Tesi Raffaella Locascio

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RAFFAELLA LOCASCIO

STARTUP Analisi contestuali e Strategie di marketing per un giovane brand di moda



MINISTERO DELL’UNIVERSITA’ E DELLA RICERCA ALTA FORMAZIONE ARTISTICA E MUSICALE ACCADEMIA DI BELLE ARTI DI PALERMO DIPARTIMENTO DI PROGETTAZIONE E ARTI APPLICATE SCUOLA DI PROGETTAZIONE ARTISTICA PER L’IMPRESA DIPLOMA ACCADEMICO DI PRIMO LIVELLO IN PROGETTAZIONE DELLA MODA

STARTUP

Analisi contestuali e Strategie di marketing per un giovane brand di moda di RAFFAELLA LOCASCIO 7112

Relatore PROF. VITTORIO UGO VICARI

A.A. 2013-2014



Indice generale

Introduzione PARTE PRIMA Capitolo I

Capitolo II

LO SCENARIO DEL MERCATO DELLA MODA

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1.1. Evoluzione dei modelli strategici industriali nel sistema della moda 1.1.1. Prima Fase: l’era post-industriale 1.1.2. Seconda fase: creazione di marche 1.1.3. Terza fase: riscontro dello sviluppo industriale 1.1.4. Quarta fase: holding finanziarie 1.2. Le risposte allo scenario 1.2.1. La saturazione quantitativa dei mercati industriali 1.2.2. Concorrenza e competizione 1.2.3. La polarizzazione del mercato 1.2.4. L’evoluzione dei consumi 1.2.5. Anni sessanta-settanta 1.2.6. Anni ottanta-novanta 1.2.7. Fine anni Novanta 1.2.8. Il nuovo consumo 1.3. La visione economica dell’ultimo decennio 1.3.1. Periodo 2007-2011 1.3.2. Biennio 2012-2013 1.4. Valutazioni conclusive

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IL MODELLO DEL SISTEMA “MADE IN ITALY”

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2.1. I paradossi del made in Italy 2.2. Le interpretazioni del “made in..” 2.3. L’industria della moda in Italia 2.3.1. Le origini 2.3.2. Il modello produttivo 2.4. Evoluzione storica e caratteristiche del sistema distrettuale

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Capitolo III

2.5. Il modello strategico d’impresa 2.5.1. Vantaggi competitivi 2.5.2. I fattori di debolezza 2.6. Le sfide da affrontare 2.6.1. Gli ostacoli per i talenti emergenti 2.7. Le proposte di sviluppo 2.7.1. Nuove visioni strategiche: le esperienze aziendali 2.7.2. L’esperienza della Sartoria Crimi 2.8. Associazioni della moda italiana 2.8.1. Associazione Tessile Italiana 2.8.2. Sistema Moda Italia 2.8.3. Pitti immagine 2.8.4. Camera Nazionale della Moda Italiana 2.8.5. AltaRoma 2.9. Punti comuni tra le Associazioni 2.10. Valutazioni conclusive

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ORIENTAMENTO DI MARKETING

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3.1 Perché adottare il Fashion marketing? 3.2. Le funzioni di marketing 3.3. Le caratterizzazioni del mercato 3.4. Pianificazione aziendale e di marketing 3.4.1. Marketing differenziato 3.4.2. Marketing indifferenziato 3.4.3. Marketing concentrato o di nicchia 3.4.4. Marketing di tipo misto 3.5. La segmentazione del mercato della moda 3.5.1. La tecnica di segmentazione 3.5.2. Definizione dell’ambito competitivo 3.6. Il processo di posizionamento strategico 3.6.1. La tecnica di posizionamento 3.7. La politica di comunicazione 3.8. Il controllo dell’efficienza strategica: il Marketing Audit 3.9. Valutazioni conclusive

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Capitolo IV

Capitolo V

Capitolo VI

IL MANAGEMENT AL SERVIZIO DELLA CREATIVITA’

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4.1. Introduzione alle discipline manageriali 4.2. I modelli manageriali 4.3. Un modello di management “artistico” 4.4. Una concezione moderna di logistica: il supply chain management 4.4.1. Il supply chain e la competitività nel Fast Fashion 4.4.2. Il supply chain nella catena logistica 4.5. L’analisi SWOT 4.5.1. Esempio: l’analisi SWOT di Zara 4.6. Retail management 4.6.1. Il canale retail 4.6.2. Il canale wholesale 4.7. Come definire la strategia

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INTERNAZIONALIZZAZIONE DI UN MODELLO ITALIANO

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5.1. Internazionalizzazione produttiva e di mercato 5.2. La gestione internazionale delle attività della catena del valore 5.3. Il mercato globale: la battaglia concorrenziale 5.4. Le strategie d’internazionalizzazione 5.4.1. La fase di ricerca preventiva e definizione delle reti distributive 5.5. Modalità a confronto: integrazione verticale e global sourcing 5.6. Esportazione: una solida politica di rilancio 5.7. Valutazioni conclusive

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IL DIRITTO E LA MODA

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6.1. Il design fra creatività e diritto 189 6.1.1. La tutela della creatività 190 6.1.2. La registrazione del disegno o modello 191 6.1.3. La tutela del diritto d’autore 192 6.1.4. La nuova tutela europea 194


6.2. Il marchio per l’azienda moda 6.2.1. Quali segni possono essere registrati? 6.2.2. Tipologia e classificazione dei marchi 6.2.3. Chi può registrare un marchio? 6.2.4. La cessione del marchio, il licensing e il merchandising 6.3. La contraffazione: nozione e strategie 6.3.1. Strumenti di tutela giudiziale 6.4. Guida all’import-export: le misure alla frontiera 6.4.1. Origine doganale 6.4.2. Le misure doganali contro la contraffazione 6.5. La tutela del Made in Italy 6.5.1 Progetto Sos Etichettatura 6.6. La tutela della moda all’estero 6.6.1. Olanda e Germania 6.6.2. L’Inghilterra 6.6.3. La Spagna e il Portogallo 6.6.4. I Paesi nordici 6.6.5. La Svizzera 6.6.6. Canada e Stati Uniti

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PARTE SECONDA Capitolo VII

Il Progetto

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Capitolo VIII

Mappa di costruzione del sito

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Apparati

Bibliografia Sitografia

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Introduzione

Il sistema moda italiano, fondamentale per la nostra economia, sta attraversando una fase di transizione che richiede un momento di riflessione. Importanti fenomeni di cambiamento si stanno realizzando, e le regole del business si stanno modificando. La competizione con partner internazionali e la conquista di nuovi mercati, l’avvento delle nuove tecnologie, la necessità sempre maggiore di migliorare le performance e ridurre i tempi di risposta al mercato, la crescente attenzione dei consumatori verso tematiche di rispetto dell’ambiente e della società, i cambiamenti a livello normativo delle politiche del Made in Italy sono solo alcune delle grandi sfide che le neonate aziende del fashion business si trovano ad affrontare. Sulla base di un’analisi della letteratura internazionale di riferimento, di statistiche e report economici annuali e percorrendo una storia dell’economia italiana dagli anni Settanta a oggi, è stato possibile individuare alcune tematiche, che più di altre, sembrano critiche per la competitività presente e futura delle imprese del sistema Moda, quali: il ruolo delle tecnologie di comunicazione, la gestione del sistema commerciale, il Made in Italy e la tracciabilità della filiera, il fenomeno dell’off-shoring e la sostenibilità delle collezioni basate sulla qualità del prodotto italiano. Principale proposito è agevolare la cognizione del funzionamento di tutti gli strumenti della comunicazione d’impresa, nell’attuale contesto sociale e di mercato. Per delineare un quadro esaustivo ed aggiornato delle principali problematiche in questo ambito, non si potrà quindi prescindere dal parlare dei sempre più numerosi strumenti che l’esplosione dei new media 9


ha portato alla ribalta. Con queste premesse si è dato vita a un progetto di tesi che, sin dalle prime pagine, non ha voluto ridursi a una pura discussione teorica fine a se stessa, ma che al contrario ha preferito fare costante riferimento alle reali prassi aziendali, offrendo un punto di partenza per acquisire quelle competenze manageriali, analitiche e progettuali fondamentali per la realizzazione del progetto prestabilito : avviare la nostra azienda Startup in un settore a elevato contenuto simbolico ma fortemente penalizzato come quello della moda. Si è cercato, pertanto, di raccogliere in un unico elaborato i contributi accademici più recenti e le best practices aziendali rilevanti per il management della moda, andando a presidiare aree tematiche ancora assenti o trattate in maniera frammentaria all’interno dei testi italiani sulla moda, (come la stretta relazione tra il diritto e la moda). Un intenso percorso di studio condotto, allora, per acquisire

le

competenze atte a scogere l’iter necessario alla concretizzazione di un’azienda Startup. In relazione alla prassi emersa, vedremo stabilire e attuare la strategia manageriale che abbiamo ritenuto più idonea, l’impiego del canale retail con relativa costruzione di un sito ecommerce. E’ in questa direzione che abbiamo voluto indirizzare l’avvio del nostro giovane brand Korai di Tiziana Capillo, Palermo. Prima di procedere sono d’obbligo alcuni ringraziamenti a tutte le persone che hanno lavorato con me alla realizzazione dell’elaborato: a Tiziana Capillo esprimo la mia gratitudine per aver reso possibile il compimento di questo progetto e per aver avuto fiducia in me lasciandosi guidare; a Marcella Sardo, mio tutor di tirocinio, giornalista e redattore capo della redazione web «Seguonews» per avermi istruita sapientemente. Per l’impaginazione grafica la web designer Ilaria Spanò. 10


Per la realizzazione del sito e-commerce il web master Giovanni Mammano. Desidero ringraziare anche tutti gli Enti che hanno supportato l’elaborato con le loro testimonianze, inviando comunicati e materiali: ICE – Agenzia per la promozione all’estero e l’internazionalizzazione delle imprese italiane di Roma; Sartoria Crimi di Palermo, FederazioneModa Caltanissetta, Camera di Commercio Industria Artigianato e Agricoltura di Caltanissetta; e la Biblioteca Scarabelli di Caltanissetta. Al Prof. Sergio Pausig per l’interesse mostrato al suddetto progetto. Un ultimo ringraziamento a Vittorio Ugo Vicari, storico della moda e mio relatore, per avermi guidata con professionalità consentendomi di sistematizzare con questo progetto un intenso percorso di studio.

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Ai miei genitori



CAPITOLO I LO SCENARIO DEL MERCATO DELLA MODA Il contesto empirico dello studio è il cosiddetto “sistema moda” italiano. Dare una definizione di sistema moda significa comprendere una realtà vasta e articolata che si presenta come un sistema industriale unico al mondo per dimensioni, caratteristiche e forza competitiva. I settori della moda e del lusso rappresentano infatti una delle maggiori attività economiche al mondo, anche se la loro rilevanza è costantemente sottostimata. Il business della moda è considerato non solo uno dei più fiorenti dell’economia italiana, ma è anche uno dei pochi in cui il nostro Paese detenga posizioni di leadership a livello internazionale: un dato infatti che emerge con forza da alcune analisi è l’elevata quota di mercato detenuta globalmente dalle imprese italiane nello scenario mondiale. In particolare, le imprese brand owner italiane detengono una quota che si attesta attorno al 25% del valore del mercato mondiale del lusso, classificandosi al primo posto, seguite dalle imprese francesi e americane 1. Le marche con fatturato superiore a 500 milioni di euro sono sette italiane contro le quattro francesi. Nonostante questi dati suggeriscano l’importanza e la vivacità di questo contesto, l’attenzione mostrata dalla letteratura accademica e da quella manageriale risulta molto contenuta. Lo scenario verso il quale si sta indirizzando il sistema moda italiano risulta essere particolarmente dinamico e complesso, anche se pur sempre interessante e stimolante; proprio per questo imprenditori, creatori di moda, manager del settore non possono non con15


frontarsi con esso, con quei fattori che in maniera determinante lo condizionano. La disamina che ne faremo fornirà un supporto basilare per la messa in atto della strategia di fashion marketing attuale e ad esso mirata, quindi permetterà di individuare la rotta verso cui imprese, stilisti e operatori dovranno indirizzarsi: sarà la messa a fuoco dello scenario a fornirci le necessarie indicazioni per attivare quel percorso strategico capace di portare l’impresa a impossessarsi della più appropriata progettualità, cioè di politiche e di strategie di marketing determinanti per affrontare con lungimiranza il mercato. La realtà è fatta di aziende sull’orlo del collasso, di maestranze in cassa integrazione, di chiusure, di licenziamenti. L’economia italiana è in grave recessione poiché investita dalla crisi del debito sovrano nell’area dell’euro, è dominata da notevoli incertezze che lasciano ben poco spazio all’esercitazione dialettica. Nel gran polverone che si solleva attorno alla questione industriale italiana, un solo punto fermo appare in modo piuttosto nitido: il tentativo disperato di proporre e recepire ipotesi di riforme, programmi quasi sempre destinati a rimanere lettera morta per mancanza di strumenti operativi veramente efficienti. Una diffusa sensazione, che trova eco con frequenza sempre maggiore nei dibattiti e negli scritti, segnala che nell’economia contemporanea le attività finanziarie starebbero prendendo la mano sulle attività produttive reali; sempre più gli operatori economici si lascerebbero sedurre dai giochi di carta della speculazione, e sempre meno sarebbero attratti dalla produzione di beni e servizi tangibili. L’industria manifatturiera è uscita dai paesi più avanzati e si va diffondendo nei paesi di nuova industrializzazione, dove la produzione di merci materiali è ancora prevalente. I paesi più avanzati, nel tenta16


tivo di conservare, sia pure a distanza, il controllo della produzione mondiale, diventano invece teatro di contrattazioni finanziarie e di speculazioni sempre più spericolate. Le circostanze negative che incalzano contro la costruzione di un buon sistema economico sembrano aver intaccato anche, e principalmente, il settore su cui focalizzeremo il nostro principale interesse: il settore moda. Le fondamenta di tali circostanze vanno ricercate negli sviluppi che precedono e che hanno formato il nostro attuale modello. Pertanto, il primo obiettivo della nostra ricerca è capire quali sono, nella percezione dell’esperienza delle imprese e del continuo alternarsi di alti e bassi nello status economico del Pese, le origini del nostro modello industriale, con il fine di far emergere le cause che ci hanno condotto alla situazione attuale. Poiché la storia della moda in Italia risale ai fasti della classicità etrusca, greca e romana, attraversa il classicismo rinascimentale per giungere, attraverso il successo del Made in Italy degli ultimi decenni del Nove cento, fino ai giorni nostri, noi ci occuperemo naturalmente di un arco temporale molto più recente, dal momento che proprio negli ultimi decenni si sono verificate situazioni uniche, in grado di spiegare non soltanto le recenti debolezze, ma anche le potenziali dello storico successo del sistema moda italiano.

1.1. Evoluzione dei modelli strategici industriali nel sistema moda (1965-75) Nel corso degli anni ‘70-‘90 le imprese operanti nella moda hanno conseguito un percorso di sviluppo caratterizzato da una significativa evoluzione nei fattori critici di successo del sistema 17


competitivo, nelle caratteristiche del sistema d’offerta e nei modelli strategici perseguiti. L’ipotesi alla base dell’interpretazione del successo, nazionale e internazionale, del sistema moda italiano è che nel paese, a cominciare dai primi anni Settanta, abbia positivamente operato una serie di condizioni, nella domanda e nell’offerta, riconducibili a fattori prettamente nazionali. E’ possibile scandire tale evoluzione in quattro fasi, fino all’attuale scenario. 1.1.1. Prima fase: l’era post-industriale All’inizio degli anni Settanta l’industria italiana del tessile-abbigliamento passava attraverso un profondo processo di ristrutturazione. Ne risultarono un notevole ridimensionamento delle grandi imprese che si erano affermate negli anni Cinquanta e Sessanta, lo sviluppo di un robusto e diffuso tessuto di piccole imprese e il rafforzamento dei distretti industriali. Questa prima fase ha inizio con la prima vera crisi dei tempi, anche se i nodi sono arrivati al pettine solo ora. Sono gli anni in cui l’economia italiana si ritrova colpita da un continuo aumento dei prezzi, dalla disoccupazione crescente, cali di produzione, del disavanzo della bilancia dei pagamenti e dalle perdite delle grandi imprese industriali. Le cause di tali situazioni erano numerose, concatenate e di diversa intensità. Il ’682 , senza dubbio, ha lasciato cambiamenti molto profondi e la crisi petrolifera, nel 19733 , ha rappresentato a sua volta un avvertimento concreto a prendere coscienza della limitatezza delle risorse naturali. Il quinquennio ’68-’73 è insomma il simbolo di una situazione di cambiamenti che in effetti è andata sviluppandosi 18


nel corso degli anni Settanta, anni che segnano il passaggio dall’era industriale a quella post-industriale. In cosa consiste esattamente questo cambiamento nessuno lo ha ancora capito fino in fondo: è difficile infatti definirlo proprio perché lo stiamo vivendo giorno per giorno, e per la prima volta nella storia. Altre cause sono legate al sistema economico internazionale. L’autunno caldo aveva inferto un colpo mortale alla grande impresa, anche per via della crescente concorrenza prevalentemente sui mercati esteri – dei prodotti prove nienti dai paesi a basso costo di manodopera. Molti imprenditori, per fronteggiare la perdita di competitività sui costi, ridurre la conflittualità interna e tutelarsi nel clima generale di ostilità nei confronti dell’impresa, cominciarono a smantellare le proprie strutture aziendali creando diverse piccole unità produttive in cui trasferire manodopera e macchinari. Le imprese minori mostrarono di disporre di notevoli vantaggi strategici a livello di flessibilità e innovazione di prodotto. In questi anni, il settore dell’abbigliamento registra la prima vera fase di industrializzazione tramite l’adozione di un sistema organizzativo che prevedeva la fabbricazione in linea dei capi. Questo tipo di organizzazione produttiva privilegiava l’alta produttività e la standardizzazione coerentemente con una situazione di mercato in cui la domanda eccedeva di gran lunga l’offerta. Ma le circostanze erano destinate, di lì a poco, a cambiare. Mentre nei paesi europei le crisi petrolifere favoriscono la concentrazione industriale e un maggiore investimento in nuove tecnologie, in Italia, complice anche la legislazione sui diritti dei lavoratori4, nelle grandi imprese si avvia il decentramento produttivo5. I processi del decentramento produttivo delle grandi imprese e della crescita e sviluppo delle piccole, hanno però potuto beneficiare del 19


carattere propulsivo dei distretti industriali, che hanno contribuito ad accrescere il livello di specializzazione e di innovazione della struttura indistriale assicurandole nel contempo i vantaggi della grande dimensione e della piccola. Tale evoluzione del sistema industriale non avrebbe comunque potuto, in sè e per sè, costituire un fattore sufficiente di vantaggio competitivo se non fosse stato accompagnato da altri due importanti fattori di cambiamento, a loro volta tra loro strettamente connessi: l’avvento e l’affermazione degli stilisti, e la rivitalizzazione della domanda. Ma il vero miracolo sta nella risposta delle piccole e medie imprese: la secolare tradizione manifatturiera di qualità per prodotti diversificati e realizzati su misura, si unisce alle moderne tecnologie produttive in un momento storico in cui i mercati internazionali, saturi dei prodotti di massa, richiedono una minore standardizzazione. Tale sistema ha dato vita a una riqualificazione dell’industria tradizionale che ha portato alla leadership dell’Italia sui mercati internazionali.

1.1.2. Seconda fase: creazione di marche (1975-85) Gli anni Ottanta sono testimoni dell’inizio della più lunga e stabile fase di espansione malgrado le scosse inferte dal crash azionario e malgrado il persistere di ampi squilibri nel sistema dei pagamenti tra le principali aree geoeconomiche. Questo decennio si è concluso in maniera diametralmente opposta a come si era aperto: la più lunga recessione del dopoguerra, gli squilibri dei pagamenti sembravano fare di questo decennio la degna prosecuzione dei tormentati anni ‘70. Invece, man mano che gli anni sono trascorsi, ci 20


si è accorti di essere di fronte a un progressivo recupero. Sotto il profilo congiunturale, l’economia italiana non stava andando male. Anche le previsioni per gli anni successivi apparivano abbastanza favorevoli. Questa industria rinnovata, insieme a imprenditori visionari e a una nuova generazione di stilisti sono le tre condizioni che interagendo danno vita, alle porte degli anni Ottanta, al fenomeno del Made in Italy 6, sostenuto e fortificato dalle azioni portate avanti dalla Camera Nazionale della Moda Italiana 7. Il concetto di moda è adesso limitato alla fascia alta del mercato (i segmenti dell’alta moda e del pret à porter di lusso); le mode si affermano e si rinnovano sulla base di un principio di prestigio ed esclusione con una forte connotazione di classe. Il sistema competitivo è caratterizzato da poche imprese, localizzate prevalentemente in Europa, di matrice artigianale/couturier o di uno stilista. I fattori critici di successo sono basati fondamentalmente sulla qualità del prodotto e l’originalità dello stile. Questa fase di grande sviluppo della moda a livello internazionale segue da vicino l’evoluzione della società. Nascono nuovi segmenti di mercato, la moda avvia un processo di “democratizzazione” che si completerà nei periodi successivi. Gli stilisti/couturier diventano imprenditori a capo di business che, grazie alla concessione di licenze, si allargano dall’abbigliamento agli accessori e ai profumi e coprono, grazie allo sviluppo di seconde e terze linee, diverse fasce di mercato. Accanto alla qualità e allo stile del prodotto, come fattore critico di successo per competere emerge la capacità commerciale; inizia così ad affermarsi un orientamento al mercato e alle vendite. Iniziano a configurarsi nicchie globali omogenee di consumatori interessati alla moda che stimola21


no lo sviluppo dell’internazionalizzazione delle imprese. La spinta alle esportazioni delle imprese italiane si sviluppa in seguito ai primi sintomi di rallentamento nella crescita della domanda interna. Le caratteristiche del processo di internazionalizzazione dell’industria italiana dell’abbigliamento e della moda riflettono comunque un netto orientamento al modello dell’esportazione. La focalizzazione sul prodotto e lo scarso orientamento al marketing spingono tuttavia le imprese italiane ad affidarsi a importatori piuttosto che creare strutture commerciali proprie.

La delocalizzazione produttiva L’offerta italiana e dei paesi industrializzati è riuscita a tenere sul mercato, nonostante la concorrenza dei paesi asiatici, grazie alle profonde organizzazioni del settore, ma anche grazie alla delocalizzazione produttiva fatta nei paesi dell’Est Europa e negli stessi paesi asiatici. Il fenomeno della delocalizzazione è ormai un dato acquisito dell’offerta moda; la produzione e l’organizzazione richiedono oggi dislocazione per avere competitività, per dotarsi d’effettive economie di scala: progettualità e management presso la casa madre, produzioni di parti in paesi diversi, filiali commerciali dove possibile; si spostano infatti produzioni basic a basso contenuto di moda, ma penalizzate dall’alto costo della manodopera; la sede centrale resta comunque in Italia. Bisogna anche pur dire che non si può delocalizzare sempre e dovunque; diventa determinante scegliere aree e paesi dove esiste una capacità produttiva in grado di assicurare un buon livello qualitativo al know how che viene loro affidato. Vale la pena evidenziare alcune delle aree di maggiore delocalizzazione produttiva:

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Paesi Est Europa: Romania, Ungheria, Bulgaria, Slovacchia, Croazia, Polonia, Albania, Bielorussia, Slovenia, Repubblica Ceca, Serbia Montenegro, Moldavia, ecc..; Paesi Nord Africa: Tunisia, Marocco; Paesi Asiatici: Cina, India, Hong Kong, Thailandia, Corea del Sud,ecc..; Paesi Europei: Finlandia, Portogallo, Irlanda, Turchia.

1.1.3. Terza fase: riscontro dello sviluppo industriale (1985-95) La cultura del consumo ha in questi anni il suo massimo sviluppo; il fascino della griffe, ormai accessibile pressoché a tutti grazie alle licenze, fa esplodere i fatturati aziendali. E’ la fase in cui le imprese della moda sono ormai veri e propri imperi industriali e commerciali. Diventa sempre più importante il concetto di “partnership di filiera”. Nelle maggiori aziende cresce il livello di managerializzazione, si acquisiscono nuove professionalità da altri settori e si creano nuovi ruoli organizzativi. Prodotto, capacità commerciale e marketing sono le nuove armi per competere in uno scenario competitivo sempre più globale. Le previsioni disponibili per i primi anni Novanta hanno indicato una continuazione dell’espansione, se pur a tassi più contenuti: il rallentamento atteso non avrebbe comportato un sensibile ridimensionamento dei principali squilibri. Se fossero state adottate le misure di riequilibrio del bilancio statale, il 1990 sarebbe stato caratterizzato da un soddisfacente tasso di crescita. Ad ogni modo, sono sempre i rapporti internazionali a condizionare 23


lo sviluppo economico del paese. Il “vincolo estero”, allora come oggi, continua ad essere l’elemento che influisce in misura notevole sull’origine e sull’impiego del nostro reddito nazionale. 1 Sintesi di evoluzione storica della griffe Il termine, tecnicamente, identifica un marchio di abbigliamento, di fascia alta (la cosiddetta prima linea di collezione), associato al nome di uno stilista creativo. Questa definizione viene poi estesa all’impresa nel suo complesso, quando l’insieme coordinato di prodotti ha come marchio il nome dello stilista che, oltre a esserne il creatore, diventa anche il garante dell’immagine unitaria dell’azienda. Le prime collezioni che portano il nome di uno stilista nascono in Francia già ai tempi dell’haute couture. Si tratta di sarti-stilisti (couturier) che disegnano e realizzano ogni stagione collezioni di alta sartoria per un pubblico estremamente ristretto, in pezzi unici o in piccole serie. Negli anni Settanta la collaborazione tra l’industria dell’abbigliamento e gli stilisti, con l’affermazione del pret-àporter, dà vita alle prime vere e proprie griffe. Lo stilista-creativo è capo di una maison che gestisce il processo di creazione e sviluppo del prodotto e ne cura l’immagine mentre l’industria si occupa della produzione e/o della distribuzione. E’ in questo periodo che nasce l’uso del nome dello stilista per un prodotto di abbigliamento di fascia alta ma industriale, destinato a uno specifico pubblico di riferimento. Il marchio di abbigliamento diventa griffe, identificandosi con lo stilista che, per differenziarsi dagli altri, crea, un proprio stile riconoscibile con cui presentarsi al pubblico. Negli anni Ottanta alla moda viene richiesta una rassicurazione in termini di status e identità. L’offerta delle aziende si allarga e si diversifica per mercati differenti con le seconde e terze linee e con il business degli accessori. E’ in questi anni che l’evoluzione della griffe amplia il suo raggio d’azione con il fenomeno della “brand extension”. Con questa si vuole definire la strategia di marketing attiva ogni qualvolta un’azienda decide di invadere una nuova fetta di mercato, attribuendo al marchio un nuovo prodotto appartenente a categorie differenti rispetto a quello di successo, così da rispondere alle esigenze di un più vasto pubblico di consumatori. In questa direzione il termine “griffe” assume un ulteriore interpretazione: inteso, ad esempio, come

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una concessione a terzi del proprio brand. Questa concessione è notoriamente conosciuta come Brand Licensing/ Fashion Licensing. Attraverso una licenza, una Maison, un’azienda, uno stilista cedono a un altro (azienda di produzione o di distribuzione) il diritto di uso del marchio, a fronte della corresponsione di “royalties”(diritto del titolare di un brevetto ad ottenere il versamento di una somma di denaro da parte di chiunque effettui lo sfruttamento di detti beni con lo scopo di poterli sfruttare per fini commerciali). Il licensing ha avuto un ruolo fondamentale nello sviluppo del sistema moda italiano. Ha consentito a Maison del lusso di diventare punti di riferimento assoluti nel panorama della moda internazionale. Recentemente alcune griffe hanno deciso di riportare all’interno il controllo delle attività, abbandonando la strategie di licensing. Occorre sottolineare, infatti, che alcuni brand owner non sono molto favorevoli all’idea di intraprendere programmi di licenza perché vogliono che le persone pensino che i prodotti che presentano il loro marchio siano effettivamente realizzate dalla casa madre e non da terze parti. Un esempio attualissimo di chi, invece, ha voluto e vuole continuare a puntare sul licensing per il mantenimento del proprio successo è il caso Gucci. La Maison è tra le pochissime realtà italiane che hanno portato avanti con estremo rigore la volontà di rimanere ancorate a una produzione degna di definirsi “made in Italy”. denaro da parte di chiunque effettui lo sfruttamento di detti beni con lo scopo di poterli sfruttare per fini commerciali). Il licensing ha avuto un ruolo fondamentale nello sviluppo del sistema moda italiano. Ha consentito a Maison del lusso di diventare punti di riferimento assoluti nel panorama della moda internazionale. Recentemente alcune griffe hanno deciso di riportare all’interno il controllo delle attività, abbandonando la strategie di licensing. Occorre sottolineare, infatti, che alcuni brand owner non sono molto favorevoli all’idea di intraprendere programmi di licenza perché vogliono che le persone pensino che i prodotti che presentano il loro marchio siano effettivamente realizzate dalla casa madre e non da terze parti. Un esempio attualissimo di chi, invece, ha voluto e vuole continuare a puntare sul licensing per il mantenimento del proprio successo è il caso Gucci. La Maison è tra le pochissime realtà italiane che hanno portato avanti con estremo rigore la volontà di rimanere ancorate a una produzione degna di definirsi “made in Italy”. Il prodotto Gucci è realmente realizzato in casa. Solo negli ultimi anni ha dovuto decentrare la produzione della linea di profumi e 25


cosmetica in Svizzera. Per fornire un quadro esplicativo di quanto detto, di seguito, uno schema riassuntivo dell’offerta Gucci, completa dei rispettivi licenziatari.

Laboratorio fiorentino: Casellina, Via delle Caldaie, Firenze (Toscana) → P&G Prestige:Roma (sede centrale)

→ Sàfilo Group: Padova

→ Laboratori artigianali: Toscana → Severin Montres: La Chauxde-Fonds, regione di Neuchâtel, Svizzera

1.1.4. Quarta fase: holding finanziarie (Dal 1996) La fine degli anni Novanta è caratterizzata, simultaneamente, da cambiamenti nella qualità e nella struttura della domanda finale, cambiamenti nel rapporto industria – distribuzione e, infine, cambiamenti nella localizzazione dei fattori produttivi a livello internazionale. La domanda finale, da un lato si rivolge a consumi alternativi rispetto all’abbigliamento determinando una contrazione dei fatturati del settore; dall’altro si polarizza tra fascia alta e fascia economica determinando una forte contrazione dei consumi nella 26


fascia media, tradizionale territorio di molte marche industriali. Infine, il crescente differenziale di costi di produzione tra paesi industrializzati e paesi in via di sviluppo, oltre alla crescita dei consumi in nuove aree del mondo, determina lo spostamento di fasi di attività dai mercati tradizionali a nuovi paesi. Nella moda entra la finanza: acquisizioni, fusioni, quotazioni, utilizzo della leva finanziaria per sostenere lo sviluppo sono i tratti della nuova era che sembra aprirsi per il comparto. Le imprese, alcune delle quali dopo la scomparsa dello stilista hanno visto l’ingresso di holding finanziarie8, assumono in modo sempre più definitivo la caratteristica di gruppi integrati e gestiscono portafogli di marche con un management professionale. Nel sistema moda gli assetti organizzativi e i modelli imprenditoriali si sono dunque fortemente evoluti negli ultimi trent’anni. I laboratori sartoriali dei couturier lasciano il posto a gruppi industriali e finanziari integrati che gestiscono in logica manageriale portafogli di marche posizionate in ambiti competitivi anche molto distanti tra loro. Se la dimensione aziendale e il livello di managerializzazione sono entrambi cresciuti abbastanza uniformemente all’interno del comparto, non si è tuttavia verificato un completo appiattimento nei modelli strategici di organizzazione del business system e della filiera. Ciò che, a questo punto, risulta evidente è che i cambiamenti avvenuti riguardanti soprattutto il rapporto fra l’azienda, il mercato, i consumatori, rendono l’inefficienza degli strumenti e delle tecniche tradizionali, non più sufficienti per gestire e capire i nuovi fenomeni. Questa nuova tappa, avviata dai progressi degli anni Novanta, richiede un nuovo sforzo di comprensione, e nuove capacità di adattamento, che non si sostituiscono ma si aggiungono a quelle già esistenti. In questa 27


fase, il cambiamento è più profondo, più radicale. Si vive in mezzo a un bombardamento di informazioni, di stimoli, di fenomeni che sembrano importanti e poi non lo sono. Si verifica, così, il rischio di non dar peso alle cose che invece hanno un’importanza fondamentale. Per il mondo dell’azienda, per il management, capire questa distinzione è di fondamentale importanza per potere, in conseguenza, dare pesi diversi ai diversi fattori e imprimere velocità diverse alla macchina aziendale, al suo stile di guida e di relazione con il mondo esterno, e soprattutto per poter scegliere il percorso più opportuno.

1.2. Le risposte allo scenario Dinanzi allo scenario prospettato il sistema moda necessita d’una pronta, adeguata ed efficace risposta; non è possibile ignorare o minimizzare il cambiamento in corso; ogni settore del sistema moda dovrà rispondere al suo mercato, ogni impresa al suo segmento, tutti ai condizionamenti evidenziati con specifiche capacità competitive. Questo stesso scenario ci pone davanti un dato di fatto: ormai nel mondo si delineano tre economie che convivono. Quella dei paesi industrializzati, ricchi, saturi, la cui crescita è minima e non più sufficiente per portare all’aumento del prodotto interno lordo; quella dei “nuovi mercati” e quella dei paesi poveri, dei “non mercati”. I “nuovi mercati” sono rappresentanti dai paesi che si affacciano oggi ai consumi (come la Russia e la Cina). I “non mercati” riguardano la gran parte della popolazione mondiale. Sono i paesi poveri e sottosviluppati che sembrano destinati a diventare sempre più poveri.

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1.2.1. La saturazione quantitativa dei mercati industriali Quali sono, a nostro parere, nei paesi industrializzati i «fattori pesanti»: quelli che dividono l’epoca passata da quella attuale? Sono essenzialmente due e di importanza fondamentale: la saturazione quantitativa dei mercati (cioè la fine della crescita) e il cambiamento e la differenziazione dei bisogni dei consumatori. Nel corso degli anni Ottanta tutti i mercati di consumo dei paesi industrializzati hanno rallentato progressivamente i loro ritmi di crescita. «Ormai la non-crescita diventa la regola, mentre la crescita è l’eccezione » 9. Le ragioni appaiono molto semplici. In primo luogo, il rallentamento della crescita della popolazione in tutti i paesi industrializzati. In secondo luogo, una tendenza al rallentamento delle quantità acquistate o consumate pro capite. Per l’abbigliamento, i dati di consumo ci mostrano che anche questo settore sta rallentando la corsa, e noi stessi ci accorgiamo che le giacche dell’anno scorso vanno ancora bene e che in famiglia quest’anno abbiamo comprato meno capi d’abbigliamento degli anni passati. Oggi, quindi, nei paesi sviluppati i mercati della quantità appaiono definitivamente saturi. Dobbiamo quindi lavorare in questa nuova situazione anche se i non previsti – ma sperati – sviluppi quantitativi saranno naturalmente benvenuti.

1.2.2 Concorrenza e competizione La saturazione quantitativa dei mercati ha portato con sé due conseguenze. Da un lato una ricerca da parte delle aziende più attive di 29


nuovi mercati potenziali per l’esportazione: la cosiddetta «globalizzazione dei mercati» di cui tanto si è parlato. Dall’altro lato, all’interno dei mercati quantitativamente saturi, l’espansione di un’azienda è diventata sempre di più frutto dell’incremento della quota di mercato (a scapito quindi dei concorrenti) piuttosto che della crescita del mercato nel suo complesso. Questo è il vero fatto nuovo che ci interessa analizzare per le sue conseguenze profonde sul modo di gestire l’azienda e sullo stile di management. Prima, in un mercato in espansione, c’era bene o male spazio per tutti. In fondo bastava «darsi da fare». Ma oggi queste aperture di mercato tendono a saturarsi con la massima velocità. Quando i mercati sono saturi la situazione cambia radicalmente. Infatti, il mercato da spartire non aumenta più, resta sempre uguale o, a volte, diminuisce. «concorrenza» e «competizione» sono due parole che esprimono bene, nel loro significato etimologico, la differenza tra le due situazioni. «Concorrenza» è un termine che richiama alla mente attività sportive in cui si corre insieme. Qualcuno arriva primo, qualcun altro secondo, altri terzi e così via. Tutti comunque arrivano. Cioè tutti – uscendo dalla metafora sportiva – conquistano una loro quota onorevole e almeno sufficiente per continuare l’attività. Totalmente diverse sono le attività di di «competizione» in cui non ci si misura con gli altri ma contro gli altri. Nella concorrenza si corre verso il traguardo a fianco di altri: nella competizione, invece, si lotta contro gli avversari. Nella concorrenza basta non arrivare fuori tempo massimo; nella competizione bisogna non essere eliminato . Se quando a contare era il prodotto l’imprenditore “tutto fare”

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poteva anche andare bene, adesso servono competenze commerciali di marketing. Servono manager, ed è dura attirarli con imprese che 30


non superano i dieci addetti.

1.2.3. La polarizzazione del mercato Brandizzazione, integrazione a valle, internazionalizzazione, tutte strade costose, lunghe, rischiose. Il mercato si polarizza: o fascia alta/super alta o massa market, o mega gruppo quotato o piccolo. Chi sta in mezzo galleggia, a volte affonda. Fare business oggi è molto più complicato. La cultura manageriale da cui proveniamo noi europei, quella americana, è una cultura essenzialmente concorrenziale. Noi americani abbiamo scritto e insegnato il marketing a tutto il mondo, ma i primi che lo hanno veramente applicato nella realtà sono stati i giapponesi contro di noi 11.

Come è potuto succedere che aziende, consulenti, docenti e scrittori di management, non mettessero in pratica quello che essi stessi avevano teorizzato? E che lo facessero invece alcuni decenni dopo altre persone di una cultura profondamente diversa? Proviamo a rispondere. La ragione di fondo sta probabilmente nel fatto che, fino al verificarsi della saturazione quantitativa dei mercati, del fare management se ne poteva fare a meno. Non c’era la necessità di riuscire a «capire l’altro», cioè il consumatore, e di ritenerlo non più il punto finale del processo di scambio ma il punto d’inizio. E perché proprio i giapponesi? Perché la loro è una cultura competitiva ispirata alla strategia militare derivata dalle arti più sacre per il loro popolo. Il punto di partenza giapponese è sempre la visione strategica, ma non 31


nel senso originale: quello bellico di arte militare che coordina le varie operazioni ai fini di battere l’avversario. Ecco quindi che il vero punto focale della strategia non è tanto il cliente (che anzi va trasformato in “alleato”) quanto il competitore, che viene analizzato, studiato, come mai prima era stato fatto.

1.2.4. La differenziazione dei bisogni. L’evoluzione dei consumi La differenziazione dei bisogni è il secondo fattore portante a fianco della saturazione dei mercati – che caratterizza il profondo cambiamento della società post-industriale avvenuto e consolidato nei decenni Settanta- Ottanta. Una serie di fattori ha determinato e caratterizzato lo sviluppo socio-economico, demografico, politico, culturale consumistico, comportamentale della nostra società; basti pensare ai nuovi ruoli professionali ed umani dell’uomo e della donna, alla vivacità culturale dei giovani, al maggiore tempo libero, alla maggiore voglia di qualità della vita, alla sempre più crescente domanda d’informazione per capire come tutti questi aspetti oltre a incidere sulla società attuale abbiano collateralmente caratterizzato la moda, la stessa industria dell’abbigliamento e tutta la filiera. La moda è costume che vive con e nella società, per cui la si capisce nel presente e nel futuro solamente se è collegata a quello che è successo ieri, che succede oggi e domani nella società 12.

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1.2.5. Anni sessanta – settanta L’origine dello sviluppo della moda risale alla fine degli anni sessanta ed è legata a una doppia evoluzione della domanda finale: la contestazione giovanile, da un lato, e l’emancipazione della donna dall’altro. Prima degli anni settanta i giovani non avevano un loro abbigliamento esclusivo: all’inizio dell’adolescenza smettevano gli abiti da “bambino” per indossare abiti da “adulto”, identici a quelli dei genitori. Con la contestazione giovanile, nata negli Stati Uniti e di lì diffusa in tutta Europa, sanciscono la propria autonomia. Nasce negli anni settanta un modo di vestire giovane destinato nel tempo a ritagliarsi uno spazio crescente nel mercato fino a configurarsi come comparto autonomo, a sua volta ulteriormente segmentabile (jeanswear, sportswear, casual wear). Nello stesso periodo con l’aumento del benessere cresce la propensione ai consumi, ma soprattutto emerge una nuova donna, disinvolta e lavoratrice, alla ricerca di un abbigliamento e un look più adatto alle proprie esigenze. Sono, questi, gli anni della crisi dell’alta moda francese e, sul mercato italiano, della crisi della grande industria a causa delle tensioni sindacali. A livello industriale si attiva una produzione flessibile e differenziata in grado di rispondere alla nuova domanda. In questo contesto, dal matrimonio tra industria e couturier, nasce il pret à porter che condurrà a una maggiore differenziazione all’interno del settore ponendo le basi per una de massificazione dei consumi e un’industrializzazione del concetto di moda, pienamente compiuta poi negli anni Ottanta.

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1.2.6. Anni Ottanta – Novanta Dalla metà degli anni ottanta fino ai giorni nostri esplode il fenomeno dello stilismo, con il progressivo affermarsi della distribuzione moderna organizzata, sia monomarca sia multimarca. Ma in corrispondenza della nascita dello stilismo, abbiamo in Italia una situazione problematica.13 Diverse grandi aziende non riescono a rilanciare il proprio prodotto e alcune di esse sono addirittura costrette a chiudere. Per queste, il rapporto con lo stilismo, può essere il veicolo adatto per riproporre un prodotto che magari non interessava più al mercato. Ed è ad esempio il caso di Solbiati14 che comincia a produrre lino nel ’74 quando le uniche due ditte che ne facevano per l’abbigliamento erano fallite. Le aziende come Solbiati, disposte a lavorare con gli stilisti erano però poche: i nuovi interlocutori erano sentiti come un’entità sconosciuta edannosa all’equilibrio produttivo, e la difficoltà derivava dal fatto che lavorare con loro significava non solo aprire il campionario e farlo uscire dai vecchi schemi, ma anche dimostrare una maggiore agilità organizzativa e produttiva, cosa a cui non tutti erano pronti. In quel momento ci sono anche le aziende che nascono, come è il caso di Etro, e che non hanno bisogno dello stilista per rinnovare una mentalità di lavoro; lo stilista diventa invece l’interlocutore più comodo per non dover organizzare una rete commerciale di vendita al dettaglio che avrebbe richiesto un fortissimo investimento. Ci sono poi le aziende che già in contatto con l’alta moda si rendono conto che non potendo diversificare sufficientemente il prodotto devono operare una scelta di campo, e scelgono l’alternativa più stimolante. 34


Per tutti si trattava di poter fare una ricerca che, messa in moto dallo stilista, sarebbe poi rientrata nel patrimonio dell’azienda, e di trovare canali di vendita alternativi ad un mondo in declino. Nella ricerca troviamo espressa l’ambiguità del pret à porter che è ritornato ad un livello di richieste tipiche dell’artigianato. La ricerca, adesso si muove negli stretti argini dei limiti di costi e di tempo. Allo spazio infinito dell’invenzione dell’alta moda che alla fine si codifica in una serie di tessuti canonici autolimitandosi, si contrappone il percorso obbligato del pret à porter15 che scopre ogni volta una nuova alternativa ai suoi limiti. Un altro stimolo alla ricerca dato dal pret à porter è legato alla sua politica di diffusione di immagine dove invece l’alta moda era legata al segreto e al non visto. Grazie alla rapida diffusione dell’immagine di modello e materiale sono cambiati completamente i tempi di durata della proposta moda, estremamente abbreviati, ed è maggiore il numero di concorrenti da cui differenziarsi. Questo significa naturalmente una ricerca condotta in tempi molto ristretti per le prime linee griffate i cui frutti difficilmente possono essere riutilizzati in tempi brevi perché le firme importanti non vogliono adottare né il prodotto utilizzato la stagione precedente da altri, né le sue rielaborazioni. Le aziende che si collocano in una fascia di prodotto medio alto non possono quindi riutilizzare per il loro mercato esigente quella particolare ricerca che deve essere lasciata cadere nell’archivio, se la realizzazione è troppo costosa per un mercato medio basso, o in mano a copiatori che lavorano per altre fasce di mercato. Questa impossibilità di utilizzare in campionario una ricerca faticosa e spesso priva di riscontri economici alla sua prima applicazione, è andata così a ledere una delle motivazione che nei primi tempi avevano 35


stimolato la disponibilità del tessutaio verso lo stilista. A causa di questa spirale originata da saturazione del mercato, necessità di differenziarsi e tempi ristretti, tra l’alta moda e il pret à porter si sono venuti a creare nell’ultimo decennio molti atteggiamenti simili. Il mercato è adesso rappresentabile come una piramide, molto segmentata sulla base delle fasce prezzo, che riflette la segmentazione nelle classi sociali. Soprattutto in Italia gli stilisti dettano le tendenze e grazie alla ritrovata

prosperità dopo la crisi degli anni settanta i nuovi ricchi

alimentano il business della griffe. Gli stilisti avviano in questi anni strategie di brand extension alla ricerca di un nuovo potenziale nelle fasce di mercato non elettive del pret à porter ma spinte all’acquisto da motivazioni aspirazionali. Pret-à-porter La Rivoluzione industriale facendo crescere la classe media e mettendola in grado di accedere alla moda a prezzi accessibili contribuiva in maniera sensibile ad allargare quell’offerta che per tanto tempo s’era indirizzata solamente verso pochi privilegiati. Ciò comportava l’inizio del declino della couture e della haute couture (proposta dal genio di C. F. Worth quando stravolse i vecchi schemi offrendo prodotti esclusivi e personalizzati nella nuova idea delle “sfilate”), ma al tempo stesso sanciva la democratizzazione della moda; è chiaro che sostituendo con la macchina da cucire il lavoro a mano del sarto, il processo di confezionamento si snelliva arrivando a produrre nello stesso tempo più capi. Con l’avvento della macchina da cucire si rendeva anche necessario il supporto della modellistica di carta per il confezionamento. La macchina da cucire applicata industrialmente sanciva la nascita del pret-à-porter. A partire dagli anni ’60 gli stilisti si misero ad offrire al mercato i modelli che si potevano produrre in serie e a prezzi accettabili, nonché indirizzare anche al pubblico più giovane che fino a quel momento era stato escluso dall’alta moda. Come la couture ha rivoluzionato a suo tempo l’abbigliamento e quindi la moda, così il pret à porter ha ribaltato tutto il settore nel momento in cui lo si è 36


preso in seria considerazione. Il punto di base da cui si differenziano le due proposte sta nel fatto che tutte le persone debbono vestirsi, quindi visto che la couture rispondeva alle esigenze di pochi era necessario provvedere a vestire gli altri che in pratica erano la quasi totalità delle persone. Gli stilisti e le imprese italiane hanno intelligentemente capito che le due offerte, quella sartoriale e quella di pronto moda potevano coesistere, anzi integrarsi e supportarsi a vicenda senza perdere immagine e pertanto si sono messi rispettivamente a creare e produrre collezioni pronto moda in aggiunta alle loro collezioni. Il pret à porter viene così diffuso per una clientela di massa, quindi con prezzi più accessibili rispetto all’alta moda; rientra pur sempre nel contesto della moda sia che porti la firma di uno stilista o di un’impresa famosa o sconosciuta in quanto in ogni caso è un prodotto che ne segue l’evoluzione. L’industrializzazione della moda italiana imponendo un veloce ricambio dell’offerta sul mercato e riducendo sensibilmente i costi che imponeva il prodotto sartoriale, ha spezzato così il circuito che voleva l’abbigliamento condizionato alla posizione sociale ed economica dei consumatori. L’offerta di pret à porter poteva produrre in serie ed a prezzi accettabili, rivolgendosi anche al pubblico più giovane che era stato escluso dall’alta moda.

1.2.7. Fine anni Novanta Inizia in questo periodo una nuova era; la società dei consumi non è più rappresentabile come una piramide, ma richiama forme geometriche variabili: la clessidra, per sottolineare la scomparsa del consumatore e del prodotto “medi” a vantaggio della fascia alta e del mass market; il rombo, per evidenziare il venir meno di certe rigidità legate alla segmentazione passata e la permeabilità dei target. L’evoluzione della società dei consumi è ora spinta dalla ricerca di personalizzazione e affermazione dell’individualità. A differenza 37


dei decenni passati, soggettività e socialità sono termini non più contrapposti ma dialettici: l’individuo prima valuta la propria personalità e poi ricerca altri che gli assomigliano. Di fronte a un’esplosione delle opzioni di consumo, il consumatore ha imparato a valutare, è diventato stilista di sé stesso, buyer professionista. La sua ricerca si orienta in misura crescente verso prodotti che possiedono un significato e un’anima. Il cambiamento della domanda impone anche alle imprese un nuovo modo di ascoltare il mercato, passando da una logica di recepimento dei bisogni a una logica di anticipazione degli stessi. La differenza fondamentale è, dunque, che mentre prima i bisogni erano materiali, questi nuovi tipi di bisogni che si aggiungono sono immateriali, invisibili. E, in più, sono variabili, nel senso che cambiano in rapporto ai propri gruppi di riferimento (amici o colleghi). C’è quindi un passaggio dall’oggettività dei bisogni primari alla soggettività di quelli secondari. Lo strumento di marketing che ha permesso di affrontare i fenomeni del cambiamento – la fine dei mercati di massa, la differenziazione dei bisogni e la conseguente frammentazione dei modelli di consumo – è rappresentato senza dubbio dalle tecniche di segmentazione dei mercati. Quando le aziende si sono accorte che i mercati industrializzati davano segni crescenti di saturazione e che quindi ogni prodotto nuovo per entrare doveva «eliminare» un prodotto esistente, due sono state le nuove piste da battere: lo sviluppo dei servizi e lo sviluppo del senso estetico. La dimensione estetica diventa quindi uno dei caratteri influenti del nostro tempo. Si parla di una svolta estetica postmoderna parallela e intrecciata alla dimensione sociale postindustriale. I tempi si accelerano enormemente. Mentre sembra che la categoria 38


del postmoderno sia patrimonio delle élite culturali, essa è invece pratica quotidiana dell’individuo-consumatore. Postmoderno significa contemporaneità di tendenze senza appartenere ad alcuna tendenza specifica, ma invece far parte di una situazione dove c’è tutto: lo storico, il non storico, il presente, il passato. La nuova parola chiave è “Eclettismo”. L’estetizzazione della realtà non significa necessariamente una maggiore capacità espressiva. Significa solo che l’aspetto formale, estetico, interessa di più e quindi c’è una maggiore visibilità estetica e una maggiore attenzione agli aspetti formali. Il consumatore sta saturando questi aspetti estetici superficiali e inizia la ricerca di qualcosa di più profondo.

1.2.8. Il nuovo consumo Nuovi territori di consumo della moda diventano il desiderio e il sogno. Nel postmoderno il consumatore assume progressivamente nei confronti della moda un atteggiamento meno dipendente: diventa sempre più esperto, più informato, più conscio delle diverse caratteristiche anche estetiche dei prodotti, e, in parallelo, della propria immagine e del proprio posizionamento. Inizia anche ad essere infedele. L’acquisto per curiosità lo porta a provare cose e marche diverse. A fronte del passaggio dai bisogni ai desideri e dalla domanda tradizionale alla “disponibilità a vedere”, la moda ha capito che lavorare sul prodotto non basta più ed è necessario intervenire su tutti gli elementi di quella che possiamo definire l’«offerta globale» (o la comunicazione globale). Si percorre quindi una nuova strada intervenendo con due fattori: il primo legato al numero degli ingredienti 39


che fanno parte dell’offerta globale (comunicazione, pubblicità, servizio, relazione, rassicurazione, personalizzazione, distribuzione..); il secondo legato al modo con cui questi elementi vengono connessi, resi coerenti, ma soprattutto “orchestrati” fra loro. In maniera che il risultato sia «coinvolgente». Quanto sta succedendo nel rapporto con la moda illustra un percorso molto semplice. Negli anni Ottanta, a certificare la qualità di un oggetto bastava il suo prezzo, poi è arrivato anche il bello; oggi è necessario che sia anche utile, che migliori la qualità della vita. La funzionalità forte è il vero baluardo contro la crisi dei consumi e l’affermazione di una nuova coscienza morale per cui la dimensione etica nell’acquisto è sempre più importante. Ora i negozi sono strapieni di merce sostanzialmente identica, la comunicazione ha elevato sempre di più la soglia del rumore e, quello che più conta, il consumatore è stufo. Compra poco e quel poco è e sarà diverso da quello che ha comprato finora. Il consumatore diventa cioè sempre di più individuo da un lato e «compratore» nel senso professionale del termine dall’altro lato. Il consumatore vuole e sa sempre più scegliere, all’interno delle proposte che gli sono offerte. Il malato Made in Italy è grave: un’immagine internazionale spesso caricaturale, un paese che invecchia e che sembra incapace di trattenere le sue risorse migliori. Nella moda aumentano le possibilità di imitazione (anche a causa delle politiche di decentramento produttivo), peggiora la qualità (alcune griffe hanno abbassato notevolmente i loro standard di prodotto), sembrano ridursi gli spazi per produzione di fascia media mentre la punta diventa sempre più affollata. L’Italia perde il suo primato creativo, il design non esprime più nulla di nuovo, i creativi sono altri: giapponesi, inglesi, belgi,...16

Questo è l’individuo che rappresenta la «nuova sfida» al sistema 40


moda come a tutti i sistemi offerta. Il nuovo consu-matore dichiara, anche se non ha bisogni, la sua disponibilità di fondo a essere stimolato, sorpreso, affascinato, andando alla ricerca della “merce rara”. Contrariamente, sta succedendo che, nei mercati, tutti osservano gli stessi fatti e gli stessi segnali. E sta emergendo la conseguenza più ovvia: tutti tendono sempre più a fare cose simili. Mentre si parla della necessità di esprimere identità forti, di cercare differenziazioni visibili, di procurarsi «vantaggi competitivi», è invece iniziato un circolo vizioso che sta portando verso l’omogenizzazione dei prodotti, dei servizi, della comunicazione, della promozione. In risposta a un consumo mondiale della moda ormai saturo, il panorama dell’offerta quindi muta: non più un cambiamento “stagionale” ma un dispiegamento in parallelo di stili diversi. Quindi una scelta di possibilità diverse di interpretare se stessi, il proprio ruolo, l’occasione.

1.3. La visione economica dell’ultimo decennio A fronte dell’analisi di mercato svolta e, essendo a conoscenza delle caratteristiche, delle cause, dei vantaggi e svantaggi degli sviluppi economico-industriali che hanno coinvolto il nostro Paese, analizzeremo adesso il settore moda sotto un altro punto di vista. Si percorre quindi una nuova strada addentrandoci sempre maggiormente nel mero aspetto economico del nostro sistema. Il nostro obiettivo è, adesso, quello di comprendere quanto la nostra economia abbia risentito di questo continuo susseguirsi di mutamenti e in che modo ha pensato di reagire. 41


1.3.1. Periodo 2007-2011 Dagli inizi della critica crisi economica 17, c’è chi ha parlato di fine del mercato della moda per la brusca perdita del suo valore. Ma i dati della statistica, rispetto alle indagini effettuate, mostrano che non è così, anche se è innegabile che il settore della moda è molto cambiato. Dalla metà degli anni Novanta del secolo scorso, per più di un decennio il mercato mondiale è stato in grado di crescere a un tasso superiore al resto dell’economia arrivando a realizzare, nel 2007, secondo le stime dell’Osservatorio della Fondazione Altagamma18, cifre colossali. Conseguentemente a simili risultati, mentre già qualcuno parlava della moda come di un mercato in grado di resistere meglio di altri alle fluttuazioni del ciclo economico, la crisi si è abbattuta sul settore con tutta la sua violenza portando a un immediato calo del fatturato, concentrato in particolare in una manciata di mesi tra la fine del 2008 e l’inizio del 2009. A questo punto gli ottimisti hanno lasciato il passo ai pessimisti, che sono arrivati a prevedere un tramonto definitivo per il variegato mondo del lusso. Tra shock e contro-shock non è stato possibile prevedere dove sarebbero arrivati i ricavi negli anni successivi; su un elemento però tutti gli osservatori del settore concordano tuttora: in Italia sono le esportazioni che hanno fornito il principale stimolo all’attività industriale. Infatti, analisi condotte sui dati dell’indagine della Banca d’Italia presso le imprese dell’industria hanno mostrato come in tutte le fasi cicliche 19 la dinamica del valore delle vendite e le previsioni di espansione futura siano migliori per le imprese caratterizzate da un maggior orientamento ai mercati esteri, da una 42


spiccata capacità innovativa e da cospicui investimenti in ricerca e sviluppo. 20 Nei primi nove mesi del 2011, pertanto, è proseguita la fase di recupero dei distretti tradizionali italiani, che si sono dimostrati altamente competitivi sui mercati internazionali. La fase di emergenza, tuttavia, non si era chiusa. Sono ancora molte le imprese e i distretti lontani dai livelli di export pre-crisi, interessati da importanti chiusure aziendali. La crisi dei debiti sovrani scoppiata in Italia e in Europa e il conseguente deterioramento delle condizioni di domanda è andata certamente a interrompere la fase positiva iniziata nel secondo trimestre 2010 e proseguita fino al terzo trimestre 2011.21 Nel corso del 2012 si sarebbe dovuto, pertanto, intensificare ulteriormente il processo di selezione presente nel tessuto produttivo italiano che avrebbe portato all’uscita dal mercato delle imprese più in ritardo rispetto ai livelli pre-crisi e, quindi, più in difficoltà nel mantenere in equilibrio la loro situazione economico-finanziaria. Sul piano settoriale, il gruppo che ha avuto recuperi, seppur contenuti, é quello delle industrie tessili, dell’abbigliamento. In breve, si può dire che il 201122 abbia obbligato, in modo traumatico, il Paese a comprendere appieno la gravità della situazione, a scoprirsi effettivamente più vulnerabile di quanto pensava e a mettere mano a numerose questioni irrisolte, con una accelerazione dei processi decisionali. 23

1.3.2. Biennio 2012-2013 Nel 2012 l’Italia ha continuato ad affrontare la grave crisi di carattere finanziario, la quale sta tuttora incidendo sul sistema economi43


co, sulle condizioni di vita della popolazione e sulla discutibilità del “Made in Italy”. Sostenibilità del bilancio pubblico, necessità di riforme strutturali, rilancio della competitività del sistema economico al fine di collocare l’Italia nel commercio mondiale, aumento dell’efficienza della Pubblica Amministrazione, lotta alla corruzione, e perdita di credibilità della classe politica sono i temi che al meglio inquadrano l’attuale sistema.24 Il Pil è sceso nel 2012, annullando completamente il recupero del biennio precedente. In Italia, al contesto sfavorevole, caratterizzato da misure per ridurre i debiti pubblici e privati adottate simultaneamente in tutti i principali partner commerciali e da restrizioni creditizie che hanno generato una forte caduta della domanda, si aggiungono problemi specifici, di natura strutturale, che frenano la crescita produttiva. Considerando la distribuzione settoriale dell’interscambio, in base alle indagini ICE, il dato più vistoso del 2012 è il forte aumento del surplus manifatturiero. 25 Il miglioramento dei saldi settoriali ha riguardato in gran parte, come già sottolineato, la caduta delle importazioni. Tuttavia, rispetto agli altri paesi dell’area dell’euro, anche le esportazioni del tessile, abbigliamento e calzature hanno recuperato terreno. Sottoposto alla pressione competitiva dei paesi emergenti, il modello di specializzazione settoriale delle esportazioni italiane sta lentamente cambiando negli ultimi anni. Nel caso italiano, in molti settori di specializzazione, si rileva una relativa distanza (non soltanto geografica) dai principali mercati emergenti. La diminuzione del Pil si è dovuta principalmente alla caduta della domanda interna. L’unica componente che ha dato un impulso positivo è stata, invece, la domanda estera netta, grazie al forte ridimensionamento del44


le importazioni e all’incremento, seppure contenuto, delle vendite all’estero.26 La crisi, iniziata nel 2009, ha messo ulteriormente in risalto l’importanza cruciale di potenziare congiuntamente le attività di ricerca27, innovazione e internazionalizzazione. Stiamo rischiando di perdere un patrimonio unico perché non si fa più cultura. Essendo questi i fatti, un sano processo di riequilibrio non può che partire, è ovvio, da un cospicuo investimento nella ricerca, senza il quale perdono di competitività. Senza ricerca, anche nella moda, tutto si riduce a pura imitazione e guerre di prezzi. Le imprese che sono riuscite a farlo hanno conseguito una crescita del fatturato superiore alla media, in tutte le classi di dimensioni aziendali. Diversamente da precedenti periodi di recessione, questa forma di internazionalizzazione produttiva ha continuato a svilupparsi negli ultimi anni, sia in termini di numero di partecipazioni che di addetti e di fatturato realizzato all’estero.28 Alla luce dei dati che disponiamo, possiamo affermare con certezza che il 2012 è ricordato come un anno molto difficile sul piano economico e sociale. Nel 2013, invece, il Pil è aumentato dello 0,5 per cento, trainato dalla crescita delle esportazioni, mentre la domanda interna resta costante nella media dell’anno e la crescita dei prezzi ha subito un rallentamento. I primi dati sul 2013 mostrano un ulteriore rallentamento delle esportazioni italiane che riflette le tendenze ancora deboli del commercio internazionale.29 Lo IESI 30 si è mantenuto su livelli storicamente bassi, gli ordini e la domanda sono stati giudicati ancora insoddisfacenti dalla maggio45


ranza degli imprenditori della manifattura e dei servizi. La tenuta delle esportazioni non è risultata però sufficiente a impedire che l’attività produttiva continuasse a ridursi, data la persistente debolezza della domanda interna. 31 Nel complesso dei primi nove mesi del 2013 il progresso rispetto all’anno precedente è stato pari al 4%.

1.4. Valutazioni conclusive Sono ormai superati i livelli pre-crisi 2009. Per il biennio 2013-2014 si è prevista una crescita cumulata del valore delle esportazioni pari a poco meno del 10%, con la manifattura (+10%) che avrebbe registrato una crescita più intensa. L’espansione del settore industriale interesserebbe tutti i settori, con incrementi delle esportazioni nel biennio. Performance particolarmente positive si sono registrate nei distretti specializzati nei beni di consumo per il sistema moda (+5,4%). 32 Si è previsto che le esportazioni dei distretti manterranno un buon ritmo di crescita per tutto il 2014, spinte dall’accelerazione dell’attività economica globale e dalla moderata ripresa economica prevista per l’area euro.33 Questi dati ci pongono dinnanzi le grandi sfide che la nostra attuale epoca deve affrontare: anche la nostra, nel nostro campo, vuole essere la sfida alle difficoltà, alla rassegnazione, alla devitalizzazione dell’uomo, della sua energia e della sua forza morale. Anche perché al pessimismo abbiamo una sola medicina da contrapporre: andare avanti. Nella tragica divisione del mondo imprendito46


riale tra convinti e rassegnati la nostra prospettiva è indubbiamente indirizzata ai primi.

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Note al Capitolo 1 1. «Il Sole 24Ore», 20 Novembre 2007, p. 13. 2 . Nel 1968 si ha il verificarsi di un fenomeno culturale nel quale i grandi movimenti di massa socialmente disomogenei (operai, studenti e gruppi etnici minoritari), formati per aggregazione spesso spontanea, attraversarono quasi tutti i Paesi del mondo e, con la loro carica di contestazione, sembrarono far vacillare governi e sistemi politici in nome di una trasformazione radicale della società. Il movimento aveva un carattere internazionale, internazionalista, policulturale e interclassista, possedeva una varietà di componenti che finirono per caratterizzarsi in un cocktail esplosivo e variopinto, innestandosi sul filone della protesta operaia. Importante, per capire i motivi che hanno portato a questa simultaneità del fenomeno Sessantotto, è analizzare il contesto in cui si è formata la generazione protagonista delle mobilitazioni. La percezione del mondo da parte di questa generazione è così del tutto diversa rispetto a quella delle generazioni precedenti: la terra risulta essere un globo dove gli antichi riferimenti locali, le precedenti divisioni per confini appaiono superate da una realtà tecnologica unificante. Lo sviluppo di un nuovo sistema di telecomunicazioni mondiali, ha permesso una circolazione delle informazioni e delle immagini più veloce e immediata. La tecnologia ha creato gli strumenti per ‘rimpicciolire’ il mondo, consentendo di concepire l’uomo non più come fortemente legato alla realtà locale, ma come membro della specie umana. In Italia la contestazione fu il risultato di un malessere sociale profondo, accumulato negli anni sessanta, dovuto al fatto che il cosiddetto boom economico aveva giovato perlopiù alla borghesia e non era stato accompagnato da un adeguato aumento del livello sociale ed economico delle classi meno abbienti. L’esplosione degli scioperi degli operai in fabbrica si saldò con il movimento degli studenti che contestavano i contenuti arretrati e parziali dell’istruzione e rivendicavano l’estensione del diritto allo studio anche ai giovani di condizione economica disagiata, i prodromi di quello che diverrà il sessantotto inizieranno a palesarsi nel 1966. Il ‘68 ha dato un contributo significativo, per esempio, nella conquista dello Statuto dei lavoratori. 3. Trent’anni di sviluppo economico tumultuoso avevano radicato nella mentalità comune la convinzione che l’economia ormai avesse trovato la ricetta di una crescita infinita, che le generazioni successive avrebbero goduto per sempre di maggior benessere rispetto a quelle precedenti, che la crisi fosse il retaggio di epoche passate. A interrompere questi racconti intervenne improvvisa la crisi

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del 1973-’74, durante la quale il mondo occidentale conobbe un fenomeno di profonda influenza sulle sorti dell’economia: la brusca carenza di petrolio e il conseguente aumento a livelli stellari dei prezzi dell’energia. I paesi arabi erano entrati in guerra contro Israele, che ne uscì vincitrice grazie all’aiuto dell’Occidente. Così i paesi arabi dell’Opec (Organization of the Petroleum Exporting Countries), per tutta risposta, bloccarono le esportazioni di petrolio verso USA ed Europa. I prezzi dell’oro nero si quadruplicarono e, insieme a loro, anche quelli dell’elettricità, allora prodotta da petrolio e gas naturale. La risposta dei paesi industrializzati vittime dell’embargo fu quella di diversificare le fonti di approvvigionamento di idrocarburi e di varare provvedimenti per diminuire i consumi energetici. In Italia nacque il piano “Austerity”: forte aumento dei carburanti, riduzione del 40% dell’illuminazione pubblica, chiusura dei locali pubblici entro mezzanotte, diminuzione della velocità in autostrada. L’opinione pubblica e il governo del tempo presero coscienza della crisi e della dipendenza del Paese, fino a quel momento, dalle importazioni di petrolio. Urgevano delle misure che rendessero autonomi dal petrolio per la produzione di energia. Si mirò al risparmio energetico, definendo degli standard di efficienza per elettrodomestici, automobili ed edilizia. L’aumento dei prezzi di petrolio e delle fonti fossili portò l’Italia, tra il 1973 e il 1985, ad incrementare l’efficienza dei consumi energetici e a diminuire l’intensità energetica Sul piano economico, la crisi energetica, riversa in un panorama che vede prender corpo una generalizzata e ovvia deindustrializzazione. Le conseguenze a livello mondiale furono importanti e sono quelle che si riscontrano ancora al giorno d’oggi. 4. L’introduzione della legge 20 Maggio 1970 n.300, conosciuta sotto la locuzione di “Statuto dei lavoratori” provocò importanti e notevoli modifiche sia sul piano delle condizioni di lavoro che su quello dei rapporti fra i datori di lavoro, i lavoratori e le loro rappresentanze sindacali. Ad oggi di fatto costituisce, a seguito di minori integrazioni e modifiche, l’ossatura e la base di molte previsioni ordinamentali in materia di diritto del lavoro in Italia. Lo Statuto sancisce, in primo luogo, la libertà di opinione del lavoratore (art.1), che non può quindi essere oggetto di trattamento differenziato in dipendenza da sue opinioni politiche o religiose e che, per un successivo verso, non può essere indagato per queste nemmeno in fase di selezione per l’assunzione. Questi passi trovano una loro spiegazione di migliore evidenza segnalando che, nel dopoguerra, si verificarono numerosi casi di licenziamento di operai che conducevano attività politica o

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o che, anche indirettamente, si rivelavano militanti di forze politiche o sindacali non gradite alle aziende. Lo Statuto è stato emesso a seguito del fenomeno verificatosi negli anni sessanta del Novecento, sinteticamente identificabile con la trasformazione del lavoro (e della produzione) rurale in industriale, fatto che provocò intensi flussi di migrazione interna e modificò le proporzioni numeriche fra addetti all’agricoltura ed addetti alla produzione industriale in senso preponderante a favore di quest’ultima. La crisi del lavoro della terra (che aveva fra le sue concause la crescita dei costi di produzione e l’introduzione delle macchine) contribuì a rendere disponibili, con la crescente disoccupazione del bracciantato, forze-lavoro in quantità senza precedenti e di queste si servirono le nascenti industrie per rastrellare manodopera a condizioni di oggettivo favore. Se sino ad allora la condizione del lavoratore dipendente più tipicamente assomigliava alle descrizioni siloneggianti dei mille e mille piccoli borghi di contado che costellavano la nazione, nelle due decadi successive a quella della guerra, la figura del lavorante meglio si inquadrò nelle due direzioni dell’impiegato di concetto e del lavoratore operaio che andò a riempire le strutture, costantemente in crescita, di grandi, piccole e medie aziende industriali, molte delle quali ubicate nel settentrione d’Italia. 5. BRANDOLESE 2012, p 97. Il fenomeno di delocalizzazione dei processi produttivi ad una destinazione a basso costo è definito off-shoring, ossia, il trasferimento di una società di un processo aziendale da un paese all’altro. Esempio noto di delocalizzazione produttiva è la produzione di abbigliamento in Cina, Vietnam, ecc.. Il design del prodotto, la ricerca e il processo di sviluppo che porta a nuovi prodotti, esclusività sono elementi relativamente difficili da sottoporre a tale pratica. Questo perché la ricerca e lo sviluppo, al fine di migliorare i prodotti e creare nuovi modelli di riferimento, richiedono una serie di abilità che sono più difficile da ottenere in regioni con manodopera a basso costo. Dopo la sua adesione all’Organizzazione mondiale del commercio (OMC) nel 2001, la Repubblica popolare cinese è emersa come una destinazione di primo piano per la delocalizzazione della produzione. La logica economica è ridurre i costi, a volte chiamato arbitraggio del lavoro , per migliorare la redditività aziendale. 6. FOGLIO 2012, pp. 31-33. Le gravi incertezze economiche e politiche che caratterizzarono gli anni Settanta si riflessero sulla moda che si sottrasse alla dittatura degli stili per diventare sempre più espressione di gusti e di scelte

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personali. L’evento più eclatante del decennio fu la nascita dello stilismo: gli imprenditori si organizzarono per estrinsecare la qualità del prodotto italiano puntando sui marchi e sulle firme degli stilisti. Per esempio, Missoni divenne celebre riuscendo ad emergere per le creazioni di tessuti di maglia a tramatura e disegni espressivi molto simili ad opera d’arte moderna. I giovani, le donne che iniziano a lavorare vogliono un abbigliamento nuovo, differenziato e segmentato. I nuovi stilisti sono in grado di interpretare una società che cambia ed esprime nuovi bisogni. Nel ‘72 a Milano arrivano Albini, Krizia, seguiti poi da Armani, Ferrè e Versace. Armani, per esempio, operò un avvicinamento dei generi realizzando una giacca di foggia maschile, ma con tessuti morbidi, come quelli normalmente utilizzati nell’abbigliamento femminile, che venne proposta con lievi differenze, a uomini e donne. Compì anche una rivoluzione professionale, riducendo il capo al suo solo involucro esterno, annullando fodere, imbottiture, rinforzi, togliendogli ogni sagomatura nel taglio ed eliminando un’operazione assolutamente fondamentale per mantenerlo “in forma”: la lunga stiratura iniziale. Milano diventa il nuovo centro propulsore del Made in Italy con la nascita del pret à porter. Gli stilisti italiani iniziano a fare le prime timide incursioni oltre oceano, ed è un successo travolgente. In America si rendono conto che le donne vogliono un “total look” perché non si fidano del loro gusto nel combinare articoli e accessori diversi. L’industria italiana emerge quindi come un sistema eclettico caratterizzato dalla convivenza di imprese medie e piccole riunite in distretti. Fino agli anni ‘70 la leadership nella moda veniva riconosciuta alla Francia; dopodiché la competizione si è fatta molto sostenuta da parte degli italiani. Il look italiano diveniva “globale” e soprattutto per gli stranieri diventava un vero status symbol. Esso resisteva e si affermava perché a monte c’era un’industria vitale, fatta di tante potenzialità e professionalità ai vari livelli della filiera. Con gli anni 80 la moda s’indirizzava pienamente verso la globalizzazione del mercato, dei consumi, dei prodotti. 7. La Camera nazionale della moda italiana è nata nel 1958, per iniziativa dai titolari di alcune tra le più importanti case di Alta Moda italiane: Maria Antonelli, Roberto Capucci, la principessa Giovanna Caracciolo Ginetti, Alberto Fabiani e la moglie Simonetta Colonna Di Cesarò, Giovanni Cesare Guidi, Germana Marucelli, Emilio Federico Schuberth, Jole Veneziani. L’associazione incominciò a svolgere le funzioni di coordinamento e regolamentazione per cui era stata costituita nel 1962. Alla svolta si giunse dopo che, alla fine del 1960, i rappre-

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sentanti di alcune note case di Alta Moda si riunirono a Roma per discutere del calendario delle sfilate che avrebbero dovuto svolgersi nel gennaio successivo. L’incontro era stato deciso in tutta fretta, non appena appresa la notizia che le sfilate parigine erano state anticipate di qualche giorno, costringendo Firenze a fare altrettanto e mettendo così Roma nelle condizioni di avere a disposizione una finestra molto breve in cui organizzare le proprie. Le sovrapposizioni che inevitabilmente si sarebbero verificate riacutizzarono il problema del coordinamento delle date delle sfilate. I campanilismi e le rivalità fra le case di moda e fra gli organismi operanti a Roma, Firenze e Torino – rispettivamente il Centro Alta Moda italiana di Roma, il Centro moda di Firenze e l’Ente nazionale della moda – rischiavano di danneggiare seriamente la moda italiana nella competizione internazionale. La predisposizione di un calendario unitario e condiviso sfociò nella costituzione della Camera nazionale della moda italiana. L’iniziativa di dotarsi di un organismo simile a quello che in Francia operava ormai da qualche decennio era un chiaro segnale della piena consapevolezza che la moda italiana non aveva nulla da invidiare a quella francese in fatto di creatività e abilità sartoriale. Le sue debolezze erano piuttosto da ricercarsi altrove: nell’estrema frammentarietà delle iniziative promozionali che avrebbero dovuto darle risonanza, nell’arretratezza del sistema formativo che avrebbe dovuto alimentarla costantemente di nuove risorse tecniche e creative, nel rapporto estemporaneo con i produttori tessili, nella carenza di regole condivise e nella mancanza di un autorevole portavoce dei propri interessi capace di stringere alleanze con il potere politico ed economico. L’esigenza di coordinamento e regolamentazione emerge con chiarezza dallo statuto della Camera nazionale della moda italiana in cui sono elencate le finalità per cui l’associazione fu costituita: «la tutela, il potenziamento, la valorizzazione e la disciplina degli interessi tecnici, artistici ed economici» afferenti alla moda; «il coordinamento, lo studio e l’attuazione» di iniziative individuali e collettive (manifestazioni di moda in Italia e all’estero); la costituzione di «organi di collegamento, di studio e di collaborazione con ministeri, autorità ed enti pubblici, con organizzazioni di altre categorie industriali, artigianali, commerciali e professionali, per la trattazione coordinata dei problemi di comune interesse». Lo scopo originario della Camera nazionale della moda italiana – «rappresentare i più alti valori della moda italiana, tutelare, coordinare e potenziare l’immagine della moda italiana in Italia e all’estero, nonché gli interessi tecnici, artistici ed economici degli Associati» – è ancora

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oggi attuale. Negli ultimi anni, tuttavia, nuove finalità e nuovi obiettivi si sono aggiunti a quelli originari. La Camera ha intensificato la propria attività di mediazione e di ricerca di alleanze e collaborazioni in ambito locale, nazionale e internazionale finalizzate a realizzare il consolidamento del sistema moda italiano, e ha promosso importanti iniziative a sostegno ai giovani stilisti. 8. Si tratta di società che possiedono quote o azioni di altre società. La holding finanziaria, in particolare, non svolge attività di produzione o scambio di beni e servizi (eventualmente svolgono tale attività di produzione o scambio le società che ne costituiscono parte integrante) 9. BUCCI 1998, pag. 76. 10. E’ importante tener conto che le regole della competizione sono mutate. La distribuzione è diventata sempre più forte e strutturata: a dettare le regole non è più il produttore ma il grande department che per il ritardo di un giorno o per un difetto di fabbricazione può cancellare l’ordine, che allunga sempre più i tempi di pagamento e, contestualmente, chiede di pagare sempre meno e, soprattutto, che è sempre meno dipendente da un nome particolare. 10. E’ importante tener conto che le regole della competizione sono mutate. La distribuzione è diventata sempre più forte e strutturata: a dettare le regole non è più il produttore ma il grande department che per il ritardo di un giorno o per un difetto di fabbricazione può cancellare l’ordine, che allunga sempre più i tempi di pagamento e, contestualmente, chiede di pagare sempre meno e, soprattutto, che è sempre meno dipendente da un nome particolare. 11. KOTLER, dichiarazione durante il convegno milanese “Kotler on Marketing” , organizzato da ISEM – Istituto Europeo per il Marketing 12. Le Imprese 2000, pag 42. 13. CISST, 26-28 Febbraio 1990, p. 71. 14. Azienda leader mondiale nel settore del lino. L’azienda prende vita nel 1874 a Busto Arsizio per opera di Michele Solbiati. Gli inizi sono modesti e adeguati ai tempi. La svolta si ha nel 1958 quando in azienda entra Vittorio Solbiati, l’uomo della quarta generazione che si trova a combattere con la grande crisi che investe l’intero comparto tessile nella seconda metà degli anni Settanta. L’uomo vanta il merito di aver condotto l’azienda, nonostante i tempi critici, in un universo d’eccellenza. La produzione gode ormai di un’esperienza storica in grado di rispondere alle esigenze del mercato in ogni stagione dell’anno, grazie alla disponibilità di ogni tipo di tessuto, recentemente introdotto oltre al

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tradizionale lino. 15. Cfr. scheda di sintesi storica tratta da “Il marketing della moda”, Foglio, 2001 16. CORBELLINI 2004, p. 64. 17. La crisi economica del 2008-2014 (spesso indicata come la Grande Recessione) prese avvio dapprima negli Stati Uniti nel 2007, in seguito ad una crisi del mercato immobiliare manifestatasi con lo scoppio di una grande bolla immobiliare (crisi dei subprime) e una susseguente pesante crisi finanziaria, e poi diffusasi in tutto il mondo. Manifestatasi come recessione, ha gradualmente assunto poi un carattere globale e perdurante (tranne alcuni casi eccezionali, come la Cina o l’India) fino ai nostri giorni. Tra i principali fattori della crisi economica figurano gli alti prezzi delle materie prime (petrolio in primis), una crisi alimentare mondiale, un’elevata inflazione globale, la minaccia di una recessione in tutto il mondo e per finire una crisi creditizia (seguita a quella bancaria) con conseguente crollo di fiducia dei mercati borsistici. Viene considerata da molti economisti come una delle peggiori crisi economiche della storia, seconda solo alla grande depressione. Nel 2007 il costo del greggio (che esercita un ulteriore impatto influenzando i prezzi di altre fonti energetiche, soprattutto il gas naturale e il carbone) subì un aumento del 45%. La zona euro, fortemente dipendente dalle importazioni di petrolio in percentuale vicina al 100%, ha risentito non solo a livello produttivo, ma anche sui prezzi al consumo, con conseguenze non indifferenti in termini di Pil, consumi privati, investimenti e esportazioni. Solo dal 2008 l’incremento dei prezzi delle commodity, in particolare il rialzo del prezzo del petrolio grezzo e di alcuni cereali, si è fatto sentire a tal punto da cominciare a creare serie conseguenze economiche e frenare gradualmente l’attività economica, minacciando il terzo mondo con l’aumento del rischio della fame, producendo stagflazione e ponendo ostacoli al commercio globale. Tutto ciò causò ripercussioni dirette sul fenomeno della globalizzazione, accanto a un’ondata generalizzata di ribassi nelle borse di tutti i continenti. L’aumento dei prezzi delle materie prime si tradusse poi nell’aumento dei costi finali di produzione dei beni di consumo, con conseguenze sulle fasce più deboli della popolazione mondiale. Nel 2009 l’economia mondiale risentì pienamente degli effetti della crisi finanziaria originatasi negli Stati Uniti e acuitasi nell’ultima parte del 2008. Radicale fu la contrazione dell’attività economica in tutti i principali paesi del mondo, raggiungendo il punto di massima contrazione nel pri-

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mo trimestre dell’anno. La crisi generalizzata determinò un aumento verticale della disoccupazione che compresse la capacità di spesa delle famiglie, favorì la propensione al risparmio, indebolendo la domanda aggregata.

La crisi

del debito italiano fu, allora, scatenata da tre ragioni combinate: l’alto livello del debito pubblico, in rapporto al PIL; la scarsa o assente crescita economica, con il prodotto interno lordo aumentato in termini reali solo del 4% nel decennio 2000-2010, e andato poi a ridursi progressivamente; la scarsa credibilità dei governi, e del sistema politico, spesso apparso privo di decisione o tardivo nell’affrontare le emergenze del paese agli occhi degli osservatori internazionali e degli investitori. Inoltre, l’indebitamento estero del settore privato, l’impossibilità di ricorrere alla svalutazione della moneta (proibita dagli accordi di Maastricht) per stimolare la competitività delle esportazioni, il forte deficit della bilancia commerciale, cui va aggiunto il dato dell’enorme quantità di debito pubblico pregresso (aumentato inoltre tra 2008 e 2011 del 7%), indussero molti investitori, soprattutto esteri, a nutrire sfiducia verso la capacità dell’Italia di essere solvibile. Tutta una serie di cause che ci hanno lentamente condotto alla gravità attuale. 18. La fondazione riunisce dal 1992 le imprese che rappresentano l’alta industria culturale e creativa italiana, che si distinguono per innovazione, qualità, design e servizio. La missione Altagamma è accrescere la competitività dell’alta industria culturale e creativa italiana, contribuendo alla crescita economica e sociale dell’ Italia. All’interno di un segmento di mercato in costante crescita di consumo in tutto il mondo, le imprese Altagamma giocano un ruolo da protagonista. La fondazione opera ad ampio spettro per rafforzare la competitività delle imprese: dalla conoscenza dei mercati alle relazioni istituzionali. 19. Il periodo 2000-07 di forte sviluppo dell’economia mondiale, la recessione del 2008-09, la breve ripresa del 2010. 20. INTESA SAN PAOLO, Report 2011. Nel terzo trimestre 2011 l’export dei distretti industriali tradizionali ha continuato a crescere a ritmi sostenuti, registrando un aumento tendenziale dell’8,2%. I distretti specializzati in beni di consumo del sistema moda, hanno complessivamente messo a segno una crescita tendenziale delle vendite estere del 9,9%. Il contributo maggiore alla crescita dei distretti è comunque venuto dai tradizionali sbocchi commerciali, guidati da Germania (+11%), Francia (+10,9%), Svizzera (+14,5%) e Stati Uniti (+10,9%).

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21 Ibidem. Le regioni italiane: Nel terzo trimestre 2011 diverse regioni hanno continuato a crescere a ritmi sostenuti, con in testa Lombardia e Piemonte che hanno registrato un aumento tendenziale delle esportazioni. La dinamica degli altri distretti del Nord e del Centro è stata positiva ma più lenta. Più in difficoltà i distretti delle regioni del Sud, che sono rimasti in territorio negativo, dopo un secondo trimestre 2011 già in calo. 22. BANCA D’ITALIA, Relazione annuale 2011, presentata all’assemblea ordinaria dei partecipanti, Roma 31 Maggio 2012. Nel 2011 il PIL dell’Italia ha rallentato; la crescita è scesa, in media d’anno, allo 0,4%, dall’1,8. La flessione del PIL dalla seconda metà del 2011 è in larga parte attribuibile alle conseguenze della crisi del debito sovrano nell’area dell’euro, che dall’estate ha investito il mercato italiano. L’aggravarsi delle tensioni finanziarie ha reso più difficile la provvista delle banche, ripercuotendosi sulle politiche di prestito al settore privato (esempio:aziende in difficoltà) e, quindi, sulla domanda nazionale, in particolare per investimenti; questi ultimi hanno risentito inoltre del permanere di ampi margini inutilizzati di capacità produttiva. 23. L’indagine mensile Istat sulla fiducia delle imprese manifatturiere fornisce informazioni sulle condizioni di credito sperimentate dalle imprese italiane e segnala come, nella seconda metà del 2011, la percezione delle imprese sulle condizioni di credito sia peggiorata bruscamente. Un aggravamento che ha interessato soprattutto le imprese di piccola e di media dimensione, le quali, nel corso del 2011, si sono viste rifiutare in misura crescente il finanziamento da parte delle banche. Tra le imprese che hanno comunque ottenuto credito, si segnala un incremento degli oneri del finanziamento, in termini di maggiori tassi di interesse. Nel 2011 la variazione dei consumi è stata nulla in media d’anno. A seguito del contemporaneo aumento dei prezzi si è determinata una contrazione del potere d’acquisto delle famiglie (cioè il reddito disponibile delle famiglie in termini reali). Nel corso dell’anno la dinamica dei consumi, ha evidenziato una continua e via via maggiore contrazione. Il potere di acquisto è diminuito lungo tutto l’arco dell’anno. Nella parte finale dell’anno la propensione ha registrato una leggera risalita, favorendo un’accelerazione della caduta dei consumi. I segnali che provengono dagli indicatori anticipatori, lasciano intuire il perdurare della debolezza dei consumi nell’anno successivo. 24. INTESA SAN PAOLO. Monitor dei distretti. Settembre 2012. Si è quasi fermato, ma è rimasto in territorio positivo, il ritmo di crescita dei 143 distretti

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industriali monitorati da Intesa San Paolo. Nel secondo trimestre del 2012, infatti, le esportazioni distrettuali hanno registrato un aumento pari all’1% tendenziale a prezzi correnti. Gran parte dei principali settori ad alta specializzazione dei distretti (come quello della moda) ha registrato una crescita seppur lieve dell’export. Questi risultati vanno letti positivamente e danno conto della forza e della competitività del tessuto distrettuale italiano poiché sono stati ottenuti in presenza di un forte rallentamento degli scambi mondiali e, soprattutto, di una contrazione delle importazioni dell’Eurozona, principale destinazione commerciale delle vendite dei distretti. 25. ICE, Rapporto ICE 2012- 2013. L’Italia nell’economia internazionale, Agenzia per la promozione all’estero e l’internazionalizzazione delle imprese italiane, Roma 2013. Gli enti nazionali e locali attivi in questo campo hanno cercato di rafforzare la propria azione di sostegno alle imprese italiane. Per quanto riguarda i servizi promozionali, l’agenzia ICE, ancora impegnata in una difficile transizione organizzativa, ha potuto operare nel 2012 con disponibilità finanziarie pari al 23 per cento di quelle del 2010, ma è riuscita comunque a contenere la flessione del numero delle imprese utenti in proporzioni molto inferiori a quella dei fondi disponibili. I problemi distributivi vanno affrontati con politiche sociali adeguate, nelle disponibilità finanziarie e negli strumenti. Tuttavia, il processo di rinnovamento del tessuto imprenditoriale non va contrastato, ma anzi va sostenuto con politiche industriali mirate a migliorare la qualità delle risorse e a diffondere la capacità innovativa, tra le quali possono essere annoverati anche gli interventi di sostegno all’internazionalizzazione. 26. ISTAT, Report annuale 2013. 27. La Moda 1975. Osservando i fatti, nel volgersi dei ricorsi storici, notiamo che, quando le persone vivono in periodi di tranquillità o di sicurezza, la moda dell’abbigliamento tende ad individualizzare la persona. La ricerca ed il coordinamento delle informazioni per formulare la previsione degli orientamenti economici e di stile, corrisponde a una esigenza che si va sempre più affermando, particolarmente da quando la moda si è definitivamente rappresentata come il risultato di un desiderio collettivo, provocato e maturato da fattori diversi e numerosi, che deve essere interpretato in anticipo e per la soddisfazione del quale debbono in anticipo essere preparati i prodotti e le tecniche di vendita. L’esigenza di prevedere nasce ancora più imperiosa dalla constatazione che l’offerta del prodotto di moda deve corrispondere ad una quasi antitetica motivazione d’ac-

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quisto del consumatore. E’ noto infatti come la motivazione d’acquisto moda quasi sempre obbedisca ad una volontà di aderire ad una certa moda e nello stesso tempo di distinguersi. Ulteriori difficoltà nascono dalle particolari caratteristiche del prodotto moda, soggetto a dover essere periodicamente rinnovato nell’offerta e continuamente modificato nella domanda, che può essere influenzata da circostanze non sempre prevedibili e guidata da media non sempre coordinati con le disponibilità della produzione e della distribuzione. Inoltre, il prodotto moda si caratterizza rispetto alla maggior parte dei prodotti manifatturieri per l’alto contenuto informativo; esso assomma infatti alle proprietà d’uso la caratteristica di strumento sociale di informazione e comunicazione. Ciò lega in modo molto stretto il prodotto di moda al contesto psico -socio-culturale di un certo momento e al posizionamento che l’individuo vuole assumere in quel contesto. La previsione degli orientamenti del mercato del settore tessile -abbigliamento deve considerare, poi, le varie fasi del processo produttivo e distributivo, dalla programmazione degli approvvigionamenti delle materie prime fino alla vendita del prodotto finito al consumatore finale. Ma la maggior difficoltà che si incontra in questo lavoro è la disomogeneità dei dati disponibili e reperibili che si riferisce sia a quelli di natura economica che di natura psico -socio-culturale. In questo quadro di ricerca, ovviamente, il ruolo fondamentale è giocato dall’informazione nei molteplici aspetti in cui essa si caratterizza. La messa a punto di un sistema di ricerca degli orientamenti del mercato non può pretendere di poter fornire elementi di sicurezza tali da eliminare gran parte dei rischi che il settore si trova ad affrontare nella preparazione del prodotto. Per questo la prevedibilità è molto difficile in tempo utile. 28. Contrariamente a quanto avvenuto durante la recessione del 2008-2009, nel 2012 le esportazioni hanno contribuito positivamente alla crescita, seppure con un profilo in rallentamento durante il corso dell’anno. In un contesto di generale frenata della domanda mondiale, la performance delle vendite all’estero di merci dell’Italia (+3,7%) è risultata, insieme a quella spagnola, la più favorevole tra le principali economie dell’Ue. 29. Ibidem. Il potere d’acquisto delle famiglie è diminuito ulteriormente. Si tratta di una caduta di intensità eccezionale che giunge dopo un quadriennio caratterizzato da un continuo declino. A questo andamento hanno contribuito soprattutto la forte riduzione del reddito da attività imprenditoriale e l’inasprimento del prelievo fiscale. Per far fronte al calo del reddito disponibile, le famiglie

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hanno ridotto dell’1,6% la spesa corrente per consumi: la più forte dall’inizio degli anni Novanta. 30. L’indicatore sintetico del clima di fiducia delle imprese. 31. ICE, Rapporto annuale 2012-2013, L’Italia nell’economia internazionale, Agenzia per la promozione all’estero e l’internazionalizzazione delle imprese italiane, Roma 2013. 32. ISTAT, Report annuale 2013 33. INTESA SAN PAOLO, Monitor dei distretti, Gennaio 2014

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CAPITOLO II

IL MODELLO DEL SISTEMA “MADE IN ITALY” Il settore moda, come sappiamo, ha il suo maggior potere trainante nel rivalutare le situazioni, nella forza di rigenerarsi anche nel passato o nella presunzione di ipotecare il futuro. Rafforzare la volontà di ripresa e rinnovamento al fine di riportare il settore su posizioni concorrenziali è l’obiettivo attuale. Ma la vastità delle nostre competenze territoriali, oggi, è quasi un limite del campo. Se la varietà è una ricchezza, l’eccesso di varietà ci penalizza in un mercato globale dove i nostri concorrenti focalizzano invece gli sforzi e spesso compensano l’assenza di sostanza con la potenza della forma (comunicazione e promozione integrata, brand management) e la massa critica. Eleganza, cultura progettuale, tradizione, ricerca stilistica, design di alto livello: sono queste le virtù che il resto del mondo attribuisce all’industria italiana, a discapito della capacità di sostenere la grande dimensione, la ricerca, l’applicazione di nuove tecnologie, l’internazionalizzazione. Se non impariamo a considerare tutte le componenti del sistema moda, corriamo il rischio di disperdere una potenzialità, della quale il nostro Paese ha estremo bisogno. Siamo soliti definire il settore come «sistema moda», inconsapevoli di mettere in atto una forzatura evidente di una realtà che è ben altrimenti articolata. Un’analisi più puntuale ci porterà a parlare, probabilmente più appropriatamente, di «sistema di sistemi»1

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Se analizzassimo, nelle diverse fasi di elaborazione del prodotto, i distinti comparti, finiremmo con l’evitare di ignorare che siamo in presenza di molteplici sistemi fra loro al tempo stesso autonomi e correlati. Ricordiamo i singoli settori (confezione, calzature, vestiario intimo etc..); i diversi consumatori (uomini, donne, bambini, sportivi, etc..); e infine le diverse strutture della produzione e del commercio (industria, artigianato, confezioni su misura, grande distribuzione, ingrosso specializzato, dettaglio, punti di vendita specializzati, etc..). Siamo qui chiamati a prendere atto che il successo del prodotto italiano è motivato non solo dalla tradizione ma dal multiforme apporto di tante forze personalmente impegnate: l’industria tessile, i designers, l’industria del pret à porter, le confezioni in serie e le sartorie in tutta la loro particolare articolazione. E la loro combinazione è una variabile, e non una costante sistematica. Un autentico sistema moda, se vuole avere credibilità e prospettiva deve considerare tutto il quadro, e deve quindi essere una strategia dei sistemi moda finalizzata all’evoluzione positiva dell’apparato produttivo italiano, investendone tutte le parti. Ecco allora che non può essere considerato solo in termini di profitto, in quanto in esso giocano fattori multipli quali il costume e la cultura che si sono creati con il trascorrere degli anni.

2.1. I paradossi del made in Italy Il made in Italy sta attualmente attraversando una fase paradossale. Consumatori e addetti ai lavori sono sempre più consapevoli di come dietro l’etichetta “made in Italy” non vi sia sempre una produ62


zione realizzata nel territorio italiano, ma un processo più plesso che va al di là della definizione del luogo d’origine o della produzione. La moda made in Italy, infatti, non è necessariamente fatta in Italia e la moda fatta in Italia non è necessariamente made in Italy. A sostegno di questa tesi, va considerato innanzitutto il sistema normativo di riferimento , secondo cui per etichettare un prodotto come “made in Italy” sono sufficienti soltanto due fasi di lavorazione sul territorio italiano, a patto che tutte le altre fasi del processo produttivo siano tracciabili. Sebbene il made in Italy continui a comprendere aziende storiche che producono in Italia avvalendosi interamente di “mani e menti italiane”, oggi questa etichetta raccoglie realtà profondamente diverse, che possono spaziare dall’azienda italiana che delocalizza la produzione in paesi a basso costo o che si avvale dei numerosi laboratori cinesi, indiani e pakistani radicati nel territorio italiano, alla griffe straniera che produce in Italia per riappropriarsi di quelle caratteristiche di eccellenza qualitativa che sono universalmente riconosciute al nostro sistema moda. Il “vero” made in Italy è difatti considerato appannaggio esclusivo di una nicchia di case di moda appartenenti alla fascia più alta del settore, l’unica in grado di sostenere i costi di quella sempre più rara cultura artigianale del prodotto di cui sono portatori i distretti produttivi italiani. 3 Di conseguenza, per gli addetti ai lavori, il “vero” made in Italy è compatibile soltanto con il lusso e l’alto di gamma. Tutto questo rende paradossalmente più autentico lo statuto di made in Italy rivendicato da tutte quelle griffe straniere che si appoggiano parzialmente o integralmente alla nostra filiera per riappropriarsi di 63


quelle caratteristiche di eccellenza qualitativa che sono universalmente riconosciute alla manodopera italiana. 4

2.2. Le interpretazioni del “made in..” Lo scenario appena delineato ha portato alcuni studiosi a ridefinire il made in Italy alla stregua di un puro dispositivo di comunicazione. Voci autorevoli, dall’Italia e dall’estero, sostengono che il made in Italy rischia il declino. Eppure, è curioso notare come campagne pubblicitarie, servizi di moda, vetrine e altre iniziative di comunicazione, sono sempre più spesso costruite attorno a nuclei tematici territoriali tendenti a riappropriarsi delle associazioni positive legate a un determinato paese d’origine. Nuclei tematici costruiti attorno la nostra Milano, la bellezza mediterranea e l’eccellenza qualitativa del nostro made in. A ragion veduta, cos’è di preciso quel Made in Italy che rischiamo di perdere? Anche se si parla tanto di “etichetta”, il made in Italy è una convenzione molto più vasta: •

la creatività che si combina con la funzionalità;

l’artigianalità e le produzioni su piccola scala che assicurano la qualità dei manufatti;

i distretti e le piccole imprese familiari che danno vita a un modello basato sulla flessibilità, la specializzazione e la continuità;

la padronanza dell’intera filiera tessile, dal filato alla distribuzione, e di quella di pelle-calzature-accessori che, con il supporto

delle industrie del meccano tessile e del terziario

avanzato, orientano il sistema verso una continua innovazione; •

l’effetto Rinascimento, conseguenza del vivere dentro al museo 64


a cielo aperto più grande del mondo, che influenza la sensibilità estetica di tutti gli italiani. I consumatori italiani sono i più esigenti del mondo ma anche i primi disponibili a riconoscere un premium price alla qualità e al design: acquistando i manufatti del Made in Italy, non per spirito patriottico come gli americani, ma per la loro propensione al bello, hanno permesso alle aziende di elevare sempre più la propria offerta dal punto di vista qualitativo. Made in Italy, ‘fatto in Italia’, è il marchio più forte del mondo. Recenti ricerche lo dimostrano con chiarezza. Nei prodotti italiani il consumatore cerca un’ emozione che gli consenta di condividere uno stile di vita, una visione estetica della qualità che è unica al mondo, inimitabile. La nostra, la vostra sfida è di mantenersi all’altezza di questa immagine. 5

Ciò che purtroppo appare chiaro è che “Made in Italy” è un concetto che vale molto più per i mercati internazionali, quanto per gli stessi italiani. Nel presente capitolo si propone uno spunto di riflessione circa la validità del modello Made in Italy, dopo averne esaurientemente illustrato l’origine, le caratteristiche, il vantaggio competitivo e le sfide da affrontare per competere a livello internazionale.

2.3. L’industria della moda in Italia Ci sono alcuni elementi nella complessa storia d’Italia che aiutano a comprendere perché in questo Paese e non altrove si siano sviluppati quel gusto e quella capacità di fare che sono tuttora caratteri fondanti delle produzioni Made in Italy. Le imprese appartenenti ai settori di competenza del Made in Italy poggiano su una cultura di prodotto 65


molto forte che trova radici lontane nel tempo, su una storia artistica ed artigianale antica, nata all’interno delle botteghe rinascimentali, sui mille musei e chiese sparse su tutto il territorio, che tramandano una diffusa cultura estetica, accompagnata dall’orgoglio tipico dell’artigiano che cerca di realizzare un prodotto perfetto per propria intima soddisfazione: l’orgoglio, cioè, del saper fare e di essere, al contempo, artefice e creatore. Ma per immaginare l’Italia del futuro non si può che ripartire dalle sue radici.

2.3.1 Le origini Il fenomeno del Made in Italy può essere considerato e analizzato secondo una duplice visione: lo si può considerare un fenomeno relativamente recente, risalente agli ultimi settant’anni, sviluppatosi per una serie di coincidenze fortuite, che spaziano dal basso costo del lavoro all’emergere di un nuovo ceto imprenditoriale, dal fiorire di alcuni stilisti e designer alla voglia di riscatto del popolo italiano dopo le tristezze della guerra; alternativamente, lo si può considerare come un fenomeno da inquadrare in una prospettiva lunga della tradizione e della cultura italiana. Secondo questa interpretazione, come già preannunciato, il Made in Italy è frutto di una lunga e fertile cooperazione tra cultura, arte, artigianato, abilità manifatturiera, territorio e memorie storiche6. Il nostro Paese, il “Bel Paese”, gode di una immagine unica al mondo grazie al patrimonio artistico e culturale di cui dispone. Un aspetto sul quale ci si sofferma poco riguarda il fatto che molta della nostra produzione artistica sia stata il risultato di mani sapienti, capaci non 66


solo di impugnare una piuma d’oca per comporre testi indimenticabili, ma anche di utilizzare con agilità martello e scalpello per lavorare il marmo piuttosto che di manovrare un paranco per lavorare a una grande opera architettonica. L’arte e la cultura hanno a che vedere con l’economia della moda e lo sviluppo molto più di quanto ancora oggi spesso si pensi. In fondo, anche questo è il segreto del Made in Italy, L’Italia, con la sua industria e i suoi prodotti, ha saputo esportare nel mondo tutte le potenzialità della sua civiltà. Anche l’Italia impegnata nella creatività digitale, nel design dell’interfaccia dei nuovi strumenti di comunicazione, nella realizzazione soluzioni più innovative per reggere il passo del futuro sarà sempre un’Italia artigiana, orientata alla qualità e alla personalizzazione, radicata sul territorio e dotata di una credibilità straordinaria dal punto di vista estetico, riconosciuta per il gusto e capace di soluzioni da architetto. Ecco che allora, il capo moda della creatività del Made in Italy viene da sempre qualificato con l’espressione “bello e ben fatto” per esprimere, oltre all’aspetto relativo all’estetica, proprio questa capacità di lavorare e nobilitare la materia innanzitutto in senso progettuale. Made in Italy è un valore universale ed antico, le cui radici profode e forti non devono, però, condurre erroneamente a concepirlo come una rendita: è un talento da preservare e su cui investire in formazione, ricerca, cultura e cooperazione.

2.3.2 Il modello produttivo Prima di procedere all’analisi dei vantaggi della competitività inter67


nazionale del sistema industriale italiano, è senza dubbio necessario offrire un quadro generale del modello produttivo della Penisola. Il Made in Italy è l’emblema del modello di industria all’italiana e tre sono gli elementi che caratterizzano in modo inequivocabile tale modello: in primo luogo la specializzazione produttiva; si tratta di una peculiare focalizzazione del settore moda sugli specifici passaggi di produzione che costituiscono la catena di montaggio relativa all’intera filiera. Nel tempo questo settore ha assunto un peso sempre maggiore nel sistema industriale italiano. In secondo luogo la dimensione delle imprese; il modello del Made in Italy è, infatti, caratterizzato dalla straordinaria prevalenza di unità di piccole e medie dimensioni a carattere familiare che posseggono una particolare attitudine nell’adattarsi facilmente alle differenziate e mutevoli esigenze della domanda, ma nel contempo presentano anche dei limiti nel creare e presidiare posizioni stabili sul mercato; in ultimo la localizzazione in distretti industriali; si tratta di una forte concentrazione territoriale delle filiere produttive in particolari sistemi locali che favoriscono la divisione e la specializzazione del lavoro tra le imprese ed offrono una serie di economie esterne e di vantaggi alle imprese radicate al loro interno 7. Grazie soprattutto alle più grandi realtà imprenditoriali di avanguardia, tale modello è riuscito a migliorare e rafforzare le proprie performance sotto il profilo tecnico-produttivo, organizzativo - manageriale, dei servizi offerti, della qualità e del disegno dei prodotti, raggiungendo così importanti obiettivi di espansione territoriale e di crescenti vendite all’estero. 8 68


Il nostro attuale modello produttivo trova le sue fondamenta negli anni Settanta quando, in pieno passaggio dall’epoca industriale a quella terziaria, affiorò un modello produttivo successivamente denominato “Terza Italia”, che si contrapponeva al modello di sviluppo industriale dominante nei decenni precedenti.

9

Nacquero così

una serie di realtà territoriali altamente qualificate in produzioni di nicchia (i distretti industriali) che, proprio per questa professionalità, riuscivano a far emergere una capacità produttiva ineguagliabile, sostenuta da un clima economico ispirato all’elevata specializzazione, nel giusto equilibrio tra competizione e cooperazione. In breve tempo, il livello di competitività crebbe notevolmente e con esso le esportazioni di beni tradizionali, posizionati in alte fasce di prezzo. 10 Al contempo, anche le produzioni contraddistinte da minor qualità nelle tipologie tipiche del Made in Italy riuscirono a sfruttare l’immagine che la Penisola otteneva sui mercati internazionali, sostenute da una struttura dei costi ancora favorevole. Proprio queste produzioni, però, nel giro di poco tempo dovettero fare i conti con un sistema socio-economico in evoluzione, in cui le sollecitazioni sul fronte dei prezzi furono notevoli.11

2.4. Evoluzione storica e caratteristiche del sistema distrettuale La teoria dei distretti, i cui primi contributi possono essere fatti risalire ai lavori di Marshall (1920), si pone tradizionalmente come paradigma di incrocio tra l’organizzazione industriale e il management d’impresa. Uno dei principali elementi esplicativi del successo di tali sistemi di organizzazione della produzione su base locale è stato 69


identificato nella esistenza delle cosiddette “economie esterne”. Marshall, infatti, introducendo il concetto di filiera produttiva, che scaturisce dalla scomposizione del ciclo produttivo, sviluppa il tema delle economie esterne, ossia “diminuzione nei costi medi di produzione e commercializzazione di un’impresa dipendenti positivamente dal livello a cui è condotta una certa produzione in un certo luogo”. In tal modo, per l’impresa distrettuale è possibile conseguire vantaggi che singolarmente non sarebbe in grado di ottenere. Uno dei meccanismi alla base del processo di nascita e sviluppo dei distretti industriali è rappresentato dal fenomeno della specializzazione. Tale fenomeno, in estrema sintesi, è riconducibile ad un meccanismo di scomposizione delle fasi della filiera economico-produttiva nelle sue componenti minime, cui segue un processo di naturale suddivisione di tali fasi tra altrettante imprese. La risultante, almeno nello schema puro del distretto industriale, è la presenza di un numero sufficientemente elevato di imprese di piccola dimensione fortemente specializzate in una o pochissime fasi di tale filiera, ma allo stesso tempo altamente integrate nella logica della filiera stessa. La natura dei vantaggi che discendono da queste economie esterne, può rivelarsi sotto diversi profili: riduzione dei costi di produzione e dei costi di transazione. D’altro canto, i meccanismi relazionali tra le imprese, unitamente alla componente istituzionale del distretto fanno sì sì che all’interno di questo modello organizzativo si inneschino processi di mutuo riconoscimento basati principalmente sulla marginalizzazione e penalizzazione di comportamenti opportunistici. In altri termini, il reiterarsi delle transazioni tra i medesimi soggetti, consente il rag70


giungimento di maggior livello di trasparenza delle informazioni. Tutto ciò conduce ad una riduzione dei costi transazionali. Storicamente, l’organizzazione distrettuale si è diffusa all’interno di contesti socio-economico-territoriali caratterizzati da una forte tradizione produttiva, tramandata nel corso del tempo e che ha permesso il sorgere della famosa etichetta Made in Italy. In tale prospettiva il distretto è visto non come un aggregato fisico di realtà industriali inserite in uno stesso spazio geograficamente definito per il completamento di un ciclo produttivo ma come un contenitore di risorse immateriali e produttive in cui il modello relazionale trova la sua massima espressione. L’importanza dei distretti, inoltre, trova un evidente riscontro anche alla luce del processo di globalizzazione che sta investendo l’economia mondiale, ponendo basi per il verificarsi di quello che potrebbe essere definito un paradosso. L’ingresso del distretto industriale nel nostro ordinamento avviene con la L. 317/91 che all’art. 36, comma 1, che lo definisce come un’area territoriale caratterizzate da una particolare specializzazione produttiva, dove esiste un particolare rapporto tra presenza di imprese e popolazione residente.

12

I distretti della moda in Italia

presentano caratteristiche del tutto analoghe a quelle tipiche dei distretti marshalliani: presenza di un’atmosfera industriale e una cultura diffusa, intervento delle istituzioni pubbliche, netta prevalenza di realtà imprenditoriali di piccole e medie dimensioni. Questo particolare modello di organizzazione della produzione, storicamente è stato favorito dalla prossimità geografica degli attori del distretto e, col tempo, ha consentito alle singole imprese di raggiungere un’alta produttività degli input impiegati, una forte specializzazione operativa, ma soprattutto una grande capacità di supervisione delle 71


esigenze del mercato finale, al punto di sviluppare fenomeni di adeguamento del ciclo produttivo ai bisogni registrati sui mercati nazionali ed internazionali. Si persegue, così, una forte specializzazione flessibile, fondata sulla stretta cooperazione dell’impresa con altre imprese per acquisire know-how esterno e rispondere rapidamente ai cambiamenti del mercato.

2.5. Il modello strategico d’impresa Abbiamo già messo in evidenza come il settore tessile-abbigliamento italiano sia particolarmente caratterizzato da piccole e medie imprese. Sebbene il fenomeno del nanismo aziendale sia notoriamente caratteristico del sistema industriale del nostro paese, in maniera trasversale rispetto al settore di attività economica, nel caso del comparto oggetto della nostra analisi, è opportuno analizzarlo in maniera dettagliata, al fine di ricercarne le cause e valutarne il potenziale successo. La nascita del terzismo ha rappresentato un fattore cruciale 13, rispondendo ad un crescente bisogno di creare un maggior legame tra industria, efficienza e organizzazione. In particolare, dopo l’affermarsi delle grandi maison di moda, si è manifestata l’esigenza di ricercare una complementarietà di competenze proprie dei grandi stilisti che si erano affermati come talenti creativi, e la grande industria. Si definì dunque una compenetrazione delle esigenze dello stilista e dell’industria, dando vita alle collezioni “diffusion” (terze linee firmate), che rispondevano alle nuove esigenze di flessibilità e specializzazione dei prodotti ad elevato contenuto di moda. Si è andato così diffondendo un sistema di relazioni industriali, che 72


hanno dato vita ad una caratteristica tipologia d’impresa. In questo quadro, è’ tuttora possibile distinguere due tipologie fondamentali di impresa, le cui caratteristiche e scelte hanno ripercussioni anche sugli altri attori della filiera a esse collegati: l’impresa integrata (da monte a valle e da valle a monte); l’impresa a rete. Nel caso dell’impresa integrata il business system viene gestito da un solo attore. In questi casi l’unico attore organizzativo ha il controllo dell’intero processo, possibilmente dal filato al capo confezionato finito fino alla distribuzione. Tale modello di impresa fonda il suo successo sulle economie di scala e di integrazione verticale a livello produttivo e distributivo e sull’innovazione in termini di prodotto e di processo. I punti cardine di tale visione imprenditoriale possono essere così sintetizzati: •

controllo dell’intero processo dal filato alla distribuzione;

sviluppo di un’elevata massa critica in tutte le fasi per poter rispondere a una domanda altamente discontinua;

elevati investimenti nelle tecnologie di processo e nei sistemi informativi;

sourcing internazionale nei paesi in grado di ottimizzare il rapporto qualità/prezzo nelle fasi produttive labour intensive;

grande enfasi sull’efficienza e sul servizio;

sviluppo di un processo di apprendimento permanente grazie al controllo delle informazioni nella filiera.

Il modello di impresa integrata, presenta principalmente i seguenti limiti: •

si presta prevalentemente per prodotti non eccessivamente sog73


getti alla moda;

richiede elevati investimenti e implica una rilevante complessità di gestione e organizzativa.

L’alternativa è il modello dell’impresa a rete, sostenuta da una integrazione di filiera, tipicamente costituita da una grande Maison o azienda di moda catalizzatrice di una costellazione di imprese produttrici micro e piccole. In questo caso il business system è gestito da una pluralità di attori e il ruolo di leader della rete (titolare della marca, produttore, distributore) può essere coperto da attori diversi e può modificarsi nel tempo. Le priorità dell’impresa a rete sono di ottenere un efficace collegamento in tutto il business system, compresa la distribuzione dei prodotti, e di mantenere un’elevata flessibilità rispetto alle variazioni della domanda finale. Lo sviluppo di questo modello è stato sicuramente favorito dalla presenza nel nostro paese della diffusa struttura produttiva di piccole imprese e dalla relativa consuetudine alle relazioni di tipo collaborativo. I vantaggi più significativi sono i seguenti: •

garantisce un’elevata flessibilità del sistema produttivo;

offre notevole spazio alla vocazione imprenditoriale di coloro che intendono partecipare attivamente al network costituendo e sviluppando la propria azienda;

alleggerisce le esigenze finanziarie connesse alla gestione degli stock;

implica un minore investimento finanziario complessivo per la realizzazione di strategie di forte sviluppo.

74


All’interno del modello di impresa a rete è oggi possibile individuare due ruoli nettamente distinti14: l’azienda orientata al mercato; e l’azienda produttrice o, in termini restrittivi, terzista, focalizzata su competenze tecnico-produttive. Nell’azienda orientata al mercato vengono realizzate le seguenti attività della catena del valore: l’ideazione, lo sviluppo e l’industrializzazione del prodotto, gli acquisti delle materie prime e dei semilavorati fondamentali (filati e tessuti), la logistica dei semilavorati e dei capi finiti, il marketing e la distribuzione dei prodotti. Nell’azienda produttrice, la focalizzazione è invece sulla dimensione produttiva, che può allargarsi dalla confezione fino al finissaggio, al taglio e anche all’acquisto del tessuto.

2.5.1. Vantaggi competitivi Sono la tecnica e le innovazioni che creano lo stile. Quelli che ci copiano riescono a prendere solo il minimalismo, o meglio, il minimo. Per questa ragione il Made in Italy si identifica con alcuni prodotti in particolare ma con nessuno stile preciso nella moda. 15

Esemplare quanto dichiarato da Miuccia Prada. La qualità è il nostro cavallo di battaglia. Infatti, quando la moda italiana va alla ricerca del costo piu basso o del prodotto più furbo, o si esaurisce in una comunicazione omologata e dozzinale, o strangola i piccoli fornitori, tradisce un’immagine e un’eredità di eccellenza nel fare vecchia di secoli che appartiene a tutti noi.16 La valorizzazione del Made in Italy, oltre a dover puntare sulla già accennata distinzione tra civiltà italiana, sinonimo di cultura e saper fare, e Stato italiano, deve fare leva sulle medie imprese, portatrici 75


principali di questo saper fare e, al tempo stesso, nuova nervatura economica ed industriale del Paese. Il tradizionale individualismo italiano, la generale e diffusa scarsa conoscenza della storia italiana, l’eccessiva frammentazione settoriale delle organizzazioni imprenditoriali, che rende difficili azioni coordinate anche nell’ambito di un solo settore, non possono costituire i fattori disincentivanti, seppur presenti nell’effettiva realtà del Paese, della valorizzazione della cultura e dello stile italiano e del sistema di vita come esso si manifesta attraverso i suoi prodotti. Il percorso da intraprendere è uno, ed è sintetizzato nelle quattro P che compaiono a fianco dei famosi “quattro P” del marketing mix (prodotto, prezzo, pubblicità, posto, cioè distribuzione): •

Probing: analizzare il mercato;

Partioning: segmentare nella maniera più sofisticata;

Prioritizing: scegliere i segmenti prioritari;

Positioning: definire la «competenza distintiva», cioè «cosa voglio essere per il cliente».

In un contesto globale, l’importante sembra essere non tanto produrre tutto e solo in Italia, quanto piuttosto avere certezze e pieno controllo di dove e come le diverse attività produttive sono realizzate, essendo la tracciabilità la base su cui impostare, da un lato, una gestione efficiente ed efficace della filiera produttiva, e, dall’altro, una comunicazione trasparente e corretta ai consumatori finali.

76


2.5.2. I fattori di debolezza Storici ed economisti hanno evidenziato, in non pochi studi, un ampio ventaglio di problematiche che riguardano specificatamente ficatamente le piccole e medie aziende italiane del settore moda, quali le debolezze strutturali, il tardivo decollo al processo industriale, l’insufficienza di non poche scelte nell’ambito delle politiche sociali e le arretratezze culturali. Fattori che rendono più faticoso e problematico il loro processo di integrazione internazionale. Questi limiti sono riconducibili essenzialmente all’incapacità di capire il mercato estero e di superare il sistema tradizionale di produzione, in risposta ai mutamenti del contesto competitivo. Nel meridione d’Italia in particolare, il comparto delle aziende fashion si presenta, oltre con i limiti già descritti, anche fortemente frammentato: un sistema distributivo polverizzato, una scarsa organizzazione soprattutto in termini manageriali e una cultura imprenditoriale non adeguata alle sfide, solo per citare alcuni ulteriori punti di debolezza.17 A ciò si aggiunga che la maggior parte delle aziende locali compete nello scenario internazionale con mezzi molto più limitati rispetto a quelle più grandi. Tuttavia, non mancano casi in cui è possibile ravvisare tra le piccole aziende non pochi punti di forza, quali per esempio una consolidata tradizione produttiva, la capacità di ideare e creare prodotti nuovi e in linea con le tendenze di moda, abilità artigianale e contenuto moda. Le pubbliche amministrazioni sono, in queste circostanze, chiamate ad accompagnare attivamente le piccole e medie aziende nel delicato processo di trasformazione e di modernizzazione, aiutandole a “migrare” verso modelli gestionali più evoluti, rendendole così in 77


grado di fronteggiare la sempre più imperante globalizzazione. Devono, infine, promuovere anche iniziative di esportazione e di aggregazione industriale, e garantire e sostenere con finanziamenti ad hoc progetti di supporto commerciale, pubblicitario e logistico.

2.6. Le sfide da affrontare Essere una marca status del Made in Italy implica degli obblighi: bisogna avere una chiarissima idea della mission e di come tutelare il cliente nell’arco di decenni e non di anni. Tutti ci copiano e migliorano il livello qualitativo perciò l’obiettivo deve essere la continua innovazione, una parola chiave ancora prima di creatività. La crisi del Made in Italy nella moda è sotto gli occhi di tutti. Se ne parla sin troppo. Meno si discute invece delle cause profonde di questa crisi e, soprattutto, se ci siano vie d’uscita. Ma in un paese seduto come l’Italia, la crisi rappresenta una straordinaria opportunità perché permette di ridefinire attori e regole del gioco di un sistema moda che appare vecchio, ingessato, corporativo. Dopo l’analisi, le proposte di sfida: rilanciare il Made in Italy significa sviluppare a livello di filiera un’innovazione di prodotto e di servizio orientata al mercato, comunicare (agli italiani innanzitutto) e supportare i mille talenti del nostro territorio. Le imprese che si stanno impegnando su tale fronte, mediante la messa a punto di una serie di strategie vincenti, sono numerose. Avere tante imprese vincenti non è, però, operazione semplice e le difficoltà di sopravvivenza nei mercati globali negli ultimi anni mostrano, infatti, una 78


certa divaricazione nei percorsi intrapresi dai protagonisti del Made in Italy: alcune imprese rimangono competitive sui mercati, mentre altre sono costrette a fronteggiare una moltitudine di problemi per rimanere attori nel processo competitivo. L’industria, però, punta molto sull’obbligatorietà dell’etichetta di origine per contrastare la concorrenza e ciò potrebbe non bastare nel momento in cui non si rafforza la sensazione che ciò che è Made in Italy è stato effettivamente realizzato in massima parte in Italia. È pertanto importante e fondamentale preservare la fase manifatturiera all’interno, evitando di cercare altrove vantaggi di costo che nel tempo produrrebbero soltanto una perdita di immagine e, conseguentemente, di quote rilevanti di mercato. E c’è anche una questione più tecnica, che ne è il riflesso: manca la capacità, la curiosità e la voglia di superare strumenti interpretativi inadeguati a cogliere quanto si agita nei nostri distretti, nei territori, nelle nuove realtà creative. Se, ad esempio, continuiamo a pretendere di misurare la competitività italiana con la quota di mercato detenuta nell’export mondiale, vedremo solo un’Italia in discesa libera. E saremo fuori strada. Se adottiamo invece come metro la bilancia commerciale dei prodotti, le cose cambiano: l’Italia è uno dei soli cinque Paesi del G-20 (con Cina, Germania, Giappone e Corea) ad avere un surplus strutturale con l’estero nei prodotti manufatti non alimentari. Vantiamo quasi 1000 prodotti in cui siamo tra i primi tre posti al mondo per saldo commerciale attivo con l’estero. Vuol dire che se pensiamo al mercato globale come a un’olimpiade, ai prodotti come discipline sportive in cui vince chi ha un export di gran lunga superiore all’import, l’Italia arriva a medaglia quasi mille volte. Meglio di noi solo Cina, Germania e Stati Uniti. Può essere questo 79


l’identikit di un Paese dalla “limitata capacità innovativa”? Ed ecco, quindi, che l’immagine del Made in Italy appare essere la risultante di un processo intensamente circostanziale, in cui l’esito dipende dalla dinamica combinazione di elementi diversi, tra cui l’intento originario profuso dal management nella progettazione dell’unità di vendita non ne costituisce solo una componente.

2.6.1. Gli ostacoli per i talenti emergenti La prima difficoltà con cui è chiamata a confrontarsi la nuova ondata di creativi è data dal potere dei “grandi marchi” della moda italiana e internazionale. quanto accade per il lancio di un nuovo prodotto, la necessità di aumentare i livelli di visibilità e notorietà dei brand emergenti per stimolarne la domanda dà origine a una serie di complesse dinamiche di canale, in cui alle tipiche interazioni industria-distribuzione si aggiungono relazioni sistematiche peculiari al settore moda. Relazioni in cui sono coinvolti i designer e tutti i loro interlocutori produttivi e commerciali. Queste dinamiche sono state accentuate dalla crisi. Da un lato, infatti, i consumatori finali preferiscono orientare un potere d’acquisto ridotto laddove vi sia la garanzia e l’attrattività di una marca nota. Dall’altro, gli intermediari commerciali referenziano più volentieri nei punti vendita i grandi brand perché, grazie alla loro notorietà e desiderabilità, consentono di minimizzare i rischi di insuccesso commerciale. Questa situazione ha ripercussioni anche nelle relazioni con gli operatori a monte della filiera, dove diventa sempre più difficile trovare partner produttivi pronti a investire sui 80


nuovi designer. Le resistenze degli operatori di canale hanno un forte impatto anche sui livelli di creatività e innovazione. Oggi, i compratori non vogliono rischiare. Con questo problema diventa difficile sperimentare cose nuove. Poi ci sono per fortuna compratori più coraggiosi, e questo naturalmente è quello che ci dà la possibilità di andare avanti. 18

La maggiore diffusione di questi concept di vendita spiega perché i nuovi nomi della moda italiana riescano più facilmente ad avere un mercato fuori dal territorio domestico. 2.7. Le proposte di sviluppo Le trasformazioni del comparto moda che i Paesi evoluti stanno vivendo da oltre dieci anni sono di una tale portata, e i risultati di un tale impatto, che immaginare uno scenario strategico risolutivo risulta troppo impegnativo. È però vero che i forti cambiamenti e il disorientamento creato dall’entrata in gioco di tanti e tanto agguerriti competitors internazionali, non hanno frenato il dinamismo di gran parte delle nostre imprese, che dimostrano sempre una straordinaria capacità di ripresa mettendo in campo nuovi protagonisti e nuove proposte. Questo rende il tessuto industriale italiano ancora reattivo e, dunque, in grado di individuare gli scenari di sviluppo più consoni alle proprie caratteristiche. Nella competizione con produttori localizzati nelle aree in via di sviluppo - che godono di enormi vantaggi competitivi per disponibilità di risorse umane, costo del lavoro e regolazione del sistema produttivo - le imprese dei paesi avanzati hanno 81


registrato una progressiva perdita delle loro posizioni, in particolare sulle produzioni a basso valore aggiunto. Questo scenario ha posto l’accento sullo sforzo di innovare i prodotti e i processi, enfatizzando le funzioni di ricerca, sviluppo e di sperimentazione. L’introduzione della funzione di ricerca nell’impresa, soprattutto se piccola o media, è questione di grande delicatezza, presupponendo una capacità progettuale non scontata e la disponibilità ad interventi che talvolta possono essere invasivi rispetto alla routine e alle procedure ordinarie. Purtroppo permangono ancora delle imprese italiane del sistema moda che ritengono lo stile, il design e la qualità dei loro prodotti, ciò che - soprattutto e innanzitutto - i consumatori mondiali ancora ricercano in rimembranza di un autentico Made in Italy che difficilmente ormai si ritrova. E ciò che più si mostra in vesti allarmanti è che, determinate imprese, non sembrano voler cambiare strategia e modalità con cui presentarsi e misurarsi nei mercati globali. La decisione di focalizzarsi - ancora e maggiormente - sui fattori che da sempre sono considerati i principali driver del successo della moda italiana nel mondo non appare più conforme alla dottrina strategica aziendale. Ormai è noto che i fattori critici di successo possono e devono nei nuovi scenari competitivi globali - essere perseguiti con nuove strategie 19 e, in conseguenza, all’attività di ricerca precedentemente menzionata. L’obiettivo strategico è sempre più l’acquisizione di un “vantaggio differenziale”20 , competitivo: conquistare, cioè, la massima differenza nella soddisfazione della clientela. Diventa importante, in queste circostanze, capire e investire principalmente sulla propria competenza, sui propri punti di forza riconosciuti contro l’idea delle diversificazioni degli anni passati. Come ne evince, la 82


qualità, cioè la prima arma del Made in Italy, da sola non è più sufficiente. Inoltre, non basta più neanche capire l’ambiente, bisogna invece interagire; l’impresa che sopravvive sarà infatti quella che meglio si adatta all’ambiente e che interagisce con esso: non solo quindi l’impresa flessibile, ma l’impresa creativa. Il mercato saturo e competitivo, di cui abbiamo parlato nel capitolo precedente, richiede dunque maggior spirito di iniziativa e maggior inventiva. Citeremo di seguito, alcune esperienze di imprese che stanno affrontando la crisi avvalendosi dello scudo di una nuova vision strategica, realmente assumibile come piano di sviluppo. Vision che, oggi più che mai, è indispensabile per non restare ancorati a tradizioni ormai deliberatamente insufficienti.

2.7.1. Nuove visioni strategiche: le esperienze aziendali Principalmente, esperienza che andremo a riportare è quella dell’azienda NearGroup, il primo fashion outlet sociale. L’azienda nasce dall’esigenza di creare un modello di business, un veicolo economico, ma anche di pensiero, attraverso il quale la società possa evolvere. La capacità innovativa dell’azienda risiede nella sua intuizione: quella di dare al capitale un contenuto di “rendimento sociale”. Near opera secondo le regole di mercato ma facendo leva sulla domanda sempre più elevata di un “bene primario” non acquistabile: il benessere di chi ci sta intorno e del territorio in cui viviamo.

21

Inoltre,

aspira a diventare un quality brand dell’utilità sociale a cui nessuno voglia o possa rinunciare. Questo nuovo modello di Fashion Business è riuscito a coinvolgere le più importanti imprese della moda 83


italiana grazie all’iniziativa dei suoi progetti a scopo benefico. Il progetto più recente, tenutosi il 12 novembre 2014, è stato denominato “Progetto Shopping d’Autore”. All’iniziativa hanno aderito Balmain, Gianfranco Ferrè, Ermanno Scervino John Galliano, Karl Lagerfeld, Mariella Burani, Armani e Mimma Gini. L’evento ha previsto la vendita di questi grandi marchi a prezzi outlet e il 5% del ricavato è stato devoluto al “progetto Itaca” (a sostegno di persone affette da disturbi della salute mentale). Altro progetto estremamente proficuo e interessante si è rivelata la collaborazione tra B.LIVE e Coccinelle. 22 B.LIVE nasce dalla volontà di coinvolgere ragazze e ragazzi adolescenti affetti da tumore in un progetto che li metta al centro di un processo artistico - creativo. Il progetto si è concretizzato nella realizzazione di una collezione di moda giovane, usata come strumento di aggregazione e di condivisione del vissuto di questi giovani ragazzi, mettendo in evidenza “l’altra faccia della moda”, in effetti raramente presa in considerazione. Il marchio vede il progetto come espressione della volontà dei ragazzi di portare nel mondo il loro messaggio, la loro forza, il proprio orgoglio. Cosa è stato realizzato? La collezione di moda B.LIVE, coordinata dalla stilista Gentucca Bini 23, la collezione limited edition di T-Shirt in co-branding con Blauer, e infine la “B.LIVE Bag”, borsa in co-branding con Coccinelle. Altre esperienze possono essere individuate su versanti differenti. Così come accaduto da tempo in altri settori manifatturieri, anche nell’ambito del sistema moda sempre più marchi hanno costruito la loro value proposition intorno al concetto di sostenibilità ambientale: ne sono un esempio le linee eco-friendly di Stella McCartney o l’iniziativa di Fendi che per le sue borse e gioielli utilizza solo materiali di riuso 24 riabilitati da la84


vorazioni artigianali, in collaborazione con alcune comunità di donne africane. Per questi esempi, la vision di fondo è quella di attirare l’attenzione su una moda che crei senza distruggere, generando e rigenerando i prodotti nel rispetto del pianeta. Altre aziende, invece, hanno posto al centro della loro visione strategica l’attenzione alle persone: è questo il principio ispiratore di Brunello Cucinelli.25 Nella sua azienda le pause pranzo sono più lunghe rispetto a quelle abituali in modo da favorire il riposo e la socializzazione dei lavoratori che devono però, durante l’orario di lavoro, concentrarsi solo sulla loro attività. Il concetto di “impresa umanistica”, come definita da Cucinelli, si esprime anche in un modello economico che prevede che un terzo del profitto sia destinato ai lavoratori, un terzo a opere per migliorare il territorio e un terzo sia destinato alla remunerazione dell’investimento dell’imprenditore. In netto contrasto con la sua banalità che ci ha inizialmente ingannati, i risultati di tale impostazione sono una forte competitività sul mercato e la capacità di entrare in sintonia petitività sul mercato e la capacità di entrare in sintonia con i propri clienti. Una strada premiata dal successo di mercato che ha visto l’azienda crescere anche durante gli anni della crisi. Si tratta di una strategia concreta? La risposta è sì. La responsabilità sociale fa di questa una strategia coerente e credibile di posizionamento, pilastro di un’identità di marca e premessa del successo competitivo. Più recente ma non meno significativa è la decisione di Gucci di spingere i propri fornitori strategici nel comparto della pelletteria – che per Gucci rappresenta il 58% del giro d’affari – ad allearsi per migliorare la propria competitività, tutelandosi così dal rischio di comportamenti incongruenti nell’ambito della sua filiera produttiva 85


o addirittura episodi di comportamenti illegali come il ricorso al lavoro nero e alla contraffazione.26 Il risultato è stato la costruzione di tre reti di subfornitori sostenuti da Gucci che fornisce consulenze in campo organizzativo, tecnologico, informativo e finanziario facilitando l’accesso al credito, spesso difficile per le imprese di piccole dimensioni, e garantendo così anche un’equa redistribuzione della redditività lungo la filiera.

2.7.2. L’esperienza della Sartoria Crimi In ossequio alle finalità progettuali della tesi, tra i diversi esempi che sarebbe stato possibile citare nel novero della microindustria, adatta a noi è l’esperienza portata avanti, dalla palermitana Sartoria Crimi. La Sartoria, nota oggi come importante punto di riferimento per i cultori di arte e di moda, dal 1969 si è sempre distinta per le sue creazioni che riescono a soddisfare una clientela prestigiosa, esigente, ricercata, e sempre più internazionale. Abbiamo scelto di mettere in luce l’esperienza condotta da Carmelo e Mauro Crimi proprio per la novità che porta in sé: la concretizzazione di un piano didattico mirato alla formazione di giovani talenti giapponesi desiderosi di apprendere le nostre tradizioni. Tale proposta ha permesso al prestigioso laboratorio di farsi strada nel difficile mercato asiatico, appunto quello nipponico e, sicuramente, ha fornito i migliori elementi per un’eccellente campagna pubblicitaria in Italia stessa. Il titolare dell’azienda, Mauro Crimi, ha risposto ad alcune nostre curiosità consentendoci di evidenziare questa nuova proposta 27:

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Come nasce la collaborazione con l’estero? «Premetto che la nostra presenza all’estero si articola in maniera diversa rispetto a quella di qualsiasi altra boutique perché noi abbiamo ben chiaro il target di clientela a cui intendiamo rivolgerci. Il nostro cliente acquista qualcosa che deve essere ancora costruito, pertanto si tratta di un cliente molto paziente. Questa collaborazione nasce in maniera del tutto inaspettata e improvvisa. L’iniziativa non proviene da noi. Noi siamo stati cercati. Tutto inizia nel 2008, quando un normalissimo signore giapponese entra ed ordina tre capi. Dopo un mese consegniamo il lavoro terminato e, a distanza di pochi giorni, ci arriva la comunicazione che siamo stati piazzati tra i primi sedici laboratori sartoriali migliori d’Italia. Da quel momento, come un fiume in piena, hanno inizio le varie collaborazioni con Tokyo, a partire dai corner agli eventi organizzati con e per loro. Tutto il resto è arrivato come un procedimento a catena. Molte apparizioni nelle riviste , numerose interviste e spazi che ritraggono la nostra realtà sartoriale inserita nei contesti dell’artigianato di estremo lusso, per concludere con la formazione di ragazzi curiosi di “immergersi” in una tradizionalità fortemente vantata, quale la nostra». Cosa ha spinto il Giappone, terra così apparentemente diversa, a scegliere proprio il vostro prodotto? «Il Giappone ha scelto noi perché ha riconosciuto, prima di tutto, la validità del prodotto. Infatti sono venuti a cercarci in veste di clienti e non di giornalisti. Noi non abbiamo mai avuto l’ambizione di elevarci a griffe e, certamente, essere stati trovati senza averlo chiesto né tanto meno progettato, è stata ed è una grande soddisfazione. Si tratta sì di una terra diversa rispetto alla nostra ma con aspetti essenzialmente uguali che, sicu87


ramente, sono serviti come ulteriore spinta di ricerca nei nostri confronti. Anche la società nipponica è estremamente legata alle proprie tradizioni, proprio come noi. Anche se la nostra cultura sta attraversando una fase di disfacimento, i giapponesi hanno volutamente segnare le tappe dei distretti maggiormente ancorati alle proprie tradizioni, dove è presente uno stile ben preciso e definito». Nell’ottica delle nuove visioni strategiche, in tempi critici come questi, come dovrebbe agire un’azienda specializzata nel settore artigianale e, in particolare, come agisce la sua? «Premetto che, nel nostro piccolo, facciamo tanto marketing. Nella mia visione aziendale esiste un prodotto strettamente correlato alla propria terra, nel nostro caso la Sicilia. Un prodotto funziona se riesce a far capire che la tradizione è innovazione, non retrocessione. I nostri clienti vengono da tutta Italia e ci ricercano proprio per la nostra tradizione. A mio avviso, fin quando ci raggiungono da fuori per richiedere dei capi vuol dire che siamo attrattivi e, di conseguenza, che il nostro stile è attuale». Fedeltà alla tradizione. Questo secondo lei può bastare? «No, questo è solo il principio dal quale partire. Chi ha voglia di resistere deve sapere che l’arma vincente è rimanere qui, produrre qui, cogliere il meglio e curare la propria immagine fuori, percorrendo però piccoli passi. Infatti, non condivido l’“esplosione” di marketing. L’impatto non può rischiare di risultare invasivo, il tutto deve avvenire per tappe, per gradi. In un’epoca del genere le grandi imprese non potranno più crescere perché il nostro territorio non ha né infrastrutture né il tessuto sociale adeguato. Bisogna quindi, appunto, produrre in sede ma vendere la propria immagine fuori. Dobbiamo inventarci un tipo di azienda nuova, piccola, strategica, con un prodotto legato saldo al 88


territorio d’appartenenza». Cosa intende quando parla di “curare la propria immagine?” «Fare in modo che l’immagine di un’azienda sia lo specchio della sua terra. Non fornire un’immagine omologata ma dare la possibilità di far capire cosa è stata la Sicilia, terra che deve essere ancora interamente scoperta. Scegliere altresì il cliente migliore che meglio possa adattarsi all’offerta proposta. Così l’immagine non darà spazio a false interpretazioni». Alla luce della vostra esperienza maturata sia in sede che all’estero, come definirebbe il Made in Italy? «Il Made in Italy, oggi, è solo un marchio che non comprende più in sé la manifattura. Ciò che resta in Italia è la progettazione ma la produzione è affidata all’estero. Il Made in Italy è indubbiamente una rilevante nota di valore del nostro bagaglio culturale. Ma oggi è scontato, motivo per cui noi non apponiamo la targhetta “Made in Italy”. Ciò che da valore al nostro prodotto è la stessa manifattura. Apporre quel genere di etichetta non ha più valore». Questa è l’esperienza di una realtà della microindustria italiana. Un’ulteriore testimonianza della presenza di imprese che non voglio demordere, che non intendono arrendersi al disfacimento di una cultura costruita in decenni, seppur essendone pienamente consapevoli. Ulteriore attestazione di sfiducia nei confronti di un Made in Italy degno di esser onorato per averci resi quelli che siamo ma che non riesce più a sostenerci costringendo un intero sistema imprenditoriale a reinventarsi, a veicolare sempre più nuove proposte per sostene89


re la concorrenza e rialzarsi da sé.

2.8. Associazioni della moda italiana Promuovere l’eredità che il Made in Italy ci ha lasciato e portare avanti nuove strategie di rappresentazione per il nostro Paese, sono solo alcune delle priorità che impegnano quotidianamente gli enti più importanti del nostro sistema. Una volta definiti i punti di foza, e non, del sistema della moda italiana, possiamo allora dedicarci all’analisi delle principali associazioni che si occupano di mantenere salda l’immagine della moda italiana sia in sede che all’estero. Se si vuole intraprendere un percorso di conoscenza riguardo il modo di operare del nostro Paese, allora, quello delle attività svolte dalle nostre associazioni, è uno degli step fondamentali che non possono essere surclassati. Per trovare una soluzione che porti il settore della moda in risalita, esse si impegnano unanimemente promuovendo iniziative e fornendo aggiornamenti costanti. Da Sistema moda Italia, la più grande, che raccoglie le industrie della filiera tessileabbigliamento, all’Associazione tessile, alla Camera della moda, si sostiene che: La crisi del settore è una battaglia, però, che, nonostante il crescente ricorso alla delocalizzazione, vale la pena combattere. Il quadro congiunturale e strutturale ha tinte fosche, la situazione reale è molto pesante, ma questo è solo un buon motivo per stringere i tempi, per chiedere decisioni e interventi rapidi. Anche perchè con la fine di ogni residuo contingentamento per le importazioni tessili in Europa a partire dal 1^ gennaio 2005, la concorrenza rischia di diventare ancora più agguerrita, a partire dalla Cina, il grande rivale, primo produttore al mondo di cotone e quasi monopolista nel cashmere e nella seta, per cui di fatto stabilisce i prezzi. 30

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nopolista nel cashmere e nella seta, per cui di fatto stabilisce i prezzi. 30

La crisi ha fatto sì che i suddetti enti si mobilitassero per istituire un’alleanza utile al conseguimento di un buon esito in questa battaglia. Vediamo, allora, singolarmente, in cosa consiste il loro modus operandi e quali agevolazioni ne conseguono.

2.8.1. Associazione Tessile Italiana L’ Associazione Tessile Italiana (ATI)31 è l’organo di rappresentanza collettiva delle imprese che operano nell’ambito della filiera tessile italiana, in particolare rappresenta un’associazione di 500 aziende che operano nel settore tessile, ossia a monte della filiera produttiva. Associazione di categoria appartenente al sistema di Confindustria, l’ATI mira a tutelare gli interessi specifici dell’industria tessile in tutte le sue connotazioni e articolazioni (tessile per abbigliamento e arredamento, biancheria per la casa, tessili tecnici ed innovativi) e intende mantenere e rafforzare le condizioni per poter continuare a “fare tessile” in Italia. Infatti, lo scopo specifico dell’ATI è quello di rafforzare il potere contrattuale e la rappresentanza delle diverse aziende, soci dell’associazione, sia in Italia che all’estero. L’ Associazione Tessile Italiana svolge un’intensa attività di consulenza e informazione ed offre alle aziende del settore tessile una rappresentanza politica, servizio e assistenza. Quanto alla funzione di rappresentanza politica l’ATI rappresenta collettivamente ed istituzionalmente gli associati nei rapporti con le amministrazioni pubbliche, sia nazionali che comunitarie, patrocinandone le aspettative e raffor91


zandone le prospettive di sviluppo, con particolare riferimento alle attività produttive radicate nel territorio italiano. Lo stesso ruolo è svolto nei confronti delle altre organizzazioni industriali e commerciali, sia in Italia che all’Estero, attraverso l’adesione a corrispondenti organizzazioni internazionali. L’ATI organizza annualmente “ModaIn” la fiera per eccellenza di tessuti e accessori. Anche se l’Italia è prima nel tessile e abbigliamento la Francia, la quale organizza “Premiere vision” come unica fiera per i tessuti, è più all’avanguardia nell’organizzare fiere. “ModaIn” è la principale fiera internazionale organizzata in Italia. Ha sede a Milano ed è interamente dedicata alla presentazione delle collezioni di tessuti e di accessori per l’abbigliamento. Moda In è nata nel 1984 con il patrocinio delle due associazioni di categoria di riferimento, Associazione Tessile Italiana e federazione Italiana Industriali Tessili Vari con lo scopo di: ° Promuovere il prodotto tessile italiano e europeo; ° Offrire un servizio alle aziende europee produttrici di tessuti e accessori per l’abbigliamento; ° Presentare in anteprima a tutti gli operatori di settore numerose proposte innovative e creative. Gli appuntamenti annuali di Moda In sono due: ° Febbraio, per la collezione primavera/estate; ° Settembre per le collezioni autunno/inverno.

2.8.2. Sistema Moda Italia Sistema Moda Italia, l’Associazione Italiana delle Industrie della Filiera Tessile Abbigliamento, è la più grande Organizzazione Mondiale di rappresentanza degli industriali del vestire. La missione del Sistema Moda Italia consiste nel costruire un fronte imprenditoriale compatto nei confronti delle istituzioni pubbliche, economiche, 92


politiche e sociali e realizzare un progetto di razionalizzazione e di modernizzazione associativa di rilevante valenza. L’obiettivo è quello di costruire un organismo di rappresentanza imprenditoriale moderno e realmente vicino ai problemi degli associati per dare nuovo dinamismo al settore produttivo di eccellenza, cercando di prestare maggiore attenzione all’evoluzione del consumatore. Il SMI si preoccupa di esercitare una sistematica cooperazione tra i vari livelli della filiera e con il settore distributivo. L’Associazione si propone di tutelare e promuovere gli interessi del settore tessile abbigliamento e dei suoi Associati. A questo fine rappresenta l’intera filiera, a livello nazionale e internazionale, nei rapporti con le Istituzioni, le Amministrazioni, con le Organizzazioni economiche, politiche, sindacali e sociali. L’attività è articolata per Aree Strategiche che forniscono alle imprese importanti servizi per gestire in modo efficiente ed efficace l’attività imprenditoriale e per affrontare in maniera vincente le sfide che il settore tessile abbigliamento quotidianamente impone. Ciascuna di queste aree strategiche si prefigge degli obiettivi differenti ma non contrastanti. Compito di queste è quello di rappresentare e tutelare gli interessi delle imprese associate sul piano economico e commerciale, promozionale, tributario e sindacale, formativo, internazionale, tecnologico, stipulando accordi e convenzioni, organizzando eventi e manifestazioni, raccogliendo ed elaborando notizie e dati relativi all’industria ed ai problemi industriali del settore tessile abbigliamento. Il SMI oltre ai servizi istituzionale offre ulteriori servizi organizzati, gestiti attraverso apposite Società ed Enti collegati. I servizi riguardano soprattutto attività editoriali e dell’organizzazione di seminari e convegni, di manifestazioni fieristiche sia in Italia che all’estero. 93


Tali società sono l’EFIMA32, l’E.M.I.33, Pitti Immagine, di cui parleremo in maniera approfondita, e Sistema Moda Service.34

2.8.3. Pitti immagine Pitti Immagine è il soggetto più rilevante in Europa nell’organizzazione delle Fiere del tessile-abbigliamento. Nell’ottica di una strategia volta a rafforzare la rete di alleanze all’interno del sistema promozionale della moda italiana è stato rafforzato il rapporto di stretta collaborazione con Sistema Moda Italia. Il Centro di Firenze per la Moda Italiana (CFMI) è un’associazione senza scopo di lucro, a partecipazione privata e pubblica, che si è costituita nel 1954 con l’obiettivo di promuovere e realizzare iniziative commerciali e promozionali a livello internazionale a sostegno del sistema moda italiano. Il CFMI fornisce le linee generali di politica fieristica e promozionale a Pitti Immagine e a Ente Moda Italia società che opera nel settore delle fiere estere. L’altro socio di riferimento in queste due partecipazioni è Sistema Moda Italia, l’associazione che rappresenta in Confindustria le industrie dell’abbigliamento, della maglieria e della calzetteria, del tessile laniero. Le fiere organizzate da Pitti immagine sono: Pitti Immagine Uomo; Pitti Immagine Donna; Pitti Immagine Bambino; Pitti Immagine Filati; Moda pelle by Pitti Immagine. 35

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2.8.4. Camera Nazionale della Moda Italiana L’11 giugno del 1958 a Roma, fu costituita “Camera Sindacale della Moda Italiana”, antesignana di quella che, in seguito, prese il nome di “Camera Nazionale della Moda Italiana”. La sede dell’Associazione fu stabilita a Roma. All’atto costitutivo erano presenti titolari delle più importanti Case di Alta Moda italiane e alcuni privati che, in quegli anni, ricoprivano un ruolo di spicco nella promozione del settore. La Camera Sindacale della Moda Italiana, fu concepita come un’Associazione apolitica, senza scopo di lucro con una durata di 10 anni soggetta a proroga. Le finalità erano legate alla tutela, valorizzazione e disciplina degli interessi morali, artistici e economici dell’attività professionale delle categorie dei molteplici settori legati alla moda, sia nei confronti delle Istituzioni Pubbliche che delle altre Associazioni nazionali e estere. Oltre a questo, la Camera Sindacale della Moda Italiana, promuoveva il coordinamento, lo studio e l’attuazione di quanto potesse essere utile alle categorie consociate, con riferimento alle manifestazioni di moda, individuali e collettive che avevano luogo in Italia e all’estero. Un altro impegno, era la graduale costituzione dei seguenti settori di competenza: Case Creatrici d’Alta Moda Femminile, Case Creatrici d’Alta Moda Maschile, Case Creatrici d’Abiti Sportivi Femminili, sartorie d’Alta Moda (femminili e maschili), Pelliccerie, Case Modiste, Artigiani Accessoristi della Moda. Fu stilato uno Statuto, composto da trentacinque articoli, che regolamentava l’Associazione e i suoi organi: l’Assemblea, il Consiglio Direttivo, il Comitato Ese95


cutivo, la Presidenza e il Collegio dei Revisori. Il primo Presidente fu Giovanni Battista Giorgini. Nei primi mesi del 1962 fu creata, per volontà del Centro Romano Alta Moda, un’organizzazione denominata “Camera Nazionale della Moda Italiana” che rispecchiava largamente, negli scopi e nella struttura, l’Associazione concepita da Giorgini. All’atto costitutivo erano presenti Enti, Centri della Moda e Camere di Commercio con l’intento di conferire, da subito, carattere di ufficialità all’Associazione e di offrire al settore la pronta, unitaria e concorde adesione di tutti gli organismi che, in quel periodo, si interessavano alla moda italiana. La Camera Nazionale della Moda Italiana é l’Associazione senza scopo di lucro che disciplina, coordina e promuove lo sviluppo della Moda Italiana. Rappresenta i più alti valori culturali della Moda Italiana e si propone di tutelarne, coordinarne e potenziarne l’immagine, sia in Italia sia all’estero. Come previsto dalle disposizioni statutarie, l’Associazione é il punto di riferimento e l’interlocutore privilegiato per tutte quelle iniziative nazionali ed internazionali volte a valorizzare e a promuovere lo stile, il costume e la Moda italiana. Fin dal 1958, anno della sua fondazione, ha attuato nel corso del tempo una politica di supporto organizzativo finalizzata alla conoscenza, alla promozione e allo sviluppo della Moda attraverso eventi di alta levatura di immagine in Italia e all’estero. Le recenti intese sui calendari internazionali che hanno portato alla sigla dell’accordo Italo-Francese hanno conferito a Milano e alla Camera Nazionale della Moda Italiana il ruolo di indiscusso protagonista sullo scacchiere internazionale della Moda, contribuendo anche al consolidamento delle alleanze con Londra e New York. La Camera Nazionale della Moda Italiana doveva avere la primaria 96


funzione di organismo di autocontrollo a cui le Case di Moda aderivano spontaneamente. La frammentarietà data dai diversi Enti esistenti in quegli anni, doveva trovare, così, un coordinamento. Dal 29 settembre 1962, con le deliberazioni di un’Assemblea straordinaria si ridisegnarono gli scopi, le finalità e la struttura dell’Associazione che, privata, apartitica e apolitica, cominciò ad operare attivamente nel settore Moda. Lo scopo, così come oggi, era quello di “rappresentare i più alti valori della moda italiana, tutelare, coordinare e potenziare l’immagine della moda italiana in Italia e all’estero, nonché gli interessi tecnici, artistici ed economici degli Associati”. Gli associati sono i protagonisti principali della Camera Nazionale della Moda Italiana, rappresentata da un insieme di oltre 200 aziende che costituiscono il top dell’intero settore, e condividono l’attività di promozione dei marchi e del Made in Italy. Queste società sono raggruppate in diversi settori merceologici, quali: Alta Moda, Pret-à-Porter, Tessuti, Industria Tessile/Abbigliamento, Accessori- Pelletteria – Calzature, Pellicceria, Sportwear, Accessori, Distribuzione, Cosmetici, Servizi, Alta Sartoria. Tra gli obiettivi della Camera Nazionale della Moda Italiana c’è l’organizzazione e gestione delle principali manifestazioni, eventi e sfilate che si terranno per rappresentare il sistema Moda Italiano a Milano, considerata come la Capitale della Moda, sia per l’uomo che per la donna, proprio per la convergenza tra il pret-à-porter “alto”, di lusso e l’apporto degli stilisti. Le aree di interesse sono le seguenti: Manifestazioni T.V., ufficio studi, summit della Moda, brochure bilingue CNMI S.r.l., C.D., sito Internet, la strutturazione degli uffici per realizzare i programmi/progetti CNMI/CM S.r.l. Le manifestazioni sono quattro appuntamenti legati alla presentazione della Collezio97


ne Milano Moda Uomo e Milano Moda Donna, tutti a disposizione degli associati e degli ospiti dell’evento. Il pret-à-porter alto nel quale l’Italia ha la leadership indiscussa trova a Milano la sua rappresentazione sia nel comparto uomo che nel comparto donna, durante le Settimane della Moda, grazie alle sfilate organizzate dalla Camera Nazionale della Moda. La Camera Nazionale della Moda Italiana è responsabile della presentazione della moda di sartoria a Roma “AltaRoma” e anche di diversi spettacoli televisivi come “Donna Sotto le Stelle”.

2.8.5. AltaRoma L’Agenzia per la Moda nasce a Roma nel 1998 per promuovere l’immagine di Roma nel circuito internazionale della moda. Per confermare e incrementare le intuizioni della fondazione, la società viene parzialmente privatizzata, cambiandone denominazione sociale in Alta Roma. Accanto ai soci istituzionali Camera di Commercio, Comune di Roma e Regione Lazio fanno il loro ingresso soci privati di alto profilo. Nel 2001 inizia una significativa evoluzione che esprime la precisa volontà di rivalutare le potenzialità di Roma in termini di bellezza, creatività, stile e tradizione. La valorizzazione del legame profondo tra radici e contemporaneità si orienta verso la linfa di nuovi talenti, nuovi creativi e nuove tecnologie, senza trascurare l’importanza della formazione, con l’obiettivo di garantire un unico linguaggio globale e un know-how d’eccezione a tutela e rinnovamento di un biglietto da visita di eccellenza, riconoscibile in tutto il mondo. Il restyling degli eventi di Alta 98


Moda attuale e contemporaneo:l’inizio di una filosofia tutta nuova in termini di eventi moda, focalizzata sulla sperimentazione di inedite forme di presentazione, come la performance. L’intento programmatico di Alta Roma prevede una serie di eventi,sfilate di moda e mostre che compongono il calendario delle manifestazioni cui partecipano anche i grandi interpreti della tradizione dell’Alta Moda italiana e, una tantum, alcuni stilisti leader nel pret-à-porter.

2.9. Punti comuni tra le Associazioni Unanimemente, le Associazioni si trovano a fronteggiare per delle priorità. Per il tessile-abbigliamento, l’accesso ai mercati dei Paesi terzi (reciprocità), è una tra queste. Infatti i dazi d’ingresso nella Unione Europea sono bassi mentre esistono mercati, come ad esempio l’India, che mantengono barriere impenetrabili per i nostri prodotti. È da tempo che il presidente della CNMI propone provvedimenti che aiutino le imprese soprattutto sul fronte fiscale. La prima richiesta riguarda il dimezzamento dell’Iva (dal 22% al 10%). Le Associazioni chiedono che il Governo si impegni con una sua azione presso il Parlamento europeo per una riduzione dell’aliquota Iva comunitaria sul settore. Ma le stesse associazioni sostengono che “in ogni caso occorrono misure di sostegno per i consumi”. Infatti il calo dei consumi sta portando in affanno economico le nostre imprese. Sono quindi opportuni interventi sul credito alle imprese per consentire di tramutare da breve a medio e lungo termine 99


gli impegni finanziari verso gli istituti di credito”, come afferma Valducci, presidente del SMI. In quanto al sostegno a ricerca e innovazione si sollecita un sostegno per lo sviluppo di nuovi materiali, nuovi processi di produzione e tecnologie pulite. Ciò che le Associazioni chiedono è di inasprire le sanzioni e accentuare i controlli. Come sostiene Mario Boselli : Il made in Italy nella moda fa parte di una precisa identità nazionale ed è un grande valore culturale. Intaccare la filiera italiana fa correre il rischio di perderla, perdendo così una grande risorsa su cui si fonda un pezzo dell’economia nazionale. Anche in assenza di una nuova normativa di carattere nazionale è bene ribadire che le regole vanno rispettate e quindi chi applica l’etichetta made in Italy su di un capo la cui cucitura è stata fatta all’estero, anche se viene rifinito e completato in Italia, compie una frode che va perseguita. A tutt’oggi nessuno persegue tale comportamento perché non si sono mai adottati provvedimenti in merito. Ciò che si richiede pertanto è l’impegno per controlli mirati e periodici. È inoltre importantissimo valorizzare il marchio di filiera. Il completamente fatto in Italia deve essere riconoscibile dal consumatore finale.

Le Associazioni vorrebbero sconfiggere il problema della contraffazione, in quanto le importazioni illegali di capi di abbigliamento hanno assunto dimensioni inquietanti. Per questo obiettivo il punto fondamentale su cui si battono le Associazioni riguarda soprattutto l’etichettatura di origine comunitaria e tracciabilità: si propone l’introduzione del “made in..” obbligatorio per i prodotti tessili commercializzati e/o realizzati nella Ue.

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2.10. Valutazioni conclusive Il quadro è grave, non c’è che dire. Però vedere il bicchiere mezzo vuoto è facile, soprattutto per noi italiani che spesso sembriamo non renderci conto della fortuna che abbiamo. Il Made in Italy può tornare a essere motore trainante dell’economia italiana, a patto però di comprenderne e superare le debolezze facendo, invece, leva sui punti di forza. La crisi prima o poi finirà, ma l’unione tra il bello, forte funzionalità - espressione di una nuova coscienza etica dell’acquisto - e innovazione rimarrà. Le esperienze aziendali che abbiamo voluto citare rappresentano quella parte d’Italia che ce la fa, che resiste alla crisi, che in qualche caso se la sta lasciando alle spalle. E’ quella parte che si ostina, nonostante le sirene del declino, a fare l’Italia. Che sa innovare senza perdere la propria anima. Che ha capito che nel mondo del XXI secolo, se uno spazio c’è per il nostro Paese è quello dell’innovazione. È l’Italia che scommette sulle competenze radicate nei territori e mantenute salde con la coesione sociale e la cura del capitale umano. Che sa dare valore alla propria bellezza (quella dei paesaggi, dell’arte, della cultura, dell’ospitalità, degli stili di vita) intercettando la grande, e crescente, domanda di Italia che viene da ogni angolo del pianeta. Abbiamo appurato che nei distretti italiani sono presenti tante esperienze di eccellenza che, se inserite in un sistema adeguato, potrebbero innescare un processo virtuoso di crescita per tutto il Paese. Affinché questo avvenga è necessaria una politica di sostegno all’innovazione che coinvolga tutti gli attori fondamentali (imprese, istituzioni, centri di ricerca e università, banche, fondi di investimento) 101


e si basi su una serie di elementi indispensabili: lo sviluppo e la valorizzazione di risorse umane competenti, un sistema finanziario diversificato e in grado di sostenere i progetti innovativi, la creazione di reti che favoriscano nuove partnership tra scienza e business, la semplificazione e l’integrazione dei diversi strumenti a disposizione. Ăˆ necessaria una riorganizzazione generale che semplifichi le procedure in modo da velocizzare i processi. Questa Italia non può piĂš attendere. Va riconosciuta, guardata con attenzione, raccontata con passione.

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Note al capitolo 2 1. Sembra a noi logico vedere meglio cosa intendiamo per “sistema moda”, in quanto non sempre abbiamo fenomeni uniformi, anzi, troviamo rapporti e modi diversi, incidenze più o meno pesanti di un fattore sull’altro, di un comparto rispetto all’altro; e comunque mai una riduzione ad un unico sistema. La Moda nell’economia italiana, Torino 20-21 Maggio 1975, p. 137 2. Legge n. 55 del 2010, nota come Legge Reguzzoni - Versace - Calearo. 3. IRONICO 2014, p. 16 4. E’ il caso, ad esempio, di Ralph Lauren o di Paul Smith, che riportano orgogliosamente l’etichetta “made in Italy” all’interno dei capi. 5. Intervento dell’ex Presidente della Repubblica Ciampi in occasione della consegna dei premi “Leonardo Qualità Italia”, Roma, 4 Dicembre 2003 6. La cultura e il costume italiano sono stati influenzati, più di altri, dall’incredibile varietà di popoli, usi e culture con cui gli abitanti del suolo italiano sono venuti in contatto nei secoli. Nel tempo il risultato di tanti innesti è stato un incredibile amalgama di culture e costumi. Ha quindi origini antiche il talento italiano nell’accostare e combinare stili, materiali e sapori diversi con armonia e senza mai cadere nell’eccesso o nella stravaganza. 7. Fonte: Fondazione Symbola Unioncamere, “Io sono cultura”, Rapporto 2013 8. Sicuramente, oltre alle capacità imprenditoriali degli italiani, vi sono stati dei fattori che hanno favorito il successo del Made in Italy e che hanno permesso di realizzare la “creatività tecnologica” nel settore moda. Dire che ciò stia alla base dei suoi positivi risultati è opinione condivisa da molti” (Mario Boselli, presidente della Camera Nazionale della Moda); più difficile dire se ciò sia frutto di una scelta strategica della Moda Italiana o di una naturale diffusa capacità di imprenditori, manager e maestranze ad operare in questo modo. I fattori di successo sono identificabili nei due ambiti che costituiscono i pilastri del sistema moda Italiano: l’area creativa e l’area tecnologica. “L’Area creativa è basata fondamentalmente sulla nostra cultura, sulla nostra storia e sui nostri beni culturali. La creatività in Italia ha radici solide a cominciare dal Rinascimento, infatti l’area creativa è stata definita “Effetto Rinascimento” (Mario Boselli). Riflettendo sulla singolare dinamica del Made in Italy nei settori legati ai consumi per la persona (vestiario, mobili, arredamento) molti reporter hanno più volte sottolineato l’influsso positivo delle tradizioni storiche e in particolare l’ “Effetto Rinascimento” che tuttora persisterebbe nella cultura, nel senso este-

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tico e nelle abilità artigianali degli italiani. In pratica il fatto di vivere in un Paese che vanta il più ricco patrimonio monumentale del Mondo costituisce una specie di scuola collettiva che sviluppa il senso per l’estetica e le cose belle. 9. Modello basato sulla grande azienda che trovava nella piccola e media impresa il pilastro di riferimento. Il successo di quel modello derivò senza dubbio dal perfetto connubio tra l’ingegno industriale dell’imprenditoria italiana e la qualità dei territori in cui essa operava. Ispirandosi ai grandi bacini di competenze tecnologiche che gli altri sistemi economici avevano accumulato, l’Italia iniziò a farsi strada sui mercati internazionali. 10. La Scommessa.., 2004, p. 56. 11. La competitività sul prezzo scese e le produzioni più standardizzate entrarono in difficoltà. Solo ripetute svalutazioni della lira permisero alle produzioni più uniformate di sopravvivere, mentre le attività a maggior contenuto qualitativo continuarono a marciare, guadagnando l’apprezzamento dei consumatori esteri e alimentando così il mito del vivere italiano. 12. L’Industria della moda.., 2004, p. 97. I distretti italiani di più lunga tradizione sono: Como per la seta; Biella e Prato per la lana; Carpi per la maglieria; la Toscana per la pelletteria; Montebelluna per gli scarponi da sci, ecc.. 13. Ibidem, p. 124. Sulla spinta dei mutamenti relativi alla domanda di mercato, e in risposta all’internazionalizzazione del settore, che ha comportato una maggiore esposizione delle imprese italiane alla minaccia di concorrenti esteri, il terzismo ha subito negli anni una evoluzione costante. In particolare negli anni ‘90 tale cambiamento ha investito aspetti legati sia alle tipologie di imprese, sia alla natura del rapporto tra committente e contoterzi. Si cercano aziende che siano in grado di garantire sia la qualità che i servizi al cliente e non più soltanto terzisti. Le ragioni del generale ricorso a forme di organizzazione della produzione differenti dall’internazionalizzazione delle fasi produttive vanno ricercate in criteri di flessibilità produttiva e contenimento costi. 14. SAVIOLO - TESTA 2000, p. 84. 15. Miuccia Prada, intervista di Carloni M.V., Panorama, 25 Agosto 1995 16. Oggi, la crescente competitività di costo dei Paesi in via di sviluppo e la presenza di una moneta forte rendono impossibile la competizione sul fronte dei costi, aggravando gli effetti di un clima congiunturale tutt’altro che favorevole. Chi punta sulla qualità riesce però ancora ad eccellere, nonostante le innumerevoli difficoltà e una domanda interna in recessione.

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17. Le aziende.., 2005, p. 133 18. IRONICO 2014, pp. 22-23 19. Report 2012. I Risultati dell’Osservatorio Sistema Moda. 20. BUCCI 1998, p. 102. 21. http://www.neargroup.it/it/ProjectsFunded.aspx/ProjectsList 22. www.bliveworld.org 23. Gentucca Bini è una giovane stilista italiana stravagante che si è avvicinata al mondo della moda grazie all’influenza della nonna, la designer Bruna Bini. Nel corso della sua carriera, dopo aver studiato architettura a Milano, si trasferisce a Parigi, dove trova impiego nell’atelier di Pierre Cardin. Durante la sua esperienza parigina lavora inoltre come assistente di Andrè Leon Talley, uno dei fashion editor più apprezzati al mondo. Ed è sempre a Parigi che lavora insieme a Karl Lagerfeld, con il quale realizza cappelli per le sfilate di haute couture di Chanel. In passato direttore creativo per Romeo Gigli, oggi è a capo del brand pret-à-porter femminile che porta il suo nome, mentre le sue creazioni di alta moda sono state spesso protagoniste delle passerelle di Parigi e Roma. Molto recentemente ha avuto modo di dar sfogo alla sua eccentricità reinventando delle uniformi da lavoro. La collezione è stata esposta nel salone Milano Moda Donna,Settembre 2014. “The charme of the uniform”. Qui reinventa l’eleganza vera, quella cresciuta in laboratori ed officine. Il risultato sono abiti la cui eleganza deriva dalla loro origine utilitaria. Proprio come gli strumenti di lavoro, che quando diventano utensili veri, sono sempre straordinari oggetti di design. 24. Come pezzi di PVC, tappeti antichi, buste del pane, scarti di ferramenta, ecc.. 25. B. Cucinelli è un’azienda di moda italiana operante nel settore dei beni di lusso. Conosciuta per i suoi prodotti in cachemire, Brunello Cucinelli è oggi uno dei brand più esclusivi nel settore della moda casual-chic a livello mondiale. L’azienda nasce nel 1978, quando Brunello intuisce che il cachemire colorato avrebbe potuto rappresentare un’innovazione. Costituisce allora la società a Perugia, nel castello trecentesco di Solomeo, dove è tuttora attiva. L’attività del Gruppo è caratterizzata da un modello imprenditoriale a vocazione etica ed umanistica che, basandosi su valori, quali la dignità dell’uomo e del lavoro, coniuga l’efficienza dell’attività aziendale con la missione sociale. 26. Corbellini E., Marafioti E., La CSR nella moda. Strumento di marketing o elemento fondante della strategia di impresa?, Articolo per Economia e Mana-

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gement, Università SDA Bocconi, Marzo 2013, p. 68 27. L’intervista è stata personalmente svolta il 6 Dicembre 2014 nell’ambito della ricerca di nuove pratiche aziendali, presso la sede del Laboratorio di Via Civiletti a Palermo. 28. Prevalentemente straniere: “Men’s ex”; “Men’s precious”; “Asahi”; ma non mancano le testate italiane quali “Il Giornale di Sicilia”, “Dove”, “Gattopardo”, “Il Quotidiano”, ecc.. 29. Mauro Crimi ci racconta brevemente di quanto entusiasmante e formativa sia stata l’esperienza di una giovane stilista del Giappone, Aki Nagai, giunta a Palermo per apprendere la tecnica sartoriale del modello tradizionale di gilet maschile. La professionalità del Laboratorio Crimi ha reso possibile questo apprendimento nell’arco di soli tre mesi. Quanto imparato è stato riportato in Giappone e reso manifesto nella linea d’abbigliamento “gile’t gile by AKI NAGAI”. 30. Come spiega Michele Tronconi, vicepresidente dell’Associazione tessile italiana. 31. Come nasce l’ ATI? Il sistema di rappresentanza dell’intera industria italiana, il cui organo ufficiale è Confindustria, è articolato in Associazioni Territoriali, che raggruppano le imprese operanti in una determinata area area geografica e tratta problemi di comune interesse per le imprese dislocate in quell’area; Associazioni di categoria, che raggruppano le imprese che operano in un determinato settore merceologico e trattano problemi di carattere nazionale attinenti al settore specifico. Nell’ambito delle associazioni di categoria, l’organo di rappresentanza del settore Tessile-Abbigliamento era costituito da Federtessile, cui aderivano sei Associazioni rappresentative delle imprese appartenenti ai vari comparti merceologici del settore. Dal 2000 è stato realizzato un accorpamento delle Associazioni e conseguentemente la cessazione dell’attività di Federtessile. Da tale processo di accorpamento sono nate l’Associazione tessile italiana e il Sistema moda Italia, l’Associazione Italiana delle industrie della filiera tessile Abbigliamento. 32. L’EFIMA, Ente Fiere Maglieria e Abbigliamento, è l’Ente Fieristico dell’associazione del Sistema Moda Italia, con le quali concorda le strategie promozionali del Made in Italy. L’attività di EFIMA consiste nell’organizzazione di manifestazioni fieristiche ed eventi moda a Milano. In particolare EFIMA organizza WHITE e MODAPRIMA.

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33. L’EMI, Ente Moda Italia, è una società non profit creata nel 1983 su iniziativa del Sistema Moda Italia e del centro Firenze per la Moda Italiana che promuove e valorizza il Made in Italy in Italia e all’estero. L’Ente Moda Italia ha la sede di rappresentanza a Milano e quella operativa a Firenze, due città d’arte e di grande tradizione imprenditoriale, due centri economici e culturali di indiscusso prestigio che rappresentano la moda nel mondo. In particolare l’Emi organizza importanti manifestazioni estere quali: Made in Italy at the collective, Made in Italy at fashion coterie, Made in Italy at magic, Made in Italy at collection premiere Moscow, Made in Italy at fashion China, Made in Italy at chic. 34. Sistema Moda Service è la società di SMI avente per oggetto l’organizzazione diretta e indiretta di mostre, manifestazioni fieristiche, presentazioni e iniziative promozionali sia in Italia sia all’Estero. Sistema Moda Service provvede alla pubblicazione, distribuzione, commercializzazione di periodici di settore ed alla prestazione di servizi amministrativi, organizzativi e logistici in genere; effettua la promozione e l’organizzazione di ricerche, studi, dibattiti, seminari e convegni su temi di interesse per le aziende del settore. In particolare Sistema Moda Service organizza il Fast e compartecipa all’organizzazione di Modaprima. 33. In più Pitti ha organizzato, in collaborazione con EFIMA1 una fiera per la moda donna a Milano, Newzone. Si tratta di un salone con un’elevata superficie quadrata che ospita stand di aziende con accessori e abbigliamento. Newzone è nata con l’intento di affiancare White2 per rafforzare il potere d’attrazione commerciale, culturale, e di comunicazione delle aziende del pret-a-porter e accessori di fascia alta. 34. Attuale presidente della Camera Nazionale della Moda Italiana

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CAPITOLO III

ORIENTAMENTO DI MARKETING Come anticipato, negli ultimi anni la nostra immagine ha subìto duri giudizi. Se oggi c’è una parte dell’industria italiana che vive e cresce a discapito di un’altra che è soffocata entro i confini nazionali, è perché è venuta a mancare, in tempo di crisi, una vera politica industriale che avrebbe saputo e potuto dare risposte efficaci al fenomeno abnorme della caduta verticale della domanda. Avere una politica industriale significa non solo “scegliere a tavolino”, secondo gli stereotipi superati del passato, ma anche impostare azioni mirate e a forte impatto nel breve periodo per fronteggiare le difficoltà del sistema. Motivi per cui l’orgoglio di vedere il nostro Paese collocato nelle fasce di più elevato valore aggiunto, in cui i produttori emergenti, come la Cina, faticano ad entrare e dove le caratteristiche distintive del made in Italy in termini di qualità, design, innovazione e servizio al cliente continuano a fare la differenza, purtroppo può non essere abbastanza. 1 Accade che, spesso, la proliferazione di iniziative, sia all’interno che all’estero, talvolta non coordinate, non raggiunge un livello qualitativo soddisfacente. Senza dubbio questo non ci aiuta. Per non ricadere negli errori commessi nei tempi critici della mancanza di una politica industriale, gli esperti del settore, da quanto risulta, stanno incentrandosi appunto sulla riorganizzazione mirata a una più moderna strutturazione delle attività imprenditoriali interessate, a monte e a valle, del processo produttivo e manageriale vero e proprio. 109


In questa sezione, pertanto, si è ritenuto opportuno e significativo ricercare ed individuare il fondamento concettuale e metodologico del modello su cui gli esperti stanno pianificando le loro strategie di recupero e sui quali si costruisce. Questo approccio consente di interpretare l’intera attività di marketing in chiave di macroprocesso economico e di entrare in contatto con la pura essenza del modello italiano.

3.1. Perché adottare il Fashion marketing? Che sia stato scritto e detto tanto e forse tutto sulla moda ne siamo convinti, però ci sembra che un punto meriti ancora un serio ed approfondito esame, quello del marketing. Intorno alla moda, oggi, ruota un “sistema” formato da tanti anelli che ha un continuo bisogno di razionalizzare i suoi comparti per vincere la sfida globale del mercato. Lo scenario impone al prodotto moda del Made in Italy una maggiore aderenza alla società, al mercato, alle sue istanze, ai consumatori. Il marketing diventa così l’imperativo categorico a cui l’azienda non si può sottrarre in quanto è l’elemento determinante ed insostituibile per assicurare successo alla produzione, alla commercializzazione dei suoi prodotti, alla sua capacità creativa ed innovativa, al suo ma nagement. L’azienda disporrà d’un ineguagliabile vantaggio competitivo se avrà un convinto e concreto orientamento di marketing; nel caso poi che questo orientamento dovesse essere maggiore, si arriverebbe a disporre di un sicuro e concreto fattore strategico. Un fattivo orientamento di marketing assicurerà il raggiungimento di 110


fondamentali obiettivi: identificare e soddisfare nel migliore dei modi la domanda; ottimizzare la sua posizione nel mercato; massimizzare la capacità reddituale di lungo periodo. Il fashion marketing ci appare così come il cervello, il buon senso, la volontà della forza commerciale aziendale che tramite la conoscenza e l’informazione raggiunge e conquista il mercato. Ma noi preferiamo considerarlo come la dinamica commerciale interamente finalizzata a: •

un’attenta analisi di tutti gli aspetti e limiti della domanda di moda;

una ponderata rimozione degli ostacoli che possono opporsi alla vendita del prodotto moda;

la scelta dei mercati e relativi segmenti più favorevoli, nonché dei canali di distribuzione più efficienti e più economici;

la presenza comunicazionale e promozionale più efficace sul mercato;

l’integrazione strategica tra produttori, creatori di moda, merchandiser, marketologi, venditori e consumatori.

3.2. Le funzioni di marketing L’orientamento del fashion marketing su cui si fonda il modello italiano si può identificare e riassumere in diverse funzioni ➢

2

:

Funzione d’analisi e ricerca: il marketing attraverso la ricerca

e la segmentazione di mercato individua dati e informazioni relative al mercato, ai relativi segmenti, al consumatore, alla concorrenza, al giusto prodotto, alla domanda e all’offerta, agli indici di 111


consumo,ecc..; ➢

Funzione di sviluppo prodotto: ogni sei mesi bisogna avere

nuovi prodotti, nuove collezioni, pertanto spetta al fashion marketing supportare la predisposizione dei prodotti e delle collezioni che dovranno essere lanciati sul mercato; ➢

Funzione di distribuzione e vendita: i prodotti dovranno essere

collocati sul mercato da un punto di vista logistico, quindi individuando il giusto canale distributivo e predisponendo la più idonea politica di vendita; ➢

Funzione d’animazione e promozione: spetta al fashion mar-

keting creare e stimolare la domanda attraverso le sue politiche di prodotto, di prezzo, di distribuzione, di comunicazione e promozione, di vendita; ➢ Funzione di pianificazione: il fashion marketing può solamente svilupparsi in un contesto di pianificazione che tenga presente il piano globale aziendale nonché quello specifico di marketing; ➢

Funzione d’organizzazione: il marketing è anche ordine e

coordinamento; l’intero processo di fashion marketing è in grado di dare un notevole contributo ad organizzare ed armonizzare tutti gli interventi dell’azienda dall’ideazione di un prodotto, alla sua produzione, alla distribuzione e alla vendita, alla comunicazione e alla promozione, ecc.. ➢

Funzione di controllo: il marketing è anche verifica; infatti

senza un costante controllo non si possono scoprire le deviazioni della rotta tracciata, né portare quelle opportune correzioni che il marketing propone nel caso di scostamenti dagli obiettivi; ➢

Funzione d’integrazione: il fashion marketing permette un

felice connubio tra stilismo e industria, tra moda e produzione indu112


striale, proprio in questa felice interazione sta il successo dell’offerta; il marketing è in grado di rafforzarla e darle quelle caratteristiche per sostenere in maniera efficace la battaglia concorrenziale; incanala lo stilismo in un processo per nulla riduttivo, ma anzi moltiplicatorio della genialità, della creatività che ne è alla base; lo stilismo attraverso il marketing arriva in maniera ottimale al consumatore; senza il marketing si troverebbe in grande difficoltà per far giungere il suo messaggio, la sua offerta al mercato; ➢

Funzione d’efficienza: la metodologia di marketing, il proces-

so che alimenta, il coordinamento che assicura rende gli addetti ai lavori più concreti, più determinati, più efficienti nelle loro attività. E’ su questi presupposti che l’azienda del Made in Italy attua il suo intervento di marketing, vuoi a livello di pianifizione dei mezzi da impiegare sul mercato e vuoi a livello di giusta politica di prodotto, di prezzo, di distribuzione, di promozione, di vendita, nonché di controllo.

3.3. Le caratterizzazioni del mercato Il mercato che la moda genera ha specifiche caratterizzazioni che devono essere tenute ben in evidenza3: •

Mercato accessibile: la moda dopo essere stata per tanti anni riservata alle élite, quindi irraggiungibile per molti consumatori, oggi è estesa a tutte le categorie sociali, trasformandosi da fenomeno culturale e privilegiato in un fenomeno di consumo; 113


il successo di tanti marchi è stato quello di rendere la moda facilmente accessibilmente ai consumatori;

Mercato consumer oriented: la moda la fa il consumatore quando decide d’acquistare e portare un abito; un look diventa moda solamente se ci sono consumatori che decidono d’acquistarlo e di portarlo;

Mercato condizionato: ci sono aspetti che lo limitano in maniera molto forte, si pensa alla politica, all’economia, alla tecnologia, alla cultura, alla psicologia, ai comportamenti umani, ai movimenti ideologici, agli stili di vita, ecc.

A titolo d’esempio vogliamo evidenziare il condizionamento fatto nel tempo degli street-style (Hippies, Punks, Darks, Skinheads, Gipsy, Underground, Yuppies, ecc.), dai movimenti (Ecomoda, Verdi, Ecologisti, ecc.), da caratterizzazioni geografiche e storiche (Stile Country, Stile Cowboy, Stile Hawayano,ecc.), da stili particolari (Stile Glamour, Moda trash, ecc.) 4;

Mercato attuale: la moda deve rispondere ad un mercato attuale; ciò significa che l’offerta deve riscontrare precise e presenti esigenze dei consumatori; l’attualità dei prodotti offerti fa sì che questi vengano anzitutto presi in considerazione, quindi accettati e acquistati;

Mercato differenziato: molto spesso gli stilisti nei loro prodotti rivelano apparentemente poche diversità, però il mercato con l’andare del tempo si rivela altamente differenziato e molto incline ad accettare differenziazioni;

Mercato segmentato: parecchi consumatori hanno stili di vita molto particolari al punto d’aver dato origine a specifiche nicchie di mercato, all’interno delle quali ci sono particolari ten114


denze di moda;

Mercato graduale: la moda si sviluppa per gradi; il consumatore non è propenso a rinnovare totalmente ad ogni stagione il suo guardaroba; lo fa gradualmente, inserendo, col tempo, qualche capo; pertanto la moda non può fare proposte troppo radicali, se lo facesse ne verrebbe smentita dal comportamento del consumatore;

Mercato globale: la moda come la cultura, la musica, il cinema può offrire messaggi universali, poliedrici, multiculturali; se certi prodotti si riescono a vendere dappertutto dal Giappone al Sud Africa, dagli Usa alla Finlandia significa che la moda riesce a stare in sintonia con i bisogni di un pubblico diversificato; il mercato della moda ha una trasversalità a tutto campo; i consumatori che l’offerta deve raggiungere sono quelli del villaggio globale, pertanto prodotti, politiche e strategie si devono indirizzare nel rispetto della globalizzazione dei mercati;

Mercato dinamico: la moda è qualche cosa che passa, lo dice la stessa parola; non si può pensare ad abiti, prodotti moda che durino in eterno.

3.4. Pianificazione aziendale e di marketing L’approccio di marketing rappresenta l’insieme delle scelte fondamentali attraverso cui l’azienda si propone di raggiungere gli obiettivi prestabiliti nei confronti del mercato. Un giusto approccio, garante del rispetto della metodologia di marketing, sarà caratterizzato da una serie di passaggi tra loro coordinati. 115


Dominare il domani, o quanto meno non subirlo, è un obiettivo che si ottiene solamente con la pianificazione. Realizzare la pianificazione di marketing 5 per l’azienda vorrà dire muoversi nella logica d’uno schema razionale e d’un ordine programmato. Questa se ben applicata riesce a prevedere i fattori del cambiamento del mercato e gli interventi marketing più adatti.

Analisi dell’ambiente con relativa valutazione: Si analizzano alcuni punti ben distinti che permettono di avere un quadro generale della situazione relativa al mercato, ai prodotti già presenti e/o da lanciare sul mercato, della concorrenza, del trade, dei consumatori, della stessa azienda quanto a situazione attuale, missione aziendale, prospettive, debolezze ed opportunità, vantaggi competitivi, ecc.; Scelta degli obiettivi da conseguire: Il piano deve scegliere successivamente i suoi obiettivi in armonia con la pianificazione globale aziendale. Gli obiettivi che il piano si propone di raggiungere ri116


guarderanno quelli già evidenziati nella fase d’analisi e che a questo punto si concretizzano in risultati concreti da raggiungere. Nello stabilire quali debbano essere gli obiettivi da raggiungere, bisogna tener presente che vaghezza e irrealtà confondono solamente le idee, non convincono, non permettono la messa in atto di un valido intervento operativo. Questi obiettivi potranno riguardare quote di mercato, volumi di vendita, margini di profitto, conquista d’un segmento, penetrazione ed espansione nel mercato. In questo contesto è auspicabile individuare anche una priorità di obiettivi così che quelli secondari non abbiano il sopravvento su quelli primari; Scelta del segmento di mercato: riguarda la decisione relativa al segmento più consono cui si vuole indirizzare l’azione di marketing; questa scelta ne presuppone la giusta e completa conoscenza (condizione indispensabile). Aver scelto un ben definito segmento non fa che facilitare quella serie d’interventi che si dovranno indirizzare in questa direzione; Scelta delle politiche e delle strategie di marketing: in questa parte operativa del piano vengono proposte le politiche e le strategie che devono caratterizzare l’approccio e assicurare il raggiungimento degli obiettivi prefissati. Le politiche da attivare sono relative al: prezzo, al prodotto, alla distribuzione, alla comunicazione, alla promozione e alla vendita. Le strategie da impiegarsi troveranno un logico riscontro più nell’ottica di specifici obiettivi: strategia con “obiettivo mercato” (prenderà in considerazione l’approccio strategico di mercato e sulla sua penetrazione), strategia con “obiettivo concorrenza” (la battaglia concorrenziale spesso impone una linea offensiva e difensiva), strategia con “obiettivo consumatore” (di massa, di nicchia, per il consumatore globale, ecc.), e strategia con 117


“obiettivo intermediazione” (l’intermediario rappresenta una parte attiva determinante per il raggiungimento degli obiettivi di vendita, fatturato, e di quote); Scelta dei tempi tecnici: la messa in atto delle strategie e delle politiche devono essere caratterizzate dalla periodicità che debbono avere, cioè i loro tempi d’attuazione; Controllo dell’efficienza dell’approccio: perché le politiche e le strategie di marketing raggiungano una certa efficienza, devono basarsi su un puntuale controllo; ciò deve permettere all’azienda di conoscere in continuazione la propria posizione nei riguardi del mercato, del segmento, di controllare il riuscito o mancato raggiungimento degli obiettivi, gli scostamenti registrati, le cause che li hanno determinati; Scelta politica e strategie alternative: a seguito dell’azione di controllo potrebbe divenire quanto mai necessario disporre sia nel breve che nel lungo termine di politiche e strategie alternative in grado di correggere la rotta intrapresa. A questo punto, l’approccio di marketing si potrà indirizzare verso: la differenziazione, l’indifferenziazione, la concentrazione o la nicchia, un tipo misto di indirizzi. Vediamo insieme.

3.4.1. Marketing differenziato Con la seguente strategia ci si rivolge alla totalità del mercato, ma lo si fa proponendo una gamma di prodotti che si adattano ai bisogni specifici di differenti segmenti. L’impresa riscontrando sul mercato l’esistenza di diversi segmenti, decide di rivolgersi ad uno o più in 118


particolare, realizzando un mirato approccio di marketing.6 Ne conseguiranno tali vantaggi: il prodotto risponderà in maniera ottimale alle richieste del segmento, vi sarà la possibilità di aumentare il prezzo in qualsiasi momento, durante la vendita vi sarà il riscontro più efficace della clientela, il mercato sarà maggiormente coperto rispetto a quello indifferenziato, il segmento sarà costantemente ed attentamente seguito sia dal punto di vista dell’evoluzione che d’eventuali incursioni della concorrenza. Naturalmente, l’approccio di marketing differenziato se vuole raggiungere i soddisfacenti obiettivi, obbligatoriamente dovrà contare su continui investimenti di sostegno.

3.4.2. Marketing indifferenziato Si basa sull’ipotesi che il mercato sia omogeneo (il mercato globale per esempio) e pertanto prende in considerazione solamente ciò che vi è di comune nei possibili consumatori: è ovvio che in questo caso l’impresa ricorre ad impiegare un unico approccio di marketing per tutto il mercato, sia nazionale che internazionale. Il ricorso al marketing indifferenziato richiede che vengano presi in considerazione taluni condizionamenti: l’esistenza di consumatori omogenei, una penetrazione rapida, decisa e su vasta scala del mercato, un’azione globale di comunicazione, una capacità a gestire cicli di vita di prodotto molto veloci su un vasto mercato e lanciarvi di conseguenza nuovi prodotti. Tra le debolezze che questo approccio registra ci sono: i minori profitti, la concorrenza piuttosto sostenuta, la minore efficacia nella penetrazione dei vari segmenti inseriti nel monoseg119


mento indifferenziato, la relativa insoddisfazione dei segmenti specialistici che non trovano i prodotti corrispondenti ai loro bisogni, l’immagine aziendale apparirà generalizzata.7

3.4.3. Marketing concentrato o di nicchia Come chiarisce inequivocabilmente la stessa denominazione, rivolge tutte le sue attenzioni ad una nicchia di mercato attentamente selezionata, rinunciando così ad ingaggiare una battaglia concorrenziale su vasta scala e rivolgersi ad un unico segmento. Il marketing concentrato diventa una scelta strategica allorché ci si trova in presenza di talune condizioni: limitatezza di risorse con forte concorrenza; prima entrata su un mercato molto congestionato; nicchia individuata rispondente alle esigenze e alle opportunità dell’azienda; forte immagine dell’azienda in uno specifico segmento. Le opportunità che si possono conseguire sono considerevoli: minori costi di marketing e di vendita; sensibili economie di produzione; passo deciso per la conquista del mercato; discreti profitti. Il maggiore inconveniente che se ne deduce resta la vulnerabilità che questo approccio genera: il futuro e la crescita dell’impresa che sono strettamente collegate all’evoluzione di nicchie condizionate da parametri su cui l’impresa non ha alcun potere. Questa strategia viene utilizzata spesso dalle piccole e medie imprese che non hanno abbastanza risorse finanziarie per sviluppare prodotti che soddisfino le esigenze di più segmenti. 8

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3.4.4. Marketing di tipo misto Il fashion marketing può prevedere contemporaneamente l’applicazione nel mercato d’approcci diversi; è infatti possibile rispondere alla sfida d’un concorrente aggressivo in un’area di mercato con un approccio concentrato, mentre sul fronte restante è praticabile con successo quello differenziato. Il marketing misto per gli approcci che applicherà farà riferimento a quello differenziato, concentrato o di nicchia.

3.5. La segmentazione del mercato della moda Abbiamo visto che per definire una strategia di marketing bisogna aver ben chiaro il segmento a cui ci si vuole rivolgere. Ma vediamo da più vicino cosa si intende per segmentazione. La moda permette ai consumatori di manifestarsi, di rendersi visibili e numerabili per omogenei comportamenti e stili di vita, per identiche esigenze da soddisfare, per comuni caratterizzazioni; ciò fa sì che essi siano ricollegabili a gruppi, a segmenti di mercato. Segmentare

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un mercato vuol dire dire allora aggregare insieme

consumatori d’un mercato o di più aree; ciò che ne risulterà non sarà altro che un gruppo unitario ed omogeneo. La scelta del segmento dovrà basarsi su valutazioni e decisioni conseguenti all’azione di ricerca del mercato precedentemente evidenziata; infatti se essa ha individuato il riscontro d’una domanda, diventa quanto mai necessario configurare il segmento che meglio la possa rappresentare e rispondere all’offerta.10 Con la segmentazione si conseguiranno 121


obiettivi fondamentali come: •

riconoscere l’importanza relativa d’ogni segmento;

caratterizzare il consumatore-target quanto a stile di vita, livello culturale, aspettative, comportamenti, potere d’acquisto, valori, ecc..;

eliminare segmenti poco rappresentativi;

distinguere criteri di differenziazione tra i vari segmenti;

valutare e quantificare i consumatori attuali e potenziali di ciascun segmento;

conoscere la vera domanda di un segmento;

prospettare un elenco di priorità da mettere in atto nel segmento;

individuare e comparare le opportunità del mercato;

adattare i prodotti a specifiche esigenze;

individuare i punti vendita che meglio rispondono al segmento;

attivare così un piano di marketing per lo specifico segmento.

Poter affrontare un mercato attraverso la segmentazione permetterà all’azienda di conseguire una serie di vantaggi che renderanno decisamente incisivo il suo intervento di fashion marketing.

3.5.1. La tecnica di segmentazione Per riuscire a ben segmentare è indispensabile disporre di una valida metodologia. La corretta tecnica vuole che l’identificazione del segmento venga attuata tenendo presente quelle variabili che permettono un omogeneo raggruppamento dei consumatori e che aiutano a capire i loro comportamenti, le loro motivazioni d’acquisto e le loro 122


preferenze. Alcuni analisti tentano di definire i segmenti in base a caratteristiche descrittive (geografiche, demografiche e socio-psicografiche) degli individui che costruiscono il mercato di riferimento. E successivamente tentano di determinare se i diversi segmenti di consumatori mostrino differenti bisogni o desideri. Per esempio, esaminano i differenti atteggiamenti di “professionisti”, “operai” e altri gruppi socio-professionali rispetto alla “sicurezza” come caratteristica di un prodotto. Alla base di questo approccio alla segmentazione vi è un’ipotesi di correlazione fra variabili descrittive dei consumatori e specificità di bisogni, desideri, benefici ricercati e, in ultima analisi, del valore atteso da un prodotto e da una marca. Altri analisti tentano di definire i segmenti in base a considerazioni di tipo comportamentale o attitudinale, come per esempio le reazioni dei consumatori rispetto a vantaggi, occasioni di utilizzo o brand, ovvero le preferenze e le valutazioni espresse rispetto al processo e agli oggetti di consumo. Cercano poi di stabilire se a ciascun tipo di reazione del consumatore siano associate differenti variabili che ne descrivono il profilo. Indipendentemente dalla modalità di segmentazione utilizzata è fondamentale disegnare i piani di marketing adattandoli alle diverse caratteristiche dei consumatori e, prima di ogni cosa, alle loro attese di valore specifiche. Le principali variabili di segmentazione sono di seguito riepilogate. •

Variabili di mercato: sono quelle che individuano il tipo di mercato o la specifica area, il reddito; hanno lo scopo di fornire elementi validi al recupero d’altre variabili;

Variabili demografiche: si suddivide il mercato sulla base di variabili quali l’età, dimensione del nucleo familiare, fase del123


la vita familiare, genere, reddito, professione, istruzione, religione, etnia, generazione, nazionalità e ceto sociale. Uno dei motivi per cui le variabili demografiche sono tanto popolari tra gli analisti di marketing è che spesso sono immediatamente associabili ai bisogni dei consumatori, anche se non sempre tali associazioni si dimostrano alla prova dei fatti. Un altro motivo di popolarità è che sono facilmente misurabili;

Variabili geografiche: consiste nel suddividere il mercato in unità geografiche quali stati, nazionali, regioni, province, città o quartieri. L’impresa può operare solo in una o in alcune aree, oppure in tutte le aree prestando però attenzione alle caratteristiche specifiche di ciascuna di esse. In questo modo l’impresa può adeguare i programmi di marketing ai bisogni e desideri dei gruppi di clienti di ciascuna area;

Variabili socio-psicografiche: sono un insieme di metodi che utilizzano sociologia, psicologia, antropologia e demografia per meglio comprendere i consumatori, descrivendone attitudini sociali e atteggiamenti e individuali. In questa variabile gli acquirenti vengono suddivisi in gruppi differenti sulla base di tratti psicologici o di personalità, stili di vita e valori. I gruppi che ne evincono sono i seguenti.

1.

innovatori: persone di successo, sofisticate, attive, che sanno prendere in mano la situazione e hanno elevata autostima. I loro acquisti spesso riflettono gusti raffinati e preferenza per prodotti e servizi di fascia relativamente alta e di nicchia;

2. riflessivi: persone mature, soddisfatte e riflessive motivate dagli ideali e che apprezzano ordine, conoscenza e responsabilità. Nei 124


2. riflessivi: persone mature, soddisfatte e riflessive motivate dagli ideali e che apprezzano ordine, conoscenza e responsabilità. Nei prodotti cercano durevolezza, funzionalità e valore; 3. sperimentatori: persone giovani, entusiaste e impulsive che cercano varietà ed emozioni. Spendono una parte relativamente alta del loro reddito in prodotti di moda; 4. devoti: persone conservatrici, convenzionali e tradizio nali, con solide convinzioni. Preferiscono prodotti noti, creati in patria, e sono fedeli alle marche storiche; 5. velleitari: persone di tendenza e amanti del divertimento, dotate di poche risorse. Scelgono prodotti eleganti che emulano quelli acquistati dai consumatori più facoltosi; 6. pratici: persone pratiche, concrete, autosufficienti che amano il lavoro manuale. Preferiscono i prodotti fabbricati in sede e aventi scopi pratici o funzionali; 7. sopravvissuti: persone anziane e passive, preoccupate dai cambiamenti e fedeli alle loro marche preferite. Dati i profili di questo segmento, si seleziona in seguito il tipo di punto vendita che possa ottenere i migliori risultati nei rapporti gestiti dall’impresa. •

Variabili comportamentali: con la segmentazione comportamentale, i marketing manager suddividono gli acquirenti in gruppi sulla base del loro comportamento di consumo, o meglio dei loro comportamenti osservabili, ovvero tracciabili durante i processi di interazione con le imprese. Bisogna ricordare che l’abbigliamento comporta una dominante individualista e personale; attraverso variabili ci si rivolge ad aspetti strettamente 125


collegati al comportamento di vita, di consumo e d’acquisto, all’atteggiamento nei confronti della moda, alla conoscenza dei prodotti, alla ricezione di un messaggio, ecc.

3.5.2. Definizione dell’ambito competitivo Si considera buona strategia quella che differenzia l’impresa dai concorrenti, all’interno del segmento di appartenenza, attribuendole una posizione unica. La strategia impone determinate scelte: un’azienda non può offrire tutta la gamma di benefici desiderabili dal mercato; deve piuttosto concentrarsi solo su alcuni e proporli in modo unico. La comprensione del contesto specifico in cui l’impresa opera è quindi passo preliminare in vista di una segmentazione della domanda e dell’analisi del posizionamento dell’impresa e delle sue marche. All’interno di ciascun segmento, ogni impresa potrà poi decidere come competere, ovvero come posizionarsi. Esiste pertanto una dimensione strutturale o esterna del processo di segmentazione del settore, valida per tutte le imprese in esso operanti e una dimensione strategica o interna di definizione dell’ambito competitivo, valida a livello di singola impresa. Per segmentare il settore dell’abbigliamento considereremo congiuntamente tre macrocriteri – tecnologia, funzioni d’uso e gruppi di clienti – all’interno dei quali è possibile realizzare ulteriori micro segmentazioni. TECNOLOGIA: La tecnologia può essere intesa in senso stretto 126


come stato delle conoscenze relative ai processi produttivi e ai beni prodotti, o, in senso più ampio, come modalità di svolgimento di processi economici aziendali. Criteri di segmentazione della variabile tecnologia possono essere di natura merceologica (tipologia di prodotto e di materia prima impiegata) o sottintendere la natura del know – how incorporato nei processi aziendali e nel sistema di offerta (artigianale/griffe, industriale, commerciale ecc). Dal punto di vista del know-how incorporato nei processi aziendali del settore, tre sono le tipologie, che a loro volta definiscono tre tipologie di attori: 1- le maison griffe (es: Armani, Valentino, Versace..), basate su competenze artistico-progettuali e con una gamma di prodotti altamente diversificata; 2- i marchi industriali (es: Zegna, Max Mara, Fila, Diesel), con competenze sia industriali sia commerciali; 3- i marchi insegna (es: Benetton e Stefanel) facenti capo a operatori distributivi, con competenze commerciali e di gestione del network, spesso in grado di organizzare la filiera produttiva a monte. FUNZIONI D’USO: La funzione d’uso descrive in termini generali il tipo di utilizzo per il quale un prodotto è stato concepito dal punto di vista tecnico e funzionale. Le principali funzioni sono riconducibili ad abbigliamento esterno, intimo, costumi da bagno. Esiste poi un’ulteriore possibilità di segmentazione in base al criterio dell’occasione d’uso, che è molto orientato al mercato e sta diventando sempre più importante ai fini della sua segmentazione; definisce, infatti, le occasioni di vita alle quali un certo prodotto dovrebbe essere destinato. Si distinguono così le occasioni d’uso formali da quelle informali, legate al tempo libero, fino ad arrivare a occasioni legate allo sport. GRUPPI DI CLIENTI: Il criterio basato sui gruppi di clientela seg127


menta il settore in base a una logica di mercato, distinguendo generalmente tra cliente intermedio (canale) e cliente finale. Cliente intermedio: dal punto di vista dell’azienda produttrice, un primo criterio di segmentazione della distribuzione distingue tra canale diretto e canale indiretto. Il primo mette direttamente in contatto industria e consumatore finale senza il servizio di intermediazione commerciale: la vendita attraverso negozi monomarca, i cataloghi per corrispondenza e il commercio elettronico fanno parte di questo canale. Il secondo, che comprende attori specializzati nell’intermediazione commerciale e svolge la funzione di distribuzione del prodotto finito offrendo varie tipologie di servizio. Clienti finali: dal punto di vista dei clienti finali, consumatori-fruitori del prodotto, la segmentazione è praticabile in base a numerose variabili, che possono essere quelle tradizionali di tipo demografico (età, sesso), geografico (area di provenienza) o socio-economico (classe sociale, reddito, ecc..) o più innovative, di natura psicografica (stili di vita) o comportamento d’acquisto, o ancora per categorie mentali. Dopo aver scelto il segmento o i segmenti ai quali rivolgersi, l’impresa dovrà stabilire in che modo posizionare il prodotto nel mercato che ha deciso di coprire. Il posizionamento è noto come “il modo in cui la marca o l’impresa vogliono essere percepite dagli acquirenti potenziali”. Un’impresa, quindi, per scegliere il proprio posizionamento, dovrà innanzitutto studiare le aspettative dei consumatori nei confronti dei prodotti concorrenti. In questo modo, si può dotare il prodotto di quelle caratteristiche distintive che suscitano una reazione favorevole da parte degli acquirenti potenziali. In secondo luogo bisognerà conoscere il posi128


zionamento detenuto dalle marche concorrenti, al fine di raccogliere informazioni utili per lo sviluppo di una strategia mirata.

3.6. Il processo di posizionamento strategico Posizionamento di prodotto e segmentazione di mercato sono tra loro complementari e determinanti per la formulazione d’una valida ed efficace azione di fashion marketing; infatti l’obiettivo che si consegue realizzando una valida segmentazione è quello di predisporre il giusto habitat per un altrettanto valido posizionamento nel mercato. Le scelte di posizionamento rappresentano l’elemento più importante della strategia competitiva, il criterio guida per sviluppare un marketing mix coerente al proprio interno e consonante rispetto all’evoluzione del contesto ambientale. Il posizionamento è una necessità tesa a evitare che il consumatore scelga in autonomia come posizionare nella propria mente l’offerta dell’impresa. Suddetto processo riguarda la collocazione del sistema di prodotto - o meglio, della marca - all’interno di un sistema definito di percezioni del target selezionato, con l’obiettivo ultimo di generare una differenziazione, possibilmente sostenibile e duratura, tra l’attività dell’azienda e quella dei concorrenti. Tradizionalmente il posizionamento viene realizzato con riferimento a numerose valenze, tra le quali l’impresa può scegliere la o le più significative per il proprio target: •

Attributi del prodotto: aspetti fisici e tangibili del prodotto quali materiali utilizzati, vestibilità, resistenza, cura dei dettagli ecc.. 129


Benefici o valori associati al prodotto: si intendono, in questo caso, valenze immateriali del sistema di offerta che richiamano valori intangibili particolarmente significativi per il target.

Per specifiche funzioni o occasioni d’uso: in questo caso si posiziona il prodotto rispetto a particolari situazioni d’uso, magari non tradizionali.

Rispetto ai concorrenti di riferimento: i posizionamenti dei concorrenti rappresentano un vincolo e un’opportunità circa un nuovo posizionamento: un vincolo nel senso che è molto difficile fare propri segni che già sono presidiati da altri concorrenti, a meno che non si riesca a offrire vantaggi incrementali evidenti (il mancato posizionamento innovativo del leader di mercato Levi’s) 11.

L’essenza di un posizionamento di successo è la continuità nel dinamismo. Cambiare non significa mutare posizionamento strategico. Le aziende di successo portano avanti i propri posizionamenti nel tempo. Un cambiamento di posizione competitiva è necessario solo quando cambiano i bisogni e i valori fondamentali del target di riferimento, quando cioè il cliente cambia, quando la tecnologia o il sistema di offerta vengono imitati. La possibilità che le imprese restino competitive nel tempo, a dispetto dei cambiamenti della domanda, delle innovazioni tecnologiche, delle variazioni del costo relativo dei fattori produttivi rispetto ad altri paesi, dipende dalla loro capacità di produrre risposte tempestive, se possibile anticipatrici, in rapporto al dispiegarsi dei fenomeni suddetti. Il sistema economico della moda non ha sempre avuto le caratteristiche che oggi conosciamo. 130


In passato esistevano due realtà profondamente diverse in cui le imprese italiane non avevano un ruolo di preminenza: l’alta moda, in cui dominavano i francesi, e la confezione; e un settore di carattere industriale in grado di produrre prodotti standardizzati a basso prezzo per un mercato di massa. Negli ultimi trent’anni le imprese italiane hanno saputo cambiare le regole del gioco, riuscendo a trovare una sintesi tra la creatività e l’innovazione stilistica, e il rapporto qualità/prezzo, tipico della manifattura organizzata. La capacità di trasformare le logiche del settore a proprio vantaggio si è resa possibile grazie all’abilità con cui le imprese italiane hanno saputo sfruttare le specificità del sistema del proprio paese; tra queste, una domanda altamente sofisticata legata a una diffusa tradizione di gusto, la storica presenza delle filiere industriali, una dimensione media aziendale relativamente più piccola rispetto ai concorrenti esteri. Inoltre, nell’ultimo trentennio si è sviluppato in misura notevole, nel nostro paese, un sistema di terziario avanzato specializzato sulla moda – intermediari commerciali, fiere, agenzie di pubblicità e comunicazione, fotografi, agenzie di modelle, studi di fashion design, editoria – che ha creato un’ulteriore spinta allo sviluppo del comparto, ponendosi addirittura al servizio di aziende estere. Gestire la moda, oggi, significa soprattutto stimolare e coltivare la creatività, gestire sistemi raffinati di segmentazione e di distribuzione mirata. E qui risiede la specificità del modello di management. D’altra parte, il modello di management tradizionale ha le sue basi storiche nel prodotto industriale di massa; così distante, concettualmente e operativamente, da un abito o da una borsa che si rinnovano ogni sei mese e che vengono acquistati non tanto per le loro qualità materiali quanto per il loro portato simbolico. 131


3.6.1. La tecnica di posizionamento Una valida tecnica di posizionamento, in concreto, implicherà la scelta di uno o di alcuni specifici segmenti in cui posizionare il prodotto; essa dovrà tenere conto di quattro variabili condizionatrici: Prodotto ideale: E’ l’unico elemento che dipende dall’azienda e su cui essa può intervenire

direttamente.

E’

sul prodotto infatti che si concentrano gli sforzi di differenziazione; la politica di prodotto, nonché tutti gli interventi ad esso diprezzo, di di distribuzione e vendita. Mappa della concorrenza: La conoscenza delle posizioni concorrenziali permette senz’altro di valutare meglio le possibilità operative dell’azienda, d’avere idee per formulare un eventuale posizionamento alternativo; nella mappa bisognerà rilevare tutti quei dati e quelle informazioni che possono fare da riferimento per l’individuazione della propria posizione. Motivazioni del consumatore: L’identificazione e la valutazione delle attese dei consumatori porterà ad evidenziare il grado di soddisfazione o d’insoddisfazione riscontrato in uno o più segmenti; conoscendo queste attese non soddisfatte si ha la possibilità di posizionarsi in questi vuoti riscontrando nel migliore dei modi la domanda. Correnti della moda: La moda, come tale, ha una sua evoluzione 132


fatta di correnti, di gruppi d’accettazione e di contestazione; nel proporre un posizionamento non si possono ignorare i trend che la determinano o la ostacolano, così da dare all’offerta una caratterizzazione per quanto possibile la più accettabile da parte della domanda. Parlando invece di un prodotto già presente sul mercato, che necessiti di un riposizionamento, bisognerà prestare la massima attenzione all’immagine acquisita in precedenza, affinché presenti una certa compatibilità con il nuovo tentativo di posizionamento che s’intende realizzare. Da quanto detto risulta chiaro che il posizionamento ha tutti i presupposti per essere considerato un intervento strategico.

3.7. La politica di comunicazione Oggi appare sempre più chiaro che stimolare il mercato significa investire soprattutto nella comunicazione: i media, infatti, svolgono un’importante funzione nel comunicare le tendenze della moda, mantengono costante il contatto dell’azienda con il mercato e ne accrescono la notorietà. Le innovazioni portate dal mondo della moda nella comunicazione sono molteplici e sotto gli occhi di tutti. E’ importante sottolineare, ancora una volta che nel sistema moda «tutto è comunicazione». Poiché, in questo contesto, la politica di comunicazione e di promozione dovrà tenere conto d’importanti variabili come tipologia di prodotto, brevità del ciclo di vita, sua stagionalità, situazione di mercato, specificità del segmento-target, comportamento del consumatore, concorrenza; solo su questi presupposti riusciranno a presentare, sostenere, far conoscere il prodotto nel mercato, nel segmento 133


oggetto d’attenzione, presso il consumatore, quindi contribuiranno a migliorare l’immagine dell’azienda sul mercato, a convincere e a supportare il sistema distributivo di riferimento. La «gestione dell’immateriale» si concretizza proprio in questa stretta coerenza fra tutti gli elementi dell’offerta globale che diventa così «comunicazione globale». Senza dubbio l’obiettivo principale che una politica di comunicazione dovrà conseguire sarà l’incremento delle vendite, quindi collateralmente altri obiettivi complementari: nuovi segmenti di mercato, la crescita della domanda attuale, il recupero di parte della domanda potenziale, il rafforzamento dell’immagine aziendale e di prodotto, la conoscenza degli elementi qualitativi del prodotto, la presentazione delle nuove collezioni, ecc. Tutti i settori sono alla ricerca del modo migliore per presentare i nuovi prodotti ai due «canali» che hanno maggiore influenza sui consumi finali. E cioè la «distribuzione» mondiale da un lato e, dall’altro lato, i «media informativi». I canali comunicativi maggiormente utilizzati dalle aziende del settore moda sono attualmente la stampa, la radio, la televisione, il cinema e gli affissi murali. La monografia aziendale e i cataloghi di vendita, inoltre, esercitano un ruolo fondamentale e non secondario nell’influenzare le scelte del consumatore e nel sollecitare la sua curiosità. Le sfilate sono naturalmente solo uno dei mezzi di rapporto con questi canali; tuttavia, essa, comporta alti costi e non consente al cliente di toccare con mano i tessuti dei capi presentati. Quest’ultima esigenza è invece pienamente soddisfatta dallo show room, in cui sia i clienti che i buyers possono vedere concretamente l’intera esposizione delle collezioni, rivelandosi un efficace stru134


mento di comunicazione e di promozione, alternativo alla pubblicità sui mezzi di stampa.12 Sfilate che poi tramite i media informativi, i telegiornali, le trasmissioni di settore, gli articoli sui quotidiani, vengono mostrate anche al pubblico finale per creare interesse, curiosità, sorpresa della nuova linea, del nuovo prodotto. Per catturare cioè il «desiderio» che, come abbiamo visto, nell’epoca dei non-bisogni è il nuovo obiettivo del marketing e della comunicazione d’impresa. Ciò detto, un importante contributo alle vendite è offerto anche dalle manifestazioni fieristiche: esse stanno sperimentando negli ultimi tempi nuovi linguaggi, puntando con successo sui fattori della sorpresa e dell’emozione, promosse in ambiti espositivi insoliti e ad alto impatto scenografico, capaci di mettere particolarmente in luce le peculiarità della moda italiana. Oggi però, è il punto vendita a rappresentare un’arma importante per attirare l’attenzione dei consumatori, che sono sempre più subissati da tante iniziative pubblicitarie, a volte inefficaci. Le promozioni, è noto, possono disorientare il consumatore, che sempre più attento e selettivo richiede invece proposte mirate e intelligenti. Anche le aziende meno note cominciano a considerare il punto vendita come un importante mezzo di comunicazione, perché consente di instaurare con il consumatore un contatto diretto di stupirlo e di conseguenza convincerlo all’acquisto. Si è già detto che oggi si ricorre sempre più frequentemente a rivitalizzare il momento dell’acquisto attraverso le strategie di marketing applicate al punto vendita. Tuttavia lo sviluppo del prodotto moda non può prescindere anche da un mix strategico di pubblicità, relazioni pubbliche, ufficio stampa e ricerca. Più recentemente, invece, 135


le aziende del settore tendono a scegliere strumenti alternativi alla pubblicità intesa classicamente, nonché alle sponsorizzazioni. Fra questi, il più efficace è il marketing diretto, utilizzato per comunicare direttamente con uno specifico target formato da clienti o da potenziali clienti, ottenendo da essi una risposta diretta. Si differenzia così dai grandi media, che per lo più lanciano un messaggio in termini generali. Col marketing diretto, invece, il messaggio appare personalizzato e rivolto in forma esclusiva ad un preciso consumatore: le informazioni gli sono fornite tramite messaggi postali, telefonici, e-mail, e monografie aziendali o cataloghi stagionali, strumenti diretti a fargli conoscere i prezzi, i punti vendita e i servizi dell’azienda, al fine di fidelizzato alla marca. Va comunque evidenziato che un eccesso di comunicazione del prodotto moda non apporta valore aggiunto se non è inserita in una strategia equilibrata e non si rapporta ai consumatori.

3.8. Il controllo dell’efficienza strategica: Il Marketing Audit Anche nel marketing è d’assoluta importanza procedere ad una revisione periodica degli interventi che lo caratterizzano; questa revisione deve consentire una valutazione globale, obiettiva ed imparziale delle azioni intraprese, nonché la scoperta di vere e proprie aree critiche che possono comprometterle. Il controllo è un intervento di primaria importanza nel processo di marketing in quanto è in grado di assicurare all’impresa la necessaria e costante verifica del suo operare; al tempo stesso è un indiscusso elemento di differenzia136


zione e di distinzione nella sua battaglia competitiva: chi infatti sa meglio controllare, meglio riuscirà ad applicare e concretizzare il processo di marketing. Il controllo ha come finalità di valutare sistematicamente tutti quegli interventi interni ed esterni che caratterizzano il processo di fashion marketing. Pertanto, non consisterà solamente nel verificare il successo di quanto fatto, ma soprattutto nel riscontrare l’insuccesso, gli scostamenti dagli obiettivi e quindi nel saperli prevenire, porvi giusti rimedi, individuarne le cause. Il marketing audit permette di mantenere un diretto contatto continuo con la realtà, di correggere eventuali politiche e strategie, di aggiornarle alle nuove esigenze derivate da eventuali andamenti del mercato o di qualche area in particolare, dal comportamento della concorrenza, dalle varie e dinamiche richieste del trade e dei consumatori. Vuole essere, sostanzialmente,un controllo periodico, sistematico del processo di marketing in tutti i suoi passaggi. Il controllo passerà attraverso un processo d’azione e reazione: d’azione nel senso che gli interventi correttivi sono presi ancora prima che le conseguenze relative a talune decisioni abbiano un riscontro; di reazione invece quando i risultati ottenuti sono ormai definitivi e l’intervento correttivo non potrà che riguardare nuove operazioni. Il marketing audit per essere efficace dovrà essere puntuale, costante, dinamico, propositivo; solo in questa maniera può diventare uno strumento indispensabile a supportare l’approccio strategico del mercato. 13 Il punto di partenza a cui fare riferimento per la verifica dell’efficienza di marketing è anzitutto l’attento esame della quota di mercato detenuta da parte dell’azienda; questa quota può essere un ottimo 137


indicatore che rivela chiaramente la crescita o la contrazione della sua presenza sul mercato. Sulla base del controllo e del confronto del livello di quota raggiunto è possibile constatare se l’azienda aumenta o diminuisce la sua capacità di penetrazione del mercato e in base alla specifica situazione è possibile intervenire con le giuste politiche sui punti deboli che ne frenano la crescita o valorizzare i punti forti che ne assicurano il successo. Un controllo siffatto raggiungerebbe senz’altro l’obiettivo di verificare l’efficienza di marketing e in più avrebbe tutti i presupposti per essere un valido punto di riferimento per l’azione di controllo globale dell’azienda.

3.9. Valutazioni conclusive Esistono veramente, allora, in Italia, le condizioni ed i presupposti per dar vita e vitalità ad un sistema organico? Parliamo sia in termini tecnologici che in termini di azioni di mercato, con una sempre più accentuata qualificazione della produzione, sfruttando appieno le doti che sono nostre peculiarità e che potranno davvero dare all’este138


ro l’immagine della moda italiana. In tal senso i vantaggi sarebbero evidenti: si consentirebbe certamente di servire meglio i consumatori attraverso una conoscenza delle loro esigenze e si sottolineerebbe, finalmente, l’importanza di questo settore vitale sotto ogni aspetto dell’economia nazionale. Permetterebbe quindi di affermare una volta per tutte l’interesse comune di assicurare a questo settore le possibilità di sviluppo e di vitalità che ad esso competono e che esso merita.

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Note al capitolo 3 1. Volendo citare degli esempi di produzione di alta qualità relativa ai distretti italiani - per esempio, nelle calzature e negli stivali interamente in pelle e cuoio - l’Italia resta leader incontrastata nell’export mondiale davanti a Spagna e Portogallo, essendo questo un bene in cui i produttori cinesi sono frenati da difficoltà tecniche (la lavorazione delle suole in cuoio) e di prezzo (il costo suo stesso). Qui si è ristrutturata una rete di subfornitura locale a forte vocazione artigianale, fatta di piccole imprese che hanno abbandonato la produzione in conto proprio, trovando più conveniente diventare contoterzisti dei marchi del segmento lusso, inserendosi così in una catena produttiva lunga e articolata e adattandosi alle esigenze delle griffe. La presenza di queste ultime - nomi del calibro di Gucci, Prada, Ferragamo - ha permesso di presidiare le fasi a valle di commercializzazione e distribuzione, agendo positivamente sul sistema locale: ha stimolato la crescita dei laboratori artigiani, l’evoluzione tecnologica, l’organizzazione produttiva (in molti casi strutturata in fornitori di primo livello che acquisiscono la commessa dalla griffe, e subfornitori che lavorano per il primo livello). La crescita è stata eccezionale: nel giro di un decennio il distretto fiorentino della pelletteria di lusso ha triplicato la produzione, diventando il più importante centro manifatturiero al mondo in questo segmento. E così, in pochi anni, il know how, la qualità e la flessibilità dei pellettieri fiorentini hanno attirato tutti i grandi nomi della moda internazionale, da Bulgari a Cavalli, da Valentino a Tod’s, da Dolce & Gabbana a Trussardi, compresi i marchi americani (Ralph Lauren, Donna Karan, Tommy Hilfiger) e tante aziende francesi, tra cui Chanel, Christian Dior, Cartier, Louis Vuitton, Yves Saint Laurent e altri. Gucci, in particolare, negli ultimi anni, ha investito moltissimo in progetti a tutela della filiera toscana, individuando nel nuovo modello delle reti di impresa la risposta adeguata alle sfide che attendono il distretto. La maison ha deciso di giocare d’anticipo e, in nome della sostenibilità economica e sociale, ha spinto i propri fornitori strategici del comparto pelletteria ad allearsi per migliorare la competitività. L’alto valore aggiunto caratterizza anche altri prodotti della moda che richiedono particolare cura nella scelta delle materie prime, nel design e nella produzione, come gli insiemi di materie tessili per uomo e donna e i tailleur donna in lana. In questi ultimi anni sempre più spesso le imprese del settore si sono unite tra di loro per l’organizzazione di eventi ed iniziative legate alla promozione dei loro marchi e delle loro linee di produzione. Basti pensare al progetto noto come “Milano Unica” ovvero il salone italiano del tessile che, unendo quattro marchi della rappresentanza fieristica tessile italiana, Idea Biella, Idea Como, Moda In, Shirt Avenue, si propone di promuovere, in due edizioni annuali, il top di gamma della produzione tessile del nostro Paese. 2. FOGLIO 2001, pp. 112- 114. 3. Ibidem, p. 59. 4 Il condizionamento in questione – che è ricorrente ma non del tutto costante nella storia della moda d’età moderna (si veda il caso delle mode giovanili bor-

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gognone nella seconda metà del Trecento) – si è verificato negli anni Sessanta, spinto da un importante rinnovamento generazionale, chiamato “contestazione giovanile”: gli eventi socio-politici e culturali di quegli anni hanno, infatti, influenzato profondamente i valori e lo stile di vita delle generazioni future e modificato molti aspetti della vita sociale, della politica e della cultura di oggi. Il boom economico del decennio precedente aveva creato un clima di benessere consumistico ed un’atmosfera di ottimismo e creatività che favorì le attività economiche ed il progresso della tecnologia. Le spinte innovative venivano soprattutto dai giovani che, in nome della ribellione e dell’anticonformismo, rifiutavano la tradizione e tutto ciò che veniva imposto dai rigidi schemi della società borghese benpensante. Erano gli anni dell’affermazione dei media; i giovani si identificavano sempre di più nei loro idoli musicali e trovavano nuovi modi di esprimersi nella beat generation e nella musica pop. I giovani si esprimevano attraverso i comportamenti e l’abbigliamento: violavano deliberatamente i canoni del “buon gusto”, indossando capi alternativi. La fisicità della Beat Generation si sposava bene con tutto ciò che era stretto e striminzito. I must del decennio furono i blue-jeans e la minigonna, ancora oggi capi base dell’abbigliamento giovanile. Con i blue-jeans si impose uno stile di vita pratico ed economico e la minigonna era vera espressione di libertà e trasgressione. Durante gli stessi anni, si verificarono fenomeni di contro moda, la diffusione di tribù giovanili e di stili alternativi all’Alta Moda, creati da giovani, stimolati dall’arte, dal cinema e dalla musica. I Rockers, nati negli USA, indossavano giubbotti di pelle con applicazioni araldiche ed erano amanti del Rock’n roll; i Mods, in opposizione ai Rockers e ai Teddy boys, vestivano come uomini in carriera; e poi ancora gli Hippies o “figli dei fiori”, evocavano i valori dell’innocenza e della libertà. 5. La pianificazione di marketing non può non ricollegarsi all’azione pianificatoria globale dell’azienda, visto che da essa riceve il supporto determinante e al tempo stesso dà in cambio un notevole contributo. Possiamo così dire che la pianificazione di marketing non è altro che un sottosistema della pianificazione globale aziendale: da questa impostazione consegue la necessità di adattare tutta l’attività di pianificazione di marketing al piano generale aziendale. Questo coordinamento è ovvio e necessario perché solo così è possibile rispondere e compartecipare alla filosofia aziendale, quindi permettere la pianificazione degli acquisti di materie prime, delle risorse umane necessarie, degli investimenti, delle produzioni, delle vendite, dei supporti strategici di marketing. 6. Nella moda intesa e declinata quale bene di lusso, un esempio è quello di Giorgio Armani che ha utilizzato una strategia di questo tipo per poter coprire la totalità del mercato in questione. Lo stilista propone, infatti, una serie di linee che si adattano alle esigenze di più segmenti. C’è quella infantile (Armani junior), quella classica (Giorgio Armani), quella moderna (Armani Collezioni), e quelle giovanili (Armani Jeans ed Emporio Armani). Anche aziende molto tradizionali come Burberry praticano il marketing differenziato. Burberry è un autentico patrimonio britannico che gode di una posizione unica come prodotto di lusso.

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I suoi valori fondamentali – proteggere, esplorare e ispirare – influenzano la cultura e la strategia d’impresa. I principi di qualità, funzionalità e stile classico moderno sono radicati nella gamma di prodotti riconosciuti in tutto il mondo: il trench, capo simbolo del marchio, e il logo del cavaliere con la scritta prorsum (che in latino significa “avanti” per rappresentare la natura innovativa dell’azienda). Oggi i prodotti Burberry comprendono abbigliamento maschile, femminile, accessori, abbigliamento per bambini, con capi sempre innovativi. L’impresa è operativa nei mercati di varie parti nel mondo. Con i cambiamenti recenti nel mercato globale, Burberry ha compreso che il concetto di “tradizionale” non è sufficiente per rimanere competitivi. Conseguentemente ha deciso di trarre vantaggio dalla multi-segmentazione estendendo la gamma di prodotti e ricominciando la linea casual degli accessori femminili e maschili in “Burberry Brit”. Questa linea rappresenta un look più giovane, più rilassato, con dettagli di stile perfetti per l’uso quotidiano, non soltanto per l’abbigliamento formale. La nuova etichetta è informale e destrutturata e mantiene comunque l’eleganza tradizionale. Burberry offre anche la linea più sartoriale “Burberry London” che le consente di offrire un assortimento più completo in ogni segmento e di raggiungere i clienti in maniera più efficace. v. Marketing management 2012, p. 362 7. Questa tipologia mira alla copertura completa del mercato. L’impresa punta a servire tutti i gruppi di consumatori con tutti i prodotti di cui hanno bisogno. Solo imprese molto grandi come Microsoft (mercato del Software), General Motors (mercato automobilistico) e Coca-Cola (mercato delle bibite) possono adottare una strategia di copertura completa dell’intero mercato poiché si ignorano le differenze rilevate fra i vari segmenti e si presenta una sola offerta. E’ un marketing adeguato quando tutti i consumatori hanno più o meno le stesse preferenze e il mercato non mostra segmenti naturali. Motivo per cui questo tipo di strategia non si adatta ai beni di lusso perché questi si rifanno essenzialmente a criteri di esclusività e distinzione. 8. Tramite una strategia di marketing concentrato, l’impresa acquisisce una notevole conoscenza dei bisogni del segmento considerato e ottiene un forte posizionamento da “specialista” nel mercato. Inoltre, l’impresa gode di economie gestionali grazie alla specializzazione delle attività di produzione, distribuzione e promozione. Una nicchia è un gruppo ristretto e ben definito di clienti che in un prodotto o servizio ricercano una combinazione di benefici ben precisa. Decathlon, il colosso francese degli articoli sportivi, si è rivolto al mercato più economico dell’abbigliamento per ogni genere sportivo, concentrandosi prevalentemente sui clienti le cui richieste sono esclusivamente di genere sportivo. Associando caratteristiche di praticità a un basso livello dei costi in un mercato di nicchia trascurato dagli altri operatori, Decathlon è riuscito ad assicurarsi elevati profitti. La nicchia è piuttosto ridotta, ma ha dimensioni adeguate, profittabilità e potenziale di crescita, e difficilmente può attrarre molti concorrenti; inoltre, trae vantaggio dalla specializzazione rendendo così possibile il raggiungimento di un valido posizionamento all’azienda. 9. Segmentazione: processo attraverso cui l’impresa suddivide il mercato in “gruppi”, costituiti da soggetti con profili di domanda omogenei per taluni

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aspetti significativi, sufficientemente distinti tra loro. Essa consente di orientare l’impresa sia nella scelta della modalità competitiva, sia nell’implementazione della strategia competitiva, sia nell’allocazione tra i differenti mercati e prodotti. La segmentazione orienta la selezione dei segmenti nell’ambito dei quali le strategie di focalizzazione possono essere sostenibili. Si prefigge di identificare le differenze nei bisogni, nelle preferenze e nei comportamenti d’acquisto e uso dei clienti, orientando l’impresa alla luce delle sue risorse e competenze nella pianificazione e realizzazione di specifici programmi di marketing. 10. Una distinzione fondamentale ci sembra necessaria: esiste nella realtà di ogni mercato una segmentazione automatica, involontaria che aggrega spontaneamente consumatori e che l’azienda può subire passivamente, ed esiste poi una segmentazione voluta, strategica, dinamica che l’azienda si propone di raggiungere, d’utilizzare come un valido e sicuro mezzo per la penetrazione o il consolidamento di un mercato. 11. Il caso Levi’s: All’inizio degli anni Ottanta, Levi’s, impresa americana leader nella produzione e management intende esplorare la possibilità di entrare con la marca Levi’s in un nuovo segmento in forte sviluppo: l’abbigliamento maschile formale. Si realizza quindi un progetto che definisce la strategia di posizionamento nel nuovo segmento: prodotto di elevata qualità, immagine “tailor made”, premio di prezzo, canale department store. Per testare il progetto vengono organizzati focus Group, dai quali emerge una valutazione positiva del prodotto ma una percezione negativa dell’associazione della marca commercializzazione di jeans, si trova in una situazione di saturazione del mercato dei jeans negli Stati Uniti. Il Levi’s abbigliamento formale: “Mi sentirei a disagio a dichiarare che la marca del mio abito tailor made è Levi’s, perché Levi’s è jeans” afferma gran parte della clientela. Il management decide di andare avanti comunque; l’obiettivo è “convincere il mercato” relativamente alla proposta aziendale. Nel 1982 si stabilisce di lanciare una nuova linea, denominata Levi’s Tailored Classic, con un sostanzioso supporto di promozione televisiva. Il progetto non ha successo e dopo pochi anni Levi’s è costretta a rinunciare a quel segmento. Che cosa era successo? L’azienda non aveva ascoltato il mercato, né aveva compreso le caratteristiche del nuovo segmento incorrendo così in problemi competitivi, di prezzo, di immagine, e per parte sua il mercato aveva rifiutato di legittimare l’identità di marca storica Levi’s nel nuovo territorio: la distanza tra l’identità casual del Levi’s cinque tasche e l’abito formale classico era troppo marcata. Ma l’azienda aveva sbagliato anche le scelte di posizionamento sul mercato utilizzando un canale, il department store, orientato a una logica di ricavi per metro quadro, che ha obbligato Levi’s a diminuire progressivamente il prezzo per incrementare i volumi, e un canale di comunicazione, la televisione, che non colpiva il target prescelto, più orientato alla lettura di periodici. SAVIOLO-TESTA 2000, p.150. 12. Cfr. FOGLIO 2001, cit., p. 275 13. DELRE 2005, p.41.

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CAPITOLO IV

IL MANAGEMENT AL SERVIZIO DELLA CREATIVITA’ La moda è estro, creatività, intuito. Ma anche organizzazione, strategia, management. E queste due componenti, apparentemente contrastanti, devono convivere e amalgamarsi per assicurare il successo di un’idea imprenditoriale. Lo scenario attuale presenta nuove sfide, come una maggiore indipendenza del consumatore, una costante necessità di innovazione, il bisogno di raggiungere determinate masse critiche per far fronte a investimenti crescenti, la micro segmentazione del target, il proliferare dei concorrenti, una corretta gestione della marca, solo per citarne alcune. Il mercato dell’abbigliamento è in continua fibrillazione, il consumatore vuole costantemente nuovi stimoli, e sta agli operatori del settore creare e mantenere il rapporto con il proprio pubblico. Le aziende della moda hanno bisogno di manager “speciali”, in grado di capire la cultura e il linguaggio dei creativi; devono essere capaci di grande flessibilità e, soprattutto, di accettare una delle regole di base del settore: nella moda non basta proporre al mercato quello che il mercato vuole oggi, sarebbe già un prodotto vecchio! Occorre, invece, capire che cosa vorrà nelle prossime stagioni, ma senza spingersi troppo avanti. Questo aspetto così sottile del sistema moda, richiede l’interazione tra l’ “anima creativa-emozionale” e l’ “anima manageriale-razionale”. Questo capitolo si pone nella direzione di 145


una prima, fondamentale, razionalizzazione di un modello di management su misura per le imprese della moda.

4.1. Introduzione alle discipline manageriali Nelle discipline manageriali si va ancora alla ricerca spasmodica delle «teorie e delle leggi di mercato» intese come principi universali validi dovunque. Forse non si è compreso fino in fondo il senso radicale del cambiamento intervenuto nella nostra realtà economica, sociale e culturale: da una situazione di relativa semplicità a una non solo più complicata (in cui varrebbero in fondo le stesse regole ma da usare con maggiore maestria) ma totalmente diversa, in cui vigono regole e leggi diverse da quella precedente. Per affrontare questo «nuovo stato» le teorie di management, oltre a fare riferimento alla cultura umanistica e alle scienze sociali, oggi devono probabilmente avvicinarsi alle riflessioni della scienza che già da tempo ha affrontato questo nuovo stato definendolo con il termine di «complessità» (e ancora una volta la parola non restituisce appieno il senso del profondo mutamento). Riportiamo qui solo alcuni punti di questa tematica fondamentale. Sintetizziamo alcune delle riflessioni di studiosi e scienziati sulla complessità nella scienza: •

di fatto l’avvento della «complessità» ha escluso l’uma nità da un mondo lineare, definito uniforme immettendola in un mondo indefinito e imprevedibile.

dobbiamo, innanzitutto, accettare il fatto che la complessità si manifesta in primo luogo all’osservatore sotto forma di oscurità, di incertezza, di ambiguità e di contraddizione. 146


«complessità» non sta a indicare una semplice misura di complicazione ma il principio metodico secondo cui gli oggetti dipendono da altri oggetti, le relazioni da altre relazioni.

significa, quindi, interessarsi ai processi piuttosto che ai risultati e pensare in termini di relazioni piuttosto che di cose.

4.2. I modelli manageriali Si potrebbe dire che anche le discipline di management hanno avuto in questi anni le loro “mode”. Di fronte alla maggiore complessità e competitività, le teorie manageriali si spostano molto sugli aspetti di strategia competitiva. Aumenta così l’importanza dell’analisi strategica e del sistema informatico strategico. Alle analisi e ai sistemi di monitoraggio del mercato, dei consumatori, dei clienti, si aggiungono i monitoraggi sui trend sociali e culturali e le analisi della concorrenza allargata. L’attenzione del management si sposta sempre di più sugli aspetti esterni dell’azienda rispetto alle attività di programmazione e di pianificazione legate a costruzioni mentali e a modelli che avevano spesso fatto perdere di vista la realtà del mercato e i suoi cambiamenti. «La programmazione strategica senza una visione strategica non ha senso».1 Finalmente viene compreso il marketing nel suo vero significato: non come strumento di sviluppo commerciale, ma nella sua vera essenza strategica, come modo diagnostico di pensare e di gestire l’azienda, basato sul rapporto intelligente fra azienda e ambiente esterno. Per togliere al marketing l’etichetta (sovente attribuitagli) di «manipolazione» commerciale, alcuni preferiscono 147


parlare di orientamento al mercato o alla clientela. Ma le abitudini restano. Perciò, probabilmente, il termine più attuale per indicare il «rapporto esterno», la relazione fra l’azienda e il mercato, è «strategia», che comprende non solo il rapporto con i mercati, i consumatori, ma anche l’attenzione ai competitori e agli altri attori presenti nell’arena competitiva. Osservando il settore della moda emergono chiaramente due modelli manageriali vincenti: 1. Aziende orientate alla leadership di identità: modello valido per imprese in cui il progetto non è mirato solo al prodotto ma all’identità dell’offerta globale. L’accento è posto sulla ricerca dei propri caratteri distintivi come strumento vitale di sviluppo dell’identità. Non un posizionamento presso target specifici ma un posizionamento nell’immaginario dell’individuo, del possibile cliente. Sono quindi aziende orientate a una «leadership d’identità» verso l’identità di tutti gli ingredienti che compongono l’offerta globale; 2. Aziende advanced marketing oriented: un altro livello di segmentazione è rappresentato da aziende che non vogliono, o non riescono, a individuare uno stile proprio che funzioni sulle distinzioni, sulle differenze. Aziende con un occhio molto forte sul mercato, sulle opportunità, con una forte capacità di allargare il portafoglio-prodotti, seguendo esigenze e ispirazioni che compaiono sul mercato. Se il primo livello ha una vocazione da trend setter e leader (cioè da capostipite), le aziende orientate all’advanced marketing hanno una vocazione da “miglioratore”, di continuo adeguamento alle problematiche della clientela di riferimento. L’adeguamento delle tecniche manageriali alle nuove situazioni 148


L’adeguamento delle tecniche manageriali alle nuove situazioni competitive sviluppa altre aree e altri temi: l’ancoraggio al concetto di business e la visione sistemica dell’azienda, la flessibilità, la rapidità d’implementazione delle decisioni prese, il marketing interno. Si sviluppano l’internazionalizzazione delle produzioni e le attività di partnership, di joint venture2 al fine di mettere assieme sinergicamente forze diverse e di adeguarsi di più alle differenze locali e culturali.

4.3. Un modello di management “artistico” L’epoca industriale ha scelto come unico modello quello centrato sugli aspetti materiali e ha posto quindi la fabbrica al centro dell’impresa. Questo è il modello organizzativo che perdura anche oggi, nonostante l’inserimento di varianti qualitative, relative però più all’ «umanizzazione» delle fabbriche che alla modifica del modello. Nel sistema industriale classico gli aspetti immateriali relativi alla comunicazione, alla distribuzione, alla pubblicità, sono normalmente delegati all’esterno, con essi la creatività. E, anche se vengono svolti all’interno dell’industria, non fanno però parte del progetto iniziale ma sono sempre aggiunti dopo. Anche la vendita, cioè il rapporto con il cliente, risulta l’ultimo atto del processo, mentre invece concettualmente deve diventare il primo. Questo modello di gestione da «direttore d’orchestra», oltre che nelle aziende di punta della moda dove il designer/stilista, o l’imprenditore leader, sovraintende veramente a tutti gli aspetti delle attività progettuali e di comunicazione, si sta riproducendo in forma 149


diversa in vari tipi di aziende dell’abbigliamento, anche quelle grandissime che ragionano «per linea», cioè per unità di business.

4.4. Una concezione moderna di logistica: il supply chain management Le origini del Supply Chain Management vanno ricondotte al 1958, quando un pioniere dell’ ingegneria informatica americana, Jay W. Forrester scrisse: «Management is on the verge of a major breakthrough in understanding how industrial company success depends on the interaction between the flows of information, materials, money, Manpower, and capital equipment».3 Per i manager, il più radicale cambiamento portato dal Supply Chain Management ha riguardato il modo di operare e di percepire il contesto. Il cambiamento di prospettiva richiesto sembra essere una delle maggiori barriere alla sua realizzazione. Infatti ha portato a modificare il punto di vista ed il modo di operare dei manager appartenenti a diversi contesti settoriali, ma è ben lontano da coinvolgere tutta la categoria. Si riferiscono al Supply Chain Management (SCM), ovvero gestione della catena di fornitura, tutti quei processi di gestione aziendale che consentono di ottimizzare la consegna di prodotti, servizi ed informazioni dal fornitore al cliente. Letteralmente “gestione della catena di approvvigionamento”, l’SCM è una metodologia che mira alla previsione e al controllo della catena delle vendite di un prodotto da parte del produttore e si fonda sui principi della logistica.

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4.4.1. Il supply chain e la competitività nel Fast Fashion Il supply chain, come già detto, è una rete di organizzazioni coinvolte, attraverso collegamenti a monte e a valle, in differenti processi e attività per produrre valore sottoforma di prodotti e servizi destinati a un consumatore finale. L’obiettivo è, quindi, quello di collegare il mercato, la rete di distribuzione, il processo di produzione e l’attività di approvvigionamento per fare in modo che i clienti siano assistiti ai massimi livelli e con costi meno elevati. Gli attori all’interno della supply chain possono essere raggruppati in due differenti tipologie: agenti di produzione ed agenti di servizio. Nella prima categoria sono compresi: i punti di vendita al dettaglio (retailer); i punti di vendita all’ingrosso (wholesaler); i centri di distribuzione e gli impianti di produzione. Nella categoria degli agenti di servizio sono comprese le aziende di trasporto, che operano per il trasferimento fisico dei prodotti e le aziende di servizi, che sviluppano tutti i processi di supporto agli attori di produzione (come la gestione delle informazioni, il coordinamento delle attività, i servizi finanziari e di ricerca e sviluppo). La definizione delle scelte che l’organizzazione attua all’interno del network è funzione del ruolo che essa andrà a ricoprire. In base a queste considerazioni, i ruoli che le organizzazioni possono ricoprire rimandano a quattro gruppi: →

Partner nominali: qualsiasi organizzazione che fornisca un

prodotto o un servizio fondamentale, ma il cui successo è indipendente dal successo della supply chain. Sono generalmente in numero molto elevato ma anche facilmente sostituibili, fornendo esclusiva151


mente il collante tra le varie organizzazioni; →

Partner commerciali: l’organizzazione gioca un ruolo fon-

damentale all’interno del supply chain e il suo successo sul mercato dipende dal successo della rete, svolgendo la maggior parte delle attività di acquisto e vendita al suo interno. Un partner commerciale realizza l’intero ciclo ordine-consegna-pagamento all’interno del network; →

Partner strategici: reti complesse a diffusione internazio-

nale, possono presentare diversi agenti sparsi e isolati o molti stadi popolati esclusivamente da partner nominali; →

Partner leader: è il partner che concepisce e sviluppa la

rete, raggruppa gli altri, guida la definizione delle strategie di business e mantiene l’allineamento delle attività. Le relazioni tra partner stabiliscono il livello di competitività della rete, definendone il set di regole di business applicabili per gestire il ciclo economico-finanziario.

4.4.2. Il Supply chain nella catena logistica L’ambiente in cui operano le imprese, come abbiamo visto, è profondamente mutato, e con esso l’organizzazione aziendale. Nel tempo, infatti, si è assistito ad un progressivo spostamento del controllo del mercato dal prodotto al cliente; è ormai consolidata la necessità di monitorare, anticipare e controllare i fenomeni di vendita, prevedendo l’evoluzione dei consumi e delle tendenze del mercato. Ad essere coinvolta è l’azienda nella sua totalità ma un ruolo determinante è co152


munque ricoperto dalla catena logistica. Da un ruolo secondario che tradizionalmente rivestiva, attualmente la logistica è stata rivalutata anche grazie all’affermazione di internet e delle nuove modalità di scambio di beni e servizi da esse introdotte. La logistica, per qualsiasi tipologia di impresa, ha assunto in questi ultimi anni una valenza strategica, contribuendo ad aumentare la redditività dell’intero “processo di business” aziendale. La gestione logistica, in una visione prettamente tradizionale, si occupa principalmente dell’ottimizzazione dei flussi materiali (beni) e di quelli immateriali (informazioni) all’interno dell’impresa. Il Supply Chain Management riconosce che l’integrazione limitata all’interno dell’azienda non è più sufficiente. Oggi è diventato necessario ed indispensabile il coinvolgimento anche della rete di imprese che si trovano a monte e a valle nei processi e nelle attività che producono valore in termini di prodotti e servizi al consumatore finale. In sostanza, il Supply Chain Management si fonda sulla logistica e mira a costruire ed ottimizzare i legami e il coordinamento tra fornitori, clienti e distribuzione. Scopo primario del SCM è quello di massimizzare il livello di servizio al cliente finale e la collaborazione gioca un ruolo primario.

4.5. L’analisi SWOT Un’analisi di supporto alle scelte del management è l’analisi SWOT (Strenghts Weaknesses Opportunities Threats). Questa risponde all’esigenza di razionalizzazione dei processi decisionali. Tale tecnica si è sviluppata da più di cinquant’anni ed è finalizzata allo studio 153


di casi aziendali caratterizzati da incertezza e forte competitività. Per l’appunto, intende focalizzarsi sia sui punti di forza che di debolezza dell’impresa, nonché sulle opportunità e minacce con cui dovrà confrontarsi. Tale modello di analisi, fondamentale nell’impostazione di un’efficace strategia di marketing, si basa essenzialmente su due concetti fondamentali: le competenze distintive ed i fattori chiave di successo. L’analisi SWOT ha come premessa la distinzione tra fattori endogeni e fattori esogeni. I fattori endogeni riguardano tutte quelle variabili che sono parte integrante del sistema e sulle quali è possibile intervenire. I fattori esogeni invece, sono rappresentati da variabili esterne al sistema, che possono però condizionarlo; su di esse non è possibile un intervento diretto ma è necessario tenerle sotto controllo in modo da sfruttare gli eventi positivi e prevenire quelli negativi. Attraverso l’analisi dei punti di forza e di debolezza, l’impresa riesce ad individuare le sue competenze distintive; successivamente, attraverso l’analisi delle opportunità e delle minacce, l’impresa stessa rivolge la sua attenzione all’esterno, ovvero al mercato, con l’obiettivo di migliorare la sua posizione competitiva. 4.5.1. Esempio: l’analisi SWOT di Zara Punti di forza

a) marchio in forte espansione a livello mondiale; b) strategia basata sul tempo e non sui costi; c) alta flessibilità; d) fatturati in costante crescita.

Punti di debolezza a) costante pressione rivolta agli stilisti per il 154


turnover dei capi; b) potere direttivo accentrato nella figura di Ortega. Opportunità

a) continua espansione del marchio a livello mondiale; b) acquisizione di nuovi marchi e relativo abbattimento dei costi.

Minacce

a) Mercato instabile; b) entrata di nuovi competitors; c) ribasso nel mercato della borsa; d) congiuntura economica negativa.

4.6. Retail management Nel settore moda la distribuzione delle collezioni avviene mediante i canali retail e wholesale. Nel retail le attività di vendita al consumatore finale sono direttamente controllate dall’azienda attraverso negozi di proprietà o in franchising, cataloghi o siti web. Nel wholesale le attività di vendita sono gestite attraverso l’impiego di intermediari commerciali. Il retail include pertanto format monomarca come flagship stores5 e self-standing stores6 , mentre il canale wholesale si riferisce alla distribuzione dei prodotti della griffe in canali multimarca come i department stores, i concept stores, i negozi indipendenti o le catene specializzate.

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4.6.1. Il canale retail Di norma collocati nelle vie dello shopping più esclusive e prestigiose delle capitali della moda e di altre città di rilevanza mondiale, i flagship store rappresentano un formato caratteristico delle griffe del lusso, anche se non mancano casi di brand globali appartenenti ad altri settori che utilizzano questo formato. E’ il caso, ad esempio, del Diesel Store di New York, dei Niketown di Londra o dello spazio di quattro piani che H&M ha recentemente aperto a Roma. Questi negozi di bandiera sono vere e proprie cattedrali del consumo. Nonostante l’elevata ampiezza e la profondità dell’assortimento, l’obiettivo principale dei flagship store non sono i volumi di vendita ma il rafforzamento dell’immaginario di marca. Questi negozi ospitano, infatti, tutte le linee e tutte le categorie di prodotto per tutti i target, al fine di generare un’esperienza di marca totale. I notevoli investimenti necessari per creare e mantenere queste strutture, uniti alla necessità di preservare l’unicità e l’esclusività dell’esperienza di marca, fanno sì che il numero dei flagship store sia limitato a poche unità per ogni mercato geografico, concentrando le aperture soltanto nelle principali capitali globali del lusso. Pur non rinunciando alle componenti comunicative ed esperienziali dell’ambiente di vendita, i self-standing stores, chiamati oppure più semplicemente boutique o negozi monomarca, si caratterizzano invece per una vocazione spiccatamente commerciale. Rappresentano, pertanto, una soluzione di gran lunga meno costosa e redditizia rispetto ai flagship store. La numerosità dei punti vendita e la capillarità della distribuzione, fanno di questo canale il principale strumento per rendere accessibile il brand ai consumatori e generare volumi. 156


Nel canale retail rientrano anche le attività di vendita gestite attraverso piattaforme di e-commerce monomarca, cataloghi e varie forme di temporary stores. Queste formule commerciali temporanee sono utilizzate, in gran parte, per testare nuove aree di mercato e creare conoscenza di marca sul brand, riducendo al minimo l’ammontare degli investimenti.7 Sono manifeste espressioni del cosiddetto popup retail8, spesso utilizzati per testare nuovi formati o nuove aree di mercato.

4.6.2. Il canale wholesale Collocati nelle aree più alla moda delle città, i concept stores, sono punti vendita altamente esperienziali che combinano categorie merceologiche diverse ad aree come gallerie d’arte, caffetterie e addirittura B&B. Analogamente ai flagship stores, gli spazi, gli assortimenti e le iniziative di comunicazione sono finalizzati a mettere in discorso un mondo possibile costruito attorno a uno stile di vita (un concept) specifico, offrendo al consumatore un’esperienza totale che va al di là del semplice atto di acquisto. Se i concept stores sono caratterizzati da un posizionamento di prezzo alto e medio-alto, i department stores sono in grado di soddisfare le esigenze di una clientela più variegata. La caratteristica principale di questo format di vendita è di distribuire in un unico spazio un assortimento molto ampio e variegato. A differenza dei concept stores, in cui le diverse categorie merceologiche si distribuiscono in modo disomogeneo fra le varie aree dello spazio di vendita, seguendo criteri di complementarietà, nei department stores la collocazione delle categorie segue 157


criteri molto più rigidi. Ogni categoria di prodotto è, infatti, collocata all’interno di un reparto specifico (department) del punto vendita. La Rinascente di Milano, ad esempio, dedica il piano interrato ai libri e a una caffetteria; il piano terra alle fragranze e ai cosmetici; il primo piano alle prime e seconde linee di accessori di marchi del lusso; il secondo piano al formale uomo; il terzo piano all’uomo casual; il quarto piano alle collezioni femminili di fascia media e via dicendo. Sicuramente, tra i format emergenti, quelli che stanno riscuotendo maggiore successo sono i negozi indipendenti che abbracciano il canale dell’e-commerce. Maggiormente colpiti dalla crisi oppure dalla concorrenza delle catene o delle boutique monomarca, questi negozi, che per oltre quarant’anni hanno caratterizzato il tessuto distributivo italiano, oggi sono sempre più costretti a reinventarsi, rivedendo il proprio concept di vendita affidandosi necessariamente alla sicurezza che apporta una strategia di vendita on line quale l’e-commerce.

4.7. Come definire la strategia Come anticipato nei capitoli precedenti, qualsiasi iniziativa di prodotto, comunicazione o retail non deve lasciare alcuno spazio all’improvvisazione, ma essere il frutto di un accurato processo di pianificazione strategica. Tale processo deve essere strutturato facendo costante riferimento a tre coordinate fondamentali: (1) gli obiettivi, (2) i target, (3) il budget e le risorse a disposizione. La coordinata che spesso si perde di vista, paradossalmente, è quella più importante: gli obiettivi. Un errore molto diffuso fra gli studenti, 158


ma non solo, è quello di iniziare a pianificare in maniera creativa numerose attività, senza avere alcun punto di riferimento in termini di obiettivi e, dunque, di strategia. Le attività vanno pianificate facendo riferimento a obiettivi dettagliati in modo chiaro e preciso, in grado di generare risultati misurabili, compatibili con lo scenario di riferimento o le risorse a disposizione, rilevanti per la clientela obiettivo e riferiti a uno specifico intervallo temporale. Nonostante questa semplice formula, la definizione degli obiettivi risulta spesso un’operazione assai problematica che, se non affrontata con il dovuto rigore metodologico, rischia di degenerare nell’approssimazione, facendo perdere di coerenza e di consistenza all’impostazione strategica del piano. Il primo step per superare tali difficoltà è far precedere la definizione degli obiettivi da un’accurata analisi che dovrà avere come oggetto: (1) il brand stesso, in particolare la sua mission, la sua identità, il suo posizionamento strategico, il marketing mix e le sue performance; (2) le variabili macroambientali dei mercati geografici in cui saranno organizzate le attività oggetto del piano; (3) le tendenze estetiche e socioculturali che li stanno investendo; (4) le loro dinamiche concorrenziali e i loro scenari competitivi; (5) le caratteristiche distintive dei consumatori finali. Risulterà utile sistematizzare le informazioni facendo riferimento a strumenti classici del marketing e del brand management, come le mappe di posizionamento oppure i modelli di analisi della marca, che possono essere utilizzati come veri e propri “strumenti diagnostici” per la messa a punto degli obiettivi che faranno da sfondo alla strategia del piano. A questo proposito, può essere di estrema utilità anche una semplice analisi SWOT, che sintetizza i punti di forza e i punti di debolezza dell’attività di impresa rispetto ai competi159


tor, confrontandoli con le opportunitĂ e le minacce provenienti dalle variabili variabili macroambientali. Sintetizzare il piano con queste matrici consente pertanto di agevolare il lavoro di revisione, identificando i livelli di prioritĂ e di rilevanza strategica di ciascuna attivitĂ , individuando le attivitĂ da mantenere, quelle da modificare e quelle da eliminare, tenendo costantemente sotto controllo costi, obiettivi e pubblici di riferimento.

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Note al Capitolo 4 1. BUCCI 1998, p. 102. 2. Joint venture: Si tratta di una società mista, un accordo di collaborazione tra due o più imprese. Le imprese che decidono di collaborare si pongono come obiettivo la realizzazione di un progetto comune che prevede l’utilizzo sinergico di risorse apportate da ciascuna singola impresa partecipante, facilitandone così la messa in opera. Esempio valido e piuttosto recente, è la costituzione della nuova Joint -venture strategica in Australia per il gruppo Ermenegildo Zegna. Il Gruppo ha acquisito il 60% della Achill, storica fattoria di 2.500 ettari specializzata nell’allevamento di pecore di razza Merino. Il socio di minoranza australiano della Achill, Tyrell Coventry, manterrà la responsabilità della gestione dell’azienda. L’accordo era stato annunciato a Sidney da Paolo Zegna, presidente del colosso biellese del tessile-abbigliamento, all’inizio di luglio (“Il Sole 24 Ore” del 10 luglio 2014). La mandria Achill conta circa 12.500 ovini e mille bovini, allevati all’aperto secondo pratiche di pascolo moderne, il che contribuisce all’eccellenza della lana prodotta. Per il gruppo Zegna la lana fine e superfine, e in particolare la Merino, è strategica: nel 70% dei prodotti c’è questo filato, una percentuale molto alta, se si considera che l’offerta del gruppo (leader nel segmento maschile di fascia alta, ma presente anche nel segmento donna) comprende cravatte, foulard, camicie, pelletteria e moltissimi altri articoli in cui la lana, ovviamente, non viene usata. La joint-venture è la prima unione commerciale tra un grande marchio internazionale della moda ed un’azienda agricola della lana in Australia. La realizzazione di una joint venture è altresì possibile nella soluzione dell’ e-commerce, come verificatosi nel caso di PPR, holding multinazionale francese, e Yoox, azienda italiana che si occupa di e-commerce nel settore della moda e del design. Le due società web hanno firmato un accordo nel 2012, costituendo una società - partecipata al 51% da PPR e al 49% da Yoox Group – interamente dedicata alla gestione degli online store mono-marca di numerosi brand del lusso del Gruppo PPR: Bottega Veneta, Yves Saint Laurent, Alexander McQueen, Balenciaga e Sergio Rossi. La joint venture fa leva sulle posizioni di leadership di PPR e YOOX Group nei rispettivi settori, con l’obiettivo ultimo di potenziare gli attuali siti e-commerce dei brand del lusso, accelerando lo sviluppo della loro presenza digitale a livello globale per offrire un’esclusiva esperienza di shopping online a tutti i clienti nel mondo. Come parte integrante della propria strategia, i brand hanno la piena gestione del proprio negozio online, occupandosi dell’assortimento del prodotto, dei contenuti editoriali, della direzione artistica e della comunicazione digitale. 3. Trad. “Il management è sul punto di compiere un importante passo in avanti nel comprendere come il successo di un’azienda del comparto industrial dipende dall’interazione tra flusso d’informazioni, materiali, denaro, forza lavoro e dotazione di capitali”. Entwistle pp. 37-66. 4. SCOZZESE 2012, p. 23-99. 5. Il flagship store è una tipologia di punto vendita, un negozio, che attraverso le sue caratteristiche rappresenta una sorta di modello che propone il mood e la qualità del servizio al cliente secondo la scelta del marchio. Spesso viene

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inaugurato un flagship store anche per dare una svolta allo stile e al format del marchio attualizzando l’immagine data al pubblico esterno. Qui, l’assortimento delle collezioni è più ampio, come la superficie espositiva. Solitamente questo tipo di negozio serve a rappresentare e introdurre il cliente ad un nuovo posizionamento all’interno dell’area politica-commerciale del marchio. Il concept, lo stile e il design della location variano a seconda dello stile della griffe. 6. Self standing stores. Spazio commerciale, in franchising o di proprietà, di medie dimensioni, situato all’interno dei centri commerciali. La proliferazione dei centri commerciali sembra non avere sosta, soprattutto per la loro capacità di attrarre consumatori indipendentemente dalla vendita. Sono rivolti a un pubblico generalista, molto ampio per target, comunque abbastanza attento alla moda. 7. IRONICO 2014, p. 239 8. Il cosiddetto negozio a tempo è appunto un esercizio temporaneo, resta aperto solo per un lasso di tempo predeterminato e relativamente breve. Benché piccoli e transitori, questi negozi sono spesso in grado di attirare l’attenzione dei consumatori. Essi compaiono in zone particolarmente in vista, proponendo le ultime novità: l’obiettivo è quello di creare un evento effimero che si leghi a un messaggio temporaneo duraturo, specialmente nelle politiche di marketing delle grandi marche. L’innovatività del concetto di negozio a tempo e della sua organizzazione modifica notevolmente i canoni abituali della vendita al dettaglio. La stessa merce venduta nei negozi temporanei, specie nel campo dell’abbigliamento e della moda in generale, è prodotta in edizione limitata, e la fornitura diretta delle imprese al dettagliante consente di praticare prezzi inferiori a quelli medi dei negozi tradizionali equivalenti. Il negozio temporaneo viene anche segnalato come tentativo di risposta alla crisi economica attuale, in quanto soluzione che consente, almeno parzialmente, un abbattimento di costi fissi quali i canoni di affitto degli immobili.

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CAPITOLO V

INTERNAZIONALIZZAZIONE DI UN MODELLO ITALIANO Nei capitoli precedenti abbiamo visto come il Made in Italy possa essere considerato metaforicamente un “vettore di senso”, un “motore semiotico” in grado di dar vita ad un universo evocativo che ruota attorno a un sistema di valori base. Del settore moda, il sistema Italia gode di gradi di specializzazione e reputazione talmente riconosciuti da costituire un valore aggiunto nel panorama internazionale. L’estro, il gusto e l’abilità artigiana sono certamente all’origine del fenomeno moda. Oggi, tuttavia, l’accezione restrittiva del termine – che è più propria dell’alta moda – ha ceduto il passo ad un’accezione più ampia che interessa tutta una serie di attività industriali, artigiane e commerciali e un tipo di mercato che possiamo senz’altro definire di massa. Oltre a ciò occorre aggiungere che le attività produttive a monte del prodotto moda sono quelle tradizionali e perciò più vulnerabili in periodi di rapido sviluppo o di crisi di un sistema economico. Queste brevi notazioni sono già sufficienti per impostare una serie di considerazioni sul futuro di un settore così importante per il nostro Paese, soprattutto visto in funzione della nostra presenza sui mercati internazionali.1 Dovendosi riconoscere nella domanda estera l’elemento portante della dinamica del settore, la sua politica industriale deve in via prioritaria indirizzarsi all’espansione sui mercati stranieri. A ben vedere, allora, risulta legittimo domandarsi quale valore abbia, e se 163


lo ha come lo giustifica, la produzione locale a fronte di un consumo globale, in un contesto attuale così dinamico e ricco di minacce. In altre parole, il quesito che si pone oggigiorno all’attenzione di tutti e che costituisce l’essenza del presente capitolo, è il seguente: il Made in Italy ha senso nel panorama ipercompetitivo del mercato globale o, viceversa, è destinato a soccombere nella corsa all’abbattimento dei prezzi inesorabilmente vinto dai competitors asiatici? La tesi che in questa sede s’intende avvalorare è che continuare a produrre localmente e difendere fermamente la marchiatura d’origine, per far sì che il mondo valoriale creato nei secoli non venga in poco tempo distrutto, ha senso solo in vista di un profondo e radicale cambiamento del modello stesso di Made in Italy, un modello sicuramente di successo ma che richiede un opportuno riposizionamento, specie sul mercato internazionale. Quesiti che sorgono spontanei, data la presenza di opinioni che declassano l’Italia a Paese senza futuro, con un’ineluttabile declino che l’attende dietro l’angolo. Opinioni che trovano il sostegno di fonti autorevoli, nazionali e internazionali: «Il modello di specializzazione dell’Italia è retto da una limitata capacità innovativa».2 Il presente capitolo si propone, dunque, di indagare sull’andamento dell’internazionalizzazione del settore moda italiano, che rappresenta per le aziende della moda un’ineluttabile scelta strategica da considerare e da percorrere come un fenomeno continuativo, non occasionale e foriero di crescita. A tal fine si analizzano le modalità di internazionalizzazione che hanno caratterizzato l’apertura del settore oggetto di analisi verso i mercati mondiali durante l’ultimo decennio. Le conclusioni si prefiggono di contemperare le singole analisi e fornire dunque un utile riferimento circa le dinamiche di 164


sviluppo estero del settore.

5.1. Internazionalizzazione produttiva e di mercato L’internazionalizzazione produttiva e di mercato è un elemento che già da molto tempo caratterizza fortemente la filiera della moda.3 Si è ampiamente osservato nel corso di questo lavoro come il tessileabbigliamento sia tradizionalmente uno dei settori più coinvolti nel commercio internazionale, rappresentando per l’Italia una delle industrie che ha maggiormente contribuito ai saldi attivi della bilancia commerciale. Sul piano dell’organizzazione della produzione, il trasferimento all’estero di alcune fasi della lavorazione è un fenomeno che già dalla metà degli anni Ottanta ha raggiunto dimensione significativa. Questa tendenza ha avuto due riflessi paralleli: da un lato lo sviluppo di forme intense di collaborazione con imprese estere, anche nella forma di joint venture ; dall’altro, la localizzazione all’estero di stabilimenti produttivi. Nella fase attuale, l’aspetto che appare maggiormente rilevante è la pressione competitiva esercitata sul fronte della produzione. E’ una competizione esercitata, da un lato, sul piano dell’offerta nei mercati internazionali e in particolare in quelli dell’Europa occidentale di prodotti con un fortissimo vantaggio di prezzo anche nelle fasce medie del mercato; dall’altro, sul piano della localizzazione industriale con l’offerta nelle province cinesi, in particolare, in quelle costiere o nell’immediato entroterra, di condizioni di insediamento produttivo estremamente convenienti dal lato dei costi. I due fenomeni evidenziati generano un’azione convergente nel 165


ridurre gli spazi di sostenibilità economica degli stabilimenti produttivi operanti in molte aree dell’Europa occidentale tra le quali l’Italia. Occorre, peraltro, ricordare che la pressione competitiva esercitata dalla produzione “made in China” non è basata soltanto sul minor costo e la maggiore efficienza dei fattori della produzione industriale. Il crescente sviluppo economico e sociale della Cina ha però anche un evidente effetto positivo, poiché implica la crescita quantitativa e qualitativa del mercato interno. Per raggiungere una posizione competitiva nei mercati asiatici, sembra preferibile disporre di una presenza diretta nel territorio, attraverso la localizzazione di linee di produzione o, almeno, di assemblaggio del prodotto finale e di una vasta rete distributiva. La necessità di raggiungere una presenza “forte” nel mercato cinese pone due problemi molto rilevanti anche nella prospettiva della politica industriale. Il primo concerne la necessità delle imprese di dotarsi di struttura organizzativa, competenze manageriali e capacità tà finanziarie adeguate per localizzarsi in modo efficace in mercati lontani e di grandi dimensioni. La focalizzazione degli sforzi produttivi verso questo mercato rafforza naturalmente la delocalizzazione industriale dall’Italia e dagli altri Paesi. In definitiva, lo sviluppo del mercato interno cinese, rafforzando inevitabilmente l’attrazione verso quell’area di investimenti produttivi e di fattori della produzione, avrà un effetto paradossale sul tessuto imprenditoriale italiano ed occidentale in generale.

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5.2. La gestione internazionale delle attività della catena del valore Negli ultimi decenni la gestione delle attività aziendali ha subìto una serie di cambiamenti che possono far pensare ad una vera e propria rivoluzione. Alla base di questi mutamenti vi sono fenomeni ben noti, come la globalizzazione dei mercati – della quale parleremo più approfonditamente nel paragrafo successivo -, l’accresciuta competizione fra aziende e la necessità da parte delle imprese di utilizzare tutte le risorse disponibili a livello mondiale. Attualmente, sempre più di frequente, l’internazionalizzazione delle aziende non si limita ad una semplice attività di vendita all’estero con punti vendita propri o in franchising5 ma è un processo di dispiegamento geografico dell’intera filiera produttiva dell’impresa per cogliere le migliori condizioni nei diversi mercati, sia quelli di approvvigionamento dei fattori, sia quelli di sbocco dei prodotti, sia quelli dove meglio si realizza la produzione. Per un’impresa che desideri massimizzare la propria efficienza operativa come leader in un mercato globale caratterizzato da una forte competizione sul prezzo, risulta indispensabile un ripensamento generale delle attività dell’intera catena del valore assumendo scelte strategiche sia in ambito geografico (riguardanti la delocalizzazione/internazionalizzazione) sia sul piano prettamente strutturale (di integrazione/esternalizzazione). Si parla pertanto di “forme di internazionalizzazione” andando a contemplare, oltre alla “internazionalizzazione commerciale” (ovvero dei canali distributivi), anche quella che interessa gli approvvigionamenti, la produzione, la ricerca e infine l’assetto finanziario. Analizzando la strategia globale delle imprese di abbigliamento se ne evince innanzitutto che è argo167


mento molto differenziato al suo interno. Non solo appare diversa la delocalizzazione internazionale delle attività, ma anche il numero e il tipo di attività che esse hanno internalizzato e che gestiscono autonomamente. Esistono, infatti, aziende (come H&M) che svolgono solamente attività legate alla logistica e alla distribuzione lasciando esterne le attività di produzione e rifornendosi da aziende indipendenti (external suppliers); ci sono invece aziende che svolgono internamente le attività di disegno e di produzione, ma viceversa la maggioranza dei loro negozi non sono di proprietà ma in franchising (come Benetton); infine ci sono aziende (come Zara) che rappresentano la struttura del retailer totalmente integrato.6 Le motivazioni riguardanti l’internazionalizzazione di ognuna di queste attività sono riconducibili all’obiettivo finale della massimizzazione del valore per il cliente, intendendo con ciò non solo il rapporto qualità-prezzo, ma anche la velocità di risposta al mercato da parte dell’azienda, fattore sempre più vincolante nelle scelte localizzative. La ricerca continua di quanto di migliore e di meno costoso si renda disponibile nel mondo richiede una gestione flessibile della supply chain e contemporaneamente un’intera informatizzazione della rete in modo da controllare in tempo reale i flussi fisici ed informativi.

5.3. Il mercato globale. La battaglia concorrenziale Il business della moda ha assunto un connotato interplanetario, proprio perché è un derivato della multicultura e si riversa su di una società universale. Il quadro di riferimento, oggetto del nostro esame 168


parte da un dato di fatto incontestabile: che cioè l’offerta di moda, oggi, deve sostenere una sfida che non ha più il connotato solamente nazionale, ma globale. L’ampliarsi del suo raggio d’azione induce il settore ad adattare il suo modo di produrre, di organizzarsi, di vendere.7 Dinanzi questo mercato globale ci vogliono imprese globali, strategie di marketing globale, ci vuole uno styling globale, immagine e messaggi globali. Ciò significa investimenti e professionalità rispettivamente da riversare e impegnare nel villaggio globale. La messa in atto di una valida strategia da parte dell’impresa rientra in questo contesto. Essendo la moda principalmente competizione, vince chi ottiene il maggiore consenso e per ottenerlo bisogna ingaggiare una sostenuta battaglia concorrenziale. Il contesto in cui l’impresa deve e dovrà agire resta altamente competitivo, infatti siamo in presenza di un’offerta che ha superato la domanda; certi “errori” di sottovalutazione della battaglia concorrenziale non sono più possibili, pena la fuoriuscita dal mercato o una presenza molto difficoltosa. Lo scenario prevede per il mercato italiano un continuo e progressivo aumento delle importazioni da paesi a basso costo del lavoro. La battaglia si scatenerà soprattutto nell’offerta di prodotti per la fascia media e medio-bassa. La concorrenza si farà sentire soprattutto da parte dei paesi dell’Est Europa, del Nord Africa (Tunisia e Marocco), del Sud Est asiatico, nonché europei come Portogallo, Grecia; infatti questi paesi grazie anche alle tecnologie che vengono loro offerte, al grande sviluppo di autonome capacità creative, produttive, di marketing, di vendita, d’esportazione, continueranno a migliorare il livello qualitativo dei propri prodotti. Tutte queste considerazioni 169


portano ad un imperativo: le imprese italiane per mantenere il loro primato dovranno obbligatoriamente essere competitive; il che significa disporre di competitività nella sua più completa accezione, avere i prodotti ineccepibili dal punto di vista qualitativo, di styling, di valenza moda, d’affidabilità, di marketing, di buon servizio, nonché di prezzo giusto; solamente con questi elementi si potrà competere e quindi vincere la non facile sfida che lo scenario ipotizza. La continua e rapida trasformazione del mercato della moda comporta come logica conseguenza alle imprese un profilo strategico sia per mantenere la loro posizione che per accrescerla. Gli obiettivi che possono essere conseguiti con la strategia di marketing riguardano: •

Obiettivo generale strategico: incremento della quota di mercato;

Obiettivi di mercato: maggiore livello di penetrazione, maggiori vendite, migliore riscontro da parte del canale distributivo e del consumatore;

Obiettivi economici-finanziari: miglioramento generale della performance economico-finanziaria, maggiore resa delle risorse finanziarie impiegate, ottimizzazione dell’efficienza del processo produttivo, maggiore produttività, incremento della redditività, migliori margini di contribuzione, diversificazione del rischio, aumento della redditività degli investimenti e veloce rientro sugli stessi.

Al fine d’ottenere buoni risultati diventa quanto mai necessario trovare il giusto equilibrio competitivo di quei punti forti, quei vantaggi che l’attività di ricerca di mercato ha a suo tempo individuato e 170


ritenuto fondamentali per rafforzare l’approccio strategico di marketing; tutti questi vantaggi competitivi indicheranno chiaramente ed efficacemente la via da percorrere per inserirsi nella competizione e puntare al successo.

5.4. Le strategie d’internazionalizzazione Nel panorama appena delineato, emergono alcune questioni e decisioni di impatto strategico. L’attuale grado di globalizzazione e concorrenzialità dei mercati induce ad un’inesausta selezione e valutazione delle leve di marketing sulle quali si concentra l’agone competitivo, richiedendo particolare attenzione nel valorizzare tali leve e nell’impedire che proprio con riguardo alle stesse si verifichino fenomeni di disservizio, inefficienza e soprattutto incoerenza rispetto alla percezione del cliente finale. La strategia di penetrazione del mercato prevede due interventi specifici: •

Strategia di penetrazione rapida: si riesce a penetrare il mercato moda con una certa rapidità se si può disporre d’un prodotto a un prezzo basso e se ci sono consistenti risorse da investire in comunicazione e promozione;

Strategia di penetrazione lenta: si penetra il mercato con un prodotto a prezzo sempre basso, ma anche con un basso livello degli interventi di comunicazione e promozione; evidentemente il prezzo basso favorirà una buona accettazione del prodotto, ma non essendoci supporti di comunicazione e promozione, la penetrazione del mercato verrà posticipata nel tempo. Il mancato 171


sostegno finanziario per gli interventi di comunicazione non farà che aumentare il profitto netto dell’impresa.

Oggi più che mai l’impresa deve avere tra i suoi primi traguardi la conquista dei mercati esteri: infatti il processo d’internazionalizzazione a livello di prodotto e di tecnologia, la dimensione internazionale della battaglia concorrenziale, i consumatori sempre più internazionali, la necessità d’avere maggiori sbocchi alla produzione, il crescente sviluppo degli scambi internazionali, costituiscono i fattori principali di questa esigenza. Questa strategia diventa una vera e propria sfida all’internazionalità, dal momento che per le aziende la conquista dei mercati esteri non è più soltanto questione d’espansione e di redditività, ma più propriamente di sopravvivenza. Lo strumento più efficace è rappresentato dalla strategia di marketing internazionale.8 Questa consiste fondamentalmente nel conoscere i mercati esteri, nel definire gli obiettivi da raggiungere e i mezzi da utilizzare. Non può per questo essere saltuaria o casuale, bensì costante e metodica, proprio per il fatto che nella sua attuazione può affiorare la contingente necessità di modificare qualche fattore che non è in grado di dare il giusto contributo al successo dell’esportazione, ci riferiamo, per esempio, ad una migliore organizzazione delle vendite in un particolare mercato, alla scelta di un più efficiente canale distributivo, a mezzi comunicazionali e promozionali più incisivi. E’ la strategia che si sviluppa più propriamente nell’ambito del commercio internazionale; in questa direzione il marketing internazionale attiva in senso generale lo studio dei mercati esteri, l’individuazione del o dei mercati in cui commercializzare i prodotti, la messa a punto delle 172


necessarie strategie e politiche di marketing; la strategia di marketing internazionale ricerca nei mercati oggetto d’analisi i punti di riferimento in grado d’assicurare all’impresa e ai suoi prodotti la caratterizzazione internazionale. Strategia dell’esportazione: con questa denominazione si vuole fare riferimento a tutta quella serie d’interventi esportativi più riferiti all’approccio di singoli mercati, senza ricercare una loro possibile comunione d’intenti. Con l’avvento dei processi dell’internazionalizzazione, dei processi di multinazionalizzazione e di globalizzazione, questa strategia ne risulta notevolmente ridimensionata. Tuttavia resta pur sempre applicabile e consigliabile per quelle imprese che non hanno mai esportato e si trovano a dover fare i primi passi in questo contesto o che vogliono vivere il processo d’internazionalizzazione in maniera progressiva e in conformità alle proprie disponibilità. Questa privilegia dunque la vendita sul mercato domestico; quindi i plus produttivi, ammesso che ve ne siano, vengono indirizzati verso qualche mercato estero, senza comunque grandi investimenti di risorse. Strategia di marketing internazionale per aree o più mercati esteri omogenei: molto spesso alcuni mercati che presentano caratteristiche d’omogeneità o vicinanza geografica vengono raggruppati in aree e pertanto ricevono un approccio strategico identico e contemporaneo; la strategia di marketing internazionale verifica se in questi paesi esista una domanda unitaria e comune assimilabile e vi indirizza il suo intervento omogeneo. Il numero dei mercati sarà pertanto limitato a quelli che presentano aspetti d’omogeneità al punto tale che la stessa strategia di penetrazione riceverà un riscontro identico; prodotto, sistema distributivo, comunicazione, promozione suppor173


teranno allo stesso tempo e nella stessa maniera la penetrazione di questo gruppo di mercati senza che per questo ricevano rilevanti differenziazioni. Strategia di marketing multinazionale: L’impresa che decide una propria presenza diretta in uno o più mercati esteri deve disporre di una strategia di marketing multinazionale così da orientare tutti gli sforzi di produzione, di commercializzazione, di organizzazione verso un razionale e strategico sfruttamento del mercato mondiale. Questa strategia si realizza simultaneamente in un contesto mondiale, coordinando e utilizzando le varie esperienze fatte su diversi mercati esteri; è certamente la più idonea alle imprese che devono realizzare o gestire rispettivamente un approccio o una presenza multinazionale. Strategia di marketing globale: E’ la strategia che si rivolge contemporaneamente ai mercati che fanno parte del “villaggio globale” e pertanto possono ricevere un intervento unitario e omogeneo di massa. In questo contesto l’azienda deve ripensare il suo approccio al mercato, il suo modo di vivere l’internazionalità; deve verificare se ci sono i presupposti per attivare una strategia di penetrazione contemporaneamente con lo stesso prodotto su tutto il mercato globale. In questo senso l’evoluzione diacronica delle strategie commerciali di marketing perseguite in Italia dalle imprese della moda segnala un crescente dinamismo e un continuo riflusso tra formati distributivi differenti, quantunque la scelta dei canali distributivi9 costituisca, da sempre, un aspetto cruciale nella gestione delle imprese della moda, costantemente impegnate nel mantenimento di un posizionamento coerente e rilevante sul mercato internazionale. Dalle considerazioni fin qui svolte, si può osservare che il pieno riconoscimento del ruolo 174


del marketing nella moda implica il riassorbimento della funzione meramente logistica. In verità, riprendendo alcune riflessioni nel corpo del paragrafo, non si tratta di uno spostamento dell’attenzione dal ruolo logistico ad un ruolo di natura diversa, bensì si intende proporre la trasposizione e l’innalzamento della dimensione logistica. Infatti, richiamando i principi fondamentali della letteratura del marketing, si sancisce l’elevazione del momento logistico della definizione delle varie strategie. In conclusione, il contesto economico globalizzato, complesso e ipercompetitivo, richiederà sempre più alle aziende produttrici l’applicazione di incisive strategie di distribuzione,10 certamente utilizzando al meglio le leve offerte dalle tecnologie informatiche e dal retail marketing.

5.4.1. La fase di ricerca preventiva e definizione delle reti distributive Al di là della scelta sulla strategia da adottare, va considerata la preventiva fase di ricerca del mercato; nell’attuale situazione economica, caratterizzata da una concorrenza agguerrita, le informazioni di cui essa può venire in possesso possono costituire un principale vantaggio competitivo ed essere perciò determinanti per il successo nel mercato estero che si vuole penetrare. La ricerca, pertanto, serve a ridurre le incertezze e i rischi connessi alla decisione di presentare sul mercato estero i propri prodotti.11 La conoscenza delle variabili socio-economiche consente di individuare nuovi consumatori, potenziali acquirenti, il segmento o target 175


su cui intervenire, e di guidare il processo decisionale d’ingresso dell’azienda in un mercato estero: la chiave di successo per le aziende della moda italiane che intendono applicare il retail marketing internazionale è rappresentata, quindi, dalla conoscenza del cliente straniero. Dopo aver scelto in quale segmento di mercato entrare, cioè il target da raggiungere, l’azienda della moda deve essere in grado di definire il posizionamento del suo prodotto sulla base dei vantaggi differenziali offerti rispetto ai concorrenti (marca, comfort fisico, presentazione, confezione, aspetti commerciale come il prezzo, la distribuzione, e il supporto promozionale). Esportare sul mercato estero rende pertanto necessario avere la capacità sia di conoscere le esigenze non ancora individuate, sia di soddisfarle. Il prodotto moda è, infatti, soggetto a cambiamenti repentini che lo rendono variabile e in continua evoluzione; e presenta un impatto diverso a seconda dei mercati in cui è collocato. Individuati il segmento e il posizionamento del prodotto, si deve definire il sistema distributivo più idoneo per vendere un prodotto moda nel mercato estero. Le modalità di ingresso sono essenzialmente tre: •

esportazione diretta, l’azienda entra in contatto con il mercato estero mediante propri collaboratori (venditore diretto, filiali di vendita all’estero, uffici e negozi). Adotta tale politica, ad elevati costi, se beneficia di una forte quota di mercato e di alti volumi di vendita all’estero che giustificano questa organizzazione.

esportazione indiretta, l’azienda non dispone di nessuna organizzazione propria per vendere all’estero e delega la gestione dei rapporti con i mercati ad un intermediario commerciale internazionale. Questo canale distributivo risulta appropriato per 176


le aziende con risorse finanziarie più limitate e che considerano marginale l’attività sui mercati esteri.

la terza modalità d’ingresso prevede che l’azienda concluda degli accordi interaziendali con altre imprese straniere per commerciare o produrre i propri prodotti di moda. Le forme più diffuse di questa modalità sono: il franchising, nota come forma di partnership più utilizzata dalle aziende di moda che decidono di consolidarsi nel mercato estero; il licensing, accordo nell’area di produzione, può scaturire dalla ridotta permeabilità del Paese estero agli investimenti diretti esteri e dalle barriere nei confronti delle importazioni; e la joint venture, accordo di natura contrattuale o societaria con cui l’azienda costituisce una società commerciale con un’altra azienda estera già conosciuta e affermata su quel mercato. Si accelerano così i tempi di penetrazione e di conquista del mercato. E’ la forma di penetrazione commerciale più flessibile e con minori rischi.

5.5. Modalità a confronto: integrazione verticale e global sourcing Le modalità che consentono di produrre all’estero sono molteplici, ma quelle maggiormente utilizzate dalle imprese di abbigliamento sono principalmente due: il global sourcing e l’integrazione verticale delle aziende a monte. I due approcci sono molto diversi tra loro sia negli obiettivi che ricercano che nell’entità di investimenti che necessitano. La logica del global sourcing (o approvvigionamento globale) consiste nell’esternalizzare le attività legate alla produzione, demandandole a fornitori esterni secondo regole stabilite da un 177


contratto. Viceversa l’integrazione verticale consiste nell’acquisizione di società poste a monte, che trasformano il rapporto di mercato tra i due attori in un rapporto interno basato sul vincolo di proprietà. Si predilige per lo più il decentramento produttivo verso paesi a basso costo del lavoro (è il caso della prima modalità). La maggior parte delle imprese del settore moda adotta almeno in parte questa strategia in quanto contribuisce alla costituzione di una supply chain agile e flessibile capace di adeguarsi rapidamente alle variazioni della domanda del mercato.12 Questa si realizza principalmente attraverso rapporti di sub-fornitura, per cui si importano prodotti finiti o semilavorati da aziende estere, giuridicamente indipendenti. Tale relazione, basata sui prezzi di mercato, non può essere equiparata ad una semplice importazione, in quanto il partner esterno non produce del tutto autonomamente; l’impresa, infatti, mantiene un coinvolgimento attraverso un parziale trasferimento di conoscenze tecnologiche ed assistenza tecnica, impostando le relazioni con vincoli di dipendenza (a volte di esclusività). In altri casi, invece, l’output delle produzioni effettuate all’estero non è un prodotto finito bensì un semilavorato che viene poi re-importato in modo da realizzarne le fasi finali di produzione e di successiva commercializzazione in Europa.13 Con questo strumento l’impresa esporta il semilavorato o la materia prima in un paese a basso costo di manodopera, dove vengono “perfezionati” (ossia confezionati o trasformati in prodotti finiti) prima di rientrare nel paese industrializzato d’origine, per essere rifiniti e venduti.14 In questo modo l’impresa riduce i costi attuando un parziale abbandono della produzione domestica. L’altra modalità è rappresentata 178


dall’integrazione verticale dei fornitori, approccio diametralmente opposto al precedente in quanto non permette di sfruttare la flessibilità produttiva e strategica ottenibile con gli accordi contrattuali.15

5.6. Esportazione: una solida politica di rilancio Le opportunità di competitività sui mercati mondiali, alle nostre aziende, di certo mancano. E dunque, se i dati della produzione industriale italiana stanno oggi precipitando è perché il rigore finanziario a senso unico e il calo dei consumi e degli investimenti interni stanno mettendo in ginocchio le imprese che non esportano o che hanno il mercato domestico come meta principale delle proprie vendite. Chi vende soprattutto all’estero, invece, miete risultati positivi.16 Tuttavia, non c’è molto da stupirsi poiché l’industria della moda ha sempre dovuto affrontare crisi durissime per mantenersi tra le eccellenze. Ricordiamoci che, fin dagli anni Settanta, un fattore di crisi potenziale era, tuttavia, già evidente nell’insufficienza delle strutture aziendali, nella frammentazione della produzione, nella debolezza economica e finanziaria della maggior parte delle imprese. Tutto ciò poteva non destare allarmi fino a quando la congiuntura internazionale aveva un andamento nettamente positivo ma già era chiaro che l’equilibrio non avrebbe potuto essere mantenuto qualora fossero insorti gravi turbamenti nel commercio internazionale. Tra il 1973 e il 1974, un rivolgimento profondo e irreversibile ha modificato sostanzialmente i rapporti tra i paesi e gli stessi parametri degli scambi internazionali, aggiungendo un determinante fattore 179


esterno alla crisi che aveva colpito l’economia italiana. Ricordiamoci, inoltre, della crisi petrolifera degli anni Ottanta17, delle misure protezionistiche adottate dai vari Stati e l’apertura di nuovi mercati.18 L’aumento dei costi dei prodotti petroliferi non aveva soltanto rotto l’equilibrio in termini di energia ma anche in termini di materie prime derivate dal petrolio, come le fibre sintetiche e i sostituti dei pellami. Non è da sottovalutare inoltre il fatto che l’industrializzazione dei paesi emergenti ha portato come conseguenza restrizioni sempre maggiori delle importazioni di prodotti finiti.19 A ragion veduta si può notare come tutto questo abbia lasciato ferite molto profonde nel settore. Alla luce dell’economia globalizzata, le aziende italiane sono state spinte sempre più verso la scelta di commercializzare il proprio prodotto moda all’estero e a ripensare sulle proprie strategie d’ingresso ai mercati esteri, considerati come alimentatori del motore della fiducia. Le aziende, indirizzate a perseguire obiettivi di presenza internazionale, saranno portate a considerare la propria politica di mercato con una prospettiva sempre più distributiva, utilizzando le leve offerte dal retail marketing. Di fronte a tale situazione, occorre ripensare non solo ad un riassetto produttivo, ma anche ad una politica di rilancio dell’esportazione dei prodotti della moda che, a nostro giudizio dovrebbe articolarsi sui seguenti punti: •

ricerca della qualità come fattore caratterizzante dei prodotti italiani. La scelta della qualità impone anche una scelta dei mercati di esportazione, con un chiaro indirizzo verso i paesi ad alto potere di acquisto.

La ristrutturazione della produzione implica una concentrazione 180


delle imprese che può essere risolta attraverso adeguate formule di cooperazione e di compartecipazione all’esportazione.

Un assetto su cui conviene soffermarsi è quello dei rapporti tra creazione della moda e industria produttrice. La cosiddetta alta moda non è, oggi, in grado di dare un apporto di clientela sufficiente a sostenere una struttura produttiva ampia e differenziata come quella attuale. Occorre, dunque, concepire il momento creativo della moda in funzione dell’industria, o meglio, come presentazione dei motivi guida di un gusto e di uno stile italiani. La moda dunque, come immagine e simbolo di un paese, come ambasciatrice di una cultura e di un modo di vivere.

5.7. Valutazioni conclusive Nell’odierna società globalizzata non sono pochi, è vero, i mercati emergenti che offrono una crescita economica forte, come Cina, India, Estremo Oriente, Russia e Brasile. La geografia dell’economia globale si va palesemente ridisegnando. Ecco allora che il nuovo diktat vigente nell’economia globale deve essere quello di considerare le opportunità di profitto che si possono cogliere da questi nuovi mercati. Non si è affatto in una fase di declino dei prodotti moda, ma di profondo cambiamento nell’evoluzione dei costumi, dell’economia e degli scenari demografici: il pianeta offre infinite possibilità all’Italia e invita a considerare la complessità dei fenomeni che si esprimono nella moda. Essendo il saldo del commercio estero italiano della moda fortemente attivo, bisogna far di questo l’ago della bilancia sul quale si misurerà la credibilità dell’industria della moda 181


e la sua capacità di essere una componente di grande rilievo nel nostro futuro modello industriale. Ecco allora che le possibilità concrete di sviluppo del settore moda sembrano oggi porsi, più che in termini di crescita della quantità di occupazione offerta, in termini di incremento del prodotto lordo settoriale e di espansione delle esportazioni. In questo senso l’industria italiana della moda acquisisce una funzione chiave rispetto ad ogni ipotesi di evoluzione dell’apparato industriale nazionale. Un primo compito unitario degli organismi che operano nel settore dovrebbe essere quello di mettere a punto strumenti coordinati per una conoscenza più approfondita del nostro mercato estero. Naturalmente, l’esigenza fondamentale di un forte sviluppo delle esportazioni non può trovare una risposta positiva soltanto nell’idoneità strutturale del sistema. Per esportare occorre anche che i Paesi importatori siano disposti ad acquistare e che esistano, quindi, reali spazi di mercato. Certamente la concorrenzialità del prodotto italiano è diminuita sia a causa dell’aumento dei prezzi che dei ben noti fenomeni extraeconomici che hanno turbato la regolarità delle relazioni commerciali negli ultimi anni. Ma è anche vero che i prodotti di elevata qualità non hanno sentito che marginalmente della crisi ed anzi hanno potuto ottenere buoni risultati dal maggiore potere d’acquisto manifestatosi su alcuni mercati, come quelli medio-orientali. Sintetizzando, una politica di rilancio dell’esportazione dei prodotti della moda dovrà articolarsi su determinati punti: ricerca della qualità come fattore caratterizzante dei prodotti italiani; e scelta dei mercati di esportazione ad alto reddito.

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Note al Capitolo 5 1. I dati relativi al commercio estero del «sistema moda» confermano ad ogni buon conto la sua importanza per la nostra economia, in quanto elemento di riequilibrio della nostra bilancia dei pagamenti. Infatti, risulta evidente che l’espansione dell’industria della moda è avvenuta più per effetto della domanda estera che della domanda interna. 2. Come manifesto nel Rapporto Intesa, datato Aprile 2013, dedicato al nostro Paese dalla Commissione Europea. 3. Durante la prima fase dello sviluppo, negli anni Settanta, l’internazionalizzazione era concepita essenzialmente come leva utile ad incrementare le quote di export. A metà degli anni Ottanta l’importanza attribuita alla vicinanza al cliente ha favorito la conclusione di accordi, joint venture, acquisizioni e investimenti diretti. Fino alla seconda metà del decennio il processo d’internazionalizzazione è stato in gran parte determinato dalla ricerca del contenimento dei costi di produzione, che ha spinto verso la direzione dei Paesi emergenti caratterizzati da consistenti differenze di costo del lavoro. Tuttavia, l’Italia, fino alla prima metà degli anni Novanta si è trovata in ritardo nel processo di internazionalizzazione rispetto ai principali concorrenti. FONTANA, CAROLI 2004, p. 37. 4. Cfr. nota 2 capitolo IV. 5. Il franchising è un’affiliazione commerciale. Più specificatamente, è una formula di collaborazione tra imprenditori per la distribuzione di beni e servizi, indicata per chi vuole avviare una nuova impresa ma non vuole partire da zero, e preferisce affiliare la propria impresa ad un marchio già affermato. Si tratta infatti di un accordo di collaborazione che vede da una parte un’azienda con una formula commerciale consolidata (affiliante o franchisor) e dall’altra una società o una persona fisica (affiliato o franchisee) che aderisce a questa formula. L’affiliante concede all’affiliato il diritto di commercializzare i propri prodotti utilizzando l’insegna dell’affiliante. Per citare un esempio, uno dei casi più noti del contesto italiano può essere considerato il Gruppo Benetton. L’azienda trevigiana è stata fondata nel 1965 da Gilberto, Luciana, Giuliana e Carlo Benetton. La sua avventura ha inizio quando l’azienda riesce a conquistare gradualmente quote importanti nel mercato della maglieria con intuizioni a quel tempo fortemente innovative: invece di usare lane di colori diversi per i maglioni, veniva utilizzata la lana grezza per realizzare tanti modelli che si tingevano a seconda delle esigenze della moda, in modo da essere più veloci nel riassortimento dei negozi. L’azienda ha una rete di oltre 6.500 negozi in più di centoventi paesi e un usare lane di colori diversi per i maglioni, veniva utilizzata la lana grezza per realizzare tanti modelli che si tingevano a seconda delle esigenze della moda, in modo da essere più veloci nel riassortimento dei negozi. L’azienda ha una rete di oltre 6.500 negozi in più di centoventi paesi e un fatturato totale di oltre due miliardi di euro. Nel 1966 viene inaugurato il primo negozio a Belluno e nel 1969 viene inaugurato il primo negozio all’estero, a Parigi. Nel 1972 lancia il marchio “Jeans West”, produzione di jeans la cui materia prima, il denim, viene procurata acquistando il marchio americano “Sisley”. Sono proprio i primi anni ’70 che

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segnano per l’azienda un’ importante svolta di diversificazione del prodotto. Benetton si lancia anche nell’abbigliamento per bambini che distribuisce, dal 1972, in punti vendita specifici chiamati “0-12”. Con il maturare degli anni, l’azienda continua ad ottenere sempre maggiori riconoscimenti e progressi: tra il 1986 e il 1989 il Gruppo si quota alle borse di Milano, Francoforte e New York; nel 1994 nasce “Fabrica”, il centro di ricerca sulla comunicazione del Gruppo Benetton. Dal 2003 la famiglia Benetton ha deciso di fare un passo indietro dalla gestione per lasciare spazio ai manager che gestiscono il Gruppo tutt’oggi. Dal Maggio 2012 è stata delistata dalla Borsa di Milano, tornando sotto controllo privato. V. http://www.museodelmarchioitaliano.it/marchi.php 6. Detta azienda è proprietaria dell’intera value chain del prodotto, utilizzando punti vendita di proprietà, stabilimenti propri e perfino controllando il 100% del capitale della maggior parte delle imprese che rientrano nella sua rete di fornitura. 7. Gli stessi stilisti hanno reso la moda globale integrando la loro nazionalità con altre: Karl Lagerfeld, tedesco, lavora a Parigi per Chanel, a Roma per Fendi, in Germania per la sua linea KL; John Galliano, inglese, è lo stilista di Dior e pertanto lavora a Parigi; Tom Ford, americano, è lo stilista di Gucci in Italia, ecc.. 8. Il Rapporto ICE documenta l’espansione registrata negli ultimi anni dalle partecipazioni estere delle imprese italiane. Diversamente da precedenti periodi di recessione, questa forma di internazionalizzazione produttiva ha continuato a svilupparsi negli ultimi anni, sia in termini di numero di partecipazioni che di addetti e di fatturato realizzato all’estero. Ha inoltre continuato ad allargarsi il numero delle imprese investitrici. Si tratta della continuazione di un processo di lungo termine, che manifesta la progressiva maturazione delle strategie di internazionalizzazione, in direzioni più consone alle tendenze dei mercati. 9. Un altro punto connesso con la distribuzione è il potenziamento dell’organizzazione del sistema fieristico (fortemente sottovalutato). Soluzione: una revisione affinché la nostra partecipazione alle fiere non assuma carattere occasionale e tumultuoso. Si risolverebbe, in tal caso, in una perdita di tempo e, soprattutto, di prestigio per il nostro Paese. Le “missioni” all’estero vanno programmate in un quadro organico e globale, reso noto con un preciso calendario annuale, preceduto da una precisa indagine sulla potenzialità del mercato. 10. Risultato altrettanto indubbio che le aziende fashion dovranno sviluppare nel processo d’internazionalizzazione, è una politica attenta di “demo-marketing” orientate verso le tendenze socio-demografiche dell’ambiente in cui intendono operare, per trasferire con energia rinnovata l’identità del Made In Italy nel XXI secolo. Cfr. cap. III 11. Le informazioni sui mercati stranieri, per esempio, possono essere reperite in via generale anche attraverso l’analisi dei “Paesi e Mercati” oggi fornita dal sito dell’Istituto per il Commercio Estero: http://www.ice.gov.it/ 12. SCOZZESE 2012, pp. 31-36 13. Per traffico di perfezionamento passivo si intende il regime doganale che consente di esportare temporaneamente, al di fuori del territorio della Comunità merci di ogni specie ed origine delle quali sia prevista la reimportazione, sotto

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forma di prodotti compensatori, con parziale o totale esenzione dai dazi all’importazione, dopo essere state oggetto di una o più operazioni di perfezionamento. Direttiva del Consiglio n.76/119/CEE. 14. In merito alla ricerca di quest’ultimo beneficio, il miglior esempio è H&M che cambia continuamente la localizzazione della produzione non appena trova un luogo che offre condizioni più favorevoli; questa politica è ovviamente adottabile soltanto se i rapporti con i fornitori sono facilmente modificabili. 15. Questo è il modello gestionale che contraddistingue il gruppo Inditex ed il punto di forza del proprio brand Zara. 16. La particolare connotazione del settore culturale evidenzia l’anima produttiva del sistema Paese nelle sue peculiarità, derivanti dall’incontro tra saperi millenari e tradizioni territoriali. Un profilo così individuato non si limita a considerare le attività propriamente culturali, ma include anche tutte quelle tipologie produttive tipiche del manifatturiero che, attraverso l’artigianalità e la creatività, contribuiscono a esportare nel Mondo il bagaglio culturale della Penisola. Per questo sistema si rileva una elevata propensione esportativa, in crescita nel corso degli ultimi vent’anni. Profilando le esportazioni italiane nei confini del perimetro culturale, l’ammontare di transazioni verso l’estero è più che triplicato nel corso di vent’anni, superando, nel 2012, i 39,4 miliardi di euro. Una dinamica delle importazioni certamente inferiore, peraltro negativa nell’anno appena trascorso, ha contribuito ad alimentare un saldo commerciale strutturalmente positivo, giunto a 22,7 miliardi di euro, record assoluto dall’introduzione dell’euro. La cultura si configura come un elemento caratterizzante nella immagine di molte nostre produzioni, arricchendo di significato i prodotti venduti all’estero. Ciononostante, a partire dal 2002 la minore dinamicità rispetto alle performance delle altre produzioni italiane all’estero si è tradotta in una riduzione del peso del sistema culturale sull’export complessivo del nostro Paese. Se con l’introduzione dell’euro l’incidenza del settore era pari all’11,9% delle nostre vendite all’estero (11,2% nel 1992), oggi è infatti pari ad appena il 10,1%, in linea con il 2011 ma 4 decimi di punto in meno rispetto al 2009. 17. Cfr. capitolo I 18. Inaridito il mercato interno, le aziende si sono rimboccate la maniche, andando a cercare dove sinora non si erano spinte. A volte mettendo un piede, a volte conquistando, mercati promettenti: dai Paesi Arabi a quelli emergenti come Cina, India, Brasile, a piazze minori ma ricche di prospettive come Azerbaigian, Georgia. E hanno fatto innovazione, con l’ecodesign ad esempio. 19. D’altra parte, la possibilità di esportare prodotti finiti sui mercati dei paesi “ricchi” urterà sempre più contro la concorrenza delle produzioni economiche dei paesi emergenti.

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CAPITOLO VI IL DIRITTO E LA MODA Il diritto e la moda sembrano due termini quanto mai distanti tra loro; l’uno, il diritto, che richiama alla mente immagini di grigio rigore, disciplina e di sofistiche questioni per addetti ai lavori; l’altro, la moda, che nel comune sentire è sinonimo di creatività, libertà ed estro. Eppure anche la creatività deve quotidianamente fare i conti con il diritto, essere regolamentata e disciplinata. Le tempistiche dal ritmo incalzante, in concomitanza al forte impegno per lo sviluppo dei mercati, hanno richiesto la concentrazione di tutte le energie aziendali ed hanno spesso portato i nostri imprenditori del settore a trascurare di porre la dovuta attenzione sull’importanza che può avere anche una corretta impostazione giuridica proprio delle problematiche che tanto li tengono impegnati. E’ quindi fondamentale per tutte le aziende del nostro settore, piccole o grandi che siano, acquisire - sia a livello imprenditoriale che manageriale - la “cultura giuridica” della necessità che le varie problematiche e la loro soluzione devono essere preventivamente valutate ed impostate, naturalmente con l’ausilio ed il supporto di legali interni e/o di professionisti esterni, per i risvolti di carattere giuridico/contrattuale che le stesse potrebbero rilevare in un futuro più o meno vicino. La trattazione del seguente capitolo privilegia il diritto italiano, senza tuttavia tralasciare i riferimenti costanti al diritto comunitario e internazionale in considerazione della vocazione internazionale delle aziende di moda. Il primo paragrafo affronta il tema del design. Senza gli stilisti e la loro creatività non vi sarebbe azienda moda. 187


Ciò rende evidente l’importanza di conoscere per chiunque operi nel settore, stilisti e non, quali siano i diritti che accompagnano la realizzazione di un disegno o modello e quali le cautele da adottare per assicurare una piena tutela. Il secondo paragrafo si occupa degli aspetti legali che caratterizzano la tutela del brand che, come è noto, rappresenta l’assetto principale di molte aziende. Purtroppo di questo aspetto si arriva spesso a preoccuparsi quando ormai si scopre che il brand subisce imitazioni e/o contraffazioni e non si è ormai più in possesso degli strumenti idonei per la sua difesa. La scelta di un marchio che sia non solo accattivante ma anche giuridicamente forte rappresenta un momento fondamentale per la costituzione di una nuova azienda, così come il mantenimento di tale forza durante tutta la vita del marchio stesso. Nel terzo paragrafo si parla di un grave fenomeno che affligge le aziende che operano nel settore moda: la contraffazione. Arginare tale piaga è un risultato auspicabile che passa necessariamente attraverso un impegno e un’attività di contrasto coordinati tra le aziende e le Autorità ma anche, necessariamente, attraverso la sensibilizzazione dei fruitori finali: i consumatori. Nel suddetto paragrafo viene svolta una panoramica intorno alle misure che possono essere ottenute nella lotta alla contraffazione focalizzando l’attenzione su quegli strumenti che consentono di ottenere un risultato in tempi rapidi evitando il più possibile l’insorgere e la diffusione del danno da contraffazione. Inoltre, ci si soffermerà sull’ emergenza delle etichettature facendo riferimento all’ultimo seminario tenuto da Massimo Torti 1 con la collaborazione di Renato Borghi.2 Nel quarto paragrafo verrà effettuato un focus sulle misure doganali, anch’esse essenziali per una maggiore tutela della nostro commer188


cio. Nel quinto paragrafo, viene affrontato un argomento di grande attualità: la tutela del Made in Italy, indice di stile e di qualità in tutto il mondo. Si avverte con forza l’interesse e l’esigenza di tutelare e preservare l’eccellenza di questo segno. D’altra parte, favorire le aziende che hanno spostato parte o tutta la produzione all’estero significherebbe penalizzare le piccole e medie aziende che rappresentano la prevalente realtà italiana, il cui sforzo produttivo è spesso il frutto di un impegno artigianale fatto di qualità e cura dei dettagli. Nel sesto paragrafo, infine, non mancherà un adeguato approfondimento delle misure cautelari adottate dai Paesi esteri per evidenziarne un confronto.

6.1. Il design fra creatività e diritto Creatività, innovazione e ricerca costituiscono gli elementi propulsivi dell’azienda di moda, caratteristiche che hanno fatto dello stile italiano un elemento di forza e di distinzione nei mercati internazionali. Da qui l’estrema importanza che rivestono, da un lato, la figura dello stilista e, dall’altro, le forme e gli strumenti di tutela giuridica che l’ordinamento mette a disposizione degli stilisti e degli imprenditori per proteggere le creazioni di moda. Il breve ciclo di durata del prodotto moda impone una tutela giuridica particolarmente tempestiva, a pena di inefficacia sostanziale della stessa. Si pensi ad un provvedimento giudiziale ottenuto da un’azienda che ordini il ritiro dal mercato e la distruzione dei prodotti contraffatti emanato dal giudice ed eseguito quando oramai sia trascorsa la stagione. In tal caso, non solo non si è evitato il danno arrecato all’azienda, ma 189


spesso il danno è di difficile quantificazione e quindi non può essere risarcito nel suo intero ammontare. Pertanto, una tutela per essere effettiva deve essere soprattutto preventiva.

6.1.1. La tutela della creatività Non ogni modello o disegno può ricevere tutela giuridica se non dotato dei due requisiti: a) essere nuovo e b) possedere un carattere individuale. Vediamo più in dettaglio cosa ciò significhi. Un modello o disegno è considerato nuovo se nessun altro modello o disegno identico sia stato divulgato al pubblico. Le problematiche più rilevanti si presentano nell’accertare quando in concreto un modello sia identico o meno. La presenza di elementi di diversità tra due disegni o modelli non esclude, infatti, che gli stessi possano essere considerati identici laddove differiscano solo per dettagli irrilevanti. 3

Il requisito del carattere individuale sussiste, invece, tutte le volte

in cui un modello susciti nell’utilizzatore informato un’impressione generale che differisca dall’impressione generale suscitata in tale utilizzatore da qualsiasi modello che sia stato divulgato prima. Per utilizzatore informato potrebbe intendersi il consumatore avvertito (cioè che ha esperienza sull’utilizzo del prodotto) oppure un tecnico (designer) oppure lo stesso designer informato nello specifico settore merceologico. E’ compito del giudice determinare chi debba intendersi per utilizzatore informato.4 Abbiamo sopra evidenziato che per poter stabilire se un modello o disegno sia nuovo o meno è necessario appurare se altro disegno o modello identico sia stato divulgato. Divulgazione significa “accessibilità al pubblico” che può 190


essere raggiunta: a seguito di registrazione; tramite esposto (ad esempio in una fiera o altre manifestazioni); usato in commercio; altrimenti reso pubblico. Vi sono tuttavia degli eventi che non sono considerati divulgazione quali, ad esempio: •

la comunicazione fatta dal designer ad un terzo ma con il vincolo, anche implicito, di tenere l’informazione riservata;

la pre-divulgazione ad opera dell’autore o di suoi aventi causa oppure di un terzo nei dodici mesi che precedono la presentazione della domanda di registrazione;

l’accessibilità al pubblico nei dodici mesi precedenti la data di presentazione della domanda di registrazione determinata da un abuso commesso nei confronti del suo autore.

6.1.2. La registrazione del disegno o modello La creazione di un modello o disegno fa sorgere il diritto di registrare quest’ultimo. Ma chi può effettuare la registrazione? 5 Essa spetta al suo autore e ai suoi aventi causa, cioè a coloro che hanno acquistato questo diritto, a vario titolo, dall’autore. L’unica eccezione a questa regola è prevista nell’ipotesi in cui il modello o disegno sia stato realizzato da un dipendente dell’azienda moda (es. lo stilista). In tal caso, il diritto alla registrazione spetterà al datore di lavoro (azienda moda), salvo patto contrario. Lo stilista avrà comunque diritto a vedersi riconosciuto come autore del disegno. Occorre infatti distinguere il diritto morale, spettante solo a colui che ha creato il disegno o disegno, dal diritto patrimoniale. Dalla registrazione, in 191


effetti, discendono dei diritti esclusivi di carattere patrimoniale: il diritto di utilizzare il modello o il disegno;e il diritto di vietare a terzi l’utilizzo senza il proprio consenso. Vediamo di seguito quali sono le attività che possono ricondursi alla nozione di “utilizzo”: •

la fabbricazione;

l’offerta;

la commercializzazione;

l’importazione;

l’esportazione;

l’impiego di un prodotto in cui il disegno o modello è incorporato o al quale è applicato.

La tutela derivante dalla registrazione dura cinque anni dal momento della presentazione della domanda e può essere prorogata per uno o più periodi di cinque anni fino ad un massimo di venticinque anni. Il costo per la registrazione di una collezione da parte dell’azienda moda non è tuttavia eccessivo se si tiene conto del vantaggio in termini di certezza della tutela che deriva dalla registrazione. Infatti, con una sola domanda può essere richiesta la registrazione multipla di più modelli o disegni purché si riferiscano a prodotti industriali appartenenti alla medesima categoria merceologica (classe).

6.1.3. La tutela del diritto d’autore Per le opere del disegno industriale che presentino “carattere creativo” e “valore artistico” è prevista la possibilità di cumulare due 192


distinte tutele: la tutela derivante dalla registrazione; e la tutela dettata dalla legge sul diritto d’autore. La legge sul diritto d’autore protegge le opere dell’ingegno di carattere creativo, qualunque ne sia il modo o la forma d’espressione. Nell’ambito del diritto d’autore si distingue tra diritto morale d’autore (il c.d. “diritto alla paternità dell’opera”) che spetta all’autore e non può essere in alcun modo alienato a terzi, dal diritto all’utilizzazione economica dell’opera che invece può essere ceduto temporaneamente o permanentemente (attraverso i contratti di licenza). Un’opera per poter essere tutelata dalla legge sul diritto d’autore deve essere originale, deve essere cioè manifestazione di creatività. Attualmente, per le opere di industrial design possono essere invocate entrambe le tutele laddove ne ricorrano i presupposti: si parla infatti di doppio binario di tutela. Ma quali sono i vantaggi e gli svantaggi della tutela del diritto d’autore rispetto a quelli derivante dalla registrazione? Durata tutela

Certezza tutela

Fino 25 anni dopo la morte La tutela del diritto d’autore DIRITTO D’AUTORE

dell’autore (vantaggio)

sorge con la creazione dell’opera e non necessita di registrazione. In caso di contestazione della paternità è necessario dare prova che si è autore (svantaggio).

5 REGISTRAZIONE

anni

dalla

domanda

di la

tutela

sorge

con

la

registrazione prorogabile per 1 o registrazione e spetta a chi più periodi di 5 anni fino ad un contesta la validità del titolo max di 25 anni (svantaggio)

l’onere di provarla e non già al titolare

della

registrazione

(vantaggio).

Ciò rende per l’azienda moda senz’altro preferibile optare per la tutela della registrazione anche per quelle creazioni che potrebbero possedere caratteri richiesti per la tutela del diritto di autore. 193


6.1.4. La nuova tutela europea Il prodotto moda, soprattutto se di qualità, ha in sé una vocazione internazionale, è cioè normalmente esportato in altri Paesi. Sorge, quindi, l’esigenza per gli operatori del settore di conoscere che tipo di tutela viene accordata in ciascun Paese in cui i propri prodotti vengono esportati. Di qui l’opportunità di armonizzare e uniformare il più possibile la legislazione dei vari Stati. In mancanza di una disciplina unica, un’azienda produttrice, a seconda del Paeseverso cui esporta i propri prodotti, potrebbe ottenere forme di tutela tra loro molto differenziate con grande svantaggio per i rapporti commerciali, tra cui non minore, quello della difficoltà di reperire in ciascun Paese informazioni relative alla disciplina legislativa vigente. Si consideri, infine, che l’Italia ha avuto, fino a tempi recenti, una delle legislazioni più restrittive. Ciò appare un controsenso per un Paese il cui il design ha rilevanza internazionale per pregio e originalità. Una risposta alla necessità di armonizzazione legislativa è stata data dall’Unione Europea con l’adozione di una Direttiva (98/71CE, recepita in Italia nel 2001) che rende uniformi le condizioni e i requisiti per la protezione accordata alle opere del disegno industriale, oltre ai diritti derivanti dalla registrazione di un disegno o modello. Il legislatore comunitario ha fatto un passo ulteriore creando una registrazione europea dei disegni e modelli in virtù della quale discenda contestualmente la medesima tutela in ciascuno stato. Con ’adozione del Regolamento si è istituito un sistema unico di registrazione comunitaria dei disegni o modelli con efficacia immediata in tutti i Paesi membri dell’ UE. Il sistema unitario di registrazione offre il vantaggio alle aziende di ottenere, 194


con una sola registrazione, uguale protezione in tutti i Paesi membri dell’UE. A ciò si aggiungano i vantaggi derivanti dalla semplificazione delle procedure e dal contenimento delle spese. Uno degli aspetti di maggior rilievo della disciplina introdotta dal Regolamento, oltre alla previsione di una registrazione unica comunitaria, è data dalla individuazione, accanto alla tutela derivante dalla registrazione del disegno o modello (disegno o modello comunitario registrato), di una tutela che prescinde dalla registrazione ed opera immediatamente con una durata limitata nel tempo (disegno o modello comunitario non registrato). Il modello comunitario registrato ha una durata minima di 5 anni rinnovabile fino ad un massimo di venticinque anni. La registrazione presenta l’indubbio vantaggio di dare certezza sul momento dal quale la tutela inizia ad operare. Il modello comunitario non registrato ha una durata più limitata nel tempo: tre anni. Come abbiamo delineato nei precedenti paragrafi, la breve durata di vita di un prodotto di design non necessita di una tutela di lunga durata. Anzi, una durata eccessiva della protezione legislativa, oltre che inutile, potrebbe essere addirittura controproducente in quanto contrasterebbe l’evoluzione del mercato della moda nutrita da un continuo apporto creativo che non è quasi mai rivoluzionario ma prende spunto da modelli esistenti che vengono rivisitati e rinnovati.

6.2. Il marchio per l’azienda moda In questo paragrafo ci occuperemo del marchio e di tutti gli istituiti ad esso collegati. 195


Il marchio è l’elemento che identifica l’azienda da cui proviene il prodotto. E’ quindi il veicolo principe di comunicazione dell’azienda. Si impone pertanto l’imperativo di tutelare un bene così essenziale e di valorizzarlo al meglio. Il marchio viene definito come un segno apposto ai prodotti o servizi di un’impresa allo scopo di veicolare un messaggio ai consumatori che consenta di identificare e distinguere tali prodotti o servizi dai prodotti o servizi di ogni altra impresa. Costituisce, in altri termini, uno strumento essenziale e rapido di trasmissione al consumatore di determinati messaggi. Il messaggio principale comunicato da tale segno è quello distintivo che identifica cioè la provenienza e l’origine di un determinato prodotto o servizio. A questa funzione se ne associa una di garanzia. Nei marchi generali prevale la funzione di provenienza e origine da una determinata impresa e quella di garanzia riguarda in generale il livello qualitativo che il consumatore ha sperimentato appartenere ai prodotti provenienti da quella determinata impresa. Oltre che mezzo di distinzione di prodotti e servizi nel mercato, il marchio è divenuto veicolo di comunicazione con il pubblico di un’azienda. Attraverso il marchio, cioè, viene trasmessa e percepita dai consumatori l’immagine di un’azienda. Tanto è vero che su questo simbolo si è progressivamente sempre più appuntata l’attenzione dei pubblicitari e dagli uomini di marketing. Tanto più un marchio è noto, maggiore sarà il valore acquisito.

6.2.1. Quali segni possono essere registrati? Un segno può essere registrato come marchio solo se presenta i se196


guenti caratteri: la rappresentabilità grafica e il carattere distintivo. In merito alla rappresentabilità grafica, occorre precisare che si ritiene che rivestano tale carattere anche segni che non siano per natura grafici purché siano rappresentabili graficamente nella procedura di registrazione. Per carattere distintivo si intende la idoneità del segno a distinguere in astratto i prodotti o servizi di un’impresa da quelli di ogni altra. Tale capacità è espressa dall’impressione d’insieme che esso determina nel consumatore di media diligenza e intelligenza. Qualora, in mancanza di tali caratteri, il marchio venga comunque registrato, la sussistenza di tali impedimenti si traduce nella nullità del marchio. Vi sono inoltre dei segni che, pur essendo in astratto registrabili come marchio in quanto rientranti nella definizione sopra enunciata, in concreto non possono essere registrati. Ciò avviene tutte le volte che un segno 6: •

Sia contrario alla legge, all’ordine pubblico e al buon costume (es. marchi contenenti raffigurazioni o parole oscene cioè offensive del comune senso del pudore oppure miranti a screditare le istituzioni, il sentimento religioso);

Sia decettivo o ingannevole, cioè sia idoneo ad ingannare il pubblico in merito alla natura, la provenienza geografica, la qualità dei prodotti e servizi;

Sia di uso comune, cioè corrisponda alla denominazione generica del prodotto o servizio;

Serva solo a designare una caratteristica del prodotto o servizio da indicazioni descrittive che ad essi si riferiscono, come i segni che in commercio possono servire a designare la specie, qualità, 197


quantità, destinazione;

In caso di utilizzo violi un altrui diritto di proprietà intellettuale o altro diritto esclusivo di terzi;

Corrisponda agli stemmi o ad altri segni considerati nelle convenzioni internazionali e a quelli che rivestono un interesse pubblico a meno che l’autorità competente non ne abbia autorizzato la registrazione.

Un altro requisito è posto dalla legge quale condizione per la registrabilità: la novità del marchio. Esso consiste, in estrema sintesi, nell’assenza di diritti anteriori di terzi titolari di un marchio identico o simile al segno che si intende registrare come marchio relativo a prodotti identici o simili.

6.2.2. Tipologie e classificazione dei marchi Accanto alla registrazione nazionale del marchio è possibile ottenere la registrazione di un marchio comunitario e di un marchio internazionale. Vediamo le differenze. La registrazione di un marchio nazionale è efficace solo all’interno del territorio di uno Stato ed è disciplinata dalla legge di quello Stato. La protezione di tale marchio è quindi geograficamente limitata. Da un decennio è stato creato il marchio comunitario che attribuisce una validità, efficacia e protezione unitaria in tutti gli Stati membri dell’UE. Il marchio comunitario non si sostituisce alle registrazioni nazionali ma si affianca ad esse creando un doppio binario di tutela. Sono evidenti i vantaggi che ne derivano: 198


Accesso facilitato: è necessario presentare una sola domanda di registrazione;

Validità ed efficacia unitaria: la normativa che disciplina il marchio è unica per tutti i Paesi dell’Unione Europea;

Riduzione dei costi: le tasse di registrazione sono sicuramente molto più contenute.

In virtù di convenzioni internazionali è possibile estendere una registrazione nazionale anche in Stati, diversi da quello di origine, aderenti alle suddette convenzioni internazionali con semplificazione della procedura di registrazione e riduzione dei relativi costi. Si parla in tal caso di marchio internazionale. La registrazione internazionale attribuisce al titolare tutti i diritti che gli sono conferiti dalle singole registrazioni nazionali in base alle leggi vigenti in ciascun paese. La scelta tra marchio nazionale, comunitario e/o internazionale è dettata dalle esigenze di ciascuna azienda. E’ ovvio che sarà necessario registrare in tutti i Paesi in cui si intende commercializzare i propri prodotti. A seconda della loro maggiore o minore capacità distintiva, i marchi vengono definiti “forti” o “deboli”. Un marchio ha tanto più capacità distintiva tanto meno è descrittivo del prodotto e servizio d’azienda offerto. Il momento della scelta del marchio riveste una particolare importanza per l’imprenditore. Scegliere un marchio implica studio e ricerca che investe sia la capacità del segno di colpire il consumatore ma anche la sua possibilità di ricevere una tutela legale forte. E’ possibile distinguere diversi tipi di marchi a seconda che contraddistinguano i prodotti fabbricati o commercializzati da una determinata 199


impresa oppure i servizi offerti. Se ne individuano pertanto: •

i marchi di fabbrica, apposti da un’impresa per contraddistinguere i propri prodotti;

i marchi di commercio, apposti dall’impresa che commercializza determinati prodotti. si noti che tali marchi non possono mai sostituire il marchio di fabbrica bensì solo aggiungersi;

i marchi di servizio che contraddistinguono servizi resi da una determinata impresa a terzi.

Una distinzione che riguarda sia la titolarità che la funzione del marchio è quella tra marchi individuali e marchi collettivi. I marchi individuali sono, come si è visto, quelli che contraddistinguono i prodotti o servizi di una singola impresa. Pertanto, titolare ne è la singola impresa e l’uso del medesimo marchio da parte di altre imprese o è consentito dal titolare oppure è illecito. I marchi collettivi possono, invece, per natura essere usati da più imprese contemporaneamente. In realtà, titolari dei marchi collettivi sono i soggetti che “svolgono la funzione di garantire l’origine, la natura o la qualità di determinati prodotti o servizi”.

6.2.3. Chi può registrare un marchio? La registrazione del marchio, sia nazionale che comunitario, può essere ottenuta da chi lo utilizzi, o si proponga di utilizzarlo: •

nella fabbricazione o commercio di prodotti; 200


nella fabbricazione o commercio di prodotti;

nella prestazione di servizi della propria impresa, o di imprese di cui abbia il controllo, che ne facciano uso con il suo consenso;

Chiunque può richiedere la registrazione di un marchio, sia esso persona giuridica o persona fisica. L’importante è che il richiedente si proponga di utilizzare il marchio entro i termini previsti dalla legge (cinque anni dalla data di registrazione). Il non utilizzo provoca la decadenza del marchio stesso. Ovviamente il creatore (persona fisica) di un marchio che lo registri in proprio lo fa in vista di un uso futuro. Il soggetto non imprenditore che registri un marchio dovrà, pertanto, diventare un imprenditore per utilizzarlo in proprio oppure necessariamente cederlo o concederne l’uso in licenza a terzi. La registrazione di un marchio, sia nazionale che comunitario, ha la durata di dieci anni e può essere rinnovata di decennio in decennio senza limiti di tempo. La registrazione attribuisce il diritto assoluto ed esclusivo: di usare il marchio per contraddistinguere i propri servizi o prodotti; di vietare a terzi l’uso del marchio su prodotti o servizi identici o simili. Nella nozione “uso” del marchio, riservato al titolare, vengono comprese molte attività quali: • • • • • • •

l’apposizione del marchio sul prodotto e sulle confezioni al momento della fabbricazione; la commercializzazione; l’importazione; l’esportazione; l’uso pubblicitario; la cessione del marchio; la licenza di marchio; 201


l’uso del marchio nella corrispondenza commerciale.

Il titolare del marchio può inoltre impedire a terzi di utilizzare un segno uguale o simile a quello oggetto di un marchio altrui registrato come propria ditta, ragione o denominazione sociale.7

6.2.4. La cessione del marchio, licensing e il merchandising Abbiamo sopra evidenziato che il marchio indica l’origine dei prodotti da una impresa determinata. Il legame tra marchio e impresa è pertanto molto rilevante. Per tale ragione il legislatore ha ritenuto tale legame inscindibile, in passato e fino a tempi recenti, ponendo il divieto di cessione del marchio se non contestuale al trasferimento dell’azienda o del ramo di essa a cui il marchio è legato. Il trasferimento del marchio può avvenire per tutti o per solo alcuni dei prodotti o servizi per cui è stata ottenuta la registrazione. Oltre che trasferito, il marchio può essere concesso in uso ad un altro imprenditore. In tal caso si parla di licenza di marchio. Il soggetto che concede in uso il marchio si chiama licenziante e resta il titolare della registrazione; colui che utilizza il marchio si chiama licenziatario. A differenza della cessione che ha carattere definitivo, il diritto acquisito dal licenziatario ha una durata limitata nel tempo più o meno lunga a seconda delle previsioni contrattuali. La licenza di marchio, così come la cessione, può essere sia totale che parziale, cioè può riguardare la totalità o solo alcuni dei prodotti per cui il marchio è stato registrato.

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La licenza può inoltre riferirsi all’intero territorio coperto dalla registrazione del marchio o solo a parte di esso. Essa, infine, può essere esclusiva o non esclusiva. Con la licenza esclusiva solo un licenziatario avrà diritto di usare il marchio in un determinato ambito. La licenza non esclusiva attribuisce, invece, il medesimo diritto d’uso del marchio a più licenziatari in riferimento ai medesimi prodotti e territorio. Da quanto detto emerge che con il contratto di licenza di marchio il licenziante concede al licenziatario, per la durata stabilita del contratto di licenza, il diritto di usare il marchio apponendolo su prodotti o servizi identici o simili da un punto di vista merceologico a quelli per cui è stato creato. Da tale figura si distacca il contratto di merchandising di marchio con cui il licenziante concede al licenziatario il diritto di usare il marchio in relazione a prodotti differenti da quelli originariamente fabbricati o commercializzati dal licenziante, cioè appartenenti ad un settore merceologicamente diverso dal proprio. Quello che viene ceduto è, in altri termini, la possibilità di sfruttare il valore suggestivo ed evocativo di un determinato sogno distintivo.

6.3. La contraffazione: nozione e strategie Tecnicamente la contraffazione viene definita come l’uso di un marchio o di un disegno o modello non autorizzato dal titolare. Si parla quindi di contraffazione sia quando il disegno o il marchio sia stato imitato integralmente, sia quando vi siano delle diversità ma di mero dettaglio e siano, invece, presenti tutti gli elementi essenziali.8 Il fenomeno della diffusione nel mercato a livello internazionale di 203


marchi contraffatti è tristemente noto e incide in maniera pesante sulle aziende del settore moda. Tale consapevolezza spesso si accompagna negli operatori del settore moda ad una sensazione di sfiducia nella possibilità di arginare tale mercato sempre più prospero, e di evitare di conseguenza i danni ingenti che ne derivano, nella convinzione che qualunque azione legale non porterebbe a risultati risolutivi del fenomeno né ad un effettivo risarcimento del danno subito. Solo un’attività di contrasto integrata, condotta su più fronti, è in grado di contrastare efficacemente tale fenomeno. Gli strumenti di lotta utilizzabili possono consistere in: •

Azioni aziendali volte a prevenire e reprimere la contraffazione quali:

1. la tutela della creazione e sviluppo del prodotto attraverso l’innovazione e la differenziazione del prodotto in modo da renderlo meno imitabile; 2. la registrazione dei marchi e dei disegni o modelli in modo da assicurarsi una protezione legale; 3. l’intensificazione del controllo sulle fasi produttiva e distributiva del prodotto attraverso l’adozione di tecnologie avanzate che rendano più difficile la riproduzione dei prodotti (quali ologrammi, etichette di tipo chimico, fibre ottiche ecc..) •

la scelta accurata e il controllo dei fornitori delle materie

prime, dei “terzisti” e licenziatari e dei canali distributivi anche attraverso la stipulazione di contratti che riducano al minimo la pos204


sibilità che chi riceve dall’azienda moda materiali e know-how ne faccia un uso illecito; •

la limitazione, ove possibile, dei passaggi tra produzione e distribuzione evitando il crearsi di una filiera troppo lunga che sfugga inevitabilmente al controllo diretto;

collaborazioni con investigatori privati e autorità di polizia per individuare i contraffattori;

azioni legali sia in sede civile che penale.

6.3.1. Strumenti di tutela giudiziale La tutela giudiziale costituisce, come si è visto, solo uno tra i tanti strumenti di contrasto del fenomeno della contraffazione. Gli strumenti giudiziali intervengono ovviamente quando si è già verificata la violazione di un diritto di proprietà industriale e servono ad arrestare l’azione illecita, bloccando rapidamente la produzione e/o il commercio di un prodotto moda contraffatto, e ad impedire il reiterarsi della stessa. Visti i tempi notoriamente lunghi della giustizia, in particolare di quella italiana, sembrerebbe che iniziare un’azione legale nei confronti del contraffattore sia una battaglia persa in partenza. Il legislatore ha dato una risposta positiva alla menzionata esigenza di celerità attraverso la tutela cautelare che consente di ottenere dei provvedimenti giudiziali, e quindi un risultato, nell’immediatezza della violazione da parte del contraffattore evitando così che l’attesa della sentenza finale possa compromettere del tutto le ragioni del titolare del marchio o disegno. Le misure cautelari sono definite strumentali in quanto producono 205


effetto temporaneamente fino a che non viene emanata la sentenza che conclude il giudizio di contraffazione e che dispone le misure finali contro il contraffattore. Per poter ottenere le misure cautelari deve sussistere un duplice presupposto: il pericolo nel ritardo (occorre cioè provare che l’attesa del tempo necessario alla emissione della sentenza «comprometterebbe la possibilità di ottenere in concreto la tutela richiesta»); l’accertamento da parte del giudice, benché sommario, dell’esistenza del diritto. Le misure cautelari previste dalla normativa sono: 1. il sequestro; 2. la descrizione; 3. l’inibitoria. 1. Con il sequestro viene posto un vincolo di indeterminabilità sui beni determinati al fine di garantire che gli stessi non vengano venduti o altrimenti ceduti e ne sia mantenuto lo stato di fatto per il tempo necessario alla risoluzione della controversia con la sentenza di merito. I beni sequestrati sono affidati ad un custode con l’incarico di conservarli fino alla sentenza che definisce il giudizio di contraffazione. Possono essere sequestrati: → i beni prodotti in violazione dei diritti derivanti dalla registrazione; → i mezzi adibiti alla produzione dei medesimi, cioè le macchine e gli impianti industriali; → gli elementi di prova relativi alla violazione denunciata; → gli oggetti appartenenti a terzi, purché si tratti di oggetti prodotti, offerti, importati o distribuiti dalla parte nei confronti della quale sia stato emesso il provvedimento di sequestro. Il sequestro persegue una triplice finalità: •

di sottrarre al contraffattore la disponibilità dei beni sequestrati, impedendone così la circolazione e quindi la propagazione 206


dell’illecito;

di acquisire e conservare gli elementi di prova dell’avvenuta contraffazione evitando che vengano sottratti e che i beni vengano immessi nei circuiti commerciali;

di impedire la continuazione e reiterazione della violazione limitando così il danno subìto dall’azienda.

2. La descrizione è una misura di istruzione preventiva che ha, cioè, la funzione specifica di accertare ufficialmente le caratteristiche dei prodotti che si ritiene siano stati realizzati in violazione del diritto di proprietà industriale in modo da precostituire una prova certa e incontestabile della contraffazione da poter utilizzare nel successivo giudizio di merito. I beni che possono essere “descritti” sono gli stessi che possono essere sequestrati. Ecco perché la descrizione è spesso richiesta unitamente al sequestro. 3. L’inibitoria è una misura cautelare con cui il giudice vieta al contraffattore di proseguire o riprendere la produzione e/o la commercializzazione o l’uso di quanto costituisce oggetto di contraffazione del disegno o modello. Tale obbligo di non fare è rivolto alla persona del contraffattore, vincolandone l’attività e, a differenza del sequestro, non pone alcun vincolo di indisponibilità sui beni. L’inibitoria è, in altri termini, una misura cautelare di notevole efficacia in quanto impedisce il ripetersi della violazione e l’espansione del danno. Tale misura è provvisoria, opera cioè per tutto il tempo che dura il giudizio. Alle misure cautelari seguono necessariamente i provvedimenti fi207


nali disposti dal giudice con la sentenza che definisce nel merito il giudizio i quali, per definizione, non hanno carattere transitorio e strumentale bensì durevole nel tempo. Le principali misure finali sono: l’inibitoria definitiva (si intende un ordine di astensione dalle attività di fabbricazione, commercio e uso di quanto costituisce violazione del diritto); il risarcimento dei danni (misura volta a compensare le perdite e i mancati guadagni subìti dall’azienda quale conseguenza degli atti di contraffazione. Il danno si quantifica in genere misurando, da un lato, le perdite subite dall’azienda, danno emergente, e dall’altro lato, il mancato guadagno, ossia lucro cessante, conseguente agli atti di concorrenza sleale); la pubblicazione della sentenza (decide sulla contraffazione su uno o più giornali a spese del contraffattore; questa sanzione è tra le più incisive tra quelle elencate per gli effetti devastanti che potrebbe avere sulla reputazione commerciale del contraffattore); la rimozione e la distruzione delle cose costituenti la violazione; e i provvedimenti alternativi (la misura probatoria, cioè di acquisizione nel processo di nuovi elementi di prova contro il contraffattore, ma anche repressiva, volta cioè ad acquisire dei nuovi elementi di conoscenza del fenomeno contraffattivo per individuare e perseguire anche terzi responsabili estranei al singolo processo).

6.4. Guida all’import-export: le misure alla frontiera La merce che forma oggetto di commercio internazionale deve, prima o poi, attraversare la linea doganale: è opportuno quindi che questo adempimento sia preparato in anticipo per evitare soste ai mezzi 208


di trasporto e non incorrere in sanzioni. Nell’affrontare l’esame della legislazione in materia doganale e di commercio estero, occorre innanzi tutto effettuare una distinzione per versante: quella interna italiana (in gran parte di derivazione comunitaria) e quella del paese estero acquirente o fornitore. I compiti delle dogane si possono così classificare: •

Fiscale, di riscossione di imposte sulle merci in arrivo e concessione di sgravi di imposte sulle merci in uscita;

Applicazione della normativa sui divieti al commercio con l’estero, e relative procedure di sorveglianza e controllo, motivati sia da ragioni economiche che da ragioni strategiche, sanitarie, o altre;

Controlli tecnici, per verificare che le merci presentino, a tutela del consumatore, i requisiti minimi prescritti per essere immessi in commercio o al consumo;

Raccolta di dati statistici, che, trasmessi all’Istituto Centrale di Statistica, vengono utilizzati per elaborare le statistiche del commercio internazionale;

Gli elementi caratterizzanti dell’unione doganale europea (mercato interno) sono: •

Nei rapporti con l’estero: la “tariffa esterna comune”

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e una

legislazione uniforme per regolare i rapporti con i Paesi terzi; •

Nei rapporti interni: la libera circolazione per le merci in libera pratica.

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Ogni operazione di importazione o di esportazione deve essere preceduta da una dichiarazione. Ai sensi della normativa comunitaria, può agire come “dichiarante” in dogana chiunque sia in grado di presentare alla dogana le merci e tutti i documenti necessari per il regime doganale dichiarato. Nella dichiarazione doganale deve essere indicato se la persona che sottoscrive è un dichiarante che agisce in proprio, oppure un rappresentante, e quale sia la forma di rappresentanza che gli è stata conferita. Assai differenziate sono infatti le conseguenze circa l’assunzione di responsabilità: •

Dichiarante che agisce personalmente o a mezzo di rappresentante diretto: tutti gli effetti/responsabilità circa il debito doganale ricadono sul dichiarante/rappresentato; lo spedizioniere doganale non risponde delle sanzioni se riconosciuto “autore mediato”;

Rappresentante indiretto: assume la responsabilità solidale con il rappresentato per il debito doganale ed è responsabile in proprio per le sanzioni amministrative.

I controlli e le formalità doganali (sia di esportazione e di importazione, sia di transito) restano applicabili nei seguenti casi: circolazione di merci non comunitarie; spedizione verso e arrivo da un Paese terzo; spedizione verso e arrivo da una zona esclusa dal territorio comunitario o che non applica la legislazione comunitaria sull’IVA.

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6.4.1 Origine doganale Le regole che definiscono l’origine di una merce si classificano schematicamente in due categorie: •

origine commerciale: quelle che definiscono la nozione comune di origine, emanate in via autonoma dall’Unione Europea (origine non preferenziale). Esse sono utilizzate per attribuire l’origine comunitaria ai prodotti esportati verso i paesi non legati all’U.E. da accordi tariffari (ad esempio USA, Canada, ecc..) attestata su un certificato di origine; all’importazione dai suddetti paesi la Comunità accetta le certificazioni rilasciate secondo le regole autonome di ciascun paese esportatore;

origine doganale: quelle che definiscono delle nozioni particolari di origine (origine preferenziale) che risultano degli accordi conclusi dalla Comunità con differenti paesi o gruppi di paesi, attestata con un certificato o documenti al fine di far beneficiare di dazi preferenziali i prodotti originari.

In entrambi i casi, perché un prodotto sia considerato originario dell’UE è sufficiente che le relative condizioni vengano soddisfatte globalmente nella Comunità.

6.4.2. Le misure doganali contro la contraffazione Un cenno a parte meritano le misure doganali contro la contraffazione. Queste possono rivelarsi molto efficaci nell’ottica preventiva, in quanto impediscono l’ingresso delle merci contraffatte nel territorio dello Stato. Se il titolare del diritto di proprietà intellettuale dimostra 211


di avere valide ragioni per sospettare che possano essere violati i propri diritti può ottenere la sospensione o il diniego dello svincolo e il blocco delle merci da parte delle autorità doganali, allegando alla richiesta una descrizione particolareggiata delle merci per consentirne il riconoscimento. In caso di revoca di tale misura provvisoria, l’autorità giudiziaria può ordinare a questi un adeguato risarcimento, su richiesta del convenuto, per il pregiudizio subìto. A tutela dei segni distintivi il nostro ordinamento prevede non solo la tutela civile sopra descritta bensì anche una tutela penale. Tre sono le figure di reato previste e punite dalla legge in questa materia. La prima figura punisce la commercializzazione di prodotti industriali e di opere dell’ingegno con marchi o altri segni distintivi contraffatti o alterati. La seconda previsione punisce l’introduzione nello stato e commercializzazione di prodotti industriali o di opere dell’ingegno con marchi o altri segni distintivi fallaci, intendendo con tale espressione l’attitudine a trarre in inganno i consumatori, sulla origine, provenienza o qualità del prodotto. La terza figura è volta a punire la commercializzazione di prodotti industriali e agricoli con indicazione di origine o provenienza falsa (cioè non rispondente a realtà perché contraffatta o alterata) oppure fallace (cioè idonea ad ingannare sulla origine o provenienza).

6.5. La tutela del Made in Italy Il “Made in Italy” rappresenta, in particolar modo nel settore della moda, un forte richiamo e un indice di alta qualità dei prodotti da esso contrassegnati; esso è quindi un valore aggiunto per le nostre 212


aziende che ne determina l’elevata competitività sul mercato internazionale. L’indicazione di provenienza italiana opera come veicolo di comunicazione al consumatore del valore qualitativo di un determinato prodotto, in tal modo agevolando i produttori e garantendo al tempo stesso il consumatore. L’economia italiana si fonda prevalentemente sul lavoro di piccole e medie imprese che si collocano con difficoltà e in maniera poco competitiva in un mercato globalizzato dove sempre più aziende trasferiscono la produzione o parte di essa al di fuori del territorio italiano in Paesi dove il costo del lavoro è molto più basso. Anche se il legislatore italiano ha di recente dettato delle norme a tutela del Made in Italy, non è stata ancora emanata una regolamentazione di tale marchio, seppure prevista dal legislatore stesso. Sono stati, tuttavia, presentati diversi progetti di legge in Parlamento, molti dei quali prevedono che tale etichetta possa essere apposta solo ai prodotti progettati e lavorati interamente in Italia, dal design al confezionamento. Altri progetti prevedono che la protezione del marchio Made in Italy possa essere estesa anche in prodotti che sono stati realizzati, anche parzialmente, in altri Paesi purché siano state realizzate in Italia le fasi salienti di realizzazione del prodotto. La soluzione più restrittiva configge con gli interessi della grande impresa italiana sempre più delocalizzata all’estero, in una o più fasi produttive. Gli altri progetti giustificano la soluzione restrittiva proprio per proteggere le piccole e medie imprese italiane che, non essendo in grado di spostare la produzione all’estero, cosa che consentirebbe di beneficiare di costi produttivi molto inferiori di quelli che si hanno in Italia, si trovano svantaggiati e costretti a praticare dei prezzi più elevati. Tale soluzione parte dall’assunto che le lavorazioni esterna213


lizzate in altri Paesi non abbiano la stessa garanzia di qualità di quelle prodotte dall’esperienza artigianale italiana e che solo un prodotto interamente realizzato in Italia può essere legittimamente portatore di quel messaggio di qualità e creatività rivolto al consumatore che il “Made in Italy” richiama. Vi è chi sostiene, invece, che è l’origine imprenditoriale e non la localizzazione della produzione che garantisce la qualità del prodotto e legittima l’uso del marchio “Made in Italy”, in quanto si presuppone un controllo attento dell’imprenditore italiano anche sulle modalità di svolgimento delle lavorazioni dislocate all’estero. Dal punto di vista tecnico-giuridico il marchio “Made in Italy” rientrerebbe nella categoria dei c.d. marchi collettivi, analizzati nel capitolo precedente, dove il titolare del marchio è soggetto diverso dalle singole aziende che lo utilizzano sui propri prodotti. Secondo taluni progetti di legge la proprietà del marchio “Made in Italy” spetterebbe allo Stato italiano che poi lo ‘può attribuire alle varie aziende che ne facciano domanda purché siano presenti determinati requisiti. Ad oggi il legislatore italiano è intervenuto con la Finanziaria 2004 esprimendo l’intenzione di proteggere e promuovere i prodotti “Made in Italy” anche attraverso la regolamentazione dell’indicazione di origine o l’istituzione di un marchio apposito che tuteli i beni integralmente prodotti nel territorio italiano.

6.5.1. Progetto Sos Etichettatura Nel quadro di riferimento della tutela del “made in” rientra il progetto, piuttosto recente, “SOS Etichettatura”, realizzato da Federa214


zione Moda Italia-Confcommercio, ed esposto il 13 Ottobre 2014 a Caltanissetta. Suddetto progetto è stato reso manifesto durante un seminario condotto da Massimo Torti, vicepresidente di FederModa Italia, e Renato Borghi, attuale presidente in carica. L’iniziativa nasce da un’esigenza informativa e formativa, ma si completa anche con importanti aspetti di comunicazione a vantaggio della trasparenza nei confronti dell’imprenditore commerciale e del consumatore. L’obiettivo del progetto è mettere nelle condizioni gli imprenditori di evitare pesanti sanzioni, effettuare correttamente gli ordini ispettivi e stimolare i fornitori ad etichettare in maniera corretta e, ultimo ma non ultimo, garantire trasparenza e fiducia al consumatore finale. L’attualità del progetto risiede nell’entrata in vigore - l’8 Maggio 2012 - del Regolamento Europeo 1007/2011 sulle denominazioni delle fibre tessili, l’etichettatura e il contrassegno della composizione fibrosa dei prodotti tessili, che regolamenta una normativa complessa che ha introdotto, tra l’altro, alcune novità come ad esempio: •

l’indicazione della dicitura “Contiene parti non tessili di origine animale”;

l’abolizione dell’uso della dicitura “minimo 85%”;

la specificazione della percentuale di tutte le fibre presenti, fatte salve le tolleranze e i criteri d’uso della dicitura “altre fibre”.

Per queste novità, il Regolamento 1007/2011 ha comunque previsto una moratoria, secondo la quale la mancanza o l’errata etichettatura dei prodotti tessili determina:

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confusione tra i consumatori;

un danno per i commercianti (gravati di un’eccessiva responsabilità in termini di onore di controllo visivo);

un indebolimento dell’immagine dei produttori e del “Made in Italy”;

un apparente e generalizzato abbassamento degli standard di qualità;

un potenziale rischio per la tutela della salute e la sicurezza pubblica;

una possibile truffa ai danni del mercato e del consumatore.

Il progetto si pone, dunque, l’obiettivo di creare consapevolezza negli operatori e di conseguenza – attraverso la professionalità di questi ultimi – nei consumatori finali del valore delle indicazioni presenti nelle etichette dei prodotti tessili. In quest’ottica, si ritiene quindi indispensabile fugare qualsiasi confusione tra gli operatori della filiera, fare chiarezza su prescrizioni normative, comportamenti da tenere, responsabilità dei produttori e degli operatori commerciali, sulle sanzioni 10, diffondere le informazioni sulle regole e le responsabilità perché ancora oggi, sul mercato, sono presenti prodotti con etichette multilingue, in lingua inglese, abbreviazioni, percentuali, riferimenti al “made in”, alla manutenzione, ecc.., di cui ancora poco si conosce. Per la sua realizzazione sono stati adottati degli strumenti: 1. Rafforzamento delle azioni di informazione e di sensibilizzazione alle imprese sul tema etichettatura, della tracciabilità e del “made in” con la realizzazione di corsi di formazione dedicate alle imprese con focus e workshop di approfondimento con la docenza professionale 216


di Federazione Moda Italia-Confcommercio; 2. Realizzazione e distribuzione di un Kit Sos Etichettatura di FederModa composto da un prontuario sulle normative esistenti; un vademecum con consigli pratici; un fac-simile di lettera di un consulente legale per segnalazioni e richieste; un timbro ad hoc per rispetto della normativa vigente da apporre sulle copie delle commissioni. 3. Creazione, nell’ambito del sito internet www.federazionemodaitalia.it, di una White list di imprese che etichettano nel rispetto della normativa e di una black list delle imprese che, invece fanno correre il rischio ai commercianti di vedersi elevare pesanti sanzioni per etichette compilate dalle stesse aziende fornitrici in maniera non conforme al Regolamento. Il progetto, ancora in corso, intende quindi promuovere e valorizzare alcune buone pratiche e comportamenti rispettosi della ratio della norma – volta ad informare i consumatori sulla composizione dei capi di moda – anche con l’obiettivo di vedere aumentate le probabilità di ottenere la comminazione del minimo della sanzione.

6.6. La tutela della moda all’estero La contraffazione riguarda tutti i settori del diritto della proprietà industriale e intellettuale, anche se in maniera spesso significativamente differente. È da notare che le caratteristiche di tale fenomeno sono state in parte modificate dall’avvento e dalla diffusione della tecnologia in Italia come in tutto il mondo: mentre originariamente la contraffazione era opera essenzialmente di organizzazioni clandestine che miravano ad ingannare il pubblico, oggi si è maggiormente 217


radicata a livello sociale. Basta girare un qualsiasi angolo di Canal Street a New York, Via Sannio a Roma, Via Forcella a Napoli, Rue Saint Ouen a Parigi per essere avvicinati da qualcuno che tenta di vendere una borsa di Gucci o di Chanel, un bracciale di Tiffany o Bulgari, un orologio Rolex. Tutti falsi. Copie spesso perfette di prodotti di marca vengono vendute in tutto il mondo a un prezzo ridicolmente inferiore all’originale, aprendo così le porte a un nuovo mercato, quello della contraffazione del lusso che si sta espandendo sempre di più in tutto il mondo. I fatturati a cifre esorbitanti che coinvolgono le attività di contraffazione alimentano ogni giorno terrorismo, creando una diramazione di contatti internazionali che riesce a trovare scappatoie anche nelle più avanzate tecnologie di anticontraffazione messe in atto. Per cercare di arginare la commercializzazione di prodotti contraffatti, le istituzioni comunitarie, tra gli altri provvedimenti, hanno emanato dei Regolamenti, in cui vengono stabilite le condizioni di intervento delle Autorità Doganali nel caso in cui merci sospette di violare un diritto di proprietà industriale o intellettuale siano immesse nel mercato. Piuttosto che generalizzare ci sembra preferibile analizzare la situazione di qualche Paese più nello specifico.

6.6.1. Olanda e Germania Attualmente, l’Olanda è il Paese Europeo maggiormente preso ad esempio in materia di proprietà intellettuale. Le normative sono efficaci e, spesso non esitano, tramite delle ingiunzioni, a interdire gli atti illegali di contraffazione nel contesto dell’Unione Europea. Il 218


diritto d’autore è il principale ad essere tutelato. In Germania, le creazioni vestimentarie e gli accessori di moda beneficiano della protezione del diritto d’autore e del diritto tutelare di disegno o modello, a condizione della presentazione di un attestato che possa rimarcare la legittimità delle creazioni. I giudici tedeschi rifiutano abbastanza frequentemente l’applicazione della protezione del diritto d’autore su dei pro- dotti moda e, altrettanto frequentemente sanzionano gli atti di riproduzione illecita nel nome della concorrenza estera. Le normative tedesche, sempre più specializzate, sono molto tecniche e competenti. Il costo di un processo per contraffazione è, tuttavia, molto più costoso rispetto all’Italia, soprattutto perché gli avvocati sono remunerati in base al “peso” del contenzioso.

6.6.2. L’Inghilterra La legge, generalmente, chiede di soddisfare condizioni molto rigorose, anche per quanto riguarda il carattere estetico di un modello. Le modalità di creazione in Inghilterra possono beneficiare largamente della salvaguardia del diritto d’autore e la legge di tutela sui disegni e modelli. La protezione del modello tramite la legge vigente non è concessa facilmente come accade in Italia e, di conseguenza, i contenziosi sono relativamente rari. Infine, il sistema, basato su un “controllo incrociato” di ogni modello, è un sistema molto oneroso.

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6.6.3. La Spagna e il Portogallo Ufficialmente le creazioni di moda sembrano beneficiare in questi due paesi dalla legge sul diritto d’autore e della legge sulla tutela di disegni o modelli. Ma, considerando che le controversie sono rare, per non dire inesistenti, è difficile affermare che le creazioni di moda beneficiano effettivamente del diritto d’autore e dei disegni o modelli. Questo si verifica perché gli imprenditori preferiscono agire, nei loro paesi, sulle fondamenta poste dal diritto dell’originalità dei marchi. Questi due paesi si caratterizzano per un importante formalismo che li vede molto impegnati nella persecuzione dei contraffattori: i tribunali esigono delle documentazioni ben certificate e, a volte, si esige altresì la presenza ai processi dei dirigenti dell’impresa querelante.

6.6.4. I Paesi nordici (Norvegia, Finlandia, Danimarca, Svezia). E’ solito trattare dei paesi nordici all’interno di un’unica e sola rubrica, tenuto conto del fatto che questi paesi hanno – in materia del diritto d’autore – delle leggi simili per non dire identiche. E’ constatabile che questi paesi tutelano le creazioni di moda attraverso il diritto d’autore, il diritto dei disegni o modelli, il diritto dei marchi e/o la concorrenza estera. Nel 1995, anche la Corte Suprema della Svezia ha accordato il beneficio del diritto d’autore. La Corte generalmente penalizza l’importatore del modello contraffacente. La responsabilità è unicamente sua per non essersi accertato sull’origine e provenienza del modello importato. 220


6.6.5. La Svizzera La dottrina della legislazione svizzera sembra contraddittoria in merito alla protezione degli articoli di moda per il diritto d’autore. Secondo il Tribunale Federale «l’autore può ispirarsi a forme conosciute, ma non deve limitarsi a delle trasposizioni che tutti gli artigiani abili potrebbero realizzare in maniera identica o analoga». E’ curioso come il Tribunale federale neghi l’esistenza di un diritto d’autore a proposito degli orologi. La tutela dei marchi è notevolmente messa in atto per combattere il fenomeno della contraffazione estera.

6.6.6. Il Canada e gli Stati Uniti La legislazione canadese resta ancora relativamente vicina alla legislazione inglese tanto in materia di copyright quanto in materia di disegni o modelli. I tribunali canadesi restano reticenti a tutelare le creazioni di moda tanto per il diritto d’autore quanto per il diritto di disegni e modelli. In materia di disegni e modelli è saputo che un disegno per essere registrato, deve differire sostanzialmente da quelli già esistenti e deve tradurre in qualche modo una parcella di creatività innovatrice. La sola originalità, quella che caratterizza il diritto d’autore, non basta più. Di contro, sembra che la legge canadese tutela più facilmente le creazioni vestimentarie. Il criterio d’originalità è meno rigoroso di quello dell’innova- zione, per cui non fa appello al merito dell’opera. Le creazioni di moda possono beneficiare negli Stati Uniti della tute221


la del diritto d’autore, dei disegni e modelli e della tutela dei marchi. Per numerosi anni la legge americana ha rifiutato la protezione del diritto d’autore nei capi d’abbigliamento sia perché trattasi di un “articolo utile”, sia perché i suoi elementi decorativi non possono essere concettualmente separati dal loro elemento funzionale” 11. Ma questa legge deve essere ponderata. Per beneficiare della protezione del copyright le produzioni vestimentarie devono essere originali, cioè portare non soltanto la marca della personalità del loro autore ma ugualmente distinguersi per altre qualità. La contraffazione è notevolmente contrastata. I motivi scaturiscono dal fatto che nell’area tra la Broadway e Canal Street, al confine meridionale con Soho, uno dei quartieri più alla moda di Manhattan, vi è un insediamento di punti vendita, gestiti da cinesi, dove vengono smerciate imitazioni di articoli della pelletteria, occhialeria e profumeria di scadente qualità. Un altro aspetto è la vendita di prodotti knockoffs 12 da parte di ambulanti che sono posizionati lungo le strade più esclusive di New York e adiacenti ai negozi dei brand del lusso. Ciò avviene perchè nello Stato di New York, i tribunali hanno stabilito che sia lecito vendere “knockoffs”, a condizione che sulle imitazioni non sia apposto il marchio di fabbrica del prodotto originale. Sulla merce in entrata, le dogane Usa esercitano diverse forme di controllo, verificando che: • •

si tratti di un prodotto con marchio registrato a livello federale e trascritto presso gli stessi uffici doganali; si tratti di un nome commerciale (la ragione sociale dell’azienda); in questo caso, il nome non si registra, ma è comunque registrabile presso le dogane se consiste nel nome utilizzato per 222


• •

identificare l’impresa o il produttore per un periodo di tempo di almeno sei mesi; si tratti di diritti di copyright registrati presso lo US Copyright Office e successivamente trascritti presso le dogane.

Qualora dall’attività di verifica si riscontri che le merci in entrata rechino marchi contraffatti, le dogane statunitensi possono vietarne l’accesso ovvero possono bloccarle e/o sequestrarle.

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Note al Capitolo 6 1. Segretario generale Federazione Moda Italia e Confcommercio Italia 2. Presidente Federazione Moda Italia e Confcommercio Italia 3. Spetta ovviamente al giudice stabilire se determinati dettagli possano essere considerati irrilevanti o meno. La giurisprudenza afferma che il requisito di originalità deve essere inteso nel senso relativo e che il maggiore o minore rigore nell’affrontare tale giudizio dipenda anche dal settore industriale interessato. Pertanto, anche minime differenze possono essere degne di tutela. Il requisito della novità è estrinseco, oggettivo, anche se coinvolge delle valutazioni in ordine alla linea di demarcazione tra ciò che costituisce un dettaglio irrilevante o meno. 4. In passato la legge italiana prevedeva tra i requisiti di tutela il “carattere ornamentale”. Si dava quindi rilievo al valore estetico del prodotto richiedendo che il modello rivestisse un certo pregio estetico. L’attuale disciplina fa riferimento solo all’aspetto esterno del prodotto. Ciò ha comportato un abbassamento della soglia di accesso alla registrazione di modelli che non presentino un particolare pregio estetico e quindi un ampliamento della stessa. 5. Come ottenere la registrazione: è necessario presentare una domanda all’Ufficio Italiano Brevetti e Marchi o ad una Camera di Commercio. La domanda può essere presentata personalmente dall’autore o dalla società datrice di lavoro. Accade di solito che la domanda venga redatta da consulenti in proprietà industriale. La predisposizione di una domanda di registrazione ben articolata costituisce un passo fondamentale per il suo accoglimento e per la successiva tutela. 6. ANTOCI, ORCIANI 2008, pp. 94 7. Diverso è invece il caso di un soggetto che registri un nome a dominio identico o simile a un marchio che goda di rinomanza. Cos’è successo? La Giorgio Armani S.p.a., al momento di eseguire i controlli preliminari per la richiesta di registrazione del domain name “armani.it”, scopre che il medesimo era già stato registrato dal proprietario di un timbrificio per contraddistinguere il proprio sito internet e utilizzarlo per la vendita dei timbri. In questo caso, la qualificazione del marchio Armani come marchio registrato che gode di rinomanza ha comporta l’applicazione di tutta la speciale tutela ampliata riconosciuta per i marchi celebri: il giudice non ha potuto quindi esimersi dal dichiarare l’illiceità sia della

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precedente registrazione, sia dell’utilizzazione del domain name “armani”, inibendo al titolare del timbrificio l’uso della parola dove non accompagnata da elementi idonei a differenziarla dal marchio “Armani”. SEGNALINI 2012, p. 53 8. Non a caso, la moda ci offre una casistica quasi sterminata, in cui compare davvero tutto e il contrario di tutto. Non solo perché in Paesi come la Cina, oltre ai marchi cinesi di abbigliamento, troviamo anche marchi, per così dire, “fintamente italiani”. Ma anche perché in quegli stessi Paesi la lotta alla contraffazione è dura: come dimostra il caso di una ditta cinese, la Senda, che è stata sì recentemente condannata a risarcire Gucci per aver distribuito sandali con un marchio molto simile a quello della casa di moda italiana, ma per una pena pecuniaria che sa quasi dell’offesa. Solo 26.000 dollari. Mentre, all’estremo opposto, davanti al tribunale di Los Angeles, Versace è riuscito recentemente a spuntare venti milioni di dollari contro un commerciante di capi di vestiario d’imitazione che sfruttava il suo marchio, immettendo nel mercato merce molto scadente: è stata erogata in questo caso la pena massima per quasi tutti i numerosi capi di accusa. 9. Tariffa doganale comunitaria: si può definire come la raccolta sistematica dei settori merceologici nei quali trovano collocazione le merci, oggetto di scambio internazionale. Per ciascuna categoria merceologica la tariffa stabilisce l’imposta (dazio), le eventuali misure antidumping e gli eventuali dazi compensativi (antisovvenzione) a cui le merci devono essere assoggettate. SMI-ATI 2007, p. 71 10. Va infatti rilevato come la sanzione vada ad incidere in modo molto più gravoso sul piccolo commerciante che sul grande fornitore/produttore, nonostante la possibilità di avvalersi del diritto di rivalsa. Al negoziante, infatti, viene mossa una sorta di culpa in vigilando con conseguente sanzione amministrativa (da 103 € a 3.098 €) e l’eventuale ritiro dei prodotti. Il negoziante si trova, quindi, a dover fronteggiare un danno emergente (sanzione e ritiro di prodotti acquistati dal fornitore) ed un lucro cessante (impossibilità di poter vendere la merce). 11. BERTRAND .p 206 12. prodotti contraffatti o imitazioni offerte in vendita che, pur riproducendo il disegno o lo stile di un prodotto, non ne copiano esplicitamente il marchio

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PARTE SECONDA



CAPITOLO VII IL PROGETTO Nella seconda parte di questa argomentazione intendiamo elevare a progetto le competenze acquisite, poichè la tesi è da considerarsi il presupposto di un futuro progetto lavorativo, che prevede il mantenimento della collaborazione a titolo manageriale con la stilista Tiziana Capillo. Per l’avvio del suo brand di moda Korai adotteremo, prima di tutto, una strategia mirata alla penetrazione sul mercato. Come vedremo più dettagliatamente, in corso d’opera il fine del progetto è mutato a causa dei risultati che pian piano andavamo ottenendo. Partiti dall’idea originale di avviare un punto vendita, la mancata possibilità di ottenere dei finanziamenti ci ha condotti verso la preferenza del canale retail. Siamo giunti, così, all’alternativa definitiva: la creazione di un sito di vendita online “e-commerce” per consentire alla nostra Startup una fase di avvio più sicura e con un basso indice di rischio. In questa sezione non mancheranno le nozioni teoriche che saranno, però, di origine conoscitiva per agevolarci nella comprensione delle tappe che andremo ad affrontare. Partiremo con l’apprendimento della nozione “startup”, essendo questa la base del nostro ragionamento. Il tema startup è oggi al centro di diverse iniziative governative, nazionali ed europee, nella consapevolezza che si debba considerare anche un’altra variabile fondamentale: l’imprenditorialità. Nuove e piccole imprese, le cosiddette startup, sono divenute elementi critici grazie alla loro abilità nel riconoscere e sfruttare le opportunità commerciali derivanti dai cambiamenti tecnologici, 229


competitivi e di mercato. Vediamo insieme di dare una definizione accurata del termine.

I. Cos’è una Startup Discutere di startup significa considerare almeno tre aspetti centrali: il primo riguarda la definizione della stessa; il secondo le sue differenti tipologie organizzative; il terzo aspetto riguarda la diversità degli ecosistemi di supporto alla nascita, e relativi sviluppo e consolidamento. Che cos’è dunque una startup? E’ un’organizzazione temporanea che ricerca un modello di business scalabile, ripetibile e redditizio. Come risultato, il business model di una startup è un canvas1, una tela ricoperta di idee e supposizioni, ma senza clienti né una minima conoscenza sui clienti. E’, dunque, la startup un’istituzione umana studiata per creare nuovi prodotti e servizi che, in quanto tale, richiede un nuovo tipo di management tarato specificamente sul contesto di «estrema incertezza». Creare una startup non significa sviluppare solo un nuovo prodotto, ma il più delle volte sviluppare un nuovo mercato per questo prodotto e trovare i clienti. A livello di policy pubbliche a supporto della nascita e sviluppo di nuove imprese, solo di recente si è cominciato a riconoscere i caratteri distintivi delle startup rispetto a imprese già costituite. Anche il nostro paese si è mosso per un diverso riconoscimento giuridico delle startup attraverso una serie di articoli ricompresi nella L. 221/12. Startup: la società deve essere costituita e operare da non più di quarantotto mesi; deve avere la sede dei propri affari e interessi in Italia; il totale del valore della produzione annua, a partire dal secondo 230


anno di attività, non deve superare i cinque milioni di euro; non deve essere stata costituita per effetto di una fusione, scissione societaria o a seguito di cessione di azienda o di ramo di azienda. Le startup, in quanto imprese allo stadio iniziale, rientrano in due categorie: •

mercati con il rischio di clienti/mercato, sono quelli in cui non si sa se i clienti adotteranno il prodotto.

mercati con il rischio di invenzione, sono quelli in cui è discutibile se la tecnologia possa davvero funzionare.

Per le aziende che costruiscono prodotti sul web, lo sviluppo del prodotto potrebbe incontrare delle difficoltà, ma nel tempo e procedendo con più tentativi, i tecnici convergeranno infine su una soluzione e consegneranno un prodotto funzionale. In questo caso il rischio reale è dato dal fatto che non si sa se vi siano clienti e mercato per quello specifico prodotto, trattandosi quindi di rischio clienti/ mercato. Per trovare il cammino giusto verso la costruzione di una startup vincente, gli imprenditori devono quindi adottare un metodo nuovo. Gli imprenditori vincenti gettano dalla finestra i tradizionali processi di management, percepiscono la vision della loro startup come una serie di ipotesi non verificate che necessitano della conferma dei clienti. Per ampliare le loro conoscenze effettuano verifiche continue e correggono gli errori in giorni o settimane, non in mesi o anni, per risparmiare tempo e denaro, evitando di costruire componenti e prodotti che i clienti non richiedono. Lo sviluppo clienti individua nella mission di una startup una ricerca costante volta a perfezionare la sua vision e la sua idea e a cambiare ogni aspetto del business che non sia stato confermato nel processo di ricerca. 231


Un imprenditore cerca di verificare una serie di ipotesi non dimostrate (supposizioni) a proposto del business model: chi sono i clienti, quali dovrebbero essere le caratteristiche del prodotto e come tutto questo potrà servire a rendere la startup un’azienda di grande successo. Lo sviluppo clienti riconosce che la startup è una organizzazione temporanea costruita per cercare le risposte atte a garantire un business model ripetibile e scalabile. Lo sviluppo clienti è il processo che organizza questa ricerca.

II. Come cominciare In fase di iniziazione, talvolta ci si ritrova a non avere certezze in merito ai passi da effettuare. Verosimilmente, invece, si prospettano con maggior certezza i passi da non effettuare Per le maggior parte della

startup, le seguenti ipotesi sono quelle a cui in assoluto non bisogna cedere: 1. Supporre di sapere ciò che il cliente vuole. L’imprenditore crede spesso di sapere chi saranno i clienti, quello di cui hanno bisogno e come lo venderà loro. Qualsiasi osservatore imparziale riconosce che nelle fasi iniziali una startup non ha clienti e, a meno che il fondatore non sia un vero esperto nel campo, può solo fare supposizioni; 2. Credere di sapere quali funzionalità sviluppare. Gli imprenditori, presumendo di conoscere i loro clienti, credono di sapere anche quali sono le caratteristiche di prodotto di cui essi hanno bisogno. Questi ideano, progettano e poi costruiscono un prodotto finito uti232


lizzando i classici metodi di sviluppo. Ma è quello che le startup dovrebbero fare? No, questo è quello che fanno le imprese con clienti già acquisiti; 3. Focalizzarsi sulla data di lancio. Gli investitori sostengono che portare il prodotto sul mercato è ciò che il reparto vendite e marketing fa nelle startup poiché è così che si fanno i profitti. Niente di più sbagliato. Focalizzarsi sulla data di lancio porta a una strategia che ignora il processo di scoperta della clientela, un errore letale. Ovviamente, ogni azienda vuole portare un prodotto sul mercato e venderlo, ma questo non può essere fatto fino a che non è chiaro a chi vendere e perché la gente compra; 4.

Porre enfasi sull’attuazione e non su ipotesi e iterazione. La

cultura delle startup enfatizza il motto «concludi, e e concludi in fretta». Questa strategia è destinata a causare la fine dell’attività perché la startup necessita di operare in modalità di ricerca, verificando e dimostrando ognuna delle ipotesi iniziali che , il più delle volte, si rivelano sbagliate; 5.

Usare business plan tradizionali e non prevedere né prove né

errori; come già anticipato, la startup opera in condizioni di estrema incertezza. In questo caso sarà più idoneo l’utilizzo di un canvas costruito su ipotesi da accertare in continuazione; 6. Supporre di avere successo porta a una crescita prematura. Questo porta al successivo disastro per una startup: la crescita prematura. Bisogna incrementare gli investimenti soltanto dopo che i processi di marketing sono diventati prevedibili, ripetibili e scalabili. 7. Lasciarsi condurre da un management in crisi. Nessun business plan sopravvive al primo contatto con i clienti. Quindi, è necessario riconoscere i piani non realistici e fare un passo indietro modificando 233


il piano d’azione e non continuare a spendere sulla stessa strategia. I sette errori appena evidenziati possono essere risolti intraprendendo una serie di processi, strutturati in step di facile comprensione. Di questi parleremo piÚ avanti per introdurci, ancora e maggiormente, nel cuore di questo elaborato. Giunti a questo punto, possiamo addentrarci piÚ nello specifico proseguendo con la presentazione della stilista titolare del brand che andremo ad avviare.

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III. Chi è Tiziana Capillo? Tiziana Capillo, Palermo 1988, coltiva da sempre la sua passione per la moda. La sua massima ambizione la porta a sognare la costruzione di un’azienda di moda che possa portare il suo nome e il suo estro, sì in Italia, ma soprattutto all’estero. Un ulteriore auspicio è quello di poter diventare docente di Fashion design per continuare ad istruire sempre più giovani talenti sull’importanza dell’artigianalità, suo modus operandi. La sua formazione professionale ha inizio con l’iscrizione al corso di abbigliamento e moda presso l’Istituto Ipsia E. Medi di Palermo. Il suo percorso prosegue con l’iscrizione al corso di diploma triennale di I livello in Progettazione della Moda presso l’Accademia di Belle Arti di Palermo, ove nel Luglio 2010, consegue il diploma di laurea con valutazione massima. In contemporanea al proseguimento degli studi, affina le sue conoscenze decidendo di partecipare a numerosi corsi di formazione dediti alla pratica del ricamo, alla pittura su stoffa, e alla realizzazione di abiti di alta moda, realizzati sulla base delle più rigorose tradizioni e tecniche sartoriali. Una formazione così completa le consente di approcciarsi quasi immediatamente al mondo del lavoro, portando a termine diversi stage tra cui uno svoltosi presso l’azienda “Colori del sole” (sita a Villagrazia di Carini, Pa), un secondo al Pret-à-porter Paris a Parigi nel Febbraio 2006, ed un terzo presso la Sartoria di costumi teatrali Pipi di Palermo. Avendo acquisito l’indispensabile manualità che il mestiere necessita e, avendo maturato le conoscenze fondamentali direttamente sul campo, nel 2010 decide di mettersi in gioco e di scendere in campo facendosi portavoce del suo talento. 235


E’ sulla base di questa premessa che crea “Korai”, il suo primo brand. Con la nascita del marchio, la giovane stilista, non perde tempo ad ampliare i suoi orizzonti. Nel 2011 partecipa al “Saveurs et savoirs du Sud” a Tunisi, presentando alcuni capi e riscuotendo notevole successo. Nel 2012 è l’unica stilista siciliana ad esser scelta per la partecipazione al “Tinjin Fashion week”, manifestazione di moda che si svolge in Cina, volta a premiare i giovani talenti italiani, mettendo a disposizione non solo una semplice passerella ma dei buyer di fama internazionale. A Gennaio del 2013, infine, partecipa all’Italian Festival a Londra, presentando i capi principali delle sue collezioni. Oltre che nella partecipazione ad eventi, si misura inoltre con l’organizzazione di quest’ultimi. Sono numerose, infatti, le sfilate che ha condotto negli ultimi anni e, altrettanto numerosi gli shooting fotografici delle sue collezioni a caduta stagionale. Essendo una perfezionista all’estremo, cura in maniera minuziosa tutti i particolari, dalla progettazione alla realizzazione. In futuro, in previsione di un aumento della produzione, lavorerà a stretto contatto con terzi. Alla data attuale, è iscritta come giovane stilista presso la Camera Nazionale della Moda Italiana e frequenta il biennio specialistico per il conseguimento del diploma di laurea di II livello in Progettazione della Moda presso l’Accademia di Belle Arti di Palermo.

IV. Il marchio Korai Il marchio “Korai” nasce nel 2011 da uno studio sul tipo di abbigliamento che qualsiasi donna vorrebbe e vuole indossare, un esatto 236


connubio tra pret-à-porter e alta moda. E’ un brand rivolto ad una fascia di età molto ampia poiché gli abiti sono giovanili, morbidi e seducenti. Abiti che non stringono il corpo evidenziando i difetti ma che mettono ugualmente in luce i punti forza della silhouette di ogni donna, focalizzando l’attenzione dell’osservatore nella bellezza dei tessuti e nei giochi di ricami preziosi. Stoffe leggere e fluttuanti, linee morbide e colori pastello, predilezioni per le stampe cashmire, sono abiti dallo stile classico rivisitato, che possono essere utilizzati nelle occasioni speciali ma anche quotidianamente, da quel tipo di donna che ama stupire e che segue attentamente le ultimissime tendenze della moda, concedendosi un capo di lusso che duri nel tempo. La particolarità, consiste sicuramente nell’inserimento di pietre dure, che fanno del capo un vero e proprio “gioiello”, talvolta risaltando le scollature generalmente molto caste. Ma più in generale, la particolarità risiede nell’aspetto più profondo dello stesso, e cioè il miscuglio culturale avanguardistico che si denota da ogni vestito. “Korai” deriva dal greco “ragazze”, (gr. κόραι, sost. pl.) cosa che va a denotare quanto anche la scelta del nome del brand abbia un suo significato. La scelta anzidetta deriva dal fatto che la Sicilia ha subìto una fortissima dominazione greca di cui ancora oggi si hanno testimonianze facilmente rintracciabili nelle linee vestimentarie. Il marchio, dunque, trae ispirazione dalla cultura greca e da quella araba. «Credo sia frutto dei miei viaggi, mi sono lasciata ispirare dalle sensazioni che si percepiscono in questi posti incantevoli». Quanto espresso dalla giovane designer, testimonia con chiarezza quanto detto sull’elemento caratterizzante della mescolanza culturale. Korai comprende oltre la linea di pret-à-porter, la linea gioielli e beachwear, (vedi immagini a fine capitolo). La linea gioielli è mossa 237


dalla volontà di mostrare qualcosa di assolutamente unico e particolare. La parola chiave è distinzione, distinguersi dall’omologazione di massa. Ogni accessorio è lavorato con cura al dettaglio e fortemente adeguato ad ogni target, fornendo degli abbinamenti di forme e colori inusuali in modo di rendere il tutto di tendenza e, allo stesso tempo, originale. Korai si rivolge a un cliente che sappia riconoscere il valore dell’artigianalità e il lavoro manuale, non soffermandosi dunque sulla fascia di prezzo. Il cliente Korai deve amare i capi ben fatti, come quelli su misura di una volta, deve accogliere il messaggio che il marchio trasmette: insistere sull’importanza dei tessuti di ottima qualità e fattura e assumere il capo a garanzia del “made in Italy”. «La produzione porterà al compratore un’ondata di moda italiana assolutamente nuova, fatta bene, con un tocco chic e all’avanguardia. Credo fortemente in questo prodotto, poiché da anni focalizzo l’attenzione sul modo di vestire della gente, e da ciò ho creato il mio marchio».

V. Idea iniziale La concretizzazione di un punto vendita per il marchio Korai ha guidato le nostre mosse iniziali. Sicuramente non ci aspettavamo 238


che ci saremmo ritrovati ad affrontare ostacoli burocratici e procedure quasi insormontabili che avrebbero richiesto molto più tempo e fondi economici di quelli di cui disponevamo. Prima di procedere alla ricerca delle informazioni per l’apertura dell’attività, abbiamo preferito dare priorità alla tutela del marchio, ricercando le indicazioni per ottenere la sua registrazione. Ritenevamo si trattasse di una tappa obbligatoria ma, termine delle nostre ricerche, siamo giunti alle seguenti considerazioni: → non è obbligatorio registrare un marchio per avviare impresa ma è consigliato per avere maggiori tutele e credibilità; → la richiesta può essere effettuata da chiunque, non necessariamente da un consulente; → l’esito dell’avvenuta registrazione può ottenersi da tre mesi a un massimo di due anni; → per la registrazione non è necessario avere già usato il marchio; → nel momento in cui il marchio è registrato, bisogna utilizzarlo entro 3-5 anni dall’avvenuta registrazione, pena la sua cancellazione; → il costo della registrazione corrisponde, solo la prima volta, alla somma di 300-500 euro circa. La tutela sarà valida dieci anni, al termine dei quali si effettua il rinnovo pagando una retta di 80-100 euro circa, che sarà valida per i successivi dieci anni. Non essendo una procedura obbligatoria e determinando un costo, non eccessivo ma considerevole per il nostro budget, a ragion veduta, abbiamo deciso di porre la registrazione del marchio in secondo piano, per dare precedenza economica alla creazione dell’attività. 239


piano, per dare precedenza economica alla creazione dell’attività. Un marchio va infatti prima costruito, in modo che abbia una identità stabile, ben riconoscibile presso un bacino di potenziali compratori; infine correttamente posizionato nei mercati e, solo in conseguenza conseguenza, tutelato.

VI. Apertura di un punto vendita Il passo successivo è stato allora la ricerca di informazioni per l’apertura del nostro punto vendita. Oggi la procedura per poter aprire un negozio è sì semplice ma richiede del tempo e certezze economiche. Con l’entrata in vigore della Legge n. 248 del 2006, la cosiddetta legge Bersani, si sono realizzati passi in avanti verso la liberalizzazione del commercio. Oggi chiunque può aprire un negozio e vendere ciò che vuole, purché legale. Inoltre, non esiste più la suddivisione in tabelle merceologiche e resta solo la divisione in due settori: alimentare e non alimentare. Per prima cosa, abbiamo ritenuto opportuno recarci allo Sportello per attività produttive del nostro comune di residenza. Lo sportello funge da referente unico per tutte le pratiche amministrative e come sportello informativo in generale per tutti gli aspiranti imprenditori. Allora, ci sono state elencate tutte le disposizioni necessarie. •

In primo luogo avremmo dovuto constatare se Tiziana Capillo fosse una “persona idonea”: dicasi persona idonea chi non abbia mai dichiarato un fallimento, non abbia riportato alcuna condanna e non sia stata dichiarata “delinquente abituale, pro240


fessionale o per tendenza”.

Secondo step: l’affitto del locale. Premesso che non avevamo ancora trovato alcun edificio plausibile che potesse ospitare la nostra attività, una volta deciso, ci saremmo dovuti recare all’ufficio tecnico del comune nel quale Tiziana avrebbe voluto aprire la sua attività. Qui, avrebbe dovuto compilare un modulo relativo al tipo di negozio e stipulare il contratto di locazione dell’immobile sede dell’attività che avrebbe accertato il costo dell’affitto mensile.

Terzo step: autorizzazioni speciali. Nel nostro caso specifico, vendendo anche gioielli oltre che articoli d’abbigliamento, sarebbe occorsa l’autorizzazione di pubblica sicurezza e la tenuta del Registro. Entro trenta giorni dall’inizio dell’attività, Tiziana si sarebbe dovuta iscrivere al Registro delle imprese presso la Camera di Commercio locale.

Quarto step: richiesta partita IVA. Ammesso e concesso che tutto questo sarebbe stato portato a termine, per aprire il nostro punto vendita, inoltre, avremmo dovuto richiedere la partita IVA, scegliendo nel contempo il regime contabile. Per richiedere la partita IVA bisogna recarsi presso l’Ufficio di Agenzia delle Entrate e compilare un modello che loro stessi forniscono. In seguito bisogna aprire la posizione Inps e assicurativa per l’attività specifica.

Quanto emerso da questa prima ricerca di informazioni ha inevitabilmente ingarbugliato le nostre aspettative. Tralasciando che le tempistiche che occorrevano andavano oltre le nostre possibilità, la vera nota dolente era di fattore economico. Il budget prefissato non 241


avrebbe coperto neanche parzialmente le spese necessarie. Ci siamo trovati allora dinnanzi l’unica strada apparentemente percorribile: la ricerca di finanziamenti che potessero supportare la nascita della nostra startup.

VII. Ricerca finanziamenti Per fare un confronto internazionale, in Italia si investe in startup meno che in Francia e Germania, un quinto rispetto al Regno Unito, la metà rispetto alla Spagna. La buona notizia è che comunque nel mercato sono entrate anche le banche, con investimenti importanti a medio-lungo termine, anche grazie al Fondo di garanzia statale da cento milioni di euro. Le principali fonti di finanziamento a cui si può ricorrere in Italia, e che abbiamo preso in considerazione sono: → Capitale proprio → Capitale di rischio → Finanziamenti ordinari → Finanziamenti agevolati e altre agevolazioni Capitale proprio: Per capitale proprio si intende il capitale di proprietà di cui l’imprenditore può disporre e che decide di investire nella nuova iniziativa imprenditoriale. Più frequentemente le risorse finanziarie di cui si può disporre sono scarse o comunque in grado di coprire solo in parte l’ammontare del capitale necessario. In ogni caso non è possibile avviare un’impresa senza un apporto di capitale proprio. Anzi, è opportuno che questo non sia inferiore ad 242


una certa percentuale del fabbisogno finanziario complessivo, percentuale che varia notevolmente in relazione a fattori quali il settore produttivo in cui si opera, la forma giuridica dell’impresa, il livello di rischio del settore, gli obiettivi di sviluppo ecc. Nel nostro caso, non disponiamo di alcun capitale. Questo è il primo importante impedimento che ci è stato presentato. Capitale di rischio: Se l’imprenditore non riesce a disporre di capitali propri sufficienti per coprire l’intero fabbisogno finanziario di avvio, può decidere di ricorrere a società finanziarie che siano disposte a investire nel progetto in cambio di una partecipazione alla proprietà e agli utili prodotti dall’attività, in proporzione al capitale investito. È una forma di finanziamento che dà agli investitori terzi la possibilità di partecipare e condividere con l’imprenditore il rischio d’impresa. Questa opzione è stata accantonata a prescindere poiché le dimensioni della nostra impresa iniziale non sono tali da poter richiedere il sostegno di terzi. La scelta di ricorrere a società finanziare avrebbe determinato un vero e proprio salto che non potevamo permetterci. Finanziamenti ordinari: Per l’aspirante imprenditore ricorrere al capitale prestato da banche, istituti di credito e società finanziarie per l’avvio dell’attività diventa spesso una scelta inevitabile, a causa dell’insufficiente disponibilità di capitali propri e delle possibili difficoltà nell’ottenimento di capitale di credito agevolato. Il problema è quello del costo del finanziamento che dispone spesso di un costo di interessi troppo elevato. I finanziamenti ordinari si distinguono in finanziamenti a breve termine, laddove la cifra prestata deve essere 243


restituita, il più delle volte, entro lo scadere dei cinque anni (questa modalità rappresenta una delle fonti di finanziamento a cui di fatto accedono quasi tutte le nuove imprese non tanto per la sua convenienza, quanto per la relativa facilità di accesso); e finanziamenti a medio e lungo termine, questi finanziamenti, restituibili nell’arco di dieci anni, rappresentano una fonte di copertura del fabbisogno finanziario aziendale disponibile per periodi medio-lunghi e contribuiscono quindi a dare stabilità all’impresa e a diminuirne il rischio finanziario. Finanziamenti agevolati e altre agevolazioni: Una possibilità per trovare i mezzi finanziari necessari, per ridurre il costo del finanziamento rispetto alle forme di finanziamento ordinarie e per contenere il rischio d’impresa limitando l’utilizzo di capitale proprio è quella di attivarsi per ottenere agevolazioni finanziarie pubbliche. Tali agevolazioni sono previste da numerose leggi nazionali e da molte leggi regionali e il loro obiettivo è facilitare la realizzazione di nuove attività. Tra le agevolazioni proposte ricordiamo: → Le agevolazioni previste dalle Leggi dell’UE → Le agevolazioni previste dalle Leggi nazionali → Le agevolazioni previste dalle Leggi regionali →

Le

agevolazioni

previste

dalle

Leggi

provinciali

e

comunali Contributi a fondo perduto: I contributi a fondo perduto vengono erogati a fronte di investimenti immateriali (marchi, brevetti, sito internet, assistenza tecnico-gestionale, consulenze e formazione ecc.) 244


materiali (adeguamento e attivazione locali, impianti, macchinari, attrezzature ecc.), e a fronte di spese di gestione (acquisto materie prime, semilavorati e prodotti finiti, spese burocratiche, canoni di locazione di immobili, spese pubblicitarie, ecc.). Rappresentano uno strumento di agevolazione pubblica sempre meno prevista. Nella maggior parte dei casi viene abbinata ad altre forme di agevolazione (finanziamenti agevolati) e costituisce una parte minoritaria dell’aiuto pubblico ottenibile. In certi casi inoltre tali contributi vengono erogati a rimborso di spese già sostenute da parte dell’aspirante imprenditore e documentate con fatture quietanzate da parte dei fornitori. I contributi che vengono erogati ai beneficiari a fondo perduto non vanno restituiti nella loro interezza. Va restituita solo la metà dell’importo erogato. Questa rappresenta l’unica opzione che ci ha interessato particolarmente. Finanziamenti a tasso zero o tasso agevolato: I finanziamenti previsti dalle agevolazioni pubbliche per l’avvio di imprese sono finanziamenti concessi a tasso zero o che prevedono un abbattimento di una determinata percentuale (variabile a seconda del bando di agevolazione) del tasso di interesse di riferimento. In molti bandi regionali l’agevolazione prevede un finanziamento che copre il 100% dell’investimento di avvio (fino a un determinato massimale) e che è costituito da una quota di fondi regionali a tasso zero e da una quota di fondi bancari a un tasso convenzionato, che rimane fisso per l’intera durata del prestito. I finanziamenti sono in genere pluriennali e prevedono un piano di rimborso con rate posticipate, solitamente trimestrali. In genere per ottenere le agevolazioni pubbliche è necessario dimostrare la validità della propria iniziativa im245


prenditoriale presentando agli enti preposti un progetto d’impresa con precise informazioni di carattere economico–finanziario e sui promotori dell’attività. La maggior parte delle agevolazioni pubbliche finanzia: investimenti immateriali e materiali; costi fissi di gestione; costi variabili (es. merce acquisita). Non vengono quasi mai finanziati: l’acquisto di immobili; i beni di cui si dispone tramite un contratto di leasing; le spese per il personale, le spese di trasporto, le utenze, la cancelleria.

VIII. Considerazioni conclusive Della ricerca di mezzi finanziari, dobbiamo far presente delle precisazioni che ci hanno indotto a rinunciare all’idea di un finanziamento e ad intraprendere un percorso differente. Prima di tutto, è stato ben evidenziato quanto risulti impossibile avviare un’impresa senza apportare del capitale proprio, contando solo sui fondi pubblici. Per quanto riguarda le agevolazioni, è importante tenere conto del fatto che i fondi pubblici: potrebbero non essere erogati se la domanda non viene accettata (e la risposta di confermata accettazione si ottiene entro un minimo di tre a un massimo di sei mesi, un arco temporale troppo ampio per le nostre esigenze); nella maggior parte dei casi l’erogazione viene concessa solo imprese finanziariamente solide, in cui l’aspirante imprenditore ha investito del capitale proprio (quindi certamente non si tratta del nostro caso); e, in ogni caso, dopo parecchi mesi rispetto all’avvio dell’attività imprenditoriale. Ammesso e concesso l’ottenimento del finanziamento, come avremmo affrontato le spese dei primi mesi senza un capitale proprio? 246


Gli investimenti indispensabili in fase di partenza, quindi, devono essere già stati coperti con altri fondi. Bisogna inoltre ricordare che i bandi prevedono sempre più raramente l’erogazione di contributi a fondo perduto, gli unici per i quali ci sarebbe convenuto concorrere. La ricerca di agevolazioni finanziarie va fatta dopo aver progettato l’attività, ma la nostra attività può essere progettata solo parzialmente perché si tratta di un’impresa nuova, che non conosce il cliente a cui si rivolge e che il cliente stesso sconosce, di conseguenza determinate caratteristiche non possono essere delineate. Lo strumento principale delle fase di progettazione è il business plan, composto da piano degli investimenti, conto economico e piano di cassa. Il piano aziendale va elaborato e sottoscritto esclusivamente da un consulente commerciale con esperienza e ben avviato. Un piano di fattibilità economico-finanziario è fondamentale per avere buone possibilità che la domanda di agevolazione pubblica venga accolta. L’ente pubblico, infatti, considera come fattore di primaria importanza la fattibilità economico-finanziaria della futura impresa, la sua redditività potenziale e la sua sostenibilità nel tempo. Sia per garantirsi buone probabilità che l’impresa restituisca i fondi ottenuti, quando si tratta di finanziamenti, che per destinare risorse a fondo perduto a progetti duraturi nel tempo e in grado di creare opportunità di autoimpiego, di inserimento lavorativo e di sviluppo del tessuto imprenditoriale. Ma anche questo implica un prezzo non indifferente che abbiamo dovuto valutare. Dopo aver analizzato ogni singola possibilità che ci è stata avanzata siamo giunti alla conclusione di non poter richiedere al momento alcun finanziamento per tali ragioni: → mancanza di capitale proprio da investire; 247


→ insufficiente disponibilità economica per retribuire la

consu-

lenza commercialistica in merito all’elaborazione del business plan; → fattori di rischio troppo alti per poter garantire la restituzione del prestito; → tempistiche di erogazione dei prestiti troppo lunghe; → scarse possibilità di ottenere un finanziamento a fondo perduto data la precarietà di una startup. Sulla base di queste considerazioni è inequivocabilmente emerso che la nostra prima mossa si è rivelata fallimentare. L’inesattezza del nostro piano si è rivelata nella scarsa considerazione che abbiamo attribuito alla denominazione stessa della nostra idea imprenditoriale: “una startup è un’istituzione costruita sulla base di condizioni di estrema incertezza, che non può garantire un immediato riscontro economico”. Date le circostanze l’obiettivo principale doveva essere quello di assicurarsi tale riscontro nella maniera più celere ed economica possibile, non tanto l’avvio di un punto vendita. Un riscontro, naturalmente, per validarsi esige l’accettazione del mercato, dunque l’acquisita visibilità. Ed ecco, allora, che siamo entrati in una visione più realistica del nostro progetto: rovesciamo la start-up e pensiamo all’ up-start. Cosa intendiamo dire? Che anche in noi, come tra i grandi investitori, incomincia a diffondersi la consapevolezza che non basta concentrarsi sul finanziamento della prima parte di una nuova azienda (la fase «start»). Ma che occorre porre maggiore attenzione sulla crescita («up») e sull’impatto dell’impresa nella comunità di riferimento. A ragion veduta, abbiamo scelto di attenerci a una recentissima nuova categoria 248


d’investimento, la «impact investing». La nuova modalità è stata presentata ai “potenti” dell’innovazione dello scenario economico il 14 Novembre 2014 in Australia, in occasione del G20 Innovation hub (appuntamento di confronto con i 20 leader dell’innovazione sociale). Tecnicamente si parla di finanza d’impatto. Il termine intende, innanzitutto, invertire il punto di osservazione sulla parola composta e largamente usata “start-up”. Si pone maggiore attenzione sul valore del suffisso «up», quindi, sulla crescita e sull’effettivo impatto prodotto in termini non solo economici. Nel mercato attuale, su cui dobbiamo sempre mantenere un certo livello di aggiornamento, sembra infatti che i grandi capitali internazionali siano più interessati a consolidare i risultati generati dalle imprese effettivamente entrate nella loro fase di crescita, appunto «up», che a mantenere costanti i volumi degli investimenti utili alla loro costituzione (nel loro momento «start». Con l’up-star si pone, infatti, l’attenzione più sull’impatto che un’impresa ha sulla comunità di riferimento che al ritorno per i suoi fondatori o finanziatori. Azioni di sistema, dunque, con cui far crescere una domanda progettuale proveniente dal «basso» per attrarre «l’alto». Questa è la strada che abbiamo deciso di intraprendere sulla base di una certezza abbastanza stimolante: che si continuerà a investire in start-up preoccupandosi più della crescita delle nuove imprese che dell’impegno per facilitare la loro nascita. E’ chiaro, quindi, che il marchio di successo di un’iniziativa imprenditoriale (pubblica o privata che sia) non passerà più dall’entità dell’investimento sviluppato ma dagli effetti dell’impatto generato. Il nostro fine deve essere, quindi, quello di ottenere la maggiore visibilità possibile affinché possa arrivare la risposta del mercato di riferimento in tempistiche abbastanza ra249


pide. Più visibilità avremo e maggiore sarà la nostra crescita. A sua volta, la maggiore crescita porterà con sé superiori possibilità di sostegno finanziario. Il canale che sicuramente ci avrebbe consentito tutto questo è il canale web. Qui abbiamo riposto le nostre migliori aspettative. IX. Scelta del canale web Come startup, abbiamo scelto il canale di distribuzione che ci garantisce l’equilibrio perfetto tra il valore offerto, i suoi costi, il modello di ricavi e la modalità d’acquisto privilegiata dal cliente (il sito ci permetterà di aggiungere canali man mano che l’attività cresce). Abbiamo scelto il canale dell’ E-commerce. La nostra azienda offrirà i suoi prodotti per una vendita diretta sul nostro sito web. I consumatori e le aziende potranno ottenere dettagli, vedere il prodotto e confrontare le caratteristiche. Il successo di un canale web dipende quasi interamente dalla creazione della domanda, attirando i visitatori sul sito in maniera efficiente e persuadendoli a interessarsi al prodotto o ad acquistarlo. Quasi come il canale di distribuzione tradizionale, ogni canale web ha i suoi punti di forza, le sue debolezze e i suoi costi. •

Punti di forza: i siti di base sono semplici da creare e garantiscono completo controllo sui prezzi, la presentazione del prodotto, l’inventario e altro.

• Debolezze: l’azienda deve sopportare tutte le sfide e i costi per la creazione di traffico e per convertire i visitatori in compratori.

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Nel paragrafo successivo andremo ad approfondire maggiormente il quesito “e-commerce”, vedendo in maniera più ravvicinata qual è il canale nel quale abbiamo deciso di imbatterci.

X. L’e-commerce Il canale web, “nuovo retail”, è caratterizzato da acquisti a distanza, accessibilità e intelligenza del consumatore che si aspetta dall’online ampiezza dell’offerta, trasparenza, prezzi migliori e velocità. E’ ormai evidente che a fronte di un canale tradizionale con qualche difficoltà, la domanda nel settore fashion e lusso online ci sia e sia in crescita. Ora spetta alle aziende capire come soddisfare i consumatori del digital fashion. L’e-commerce per abbigliamento è uno dei settori, all’interno del mercato digitale, che sta registrando le migliori performance in termini di vendita. Per poter continuare ad essere considerata un Paese leader nella moda, l’Italia e le sue aziende hanno soprattutto l’esigenza di crescere per poter affrontare con le “armi giuste” sfide di ampiezza globale. Per poter raggiungere queste dimensioni, una delle leve fondamentali è la capacità di intercettare i consumatori, sempre più dinamici e cosmopoliti, là dove essi sono e nel momento in cui hanno maggiore propensione all’acquisto.

X.I. I vantaggi per le industrie e i commercianti L’Italia crede nell’e-commerce, che assume i contorni di una vera 251


e propria ricetta anticrisi. E l’alchimia di questa formula non vale solo per gli utenti che decidono di acquistare online con l’obiettivo di risparmiare tempo e denaro, ma funziona soprattutto per tutte le attività di ogni dimensione che decidono di trovare una valida alternativa ai sempre più scarsi fatturati derivanti dalle transazioni locali e off-line. In questo senso, l’e-commerce offre vantaggi di non poco conto anche agli imprenditori che decidono di raggiungere una clientela sempre più numerosa, maggiormente attenta al rapporto qualità-prezzo dell’acquisto che sta concludendo e, a volte, anche molto più esigente. Sul web non compra solo chi cerca il risparmio, chi ha poco tempo o chi si annoia ad andare per negozi, ma acquistano anche coloro che vogliono un determinato prodotto non disponibile nei canali di acquisto tradizionali locali, rendendo così l’e-commerce una vera e propria urgenza per molti imprenditori nostrani. A fronte di una buona dinamica di sviluppo, l’e-commerce italiano risente però di consuetudini che non lo rendono ancora uno strumento di massa. Sebbene quasi nove utenti su dieci si informino online su prodotti e marchi, solo tre su dieci acquistano. A frenarli, sarebbe la diffidenza nei confronti della sicurezza dei sistemi di pagamento e anche la preoccupazione, dovuti alla convinzione di non aver controllo sulla logistica, di non ricevere a casa il prodotto acquistato in rete. Dopo aver esposto una breve introduzione, cercheremo di comprendere quali siano i motivi principali di questo successo e quali i vantaggi per le industrie e i commercianti. Sicuramente, tra gli attori che operano nel campo della moda e dell’abbigliamento, chi può trarre maggiore beneficio dalle opportunità offerte dal commercio 252


elettronico sono i marchi emergenti. Questi, infatti, oltre ad essere caratterizzati da piccole realtà, per lo più di tipo artigianale, non possiedono gli strumenti e le risorse necessarie a promuovere il proprio business sui canali tradizionali. Per essere competitivo, allora, ogni marchio emergente deve considerare la possibilità di realizzare un’ e-commerce per i propri prodotti. Non solo questo permette ai brand di fornire ai consumatori un’esperienza di brand più controllata, ma la possibilità di vendere direttamente al consumatore, bypassando tutti gli intermediari, permette di avere dei margini più alti. Tra i vantaggi principali che può offrire l’e-commerce ai marchi del settore dell’abbigliamento troviamo l’ampiezza del mercato di riferimento e i costi necessari alla sua realizzazione e alla sua gestione. Per sviluppare questo punto, proviamo a fare un parallelismo tra un negozio online e un negozio tradizionale. Per aprire e gestire un punto vendita offline è necessario un cospicuo investimento in termini di tempo e risorse, mentre il mercato di riferimento è rappresentato principalmente dai consumatori che vivono in quella determinata area geografica in cui è situato il negozio. In riferimento ad uno shop online, invece, i termini di paragone si invertono. Infatti, a fronte di una minore spesa per realizzare e gestire un punto di vendita virtuale si può contare su un mercato di riferimento rappresentato potenzialmente dall’intera popolazione di utenti internet.

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X.II. E-commerce in Italia: i dati numerici A confermare la crescita dell’e-commerce in Italia non sono solo le sensazioni di chi guarda il web e vede crescere il numero di vetrine nostrane disponibili, ma vi sono dati numerici e statistici ben precisi che ci confermano quanto l’e-commerce continui a crescere senza nessuna scalfittura da parte degli elementi economici di recessione che caratterizzano l’attuale sistema economico italiano. In totale, negli ultimi tre anni e in corrispondenza dei periodi di recessione che hanno provocato l’abbassarsi di miglia di saracinesche, l’ecommerce ha registrato in Italia oltre il 20% di crescita del fatturato complessivo con un numero di acquirenti attivi che sono raddoppiati. Sempre secondo le stime, le aziende hanno inoltre capito l’importanza dell’e-commerce anche per intrattenere rapporti commerciali con l’estero. Infatti, nel 2013 le vendite italiane all’estero realizzate tramite web sono cresciute del 28%. Anche nel corso del 2014-2015 l’e-commerce avrà grande vigore e si prevede possa realizzarsi una crescita simile a quella domestica già dettagliata.

(fig.1)

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Come si può osservare dal grafico (fig.1), a Maggio 2013 la vendita online di articoli di moda e abbigliamento si attesta al 12% sul totale delle vendite, raggiungendo il secondo posto, dopo il settore del Turismo, tra le categorie merceologiche più acquistate online. Un altro trend che si può osservare dal grafico è rappresentato dalla crescita costante del comparto nel corso degli anni. In circa sette anni, infatti, si è passati da un misero 3% del 2006 a un 12% nel 2013. Inoltre, dal grafico risulta chiaramente come l’e-commerce per l’abbigliamento sia l’unico settore merceologico che registri un tasso di crescita costante nel corso degli anni. L’e-commerce permette inoltre di salvaguardare l’impresa da costi poco “digeribili” come quelli legati alle rappresentanze e alla creazione di una rete vendita capillare.

XI. Come definire la strategia migliore Avendo delineato l’idea principale sulla quale si fondava il nostro progetto e, avendo inoltre reso noti i problemi che hanno ostacolato la percorrenza della stessa pilotandoci verso un’altra soluzione, possiamo ricongiungerci al capitolo introduttivo dove abbiamo definito la startup. Ci eravamo lasciati parlando degli errori che spesso ci si ritrova a commettere e ai quali bisogna prestare sempre più attenzione, specialmente nel caso di un’azienda non avviata. Abbiamo inoltre anticipato dell’esistenza di processi che aiutano a risolvere queste problematiche. Partiremo, appunto, con l’elencazione di questi ultimi, che hanno fornito le basi per il nostro plan effettivo e che servono da premessa al paragrafo che seguirà sulla strategia condotta in via definitiva. I seguenti processi sono strutturati in quattro step


di facile comprensione. I primi due step descrivono la «ricerca» di un business model. Il terzo e il quarto passaggio «attuano» quello che è stato sviluppato, verificato e sperimentato nei primi due stadi. Gli step sono i seguenti: I. la scoperta della clientela: cattura in primo luogo la vision dei fondatori e la trasforma in una serie di ipotesi sul business model. In seguito, sviluppa un piano per testare le reazioni dei clienti a quelle ipotesi, per poi trasformarle in fatti. Per fare questo, i fondatori raccolgono nuove idee provenienti dai loro feedback e via via sistemano il business model. Nel nostro caso, per le applicazioni (o prodotti) web, la scoperta della clientela comincia quando la prima versione del sito è pronta ed è in circolazione. Il sito web viene utilizzato per testare le ipotesi sul business model a fronte di clienti o utenti; II. la validazione della clientela: dimostra che il business testato e iterato durante la scoperta della clientela ha un modello ripetibile e scalabile che può garantire il volume di clienti necessario a realizzare un’impresa redditizia. Nel caso in cui non si dimostrasse tale, si ritornerebbe alla scoperta della clientela. Per il nostro caso, la validazione richiede la presentazione di una versione di alta qualità del minimo prodotto realizzabile (MPR) al fine di verificare, le caratteristiche chiave davanti ai clienti. La validazione dimostra l’esistenza di un insieme di clienti e conferma che essi accetteranno il MPR e che manifestano una seria predisposizione all’acquisto; III. La creazione della clientela: è l’inizio dell’attuazione pratica. Costruisce la domanda degli utilizzatori finali e li porta nel canale vendite per rendere scalabile il business; E’ il momento in cui l’impresa mette il piede sull’acceleratore. Questo step segue quello della 256


validazione e, nella startup che ha appreso come acquisire i clienti, induce un aumento degli investimenti di marketing; IV. la creazione dell’azienda: trasforma l’organizzazione da startup a impresa vera e propria, con lo scopo di attuare un business model convalidato. In questo momento, non si tratterà più di un’organizzazione temporanea che si sta guardando attorno, nota come startup: sarà diventata un’impresa. Integrandosi tra loro, questi quattro step supportano tutti gli elementi di business di una startup. Il processo di sviluppo della clientela rispecchia le buone pratiche per una startup vincente. E’ l’unico approccio valido per i business del web (come nel nostro caso), in cui se non c’è un costante feedback dai clienti o un’iterazione del prodotto l’azienda fallisce mentre è alla ricerca del proprio pubblico. La breve durata dei cicli e il conseguente risparmio di denaro (caratteristica principale dello sviluppo clienti) forniscono a tutti gli imprenditori ulteriori possibilità di operare svolte e iterazioni e consentono di raggiungere il successo prima che si prosciughi il conto in banca. Lo sviluppo clienti è un lavoro duro ma che aumenta le probabilità di successo della startup.

XI.I. La scoperta della clientela La scoperta della clientela abbassa le probabilità di dover spendere miliardi e avere zero ritorni. Pertanto, il primo obiettivo della scoperta della clientela è quello di tradurre in fatti le ipotesi iniziali riguardo a mercato e clienti. Sembra facile ma, in realtà, si tratta di un processo disorientante. Può quindi essere utile elencare una 257


serie di cose da non fare: capire i bisogni e i desideri di tutti i clienti; fare una lista di tutte le caratteristiche richieste dai clienti prima di acquistare il vostro prodotto. L’essenza della scoperta della clientela è determinare se il valore offerto dalla nostra startup combacia con il segmento di clienti cui vogliamo mirare.

XI.II. Validazione clientela Si pone come obiettivo principale la concretizzazione di un primo prodotto da mostrare al mercato. Il primo prodotto non viene costruito con le componenti che interessano a un cliente tradizionale. Ci vorrebbero anni perché il prodotto vada sul mercato e si rivelerebbe obsoleto già nel momento in cui vi arriva. I business web effettuano la scoperta della clientela in modo diverso rispetto alle imprese di prodotti fisici. Possono raggiungere centinaia se non migliaia di utenti in più combinando interazioni online e personali. I minimi prodotti realizzabili (MPR) web possono essere sviluppati più velocemente ed essere consegnati prima, accelerando quindi il processo di scoperta. Per un prodotto web, un MPR è costituito da un sito o da una demo non statici, una funzionalità, una piccola caratteristica o contenuto. Per quel che riguarda il business online, i clienti devono interessarsi e interagire, trascorrere del tempo su o con il prodotto, tornare più e più volte e portare i loro amici. Dare vita, dunque, al MPR il più velocemente possibile per vedere se qualcuno condivide la nostra vision del prodotto.

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XI.III. Ipotesi sulle relazioni con i clienti Le relazioni con la clientela sono le strategie e le tattiche per «attirare, mantenere, incrementare» i clienti. L’attività per attirare i clienti, a volte denominata creazione della domanda, conduce i clienti nel canale scelto. Significa mirare a un prodotto, a una caratteristica o a un miglioramento che possa portare un cliente a dire: «pagherei di tutto per questo». Nel canale web è una fase semplice che prevede due soli passaggi. Include anche un ciclo virale, in cui i primi clienti invitano amici e colleghi a esplorare il nuovo prodotto. Infine, le startup web possono verificare le loro tattiche in maniera più rapida, promuovere il prodotto a costi minori e mettersi in contatto con molti più clienti rispetto alle aziende nel canale tradizionale. Mantenere i clienti significa fornire ai clienti ragioni per rimanere con l’azienda e con il prodotto. Incrementare i clienti significa vendere loro una maggior quantità del prodotto che hanno acquistato, così come prodotti nuovi e diversi, e incoraggiarli a portare nuovi clienti. 3 attivare24 Strategia: acquisire1,

Attirare (creazione della domanda)

5

Tattiche: siti web, ricerca SEO3, email, blog, marketing virale, social network, report, prove gratuite, home/landing page Strategia: interagire, mantenere

Mantenere

Tattiche: personalizzazione, gruppi di utenti, blog, aiuto online, info sui prodotti/ consigli.

i clienti Strategia: nuovi ricavi, referral Incrementare i clienti

Tattiche: aggiornamenti, concorsi, riordini, coinvolgimento di amici, marketing virale, upsell / cross-sell.

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XI.IV. Verifica del MPR Successivamente all’attuazione delle pratiche di interazione con il cliente, l’ MPR va sottoposto a un test. Il test deve analizzare l’intensità dell’interesse dei clienti al problema o al bisogno e determinare se i clienti si impegneranno, acquisteranno il prodotto o utilizzeranno il sito. Questo «test della soluzione» non è un lancio vero e proprio; si tratta, piuttosto, di un invito rivolto a un numero limitato di clienti a sperimentare il MPR (in continuo miglioramento). Quel «numero limitato» può anche essere misurato in migliaia di persone, e nel caso in cui se ne presentino molte di più è un ottimo segno, in quanto probabilmente sono state invitate da amici che pensano si tratti di una buona soluzione. L’obiettivo, in questo momento, non è un test su larga scala. Si tratta di aprire la porta principale e invitare un modesto numero di clienti per individuare clienti sufficientemente appassionati ed entusiasti che credono veramente che il prodotto risolva il loro problema. Guardare soprattutto la «velocità» di attivazione dei clienti: •

quanti individui visitano il sito prima di attivarsi;

quanti lo dicono agli amici;

con quale rapidità si attivano gli amici;

quanto velocemente e quanto spesso tornano i visitatori;

attenzionare su cosa cliccano e quanto tempo stanno.

Rivisitati i dati sul comportamento di un vasto numero di clienti iniziali, a questo punto, si dovrebbe procedere a un’analisi qualitativa delle caratteristiche di prodotto. Questo è il momento in cui 260


l’esperienza imprenditoriale e l’istinto guidano la decisione «partire/ non partire».

XI.V. Svoltare o procedere? A questo punto, è essenziale sapere se l’impegno profuso nella scoperta della clientela ha trasformato le ipotesi prefisse in fatti reali. E’ giunto il momento di rispondere a tre domande critiche: •

Abbiamo trovato una corrispondenza prodotto/mercato?

Chi sono i nostri clienti e come possiamo raggiungerli?

Riusciremo a realizzare profitti e a far crescere l’azienda?

Se nella prima fase della scoperta della clientela si è abbozzato un piano per acquisire e attivare i clienti, a questa fase sarà successiva la ridefinizione di questi piani. Determinare quindi chi acquisire, quali tattiche promozionali utilizzare, che cosa dire e come dirlo, e a questo punto sarà piuttosto semplice, poiché sarà già stato fatto gran parte del lavoro di ricerca e pianificazione nella fase di scoperta della clientela.

XI.VI. In sintesi Come anticipato precedentemente, qualsiasi iniziativa di prodotto, comunicazione o retail non deve lasciare alcuno spazio all’improvvisazione, ma essere il frutto di un accurato processo di pianifica261


zione strategica. Tale processo deve essere strutturato facendo costante riferimento a tre coordinate fondamentali: (1) gli obiettivi, (2) i target, (3) il budget e le risorse a disposizione. La coordinata che spesso si perde di vista, paradossalmente, è quella più importante: gli obiettivi. Un errore molto diffuso è quello di iniziare a pianificare in maniera creativa numerose attività, senza avere alcun punto di riferimento in termini di obiettivi e, dunque, di strategia. Le attività vanno pianificate facendo riferimento a obiettivi dettagliati in modo chiaro e preciso, in grado di generare risultati misurabili, compatibili con lo scenario di riferimento o le risorse a disposizione, rilevanti per la clientela obiettivo e riferiti a uno specifico intervallo temporale. Nonostante questa semplice formula, la definizione degli obiettivi risulta spesso un’operazione assai problematica che, se non affrontata con il dovuto rigore metodologico, rischia di degenerare nell’approssimazione, facendo perdere di coerenza e di consistenza all’impostazione strategica del piano. Il primo step per superare tali difficoltà è far precedere la definizione degli obiettivi da un’accurata analisi che dovrà avere come oggetto: (1) il brand stesso, in particolare la sua mission, la sua identità, il suo posizionamento strategico, il marketing mix e le sue performance; (2) le variabili macroambientali dei mercati geografici in cui saranno organizzate le attività oggetto del piano; (3) le tendenze estetiche e socioculturali che li stanno investendo; (4) le loro dinamiche concorrenziali e i loro scenari competitivi; (5) le caratteristiche distintive dei consumatori finali. A questo proposito, può essere di estrema utilità anche una semplice analisi SWOT, che sintetizza i punti di forza e i punti di debolezza dell’attività di impresa rispetto ai com262


petitor, confrontandoli con le opportunità e le minacce provenienti dalle variabili macroambientali.

XII. Plan definitivo Come sottolineato più volte, essendo la startup un’istituzione concepita in condizioni estremamente incerte, abbiamo deciso di condurre un tipo di management tarato proprio su questo contesto, lasciandoci guidare dalle uniche constatazioni certe: cliente e prodotto definitivo sconosciuti. Rischio: Nel nostro caso, il rischio reale è dato dal fatto che non si sa se vi siano clienti e mercato per il nostro prodotto specifico. Obiettivo principale: rendere noto il brand tramite lo sviluppo della clientela e la sua conseguente validazione. Inoltre, rendere chiaro il nostro messaggio: se un utente del web può accedere in pochi secondi a qualunque tipo di offerta (sia di prezzo che di prodotti) perchè dovrebbe venire da noi? Cosa offriamo di più? Perchè il nostro prodotto lavora in una nicchia di mercato, pertanto la nostra offerta è esclusiva poiché basata sulla realizzazione artigianale su misura. Non trattiamo rivendite! Soluzione: le ipotesi che avanzeremo necessiteranno della conferma dei clienti. Allora effettueremo verifiche continue per correggere eventuali errori in giorni o settimane, non in mesi o anni (per risparmiare tempo e denaro), evitando di costruire componenti e prodotti che i clienti non richiedono. Terremo in mente che nel web non si guadagna dall’oggi al domani, non si ha successo per caso e l’ultima 263


cosa che conta sono i programmi. Contano i rapporti, cercheremo di instaurarne di buoni!Per sviluppare la clientela abbiamo messo in atto quattro step: 1. Scoperta clientela: Come abbiamo visto, la scoperta della clientela abbassa notevolmente il rischio dello spreco di denaro. L’aspetto più importante di questa fase è instaurare un contatto diretto con i clienti. Una cosa che certamente non abbiamo fatto è capire i bisogni e i desideri di tutti i clienti. Viceversa, abbiamo sviluppato un prodotto per pochi clienti, per una determinata nicchia, per assicurarci la visibilità almeno in quella stretta cerchia, solo per il momento. Il nostro prodotto-prova consiste in una collezione di capi basici ma ben strutturata, dei quali possa apprezzarsi il valore dell’artigianalità. Per un primo momento, manterremo la fascia dei prezzi mediobassa, per consentire alla clientela di approcciarsi alla nostra offerta e conoscere meglio il nostro marchio; la collezione potrà essere ampliata in qualsiasi momento esponendo capi meno basic. Per la vendita, ci avvarremo naturalmente del canale e-commerce. 2. Validazione clientela: Il primo prodotto creato, un sito funzionale di base, non è stato costruito con le componenti che interessano a un cliente tradizionale ma focalizzato per lo sviluppo e le prime vendite su un piccolo gruppo di clienti iniziali che abbracceranno la nostra vision più facilmente. Questi clienti forniranno un feedback necessario per aggiungere nel tempo nuove caratteristiche al prodotto e via via modificare il business model. Solo allora, espanderemo il nostro sito. Nei primi giorni di attività, prevediamo che gli input dai clienti saranno davvero limitati. E’ per questo motivo che abbiamo sviluppato un prodotto web molto basilare senza elaborate interfac264


ce utente, loghi o animazioni. Ricordiamoci che in questa prima fase il nostro scopo non è tanto quello di vendere il prodotto, quanto quello di ottenere la conferma degli utenti. Dunque, con il nostro sito web di qualità intermedia mira a: •

descrivere la serietà del progetto a parole o immagini;

incoraggiare gli utenti a «iscriversi per avere più informazioni»;

Naturalmente, più cose chiederemo di fare, meno disposto sarà il visitatore a rispondere. Ci siamo assicurati quindi di proporre l’essenziale per evitare la fuga dell’utente, attraverso un meccanismo di risposta più semplice e basilare possibile – come «iscriviti per maggiori informazioni» - situato in evidenza in “contatti”. Una volta accertate le utenze che visitano la nostra pagina, il nostro dovere sarà quello di mantenerle e incrementarle, dando sempre la precedenza all’interazione con esse. E lo faremo in tal modo cercando di attirare sempre maggiormente l’attenzione: •

procurandoci l’indirizzo email del cliente e farci dare il permesso di ricontattarlo per fornirgli ulteriori informazioni;

offriremo incentivi per attirarli: una prova, un download o un accessorio gratuito o uno sconto significativo a cento – cinquecento clienti;

monitoreremo i risultati di tutti i test e, se non soddisfatti, rivedremo il programma per condurre altri test;

inseriremo dei “grazie” o pagine di conferma che dovrebbero suggerire diversi articoli che il cliente potrebbe acquistare;

aggiungeremo dei “generatori di raccomandazione”, del tipo 265


«se avete acquistato x, vi piacerà y»;

includeremo offerte speciali e sconti in ogni spedizione;

manderemo email ai clienti per presentare prodotti nuovi;

incoraggeremo a cliccare «mi piace» su Facebook;

incoraggeremo dei blogger a scrivere del prodotto e premiarli per averlo fatto.

A differenza del venditore porta-a-porta dei tempi che furono, il nostro lavoro sul web consiste nel «trascinare» i clienti verso di noi piuttosto che spingere il nostro prodotto verso di loro. Il web offre un insieme di strumenti quasi senza limiti che ci aiuteranno a tirare a noi i clienti. Il nostro primo passo verso l’acquisizione e l’attivazione dei clienti è capire come le persone acquistano o si interessano al nostro prodotto. Il processo che intendiamo perseguire è estraibile nell’esempio riportato di seguito. Primo passaggio. Le persone scoprono un bisogno o vogliono risolvere un problema. Dicono «Voglio dare una festa a tema. Cosa indosso?». E quindi? Secondo passaggio. Cominciano a cercare. Nella stragrande maggioranza delle volte, in questo secolo, la ricerca comincia online. Spesso avviene su Google.com, ma potrebbe essere effettuata anche su Facebook dove chiedono agli amici. Terzo passaggio. Non cercano più di tanto. Non ci trovano subito online perché spesso prestano attenzione soltanto alle prime cose che trovano. Quindi renderemo il sito il più visibile possibile, nel maggior numero di posti in cui i nostri clienti è probabile che comincino la loro ricerca. Quarto passaggio. Vanno dove sono invitati, intrattenuti, informati. 266


Quarto passaggio. Vanno dove sono invitati, intrattenuti, informati. Non conquisteremo l’interesse dei clienti con ciniche presentazioni o informazioni noiose. In una tipica ricerca su Google, siamo una delle migliaia di opzioni su cui il cliente può cliccare. Guadagneremo, allora, quel click fornendo informazioni invitanti e utili in diversi formati (copie, schemi, slide show ecc..). E’ importante ricordare che il tasso di click online può aumentare grazie alla presenza di un numero telefonico, in quanto segno di autenticità. Naturalmente, procederemo con la verifica dei risultati ottenuti dalle tattiche di interazione con i clienti. 3. Creazione clientela: E’ il momento in cui l’impresa “mette il piede sull’acceleratore”. Appena avremo appreso come acquisire i clienti, aumenteremo gli investimenti di marketing. 4. Creazione dell’azienda: In questo step, non si tratterà più di un’organizzazione temporanea che si sta guardando attorno, nota come startup ma sarà diventata un’impresa poiché il nostro piano di business sarà pienamente verificato.

XII.I. Progetti futuri Nella fase 1 della scoperta della clientela abbiamo abbozzato un piano d’acquisizione e attivazione clienti. A questa fase sarà successivo il momento di ridefinire questi piani e strutturare i programmi e gli strumenti di acquisizione e attivazione. Determinare quindi chi 267


acquisire (ovvero quali clienti), quali tattiche promozionali utilizzare, che cosa dire e come dirlo (il contenuto e la formulazione del messaggio). Avvieremo questo piano facendo riferimento a tre documenti che abbiamo concepito quando abbiamo creato e verificato le nostre ipotesi iniziali: •

segmenti di clientela: clientela da raggiungere (e conseguenti email, attività di marketing per il target, pubblicità e PR);

relazioni con i clienti: come raggiungeremo i clienti (SEO, PPC, email, PR ecc..);

valore offerto: cosa entusiasma i clienti e li convince a interessarsi, visitare o acquistare;

definire i fattori di successo fin dall’inizio;

proporci come la novità più grande e simpatica del momento attirando i clienti verso il prodotto. mostrarci quindi interessanti e cordiali invece di limitarci a promuovere la vendita con un atteggiamento freddo e distaccato;

quando ci sembra che un test funzioni, aumenteremo l’intensità per essere sicuri che regga il confronto su una scala maggiore.

Prima di cominciare a ottimizzare il sito, ci accerteremo che i seguenti elementi siano al posto giusto: → Il MPR di bassa qualità si trasforma in MPR di alta qualità che deve sembrare completo; → I piani e gli strumenti di acquisizione spingeranno i clienti a farsi coinvolgere dal prodotto; → I piani e gli strumenti di attivazione come la home page spinge268


ranno la gente ad acquistare. Se la nostra startup web non presenterà chiari segni di attivazione (iscrizioni, referral, visite ripetute, upsell) sarà, allora, quasi sicuramente il momento di fermarsi e cominciare a valutare cambiamenti nel business model per migliorare e andare incontro alle esigenze della clientela. In caso contrario potremmo cominciare a pensare ad espandere i nostri canali di vendita. Nello stesso tempo in cui ci si comincia a pensare, bisogna sviluppare un’ipotesi riguardante il canale ricavi. L’obiettivo è, quindi, relativamente ovvio: identificare i potenziali pubblicitari. Il mondo della pubblicità online è così pieno di spazi non venduti che molti inserzionisti pubblicitari acquistano enormi quantità di banner e link tramite reti di pubblicità online, le quali aggregano decine di centinaia di siti che interessano un gruppo specifico, come i teenager. Prendono lo spazio invenduto a un prezzo minimo e lo racchiudono in un pacchetto che spesso comprende centinaia di milioni di impressioni per uno o più pubblicitari. Più il pubblico è particolare – è più è difficile aggregarlo – più sarà valido.

XII.II. Valutazioni conclusive Per la stesura della nostra pianificazione e definizione della strategia commerciale più idonea, possiamo affermare di aver preso in riferimento la strategia di penetrazione lenta in un mercato di massa (v. cap. V). Ricordiamo insieme in cosa consiste: si penetra il mercato con un prodotto a prezzo sempre basso, ma anche con un basso livel269


lo degli interventi di comunicazione e promozione; evidentemente il prezzo basso favorirà una buona accettazione del prodotto, ma non essendoci supporti di comunicazione e promozione, la penetrazione del mercato verrà posticipata nel tempo. Il mancato sostegno finanziario per gli interventi di comunicazione non farà che aumentare il profitto netto dell’impresa. Avendo espresso la strategia che abbiamo deciso di attuare, non resta che procedere con la mappa di costruzione del sito nel capitolo successivo.

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Note al Capitolo 7 1. Il Business Model Canvas è uno strumento utile a sviluppare nuovi modelli di business o formalizzare quelli esistenti. Si tratta di uno schema grafico dove sintetizzare visivamente come un’impresa crea valore, le risorse ed attività necessarie, i segmenti di clienti, e gli aspetti economico-finanziari. È utile alle imprese per definire la modalità di gestione, selezionandola tra tutte le possibili alternative. 2. Può semplicemente essere una landing page con la value proposition, un riassunto dei benefici e una richiesta di attivazione per avere ulteriori informazioni, rispondere a un breve sondaggio o fare un preordine. Oppure, può essere un rapido prototipo di un sito web in una presentazione PowerPoint o costruito con un semplice strumento di creazione di landing page. 3. Acquisizione clienti. E’ il passaggio che porta i potenziali clienti sulla “soglia di casa” (la landing page/home). Internet offre molte opportunità gratuite di acquisizione (SEO, social media, marketing virale e altro ancora). 4. Attivazione dei clienti. Qui il cliente mostra interesse tramite un download o una prova gratuiti, una richiesta per ulteriori informazioni o un acquisto. E’ dunque il punto in cui il cliente comincia una relazione con il prodotto. In questo passaggio, gli utenti decidono autonomamente se interessarsi attivamente al prodotto o acquistarlo. Se non si riesce ad attivare subito le persone, l’ideale sarebbe farle almeno registrare, così probabilmente si persuaderanno a farsi coinvolgere o ad acquistare successivamente. Un cliente si considera attivato anche se non acquista o non si registra, fintanto che l’azienda possiede sufficienti informazioni per poterlo contattare nuovamente (via email, telefono, messaggi ecc..) con un esplicito permesso per farlo. La maggior parte dell’attivazione avviene prevalentemente sulla home/landing page, in cui si fa il possibile per attirare un utente 5. SEO: Search Engine Optimization, un’opzione di ricerca non a pagamento che collega i consumatori al prodotto o servizio.

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fig.1- Korai, di T. Capillo, coll. S.S. 2013, Š Roberto Di Fresco

fig.2 - Korai, di T. Capillo, coll. S.S. 2013, Š Roberto Di Fresco 272


fig.3 - Korai, di T. Capillo, coll. S.S.

fig.4 - Korai, di T. Capillo, coll. S.S.

2013, © Roberto Di Fresco

fig.5 - Korai, di T. Capillo, coll. S.S. 2013, © Roberto Di Fresco

2013, © Roberto Di Fresco

fig.6 - Korai, di T. Capillo, coll. Beachwear, © Francesco Fresta

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fig.7 - Korai, di T. Capillo, coll. S.S. 2013, Š Roberto Di Fresco

fig.8 - Korai, di T. Capillo, coll. S.S. 2013, Š Roberto Di Fresco

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fig.9 - Korai, di T. Capillo, coll. S.S. 2013, Š Francesco Fresta

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fig.10 - Korai, di T. Capillo, coll. F. W. 2014, Š Antonio Lo Cascio

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fig.11 - Korai, di T. Capillo, coll. F. W. 2014, Š Antonio Lo Cascio

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fig.12 - Korai, di T. Capillo, coll. F. W. 2014, © Antonio Lo Cascio

fig.13 - Korai, di T. Capillo, coll. F. W. 2014, © Antonio Lo Cascio

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fig.14 - Korai, di T. Capillo, coll. F. W. 2014, Š Antonio Lo Cascio

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fig.15 - Korai, di T. Capillo, coll. S.S. 2015, © Roberto Di Fresco

fig.16 - Korai, di T. Capillo, coll. S.S. 2015, © Roberto Di Fresco

fig.17 - Korai, di T. Capillo, coll. S.S. 2015, © Roberto Di Fresco

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fig.18 - Korai, di T. Capillo, Tianjin Fashion Week

fig.19 - Korai, di T. Capillo, Tianjin Fashion Week

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fig.20 - Korai, di T. Capillo, Shooting per Tianjin Fashion Week, “Tianjin Daily Media Group”

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fig.21 - Korai di T. Capillo, coll. Beachwear, for “Copia ed Incolla” Summer in Denim, © Francesco Bellina

fig.22 - Korai di T. Capillo, coll. Jewellery, for “Copia ed Incolla” Summer in Denim, © Francesco Bellina

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CAPITOLO VIII

MAPPA DI COSTRUZIONE DEL SITO Per la realizzazione del nostro negozio online abbiamo scelto di usufruire della piattaforma di Joomla. Joomla permette di creare un sito web tramite un panello amministrativo e gestirlo anche senza conoscere i linguaggi di programmazione. E’ possibile creare un infinità di pagine web ed estendere le funzionalità e grafica, installando le estensioni gratuite o a pagamento che aiutano a realizzare un sito a piacere. La piattaforma permette inoltre di fare visualizzare nel front-end le descrizioni, le immagini e anche file multimediali (video o audio) del prodotto. Integra vari tipi di pagamento, permette di avere le fatture in formato pdf e infine è ottimizzato per le funzioni per il SEO. Per la realizzazione del sito siamo partiti con lo scaricare dell’ultima versione del pacchetto d’installazione Joomla facendo il download direttamente dal sito, download Joomla (fig.1). Avendo installato Joomla si è potuto accedere al pannello amministrativo dal quale personalizzare l’aspetto del sito (figg. 2-3), installando i template e arricchirlo creando vari contenuti e funzionalità aggiuntivi. Nella costruzione di un sito web, la parte alla quale è necessario dedicare attenzione è la scelta della grafica detta Template (fig.4). Il template determina l’aspetto, la grafica del sito, larghezza, posizione dei moduli, colore del testo, del link e molto altro. L’aspetto del template determina molto la qualità del tuo sito negli occhi dei tuoi visitatori, se il template è piacevole il visitatore del tuo sito con 285


piacere continua a navigare. A tal fine abbiamo scelto di adattare uno sfondo monocromatico nero per garantire una visuale meno confusionaria possibile, in cui l’utente può cogliere al meglio gli elementi messi in evidenza (fig.5). Definito il layout possiamo procedere alla creazione della struttura menù e categorie. Poiché sappiamo già che tipo di negozio vogliamo creare andiamo subito a pensare quali possono essere le categorie di oggetti possibili. Joomla permette di creare categorie e sottocategorie di prodotti. Creiamo allora per il nostro negozio le categorie definitive, andandole a sostituire a quelle già predefinite. Se vogliamo aggiungere invece una categoria che fa parte di una già creata dobbiamo cliccare su “Sottocategorie”, in corrispondenza della categoria madre e poi aggiungerla come nell’altro caso cliccando sul pulsante “Nuovo”. Dalla scheda “Gestione Media” possiamo modificare ed eliminare ogni elemento, ma in questo ultimo caso solo se non hanno dei prodotti collegati (fig.6). Anche per il procedimento di definizione delle voci del menù i passaggi sono i medesimi: menù-voci menù. Per inserire articoli basta cliccare su “nuovo articolo” (figg.7-8). Per aggiungere un prodotto dentro una categoria possiamo cliccare sulla voce prodotti della scheda “Categoria” e poi inserirlo oppure cliccare su “Nuovo” direttamente dalla scheda “Prodotti”. Per velocizzare l’inserimento, i prodotti possono essere anche importati (e di conseguenza esportati) attraverso i file. Questo lo possiamo fare andando a cliccare su “Importa e Esporta” che troviamo tra le Opzioni. 286


L’utente che visiterà la nostra pagina avrà la possibilità di registrarsi nella sezione “contatti”come nostro cliente, per ricevere le promozioni riservate, e accedere alla sua pagina personale dove avrà piena visualizzazione dei suoi eventuali acquisti e movimenti. Un cliente più incerto potrà semplicemente registrarsi per contattarci via e-mail per ricevere qualsiasi tipo di informazioni a garanzia del nostro operato (fig.9). Una volta stabilito il template e avendo apportato le caratteristiche necessarie, non sarà più necessario lavorare in stato off-line. Solo da questo momento accetteremo l’acquisto del dominio e la validità annuale partirà dal giorno in cui la pagina è stata posta in stato “online”. Il nostro sito di base, a questo punto, è pronto per essere messo in rete (fig.re da 10-18). E’ opportuno sottolineare che in questa fase del nostro lavoro abbiamo ritenuto opportuno evitare l’inserimento del prezzo sui prodotti offerti. Il nostro scopo è quello di registrare il maggior numero di utenze possibili e fare in modo che il cliente si registri e ci contatti per richiedere informazioni sul prodotto che gli interessa. Esclusivamente in tal modo saremo agevolati nel percepire qual’ è la direzione in cui si muove l’interesse dei nostri visitatori. Il sito è disponibile al seguente indirizzo: www.koraimoda.it

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Apparati


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Sitografia

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“Non conosciamo mai la nostra altezza finché non siamo chiamati ad alzarci”. Emily Dickinson





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