale. È questa una delle tante associazione religiose di laici che, diffuse a partire dal XIII secolo, praticavano l’autoflagellazione, condividendo in questo modo le sofferenze di Cristo. La confraternita è ricordata per la prima volta con il nome di Santa Maria e Santa Croce nel 1340. Per tutto il Quattrocento non abbiamo informazioni precise sulla chiesa, mentre notizie più dettagliate si ricavano a partire dai primi del secolo successivo. Nel 1509 viene ultimata una casa sopra la chiesa, e di lì a poco (1515-16), a spese della confraternita, verrà commissionata la Pala della Deposizione a Luca Signorelli. Un ampliamento dell’edificio si effettua nel 1556, ed a tale scopo viene comprato del terreno ed un muro dai vicini frati francescani. Nella seconda metà del secolo la chiesa doveva aver raggiunto discrete dimensioni, tanto da poter contenere comodamente la grande mostra d’altare in legno, opera di un intagliatore marchigiano, realizzata tra il 1611 e il 1612 per accogliere la Pala del Signorelli. Tra il 1634 e il 1645 circa, con l’ultimo ampliamento e la definitiva ristrutturazione dell’edificio ad opera di Filippo Fracassini (nell’occasione viene anche acquistato dai frati il terreno dove sorgono la sacrestia ed il campanile), l’evoluzione della chiesa di Santa Croce può dirsi conclusa, se non per la facciata, dalle linee tardo-barocche, realizzata nel primo Settecento.

Chiesa di Santa Croce, interno

Il Museo di Santa Croce La chiesa di Santa Croce, dopo il restauro e il ritorno ad Umbertide della Deposizione dalla Croce, capolavoro del grande pittore cortonese Luca Signorelli, è stata trasformata in un museo che viene utilizzato anche come auditorium e sala convegni. Oltre alla deposizione si può ammirare, in una sala interna, un grande quadro del Pomarancio Madonna col Bambino in gloria tra angeli e santi proveniente dall’attigua chiesa di San Francesco. Nel museo, dieci pannelli sistemati nella chiesa illustrano il percorso signorelliano, il restauro della pala e la storia della chiesa stessa.

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La Deposizione dalla Croce di Luca Signorelli

La Deposizione dalla Croce di Luca Signorelli

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Commissionata dalla Confraternita di Santa Croce al cortonese Luca Signorelli, la tavola viene terminata nel 1516, data che compare in basso a destra sulla cornice originale, inglobata successivamente nel grande complesso ligneo intagliato nel 1611-12. Realizzata in un lasso di tempo molto breve, mostra come il pittore fosse ormai a capo di una organizzata bottega che collaborava alle numerose commesse assegnate al maestro. Il tema principale della tavola, la Deposizione dalla Croce, è qui inserito dall’artista in un contesto più ampio, quasi un piccolo ciclo che illustra i momenti salienti della Passione di Cristo. È probabile che tale scelta sia da riferire alla volontà della Confraternita, in seno alla quale il tema della Passione era particolarmente sentito e fatto oggetto, ad esempio in occasione delle festività pasquali, di vere rappresentazioni teatrali i cui testi sono stati parzialmente tramandati. La lettura del dipinto può iniziare in alto a sinistra, dove le tre croci piantate sul Golgota segnano il momento della Crocifissione. Si passa poi alla scena centrale, la Deposizione, cui assistono il gruppo delle Marie, a sinistra, la Vergine già svenuta a terra, e la Maddalena, ai piedi della croce, colta nel tenero e disperato gesto di raccogliere con la mano il sangue di Cristo. Il gruppo si chiude a destra con la figura di San Giovanni, al di sopra del quale si scorge l’ultimo momento del ciclo, con il trasporto del corpo verso il sepolcro, durante il quale il Cristo, irrigidito dalla morte, viene compianto dai suoi cari. I tre pannelli di predella, data l’intitolazione della Confraternita alla Santa Croce, sono dedicati alla leggenda del Ritrovamento della vera Croce di Cristo, nella versione proposta da un testo molto diffuso nel Medioevo, la Leggenda Aurea di Iacopo da Varagine. Il primo episodio, (curiosamente il pittore lo inserisce nella tavoletta centrale, sulla metà di destra) risale ai tempi del re Salomone, quando la regina di Saba, sua ospite, per ispirazione divina si inginocchia ad adorare un tronco di legno che fungeva da ponte presso un corso d’acqua.


Quello stesso tronco, molto tempo dopo, sarà utilizzato per costruire la croce di Cristo. La narrazione, a partire ora dalla prima tavoletta di sinistra, prosegue con le vicende legate all’imperatore romano Costantino (IV secolo d. C.) che, come gli era stato suggerito in sogno, mette in fuga le armate di Massenzio grazie all’esposizione di una croce d’oro. Una volta convertito, è sua madre Elena ad adoperarsi nella ricerca della vera Croce (tavoletta centrale); ritrovata sul Golgota, quella di Cristo viene riconosciuta rispetto alle altre due perché, appena avvicinata ad un ragazzo morto, miracolosamente lo resuscita. Il racconto si chiude con un fatto avvenuto molto più tardi, nel VII secolo. Il re persiano Cosroe, conquistata Gerusalemme, si appropriò della Croce, che viene recuperata dall’imperatore Eraclio. Nella tavoletta di destra è raffigurato infatti l’ingresso trionfale della Croce in Gerusalemme, portata dallo stesso Eraclio. L’accesso alla città viene però impedito da un angelo, che invita l’imperatore a togliersi le vesti ed i calzari ed entrare in umili spoglie, esponendo la sacra reliquia.

La Deposizione dalla Croce di Luca Signorelli, particolare

Madonna col Bambino in gloria tra Angeli e Santi La tela del Pomarancio, raffigurante la Madonna col Bambino in gloria tra Angeli e santi, proviene dalla attigua chiesa di San Francesco, da dove è stata rimossa di recente per motivi di conservazione. In basso a sinistra si legge la firma dell’artista, Niccolo Circignani “de Pomarancio” , mentre sull’angolo opposto è la data di esecuzione (1577) ed il nome del committente: Cristoforo Martinelli. Nel gruppo della Vergine col Bambino, Pomarancio riprende da vicino un’opera di un illustre collega, il pittore parmense Parmigianino, realizzata a Roma tra 1526 e 1527 per Maria Bufalini (membro dell’importante famiglia tifernate), ed arrivata solo più tardi a Città di Castello (in Sant’Agostino, ora emigrata a Londra). Del pittore parmense, Pomarancio coglie anche qualche nota di stile, come la tendenza ad allungare le figure; basti guardare il Bambino, slanciato ed elegante nelle movenze, ma, rispetto al sofisticato linguaggio di Parmigianino, più naturale nei sentimenti, esternati nel sorriso dolce ed affettuoso. In basso, i santi che assistono alla scena sono ben riconoscibili grazie ai loro consueti attributi iconografici. Il primo da sinistra è sant’Andrea apostolo, con la grande croce sulla quale subì il martirio. Anche il San Biagio che lo affianca, in abito vescovile, tiene in mano lo strumento con cui fu torturato, un pettine usato dai cardatori di lana. Segue il santo titolare della chiesa, San Francesco, con le stimmate, mentre l’ultimo personaggio a destra è san Sebastiano, martirizzato a colpi di freccia.

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Chiesa di San Bernardino Fu edificata su un antico oratorio dei disciplinati; la tradizione vuole che sia stato lo stesso San Bernardino, nel 1426, a fondarvi la Congregazione del Buon Gesù. Consacrata nel 1556, nel corso del tempo ha subito diversi interventi, per assumere l’attuale struttura nel 1768. Conserva, nell’altare maggiore, il dipinto di Muzio Fiori " La cena degli apostoli" (1602), nonchè una statua in legno sorbo di San Bernardino attribuita al Vecchietta, forse del XVI Secolo. Qui è sepolto il famoso cantante umbertidese del XVIII secolo Domenico Bruni. Ufficio Stampa COMUNE DI UMBERTIDE Chiesa di San Francesco

Chiesa di San Francesco

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San Francesco si erge nella piazza omonima ed è la chiesa più antica tuttora esistente a Umbertide. La sua costruzione iniziò a partire dagli anni ‘90 del XIII secolo in quello che era chiamato borgo inferiore del castello di Fratta. Pochi anni prima i frati minori avevano costruito le chiese di San Francesco a Città di Castello e a Montone. La sua architettura è tipica delle chiese medievali degli ordini mendicanti: navata unica, tetto in travatura, finestroni gotici bifori o trifori, abside quadrato o semicircolare. Solo successivamente venne aggiunta la navata laterale sinistra dove nei primi anni del ‘500 vennero aperte le cappelle di San Rocco e del Crocifisso. In quegli stessi anni era ancora attivo il cantiere del convento di San Francesco, annesso alla chiesa. All’interno della chiesa sono ancora conservate opere di notevole rilevanza iconografica storica e artistica. Nella controfacciata, a


sinistra del portale laterale d´ingresso, è visibile un bellissimo affresco con San Cristoforo, databile ai primi anni del XV secolo e realizzato da un ignoto pittore tardo gotico, riconosciuto in Ottaviano Nelli da Gubbio, indiscusso protagonista di quell’ambiente in Italia centrale. Questa è l’unica testimonianza artistica quattrocentesca presente in chiesa insieme all’affresco che raffigura San Bartolomeo in una delle colonne che separano la navata principale da quella laterale. Un’altro affresco, più tardo e poco leggibile si trova nella parete sinistra della navata principale e presenta in basso due figure tra cui è riconoscibile Santa Lucia. Gli altari ornati da stemmi e iscrizioni che si trovano nelle pareti della chiesa sono stati tutti realizzati ai primi del seicento e sono intitolati rispettivamente a San Carlo Borromeo, ispiratore del Concilio di Trento, Sant’Anna, madre di Maria, di cui parlano i Vangeli apocrifi e molto venerata nel passato, Sant’Antonio da Padova, dottore della chiesa e San Francesco di Paola a cui è dedicato un altare anche nell’attigua chiesa di Santa Croce. Gli altari, oggi restaurati, conservano tele dello stesso periodo ad esclusione di quello di Sant’Antonio, che contiene dietro una teca di vetro una bella statua del santo francescano col bambino. Infine è da ricordare l’ultima cappella della parete sinistra, posteriore alle altre due, detta dell’Immacolata Concezione, dove si trova la statua della Vergine che viene portata in processione il Venerdì Santo. Altre due importanti opere erano un tempo conservate a San Francesco e ora si trovano nella chiesa-museo di Santa Croce. Si tratta della bellissima statua di San Rocco realizzata per la cappella omonima nel 1527 al fine di scongiurare una nuova epidemia di peste. L’opera, riconducibile a un gruppo di statue sparse in Umbria, forse proviene da una bottega di artisti originari di Borgo San Sepolcro su cui si sta conducendo uno studio. L’altra opera è una tela con la Madonna, il Bambino e alcuni santi tra cui Francesco, titolare della chiesa, ed è firmata e datata dal famoso pittore manierista Nicolò Circignani detto Pomarancio, molto attivo nella seconda metà del ‘500 in alta valle del Tevere. Egli ha lasciato in Fratta almeno un altro dipinto, proveniente dall’abbazia di Montecorona e oggi conservato alla Collegiata di Umbertide. Il dipinto proveniente da San Francesco si trovava prima del terremoto del 1997 nella cappella detta del Crocifisso e fatta costruire dalla famiglia Ranieri di Civitella. Giovanni VALDAMBRINI

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Convento e chiesa francescana di Santa Maria della Pietà dei Frati Minori

Incoronazione della Vergine, di Pinturicchio

Incoronazione della Vergine, di Pinturicchio, particolare

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L’Alta valle del Tevere è una terra particolarmente francescana perché più volte percorsa da S. Francesco nei suoi tanti viaggi al monte della Verna dove, il 17 settembre 1224, ricevette le sacre Stimmate. Anche l’Ordine francescano ha tenuto in grande stima questa terra: basti pensare, per esempio, che nello spazio di pochi chilometri tra i due Comuni di Umbertide e Montone esistono ben quattro insediamenti di Comunità Francescane. Uno di questi è proprio quello dei Frati Minori di Umbertide nel 1481. In genere, la nascita di un convento francescano avviene con l’autorizzazione ufficiale del Pontefice. Il Papa Sisto IV, il 10 aprile 1481, emanò la “Bolla Sedis apostolicae gratiosa benignitas”, con cui autorizzò l’insediamento dei Frati Minori ad Umbertide (che allora si chiamava Fratta Perugina). Fratta era sotto la giurisdizione di Perugia ed era un punto di forza e di sicurezza per quella città, essendo munita di una potente rocca e castello e circondata dalle acque del Tevere e del torrente Reggia. Era una fortezza contro i Medici di Firenze, che attraverso la Valle del Niccone scendevano verso la Valle del Tevere; era un punto di sicurezza contro i Vitelli, signori di Città di Castello, ed i Montefeltro, la cui signoria si estendeva sino a Gubbio. L’insediamento dei Frati Minori di Santa Maria della Pietà fu facilitato dal favore delle autorità civili, che concessero il terreno poco fuori le mura del Borgo superiore detto il Mercatale, e della famiglia Burelli che in pochi anni costruì la chiesa, tanto che nel 1486 fu consacrata. La chiesa nel 1504 fu arricchita di un famoso dipinto raffigurante l’Incoronazione della Vergine del celebre Bernardino di Betto, detto Pinturicchio, e da un affresco sulla lunetta della facciata della chiesa attribuito a G. B. Caporali. Nella Bolla di insediamento di Sisto IV vengono definitii i compiti dei Francescani ad Umbertide: “…vi conducano una vita esemplare, si dedichino assiduamente alle celebrazioni liturgiche, all’ascolto delle confessioni, alla guida dei fedeli con istruzioni e consigli per la salvezza delle loro anime …”. I Francescani di Santa Maria della Pietà furono subito chiamati alla cura degli ammalati perché attiguo al convento c’era un ospedale. Compito che hanno svolto anche quando nel castello di Umbertide venivano ricoverati i soldati


feriti nelle varie competizioni tra Perugia e i vicini comuni; compito che dura tutt’ora nell’attuale realtà ospedaliera di Umbertide. Un servizio particolare i Francescani di S. Maria hanno svolto anche nel campo della cultura. Tra i vari locali del convento c’era infatti quello dedicato alla scuola e quando, verso la metà del ‘700, si era diffusa la voce che probabilmente il francescano addetto all’insegnamento sarebbe stato trasferito, il Comune di Umbertide fece pubblica richiesta affinché un sacerdote si dedicasse all’insegnamento della filosofia, come era tradizione da lungo tempo. Due fatti hanno turbato la vita dei Francescani ad Umbertide: la prima soppressione degli Ordini religiosi da parte di Napoleone nel 1810 e soprattutto quella del 1863 da parte del Governo italiano. Alla caduta di Napoleone, i Francescani tornarono ad abitare a S. Maria della Pietà nel 1815, ma il dipinto del Pinturicchio, già trasferito a Foligno dai francesi, fu acquistato dal Museo Vaticano (dove si trova tuttora). Dei quattro insediamenti francescani nei due vicini comuni di Umbertide e Montone, solo quello di S. Maria riprese vita per desiderio e iniziativa del Vescovo di Gubbio, di felice memoria, Beniamino Ubaldi. Fu infatti nel 1941 che il Vescovo riacquistò tutto il complesso di S. Maria della Pietà dal demanio. Inizialmente furono chiamati i Padri Salesiani a guidare la vita pastorale della parrocchia di S. Maria, i quali fondarono l’Oratorio Don Bosco e si distinsero in particolare nell’educazione della gioventù. Nel 1963 i Salesiani interruppero la loro presenza ad Umbertide per consolidarla in altre località. Il vescovo beniamino Ubaldi subito sollecitò i Frati Minori dell’Umbria a ritornare nella sede di S. Maria della Pietà, come avevano fatto per tanti secoli fin dal 1481. Il ritorno dei Frati Minori ad Umbertide avvenne il 5 gennaio 1964, giusto un secolo dopo la soppression. Nel 2004 i francescani di S. Maria con tutta la comunità umbertidese hanno rivissuto la storia di questi quarant’anni. La ricorrenza, inoltre, è servita per rivivere il loro insediamento nella comunità locale lungo tutti questi secoli, e cioè dal loro insediamento avvenuto con la Bolla papale del 10 aprile 1481. Igino GAGLIARDONI

Madonna con S. Francesco e S. Chiara, vetrata della chiesa di S. Maria della Pietà.

S. Maria della Pietà.

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Collegiata di Santa Maria della Reggia

La Collegiata

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II tempio dedicato alla Beata Vergine Maria, viene detto della Reggia in quanto situato presso l'antica "roggia", o torrente omonimo, di difesa del castello. La costruzione sorse nella seconda metà del secolo XVI, per volere del popolo umbertidese. L'edificio sacro venne costruito per accogliere una immagine miracolosa affrescata all'interno di una cappella che si trovava nelle vicinanze. I lavori furono diretti dapprima dagli architetti Galeazzo Alessi e Giulio Danti, autori dei disegno originario, poi nel 1583 da Bino Sotii, Mariotto da Cortona (1600), Rutilio (1623) e infine Bernardino Sermigni (1640). L'originale costruzione di forma ottagonale all'esterno e circolare all'interno misura 23 metri di diametro interno per un'altezza complessiva di 40 metri. L’interno della cupola, dal tamburo alla lanterna, riveste un'area di 689 metri quadri. Il diametro della palla di rame che sovrasta la lanterna è di metri 1,65. La cupola originaria, che manifestò segni di cedimento, fu ricostruita agli inizi del '600 e il primitivo impianto del monumento, ideato dall'Alessi, venne modificato solo parzialmente. All'interno del tempio la zona perimetrale è delimitata da un giro di 16 colonne alquanto distaccate dal muro sul quale sono riportate le mostre dei pilastri corrispondenti. Negli intercolumni, in otto grandi aerostili appaiono le arcate a tutto sesto che accolgono gli altari, la tribuna dell'organo e i due portali d'ingresso. La disposizione binata del colonnato (di ordine toscano, compiuto nel 1632, con funzione strutturale di supporto alla cupola), i cornicioni e le modanature, le nicchie e i chiaroscuri, conferiscono all'imponente struttura un pregevolissimo movimento di masse e di luce. Le colonne raggiungono nel loro corpo la ragguardevole misura di 9,60 metri. Notevole è il pavimento in cotto policromo del XVII secolo. Il tamburo della imponente cupola è ornato da quattro tele di grandi dimensioni: 1. (sopra l'altare maggiore) - Vergine in gloria con i santi M. Maddalena, Giovanni Battista e Evangelista, Andrea, Francesco, Apollonia, la tela, che risente molto del manierismo romano del 1500, è attribuibile, molto probabilmente, al pittore perugino Benedetto Cavallucci; 2. (sopra la tribuna dell'organo) - Trasfigurazione con i santi Benedetto, Romualdo, Savino e Vescovo più simbologia eucaristica del Pomarancio (Niccolo Circignani) del 1578; 3. (sopra l'Altare del Rosario) - B.V. di Loreto con i santi Andrea, Avellino ed Ubaldo di G. Alaboyna, del 1749;


4. (sopra l'altare di San Giuseppe) - Santo Chierico regolare con il Cristo che gli presenta la croce di G. Alaboyna, del 1749. L'ancona della Madonna presenta un fastigio costituito da ricco drappeggio e gloria di angeli in stucco, realizzato tra l'inizio del secolo e il 1725. Esso incornicia l'affresco, più e più volte rimaneggiato, attribuibile all'opera di un pittore della fine del trecento o primo quarto del quattrocento, raffigurante la Vergine in trono con Bambino tra i santi Giovanni Battista e Giovanni Evangelista. L’Altare del S.S. Sacramento è una fastosa opera di intaglio ligneo dorato di Peter Kraas, del 1680. Nella parte superiore vi è collocata una teletta rappresentante "Dio Padre" dello Scaramuccia. L’ancona conteneva una pregevole tela, oggi scomparsa, sempre dello Scaramuccia che raffigurava l’Estasi di S. Isidoro. Nello stesso altare, di notevole rilievo un prezioso Tabernacolo in legno dorato, d'arte fiorentina del 1500 e un Crocifisso ligneo del XIX secolo. Di rimpetto una pregevolissima Pila battesimale in marmo bianco del '500. L’altare retrostante la pila è di G. Fontana in stucco dorato: esso incornicia una tela realizzata nel 1702 da Giuseppe Laudati e rappresenta la Vergine assunta in cielo e i Santi compatroni della città. Segue l'altare di San Giuseppe che contiene una preziosa statua lignea del santo dei primi anni del 1500. Di fronte è l’Altare del Rosario ove si vedono quindici medaglioni dipinti su rame, del XVI/XVII secolo, raffiguranti i Misteri dei Rosario posti a cornice del simulacro della Vergine. La tribuna dell'organo e la credenza sono settecentesche, sulla balaustra si possono ammirare due statue lignee, realizzate tra il 1704 ed il 1706 da Domenico Noirin, rappresentanti il patrono S. Erasmo e S. Andrea. Al di sopra dei portali due iscrizioni barocche ricordano rispettivamente le date di costruzione del tempio e della sua consacrazione (1751). La denominazione di Collegiata deriva dal fatto che nel 1765 in questo tempio fu trasferito il Collegio dei Canonici, già istituito nella chiesa di San Giovanni Battista, oggi non più esistente. Di detta chiesa resta solo l'antico Campanile del 1238, che si ammira all'ingresso del centro storico. Pietro VISPI

La Collegiata, interno

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La Chiesa di Cristo Risorto

Chiesa di Cristo Risorto

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Umbertide si era trasformata in maniera rapida negli anni successivi alla seconda guerra mondiale, con insediamenti industriali operosi, poli commerciali attivi e penetranti, e tecniche agricole aggiornate che avevano determinato una svolta positiva nel tenore di vita dei suoi abitanti. La popolazione si era trasferita in modo massiccio dai campi al paese che in appena un trentennio aveva triplicato il numero dei tremila residenti del dopoguerra, con segnali evidenti di prosecuzione del fenomeno anche negli anni futuri. L’istituzione di una terza parrocchia era una risposta necessaria e doverosa al mutato stato di cose per rendere più adeguato il servizio del culto ad una popolazione che, dietro le apparenze di un’ostentata apatia verso le problematiche religiose, in cuor suo desiderava il contrario. La nuova chiesa sorse in tempi molto rapidi, resi possibili dai criteri architettonici della struttura, tutta in cemento armato, senza rivestimenti particolari all’interno e all’esterno, con il tetto ricoperto da una guaina di catrame telato, incollato a fuoco al cemento. Nacque in fretta, ed in fretta si mostrò inadeguata. Il desiderio di avere maggiore spazio disponibile, don Luigi, il parroco che veniva da Semonte, lo accarezzava da tempo, ma non osava esternarlo perché disponeva di una struttura costruita da poco e immaginava l’entità della cifra necessaria per un complesso parrocchiale diverso. Ma ad un certo punto prese il coraggio a due mani e verso il 1990 cominciò a fare qualche esternazione eloquente. Il 10 dicembre del 1991 inviò una lettera di convocazione urgente a tutti i consiglieri del Consiglio Pastorale Parrocchiale e del Consiglio per gli Affari Economici facendo presente che il giorno 20 dicembre successivo, alle ore 21.00, presso la sala “Piergiorgio Frassati” si sarebbe tenuta una riunione straordinaria. Aveva inizio l’iter ufficiale e formale delle procedure per la costruzione del nuovo complesso parrocchiale oggetto di interesse, di studio e di elaborazione fin dall’anno precedente. Gli organismi collegiali erano stati investiti del problema con rigorosa precisione e puntualità. Anche il Vescovo, mons. Pietro Bottaccioli, primo parroco della parrocchia, aveva seguito con la massima attenzione ogni aspetto dello sviluppo del progetto. Ora bisognava uscire all’esterno e cercare di capire quali fossero gli umori dei parrocchiani. La tecnica dell’esplorazione del consenso fu individuata in un questionario inviato a tutte le 1.543


famiglie (circa 6.000 anime) che costituivano il patrimonio umano della parrocchia di Cristo Risorto in occasione della benedizione pasquale del 1993. Il parroco, nel suo giro per le case, avrebbe potuto prendere atto dell’opinione viva e diretta delle persone con cui si incontrava. I questionari riconsegnati furono 682 e i pareri verbali raccolti sugli stessi temi circa 160. Il livello complessivo della partecipazione, quindi, risultò superiore al 54%. Il 29 aprile 1993, nella sala “Piergiorgio Frassati” della vecchia struttura ecclesiale, alle ore 21, si riunirono il Consiglio Pastorale e quello per gli affari economici per l’esame della prima bozza del progetto di massima che l’Architetto Abruzzini avrebbe personalmente illustrato. Seguirono le varie osservazioni e nei primi giorni di aprile del 1994, a distanza di un anno dalla prima, era già pronta una seconda bozza di progetto che teneva conto di tutti i rilievi. Le Autorità Comunali dimostrarono costruttiva disponibilità e larga collaborazione nella realizzazione del progetto e dopo le rituali approvazioni da parte della Commissione edilizia, ebbero inizio i lavori di costruzione del complesso parrocchiale che vide la posa della prima pietra il 5 luglio 1997. La SEAS, la Ditta che aveva vinto l’appalto, si impegnò nella realizzazione dell’opera non solo con grande perizia e capacità tecnica, ma con quella sensibilità e passione che è raro trovare in ambienti del genere. Anche le altre imprese che curarono i settori dell’impiantistica e delle varie rifiniture, lavorarono con spiccata professionalità. Nel giro di quattro anni, l’ampio complesso parrocchiale, almeno nella sua parte essenziale, era terminato ed il 28 aprile del 2001, in pieno periodo pasquale, il tempo più appropriato per dedicare un tempio a Cristo Risorto, ebbe luogo la solenne cerimonia della dedicazione con la partecipazione del Vescovo mons. Pietro Bottaccioli. Il professor Abruzzini, progettista del complesso, non solo aveva curato con particolare attenzione il suo felice inserimento in un comparto urbanistico già realizzato, ma aveva previsto con cura meticolosa e competente la realizzazione di particolari non secondari come gli spazi per il ciclo pittorico e per l’organo, la pratica fruibilità di tutti i settori del complesso legati ai riti liturgici (cappella feriale, sagrestia, ecc.) e la ricca simbologia che doveva parlare ai fedeli attraverso i vari aspetti della struttura. Entrando in chiesa, la prima cosa che colpisce è la luce. Essa oltre ad essere un elemento legato alla simbologia religiosa, è anche una caratteristica tipica del tempio perché gli spazi interni delle nostre chiese molto spesso si coniugano con un clima di soffusa penombra. Quella luce, tra l’altro, offre la possibilità di apprezzare il ciclo pittorico della teofania collocato nel

Chiesa di Cristo Risorto, particolare dell’interno.

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Chiesa di Cristo Risorto, interno.

A destra: panorama di Umbertide.

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registro superiore, dietro l’altare. Si tratta di un’opera interessante realizzata da un artista brasiliano, il monaco dom Ruberval Monteiro OSB (Ordine di San Benedetto). Il linguaggio espressivo che caratterizza il ciclo è quello della semplicità bizantina, a cui l’artista si accosta senza subire contagi o condizionamenti imitativi pedissequi. Il primo pannello a sinistra rappresenta le pie donne al sepolcro che vanno cercando tra i morti Chi è invece tra i vivi; nel secondo pannello si assiste all’incontro tra Cristo Risorto e la Madonna, mentre nel terzo, quello centrale, si celebra l’Eucaristia simboleggiata dai discepoli di Emmaus. Il quarto pannello riporta la professione di fede dell’incredulo Tommaso, e l’ultimo, che si discosta dagli episodi evangelici, è un messaggio generale di evangelizzazione rappresentato dalla rete da pesca e dalla mano sinistra di Cristo Risorto protesa verso il Fonte Battesimale che si trova lì accanto. Sotto ai pannelli troneggia il grande affresco della discesa agli inferi del Cristo Risorto che è l’emblema principale del tempio. In una parete di fianco è rappresentato Sant’Ubaldo benedicente, e nella volta, sopra il Fonte Battesimale, dalla Mano del Padre procede lo Spirito Santo in forma di Colomba; le sette stelle luminose rappresentano il dono della luce e i quattro fiumi che sgorgano dall’unica sorgente ci riportano al paradiso terrestre, alla quadruplice estensione dello spazio e, secondo l’interpretazione dei Padri, ai quattro Evangelisti. Il ciclo pittorico è stato oggetto di un ampio servizio fotografico e di un acuto saggio critico di Valerio Vigorelli pubblicato sulla rivista specialistica Arte Cristiana, n. 814 del bimestre gennaio-febbraio 2003. Anche la rivista Chiesa Oggi, architettura e comunicazione, sul n. 52 del 2002, dedica al complesso parrocchiale un interessante servizio dal titolo “un’abside di gloria” che comprende più saggi scritti da valenti architetti. Il servizio è ricco di documentazioni fotografiche che si riferiscono non solo al ciclo pittorico, ma a tutta la struttura nel suo complesso. Questa comprende, oltre ai locali destinati direttamente all’esercizio del culto, numerose e ampie sale per la catechesi, i locali di Radio Comunità Cristiana, l’emittente della parrocchia, la biblioteca ed un ampio salone per le riunioni. Nel seminterrato, quando le finanze lo permetteranno, saranno ripresi i lavori per la sistemazione definitiva. Sorgerà un ampio teatro, i locali della Caritas e quelli destinati alle attività ricreative oratoriali. L’ampia superficie coperta consentirà usi molteplici, pienamente rispondenti alle esigenze dei nostri giovani e di tutti i fedeli in genere. Roberto SCIURPA




SULLE ORME DEGLI ANTICHI di Paola CORTESI

ICONOGRAFI

L’

icona, cioè l'immagine che la Chiesa nella sua tradizione ha consegnato ai credenti come luogo della presenza di Dio e canale privilegiato di grazia, fonda la sua essenza nel cuore stesso della fede cristiana, cioè nel mistero dell'incarnazione del Figlio di Dio. Secondo la concezione veterotestamentaria ripresa poi dagli iconoclasti, non è possibile rappresentare Dio, poiché qualunque immagine venga fatta di lui non può essere che un idolo pagano. È proprio il timore che gli adepti alla nuova religione, ancora malfermi e incerti nella fede, potessero ricadere nell'idolatria portò i Padri della Chiesa dei primi secoli a diffidare delle immagini e a esortare i cristiani ad astenersene. Eppure, paradossalmente, sarà proprio da questo veto a rappresentare Dio che prenderà le mosse, durante le persecuzioni iconoclaste, la strenua difesa delle sacre immagini: san Germano di Costantinopoli e san Giovanni Damasceno nelle loro argomentazioni dimostrano che, con l'incarnazione, tale proibizione non ha più ragion d'essere, poiché è stata radicalmente mutata la relazione fra il Creatore e le creature. San Germano patriarca di Costantinopoli afferma: “In memoria perenne della vita nella carne del nostro Signore Gesù Cristo... noi abbiamo ricevuto la tradizione di rappresentarlo nella sua forma umana, cioè nella sua Teofania visibile, ben sapendo che in questo modo esaltiamo l'umiliazione del Verbo di Dio”. “Un tempo Dio, non avendo né corpo né forma, non era rappresentabile in alcun modo. Ma poiché ora Dio è apparso nella carne ed è vissuto tra gli uomini, posso rappresentare ciò che è visibile in Dio. Non venero la materia, ma venero il Creatore della materia, che per me si è fatto materia, che ha assunto la vita nella materia e per mezzo della materia ha realizzato la mia salvezza”, ribadisce san Giovanni Damasceno, definendo contemporaneamente l'essenza dell'icona e la relazione esistente fra l'immagine ed il prototipo cui essa rimanda. Ne consegue che il culto di venerazione reso all'icona non si rivolge all'immagine, ma per suo tramite a chi è rappresentato, poiché per sua stessa essenza

A sinistra: Sergiev Posad: particolare dell'iconostasi.

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Mosca, cattedrale di Nostra Signora di Kazan'. l'immagine è sempre una realtà relativa: è sempre immagine di qualcuno. San Teodoro Studita più precisamente dirà che il Verbo di Dio, incarnandosi, ha preso le fattezze di un uomo, Gesù di Nazareth, dai tratti inconfondibili cui l'immagine si riferisce, somigliandogli come la cera mantiene impresso il segno del sigillo. Quei tratti sono quelli del volto umano di Dio, che l'icona rappresenta simbolicamente, non già realisticamente come un ritratto. Nell'icona di Cristo noi possiamo contemplare, nei sembianti del Verbo di Dio incarnato, il Mistero stesso dell'incarnazione. Funzione e collocazione dell'icona nella chiesa Chiunque venera un'immagine, venera in essa la realtà che vi è rappresentata...” si afferma nel documento conciliare che confuta definitivamente l'iconoclastia, nell'843. Nel medesimo testo si raccomanda di collocare immagini sacre, in qualunque materiale e tecnica, ovunque vivano dei fedeli, affinché contemplando e venerando le icone essi siano attratti dagli “eroi” della fede e seguano il loro esempio di vita. Infatti la venerazione non è rivolta al legno dipinto o al mosaico, ma tende attraverso di

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Sergiev Posad: veduta dal refettorio. essi al modello rappresentato, che vive in una realtà diversa da quella umana, la realtà di Dio. Se questa interpretazione cristiana dell'immagine ci spiega da un lato la costante preoccupazione della Chiesa di spiritualizzare le forme e i soggetti, creando un linguaggio espressivo allusivo e simbolico del divino, dall'altro ci rivela l'importanza da essa attribuita alla contemplazione e al culto dell'icona. Dice Sergij Bulgakov nel suo testo Ortodossia: “L'icona è una necessità essenziale per il culto... è infatti un luogo di presenza di grazia, come un'apparizione di Cristo. Si prega davanti all'icona di Cristo come davanti a Cristo stesso... L'esigenza di avere con sé e davanti a sé l'icona proviene dalla concretezza del sentimento religioso, che non si accontenta della sola contemplazione spirituale, ma cerca una vicinanza diretta, sensibile, come è naturale per l'uomo composto di anima e di corpo... La venerazione delle sante icone si fonda quindi non solo sul contenuto stesso delle persone o degli avvenimenti in essi raffigurati, ma sulla fede in questa beata presenza, che viene data dalla Chiesa in forza del rito di benedizione dell'icona. Mediante la benedizione avviene nell'icona di Cristo un misterioso incontro fra colui che prega e Cristo stesso...”.

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Suzdal: Monastero femminile della Protezione della Vergine. Tutte le icone, fondandosi sull'incarnazione, sono icone di Cristo: sia quelle che lo raffigurano direttamente, sia quelle che si riferiscono ai momenti più significativi della sua vita terrena (le Feste), sia quelle che rappresentano la sua divina Madre, la “Theotokos”, nel cui corpo verginale “il Verbo si è fatto carne ed è venuto in mezzo a noi”, e che ci rivelano il volto dei santi, uomini come noi, grandi nella fede, che nella vita hanno avuto costantemente come modello Cristo, tanto da diventare “speculari” a lui, immagini (eikon) di lui. La tradizione della Chiesa, custode attenta dell'eredità apostolica, definisce e tramanda i canoni da cui l'iconografo non può allontanarsi, senza rischiare di cadere in gravi errori, poiché non è la sua personale verità che deve emergere, ma la Verità di Dio. Chi “scrive” icone, oggi come nei secoli passati, si pone al servizio della comunità cristiana, presta le sue mani ed il suo talento affinché si compia la redenzione del mondo, consapevole di aver ricevuto una precisa vocazione e un altrettanto precisa missione da compiere. Per questo gli iconografi hanno sempre mantenuto un atteggiamento di obbedienza ai canoni, tanto da apparire poco creativi e perfino ripetitivi. In realtà l'obbedienza alla Tradizione, come l'attenzione a ogni particolare anche minimo

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Mosca: Monastero di Novodevici, interno. dell'esecuzione dell'opera, esprime il desiderio dell'artista di inserirsi nel grande alveo dell'eredità che Cristo ha lasciato alla sua Chiesa. Elementi di storia e topografia Fin dagli albori del III secolo i cristiani ricorsero a immagini per illustrare le vicende e i fondamenti della nuova fede. Dapprima si avvalsero di un linguaggio simbolico - come si può vedere nelle catacombe - che rimandava metaforicamente a idee ben precise (ad esempio la salvezza per chi si affida a Dio, l'immortalità dell'anima, ecc.), e non aveva nulla a che fare con il concetto di eikon, parola indicante ritratto o somiglianza, o comunque una rappresentazione naturalistica della realtà. Moduli, tecniche, simboli, materiali che per secoli erano stati impiegati nella pittura parietale, nelle pavimentazioni musive o nella ritrattistica funeraria passarono agli artisti cristiani, che se ne appropriarono, attribuendo loro significati nuovi. Nell'icona cristiana confluì l'eredità del mondo antico, che conosceva il ritratto profano, come ci

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Suzdal: Monastero di S.Eufimio, affresco. attestano i ritratti funerari delll'Egitto tolemaico (I sec. a.C.-IV d.C.), noti come “ritratti di El-Faijum”, cui veniva attribuita la facoltà di far sopravvivere accanto ai suoi familiari il defunto, il cui volto veniva rappresentato nel pieno vigore della vita sopra una tavoletta di legno appositamente preparata; quel ritratto, posto sulla mummia come se il volto si affacciasse dall'involucro delle bende, garantiva il prolungarsi del dialogo fra i vivi e il morto, che veniva fra conservato nella sua casa, nella stanza riservata ai defunti, dentro appositi armadi. La tecnica impiegata in questi ritratti passa alla pratica cristiana della pittura di icone. Le prime icone Sappiamo bene inoltre che i “divini imperatori” di Roma facevano giungere in tutte le province dell'impero il loro ritratto, affinché i sudditi anche delle più remote regioni conoscessero la loro persona. Al ritratto dell'imperatore si attribuiva quella caratteristica di imago efficiens per cui chiunque ne vedeva il ritratto vedeva l'imperatore, e ogni decisione presa (per esempio nei tribunali, dai magistrati al

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Suzdal: Monastero di S.Eufimio, Cristo lava i piedi a S. Pietro (part. affresco). cospetto di un ritratto imperiale), era ordine indiscutibile dell'imperatore stesso. Questa teoria, derivata dal pensiero neoplatonico, venne assunta dai Padri della Chiesa per dare una giustificazione teoretica alla presenza reale del Santo nella sua rappresentazione. Dice Atanasio di Alessandria, nel IV secolo: “Nella rappresentazione sta l'idea e la persona... la somiglianza è la stessa nei due casi”. Il cristianesimo aveva già raggiunto una certa maturità e una notevole diffusione quando si cominciò a rappresentare Cristo, la sua vita ed il suo martirio. Le icone più antiche possono essere datate alla prima metà del IV secolo, quando in seno alla Chiesa (sollecitata dalle nascenti eresie) si fece più precisa la coscienza della natura teandrica di Cristo, e i Padri stabilirono nei Concili che le immagini avrebbero potuto essere d'aiuto al consolidamento della fede: si diffusero così le rappresentazioni di Cristo, della Madre di Dio e dei santi. Le prime icone furono eseguite a encausto, un antica tecnica (risaliva agli egiziani) che si avvaleva della cera come medium: i pigmenti miscelati in essa venivano praticamente fusi nel supporto di legno con un arnese incandescente. Questa metodica consentiva risultati assai soddisfacenti poiché i colori, inattaccabili all'umidità risultavano trasparenti, caldi e profondi. Era questa la tecnica con cui erano stati eseguiti i ritratti di mummie egiziane di cui si è parlato sopra; dipinti su tavolette di

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legno, i loro volti erano idealizzati e un particolare risalto veniva dato ai grandi occhi pensosi, che parevano guardare il mondo da cui erano partiti con un assorto, sereno distacco. Questi ritratti funerari esercitarono una notevole influenza sulla pittura di icone anche dal punto di vista tecnico, come dimostra la considerevole somiglianza esistente fra i ritratti del Faijum del III e IV secolo, e le più antiche icone ritrovate sul monte Sinai e custodire nel monastero di Santa Caterina (VI secolo). Purtroppo le icone più antiche sono giunte fino a noi in numero assai limitato: l'ingiuria del tempo, le circostanze climatiche e le vicissitudini storiche (guerre, incendi, terremoti) ne distrussero molte, ma la causa che impedì in modo più determinante a una grande quantità di queste opere d'arte di giungere fino ai giorni nostri fu certamente la controversia iconoclasta: suscitata nel 726 dall'imperatore Leone III Isaurico e sostenuta anche da molti teologi, ebbe termine soltanto nell'anno 843, quando fu ristabilita la venerazione della sante immagini, già affermata dai padri conciliati a Nicea nel 787. La furia devastatrice degli iconoclasti si abbatté irreversibilmente su mosaici, icone e affreschi: soltanto il monastero di Santa Caterina sul Sinai fu risparmiato, perché trovandosi chiuso fra terre islamiche non poté essere raggiunto. Ma anche nei momenti di maggior recrudescenza del conflitto iconoclastico, gli iconoduli (devoti alle icone) non abbandonarono, guidati da grandi personalità quali san Giovanni di Damasco e il patriarca Niceforo, la difesa della pittura e venerazione delle rappresentazioni di Gesù, di sua Madre e dei santi, come legittimo elemento della teologia ortodossa. Dopo il martirio dell'iconoclastia ci si accinse con rinnovata energia all'opera di decorazione delle chiese ormai spoglie. In questo periodo - il IX secolo - Costantinopoli, la grande metropoli sede degli imperatori, è il faro della magnificenza artistica. La forte centralizzazione del potere favorì grandemente la produzione artistica: da ogni parte dell'impero furono convocati artisti per abbellire la città, e anche la pittura delle icone beneficiò di questo generale momento di prosperità. La città era particolarmente devota alla Madre di Dio ed in suo onore furono costruite più di cento chiese in cui trovarono posto splendide icone, che divennero prototipi per ulteriori immagini. Tra le icone in onore della “Theotokos” le più venerate e famose erano la “Eleousa”, la “Blacherniotissa”, la “Platitera”, la “Hlaghiosoritissa”. Da Bisanzio alla Rus' Nel XII secolo l'icona acquisisce le stesse squisite qualità artistiche dei mosaici monumentali, dai quali era ovviamente influenzata: ciò è evidente per esempio nel portamento delle figure, poste sempre frontalmente, e nell'espressione dei volti semplici, nobili, severi. L'esempio più caratteristico di questo periodo è la famosa Madre di Dio di Vladimir a tutti nota, dipinta a Costantinopoli nel primo trentennio del XII secolo e trasferita più tardi in Russia, dove divenne l'oggetto di culto più venerato del paese. Le Crociate fecero di Costantinopoli la loro vittima, in particolare la quarta in cui la città fu ferocemente saccheggiata (1204). Divenuta capitale del regno latino d'Oriente, Costantinopoli rimase nelle A sinistra: Sergiev Posad: cattedrale della Dormizione.

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Scorcio moscovita. mani dei veneziani fino al 1261 e fu talmente depredata e impoverita che ogni produzione artistica vi fu resa impossibile. Nel 1261 Costantinopoli riacquistò la sua libertà e la catastrofe parve superata, ma era ormai evidente l'indebolimento dell'impero, un tempo tanto potente. In campo culturale e artistico pareva che il ruolo di Costantinopoli fosse ormai al tramonto. Infatti durante il mezzo secolo della dominazione latina l'attività artistica era stata ridotta al minimo e gli artisti erano andati a lavorare nelle regioni limitrofe (Macedonia, Candia, Cipro) dove però erano rimasti fedeli alla tradizione bizantina, tanto che spesso è difficile determinare la provenienza delle icone di questo periodo. Nel corso del XIV secolo l'icona torna a essere una delle forme più rappresentative dell'arte continuando a seguire nello stile le principali linee evolutive del mosaico monumentale, ma su una scala minore; per questo motivo essa divenne più delicata e raffinata, permeata da un'evidente onda di umanità. Nel secolo successivo la raffinata eleganza e la manifestazione emotiva portarono a una trasformazione di maniera: le composizioni divennero più complesse, paesaggi e architetture si trasformarono in cornici per la figura umana, lo spazio come tale divenne parte della composizione, nella quale l'ombra è completamente bandita. Nel 1453 gli ottomani conquistarono Costantinopoli, inferendo una ignominiosa disfatta all'impero bizantino, lasciandovi insanabili ferite e arrestando qualunque ulteriore sviluppo. I turchi invasero poi

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rapidamente il resto dell'Europa sud-orientale, e il trionfo dell'Islam causò la crisi della fede ortodossa e della sua splendida arte. L'eredità stilistica della tradizione bizantina si mantenne viva in molti centri di produzione artistica (la Grecia, le isole del Mediterraneo, i Balcani), dove continuò a svilupparsi contrastando con la nuova cultura portata dagli usurpatori turchi. La Russia, in cui l'arte dell'icona ebbe una fioritura particolare, merita un discorso a parte. Quando il principe di Kiev Vladimir si convertì al cristianesimo e prese in moglie una principessa bizantina (985), anche l'arte della capitale giunse in quelle remote regioni. La città di Kiev, culla della fede ortodossa russa, fu la sede dei più antichi laboratori russi di icone, in cui operavano artisti costantinopolitani secondo lo stile e l'iconografia della capitale. Il periodo di maggior splendore dell'icona russa inizia con la rinascita dello stato nazionale dopo il periodo delle incursioni tatare, e la fioritura di uno straordinario movimento monastico iniziato da san Sergio di Radonez: tra la fine del XIV e l'inizio del XV secolo opera Andrej Rublév, monaco, straordinario iconografo e santo della Chiesa russa. Il suo capolavoro, la Trinità, segna la storia, la spiritualità e l'arte dell'icona in Russia e in tutti i paesi dell'Oriente cristiano. I maggiori centri russi (Vladimir, Suzdal', Novgorod, Pskov, eccetera), così come i principali complessi monastici russi elaborano proprie scuole iconografiche, in cui caratteristiche della cultura locale si fondono con la tradizione bizantina da cui germinavano; dalla metà del XV secolo fra tutti emerge Mosca, avviata a diventare centro politico e culturale del paese. Alle sue vicende saranno legate le successive fasi di fioritura e decadenza dell'icona. Tecniche fondamentali di esecuzione Se l'icona è il “luogo in cui il mistero si fa presente”, nessun particolare può essere trascurato, neppure il più marginale, anzi è proprio l'estrema fedeltà alla tradizione e la cura dei procedimenti tecnici a garantire il legame con il trascendente. L'icona è un oggetto compiuto in sé, un microcosmo che ripropone la verità e la perfezione del macrocosmo di cui è riflesso, un tempio alla cui costruzione prodigiosa concorre tutto il creato: l'uomo, gli animali, i vegetali, i minerali e ancora la terra, l'aria, l'acqua e il fuoco, in un equilibrio misterioso in cui tutto è offerto e sublimato affinché il Bello possa esprimere il Vero. Già la scelta della tavola richiede attenzione, esperienza e conoscenza dei canoni: si deve infatti dare la preferenza a un legno compatto, poco resinoso e privo di nodi, ben stagionato, che permetta una buona conservazione della pittura nel tempo e non diventi facile preda dei tarli. I legni più usati sono il tiglio, la betulla, il faggio, la quercia, il cedro e l'abete, a seconda dei luoghi e delle tradizioni. La tavola deve essere tagliata nel tronco in piena massa, il più possibile vicino al centro per garantire la massima solidità, poi lasciata opportunamente stagionare e trattata contro le aggressioni dei parassiti. Per le icone di grandi dimensioni è necessario assemblare più assi, che vengono ancor oggi connesse fra loro a incastro o “a immaschiatura”, e fissate con colla e perni di legno, per scongiurare fessurazioni e spaccature. A questo momento è già stabilito quale sarà la “faccia” della tavola da dipingere; infatti è necessario destinare alla pittura la superficie che era rivolta verso il centro dell'albero, se si vorrà evitare che l'icona nel tempo possa diventare concava e deformarsi; con questo accorgimento potrà accadere che il legno diventi, al contrario, più o meno convesso, assumendo la forma “a coppo” caratteristica di molte

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Un altro scorcio di San Basilio e del Cremlino. icone antiche, ma in questo caso l'immagine risulterà dilatata, non deformata. Per irrobustire la tavola si incastrano sul retro, senza l'aiuto di colle né chiodi, ma facendole scorrere in solchi rettangolari con bordi “a coda di rondine”, delle traverse, spesso in legno più duro, poste perpendicolarmente all'andamento delle fibre, in modo che esercitino trazioni uguali e opposte sulla superficie da dipingere. A partire dal XVIII secolo si introduce in Russia anche un altro sistema di rinforzo: due listelli incastrati nello spessore della tavola alle estremità in alto e in basso. Il riscontro di questa pratica permette di datare con certezza le icone del tempo. Dopo aver tagliato, sgrossato e piallato la tavola, si passa all'esecuzione, sulla faccia da dipingere, di un incavo profondo alcuni millimetri (detto kovceg o “culla”), che simboleggia la più profonda intimità con Dio del personaggio raffigurato, che già vive nella dimensione divina. Questo incavo viene eseguito a mano con scalpelli e sgorbie ben affilati, in modo da ottenere una superficie piana e regolare, ma un po’ “mossa”, che consentirà alla fiamma delle candele o delle lampade di creare effetti di luci e di ombre. Eventuali difetti del legno, fessure o errori nell'esecuzione delle fasi precedenti vanno eliminati con stucco, o segatura impastata a colla, applicati a spatola. Successivamente si praticano su tutta la tavola delle incisioni diagonali disposte a griglia e si stendono con un pennello due strati di colla di origine animale (di coniglio o di pesce, meglio se di storione) ben calda; questa pratica, che gli antichi chiamavano “appretto”, serve a preparare il legno a ricevere

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l'operazione seguente dell'“incamottatura”, o intelatura, un altro accorgimento adottato fin dall'antichità per limitare il rischio di fessurazioni, dannose alla superficie dipinta. Si stende cioè sulla superficie della tavola una tela di lino, robusta e di trama regolare, di misura di poco superiore alla tavola stessa, ben imbevuta di colla calda e la si fa aderire con cura al legno. L'utilità di questa tela è evidente: con questo trattamento lo strato di pittura dell'icona risulterà assai più resistente alle sollecitazioni esercitate dai movimenti del legno, e quindi più protetto da scrostamenti e strappi. Ma c'è anche un preciso riferimento teologico dietro questa operazione: il ricordo dell’avvenimento miracoloso da cui derivò agli uomini la prima icona, il “Volto non dipinto da mano d'uomo” che Gesù stesso consegnò, impresso sul lino, ai messi del re Abgar, perché fosse guarito dalla lebbra. Ogni icona infatti trova il suo fondamento in quel Volto, il Volto di Dio fatto uomo. Operazione di fondamentale importanza è poi la preparazione del levkas (dal greco leukos), lo strato bianco che costituisce la base definitiva della pittura. Questo fondo bianco, anticamente impiegato soprattutto a Bisanzio e in tutte le scuole pittoriche dell'area mediterranea, deve essere preparato e steso da mani esperte, per non compromettere il risultato dell'intera opera. È un composto di colla di storione e polvere fine di alabastro o di “bianco di Meudon”, fra loro miscelate secondo ben precise proporzioni, che viene steso caldo sulla tavola con pennello e spatola, in più strati successivi (fino a sette o otto) a distanza di parecchie ore fra loro, perché possano asciugare completamente. Questa preparazione, ideale perché costituisce un fondo omogeneo, piano, assorbente, pronto a ricevere il colore, era praticata anche presso tutte le grandi scuole toscane del Trecento e del Quattrocento. Solo quando la tavola risulterà perfettamente rivestita di questo strato bianco, che dovrà apparire omogeneo, senza buchi né spessori o screpolature, la si potrà considerare completamente finita e mettere ad asciugare per qualche tempo in luogo fresco e areato. Doratura e pittura Quando la tavola apparirà ben asciutta, si potrà passare alla sua levigatura (un tempo ottenuta con raschietti e pietra pomice, oggi con carta vetrata), per renderla liscia come avorio. Nel caso si rilevino ancora piccoli difetti è necessario ricorrere a un accurata stuccatura che li elimini. Ora la tavola passa definitivamente nelle mani del pittore, che abbozzerà innanzitutto il disegno, a mano libera o servendosi di modelli derivati dalla tradizione (le hermeneie greche, i podlinniki russi). Se il fondo dev'essere dorato, i contorni delle figure vengono incisi con una punta, per non perderne il disegno durante l'operazione della doratura. Anche l'operazione della doratura richiede esperienza e conoscenza delle antiche tecniche e dei materiali. Il fondo deve essere inizialmente “brunito”, cioè lisciato e lucidato con una punta d'agata; poi viene “polimentato”, cioè ricoperto con alcuni sottili strati di un composto liquido di terra rossa (bolus), sego e colla organica e, una volta asciutto, nuovamente lucidato. Su questa superficie levigata e lucente si applicano con colla diluita sottilissimi fogli d'oro che verranno ancora lucidati e, successivamente, protetti con gommalacca. Nelle icone bizantine, soprattutto destinate alle chiese e alle iconostasi, il fondo era sempre dorato, perché l'oro simboleggia la luce increata di Dio, l'atmosfera del Paradiso. Terminati tutti i passaggi della doratura, l'iconografo può iniziare il lavoro della pittura: è questo il momento più importante, che va accompagnato dalla preghiera e dalla meditazione sul mistero divino

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che nell'icona sarà reso visibile. Anticamente si definiva questa fase iniziale della pittura con l'espressione “apertura”, perché, come il libro delle Scritture deve essere aperto per leggervi la rivelazione di Dio, così anche l'icona si deve aprire per “scrivervi” la storia della Salvezza. Poi ha inizio la preparazione dei colori, secondo antichissime ricette. La tavolozza dell'iconografo è costituita esclusivamente di pigmenti naturali, per la maggioranza minerali, oppure organici di origine vegetale o animale; i colori sintetici oggi in commercio, anche quando riescono a imitare le tonalità dei pigmenti naturali, non possono competere in brillantezza e resistenza con queste preziose sostanze coloranti che l'uomo conosce ormai da millenni. I pigmenti più largamente usati sono le terre o ocre, mescolate ad altri minerali più brillanti e dalla struttura cristallina quali cinabro, lapislazzulo, malachite, azzurrite, ematite, orpimento, realgar e altri ancora, oppure a sostanze organiche di origine vegetale quali l'indaco, l'alizarina, il carbone, il “sangue di drago”, o animale come l'avorio, il seppia, il giallo indiano. Queste sostanze vanno naturalmente ridotte in polvere finissima e “legate” con un collante albuminoide come il tuorlo d'uovo o la colla di caseina. Anticamente gli iconografi aggiungevano alle loro mestiche anche miele, resine, gomme, latte di fico, olii essenziali, fiele di bue, birra bollita: si può dire che ogni scuola avesse il suo ingrediente “segreto” per rendere i colori più resistenti e brillanti. Certo è che nessuna tecnica più recente ha potuto eguagliare la freschezza e la luminosità di quei colori, né superarne la tenacia. Terminata la lunga preparazione dei colori, il pittore si accinge alla loro stesura, impiegando pennelli morbidi ed elastici di pelo di scoiattolo o di martora, ancor oggi fatti a mano. Dapprima si stendono i colori di fondo nella tonalità più scura, poi si passa alle vesti, e infine si colora l'incarnato con una mistura di terre e pigmenti di tonalità bruno-verdastra, che i bizantini chiamavano sankir'. Successivamente si passa alle “lumeggiature” sulle vesti, sugli edifici, sugli incarnati cioè si schiariscono aree sempre più limitate, in modo da creare il senso del volume, come se tutto fosse illuminato dall'interno. Gli ultimi tratti, cioè i punti di massima luminosità, vengono sottolineati con bianco quasi puro, mentre i volumi delle vesti sono spesso ricoperti da sottili tratti d'oro, l’assist. Le iscrizioni L’ultima operazione è costituita dalla “iscrizione”: l’iconografo scrive il nome del personaggio o della festa rappresentati nell'icona. Questa scritta (in latino, greco o altra lingua liturgica), suggellando la fedeltà dell'icona al prototipo, dichiara che quanto è visibile in immagine è realmente presente e partecipe della liturgia celeste. Le iscrizioni sulle antiche icone, in greco o in slavo ecclesiastico, presentano frequenti abbreviazioni e la loro interpretazione richiede una certa esperienza dell'argomento. La forma delle lettere, soprattutto nelle icone russe, varia notevolmente a seconda delle epoche. Nel XII sec., per esempio, i caratteri erano molto semplici; nel XIV sec. appaiono assai più massicci e monumentali, con linee verticali accentuate che ritmano fortemente l'iscrizione. Nei sec. XV-XVI diventano più esili, mentre va diffondendosi una scrittura corsiva leggermente inclinata verso destra. La Scuola degli Stroganov farà sempre uso di una forma di scrittura arcaica, con caratteri alti e intrecciati fra loro. Nel sec. XVIII i caratteri restano sempre alti, ma con verticali molto fitte e spesse. Risulta quindi utile al fine di datare un'icona osservare la forma dei caratteri usati per l'iscrizione, purché naturalmente quest'ultima non sia

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stata aggiunta successivamente, in occasione di un restauro. Quando l'ultimo tocco di pennello è stato dato (dopo qualche giorno necessario alla completa asciugatura) si procede alla “verniciatura” dell'icona, operazione che ha lo scopo di fissare saldamente al sottostante supporto di legno, tela e gesso lo strato superficiale dei colori, oltre che di proteggere la pittura da polvere e agenti atmosferici. Viene impiegata una vernice grassa, la cui ricetta è stata conservata per secoli nei monasteri dell'Athos, a base di olio di lino cotto con aggiunta di resine e sali minerali, che prende il nome di olifa. Poiché col trascorrer del tempo questa vernice tende ad annerire, le icone antiche e vecchie risultano tutte di colorito molto scuro, tanto che in passato si riteneva che questo fosse il loro aspetto originario; i primi restauri scientifici eseguiti all’inizio del nostro secolo hanno rivelato al mondo intero la gioiosa vivezza degli splendidi colori del passato. Tutto il lavoro descritto non basta di per sé a realizzare veramente un'icona: senza la benedizione avremmo solo un pezzo di legno dipinto. È l'opera dello Spirito, attraverso la Chiesa, che rende quel legno dipinto un “sacramentale”, veicolo efficace della grazia divina, segno vivo di Dio e presenza del suo volto. L’icona è ora offerta alla venerazione del popolo di Dio. Per costruirla sono state impiegate obbedienza, perizia, esperienza e genialità. Ma soprattutto occorre ascesi spirituale, umiltà e viva fede, sorretta dalla comunità dei credenti. Il pittore sa di aver solo “prestato le mani” al Signore affinché egli si manifestasse, sa di aver compiuto un servizio, di aver risposto alla sua vocazione. Ecco perché non firma l'opera: tutto ciò che in essa è detto non è “suo”, ma appartiene all'eterno mistero di Dio, che egli ha contribuito a rendere più vicino all'uomo. L’icona nella casa e nella chiesa Dopo la “vittoria delle sante immagini” con cui si concluse nell'anno 843 la lotta iconoclasta, le icone si diffusero ancor di più fra i cristiani, che non solo le veneravano nelle chiese, ma le custodivano nelle case al posto d'onore, le ponevano sulle porte delle città, le issavano come labari alla testa degli eserciti sui campi di battaglia, le portavano in processione per le vie e i campi, per scongiurare pericoli o impetrare la grazia di un raccolto abbondante. Ovunque erano viste come presenze benefiche e autorevoli, partecipi della vita umana in tutti i suoi aspetti: c'era quindi l'icona che proteggeva le partorienti, che accompagnava i pellegrini, che confortava gli ammalati o vegliava i moribondi, fino a quella che seguiva il defunto nella tomba, stretta fra le sue mani per precederlo come “avvocato” davanti al trono di Cristo nel giorno del Giudizio. Le icone che oggi giungono più facilmente nei paesi occidentali provengono dalla Russia e sono in maggioranza icone di piccole dimensioni, destinate per lo più alla casa e alla preghiera domestica. Nella casa russa infatti, almeno fino all'inizio di questo secolo, c'era sempre un piccolo santuario domestico (detto “angolo bello”), dove fra lampade e fiori erano esposte le icone protettrici della famiglia, a cui si rivolgeva una devozione cristiana intima e affettuosa. Alle icone, prima ancora che agli abitanti della casa, si rivolgeva il saluto dei visitatori.

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LE ICONE

RUSSE

di Davide ORLER

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olendo tracciare un profilo storico dell'iconografia dell'arte cristiana d’Oriente, non possiamo non ricordare San Giovanni Damasceno, colui che nel VII secolo fu il più strenuo difensore delle immagini sacre, che gli Iconoclasti volevano eliminare dalle chiese e dalle case cristiane. Per lui e per l'Ortodossia le immagini sacre erano il ponte e il veicolo dell'unione spirituale con un Dio che "si è fatto uomo perché noi diventassimo Dio". E tali rimangono nel pensiero delle Chiese Orientali. Per quanto riguarda la Russia, i grandi protagonisti della cristianizzazione di quelle terre furono la granduchessa Olga e i Santi fratelli Cirillo e Metodio. Fra il IX e il X secolo si andava formando l'arte russa cristiana, alimentata esteticamente dalla grande arte di Bisanzio e poi della Grecia e spiritualmente dalle tradizioni dei tanti miracoli di santi locali, un'arte che raggiunse vertici di assoluto splendore nel XII secolo, con le scuole di Vladimir, Jaroslavl e Novgorod. Con l'invasione dell'Orda d'Oro dei Tartari, nel 1237, e i due conseguenti secoli di occupazione, l'attività artistica si spostò verso il Nord della Russia, dove la grande scuola di Kiev superò quelle di Rostov e di Novgorod. Tra il XIV e XV secolo una grande rinascita artistica ebbe i suoi In alto: San Giorgio e il drago, icona russa, XVIII secolo, Collezione Orler. A sinistra: San Giovanni Battista «Angelo del deserto», con scene della vita, icona russa, fine del XVIII secolo, Collezione Orler.

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protagonisti in Teofane il Greco e nel suo straordinario allievo, Andrej Rublev, meritatamente il più noto degli iconografi russi, autore, fra tanti capolavori, di quella Trinità Angelica, davanti alla quale pregano i Russi nel museo di Mosca, che la ospita, e pregano tanti cristiani di Occidente. Caduta Costantinopoli nel 1453, toccava alla Russia custodirne e svilupparne la gloriosa tradizione artistica. Un grande maestro fu Dionisij, la cui spiritualità e la cui eleganza restano tuttora insuperabili. Tra il XVI e il XVII secolo, pur continuando nelle varie scuole l'antica tradizione, vengono meno, via via, lo spirito religioso e la carica spirituale delle immagini, le quali si fanno più preziose e più adatte al collezionismo di ricchi acquirenti che non alla contemplazione orante dei fedeli. Una produzione di straordinario Madre di Dio della Passione, icona russa, inizio del valore estetico e spirituale si afferma allora nel XIX secolo, Collezione Orler. villaggio di Palech. Proprio la raffinatezza straordinaria di quella scuola facilitò il passaggio ad una produzione di oggetti da collezionismo (gioielli, scatole, balalaiche e le famose "uova pasquali"), decorati con scene di fantasia, che preservò l'abilità tecnica stupefacente dei vecchi iconografi, mentre si era perduto il valore spirituale cristiano del loro operare. Dal 1917 l'inimicizia radicale del regime marxista verso ogni forma di sensibilità religiosa e spirituale provocò la perdita irreparabile di un patrimonio artistico e culturale unico al mondo, cancellato e disperso perché religioso e cristiano. A tale perdita si cerca ora di porre qualche rimedio in Russia, passata finalmente la ‘follia’ iconoclasta, perdita che è in parte compensata dalle icone portate da emigranti e da gente fuggita nei paesi dell'Europa Occidentale e qui custodite come una testimonianza inestimabile di quella grande arte che fu della cristianità orientale, della Santa Madre Russia.

Una breve testimonianza di come è nata la collezione di Davide Orler La prima volta che mi capitò di vedere un'icona russa, non potevo immaginare la sconvolgente influenza che le icone avrebbero avuto nella mia vita. Ero un ragazzo, subito dopo la fine della guerra, quando fece ritorno nel mio paese di montagna, sulle Dolomiti, uno dei pochissimi alpini sopravvissuti alla Campagna di Russia. Aveva con sé una minuscola icona, donatagli

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da una vecchia contadina ucraina, icona che egli considerava come il talismano che l'aveva salvato in quella immane tragedia. Rimase impresso in me un senso di profondo mistero, di fronte a quell'immagine dall'alone miracoloso. Le vicende della vita mi portarono lontano dal mio paese (Mezzana di Primiero). Passai anni in Marina, nacque in me una vocazione irresistibile per la pittura; cominciai fissando sulle tele - persino sul telo della mia branda - il ricordo e il sentimento delle mie montagne e della mia gente. Tornato sulla terraferma, la passione di pittore mi condusse in Francia (in Provenza e in Costa Azzurra), a contatto con la sconvolgente rivoluzione di Picasso, con la grande pittura di Matisse e di Chagall; tornato in Italia finii poi per stabilirmi a Venezia. Quale pittore, tra le infinite crisi che travagliano l'arte moderna, fui particolarmente colpito da quella attraversata dall'arte sacra contemporanea, che non è una crisi estetica, ma propriamente una crisi religiosa. E fu a Venezia che avvenne il mio decisivo incontro con le icone russe. Conobbi un gruppo di studenti del Bolscioi di Mosca. Erano alla Fenice, volevano prolungare ancora un po’ il loro soggiorno a Venezia; mi offrirono un piccolo gruppo di icone che avevano portato con loro. Qualcosa scattò in me, quando ebbi in mano quelle tavole, con quei fondi oro che evocavano una grande tradizione, religiosa e artistica, tramandata nei secoli dalla storia russa: tradizione che aveva fortemente commosso Matisse nel suo viaggio in Russia, agli inizi del secolo, tradizione nella quale Chagall aveva affondano le proprie radici, mantenendola fino all'ultima sua produzione pittorica nelle grandi raffigurazioni della sua Bibbia. Con il crescere di una collezione ci si rende man mano conto dei suoi limiti e delle sue potenzialità: pertanto, con uno studio più approfondito su tutta l’iconografia orientale, mi resi conto di come la Grecia aveva influenzato la Russia e la Russia, a sua volta, gli Stati Slavi, via via che il Cristianesimo si diffondeva e si consolidava. Di conseguenza, il bisogno della fede cristiana di manifestarsi anche attraverso le immagini fece sì che, mentre la Russia, forte della tradizione greca, sviluppava svariati stili sempre più aggiornati, gli altri Paesi rimasero artisticamente ad un livello, per così dire, naïf. Cominciai a raccogliere icone, dapprima cercando, non senza difficoltà, di intessere rapporti con collezionisti e con famiglie russe, poi divenendo io stesso un referente privilegiato per chi vendesse icone antiche. Desidero solo aggiungere che una mia aspirazione, quasi un'idea dominante, è sempre stata quella di poter sottrarre le icone alla dispersione, per offrirle, infine, alla visione e alla contemplazione di tutti. Al pensiero che senza questa mia appassionata ricerca in Italia non sarebbe sorta tale collezione, mi sembrano più leggeri i costi e i sacrifici sopportati, proprio alla luce di un così grande patrimonio che oggi la stessa Russia vorrebbe. Pertanto, sarà valsa la pena di sopportare ogni sacrificio se verrà raggiunto lo scopo vero per il quale è nata l'icona: proporsi alla contemplazione silente dello spettatore, offrendo a ciascuno la possibilità di attingere a quella mistica realtà, realtà che purtroppo non tocca la superficialità dei nostri giorni e gli aspetti effimeri dell'arte contemporanea.

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Il tempo della Salvezza Ogni giorno dell’anno e della settimana, ogni ora del giorno assumono nella visione cristiana il significato di un pellegrinaggio che sfocia nell’eterno. Non però in un eterno indeterminato e vago, ma nel Mistero di cui il cristiano fa già su questa terra esperienza familiare e prossima giorno per giorno, meditando e rivivendo la storia della Salvezza che si è dispiegata nei millenni passati, dalla creazione del mondo – atto d’amore di Dio verso l’uomo – fino all’Alleanza stretta da Dio con il popolo di Israele e al compiersi della promessa attraverso l’Incarnazione di Cristo. Questa dimensione nuova del tempo che la Chiesa vive quotidianamente si svela attraverso la liturgia: il calendario sacro rivive annualmente questo Mistero attraverso i cicli liturgici di ogni giorno (la preghiera delle «ore» ), della settimana (che ripercorre simbolicamente lo svolgersi della Creazione), e dell’anno, che ripropone l’intera storia dell’umanità. Anche l’icona, parte integrante della liturgia nella tradizione del cristianesimo orientale, si inserisce in questa dimensione temporale, esprime nella sue linee e colori il «tempo della Salvezza».



I. In cammino verso l’Eternità Nella percezione del tempo propria dell’uomo medioevale passato e presente, storia sacra e storia personale sono categorie contemporanee e parallele. Oltre allo scorrere dell’esistenza quotidiana e del tempo storico, al ripetersi dei cicli astronomici e naturali, con le loro alternanze (stagioni, mesi, settimane, giorni), la cultura cristiana assume e assimila la concezione biblica del tempo, inteso come processo escatologico, drammatica attesa della venuta del Messia – evento ultimo e definitivo, che doveva mutare e determinare tutto il corso della storia. Per questo, nel cristianesimo il tempo assume un carattere escatologico, proteso verso il futuro. Ogni chiesa possedeva dodici icone menologiche che rappresentavano le feste e i santi secondo l’ordine della loro celebrazione nel ciclo annuale; il numero dodici, che era anche il numero delle feste liturgiche principali, degli apostoli, delle tribù di Israele, delle pietre angolari e delle porte della Gerusalemme celeste, aveva un particolare significato nella simbologia cristiana.


1. Menologio annuale Icona russa, XIX sec. 71,5 x 53,3

Le icone menologiche erano generalmente esposte nelle chiese, perché servivano da riferimento ai fedeli per il calendario liturgico. Ogni chiesa possedeva queste icone, che potevano raccogliere in un’unica tavola, come in questo caso, l’intero ciclo annuale, oppure raffigurare uno o più mesi. Le chiese possedevano inoltre delle serie di tavolette di piccole dimensioni, raffiguranti tutte o almeno le principali feste liturgiche, e che venivano esposte di volta in volta al centro della chiesa, su appositi leggii. L’icona in esame, di grande raffinatezza, inizia nel computo dell’anno liturgico dal mese di gennaio e presenta al centro la raffigurazione della Pasqua, nella sua tipologia più ricca di particolari, e il ciclo della Passione: dall’alto a sinistra, vediamo la Lavanda dei piedi, l’Ultima cena, la Preghiera nel Getsemani, il Bacio di Giuda, Cristo davanti a Caifa, davanti a Pilati, la Flagellazione, la Coronazione di spine, la Salita al Calvario, la Crocifissione, la Deposizione dalla croce, la Deposizione nel sepolcro. Tutt’intorno, la raffigurazione delle icone mariane più venerate nel mondo orientale e soprattutto in Russia (ben 48 soggetti), a testimoniare la ricchezza della devozione mariana e la sua diffusione. Ogni icona presenta una scritta che segnala il titolo dato in essa alla Vergine.

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2.

Iconostasi portatile Icona russa, fine XVIII sec. 50,5 x 150

Il polittico in esame riproduce in miniatura un’intera iconostasi, cioè la parete di icone che nella chiesa bizantina separa la navata dal presbiterio. Si tratta di un’iconostasi «da viaggio», cioè realizzata in modo tale da poter essere facilmente piegata e riposta durante gli spostamenti, per celebrare la liturgia. Il programma iconografico dell’iconostasi si sviluppa secondo cinque registri orizzontali, ciascuno dei quali trova la propria chiave interpretativa nelle figure centrali, verso cui converge il movimento ai lati. Nel suo complesso, l’iconostasi rappresenta la storia della Salvezza che si dispiega nel corso dell’intero anno liturgico. Dall’alto vediamo rispettivamente gli ordini dei patriarchi e dei profeti, ciascuno dei quali ostende il rotolo oppure il proprio simbolo; in mezzo ad essi si affaccia la Madre di Dio del Segno, ai cui lati sono visibili i re Davide e Salomone. Immediatamente sotto, le scene centrali del mistero della salvezza, cioè la crocifissione e la resurrezione, e ancora più sotto l’Ultima cena, istituzione dell’Eucarestia, che fanno da coronamento al registro delle feste. Interessante rilevare che le scene delle feste non sono disposte in sequenza cronologica da sinistra a destra, come avviene solitamente nell’iconostasi. Un altro particolare anomalo rispetto alle iconostasi di grandi dimensioni è il terzo registro, dove appaiono gli apostoli. Nel registro più in basso, al centro si aprono le porte regali, con la raffigurazione canonica dei quattro evangelisti e dell’Annunciazione. Ai lati, appare l’ordine della Deesis, mancante di Cristo in trono, in cui sono simmetricamente rappresentati, secondo la consuetudine, la Madre di Dio e Giovanni Battista, gli arcangeli Michele e Gabriele, cui seguono santi diaconi, vescovi e monaci. Curiosamente, in questa teoria mancano gli apostoli Pietro e Paolo, inseriti sopra, nel registro degli apostoli.

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3.

Volto di Cristo Icona russa, fine XVII, inizio XVIII sec. 50 x 39,5

La tradizione bizantina raffigura sempre nel Cristo il vero Dio e il vero uomo: questi due aspetti dell’Incarnazione in Lui si compenetrano misteriosamente e profondamente, esprimendosi diversamente ma costantemente in tutte le epoche e le scuole iconografiche. Nell’opera in esame, purtroppo, il nimbo e il fondo sono andati perduti a causa dei danni del tempo, e quindi iscrizioni e attributi consueti del Pantocratore (cfr. per l’iconografia cat. nn. 66-71) sono scomparsi. Resta però il Volto santo, dai grandi occhi scrutatori, severi e misericordiosi insieme, che caratterizzano sempre l’effigie di Cristo nell’iconografia russa. L’icona in esame appartiene alla scuola pittorica che trova il suo esponente di maggior spicco in Simon Uakov, l’artista moscovita che determinò nel XVII secolo gran parte dello sviluppo dell’icona. La maniera introdotta da Uakov prevede un modellato del volto che supera la tradizionale bidimensionalità caratteristica dell’icona per assumere un rilievo plastico naturalistico. In ogni caso, l’opera in esame mostra un armonioso compenetrarsi tra la maniera più tradizionale, che permane nella pittura delle vesti, dei capelli e della barba, e quella più naturalistica del volto. Ne scaturisce un’effigie solenne e umana insieme, che nell’intento dell’iconografo basta da sola, senza attributi esteriori, a caratterizzare i sembianti del Salvatore.

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4. Occhio onniveggente di Dio Icona russa, inizio XIX sec. 70,7 X 57

L'icona in esame presenta una tipologia piuttosto rara e tardiva, che si distacca dalla tradizione iconografica legata agli eventi storici della Redenzione, per svolgere invece un tema astratto; si tratta della tendenza a creare immagini «mistico-didattiche», quasi trattati teologici per immagini, già condannate dai Concili di Mosca del XVI secolo come elucubrazioni teologiche astratte, senza riscontri nelle Scritture. Queste tipologie tuttavia rimasero in uso fino agli inizi del nostro secolo, come rispondenti a un gusto erudito e sottile, spesso piuttosto cervellotico. Cristo Emmanuele è raffigurato nel disco centrale, che richiama alla patena su cui si depone l'Eucarestia; nei cerchi concentrici intorno a lui vediamo gli astri (il solo, rosso, con lineamenti umani), il firmamento blu (in cui di solito sono raffigurate le stelle); nel cerchio più esterno invece generalmente sono disegnati dei serafini. In altri termini, l'occhio divino, l'intelligenza divina, scruta tutta la volta dell'universo, raggiungendone ogni angolo con il calore del sole vero, l'amore che si sprigiona da Lui, offerto nell'Eucarestia all'umanità. Se si considera la verticale della composizione, si nota in alto la raffigurazione di Dio Padre, sotto di Lui della Vergine, e infine di Cristo: è il simbolo dell'incarnazione, realizzata da Dio nel Figlio attraverso il «fiat» della Madre di Dio. Infine, nei quattro medaglioni rossi agli angoli, sono raffigurati gli evangelisti, che portano agli estremi confini della terra il Verbo divino (simboleggiato dai quattro raggi che si dipartono dall'Emmanuele).

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5.

Salvatore di Smolensk Icona russa, XIX sec. 19,2 x 24,2 Riza in argento datata Mosca 1834

Il modulo iconografico, benché rapportabile ad antichissimi modelli (X secolo), si diffonde solo nel XVI secolo, con la denominazione di Salvatore di Smolensk, che ne collega l'origine alla storia del principato moscovita. Nel 1514, infatti, l'esercito di Mosca riconquistò la città di Smolensk, da più di un secolo in mano ai principi lituani; l'ingresso delle armate nella città avvenne il primo agosto, giorno in cui fin dal XII secolo si celebrava in Russia la festa del Salvatore. In relazione a questa coincidenza, Vasiliij III volle ricordare la presa di Smolensk facendo collocare sulle porte Florovskie del Cremlino di Mosca, un'icona del Salvatore a figura intera, con i santi Sergij di Radonez e Varlaam di Chutyn' prostrati ai suoi piedi. La festa del 1° agosto è dedicata al «Salvatore infinitamente misericordioso», ed è recepita come «la festa della fede nella sconfinata misericordia di Dio, nel fatto che Dio nella sua bontà è incredibilmente vicino all'uomo e pronto a difenderlo in ogni disgrazia e sventura». E all'idea di protezione rimandano anche le immagini sulle porte del Cremlino di Mosca, rispondenti all'usanza viva in Russia fin dall'antichità di esporre immagini sacre sulle porte della città per proteggere chi vi entra e chi ne esce. Pregevole la basma in argento eseguita a Mosca nel 1834.

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6.

Cosmocrator “Salvatore del mondo” Icona russa, XIX sec. 17,5 x 23 Riza in argento datata 1884

Antichissima raffigurazione del Cristo, l'immagine del Pantocrator ha origine in Egitto e in Siria. L'arte bizantina, che ne lascia il più antico esempio nella cupola della chiesa di S. Sofia a Costantinopoli, elabora un tipo iconografico organicamente rispondente alle istanze religiose e all'atmosfera socioculturale dei primi secoli dell'impero cristiano. La raffigurazione del Pantocrator rifletteva l'assenza della religiosità bizantina: adorazione del Dio grande e potente, a cui l'uomo può avvicinarsi solo con paura e trepidazione. Il possente Pantocrator solitamente occupava la cupola della chiesa, e dominava con lo sguardo tutto l'interno. Sotto l'influenza dei maestri di Bisanzio, l'immagine penetrò nell'arte russa intorno al XI secolo. L’icona in esame rappresenta il Cristo Pantocrator a mezzo busto, contrassegnati dal particolare del globo del Mondo tenuto nella sinistra. Pittura raffinata ed efficace, con le velature sfumatissime proprie dei pittori russi della scuola romantica dell’800, caratterizzati dalla grande intensità espressiva e dagli abilissimi mezzi tecnici. La tavola è arricchita da una basma in argento sbalzata e cesellata realizzata da un maestro nel 1884.

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7.

Madre di Dio della Tenerezza Icona russa, XVIII sec. 32,5 x 28,5

L’icona presenta una tipologia abbastanza inconsueta della Madre di Dio, che sopra il consueto maphorion color rosso ciliegia porta un corto velo rosso intenso. È una tipologia che incontriamo fin dal periodo più antico dell’iconografia russa (un bell’esempio ci è offerto da un’icona della Madre di Dio con Bambino, della fine XII-inizio XIII sec., nella cattedrale della Dormizione nel Cremlino di Mosca). La simbologia del velo rosso è un’allusione alla Passione, al sangue versato da Cristo nella sua Passione salvifica. Interessante notare che questa tipologia, per quanto rara, trovò diffusione in tutto il mondo cristiano: non sono rare icone con questo particolare nelle aree della Puglia e della Calabria. Di rosso è vestito anche il Bambino, che ha le gambine scoperte, a sottolineare la sua docilità e prontezza al sacrificio; infine, anche il gesto di tenerezza tra la Madre e il Figlio allude alla compartecipazione di Maria al sacrificio redentivo del Figlio (per l’iconografia della Madre di Dio della Tenerezza cfr. in particolare la Madre di Dio della Tenerezza di Vladimir, cat. n. 49). Molto efficace il volto della Vergine, essenziale ed espressivo lo sguardo dei grandi occhi afflitti.

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8. Trittico con la Madre di Dio e santi Icona russa, XIX sec. 62 x 77 Riza in argento

Il trittico in esame, connotato da una notevole raffinatezza sia nella pittura che nel lavoro di oreficeria, presenta al centro la Madre di Dio con Bambino, e ai lati una serie di santi raccolti in preghiera. Nella sequenza liturgica, le icone mariane occupano un posto privilegiato, come abbiamo già visto nei menologi alle tavv. precedenti. Non si tratta tuttavia solo di un devoto culto, bensì di una costante sottolineatura, all’interno del tempo liturgico, dell’Incarnazione, di cui le icone mariane sono il simbolo per eccellenza. Lo testimonia anche la presenza del Salvatore Acheropita (per l’iconografia cfr. cat. 64), che nel trittico sormonta la raffigurazione centrale. Alcune particolarità iconografiche fanno pensare che l’opera sia da collegarsi a una commissione particolare: la tipologia mariana è infatti abbastanza insolita, la «Madre di Dio Odigitria di uja», legata all’omonima città, in provincia di Smolensk, dove nel 1564 l’effigie fu dipinta per impetrare la grazia che cessasse una terribile epidemia di peste. Rispetto all’Odigitria, questa variante ha un carattere più intimo e familiare: si noti la peculiarità del gesto della Vergine, che tiene un piedino del Bambino, mentre questi, solitamente benedicente, nella destra tiene il rotolo della legge, e con la sinistra si afferra l’altro piedino. Sulle ante laterali, in alto è raffigurata l’Annunciazione, e più sotto schiere di santi in preghiera.

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9.

Santi da invocare in tutte le circostanze della vita Icona russa, XIX sec. 54 x 47

Questo tipo di opere, raffiguranti santi «a cui il Signore ha donato una speciale grazia di guarire le infermità e di portare soccorso in altre necessità» (come dice il titolo), avevano ampia diffusione nell’iconografia del XIX secolo. Al centro dell’icona sono disposte quattro icone mariane, dall’alto a sinistra rispettivamente la Madre di Dio di Kazan’, la Madre di Dio di Fëdor, la Madre di Dio di Tichvin e la Madre di Dio del «Roveto ardente», con l’indicazione delle loro feste e delle grazie da chiedere a ciascuna di esse; ad esempio, leggiamo che alla Vergine del «Roveto ardente» (così denominata in memoria dell’episodio biblico, in cui l’arbusto che bruciava senza consumarsi è simbolo della perenne verginità di Maria), bisogna rivolgersi «per essere preservati da incendi e dalla folgore. 4 settembre»; la Madre di Dio di Fëdor (una variante della «Tenerezza» caratterizzata dalla gambina denudata del Bambino, patrona del casato imperiale dei Romanov), veniva pregata per «scampare i parti difficili. 16 agosto»; la Madre di Dio di Tichvin era particolarmente efficace «per proteggere la salute degli infanti. 26 giugno», e alla Madre di Dio di Kazan’ si ricorreva «per ottenere la vista agli occhi accecati. 8 luglio». Tutt’intorno, secondo lo stesso principio, sono disposte le raffigurazioni di santi, con l’indicazione dei giorni in cui ricorre la loro memoria, e anche delle malattie o di altre calamità nelle quali bisogna rivolgersi all’uno o all’altro di essi per riceverne aiuto. Solo per fare alcuni esempi, nella tradizione popolare si era soliti rivolgersi a Giovanni Battista (il primo da sinistra in alto), per essere guariti dal mal di testa, e a Gurias, Samonas e Abibo, i primi tre del secondo, per liberare dall’infedeltà i coniugi.

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10. Giudizio universale Icona russa, inizio XIX sec. 90 x 73,5

Oltre ai testi dell'Apocalisse di san Giovanni, alla base dell'iconografia del «Giudizio universale» troviamo alcune parabole evangeliche e profezie veterotestamentarie, come pure vite di santi e apocrifi (ad essi si riferiscono le lunghe scritte verticali ai lati della composizione). Al centro della composizione appare la raffigurazione di Cristo Giudice nella gloria, benedicente. Ai suoi lati sono ritti in preghiera la Madre di Dio e Giovanni Battista, i dodici apostoli sono assisi in trono con i libri aperti (Mt 19,28). Più sotto, alla destra e alla sinistra di Cristo, sono raffigurati giusti e peccatori, che si presentano al Giudizio (Mt 25,31-46); al centro vediamo l'Etimazia, il trono preparato per il Giudizio, su cui sono posati la veste di Cristo e il Vangelo aperto, assimilato qui al Libro della Vita di cui parla l'Apocalisse (Ap 5,1-3). Dietro il trono è visibile la croce del Calvario, allusione al sacrificio che dà al Salvatore il diritto di aprire il Libro e giudicare il mondo (Ap 5,9-10). Poco più in basso, a sinistra, nei giardini dell'Eden a cui i giusti stanno accedendo attraverso le porte del paradiso, vegliate da un cherubino (Gen 3,24), sono rappresentati i patriarchi Abramo, Isacco e Giacobbe con le anime dei giusti (il «Seno di Abramo», cfr. Lc 16,22). Nella parte inferiore dell'icona vediamo la raffigurazione dell'inferno. A destra è rappresentato l'Ade con Satana che tiene fra le braccia l'anima di Giuda. Da Satana parte una catena che avvince tutti coloro che entrano tristemente all’inferno, sospinti a sinistra da un demonio. Tra i soggetti che ricorrono solo nell'iconografia russa tardiva, appaiono la raffigurazione del serpente, che dall'inferno striscia fino al trono dell’Etimazia; sulle spire del serpente appaiono cerchi con i nomi delle prove attraverso cui deve passare l'anima umana per purificarsi dei peccati e giungere nel Regno dei cieli. In basso, i vari supplizi a cui sono condannati i peccatori all’inferno.

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11. Giudizio universale Icona russa, XVIII sec. 72,3 x 61

L'icona in esame ripete nelle linee generali lo schema iconografico formatosi nell'arte bizantina nel X-XI sec. (cfr tav. precedente), ma presenta anche una serie di motivi nuovi, legati ai nuovi influssi del gusto occidentale. Un rilievo particolare nella composizione dell'icona occupa la raffigurazione di Cristo giudice, coronato dagli angeli con gli strumenti della Passione, dalle figure oranti della Madre di Dio e di Giovanni, mentre ai suoi piedi si prostrano Adamo ed Eva. Ampiamente rappresentato è anche il Paradiso, secondo lo schema precedentemente già illustrato (in alto a sinistra appaiono anche le dimore dei giusti nella Gerusalemme celeste, rappresentate attraverso il palazzo dorato); al contrario, l’inferno è ridotto alla fiammata rossa nell’angolo destro inferiore. Fra il corteo dei giusti e l’inferno, è visibile il «tiepido», raffigurato come un uomo nudo legati a una colonna, rifiutato sia dall’inferno che dal paradiso. Caratteristica l'illustrazione delle visioni escatologiche del profeta Daniele (Dn 7-8); singoli elementi di tali visioni erano già inseriti nello schema iconografico del Giudizio universale, ma solo dal XVI sec. esse vennero illustrate addirittura integralmente, acquistando il significato di un soggetto autonomo che completava la scena del Giudizio: appaiono le raffigurazioni allegoriche della terra e del mare che restituiscono i loro morti (Ap 20,13), gli angeli che suonano la tromba, annunciando la resurrezione e il Giudizio, e quattro bestie alate, che simboleggiano i regni della terra: Babilonia, la Persia, la Macedonia e il regno dell'Anticristo.

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2. Il tempo dell’attesa La dimensione temporale, iniziata con il peccato originale dei nostri progenitori, fin dal primo istante si carica di straordinaria tensione e drammaticità, peccato e morte, lotta e sofferenza. Per questo la vita quotidiana, storica, viene intesa dall’uomo medioevale come una realtà precaria, ambigua, che non può diventare tema principale dell’icona, un’arte incentrata sulle verità eterne, incorruttibili. Grazie alla redenzione operata da Cristo, il tempo riacquista invece la propria pienezza, e la storia recupera la dignità di oggetto di rappresentazione, in una parabola che conduce il tempo a sfociare di nuovo nell’eternità dopo il Giudizio universale e la resurrezione dai morti. Proprio questo conferisce all’esistenza umana speranza e attesa di salvezza, la identifica come un cammino appassionatamente teso verso l’eternità, vittorioso sul tempo. Così, i santi raffigurati sulle icone non sono fissati in un istante effimero della loro vita, ritratti in un luogo concreto, ma mostrano il loro volto ideale che unisce insieme le sembianze umane dell’esistenza reale nella carne, uno spirito sublime e una carne trasfigurata e incorrotta, in cui si riflette già la vittoria sul tempo e la comunione con l’eterno. In altre parole, l’icona del santo è l’effigie atemporale di un uomo che già partecipa dell’eternità. Carico di questa attesa è in particolare il periodo dell’anno liturgico che prepara al Natale, e in cui il popolo cristiano rivive l’attesa dei giusti dell’Antico Testamento.


12. Madre di Dio «Roveto ardente» Icona russa, inizio del XIX sec. 37,6 x 28,3

Questa iconografia risale al racconto veterotestamentario dell’apparizione di Dio a Mosè nel roveto ardente (Es 3,1-5). Le interpretazioni dei Padri e i testi liturgici vedono in questo soggetto un archetipo dell’incarnazione del Figlio di Dio, e nel roveto ardente uno dei principali simboli veterotestamentari della Madre di Dio. Al centro della composizione appare la raffigurazione a busto della Madre di Dio con il Bambino sul braccio sinistro. Con la destra la Madre di Dio trattiene sul petto la scala e il monte della Gerusalemme celeste, su cui è raffigurato Cristo con la corona regale in testa. Le figure della Madre di Dio e del Bambino sono collocate sullo sfondo di due rombi incrociati, verde e rosso, e di una rosa a otto petali. I rombi verde e rosso formano la «mandorla gloriosa» della Madre di Dio, che genera il Logos divino restando Vergine così come il roveto arde senza consumarsi. Agli angoli del rombo rosso sono rappresentati i quattro esseri dell’Apocalisse, l’angelo, l’aquila, il bue e il leone, simboli degli evangelisti che portano nel mondo la novella di Cristo. Sullo sfondo del rombo verde e della rosa sono raffigurate le «schiere incorporee», angeli, serafini e cherubini, qui raffigurati come «signori degli elementi naturali» (vento, bufera, pioggia, neve, fulmine, calore, grandine, oscurità). Il tema dell’adorazione delle schiere angeliche davanti all’Incarnazione del Figlio di Dio nell’icona del «Roveto ardente» risale probabilmente all’innografia mariana. La festa dell’icona viene celebrata il 4 settembre.

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13. Il profeta Zaccaria Icona russa, Palech, XIX sec. 34,5 x 35

La memoria del profeta Zaccaria, sacerdote del tempio di Gerusalemme, cade insieme a quella di santa Elisabetta il 5 settembre: è la festa della Concezione di Giovanni Battista all’inizio dell’anno liturgico, a indicare l’inizio della Salvezza di cui proprio suo figlio sarà chiamato ad essere l’ultimo profeta e il primo testimone. La strana conformazione della tavola, un tondo, fa pensare che fosse inserita in un’iconostasi, all’interno del registro dei profeti. Nell’iconostasi (per l’iconografia cfr. cat. n. 3), i registri dedicati all’Antico Testamento (patriarchi e profeti) occupavano la zona superiore; seguivano i registri delle feste e della Deesis, in cui la salvezza si dispiegava nelle sue dimensioni storica ed escatologica. Le vesti di Zaccaria sono quelle caratteristiche dei sacerdoti del popolo di Israele, con un gusto decorativo e arcaicizzante molto raffinato che fa pensare alle botteghe di Palech e Mstëra, nel governatorato di Vladimir, che dipingevano nello stile del XVI secolo. Al ruolo profetico di Zaccaria e di Giovanni Battista allude la scritta che il sacerdote mostra con la sinistra, mentre atteggia la destra nel gesto oratorio tipico dell’iconografia: in questo modo, l’icona acquista il carattere di un inno, pronunciato dallo stesso Zaccaria. Si tratta del «Benedictus», di cui sono qui rappresentate le prime parole: «Benedetto il Signore Dio di Israele, che ha benedetto e redento il suo popolo...»: davanti al figlio che gli è nato, e in cui riconosce la presenza misteriosa di Dio, la lingua di Zaccaria si scioglie in un cantico che è tra i vertici poetici e spirituali della Sacra Scrittura.

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14.

Natività della Madre di Dio Icona russa, fine del XVIII sec. Rivestimento in argento, 31,2 x 26,5

L’icona rappresenta una ricca variante iconografica della Natività della Madre di Dio. La parte superiore è dedicata alla tradizionale scena dell’offerta dei doni, che da lungo tempo fungeva da fondamento per tutte le raffigurazioni dedicate a questo tema. Vi appare Anna, adagiata sul giaciglio verso cui generalmente si dirige un gruppo di vergini che offrono doni (coppe e calici) e ventagli, conferendo all’evento raffigurato il carattere di un solenne rituale. Qui invece, l’evento assume un carattere più intimo, lirico, perché alla madre è portata la neonata, mentre il padre Gioacchino fa festa alla tavola imbandita. La parte inferiore dell’icona è occupata da un altro episodio dell’infanzia di Maria: le ancelle fanno il bagno alla neonata – una scena d’obbligo in tutte le raffigurazioni di nascita nell’iconografia ortodossa. Una particolarità dell’icona è certamente la ricchezza di elementi scenografici e decorativi, ben visibili anche nel rivestimento in argento che ricopre quasi interamente la pittura, lasciando vedere solo i volti. L’artista non tenta di fondere tutti gli episodi del ciclo in una composizione unitaria, ma introduce una ripartizione dell’icona su più registri, che consentono alla scena principale della presentazione della neonata di assumere una posizione dominante. Nella strutturazione della composizione un ruolo particolare è affidato agli sfondi architettonici, le cui forme ricordano delle quinte teatrali e rimandano a motivi architettonici occidentali. In secondo piano, appare l’«antefatto», cioè le scene della preghiera dei due genitori sterili e della Concezione della Madre di Dio, narrate in uno degli apocrifi più famosi, il Protoevangelo di Giacomo.

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15. Esaltazione della croce Icona russa, fine del XVIII sec. Jaroslavl’ 88 x 68

La conformazione della tavola, un medaglione ovale inserito in una cornice di legno intagliato, denota che essa doveva essere incastonata in un’iconostasi, certamente all’interno del registro delle feste. La festa liturgica, che la Chiesa celebra il 14 settembre, ricorda il ritrovamento della preziosa reliquia della croce di Cristo da parte della regina Elena, madre dell’imperatore Costantino, qui raffigurata a sinistra, insieme alle sue ancelle, davanti al seggio a lei riservato nella chiesa. Al centro dell’ambone, la croce è sostenuta da due ecclesiastici (la scritta identifica il personaggio di sinistra come il patriarca Massimo); sono inoltre visibili due diaconi, uno dei quali assiste il vescovo e l’altro davanti a loro intona un inno di lode, mentre il popolo si assiepa a venerare la reliquia. L’icona riproduce quindi la celebrazione liturgica cui i fedeli assistevano annualmente, accomunandovi coloro che l’avevano istituita e dilatandola nello spazio storico. L’effetto di azione sacra che vediamo nella raffigurazione è accresciuto dallo sfondo, che ricorda delle quinte teatrali. Sebbene la resa dei volti e delle figure sia pienamente tradizionale, l’icona denota la presenza di notevoli influssi occidentali, ad esempio nella scelta di non riprodurre l’interno di un tipica chiesa orientale, con l’iconostasi e le porte regali, come solitamente avviene in icone di questa tipologia.

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16. Sette dormienti di Efeso Icona russa, fine del XVIII sec. Russia meridionale 31,2 x 27,3

L'icona in esame presenta un soggetto piuttosto raro: la scena descrive la vicenda di sette fanciulli (Massimiliano, Martiniano, Imablichio, Dionigi, Antonino, Giovanni, Esacustodiano), che secondo la tradizione rifiutarono una brillante carriera per abbracciare il cristianesimo, e per sfuggire alle persecuzioni di Decio si nascosero in una grotta. Esausti dal lungo digiuno si assopirono. Venuto a conoscenza del loro nascondiglio, Decio ordinò di murare la caverna, ma essi sopravvissero prodigiosamente dormendo per 178 anni, e destandosi solo durante il regno di Teodosio il Grande. Nel frattempo molte cose erano mutate, la Chiesa cristiana aveva trionfato, e la loro comparsa in vesti antiche, e le loro testimonianze dell'epoca del martirio commossero e convertirono molti cuori. Quando essi ebbero reso gloria a Dio con il loro racconto e la loro testimonianza si addormentarono nella morte. La loro memoria si celebra il 4 agosto. L'icona è dipinta secondo la prospettiva caratteristica dell’icona, in cui la realtà viene presentata secondo molteplici punti di vista: infatti è visibile sia l'esterno che l'interno della montagna, e dai cieli aperti si affaccia benedicente Dio Sabaoth. All'occhio divino infatti la realtà è visibile nella sua interezza, e all'occhio dei credenti che si immedesimano in Lui è già in qualche modo possibile, attraverso la fede, questa stessa visione. I fanciulli sembrano quasi levitare nell'aria, a significare che non sono abbandonati nelle viscere della terra, ma costantemente sostenuti e protetti dalla mano di Dio, che ne permette il prodigioso sonno a maggior gloria del suo nome. La memoria dei sette martiri viene celebrata il 22 ottobre. Sui bordi appaiono i santi patroni dei committenti: da sinistra in alto, l’angelo custode e san Pantelemone; in basso, l’imperatore Costantino e la principessa Olga.

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17. Madre di Dio «Gioia di tutti gli afflitti» Icona russa, XIX sec. Mosca 100,2 x 56,5

L'icona in esame presenta una tipologia venerata in Russia a partire dal XVII secolo: le prime notizie risalgono al 1648, quando un'icona della Madre di Dio «gioia di tutti gli afflitti» operò miracolosamente la guarigione di un'inferma: da quel momento le fu dedicata una festa, il 24 ottobre, e la chiesa della Trasfigurazione a Mosca, dove era collocata, divenne meta di pellegrinaggi. Intorno al 1760 lo zar Pietro il Grande fece portare l'icona miracolosa da Mosca nella nuova capitale, Pietroburgo, dove fu venerata nella cappella privata della famiglia imperiale; volle inoltre che una copia dell'icona lo accompagnasse nella guerra contro i turchi. In questo tipo iconografico la Madre di Dio rivestita di abiti regali si rivela propiziatrice dell'umanità presso il Salvatore; la Vergine tiene tra le braccia il Figlio e insieme lo indica all'umanità raffigurata nei gruppi di santi e di bisognosi che le si stringono attorno. Il colloquio tra la Madre di Dio e gli uomini è rappresentato attraverso gli sguardi e i gesti di supplica rivolti alla Madre di Dio dai santi in preghiera, ciascun gruppo dei quali porge la sua richiesta e presenta la sua necessità invocando la Vergine come soccorso nella tribolazione. Verso gli oranti sono rivolti gli angeli, «messaggeri» della misericordia della Madre di Dio, che li confortano e ricoprono gli ignudi con un mantello. I segni tangibili della misericordia divina sono rappresentati dai fulgenti raggi dorati che emanano dalla figura della Vergine. I santi fanno corona attorno alla Madre di Dio, imprimendo alla raffigurazione un senso di luminosità e indicando la meta della salvezza da essi già raggiunta. L’opera è in ottime condizioni di conservazione, denota una buona bottega legata probabilmente all’ambiente moscovita e un fedele attaccamento alle tradizioni iconografiche più antiche. Nel riquadro ai piedi della Vergine è leggibile il kondakion della festa, che recita: «O Madre di Dio da tutti celebrata, che hai generato il Verbo più santo di tutti i santi, accetta la nostra offerta e salvaci da ogni assalto del maligno, allevia le sofferenze di coloro che a te cantano Alleluia».

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18. Madre di Dio «Gioia di tutti gli afflitti» Icona russa, fine del XVIII sec. datata (1793) Rivestimento in argento, 34,2 x 30

L’icona riprende fondamentalmente gli elementi iconografici della precedente, a cui rimandiamo il lettore per l’iconografia. Si differenzia tuttavia da essa in alcuni importanti elementi: sopra la Vergine appare la Trinità del Nuovo Testamento (per l’iconografia, cfr. cat. n. 44), dove la colomba dello Spirito Santo appare nel medaglione in argento fra le altre due ipostasi trinitarie, il Padre e il Figlio. Si moltiplicano inoltre i cartigli, porti dai bisognosi e offerti in risposta ad essi, a nome della Vergine, dagli stessi angeli. Si dispiega così, all’interno dell’icona, il dialogo orante tra i fedeli e i santi che li assistono. L’elemento più interessante è dato tuttavia dal fatto che gli stessi bisognosi nell’icona sono sostituiti dai loro santi patroni, che intercedono per loro: la Vergine infatti non è circondata, come nell’icona precedente, da folle di derelitti, ma da una schiera di santi, ciascuno con il nimbo che porta inciso il suo nome. Ai santi si aggiungono, sulla cornice, anche quattro santi che erano evidentemente i santi patroni dei committenti: a sinistra dall’alto san Basilio di Mosca e un altro «folle per Cristo», il cui nome è purtroppo illeggibile; a destra, Giovanni Crisostomo e santa Matrona. Molto raffinato il rivestimento metallico in argento, che lascia interamente scoperte le figure dei santi, mentre riveste quelle della Vergine con Bambino, ad indicarle come il centro focale della venerazione.

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19. Madre di Dio con Bambino e santi Icona russa, XIX sec. 22,5 x 26,7

Quest’opera, di formato insolito rispetto alle icone, costituisce una sorta di polittico in miniatura, probabilmente destinato alla venerazione domestica e comprendente i santi patroni dei proprietari o dei donatori. L’icona è elegantemente suddivisa in tre parti da arcatelle, il fondo è dorato e inciso, decorato sui bordi alla «maniera veneziana» a imitazione degli smalti policromi che decoravano generalmente i rivestimenti metallici. Al centro dell’arcata centrale, coronata da due angeli, è la Madre di Dio Odigitria con Bambino, ai cui lati appaiono Giovanni evangelista e Giovanni Battista; nell’ordine inferiore, sono raffigurati quattro monaci, padri del monachesimo cristiano: da sinistra, Antonio, Eutemio, Onofrio (eremita all’Athos) e Saba. Nelle due arcatelle laterali, in alto, da sinistra i vescovi Spiridone e Nicola, e in basso i due martiri-guerrieri Giorgio e Demetrio. Alla base dell’icona leggiamo alcune scritte. A sinistra e a destra sono riportate due preghiere, rispettivamente un Tropario («Consola l’anima mia che geme e sospira e liberala da ogni male…») e un Kondakion («Agli increduli la Sovrana Madre di Dio giunse in soccorso con la sua intercessione…»). Al centro la scritta ha invece un carattere esplicativo: «Raffigurazione della santa icona taumaturgica della santissima Madre di Dio detta “Consolazione di quanti sono nel dolore e nell’afflizione”, che si trova nell’eremo dell’apostolo Andrea».

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20. Arcangelo Gabriele Icona russa, fine del XVII sec. 72,5 x 37

Come la precedente, anche quest’icona proveniva da una chiesa, probabilmente di una certa importanza, viste le dimensioni e la raffinatezza della fattura. Nelle vesti di Gabriele, specularmente a Michele, predomina il rosso, mentre il manto è blu cupo: Michele indossa invece una tunica blu e un manto rosso. Il colore festoso di Gabriele allude all’Incarnazione, di cui l’arcangelo secondo la tradizione fu testimone fin dai suoi inizi, portando l’annuncio a Maria. La Chiesa orientale infatti, oltre che l’8 novembre, lo festeggia anche il 26 marzo, il giorno successivo alla solennità dell’Annunciazione. La ricchezza delle vesti dell’arcangelo rimanda anche al cerimoniale della corte imperiale, dove i dignitari portavano delle dalmatiche analoghe, con preziose bordure ricamate con oro e pietre preziose. La Deesis assume così la valenza di solenne processione della corte imperiale, che incede per rendere gloria e lode al Sovrano celeste, al Re dei re. La liturgia nasce infatti mutuando molti elementi al cerimoniale di corte, così come l’iconografia cristiana prende modelli delle tradizioni precedenti trasfigurandoli secondo la novità radicale di contenuto che porta. Particolari attributi angelici sono gli scettri e le spere, che gli arcangeli hanno in mano e che formano insieme il monogramma di Cristo, «IC XC». Secondo la tradizione, anche questi attributi servono agli arcangeli per svolgere la loro missione, muoversi nell’universo e scrutare ciò che vi avviene.

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21. Natività di san Nicola Icona russa, inizio del XVIII sec. 31 x 27

La raffigurazione di san Nicola di Myra nell'arte russa medioevale ebbe una diffusione senza paragoni, rispetto a ogni altro paese del mondo cristiano. Nicola è infatti, probabilmente, il santo più amato e venerato dal popolo russo, e le sue raffigurazioni erano presenti ovunque, nelle cattedrali e nelle chiese principali come nelle case più umili e addirittura nelle stalle. Questo determinò una molteplicità di tipologie iconografiche, molte delle quali erano sconosciute all'arte di Bisanzio. Insieme a Giovanni Battista (cfr. cat. nn. 51-53), Nicola è l’unico santo a cui venga dedicata - come composizione autonoma - un’icona dedicata alla sua Natività. La composizione è costruita secondo la tipologia usata anche per la Natività della Madre di Dio (cfr. cat. n. 14): al centro è rappresentata sua madre, che accoglie i doni tradizionalmente recati alle partorienti; accanto a lei, seduto su un variopinto scranno, il padre del bambino, e ai piedi del letto materno, la scena del bagno del neonato, nel cui nimbo si legge distintamente il nome di Nicola. L’icona, lascia vedere il fondo originario di gesso, levkas, è probabilmente legata ad una commissione particolare, forse a una nascita o a una grazia ricevuta. Generalmente, infatti, il santo è raffigurato secondo l’iconografia delle tavole seguenti, e la scena della Natività appare all’interno dei cicli agiografici che si susseguono sulla cornice.

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22. San Nicola Icona russa, Palech, XIX sec. 48,5 x 38,5

San Nicola per la spiritualità russa rappresenta l'«alter Christus», il santo che ripercorre sulle orme del Salvatore la terra russa per recare consolazione e salvezza a quanti lo invocano: nella sua fisionomia si ravvisano i tratti propri del santo che nel suo amore a Cristo si fa prepodobnyj (cioè molto somigliante) all'immagine che Dio ha di lui. È proprio a partire dalla fiamma della carità in nome di Cristo che nasce la grande venerazione del popolo russo per il santo: la tradizione popolare lo voleva infatti eternamente pellegrino sulla terra per porgere il proprio aiuto nelle necessità grandi e piccole di ogni giorno, dalle malattie ai pericoli dei viaggi per mare e per terra e così via. Alla misericordia allude anche la pagina del Vangelo che tradizionalmente Nicola ci mostra e quindi – nel linguaggio dell’icona – ci legge e ci testimonia: è l’inizio del discorso delle Beatitudini: «In quel tempo, Gesù si fermò in un luogo pianeggiante. C’era gran folla di suoi discepoli e gran moltitudine di gente da tutta la Giudea...» (Lc 6,17). L'altra virtù per cui l'Oriente venera san Nicola è lo zelo nella difesa della vera fede, cui alludono le raffigurazioni della Vergine e di Cristo che porgono a Nicola il Vangelo e l'omophorion: esse ci ricordano infatti il miracolo di Nicea (325), quando Nicola, imprigionato per aver schiaffeggiato l'eretico Ario, ricevette in carcere l'apparizione celeste che gli restituiva la dignità episcopale.

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23. San Nicola Icona russa, XIX sec. Rivestimento in argento, San Pietroburgo 1836, 31,7 x 26,7

L’icona in esame era certamente destinata alla devozione personale, alla preghiera domestica: l’icona infatti è quasi interamente ricoperta da una preziosa riza (rivestimento) d’argento, arricchito da pietre dure, smalti, e perline e filigrane che imitano il prezioso tessuto dei paramenti sacri. Si noti la stola decorata di croci che Nicola porta sulle spalle, e che si chiama omophorion: è l’insegna episcopale della Chiesa d’Oriente. L’iconografia è quella tradizionale, riprende la tavola precedente con alcune varianti: Cristo e la Vergine sono raffigurati a busto e il Vangelo è chiuso. Come abbiamo detto, san Nicola (detto «il Taumaturgo» per il numero straordinario dei suoi miracoli), è tra i santi più amati e venerati in Russia. Secondo la tradizione nacque a Patara verso il 280. Eletto vescovo di Myra, in Licia, morì nel 342. Nel 1087 le sue spoglie vennero traslate a Bari, dove si trovano attualmente. L'icona in esame spicca per l'individualità della resa espressiva; vi si avverte un'eco dello stile di epoche precedenti, in particolare dell'arte ufficiale della Mosca imperiale della metà-fine del XVI secolo (epoca di Ivan il Terribile). In particolare, si noti il volto ascetico, solcato da rughe scavate dai digiuni, dalle penitenze e dalle veglie in preghiera, che tuttavia si risolvono in luce. In Russia Nicola viene celebrato il 9 maggio e il 6 dicembre.

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24. San Nicola con scene della vita (Velikoreckij) Icona russa, fine del XVIII sec. Basma con smalti policromi, 31,4 x 26,2

Questa caratteristica raffigurazione di Nicola (abbastanza rara), in cui le scene agiografiche laterali assumono un rilevo considerevole rispetto alla rappresentazione centrale, prende il nome di «Velikoreckij» dalla località in cui venne ritrovata un’icona taumaturgica di questa tipologia. L’opera in esame è caratterizzata da una gamma cromatica festosa, in cui predominano i rossi, e da un notevole gusto decorativo, visibile nella ricercatezza con cui sono dipinti gli sfondi (edifici architettonici e paesaggi naturali). La cornice a basma decorata con smalti policromi e il fondo metallico della raffigurazione centrale conferiscono ulteriore luminosità alla composizione d’insieme, sottolineandone la santità e l’energia taumaturgica. Le scene si susseguono dall’alto a sinistra: la nascita, il battesimo, la guarigione di una donna ammalata (sebbene il miracolo fosse stato compiuto dal santo giovinetto, qui è già raffigurato nelle vesti del vescovo), e l’introduzione agli studi; seguono, sui bordi laterali, la consacrazione episcopale e la predicazione; si vedono poi due miracoli, la sua apparizione in sogno all’imperatore Costantino e la liberazione di tre innocenti ingiustamente gettati in carcere; sul bordo inferiore, da sinistra le scene del miracolo del fanciullo salvato dalle acque (un miracolo che conosciamo solo nelle icone russe)del miracolo della restituzione ad Agrico del figlioletto Basilio, rapito dai saraceni, il trapasso e infine la traslazione delle reliquie del santo a Bari.

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25. San Nicola di Mo ajsk, con scene della vita Icona russa, XVIII sec. 61,5 x 55

La tipologia figurativa di san Nicola che vediamo qui, oltre a riprendere nella raffigurazione centrale la tipologia delle icone precedenti (cfr. le figure di Cristo e della Madre di Dio ai lati del santo vescovo), caratterizza il personaggio principale come difensore: nella sinistra egli sorregge infatti un Cremlino, simbolo della città che lo invoca, e nella destra impugna la spada. Secondo la leggenda, Nicola sarebbe apparso in queste sembianze sopra la cattedrale della città di Mo ajsk, non lontano da Mosca, durante un assedio dei tatari, e questa sua apparizione li mise in fuga terrorizzati, salvando così la città e i suoi abitanti. Questa tipologia, tra l’altro, veniva anche raffigurata a rilievo, scolpita in legno (caso rarissimo, perché la tradizione cristiana orientale in genere rifiuta la statuaria, come troppo naturalistica e vicina all’idolo): in generale veniva collocata sulle porte delle città o agli incroci, a indicare la protezione del santo, ed era particolarmente diffusa nelle regioni nordiche della Russia. Le scene laterali riportano tre episodi dell’infanzia (nascita, battesimo e introduzione agli studi), cui segue il miracolo delle tre fanciulle che Nicola salva dal disonore consegnando al padre una dote; di seguito, la sua consacrazione episcopale e la sua presenza al Concilio di Nicea; si vedono poi due miracoli, la sua apparizione in sogno all’imperatore Costantino e la liberazione di tre innocenti ingiustamente gettati in carcere; sul bordo inferiore, da sinistra la scena del suo trapasso, il miracolo compiuto restituendo ad Agrico il figlioletto Basilio, salvato dalle mani dei saraceni, la salvezza di un uomo ingiustamente condannato a morte, e infine la traslazione delle reliquie del santo a Bari. Il carattere patronale dell’effigie viene sottolineato dalla presenza di sei santi sulla cornice, certamente i protettori della famiglia che aveva commissionato o ricevuto in dono l’icona.

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26. Profeta Icona russa, XVII sec. 110 x 46

Il tempo dell’Avvento è, nella tradizione della Chiesa orientale, il tempo dell’Antico Testamento, della preparazione al compiersi della salvezza, che si celebra nel Natale. Purtroppo, le lacune nelle iscrizioni rendono difficile identificare il personaggio qui raffigurato, che certamente doveva appartenere al registro dei profeti di un’iconostasi: il volto pieno di dignità e di dolcezza, i lunghi capelli e la barba fluente, il rotolo svolto nelle mani, la tunica e il mantello gettato su una spalla sono tutti attributi caratteristici dell’ordine di santità cui appartiene il personaggio in questione. In genere, profeti e patriarchi dell’Antico Testamento, che all’interno dell’iconostasi occupano i registri più in alto, si rivolgono in preghiera alla Madre di Dio del Segno, collocata centralmente (cfr. cat. n. 3): questa raffigurazione, infatti, oltre ad alludere alla profezia di Isaia testimonia anche il compiersi dell’attesa del popolo eletto, l’Incarnazione del Verbo divino. Inoltre, vicino a questa raffigurazione mariana appariva generalmente il re Davide, dalla cui stirpe nacque il Salvatore.

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27. Natale Icona russa, Mosca, inizio XIX sec. 90,5 x 70,5

In quest’icona, dipinta in maniera molto poetica e delicata, si dispiegano numerosi episodi del tempo natalizio. L’impianto compositivo è un po’ diverso rispetto alla tipologia tradizionale della Natività, in cui la Vergine è adagiata su un giaciglio rosso, un po’ in disparte rispetto al Figlio; qui è messa in risalto soprattutto l’Adorazione dei Magi, raffigurati sia nell’angolo superiore sinistro, in viaggio verso Betlemme, sia inginocchiati davanti alla grotta. La Vergine, seduta accanto al Bambino, ripete il gesto dell’Odigitria, cioè si fa guida ai Gentili verso il Salvatore. La grotta mantiene la sua posizione centrale nella composizione, secondo la tradizione; la mangiatoia a forma di sarcofago e le bende bianche in cui è avvolto il Bambino alludono alla sua futura sepoltura, ma l’insolito particolare dell’erba verde su cui è adagiato simboleggia l’immortalità. Nell’icona, come nella tradizione bizantina, il Natale ha una sfumatura drammatica, ci mostra l’inizio della nuova Vita apparsa nel mondo con Gesù, senza fare mistero della croce attraverso cui essa si affermerà. A questo contribuiscono anche i due episodi rappresentati in basso, che vedono come protagonista Giuseppe. Egli, seduto in disparte a significare la sua estraneità carnale alla nascita del Bambino, di cui Dio l’ha chiamato ad essere tutore, assume un ruolo centrale nei due episodi sottostanti, in cui l’angelo gli riferisce il pericolo che corre a causa dell’odio di Erode, e in cui si mette in viaggio verso l’Egitto.

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28. Battesimo di Cristo Icona russa, fine del XVIII sec. 86 x 47

Il Battesimo di Cristo, celebrato dalla Chiesa d’Oriente il 6 gennaio, segna la manifestazione di Cristo come l’Inviato del Padre: è il tema centrale dell’icona qui riprodotta, eseguita con notevole perizia tecnica, che vede la venerazione dell’universo intero confluire sul personaggio centrale raffigurato. L’icona mette in particolare risalto la nube luminosa da cui si affaccia Dio Padre, che dai cieli fa sentire la sua voce (il raggio tripartito che fuoriesce dalla sua bocca) e invia su Cristo la colomba dello Spirito. Il genere umano e le schiere angeliche si chinano riverenti sul Salvatore; si noti che mentre gli angeli, secondo la tradizione, hanno le mani velate in segno di venerazione per Cristo, la creatura umana (impersonata da Giovanni Battista), tocca con mano la persona di Gesù, che si unisce interamente ad essa prendendo un corpo umano. Da ultimo, al tripudio e alla venerazione partecipa anche la natura: colline e alberi si inchinano anch’essi con venerazione verso il centro della composizione. Le acque del Giordano sono rese in maniera naturalistica, senza gli elementi simbolici che vi sono solitamente presenti. Nella solennità del Battesimo (detto nella liturgia orientale «santa Illuminazione»), si commemorano anche gli episodi dell’Adorazione dei magi e delle Nozze di Cana, che svolgono il medesimo tema della manifestazione al mondo del Salvatore.

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29. Vescovo Nikita di Novgorod Icona russa, Novgorod, fine del XVII sec. 86 x 47

Vissuto tra la seconda metà dell’XI secolo e gli inizi del XII (secondo la tradizione morì nel 1109), Nikita nacque a Kiev ed entrò come monaco nella Lavra delle Grotte, il primo monastero sorto nella Rus’ all’indomani del suo Battesimo. Nel 1096 fu eletto vescovo a Novgorod, dove operò numerosi prodigi, salvando tra l’altro la città dalla siccità e da un incendio. Una peculiarità iconografica che consente facilmente di distinguere la sua raffigurazione è il fatto che Nikita è sempre rappresentato senza barba, contrariamente al canone ortodosso secondo il quale ogni presbitero (tanto più se si tratta di un vescovo) deve essere raffigurato con i capelli lunghi e la barba. In effetti, Nikita in vita era imberbe, e si narra che, quando dopo la canonizzazione fu dipinta la sua prima icona, dove appariva con la barba, il santo apparisse in sogno all’iconografo chiedendogli di modificare la sua raffigurazione, o che addirittura l’icona si trasformasse miracolosamente, rispecchiando i suoi sembianti terreni. L’icona è dipinta secondo una tecnica raffinata, con grande gusto decorativo, una tavolozza smorzata e una certa stilizzazione arcaicizzante, che contraddistingue la maniera dei centri iconografici delle terre settentrionali: potrebbe essere un’opera della provincia settentrionale di Novgorod.

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30. San Marone eremita Icona russa, Palech, inizio del XIX sec. 40 x 33,2

L’icona qui riprodotta è certamente legata ad una commissione particolare, raffigura il santo patrono del committente, che accoglie la benedizione divina dall’alto e si fa a sua volta portatore di tale benedizione presso i fedeli. Il rotolo che porta in mano è appunto un’esortazione al bene e alla devozione. Il santo eremita Marone, commemorato dalla Chiesa d’Oriente il 14 febbraio, visse in Siria nel IV secolo. Si ritirò su un monte (qui raffigurato con grande raffinatezza sotto i suoi piedi), nella regione siriaca di Apamea, dove si trovava un tempio pagano da lui riconsacrato al Dio cristiano. La fama dei miracoli da lui compiuti si diffuse attirando al suo eremo persone da regioni remote; i suoi poteri taumaturgici lo mettevano in grado di risanare sia i corpi, sia anche, e soprattutto, le anime. Morì intorno al 1410. È considerato il padre del monachesimo siriaco, e questo fa pensare che l’icona fosse stata dipinta per un ecclesiastico, un monaco probabilmente, che venerava Marone come patrono proprio e della propria comunità. L’abbigliamento del santo è quello tipico dei monaci: il saio, lo scapolare (in greco schima), e il manto; abbastanza insolito, tuttavia, il colore rosso delle sue vesti.

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3. Il ciclo Pasquale La festa liturgica non è semplicemente una commemorazione dell’evento, ma lo rivive realmente, rendendolo nuovamente presente. La liturgia del giorno, comprendente testi evangelici, sermoni, inni, preghiere e riti, è volta a introdurre i fedeli nell’atmosfera della festa, a renderli reali testimoni e spettatori dell’evento, partecipi di ciò che accade. Le icone delle feste non si limitano a commemorare i singoli avvenimenti, ma rendono presenti fatti avvenuti sulla terra secoli prima, ma che si rinnovano continuamente; il tempo si trasforma quindi in un istante che si prolunga in eterno, fissato nel momento culminante che tramanda eternamente la propria intensa e drammatica esperienza. L’icona è un punto di intersezione fra il tempo, l’effimero e l’eterno: questo appare con particolare evidenza nel ciclo pasquale, che costituisce il momento culminante dell’anno liturgico. La luce della Pasqua illumina e vivifica ogni cosa.


31. Il patriarca Giuseppe Icona russa, XVIII sec. 68 x 40,2

Il personaggio qui raffigurato, è purtroppo mancante della scritta con il suo nome (il fondo è interamente abraso, e lascia vedere la base di gesso). Anche il testo del cartiglio è difficilmente decifrabile. Tuttavia, l’iconografia e la fisionomia del personaggio consentono di propendere per il biblico Giuseppe, uno dei dodici figli di Giacobbe, venduto dai fratelli e condotto schiavo in Egitto, e successivamente artefice della liberazione del suo popolo. L’icona, dalla curiosa ed elaborata terminazione a forma cuspidale, apparteneva certamente all’ordine dei patriarchi di un’iconostasi. La Chiesa d’Oriente celebra la memoria del patriarca Giuseppe il Lunedì santo, proponendolo alla venerazione dei fedeli come uno degli archetipi della Salvezza: imprigionato nella cisterna come il Salvatore fu nelle viscere della terra, abbandonato come Lui in balia della crudeltà umana, Giuseppe diviene il liberatore, il principio della salvezza per il suo popolo e i suoi fratelli, che perdona incondizionatamente. All’inizio del cammino verso il Calvario, la Chiesa conforta i fedeli proponendo loro una serie di figure bibliche, tra cui appunto Giuseppe, che prefigurano il compiersi della salvezza proprio attraverso la via della sofferenza.

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32. «Figlio unigenito» Icona russa, XVIII sec. 44 x 37

L’icona, una complessa composizione allegorica, illustra un inno liturgico attribuito a Giuseppe di Arimatea e a Nicodemo, che la Chiesa canta prima del «Piccolo ingresso» in cui viene portato in processione il Vangelo, e che simboleggia la venuta di Cristo nel mondo. Viene cantato inoltre durante il Mattutino del Sabato santo, e proprio a questa funzione allude la raffigurazione di Cristo nel sepolcro, e la sua glorificazione all’interno della mandorla sorretta dagli angeli: «Non piangere su di Me, Madre, vedendomi nel sepolcro, perché il terzo giorno risorgerò». Cristo giovinetto nella gloria generalmente ostende il cartiglio con le parole di Isaia sul giudice giusto della casa di Davide (Is 11,1-2,4,5,11). Dio Padre e la Trinità coronano la sua mandorla gloriosa, che diventa simile a un solenne stemma. Gli edifici agli angoli superiori sono rispettivamente la Chiesa dell’Antico e del Nuovo Testamento, l’una affiancata dal simbolo del sole e l’altra della luna, che vive di luce riflessa e si ritira all’apparire dell’astro sovrano. In basso a destra è raffigurata la morte, che avanza a cavallo di una mostruosa fiera su una strada disseminata di cadaveri. A sinistra appare Cristo crocifisso, e più sotto Cristo in vesti di guerriero che snuda la spada, assiso sulla croce come su un trono: calpestando l’Ade con la croce, mette in fuga i demoni.

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33. Ingresso in Gerusalemme Icona russa, XIX sec. 26,5 x 31

La festa che ricorda l’ingresso di Cristo a Gerusalemme è di origine gerosolimitana. Già nel IV secolo la si celebrava con un corteo che dall’Eleona, sul monte Oliveto, proseguiva sino al Calvario, guidato dal vescovo in groppa a un’asinella. Il rito della processione della Domenica delle Palme si è conservato, in Occidente come in Oriente. La ricorrenza è dedicata alla solenne entrata di Gesù in Gerusalemme: come riferiscono i quattro Vangeli Gesù, nell'approssimarsi della Pasqua, sale a Gerusalemme cavalcando un'asina; lo accompagnano i discepoli, ai quali egli ha predetto ciò che i capi stanno tramando contro di lui. Una folla osannante gli viene incontro, acclamandolo come il Messia, figlio di Davide, fra l'indignazione dei Farisei. Lungo il percorso Gesù piange sulla città; quindi entra nel tempio, prendendone simbolicamente possesso. Dalla raffigurazione iconografica dell’Ingresso a Gerusalemme traspaiono i significati che la liturgia attribuisce all’evento. La celebrazione è dominata da accenni di esultanza e di trionfo. Il modulo iconografico riprende nelle sue linee essenziali gli schemi dell’arte bizantina, con la ben definita disposizione dei gruppi principali: i discepoli sullo sfondo della montagna e i gerosolimitani davanti alla città. Nelle immagini russe, dalla figura di Cristo traspira una maestosa regalità, che si impone con forza ancor maggiore perché scevra di manifestazioni convenzionali, emana dalla figura stessa, dalla posa, dall’espressione e dall’atteggiamento. Una componente si inserisce nella fascia centrale, dominata da Cristo: sono i fanciulli (in questo caso uno solo raffigurato) che stendono i mantelli sotto all’asina. La presenza dei fanciulli trova riscontro anche nella liturgia della festa, che ne fa un motivo dominante, caricandolo di un pregnante significato: nell’incontro di Gesù il popolo di Gerusalemme si vede la sintesi del mistero e della contraddizione d’Israele.

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34. Crocifissione Icona russa, inizio del XIX sec. Croce in bronzo, 53 x 41,8

La tavola a fianco proviene probabilmente dagli ambienti dei vecchi credenti, una vasta ala della Chiesa ortodossa russa distaccatasi dalla Chiesa ufficiale a metà del XVII secolo in seguito alle riforme liturgiche del patriarca Nikon, e caratterizzata da una fede intrepida nonostante persecuzioni cui fu sottoposta dal braccio secolare. In particolare, tra i vecchi credenti erano molto venerate gli oggetti d’arte sacra realizzati con il procedimento della fusione, perché alludevano al fuoco purificatore. Era in uso incastonare croci di questo tipo, in bronzo, all’interno di icone dipinte, che fungevano come da reliquiari. L’opera raffigura in questo caso il Calvario con Gesù crocifisso e ai suoi lati la Madre di Dio e san Giovanni, le figure di Maria e Marta e del centurione Longino. In alto, in piccolo, le scene della Deposizione dalla croce e del Compianto funebre completano il ciclo della morte del Salvatore. La croce metallica, a sua volta, è una sorta di «icone nell’icona»: sopra la traversa superiore appaiono il Mandylion (per l’iconografia, cfr. cat. n. 64), e due angeli prostrati in adorazione, con le mani velate; sopra la testa di Cristo è inchiodata la tavoletta fatta affiggere da Pilato, che riporta però le iniziali di Gesù Cristo, invece delle tradizionali parole «Gesù il Nazareno, il Re dei Giudei» (Gv 19,19). Ai lati della traversa cui sono inchiodate le braccia appaiono il sole e la luna, e immediatamente sotto sono incise le parole del tropario della Croce: «Alla tua croce ci inchiniamo, Signore, e adoriamo la tua resurrezione». La traversa inferiore su cui sono inchiodati i piedi di Cristo è inclinata, secondo la tradizione russa, a significare la curva del dolore di Cristo. La croce è piantata sul Golgota, simbolicamente raffigurato come una grotta rocciosa in cui è visibile il cranio di Adamo, che riassume in sé il male e la morte dell’umanità. Sullo sfondo della croce, appare la città di Gerusalemme, simbolo della Chiesa e dell’umanità redente.

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35. Trittico con Crocifissione e santi Icona russa, XIX sec. 35,5 x 48,2

L’opera presenta al centro un crocifisso in bronzo, inserito in una tavola di legno, con santi in preghiera. Si tratta certamente di un’opera devozionale, forse appartenente a una famiglia di vecchi credenti russi, in cui la croce, che doveva avere un particolare valore sacro, è circondata dai patroni dei membri della famiglia, in sostituzione dei personaggi tradizionali raffigurati ai piedi della croce. Sul pannello centrale, da sinistra san Nicola e il guerriero-martire Teodoro Stratilate; sul pannello sinistro, Bonifacio, Matriona, Anania e Marone; a destra l’evangelista Matteo, san Giovanni Damasceno e Parasceve.

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36. Discesa agli inferi Icona russa, fine del XVII sec. 30 x 26,5

La Resurrezione è la festa verso cui l’intero tempo liturgico converge, è la chiave di volta per comprendere sia l'iconografia orientale, sia la sua spiritualità. Fonti dell'icona sono, oltre ai Vangeli sinottici, anche i racconti apocrifi e i testi liturgici e patristici. In particolare, la tradizione figurativa dell’evento caratteristica dell'Oriente cristiano è quella di fissare l'istante in cui Cristo, dopo la morte in croce e la sepoltura, scende negli inferi, trionfando sulla morte e sulle forze infernali. Nella variante più sintetica della composizione la Pasqua è raffigurata proprio così, mentre esistono varianti più ricche di particolari (cfr. tavv. successive), che dispiegano intorno a questo evento numerose scene precedenti e successive, dedicate alla passione e alle apparizioni di Cristo dopo la resurrezione. L'icona in esame vede al centro Cristo che libera dall’Ade i progenitori, circonfuso da una mandorla luminosa pervasa di raggi bianchi. Egli solleva dai sepolcri i progenitori, Adamo ed Eva, afferrandoli con un gesto pieno di forza e di maestà, e calpestando nel contempo, quasi in un passo di danza, le porte spezzate degli inferi, disposte sotto i suoi piedi a forma di croce. Nella zona inferiore dell’icona si intravedono appena i tenebrosi abissi infernali, mentre dietro ad Adamo ed Eva appaiono re, profeti e giusti dell'Antico Testamento.

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37. Discesa agli inferi Icona russa, fine del XVIII sec. 35,5 x 30,3

La composizione presenta la variante più ricca e complessa di illustrazione della festa pasquale, che si sviluppa nell’iconografia russa soprattutto a partire dal XVII secolo, quando l’icona acquista un gusto spiccatamente narrativo, di illustrazione del «prodigio» in tutti i suoi elementi. Al centro dell'icona Cristo è raffigurato due volte, mentre sorge dal sepolcro e mentre libera dall’Ade i progenitori, sempre circonfuso da una mandorla luminosa tutta pervasa di raggi bianchi. Nella scena della Discesa agli inferi, Egli solleva dai sepolcri i progenitori, Adamo ed Eva, dietro a cui appaiono re, profeti e giusti dell'Antico Testamento che, liberati dalle fauci mostruose visibili in basso a sinistra, salgono in lunga teoria luminosa (sono tutti abbigliati d’oro) verso il paradiso (in alto a destra), dove il primo a bussare ed entrare è il «ladro teologo». Nella destra Cristo disceso agli inferi solleva un rotolo, segno dell'alleanza divina che in Lui si è definitivamente compiuta. Nella scena della resurrezione dal sepolcro, in alto, sono ben visibili i soldati immersi nel sonno, e l’angelo che indica alle mirofore il sepolcro vuoto con il sudario. La narrazione dell’evento è completata da altre scene, che si dispiegano tutt’intorno: in alto a sinistra, Pietro si china anch’egli sul sepolcro vuoto, mentre più sotto, Cristo appare alla Maddalena inginocchiata; in basso, viene narrata con dovizia di particolari l’apparizione di Gesù ai discepoli sul lago di Tiberiade. Si noti che anche tutti i personaggi raffigurati in vita hanno vesti dorate: è probabilmente un’allusione al giubilo del periodo pasquale e alla grazia che irradia da Cristo sull’umanità.

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38. Discesa agli inferi, con 12 scene delle feste Icona russa, XIX sec. 53,5 x 43,7

La medesima iconografia delle due tavole precedenti, rispetto al pannello centrale, viene qui risolta in una chiave molto ricca, miniaturistica, aggiungendovi tutt’intorno le feste principali del calendario liturgico: Natività della Madre di Dio, sua Presentazione al tempio, Annunciazione, Natale, Presentazione al tempio di Gesù Bambino, Battesimo, Trasfigurazione, Entrata in Gerusalemme, Ascensione, Trinità, Dormizione, Esaltazione della croce. Un elemento interessante in quest'icona sono le lunghe scritte che commentano alcuni episodi del pannello centrale, riportando testi sia dei vangeli sinottici che dei racconti apocrifi, tratti in particolare dal Vangelo di Nicodemo (ad esempio, sul bordo sinistro si legge che «il Signore ordinò agli angeli di legare Satana e di sottoporre il suo spirito ad amari tormenti», e a destra si descrive invece il gaudio del Buon ladrone che entra in paradiso). Un altro elemento importante è lo spazio concesso all'apparizione di Cristo sul lago di Tiberiade: pieno di tenerezza è l'istante dell'incontro fra Gesù e Pietro, che rivede il suo maestro per la prima volta, dopo l'episodio del tradimento, mentre gli altri discepoli sono ancora sulla barca, in lontananza. Va inoltre rilevata l'importanza che qui assumono scenari paesaggistici ed architettonici, fitti di personaggi e di elementi decorativi. L'impressione che si ricava dall'insieme della composizione è di grande festosità, a cui contribuiscono in primo luogo i colori (prevalenti i rossi e gli ori). Si tenga presente che nel mondo bizantino ogni colore ha una profonda valenza simbolica: se l'oro è il simbolo per eccellenza della divinità, del mondo dell'eternità, il rosso sta ad indicare sia la passione, il sangue versato da Cristo, sia l'energia divina che sostenta in sé l'essere e dà vita all'universo attraverso il fuoco del suo amore.

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39. Discesa agli inferi, con scene della passione e delle feste Icona russa, XIX sec. 53,8 x 44,4

La tavola costituisce una sorta di compendio dell’intero anno liturgico, oltre che di tutto il tempo pasquale, a cominciare dal triduo conclusivo della Settimana santa. Il pannello centrale presenta la variante complessa della Resurrezione, come l’abbiamo già commentata alle tavv. precedenti (cui rimandiamo per l’iconografia). Nelle dodici scene che lo circondano sono invece visibili i momenti salienti della Passione del Signore: da sinistra in alto, l’Ultima cena, la Lavanda dei piedi, la Preghiera nel Getsemani, il Tradimento di Giuda, il Bacio nell’orto del Getsemani, Cristo di fronte a Pilato, la Flagellazione, la Coronazione di spine, la Salita al Calvario, la Crocifissione, la Deposizione della Croce e il Compianto funebre. Più esternamente, la composizione centrale è integrata ancora una volta da scene raffiguranti le feste del ciclo liturgico annuale: nell’ordine, a partire da sinistra in alto: Natività della Madre di Dio, sua Presentazione al tempio, Trinità Annunciazione, Natale (nella variante dell’Adorazione dei Magi), Presentazione al tempio di Gesù Bambino, Battesimo, Trasfigurazione, Entrata in Gerusalemme, Ascensione, Dormizione; il registro inferiore presenta la Resurrezione di Lazzaro, la Decollazione di Giovanni Battista, l’Esaltazione della croce, l’Ascesa al cielo di Elia sul carro di fuoco, la Protezione della Madre di Dio. Un elemento caratteristico è dato infine dalla raffigurazione dei quattro evangelisti agli angoli, che ha una duplice valenza: attestare la veridicità degli episodi raffigurati nell’icona, di cui Matteo, Marco, Luca e Giovanni sono testimoni viventi, e significare il diffondersi dell’annuncio evangelico fino agli estremi confini della terra (nella cosmogonia medioevale il mondo era rappresentato come un quadrilatero, come si nota ad esempio nelle composizioni del «Salvatore fra le potenze» e, in questa pubblicazione, della «Madre di Dio del Segno», cat. n. 22).

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40. Trinità dell’Antico Testamento Icona russa, inizio del XVIII sec. 50,5 x 40,8

Nella Chiesa d’Oriente la celebrazione della Trinità coincide con la Pentecoste, a sottolineare il disegno provvidenziale che guida la vita del mondo fin dall’inizio, e culmina nella Discesa dello Spirito Santo nel cenacolo di Sion. L’icona in esame si basa sul soggetto veterotestamentario dell’«Ospitalità di Abramo» (Gen 18), che narra dell’incontro del patriarca Abramo, capostipite del popolo eletto, con tre misteriosi pellegrini (successivamente chiamati angeli) presso le querce di Mambre. Dopo averli accolti e ristorati, egli ricevette da loro la promessa della nascita miracolosa del figlio Isacco e della «nazione grande e potente» che da lui, per volontà divina, doveva avere inizio, e in cui «si diranno benedette tutte le nazioni della terra» (Gen 18,18). Secondo le interpretazioni ortodosse tradizionali, nella figura dei tre angeli Abramo ricevette la rivelazione del Dio consustanziale e trino («Abramo infatti vide con gli occhi del corpo gli angeli e conversò con il Salvatore, ma con gli occhi dello spirito vide la Trinità santissima e consustanziale», dice san Gregorio Palamas). Su queste interpretazioni si basa l’iconografia simbolica della Trinità nei sembianti dell’«Ospitalità di Abramo», che si forma nell’arte russa tra la fine del XIV e l’inizio del XV secolo, sulla scorta di modelli che riscontriamo fin dalle catacombe e dai mosaici di Santa Maria Maggiore (IV-V secolo). L’icona qui riprodotta presenta l’episodio biblico nel suo svolgimento storico: Abramo serve a tavola i divini commensali, mentre Sara, in casa, ne ascolta i discorsi e la profezia. L’edificio, l’albero, il monte alle spalle degli angeli rappresentano il tempio veterotestamentario, l’albero della vita – cioè la croce, e le vette insondabili della Provvidenza divina.

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41. Trinità dell’Antico Testamento Icona russa, Russia del nord, XVII sec. 39,8 x 30,7

La composizione di quest’icona si rifà alla variante figurativa che trova la sua espressione più piena e perfetta nell’icona di Andrej Rublëv, dipinta per la cattedrale della Trinità nella Lavra della Trinità di San Sergio nel 1425-1427. L’iconografo elimina infatti tutti gli elementi storici ed accessori, perfino i personaggi di Abramo e Sara, per concentrarsi sul dialogo fra le tre ipostasi divine, che assume un carattere mistico, eterno, si trasforma nell’azione liturgica celeste che fonda ogni celebrazione liturgica sulla terra. La figura geometrica dominante nell’icona è il cerchio, descritto dal gruppo dei tre personaggi seduto a mensa, dal movimento delle loro persone e dei loro sguardi; nella tradizione bizantina, il cerchio è il simbolo dell’eterno, del divino, e anche della comunione, dell’unità realizzata (per questo, le scene del paradiso sono spesso racchiuse all’interno di cerchi). I tre personaggi sono intenti al dialogo dell’amore, in cui ognuno di essi mantiene la propria unicità ed irripetibilità, ma si compie nell’unità con gli altri due. Vertice di questo dialogo è la mensa, chiara allusione alla mensa eucaristica, cioè all’altare su cui Cristo si immola per l’umanità. Ben si comprende come mai in Russia l’icona del santo monaco Andrej Rublëv nascesse dall’esperienza spirituale del suo maestro, san Sergio di Radone , che aveva lasciato ai suoi discepoli questa consegna: «Contemplando la santa Trinità, vinciamo l’odiosa divisione del mondo!».

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42. Trinità del Nuovo Testamento Icona russa, Russia meridionale, fine del XVIII sec. 44,7 x 35

L'icona in esame rappresenta una tipologia tipica in Russia a partire dal XV secolo. La composizione presenta Dio Padre, Sabaoth, come l'«Antico dei giorni» (con il nimbo a stella ottagonale rosso e blu, simboli rispettivamente del fuoco dell'energia divina e del dispiegarsi della Provvidenza nella storia umana); Cristo, come Dio incarnato nella storia (il globo sormontato dalla croce, in mezzo a loro, è simbolo della potenza divina e dell'amore redentivo per l'umanità); lo Spirito Santo, sotto forma di colomba al centro, presenta anch'Esso la stessa simbologia del nimbo ottagonale, che indica la divinità. I Cherubini (scarlatti, energia e fiamma dell'amore divino) costituiscono il trono della Trinità, i Serafini (blu zaffiro, che rappresentano la Sofia, la Sapienza divina) delimitano il cerchio della divinità, introducendo il tema della trasfigurazione del cosmo. L'introduzione della Vergine e di san Giovanni Battista ai lati della Trinità ha un profondo significato: essi rappresentano qui la Chiesa in Paradiso, che intercede per il popolo cristiano pellegrino sulla terra, e insieme sono gli oranti che contemplano il Mistero dell'amore trinitario e del colloquio salvifico (eucaristico) che si svolge tra le Persone della Trinità. Sul rotolo della Madre di Dio si legge: «Sovrano molto misericordioso, Signore Gesù Cristo, Figlio mio e Dio mio, accogli...»; sul rotolo di Giovanni si leggono le parole della testimonianza da lui resa all'Agnello di Dio. Nella composizione appare anche il tema della «vita angelica», raffigurata attraverso le schiere degli angeli che fanno da corona alla Trinità: in basso vediamo gli angeli custodi che indicano alle anime loro affidate il mistero divino, e san Michele arcangelo con la spada sguainata (a sinistra).

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4. La Chiesa in cammino Dopo l’esultanza pasquale, la Chiesa fa l’esperienza della dimensione in cui è chiamata a vivere in questo mondo, una dimensione dove la Salvezza è attuata «già e non ancora», dove accanto all’esperienza della comunione divina permane quella dell’esilio e del cammino verso la patria futura. La tensione all’eterno, all’eone futuro caratterizza la percezione medioevale del mondo e determina il suo atteggiamento verso il presente, il passato e il futuro. Parlando del creato, del mondo fenomenico, san Basilio definisce la percezione del tempo come una dimensione «in cui il passato è già trascorso, il futuro non è ancora subentrato, e il presente già sfugge alla memoria ancor prima di essere compreso». È questa la dimensione del tempo rappresentata nell’icona in forma di narrazione pittorica o di racconto agiografico della vita del santo attraverso numerosi e ricchi particolari, che talvolta possono essere molto espressivi ma tuttavia non sono mai i determinanti nella fisionomia spirituale del personaggio raffigurato. Ogni atto compiuto dal santo acquista infatti valore e significato in quanto rimanda alla tradizione della Chiesa, o direttamente alla persona di Cristo.


43. San Giorgio Icona russa, Mosca, fine del XVIII sec. 90 x 32

La festa di san Giorgio, il 23 aprile, segnava nella Rus’ l’inizio della primavera, e ad essa si collegavano numerosi riti propiziatori nelle campagne, in particolare, la prima fuoriuscita del bestiame dalle stalle. Oltre che nel mondo rurale, Giorgio era molto venerato anche negli ambienti dell’aristocrazia: molti principi russi presero il suo nome nel battesimo, per impetrare al santo martire la stessa dedizione nella difesa e nella guida del popolo loro affidato. Secondo la tradizione, san Giorgio era un soldato e ricevette il martirio durante le persecuzioni di Diocleziano in Cappadocia intorno al 303-304. Il suo culto, a partire dal V sec., si diffuse ampiamente dapprima nella patria del martire (l'Asia Minore) e poi in tutto il mondo cristiano. Al V sec. risalgono le redazioni più antiche della vita di san Giorgio giunte fino a noi, e dal IX sec. al racconto degli innumerevoli supplizi sofferti dal santo si aggiunge un ricco ciclo di miracoli. Tra questi il più popolare era il miracolo del drago (cfr. tavv. successive), che risale a una tradizione orale dell'VIII sec. Le più antiche raffigurazioni di scene della vita di Giorgio appaiono nell'arte del mondo bizantino a partire dal X-XI sec. Nell’icona in esame Giorgio è invece raffigurato a figura intera, con un’armatura riccamente lavorata, lo scudo nella sinistra e la croce del martirio nella destra, in sostituzione della spada. Nella Rus’ esistono esempi splendidi di questa tipologia, tra cui in particolare un’icona processionale dell’XI secolo, attualmente conservata nella cattedrale della Dormizione nel Cremlino di Mosca. A questi prototipi si rifà evidentemente l’icona in esame, che forse poteva appartenere a un’iconostasi, ed essere inserita, in coppia con un’icona di san Demetrio di Tessalonica, nel registro della Deesis.

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44. San Giorgio e il drago Icona russa, Jaroslavl’, XIX sec. 37,5 x 32

Nel pannello centrale dell'icona in esame, il soggetto del miracolo è rappresentato nella sua forma più estesa: oltre a Giorgio e al drago, appaiono qui la principessa, i suoi genitori e i testimoni del prodigio, che contemplano dall'alto della torre l'avvenimento. Quest’esposizione del soggetto è particolarmente diffusa nell'iconografia russa a partire dal XVI sec., quando si accresce il gusto narrativo e l’interesse per il prodigioso; in ogni caso, nella Rus' l'effigie di Giorgio vincitore sul drago era circondata fin da tempi antichi da particolare venerazione e si collegava ad antiche concezioni popolari sui santi che fugavano le forze del male. D'altro lato, il diffuso racconto del martirio del santo non era semplicemente una testimonianza della sua fortezza, ma anche dell'incrollabilità della fede cristiana, del suo trionfo sui persecutori: proprio così si spiega il tradizionale culto dei martiri come «pilastri della Chiesa». I due temi del martirio e del trionfo della fede sono profondamente uniti fra loro nella rappresentazione: infatti, un angelo inviato da Cristo, che si affaccia benedicente dai cieli, incorona Giorgio con la corona tipica dei martiri proprio nell’istante in cui il santo guerriero trafigge la testa del drago. Sui bordi laterali sono raffigurati quattro santi anch’essi collegati a Giorgio in quanto patroni degli animali: i vescovi Biagio e Spiridone (in alto da sinistra) e i santi martiri Floro e Lauro, considerati insieme a Giorgio patroni dei cavalli (per la loro iconografia cfr. cat. n. 65). L’icona doveva essere quindi collegata in particolare a questo aspetto della venerazione del santo.

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45. Trittico con san Giorgio e il drago Icona russa, XIX sec. 20,2 x 24

Questa variante del miracolo di san Giorgio, nella tavola centrale del trittico, illustra sia il duello fra il santo e il mostro, sia il momento successivo, in cui la principessa insieme a Giorgio conduce il mostro legato in città, dove sarà ucciso. Il drago che esce dall'acqua e la principessa che lo conduce al guinzaglio sono raffigurati in primo piano, in basso, mentre Giorgio si libra letteralmente sulla scena, senza che il cavallo tocchi terra in alcun punto. Dall’alto Cristo si affaccia benedicente tra le nubi. Nella parte superiore del pannello centrale, di elegante forma cuspidale, appare benedicente Cristo Emmanuele (cioè raffigurato nel tipo del Verbo sempiterno, giovinetto imberbe, pur mantenendo il monogramma caratteristico del Pantocratore, «IC XC», cioè Gesù Cristo). I due santi vescovi ai lati di Giorgio sono probabilmente Spiridone e Biagio, patroni del bestiame, anche se le loro iscrizioni non si sono conservate. Come l’icona precedente, anche questa doveva essere legata in particolare alla devozione di san Giorgio come protettore dei cavalli e dei lavori campestri.

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46. Evangelista Giovanni Icona russa, Mosca, XVI sec. 68,5 x 51,5

La composizione dell’icona in esame è un classico dell’iconografia bizantina e russa, e ricorre soprattutto nelle miniature, dove generalmente era collocata all’inizio del Vangelo di Giovanni. Più rara invece nelle icone, dove appare all’interno dell’iconostasi, sulle Porte regali, oppure come immagine patronale di chiese dedicate al santo evangelista, o ancora in icone palmari dedicate alla devozione personale. In queste composizioni Giovanni viene sempre rappresentato sull’isola di Patmos, in compagnia del discepolo Procoro, cui detta il Vangelo. I due personaggi appaiono sullo sfondo della grotta in cui vivevano di preghiera e di contemplazione. Sul foglio che il giovinetto tiene fra le mani si leggono in lingua slava ecclesiastica le parole iniziali del Vangelo giovanneo: «In principio era il Verbo». Da osservare che Giovanni distoglie lo sguardo dal lavoro cui pure è intento, per concentrarsi sull’ascolto del misterioso messaggio che gli giunge dal segmento celeste in cui generalmente è raffigurata la mano divina e da cui si diparte il raggio tripartito con la colomba dello Spirito. Le mani dell’evangelista sono rispettivamente tese a raccogliere l’annuncio e a trasmetterlo a Procoro, che invece è chino sul tavolo di lavoro per fissare il verbo che ode dal maestro. La memoria di san Giovanni evangelista viene celebrata dalla Chiesa d’Oriente l’8 maggio.

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47. Madre di Dio della Tenerezza di Vladimi Icona russa XVIII sec. 61,5 x 50

L'icona della Madre di Dio esprime il mistero della divina maternità (le stelle sulla fronte e sulle spalle sono un antico simbolo siriaco che allude alla sua perpetua verginità); in particolare, nel tipo canonico della «Madre di Dio della Tenerezza» si pone intensamente l’accento sul futuro sacrificio redentivo di Cristo. L’abbraccio fra la Madre di Dio e il Bambino prefigura infatti la pienezza dell’amore divino, la cui suprema manifestazione è il sacrificio di Cristo per la salvezza dell’umanità. Inoltre, l’icona in esame riprende una delle varianti iconografiche più conosciute e venerate: il tipo della Vergine di Vladimir, un’antica icona bizantina dell’XI-XII secolo, attualmente conservata alla Galleria Tret’jakov di Mosca e donata dagli imperatori bizantini al popolo russo recentemente convertito alla fede. Quest’icona avrebbe poi seguito le vicende storiche della Rus’, dapprima a Kiev, poi a Vladimir (da cui la denominazione) e infine a Mosca, dove fu trasferita nel 1395, affinché proteggesse la città dall'invasione delle orde del khan tataro Tamerlano, che effettivamente si ritirarono inspiegabilmente davanti alle mura della città. Dopo questo miracolo, nel corso della storia russa l'icona della Vergine di Vladimir fu sempre considerata il palladio e la protettrice della nazione. Le tre feste che la Chiesa ortodossa russa le dedica, il 21 maggio, il 23 giugno e il 26 agosto ricordano appunto tre miracoli attraverso cui l’icona aveva salvato nei secoli la città di Mosca dai nemici.

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48. Madre di Dio «È veramente giusto lodarti» Icona russa, XIX sec. 47,5 x 38,5

L’icona, la cui memoria ricorre l’11 giugno, è originaria del monte Athos, dove alla fine del X secolo un monaco in preghiera davanti a un’icona della Vergine udì gli angeli intonare un canto melodioso, le cui parole erano: «È veramente giusto glorificare Te, o Genitrice di Dio, sempre beata e tutta immacolata, Madre del nostro Dio». Da allora questa strofa venne aggiunta all’inno di Cosma di Maiuma, detto anche Inno dei cherubini, che recita: «Te più onorabile dei cherubini, e senza confronto più gloriosa dei serafini, Te che senza corruzione partoristi il Verbo di Dio, Te magnifichiamo qual vera Madre di Dio». L’iconografia dell’opera vuol rendere proprio il clima festoso dei cori angelici: oltre alla raffigurazione dei cieli aperti con Dio Sabaoth e la colomba dello Spirito Santo che si affacciano dall’alto, e gli angeli in volo che incoronano la Vergine, anche la tavolozza squillante, il gusto ornamentale delle vesti della Madre di Dio e del Bambino, e il moto giocoso con cui questi mostra il cartiglio, suggeriscono una soave musicalità. Il cartiglio del Bambino riporta la frase di Isaia pronunciata da Cristo all’inizio della sua predicazione, nella sinagoga di Nazaret: «Lo spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione, e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio» (Lc 4,18).

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49. Natività di san Giovanni Battista Icona russa, fine del XVII sec. Basma in argento, 30,9 x 27

La Natività di san Giovanni Battista ricorre il 24 giugno, che nel calendario liturgico e popolare segnava un momento particolare, l’ingresso nell’estate, ed era contrassegnato da numerosi riti sacri e non di rado anche paganeggianti, collegati alla fecondità della terra. La composizione riprende nei suoi elementi le consuete scene di Natività, che abbiamo già avuto modo di vedere per la Vergine e san Nicola (cfr. rispettivamente cat. nn. 14 e 23): al centro, la scena della partoriente che riceve i doni; a fianco lo sposo, intento in questo caso a scrivere il nome del figlio, dopo aver perduto la favella a causa della propria incredulità; in primo piano, la scena del bagno de neonato. Nell’opera si uniscono così il carattere intimo, quasi lirico della composizione, e la sua funzione dogmatica, epifanica del mistero divino: si noti che Zaccaria, pur essendo nella cerchia domestica, porta le vesti liturgiche: la presenza del mistero trasforma tutta la vita in liturgia, e ogni luogo in tempio della gloria. Un elemento particolare che compare nell’icona della Natività del Battista è la sua figura adulta, con gli attributi del martire e del profeta (la croce e il rotolo della profezia), che campeggia sullo sfondo della composizione: in questo modo, i fedeli potevano vedere già attuata la promessa fatta dall’angelo a Zaccaria all’interno del tempio.

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50. San Giovanni Battista Icona russa, inizio del XIX sec. 53 x 42,5

A Giovanni Battista il calendario liturgico bizantino dedica un'intera serie di festività, dalla sua concezione alla sua nascita, alla decollazione, fino al ritrovamento miracoloso del suo capo ( 24 febbraio e 25 maggio), oltre alla Sinassi (7 gennaio) e alla memoria settimanale che ricorre di martedì. La tradizione orientale nutre una devozione particolare per il Precursore, a cui dà tra l’altro sempre il posto alla sinistra di Cristo nella composizione della Deesis, che incarna l'idea della supplica della Chiesa celeste per la Chiesa pellegrina sulla terra. Giovanni Battista e la Vergine, accanto al trono di Cristo, rappresentano gli archetipi dell'umanità. Proprio a una Deesis doveva appartenere l’opera qui raffigurata: Giovanni è infatti rivolto di tre quarti verso destra, con il capo lievemente reclinato in atteggiamento orante. L’icona è particolarmente sobria di elementi iconografici, tutta l’espressività è affidata al volto, profondamente solcato di rughe e caratterizzato da un’intensa espressione di afflizione. Tuttavia, va rilevato come le rughe si risolvano in luminosità, così come la tunica di pelo e il mantello, rozze vesti di un abitante del deserto, sono letteralmente intessute di luce mediante la tecnica dell’assist (un sottile reticolo d’oro che vuol sottolineare la presenza del divino). Questa luminosa mestizia, in cui si intrecciano il giubilo per la venuta del Messia e la tristezza di non poterlo accompagnare nella sua missione, sono elementi caratterizzanti della figura di Giovanni.

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51. San Giovanni Battista «Angelo del deserto» Icona russa, Palech XVIII sec. 36 x 29

La raffigurazione di Giovanni Battista con ali angeliche, abiti di asceta ed eremita e un rotolo in mano, risale alle testimonianze riportate nel Vangelo, che descrivono Giovanni come profeta e precursore di Cristo, che preannuncia la sua venuta predicando la penitenza (Mt 3,1-2; Mc 1,1-8; Lc 3,2-18). Inoltre, l’interpretazione del Nuovo Testamento riferisce a Giovanni Battista le profezie dell’Antico Testamento: «Voce di uno che grida nel deserto: preparate la strada del Signore, raddrizzate i suoi sentieri» (Is 40,3) e «Ecco, io mando il mio messaggero davanti a te, egli ti preparerà la strada» (Ml 3,1; Mt 11,10; Mc 1,2; Lc 7,27). Quest’ultimo testo divenne evidentemente il fondamento della tipologia iconografica «Giovanni Battista Angelo del deserto» («angelo» in greco significa «messaggero»), conosciuto nell’arte bizantina a partire dalla fine del XIII-prima metà del XIV sec. Nell’arte russa raffigurazioni di questo tipo si incontrano a partire dal XIV sec. (cfr. l’icona della fine del XIV sec. proveniente da Kolomna, attualmente alla Galleria Tret’jakov di Mosca), e trovano ampia diffusione nel XVI-XVII sec. Nell’icona in esame, Giovanni Battista alato è rivestito di una tunica di pelli. Con la destra benedice, nella sinistra regge un rotolo svolto e una coppa con la figurina di Gesù Bambino, chiara allusione al sacrificio redentivo di Cristo. Un significato analogo ha il bastone con la croce in mano al Precursore. Sul rotolo di Giovanni compare la scritta: «Io vedo e testimonio che costui è l'agnello di Dio che toglie i peccati del mondo...» (Gv 1,29).

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52. Madre di Dio Odigitria di Tichvin Icona russa, fine del XVIII sec. 106 x 82

L’icona presenta una delle varianti di Odigitria (cioè «Colei che si fa nostra guida», additandoci il Figlio come la «Via, Verità e Vita») più note e venerate in Russia. Il tipo iconografico dell’Odigitria è il più antico e deriva da Bisanzio, dove un’icona analoga era tra i tesori sacri più venerati. La tipologia in esame viene festeggiata in Russia il 26 giugno; essa prende il nome dalla cittadina di Tichvin (nelle terre di Novgorod), e costituisce una delle innumerevoli repliche di un'icona venerata nell'omonimo monastero locale. Secondo la tradizione l'antica icona miracolosa apparve nel 1383; il suo culto si diffuse rapidamente tra la fine del XV e la prima metà del XVI secolo, in seguito ai numerosi prodigi da essa compiuti: in questo periodo nacquero le sue prime copie, a Tichvin si costruì per l’icona una chiesa in muratura all’interno di un grande monastero, dove i principi moscoviti si recarono più volte in pellegrinaggio a venerarla. Nel 2004 l’icona, che in seguito a varie peripezie era giunta a Chicago, è stata solennemente restituita alla Chiesa ortodossa russa, ed è stata nuovamente collocata nell’antico monastero settentrionale. Le grandi dimensioni della tavola (per l’iconografia rimandiamo alla tav. successiva) fanno pensare che essa fosse stata dipinta per una cappella, come immagine patronale che replicava le dimensioni del prototipo miracoloso.

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53. Madre di Dio Odigitria di Tichvin Icona russa, XIX sec. 31 x 27

A differenza della precedente, le dimensioni e il rivestimento dell’opera in esame fanno pensare che si trattasse di un’immagine destinata alla devozione personale, probabilmente collocata nell’angolo sacro di una casa o in una cella monastica. Pur riprendendo tutti gli elementi iconografici del tipo dell’Odigitria, la Vergine di Tichvin presenta alcune caratteristiche peculiari: il tratto distintivo della sua iconografia è la posizione del Bambino, che si rivolge di tre quarti verso la Madre e, in questo movimento, mostra la pianta di un piedino. Si noti che anche qui, come sempre nella tipologia dell’Odigitria, il Bambino è in tutto un adulto, il Maestro che giudica e benedice l'umanità che, attraverso la guida di Maria, si accosta a Lui: Egli si rivolge infatti contemporaneamente alla Madre e allo spettatore con uno sguardo colmo di serietà, benedice e tiene nella sinistra il rotolo della legge. Nel suo nimbo si vedono la croce, come nell’icona del Pantocratore, e le lettere greche del monogramma divino «Colui che è». Il rivestimento metallico lascia scoperti solo i volti e le mani, ma a qual che si può giudicare la pittura presenta un modellato di grande dolcezza ed efficacia espressiva.

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54. Madre di Dio «delle tre mani» Icona russa, inizio del XIX sec. 29,5 x 25

Quest’icona, che riprende nelle linee generali la composizione dell’Odigitria, è legata per la sua origine al miracolo ricevuto da san Giovanni Damasceno: al grande dottore della Chiesa, vissuto all’epoca dell’iconoclastia, fu mozzata una mano per ordine del califfo di Damasco, a causa della sua intemerata opera di difesa delle immagini sacre. Mentre Giovanni pregava davanti a un’icona della Vergine, la mano gli si riformò miracolosamente, e in segno di ringraziamento il santo appese davanti all’icona un ex-voto metallico, raffigurante appunto la mano restituitagli. Con il passar del tempo, questa tipologia si sviluppò, fino a sostituire all’ex voto metallico una mano vera e propria, che nell’icona in esame appare al centro, nella parte inferiore della composizione. L’icona viene venerata dalla Chiesa d’Oriente il 28 giugno e il 12 luglio. L’opera in esame, un’icona palmare certamente destinata alla devozione personale, presenta una pittura molto pregevole e delicata; di grande intensità espressiva, in particolare, il volto della Vergine, soffuso di una velata mestizia ma anche della gioia di chi contempla la presenza del Salvatore. Ai lati, sei santi patroni, tra cui si distinguono, dall’alto a sinistra, l’angelo custode e san Giovanni Evangelista; a destra, al centro appare la monaca Eudocia, e in basso Alessio «uomo di Dio».

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55. Madre di Dio Odigitria di Kazan’ Icona russa, XIX sec. Rivestimento in argento, San Pietroburgo 1872 40 x 34

L’icona della Vergine di Kazan’, divenuta famosa in tutto il mondo in seguito al dono fatto da papa Giovanni Paolo II al patriarca ortodosso russo Aleksij, nell’agosto 2004, di una preziosa tavola con questa raffigurazione, è tra le tipologie iconografiche mariane più venerate in Russia. La sua festa ricorre l’8 luglio e il 22 ottobre. Le origini dell’icona di Kazan’ risalgono al XVI secolo: venticinque anni dopo la conquista della capitale del khanato di Kazan’, nel 1579, nella città di Kazan’ che si era ormai russificata e aveva assunto costumi cristiani, fu rinvenuta un’icona della Madre di Dio. Questo avvenimento si dimostrò molto importante per la coscienza religiosa russa: la periferia orientale dello Stato, che fino a poco tempo prima era stata una roccaforte dell’Islam, diveniva parte organica dell’impero ortodosso, che aveva tra i suoi attributi fondamentali le icone miracolose. Nel XVII secolo il culto dell’icona di Kazan’ si accrebbe sempre più e cominciò a diffondersi anche nella Russia centrale, anche perché ad essa fu attribuita la liberazione di Mosca dai polacchi il 22 ottobre 1612. Intorno al 1630 all’icona venne dedicata una chiesa sulla piazza principale di Mosca. Nell’opera in esame la pittura dei volti è molto accurata e di buona qualità, alla maniera di Simon Uakov, che introduce un modellato chiaroscurale di gusto occidentale; sulla pittura sembra però prevalere il rivestimento metallico, molto raffinato negli accostamenti tra la superficie levigata del fondo, le sontuose vesti decorate a motivi floreali della Vergine, e i ricchi motivi puntinati e a palmette sulla cornice. I quattro santi raffigurati sui bordi laterali, che rappresentano i patroni dei committenti, segnalano che l’icona era destinata alla devozione familiare.

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56. Madre di Dio di Kazan’ Icona russa, XIX sec. 26,3 x 30,7

Sotto l'aspetto iconografico, la Madonna di Kazan' si riallaccia a un'immagine mariana denominata Madonna di Petr, perché attribuita dalla tradizione a Petr, metropolita di Russia nel 1308. Della Madonna "di Petr" quest'ultima riprende le linee caratteristiche, apportandovi alcune modifiche che ne definiscono l'originalità, esasperando se possibile il carattere sintetico della composizione. Anche qui infatti la figura della Vergine è "tagliata" sotto alle spalle, ma non ne sono visibili le mani. Il bambino ha la destra benedicente, mentre la sinistra è nascosta fra le pieghe della veste. Tuttavia, a una maggiore essenzialità si associa un arricchimento del tipo iconografico: nell'atteggiamento reciproco delle figure sembra inserirsi una contaminazione fra il modulo della Odigitria e quello della "tenerezza". Se infatti il bambino è rigidamente frontale, l'inclinazione del capo di Maria è particolarmente accentuata, cosicché il suo velo sfiora il figlio, in una posa che ricorda l'affettuoso contatto, caratteristico delle icone "della tenerezza". L'osservazione basata sulla scarna essenzialità del modulo compositivo, si presta ad un suggestivo capovolgimento: forse all'origine dell'incredibile fortuna dell'immagine è proprio il suo carattere eccezionalmente sintetico, la pregnanza di uno schema che concentra in un disegno di facile riproduzione e ricezione il contenuto ideale dei due moduli mariani maggiormente produttivi, riflesso di due approcci alla figura di Maria e al suo rapporto con il figlio: L'Odigitria, che mostra il figlio che è Dio, e la Vergine "della tenerezza", china sul figlio che è per lei uomo.

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57. Pokrov icona russa, Mosca XIX sec. 27,5 x 34,3

Il titolo dell'icona in questione è variamente tradotto dallo slavo e dal greco: "protezione", "intercessione", "velo" o "manto" della Madre di Dio. La diversità è dovuta al fatto che pokròv in slavo e skepi in greco significano sia "protezione" che "coperto" e si riferiscono in primo luogo alla reliquia del maforion, o velo lungo della Madre di Dio, custodito nel grande tempio mariano a Costantinopoli, la chiesa delle Blacherne. La traduzione più giusta, allora, può essere "il velo protettore della Madre di Dio". La festa liturgica alla quale l'icona si riferisce ha luogo annualmente il I ottobre. Essa commemora una visione avuta nella chiesa delle Blacherne, da Sant' Andrea salos ossia "pazzo per Cristo", nel IX secolo: la capitale era sotto assedio e il popolo raccolto nel tempio mariano per pregare durante la notte. A un certo momento il Santo vede aprire le porte e la Vergine entra nella basilica, accompagnata dai due San Giovanni, il Battista e l'Evangelista, e da altri santi e angeli. Ella traversa la navata e davanti al santuario si rivolge verso il popolo, il volto in lagrime: si eleva nell'aria, toglie il lungo velo dalla testa e lo estende sopra il popolo in segno di protezione, mentre Sant' Andrea indica l'avvenimento mistico al suo discepolo, Sant' Epifanio. Secondo alcuni il culto e l'iconografia del Pokrov esistevano già a Costantinopoli, da dove sarebbero stati introdotti nella Russia medioevale. Comunque sia, impulso notevole al culto è stato fornito dal principe Sant' Andrea Bogoliubskij il cui santo patrone era, appunto, Sant' Andrea salos. Il principe costruì una chiesa alla Madre di Dio Pokrov, tuttora esistente, sul fiume Nerl verso la metà del XII secolo, e da allora si può datare la singolare devozione russa alla Madre di Dio sotto questo titolo, che cresceva fino a diventare nel XV secolo un autentico culto nazionale.

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58. Profeta Elia nel deserto Icona russa, inizio del XIX sec. Basma in argento, 72 x 58

Elia è tra le prefigurazioni più pregnanti della resurrezione, perché la tradizione vuole che non morisse ma venisse assunto in cielo ancor vivo, su un carro di fuoco (si veda la scena dell’«Ascesa al cielo di Elia sul carro di fuoco», qui raffigurata in alto, che risale alle antiche raffigurazioni di Helios, la divinità solare che solcava i cieli su un cocchio tirato da una quadriglia di cavalli fiammeggianti). Forse proprio per questo motivo Elia godeva di un particolare culto nel mondo russo; in ogni caso la tradizione popolare lo collegava al sole e gli attribuiva la signoria sulla folgore e sul tuono. La sua festa cadeva proprio nel periodo in cui più veniva invocato contro la calamità della tempesta, il 20 luglio. L’icona in esame raffigura vari episodi della vita di Elia (cfr. anche la tavola successiva), ponendo però in primo piano il momento in cui il profeta viene nutrito dal corvo nel deserto presso il torrente Cherit (1 Re 17,2-6), all’inizio della sua missione: un episodio ampiamente commentato dai Padri che vi ravvisavano un archetipo dell’Eucarestia. L’icona è di ottima fattura: le parti pittoriche lasciate scoperte dal rivestimento in argento sono di raffinata fattura, con colori vividi e un disegno sicuro e morbido che fa pensare alle migliori tradizioni dell’iconografia del XVI secolo.

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59. Ascesa al cielo del profeta Elia Icona russa, fine del XVI sec. 62,2 x 56

L’opera in esame riprende per molti aspetti lo schema della precedente, risolvendolo tuttavia in una maniera stilistica completamente differente. Il soggetto centrale è qui la scena culminante della vita del profeta, l’ascesa al cielo di Elia, con Eliseo che tende le braccia in preghiera a destra, ricevendo intanto il mantello di Elia, e la destra di Dio benedicente dalle nubi. A sinistra, Elia viene nutrito dal corvo durante la sua permanenza nel deserto, e più in basso c’è l’«Apparizione dell’angelo al profeta Elia nel deserto». Come leggiamo nel testo biblico (1 Re 19,4-7), sopraffatto dall’amarezza e desideroso di morire, il profeta Elia si addormentò sotto un ginepro. Gli apparve un angelo che lo toccò e, indicandogli del cibo e una brocca d’acqua, gli disse: «Alzati e mangia, perché è troppo lungo per te il cammino». Al centro, «Elia divide le acque del Giordano con il mantello». La Bibbia (2 Re 2, 7-8) narra che Elia, prima che «Dio lo rapisse in cielo in un turbine», si trovava con il discepolo Eliseo sulle rive del Giordano, e «prese il suo mantello, l’avvolse e percosse con esso le acque, che si divisero di qua e di là; i due passarono sull’asciutto».

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60. Madre di Dio Odigitria di Smolensk Icona russa, XIX sec. Rivestimento in argento, San Pietroburgo 1870 26,7 x 23,3

È qui rappresentata una delle tipologie più antiche e solenni della Madre di Dio, il tipo dell'«Odigitria» che vede la Vergine indicare con il gesto della mano il Figlio raffigurato nell'atteggiamento di Giudice misericordioso, con il rotolo della legge e il gesto della destra benedicente. Se il «tema» dell'Odigitria appare già nel VI secolo, come meditazione teologica sull'incarnazione, la fissazione di questo tipo iconografico avviene solo nel IX secolo. La denominazione di «Odigitria» deriva dalla basilica costantinopolitana delle «guide» (in greco «odigos»), dov'era tradizione che i generali si recassero in preghiera prima di partire per le campagne militari. In questo senso la Vergine, guida per eccellenza nella battaglia della vita, è denominata «Odigitria». L'icona presenta un'intonazione lirica e intima, resa estremamente raffinata dalla decorazione del rivestimento metallico, in cui si alternano sapientemente superfici lisce e cesellate, filigrane, perline e pietre dure. La pittura è qui limitata ai volti, alle mani e ai piedini del Bambino. Oltre al prezioso rivestimento in argento, che sovente veniva appositamente commissionato come ex-voto, anche la presenza dei due santi sulla cornice (a sinistra l’angelo custode, e a destra la santa monaca Pelagia), fa pensare che l’icona fosse destinata alla preghiera domestica o personale, forse ad una monaca. Oltre ad esprimere un sentimento di devozione, il fondo in metallo prezioso, assimilabile all’oro, viene inteso come il dilatarsi della santità simboleggiata dai nimbi, applicati sopra il rivestimento stesso. Cristo, pur nelle proporzioni infantili, appare come il Dio incarnato: nel suo nimbo si staglia il profilo della croce con il monogramma che dà la definizione di Dio, «Colui che è». Indicandolo con la mano e con lo guardo, di grande intensità, la Vergine si fa nostra guida per condurci verso Colui che è «Via, Verità e Vita».

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61. Madre di Dio Odigitria di Smolensk Icona russa, XIX sec. Rivestimento in argento, Mosca 1848, punzone di A. A. Koval’skij 31,9 x 27

L'icona qui riprodotta presenta ancora la tipologia della precedente, a cui si rimanda per l'analisi dell'iconografia. Ciò che colpisce come elemento caratteristico, in quest'opera, è la festosità e la calda luminosità raggiunta attraverso l’impiego del rivestimento in argento dorato, finemente lavorato, e di colori squillanti e caldi sapientemente accostati a tonalità più scure. Insolita la decorazione a stelline che riscontriamo sulla cuffia e sulle maniche dell’abito della Madre di Dio. Il tema della luce, insieme alla simbologia dei colori, è tra gli aspetti dominanti nell’iconografia cristiana, in particolare orientale. La luce è infatti simbolo della presenza divina, dell’energia che permea il creato e gli dà vita in ogni istante. Di qui le due modalità fondamentali di stendere l’oro: in fogli d’oro zecchino (sui fondi), a significare l’aura divina in cui abita l’umanità in Paradiso, e mediante un sottile tratteggio (assist) che ricopre parzialmente le vesti e indica l’azione di Dio nei confronti dell’uomo. Particolare rilievo ha anche il significato del colore rosso, che sta a indicare sia il sangue (la passione redentrice di Cristo), sia il fuoco dell’amore divino: sono proprio queste le due valenze in cui il rosso è impiegato per le vesti di Cristo, letteralmente «ammantato» d’amore per l’umanità. La Vergine è rivestita invece di porpora, a significare la dignità regale donata alla creatura nella salvezza operata da Dio.

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62. Madre di Dio Icona russa, fine del XVI sec. 62 x 53,5

Questo volto della Madre di Dio poteva forse appartenere a una Deesis, in cui la Vergine è sempre alla destra del Salvatore in atteggiamento di supplica. A questo farebbe pensare la raffigurazione di tre quarti di Maria e la lieve inclinazione del suo capo. Si tenga presente che nell’icona i personaggi non sono mai raffigurati di profilo o tantomeno di spalle rispetto all’osservatore, ma presentano interamente il volto (fa eccezione solo il diavolo, che in quanto seduttore, ingannatore, cela il proprio sembiante e appare di profilo). Il fondo della tavola e il nimbo sono stati interamente asportati, lasciando scoperto il fondo di gesso. Ben conservato appare invece il volto, dipinto con pochi, sobri tratti luminosi che sottolineano i lineamenti, e un incarnato base bruno. La festività mariana per eccellenza nel mondo bizantino è la Dormizione, che cade il 15 agosto; sovente, oltre all’icona della festa, in quest’occasione venivano esposte anche icone della Vergine come quella riprodotta qui accanto. Icone simili venivano inoltre poggiate su appositi leggii e venerate nel corso dell’anno.

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63. Salvatore Acheropita Icona russa, Russia meridionale Inizio del XIX sec. 53,5 x 44

L'iconografia del Salvatore «non dipinto da mano umana» si fonda sulla tradizione del volto di Cristo impresso miracolosamente su un lino, inviato dallo stesso Salvatore al re di Edessa Abgar, afflitto da una malattia incurabile da cui fu invece risanato dopo aver toccato la santa effigie. L'immagine «acheropita» fu collocata in una nicchia sopra le porte cittadine, ma quando i discendenti di Abgar ritornarono al paganesimo, fu murata dietro uno strato di mattoni d'argilla. Fu ritrovata solo dopo secoli, nel 545, durante l'assedio posto alla città di Edessa dal re persiano Cosroe. La creazione del tipo iconografico del «Salvatore Acheropita» risale all'arte bizantina del X sec. La comparsa e la diffusione di raffigurazioni di questo genere coincide con l'epoca della traslazione dell'immagine miracolosa di Edessa a Costantinopoli (944) e la composizione del Racconto della traslazione dell'Effigie nella capitale e di un Sermone sul suo culto ad Edessa. Nell’opera in esame è sottolineato in particolare il culto tributato alla santa Effigie: essa è infatti sorretta da tre arcangeli (da sinistra, Michele, Raffaele e Gabriele), e riccamente ornata di fiori tutt’intorno alla raffigurazione del Volto santo. Nella tradizione orientale, l’icona «acheropita di Cristo è il fondamento stesso dell’iconografia, perché è la prima effigie consegnata da Dio stesso all’umanità, e simboleggia l’incarnazione del Salvatore, che assume un volto e un corpo umano, assimilandosi in tutto all’umanità per redimerla e restituirle la sua dignità divina.

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64. Floro e Lauro, con l’arcangelo Michele Icona russa, inizio del XIX sec. 31 x 26

Il soggetto è uno dei più diffusi nelle terre di Novgorod e del Nord, sebbene le sue fonti letterarie, l'epoca e le circostanze del culto di Floro e Lauro come patroni dei cavalli, siano tuttora sconosciute. Nella Vita dei martiri non vi sono rimandi al loro legame con i cavalli, e solo il testo della preghiera e il contenuto delle composizioni iconografiche ci permettono di comprenderne il soggetto. Nella zona superiore appaiono l'arcangelo Michele, condottiero delle schiere angeliche, i vescovi Biagio e Spiridone e i due fratelli martiri Floro e Lauro, cui viene affidata la signoria sugli animali. Intanto, nella zona inferiore dell'icona, una mandria di cavalli affidata al loro patronato viene pascolata da altri tre fratelli martiri, Speusippos, Elasippos e Melesippos. Secondo il testo greco della Vita dei santi Floro e Lauro, tradotta nella Rus' nel XV secolo, i due fratelli vissero e subirono il martirio nell'Illirico nel II secolo. Erano tagliapietre e costruttori, e per questo furono chiamati dal re Licinio a costruire un tempio dedicato a Ercole. Costretti a eseguire questo lavoro, i fratelli distribuirono tutti i guadagni ai poveri e compirono numerose guarigioni miracolose, che contribuirono a convertire molti al cristianesimo. Quando la costruzione venne completata e vi furono collocate le statue degli idoli, i due fratelli alla testa di un gruppo di fedeli vi fecero irruzione nottetempo e distrussero i simulacri pagani; informato della cosa, Licinio ordinò di sottoporli a orribili torture, quindi li fece gettare in un pozzo profondo. Le loro reliquie vennero rinvenute incorrotte all'epoca di Costantino, e traslate a Costantinopoli. Nel monastero ad essi dedicato, sul sepolcro dei martiri avvennero numerose guarigioni, ricordate a volte anche da pellegrini russi; in particolare, l'ampia venerazione di cui Floro e Lauro godevano a Bisanzio come guaritori, è spiegabile forse in relazione alla perfetta conservazione delle loro salme, che alludeva alla resurrezione della carne nell'ultimo giorno. Nella Rus' il culto di Floro e Lauro si diffuse fin da tempi antichissimi: ad essi erano dedicate numerose chiese e monasteri, e si conoscono loro raffigurazioni iconiche fin dall'epoca premongolica. Il soggetto qui in esame si formò nel XV secolo, rispecchiando un nuovo aspetto del loro culto: da questo momento essi cominciarono ad essere considerati in primo luogo patroni dei cavalli. La loro festa cade il 18 agosto.

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5. Il Pantocratore Il volto del Salvatore illumina ogni giorno, ogni istante della vita del cristiano: la liturgia si snoda nei suoi cicli, si avvicendano eventi diversi, ma tutto concorre semplicemente a illuminare di volta un singolo aspetto, un singolo elemento del Volto santo di cui «tutto consiste». L’icona del Pantocratore, che insieme alla Vergine e a san Nicola era presente in ogni casa russa, oltre che in ogni chiesa e monastero, rappresenta proprio la durata del tempo, in cui la novità quotidiana si configura semplicemente come eterna riscoperta di Colui che era al principio, del fondamento ultimo, di Colui che è più profondo in noi del nostro stesso male (come diceva Dostoevskij), di Colui che ci attenderà nell’ultimo giorno.


65. Pantocratore Icona russa, fine del XVIII sec. 59 x 71

L'icona del Pantocratore esprime la manifestazione di Cristo vero uomo e vero Dio. Cristo appare come il Creatore di tutto ciò che esiste, insieme al Padre e allo Spirito Santo, come dice san Paolo in un passo che fu tra gli argomenti principali nella difesa delle icone durante le lotte iconoclaste: «Egli è l'immagine del Dio invisibile, generato prima di ogni creatura; poiché per mezzo di Lui sono state create tutte le cose, quelle nei cieli e quelle sulla terra, quelle visibili e quelle invisibili... Tutte le cose sono state create per mezzo di Lui e in vista di Lui» (Col 1,1516). Di qui la denominazione di Pantocratore, cioè Onnipotente. Il Vangelo del Salvatore è aperto a un passo di san Matteo: «Il Signore disse ai suoi discepoli: “Tutto mi è stato dato dal padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare”» (Mt 11,27).

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66. Pantocratore Icona russa, fine del XIX sec. Rivestimento in argento e smalti, Mosca 1899-1908 31,5 x 27

L’elemento di maggior pregio, in quest’icona del Pantocratore, è certamente il ricco rivestimento che mediante un raffinatissimo lavoro di filigrane, perline e smalti, imita alla perfezione i preziosi tessuti che rivestono il Salvatore. La raffigurazione segue in tutto i canoni e gli schemi iconografici evidenziati alle tavv. precedenti, e a cui rimandiamo.

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67. Pantocratore «Zamoskvoreckij most» Icona russa, inizio del XIX sec. 53,5 x 43

Questa tipologia a Mosca prendeva la particolare denominazione che leggiamo nel titolo, e che significa «Pantocratore al ponte per l’Oltremoscova», a motivo di un’icona particolarmente venerata che si trovava in questo quartiere cittadino. Particolare è lo scorcio in cui il Salvatore è ritratto, che accentua le dimensioni del volto rispetto a quello del Vangelo, e taglia la mano lasciandone visibile solo la metà superiore; insolita è anche la resa del volto, che non porta quasi i segni del consueto procedimento di «illuminazione», e cioè di schiariture progressive ottenute mediante mani sovrapposte di ocre sempre più chiare, che disegnano i lineamenti . Si osservano solo lievi tocchi di bianco intorno agli occhi e sulla fronte. La scritta che si legge sul libro aperto è quella tradizionale, tratta dal Vangelo secondo san Matteo (11,28).

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68. Pantocratore Icona russa, XIX sec. Rivestimento in argento e smalti, 31,5 x 26,7

La raffigurazione del Pantocratore, che mostra il Vangelo aperto al passo di Matteo 11,2829, segue in tutto i canoni iconografici usuali di questa tipologia. Interessante rilevare la presenza della teca in legno che custodisce l’immagine sacra: era un elemento consueto per le icone conservate tra le pareti domestiche, generalmente raggruppate insieme nel cosiddetto angolo sacro, che diventava il tempio domestico, davanti a cui la famiglia si riuniva per la preghiera comune, quotidianamente e nei momenti piÚ importanti.

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6. Le icone in fusione di metallo


Le icone in fusione di metallo di ALFONSO SAMPIERI

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e icone di metallo hanno giocato un ruolo fondamentale nell’iconografia della grande Rus’, un’arte di grande maestria del miniaturismo ed abilità orafa di notevole effetto. Vari sono stati i metalli impiegati: il rame (anticamente il più usato), soluzioni diverse in leghe come bronzo, ottone e alpaca, per poi arrivare all’argento e all’oro. Le icone così preparate garantivano maggior durata, oltre al minor costo di produzione, se confrontate con le più particolari icone su tavola, pur mantenendo inalterato il mistico significato proprio degli oggetti sacri. Già dal XII secolo le icone prodotte con leghe in rame nelle loro varie tipologie diventano parte integrante dell’iconografia della terra Russa, diffondendosi dall’attuale Ucraina (Principato di Kiev) e divenendo in breve tempo il gruppo più importante dei manufatti dell’arte russa ecclesiastica. La loro grande popolarità d’uso si deve al fatto che la fusione del metallo è una tecnica semplice, la lega di rame un materiale economico. La grande richiesta di questi oggetti sacri, seppure metallici, rese di fatto “industriale” la loro produzione. Questi manufatti iconografici si diffusero da Bizanzio al territorio del Principato di Kiev, con l’avvento della religione cristiana abbracciata dal principe Vladimiro il Grande (972-1015) che, nel 988, sposò una principessa bizantina. Come accadde per le icone su tavola ed in affresco, la cultura russa acquisì velocemente l’arte iconografica bizantina anche nella produzione propria di icone metalliche, copiandone le immagini e le diverse varietà di fusione, adattandole però al gusto e alla tradizione locale. Quando Kiev fu occupata dai Mongoli (1240-1322) e successivamente dai Polacco-Lituani, questa arte ebbe un arresto forzato; da allora prese avvio quel decentramento della produzione nell’area di Novgorod, nel Nord della Russia. Novgorod, “La Grande Signora”, rimase sempre libera e non fu mai occupata da invasori, restò quindi zona franca, acquisendo un ruolo eccezionale e centrale nella conservazione e sviluppo dell’iconografia in generale. Con la definitiva liberazione della terra Russa dalle occupazioni mongole e tartare agli inizi del XVI secolo (del 1502 è la vittoria sull’Orda d’Oro), riprese con grande vigore la produzione iconografica sia delle icone dipinte che in fusione di metallo.

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La venerazione delle icone nella terra Russa, in tutte le loro tipologie, svolse il ruolo essenziale e completo non solo nel culto ufficiale della Chiesa orientale, ma anche nel normale vivere del credente ortodosso, sia nelle manifestazioni, pubbliche e private, nelle grandi occasioni, sia nei piccoli bisogni quotidiani. L’iconografia bizantina, introdotta dal principe Vladimir nel 988 nel Principato dell’attuale Ucraina, si estese gradatamente seguendo l’evoluzione e gli eventi del territorio russo; elaborandone metodi, tipologie, formando grandi maestri e scuole, facendo dell’icona un emblema proprio della Russia, tanto da essere chiamata “la terra delle icone”. Le icone in fusione di metallo, in tutta la loro storia, svolsero un ruolo importante nella cultura ortodossa russa per la pratica devozionale, specie nell’uso personale e familiare. Con la caduta dell’impero zarista nel 1917, si è interrotta una secolare e profonda identità culturale, la soppressione del culto religioso e l’avvento del regime comunista hanno affievolito ogni forma di devozione cristiana, perdendo velocemente le secolari conoscenze. Anche per quanto riguarda le icone in bronzo si sono perse molte cognizioni, ma il progressivo interesse per questo tipo di arte, da parte degli studiosi e del collezionismo antiquario, ha portato a studi e ricerche iniziati agli inizi del secolo scorso, con pubblicazioni interessanti. Continuano a tutt’oggi gli studi di approfondimento che riservano ancora lacune a molte risposte, in un campo assai vasto quale è stato la secolare produzione ed il culto legato alle icone in fusione di metallo. Le icone di metallo e i “Vecchi Credenti” Nel corso del XVII secolo, lo Stato russo si apre all’influenza occidentale e per la Chiesa arriva il grande mutamento introdotto negli anni 1650; i Concilii di Mosca (1666-1667) “riformano” i testi liturgici e le pratiche in uso - anche quelle iconografiche - secondo i dettami del nuovo patriarca di Mosca Nikon (1606-1681). Su sua iniziativa si migliorano i testi liturgici, correggendo le traduzioni sbagliate che erano sorte con la copiatura nel corso del tempo, la celebrazione dei riti religiosi fu modificata, conformandosi sempre più alle linee greche. I credenti dovettero abituarsi a fare il segno della croce con tre dita anziché due e Nikon introdusse come croce ufficiale della Chiesa quella a quattro punte, sostituendola a quella a otto punte. Tuttavia il cambiamento non fu accettato da un’ampia fascia di conservatori guidati dall’arciprete Avvakum; questi si considerarono i soli depositari dell’antica fede e tradizione russoortodossa, staccandosi di fatto dalla Chiesa ufficiale e venendo in seguito comunemente chiamati i “Vecchi Credenti”. Essi rimasero fedeli ai modi antichi nella loro vita religiosa, considerando la Chiesa di Stato ed i suoi rappresentanti come una manifestazione dell’anticristo. La Chiesa ufficiale indicò i Vecchi Credenti come raskolniki, cioè scismatici, e diede avvio nei loro confronti ad un lungo periodo di persecuzioni, talvolta anche provenienti dallo Stato. L’arciprete Avvakum fu imprigionato e mandato in Siberia a scontare una pena detentiva per

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quindici anni a Pustozersk (oggi Narjan Mar) sulle rive del fiume Pècora; lì trovò la morte bruciato al rogo nel 1682. Le comunità dei Vecchi Credenti dovettero migrare dalle aree urbane, rifugiandosi in zone impervie, e furono proprio loro a continuare in modo deciso la produzione costante delle icone in fusione di metallo, diventando maestri riconosciuti e depositari di questa arte che dal XVII secolo si è legata a loro in forma inscindibile. Paradossalmente, fu proprio la separazione dei Vecchi Credenti dalla Chiesa ufficiale che innescò uno slancio nella richiesta e nella produzione delle icone in bronzo, anche a dispetto della proibizione, emanata da Pietro il Grande in data 31 gennaio 1723, di produrre icone in fusione su tutto il territorio russo. Questo famoso Ukaz, ordine perentorio dello Zar, fu strettamente osservato per ben 160 anni. Le comunità “scismatiche” dei Vecchi Credenti continuarono, comunque, a produrre e fondere queste icone in centinaia di migliaia d’esemplari e, proprio grazie alla loro caparbietà, questa arte poté continuare ad evolversi in tutte le sue peculiarità stilistiche di grande pregio e tradizione antica, diventando quasi loro monopolio esclusivo. Le zone più importanti, dove le comunità dei Vecchi Credenti operarono dalla fine del XVII secolo sino alla caduta dell’impero zarista (1917), furono quindi aree impervie e periferiche della Russia, che permisero loro, spostandosi, di sfuggire alle persecuzioni: zone diverse nelle varie epoche, con fasi che potremmo definire di “spostamento nomade”. Basilare la prima loro concentrazione fra le rive del Mar Bianco nella Carelia Orientale e sulle sponde dei laghi Ladoga e Onega: è proprio a Nord-Est del lago Onega che nacque nel 1690 l’eremo di Vyg, fondato da Daniil Vikulin. Situato tra foreste inaccessibili e paludi, sulle rive del fiume Vyg, a quaranta chilometri dalla piccola città di Povenets, quest’ultimo divenne centro e rifugio tra i più importanti dei Vecchi Credenti, fulcro e riferimento culturale della loro fede nei secoli successivi, ampliandosi ed accrescendo il suo potere sino alla metà del XIX secolo. Moltissimi sono i modelli, le fogge, gli ornamenti e colori nell’iconografia dei manufatti in metallo; parecchi di questi sono stati creati nel periodo tra il XVIII e XIX secolo in diversi laboratori e fonderie, ma i più rappresentativi e stimati, per il loro significato di fede e ricercata fattura, sono i modelli Vyg. Nelle officine attorno al famoso monastero dei Vecchi Credenti si sono creati maestri e opere in metallo, diventate modello per molte imitazioni fino all’inizio del XX secolo. Nei suoi laboratori, artigiani qualificati, oltre alle icone di bronzo e a qualsiasi altro tipo di manufatto in metallo, miniavano manoscritti con ornamenti di rara bellezza e provvedevano alla copiatura amanuense dei testi antichi. Un visitatore del monastero Vyg, nel tardo XVIII secolo, così ne citava l’operosità “…una fonderia di ottone è situata vicino alla conceria: qui in due forni immagini di ottone vengono fuse, in un altro edificio sono pulite, coperte di smalti e vendute ai visitatori e pellegrini…”. Sotto il regno dello Zar Nicola I, una politica intesa ad “…eliminare totalmente il dissenso” che fu sostenuta con molto zelo, portò alla chiusura, tra il 1854 ed il 1856, del grande

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Arcangelo Michele, bronzo russo del XIX secolo, particolare, Collezione Orler.

monastero di Vyg. I luoghi di culto, come chiese e cappelle, furono chiusi, i libri e le icone sequestrati, i cimiteri selvaggiamente devastati e gli edifici “dichiarati danneggiati” demoliti. Altre forti concentrazioni si formarono nella Carelia del Nord in Finlandia, mantenendo un insediamento stabile già dal XVII secolo. L’area Baltica fu una della zone dove i Vecchi Credenti si mossero dal mar Bianco in Carelia; i primi emigranti russi in Estonia sono stati proprio loro: nei villaggi di Nina e Kallaste vicino al lago Peipsi, tra il XVII e il XVIII secolo. Il loro spostamento si diresse anche dal Baltico alla Polonia, arrivando nella prima metà del XIX secolo in Estonia dalle aree di Archangel, Pskov e Novgorod. Molti di loro, lasciando l’area di Archangel al Nord, emigrarono non più tardi del XVII secolo verso Ust-Tsilma sul fiume Pécora; centri importanti sorsero nella parte orientale di Jekaterinburg, sul fiume Jset, negli Urali, con monasteri a Dalmatov e Kondiskij. I “be popovtsj ” formarono una grande comunità a Ni hnij Novgorod, vicino al fiume

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Kerenets: negli anni 1720 contava ben 86.000 unità. Le persecuzioni dei Vecchi Credenti subirono una recrudescenza sotto il regno dello Zar Nicola I (1825-1855), mentre i suoi successori furono più tolleranti, ma quel periodo cruento, “lasciando il segno”, ha indotto i Vecchi Credenti a fuggire dall’altro lato degli Urali, verso la Siberia. Altro grande centro si costituì a Sud degli Urali, nella regione di Samara, a Perm’, che nel XIX secolo ospitò la più grande concentrazione di Vecchi Credenti. La loro migrazione costante non si mosse solo all’interno della Russia; essa interessò l’Asia, e l’Armenia, l’odierna Alaska e l’Europa, la Turchia e perfino la Cina; da lì ad Hong Kong, poi in Australia e nell’America del Sud (principalmente in Brasile) e nell’America del Nord (nello stato dell’Oregon). Seguendo l’itinerario percorso nei secoli da queste comunità all’interno della Russia, si deduce quali siano state le aree interessate alla Bronzo con smalti policromi del XIX secolo, produzione delle icone in fusione di metallo; tuttavia, dato che assai raramente qualcuna di Collezione Orler. esse veniva firmata o punzonata, è virtualmente impossibile determinare il luogo esatto di fabbricazione di una singola icona. Un modo certo per la loro datazione o luogo d’origine è il rinvenimento durante scavi archeologici od occasionali, in cui si sia trovata sepolta assieme al defunto la piccola icona di metallo allacciata attorno al collo con un lungo nastro, oppure avvolta in un panno. Di queste icone in fusione di metallo si conoscono stili mantenuti invariati presso comunità o monasteri, gelosamente custoditi nei secoli e sfuggiti alle requisizioni del Regime che le mandava a fusione a migliaia per altri scopi. Gli stampi, vere opere del bassorilievo in miniatura, erano realizzati da abili incisori, anche su commissione da altro luogo; i Vecchi Credenti, nonostante fossero aspramente contestati, erano poi ricercati per la lavorazione e fusione di campane, croci in bronzo processionali, pregiate lavorazioni o rivestimenti dei testi liturgici, suppellettili metallici a uso domestico, accessori ecclesiastici per le chiese, per la devozione familiare. Su ordinazione, preparavano icone in metalli preziosi per i signori dell’alta aristocrazia russa. Ad Irbit esisteva il mercato di primavera, mentre quello di Ni nij Novgorod durava tutto

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l’anno, divenendo il più grosso centro di commercio dei manufatti in fusione. In queste località si concentravano per giorni produttori di icone, commercianti ed acquirenti, provenienti da tutte le regioni della Madre Russia. Citiamo solo alcuni dei luoghi più rinomati di produzione di queste icone metalliche: la zona del Baltico e le sponde dei laghi Ladoga ed Onega, l’area di Pomor’e, Nev’jansk negli Urali (ricchi del materiale primo), trasformatosi agli inizi del XVIII secolo da modesto villaggio manifatturiero nella prima capitale mineraria dei fratelli Demidov. Dal 1720 sino alla fine del XIX secolo si operò ininterrottamente nei monasteri della comunità di Vjg e Leksa nel distretto di Olonets, a Ni nij Tagil e ancora negli Urali, a Suksn, Kama, Alapaevsk e Kasli. Nella provincia di Perm’, nei territori di Kostroma, Novgorod e Jaroslavl’, a Ustjug, nella zona del Volga meridionale e nelle regioni meridionali del Don, luoghi di produzione si trovavano a Vetka, un centro molto particolare a sud dell’attuale Bielorussia verso il confine con l’Ucraina. A Mosca, la produzione di icone in fusione cominciò tardi, solo verso il 1912, quando i centri nei pressi della capitale, come le fonderie di Sokolova e Pankratova a Preobrazhenskoje, vennero soppresse; ma la città divenne velocemente il secondo centro per importanza. Nei sobborghi vicini alla capitale rinomate e particolari erano le croci e le icone in metallo di Gusicy, villaggio nel distretto di Iljinskii (Mosca), dove c’erano numerose fonderie ed un grande monastero. Il villaggio produttivo dei manufatti di metallo della comunità dei Vecchi Credenti di Preobrazhenskoje fu fondato nel 1771 da un mercante moscovita, Ll’ya Kovylin (1731-1809), lontano dalla città di Mosca, nascosto tra le colline in prossimità dello stagno di Khapilov. La comunità di Preobrazhenskoje si basava sugli insegnamenti di Vyg; i suoi rigorosi dettami, appresi da Kovylin e dai suoi compagni, erano fonte di insegnamento per una produzione appropriata di oggetti in rame e di croci. La comunità divenne il centro più importante nella provincia di Mosca e nel 1835 contava ben 1.259 persone. I lavori, fatti nelle fonderie di Sokolova e Pankratova, furono la conclusione alla storia della produzione dei manufatti in metallo da parte dei Vecchi Credenti associati alla comunità di Preobrazhenskoje di Mosca. A partire dal 1883, un decreto dello Zar Alessandro III, permise ufficialmente ai Vecchi Credenti di attendere alla produzione di icone sino ad allora fatta dalle comunità dei popovcy contro le regole della Chiesa ufficiale e dello Stato e durata per più di due secoli sempre nascostamente. Le comunità scismatiche dei Vecchi Credenti ottennero molto più tardi in modo definitivo la loro libertà di culto, il diritto di costruire ufficialmente chiese e produrre icone. Solo nel 1905 il Manifesto del 17 aprile “Sulla libertà di confessione religiosa” legalizzò il loro culto. Dopo un processo millenario di sviluppo costante, la caduta dell’Impero Russo e l’avvento del Comunismo, assieme ai complementari e successivi sommovimenti di enorme portata, hanno segnato la definitiva chiusura delle antiche botteghe russe e dei crogioli di fusione per le icone di metallo.

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La tecnica di esecuzione delle icone di metallo Le icone di metallo vengono catalogate come “icone da viaggio” proprio per le loro dimensioni ridotte, usate sia per la devozione familiare che liturgica; modelli più piccoli erano portati al collo. Sono di diverse fogge e rappresentano tutta l’iconografia conosciuta. Possono essere distinte in icone semplici, dittici, trittici (a due e tre formelle incernierate assieme), polittici (cioè composti da più di tre formelle) e croci. La caratteristica principale che ha permesso la loro rapida diffusione è la durevolezza, oltre al basso costo che ne permetteva l’acquisto anche per i meno abbienti, sostituendo le più antiche forme fatte su pietra, legno, osso o avorio. I Vecchi Credenti veneravano particolarmente le icone di metallo, per la loro specifica natura: le icone di bronzo, erano sì create da mani esperte, ma forgiate nel fuoco, quindi, purificate. Fatte per affrontare l’influenza della terra, dell’acqua e del fuoco, questi fattori lasciano sull’icona i segni del tempo ed il classico processo di invecchiamento, segni che sono caratteristici delle vecchie icone di metallo e, allo stesso tempo, distinguono un oggetto invecchiato col tempo da uno invecchiato in modo artificiale. Le icone di metallo sono state realizzate principalmente in bronzo e ottone, che sono entrambi leghe a base di rame, mentre le icone più antiche fatte solo di puro rame o piombo sono molto rare, come pure in solo zinco; seguono i metalli pregiati quali l’alpaca, l’argento e l’oro, usati dai grandi maestri per creare delle icone che diventavano dei veri gioielli, con lavorazioni assai raffinate riservate a committenze agiate. Il bronzo è una lega di rame e stagno, mentre l’ottone contiene rame e zinco. Comparato al bronzo, l’ottone è generalmente più giallo, ma questa non è sempre la regola poiché la composizione delle leghe usate nella fabbricazione varia in modo considerevole, sia nei materiali oltre al rame (stagno, argento e oro) sia nella percentuale. Quindi le icone in fusione, per una più pratica definizione, sono citate come “icone di metallo” o “icone di bronzo”. Le icone dette “di bronzo” sono, senza eccezioni, dei bassorilievi ottenuti per colata di metallo fuso; rappresentano il risultato del concorso di due diverse tecniche artistiche: l’arte scultorea del bassorilievo e l’arte della lavorazione dei metalli. Persone di grande valenza artistica lavoravano i prototipi per le fusioni: erano dette “maestri-modellatori” e, a loro volta, avevano appreso l’arte alla scuola di rinomati monasteri come Vyg; essi si avvalevano di almeno 4 o 5 aiutanti che, a loro volta, acquisivano l’arte sotto l’attenta guida del maestro. La produzione prevedeva diversi stadi preparatori. La fase iniziale era la costruzione del soggetto per ottenere il prototipo primario, la matrice che avrebbe permesso la fusione di numerose riproduzioni. Certamente, la creazione del modello base era il momento più delicato che richiedeva lo studio e la ricerca, non solo tecnica e pratica, ma bastata soprattutto sul rispetto dei canoni iconografici stabiliti in rispetto dei principi fondamentali della dottrina ortodossa. Una ricerca attenta, nel dare al materiale fuso l’identità primaria, vale a dire la trasmissio-

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ne del sacro attraverso un’immagine. Successivamente, individuato il modello, si procedeva alla preparazione del prototipo con l’uso sapiente di materiali quali la cera, l’argilla, i metalli teneri ed il legno, tra i più utilizzati per la loro pronta disponibilità e le adeguate proprietà di lavorazione. Seguiva l’operazione della fusione: il metodo più comune usato era il sand casting (fusione nella sabbia), procedimento che ha permesso la produzione in serie e la creazione di diverse variazioni, con ottimi risultati. Predisposta un’intelaiatura contenente la sabbia fondente con dell’apposito legante, veniva impresso il prototipo; scuotendo leggermente la sabbia fondente si otteneva la massima adesione al prototipo e quindi l’impronta negativa San Nicola, bronzo con smalti policromi, XIX secolo, Collezione Orler. agente come stampo. Si eseguiva la stessa operazione per ricavare il calco contrario del prototipo, cui seguiva il procedimento di fusione con la colata del metallo liquido. Il processo poteva essere ripetuto più volte e la sabbia riutilizzata. Tutte le icone fuse erano successivamente portate presso altri centri di lavorazione per le rifiniture dalle sbavature e scorie di fusione, lisciatura dei bordi, pulitura e rettifiche, la preparazione dei fori nelle apposite piccole protuberanze sfaccettate per la sospensione dell’icona. La fase successiva prevedeva la cesellatura ed incisione operate da mani esperte, che terminava la lavorazione di un’icona base. La fabbricazione di queste vere e proprie opere d’arte poteva essere ulteriormente impreziosita con riadattamento a filigrana su particolari dettagli della raffigurazione; non ultima la colata di smalti policromi all’interno di minuscole cellette. Per un maggior risalto finale si operava la doratura, raramente l’argentatura, oppure, nelle botteghe più rinomate, si procedeva alla copertura finale con uno strato di smalto fuso, resistente e traslucido, con effetto brillante. Un’icona di fusione non era e non può essere vista e valutata come un semplice manufatto artigianale metallico; questi straordinari oggetti di devozione hanno tutta la dignità delle opere d’arte, essendo caratterizzati da un’alta qualità e particolare creatività, conservando contemporaneamente lo scopo primario del messaggio di fede.

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Gli smalti policromi L’uso degli smalti è antichissimo, se ne sono trovati in tombe caucasiche del I millennio a.C. La più grande fioritura di questa tecnica avvenne tra il X e il XII secolo, ad opera degli orafi bizantini che produssero oggetti liturgici, croci enkolpion e pettorali, ornamenti preziosi e fibule. La scuola bizantina influenzò tutta l’Europa; nei principati russi del X secolo si diffuse con la fede cristiana abbracciata dal Principe Vladimir nel 988. Nei territori della Rus’ la smaltatura, rara nelle prime icone in metallo, fu particolarmente preferita nei secoli XVIII e XIX, sostituendo in modo apparente l’argentatura. La raffinata e difficile tecnica di smaltatura, usata alla maniera detta cloisonné, si otteneva versando pasta vitrea fusa ad alte temperature in appositi alveoli o cellette create secondo il disegno predisposto; da notare che ogni colore richiedeva una temperatura diversa. Questa lavorazione, che esigeva grande abilità e perfezione d’opera, era fatta solo da persone altamente qualificate o da orafi in botteghe rinomate. Lo smalto, nel XIX secolo, oltre alle icone in metallo ed ai rivestimenti pregiati di icone su tavola, ha visto la sua applicazione su svariati oggetti preziosi. L’abilità eccezionale in quest’arte di alcuni orafi russi ha raggiunto livelli invidiabili ed unici. Lo smalto, con l’uso di colorazioni brillanti e diverse, impreziosiva e abbelliva notevolmente l’icona, il che ne aumentò certamente la richiesta. Per questo si trovano sovente icone di bronzo con le cellette vuote, perché la matrice era fatta già in funzione del doppio uso. Dapprima le colorazioni usate nelle smaltature erano poche, come il blu intenso, il bianco ed il turchese, poi la gamma si estese alle tonalità verdi, rosso, ocra e giallo, donando all’opera pulimentata un vivace e piacevole aspetto cromatico. Sebbene la colorazione abbia mantenuto una gamma cromatica costante nel tempo, ciò nonostante non si è trovato una ragione specifica che abbini i colori impiegati nella smaltatura dei bronzi al significato spirituale, come accade nell’iconografia su tavola. Richiedere oggi un oggetto con smalti ha un costo elevato: anche all’epoca aveva un valore superiore ad un bronzo normale; è quindi pensabile che una buona parte venisse lavorata solo su committenza, magari a costo di sacrificio economico. Si sa che impreziosire un’icona, anche in un secondo tempo, non era un modo fine a se stesso per distinguersi, o per avere un ‘pezzo’ pregiato da mostrare agli amici come in uso oggi. La preziosa smaltatura con finiture a cesello, la doratura e quanto poteva rendere più bella un’icona erano fatte come ulteriore dimostrazione di alta devozione all’immagine sacra e miracolosa; oppure, più semplicemente, testimoniava un’intensa reverenza verso un’icona particolarmente cara al credente. Una tecnica orafa nata per esaltare il sacro è divenuta un’arte che comunque affascina.

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69. Salvatore “beato silenzio� Bronzo con smalti policromi, XIX sec. 15,5 x 13,2

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Salvatore di Solovkij .70 Bronzo con smalti policromi, XIX sec. 13,2 x 10,7

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71. Madre di Dio del roveto ardente Bronzo con smalti policromi, XIX sec. 10 x 9,4

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Crocefisso .72 Bronzo con smalti policromi, XIX sec. 35,5 x 23,3

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73. Madre di Dio di Kazan Bronzo con smalti policromi, XIX sec. 13,8 x 12,5

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ORLER UMBERTIDE 2

26-09-2006

11:03

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Deesis con Madre di Dio di Smolensk e santi .74 Bronzo con smalti policromi, XIX sec. 13,5 x 12

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75. San Nicola Bronzo con smalti policromi, XIX sec. 13 x 11,5

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Madre di Dio di Vladimir .76 Bronzo con smalti policromi, XIX sec. 16 x 14

219


77. Crocifissione Bronzo con smalti policromi, XIX sec. 41 x 25,8

220


Deesis .78 Bronzo con smalti policromi, XIX sec. 9,7 x 27,5

221


79. Madre di Dio di Smolensk Bronzo con smalti policromi, XIX sec. 17,3 x 15

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Finito di stampare nel maggio 2005 C&M Arte


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