Crudelia Art Magazine | Agosto - Settembre 2010

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Speciale Gino De Dominicis.

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Crudelia? /35 Credits

Editore/Publisher: Marta Massaioli Direttore responsabile / Editor in chief: Marta Massaioli Art Advisor: Antonio Arevalo Traduzioni / translations: Michelle Graphic designer / designer grafica: Andrea Delliquatri Fotografia / Photo: Ringo of Dakar Collaborano ed hanno collaborato: Torino – Luca Beatrice Milano – Glores Sandri + Maria Grazia Torri + Beatrice Leanza (Pechino) Firenze – Paolo Antonioli + Fiammetta Strigoli Bologna – Valerio Deho + Napoli – Roma – ABO (Achille Bonito Oliva + Angelo Capasso + Mimma Pisani + Simona Cresci + Sabrina Vedovotto + Bruno Corà + Dobrila Denegri + Claudio Damiani + Gabriella Sica. Venezia – Andrea Bruciati Lubiajna – Aurora Fonda Berlino – Walter Seidl Tokyo – Koichi Kawasachi Parigi – Jerome Sans - Rena Kanu Londra – Paul Salkowsky + Betty Marenko New York – Ike Udè + Olu Oguibe + Maxwell L. Anderson Miami – Debra Sepulveda – Marina Kessler Los Angeles – Wendy Waldron Brandow Madrid – Fernando Castro Pagua – Jiri Svestka Citta del Messico – Mariana Munguie Matude Mosca - Mr.Fedor Filkov Stampa – Sun Fly Printing – China Autorizzazione Tribunale di Roma Numero 15/2000 del 14/01/2000 Front cover: Gino De Dominicis, “Urvasi e Gilgamesh”, Tempera e matita grassa su tavola, Collezione Privata , New York 1989. 2

Back Cover: Gino De Dominicis, “Immortalità”, Stampa litografica su carta, cm 100x70. edizione Galleria L’Attico Roma. Courtesy Fabio Sargentini.

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Si è detto che l’arte è figlia del suo tempo. Un’arte simile può solo riprodurre ciò che è già nettamente nell’aria. L’arte che non ha avvenire, che è solo figlia del suo tempo ma non diventerà mai madre del futuro, è un’arte sterile. Ha vita breve e muore moralmente nell’attimo in cui cambia l’atmosfera che l’ha prodotta.” (W. Kandinsky, “Lo spirituale nell’arte”). Questo numero di Crudelia?È dedicato principalmente a due temi: la morte e il suo opposto, la non morte e immortalità. Pericoloso morire, pericoloso lasciarsi andare alla tentazione ovvia della banalità, alla certezza della consuetudine, pericoloso farsi travolgere dall’irrompere di tutto ciò che è “antiestetico”. L’arte che non produce senso, che non spezza il piano immanente di ciò che è stato già detto, l’arte che si rifiuta di scoprire il nuovo, l’incerto, il non 4

detto è antiestetica, è banale. E’ pura e semplice decorazione. L’arte inizia laddove l’artista entra in contatto con ciò che è impensabile, imponderabile, quasi indicibile. Essa spezza il ritmo serrato delle verità assodate una volta per tutte, ci lascia senza fiato, spezza la continuità delle nostre esistenze, l’arte ci chiede di incamminarci sul sentiero di ciò che è inimmaginabile, di perdersi in un oceano dove l’unica possibile salvezza consiste nell’accogliere il senso dell’assurdo e di ciò che è incerto e nuovo. In questo orizzonte l’arte spesso assume le sembianze ambigue e demoniache della libertà, che è sperimentazione delle proprie regole, ci svela le possibilità di una idealità leggera, ci consente di sottrarre l’oggetto estetico alla comica deriva della mancanza di senso. Morire è perciò un atto antiestetico, banale. La morte in sé è un fatto consueto agli esseri umani.

La morte non apre la strada ad un che di imponderabile, l’aldilà è postulabile, è accettato dalle diverse religioni. La morte non ci sottrae alla nullificazione del nostro essere. L’immortalità di contro è la vera sfida. Un arte, come quella di Gino De Dominicis, che scommette su questo tema, afferma la sua alterità rispetto al passato, per l’estremismo con cui l’artista postula questa nuova verità. Sono molti gli artisti che hanno affrontato il tema dell’immortalità, ma certo De Dominicis è l’artista che più di ogni altro ha incentrato la sua ricerca estetica su questi due temi. Pericoloso morire è un intervento di Gino De Dominicis presentato alla Galleria romana l’Attico nel 1970. In questo contesto presentava il meraviglioso, il tempo, lo sbaglio, lo spazio. L’opera è incentrata su una visione polemica, ironica, della

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morte: uno scheletro indossa dei pattini a rotelle e porta al guinzaglio un cane. Un asta verticale accanto all’orizzontalità dello scheletro.

al Caffè della Pace di Roma. Il luogo in cui incontrai l’artista nel 1989. Fermare il tempo, descrivere un orizzonte piatto dove la luce dell’alba si confonde con il blu notte, è quanto voglio proporre in questo numero di Crudelia?. Immaginare che Gino De Dominicis sia ancora li sul suo Jaguar conforta tutti noi che lo abbiamo frequentato e venerato... L’ idea dell’arte di Gino De Dominicis, resta un enigma irrisolto, al di là delle facili collocazioni critiche ed estetiche. Con questo numero voglio suscitare polemiche, interrogativi, battaglie culturali e critiche. Come è sempre nel mio stile...

Mi piace intitolare questo mio editoriale ricalcando la dissacrante metafora di questo artista a me così caro, perchè questa immagine contiene in sè una possibilità interpretativa che ben si adatta all’attuale contesto culturale. La caduta di contenuti, che è mancanza di senso degli eventi, continua a caratterizzare la nostra contemporaneità e l’arte non ne è esente. Di fronte a questo smarrimento culturale, mi sento di riproporre un numero dedicato quasi per intero a Gino De Dominicis, Crudelia? The critic voice of ripubblicando la copertina del contemporary arts.... 2000 dedicata appunto allo Marta Massaioli. stesso artista, scomparso due anni prima. e perciò oggi settembre 2010 come allora stessa cover di Crudelia, stesso Jaguar verde inglese, di fronte Agosto-Settembre-2010

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Prima parte. (La seconda parte sarà pubblicata nel prossimo numero di Crudelia?)

“Prova e riprova una volta le leggi della fisiche possono essere vinte, come il sasso gettato nell’acqua che forma il cerchio: prova e riprova fino a quando non esce il quadrato. Ecco io ho provato e riprovato fino a quando non è rimasto immobile nello spazio”. Gino De Dominicis. L’ Arte, ironia, parodia, entropia, immortalità. Il pensiero, la produzione artistica, l’estetica di Gino De Dominicis si alimenta di una ferma opposizione al suo tempo. La capacità dell’artista di esser al di là degli stereotipi proposti, di saper interpretare e vivere ciò che appartiene all’arte del futuro, colloca la sua ricerca estetica in un territorio inesplorato la cui caratteristica è la certezza di aver definito un linguaggio nuovo, esemplare, unico definendo uno stile che interpreta ed incarna lo spirito della contemporaneità. L’ironia scarnificante che corrode tutto, caratterizza il linguaggio estetico di De Dominicis fin dalla fine degli anni ‘70. L’idea dell’assenza di una qualsiasi certezza, cui De Dominicis oppone appunto l’auspicio grottesco dell’immortalità del corpo, incarna lo spirito degli anni ‘80 e ‘90, caratterizzati dalla fine delle ideologie, dall’idea di un edonismo culturale che lascia spazio ad un tempo fisico infinito dove l’unica certezza è nel sogno, nella ricerca di una ipotetica immortalità, disegnata 6

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di Marta Massaioli da un pensiero-estetico che si vanta del privilegio di poter attraversare in pochi attimi, infrangendo la barriera del tempo, la storia, riportando in luce antiche certezze, e nuove verità. L’edonismo di De Dominicis, la sua vita memorabile, l’alone di mistero che aveva costruito con precisione geometrica intorno alla sua persona, non ha consentito per molto tempo una definizione corretta dell’ opera di questo importante artista italiano. Le sue affermazioni sempre volte a ironizzare su tutto, anche sullo stesso tema dell’immortalità, così caro all’artista, hanno spesso sviato la comprensione della sua ricerca: la critica ha teso a dare un interpretazione della sua poetica partendo proprio da alcune frasi epigrammatiche, talvolta nemmeno correttamente e scientificamente documentate, se non dal sentito dire di un testimone oculare, omettendo invece una lettura storica, critica oggettiva dei fatti e della poetica per intero. Due sono i concetti chiave che possono riassumere l’intera opera di De Dominicis: il primo è l’idea del tempo inteso come tensione fisica verso la non morte ossia l’immortalità, il secondo è la tensione estetica dell’individuo verso una ipotetica quarta dimensione fisica caratterizzata da assenza di entropia e dunque più reale della realtà stessa. Questa atto creativo assoluto, titanico consente di percepire l’esistenza degli oggetti invisibili,

tridimensionali, di vivere contemporaneamente punti di vista multipli, di attraversare la realtà tramite prospettive rovesciate, di incamminarsi nella storia e nei misteri dell’universo cogliendone il significato di verità, quel momento in cui ogni essere animato ed inanimato è finalmente la sua essenza. L’arte contemporanea, quella Concettuale in particolare e poi il rappel a l’ordre incarnato dalla Transavanguardia e dall’Arte Povera, sono percepiti dall’artista come emanazioni estetiche di una inesorabile deriva spirituale e culturale. Questi movimenti tutti, per l’artista De Dominicis rappresentano un abisso che sancisce la vera morte dell’arte, cui l’artista oppone un estetica incentrata sul tema post-modern e cibernetico dell’immortalità. Dopo aver sperimentato l’estetica Concettuale, De Dominicis se ne prende gioco, ma non aderisce al trionfalismo della Transavanguardia: la sua è una pittura dalla raffinata matrice concettuale, caratterizzata da un virtuosismo cromatico, da un atmosfera rarefatta ed estrema, la cui fonte di ispirazione ultima due artisti dell’enigma per eccellenza il pictor optimus, De Chirico, e il maestro dell’ironia romantica ed estrema, il catalano Salvador Dali. L’arte, l’oggetto estetico è composto da una “successione infinita di immagini e di istanti” che riassumono in sé le determinazioni di presente, Agosto-Settembre-2010

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passato e futuro. L’arte è così un immagine, un relic, un apporto che arriva a noi attraverso l’artista che nulla è se non media del tempo e di un universo che è forse immobile. L’oggetto estetico rappresenta ed incarna l’idea di un tempo non solo vissuto, ma anche pensato, percepito nella dimensione in cui l’istante è destinato a tradursi nell’immagine di una auspicata immortalità del corpo. L’imponderabile, l’impensabile, il dramma dell’im-possibile immortalità. Il suo esordio a Roma è già una consacrazione; è il 5 novembre del ‘69, De Dominicis è presentato al pubblico romano da Fabio Sargentini. Sargentini all’epoca era il gallerista di Pascali, Kounellis, portavoce dell’Arte Povera italiana. La galleria l’Attico era quella che aveva ospitato la celebre mostra dei cavalli vivi di Kounellis, alla quale lo stesso De Dominicis era stato presente tra il pubblico. L’incontro Sargentini - De Dominicis avviene nell’ottobre dello stesso anno, quando l’artista si presenta in galleria per proporre il suo lavoro a Sargentini, che riconosce nello sconosciuto il giovane immortalato tra la folla alla mostra dei cavalli di Kounellis. Dopo la presentazione ufficiale i due diventano “inseparabili”. Sargentini non era solo un semplice gallerista, ma poeta a sua volta, dunque un creativo. Questa doppia anima di 8

Sargentini spiega la caratteristica della loro amicizia: repentina, immediata, profonda ed esclusiva, viscerale ed improvvisa anche nella sua fine. De Dominicis arrivando in galleria modificò l’assetto culturale dell’ Attico. Ricorda Sargentini “Il suo approccio all’arte, leggero, rarefatto cerebrale portava un vento nuovo nel clima povero della Galleria. L’acqua e la terra di Pascali, il fuoco di Kounellis, cedevano il passo agli oggetti invisibili.” Sargentini ricordando questa prima mostra parla di un nuovo vento concettuale nell’aria. L’Attico era all’ epoca sito in un garage di via Cesare Beccaria a Roma. Le opere che presenta nella sua prima personale romana suggellano i temi fondamentali e ricorrenti in seguito quali la morte, l’immortalità e la gravità. Gino De Dominicis, appena 23enne, in questa mostra senza dubbio inaugura quella corrente artistica che ho già definito Concettuale Caldo 1 di cui De Dominicis, insieme a Vettor Pisani sono i maggiori interpreti ed esponenti culturali. In questa mostra De Dominicis presenta il famoso manifesto mortuario con la scritta “Gino De Dominicis” ed in calce la scritta “L’Attico novembre 1969”. Il documento introduce ad una serie di documenti testuali che includono: a) L’annuncio della morte di GDD che coincide con la data di inaugurazione della mostra.

b) L’annuncio della mostra c) L’annuncio dell’immortalità. Le opere esposte - Catena che solleva un fusto d’acciaio pieno d’acqua, Pietra, Equilibrio (Aurea asta in bilico), Cubo invisibile, Cilindro Invisibile, Materiali radioattivo - annunciano ed enunciano in toto, la sua futura poetica e ricerca estetica. De Dominicis in questa prima personale si propone come l’inattuale, l’artista che non scende a compromessi con il proprio tempo. Il dilemma della realtà della temporalità, dunque del divenire e della fine, la volontà del suo superamento attraverso una morte intesa come trapasso verso una dimensione ulteriore, quella dell’immortalità della materia, tutto ciò è enunciato attraverso la questione dell’ assenza di peso e di gravità come possibilità di una concretezza percettiva ulteriore da parte della coscienza, che consenta di carpire l’assenza di gravità dei corpi immateriali e l’esistenza degli oggetti invisibili. Il dilemma dell’immortalità del corpo, è la questione programmatica in questa prima mostra; l’annuncio mortuario è solo una fittizia butade, un incipit provocatorio per postulare e costituire la domanda di fondo di tutto il suo percorso speculativo ed estetico. Equilibrio, l’ asta dorata sospesa nel vuoto, ci suggerisce di penetrare il ritmo segreto dell’ universo fisico che ne regge

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misteriosamente la sorte. Lo spettatore è chiamato a interrogarsi sulla volatilità della temporalità, è indotto verso la tentazione di volersi appropriare di una verità ulteriore, quella dell’assenza di peso e di gravità, nella quale può esistere una dimensione anti-entropica. Gino De Dominicis è ossessionato da questa ricerca dell’ immortalità che considera la scommessa del suo tempo, l’unico viatico in grado di aprire alla ragione il varco di un nuovo orizzonte, di un impensata realtà, che contiene in sé il senso dell’evolversi della storia in una dimensione inedita. L’anno seguente alla 3° Biennale Internazionale della giovane pittura a Bologna presso il Museo Civico, l’artista ripropone gli Oggetti Invisibili, mentre in catalogo una serie di opere proseguono la questione proposta nella mostra dell’anno precedente a Roma. Poltrona per un viaggio nello spazio, rimarca l’idea di un pensiero che ha reciso ormai la monolitica fissità dell’alchimia concettuale. In quest’opera c’è il fascino e la tensione di un movimento estetico illusorio che si traduce in una staticità che è al di là del flusso del divenire della temporalità naturale. La poltrona, ben descritta dall’ artista, doveva provocare in chi vi si sedesse la percezione di muoversi nello spazio, all’unisono con esso, alla velocità

complessiva di 325 km al sec ed in qualche modo è una specie di macchina del tempo. In “Improvvisa uscita di uccelli dall’acqua” (far succedere in un secondo quello che era successo naturalmente in miliardi di anni: la trasformazione cioè dei pesci in uccelli) l’artista ripropone la cancellazione del principio di necessità connesso al tempo storico, la sua struttura vincolata ad un divenire irreversibilmente diretto alla fine della materia, sostituito da un istante in cui l’atto estetico si riappropria, ricreandolo, di un evento antico di un fatto naturale che è riproposto in un temporalità accelerata, nel contesto di una dimensione fisica nuova. In questa ed in tutta una serie di azioni e di opere che realizza negli anni ‘69 - ‘70 l’artista concentra l’attenzione sull’idea di poter mettere in discussione l’idea della non reversibilità dei fenomeni fisici attraverso eventi e gesti impossibili, imponderabili. Emblematico Tentativo di volo del ‘69, Tentativo di formare dei quadrati anziché dei cerchi intorno ad un sasso che cade nell’acqua. In “Cubo e Cilindro invisibile”, De Dominicis parla di uno spazio e di un tempo, ambigui che si uniscono e si toccano continuamente inseguendo la staticità della dimensione spaziotempo dove l’eterno coincide con la condizione immortale. In queste opere propone un concetto di temporalità, nel quale il tempo si incrocia continuamente con l’eternità e l’immortalità e

l’eternità e l’immortalità continuamente penetrano il tempo. In “Cubo e Cilindro invisibile”, le due forme geometriche antitetiche per eccellenza sono accostate, forse per sottolineare l’opposizione dialettica cerchio/ quadrato, dunque come metafora dell’impotenza umana di sconfiggere la finitezza dell’essere e raggiungere l’immortalità fisica. La monolitica fissità della Pietra (l’Aspettativa di un casuale movimento molecolare generale in una sola direzione tale da generare un movimento spontaneo del materiale), Morra Cinese (video), Lancia che trafigge la terra, Due Verifiche di invisibilità (di movimento: un oggetto mosso velocemente sparisce alla vista: di peso: oggetto visibile, oggetto invisibile, oggetto mancante), Ipotesi Cosmica (Uovo e gallina), Palla di gomma (caduta da due metri) nell’attimo immediatmente precedente il rimbalzo), Stanza per invisibilità. In queste opere, presentate nella seconda personale all’ Attico, il 4. 4. ’70, De Dominicis spazializza l’istante, traduce la finitezza, la morte il decadimento della materia in una dimensione che racchiude in sé la fissità della quarta dimensione. Nella sua seconda personale nel ‘70 all’Attico il catalogo propone in copertina il manifesto mortuario della sua prima personale nella stessa galleria, ma in questa edizione viene soppressa la data. L’artista vuole cristallizzare Agosto-Settembre-2010

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nella fissità di questa nuova immagine, il divenire del tempo cronologico: De Dominicis è oramai concentrato sull’ aspetto cosmico della temporalità come dimostra la lo Zodiaco che presenta in questa mostra. Lo Zodiaco è un azione estetica unica, un opera centrale per De Dominicis; quest’opera segna una vera e propria rivoluzione nell’arte contemporanea poiché introduce innovazioni sostanziali nella performance, inoltre stabilisce con chiarezza l’ulteriori elementi chiave della futura poetica dell’artista. Attraverso lo Zodiaco l’artista introduce l’interpretazione simbolica cosmogonica della sua opera, prendendo dunque le distanze dall’essenzialità dell’arte concettuale, spostando inoltre l’attenzione in forma sempre più accentuata su elementi esoterici e misterici ancora incompresi ed incogniti, ma fondamentali per questo artista. Si può ipotizzare che lo Zodiaco introduca un riferimento, forse ancora in nuce alla cultura Sumera; per i Sumeri lo Zodiaco aveva un ruolo fondante a livello culturale, infatti interpretavano il volere degli dei, attraverso le stelle, e perciò inventarono per primi lo Zodiaco (la cosmogonia sumera prevede undici carri mentre in seguito i greci e gli arabi lo trasformano in dodici carri). Lo Zodiaco è un azione estetica unica: per la prima volta infatti nell’ambito della performance sono presentate persone, attori 10

che restano immobili, il regista dell’azione estetica è l’artista, artefice assoluto dell’opera. Lo Zodiaco cristallizza e sintetizza l’estraneità di De Dominicis al divenire della storia, alla successione infinita del tempo, alla sua inesorabile progressione lineare. Dopo questa seconda personale da Sargentini è oramai chiaro che De Dominicis è lontano dalla riflessione fredda dell’arte concettuale tradizionale.

La sua non è una riflessione sul fare arte, sulle modalità del linguaggio artistico, la sua riflessione è la costruzione sistematica di un complesso pensiero filosofico-estetico che stabilisce connessioni con le più innovative scoperte nel campo della fisica nonché dell’ ingegneria genetica. L’oggetto artistico, l’opera d’arte è la sintesi di questo complesso compendio, è perciò modello di immortalità, sintesi visiva della

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finitezza quando entra in relazione con ciò che è invisibile, con ciò che è eterno. L’arte realizza una sintesi di tempo e di eternità, essa è la porta verso l’infinito, è la soglia da cui tutto ha avuto inizio. Tutte le opere realizzate in questo scorcio di anni puntualizzano questi concetti. Nel 1970 pubblica la famosa “Lettera sull’Immortalità”, che può essere considerato una dichiarazione d’intenti, il suo

testamento spirituale. La lettera è stampata in due versioni in apertura di catalogo in lingua italiana con data Roma 10. 01. 1970 a chiusura del catalogo con data 10. 04. 1970 in lingua inglese. In essa l’artista enuncia chiaramente la sua poetica. Nella lettera si rivolge ad una donna e l’incipit è diretto “..Io penso che le cose non esistano”. Dopo la constatazione che le cose, sia inanimate che animate

non esistono, ma non sono altro che simulacri, il cui compito è “sperimentare la possibilità d’esistere” di una natura capricciosa, animata, che si diverte appunto a verificare attraverso gli esseri viventi le sue possibilità creatrici, giunge alla constatazione che solo la fissità della condizione d’immortale consentirebbe agli esseri di essere “veramente eterni”. Il tema della lettera è una costante sollecitazione all’umanità affinché prenda coscienza della mutazione cui è soggetta dalla nascita alla morte, cioè l’ineluttabile divenire degli esseri, degli oggetti, dello stesso spazio, tutti succubi dei capricci di una natura sperimentatrice. Dunque in questa condizione mutante non è possibile sperimentare la vera essenza dell’essere: il passaggio dalla condizione di non esistenza all’esistere vero e proprio, necessita ed implica il passaggio allo stato di immortalità. Soltanto dopo aver raggiunto questa condizione si potrà incarnare la vera natura, il vero eidesen, l’essere nel mondo, essere dunque finalmente sé stessi ed essere liberi, entrando in contatto con ciò che è reale, vero. De Dominicis sta elaborando il percorso che lo porterà di li a poco a presentare alla Biennale di Venezia la Seconda Soluzione dell’immortalità. Le mostre si susseguono velocemente: Gino De Dominicis è oramai l’artista leggenda del nuovo panorama artistico anni ‘70. Agosto-Settembre-2010

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Impossibile, raffinato, difficile da definire. La palla, l’asta, la pietra, il cilindro invisibile, l’oggetto radioattivo, i vasi d’alabastro, il gattino con la didascalia che prelude alla Seconda Soluzione dell’Immortalità, sono le opere proposte a Milano alla Galleria Franco Toselli. Nell’ ambito della collettiva “Fine dell’Alchima” a cura di Maurizio Calvesi all’Attico Gino De Dominicis presenta Il tempo, lo sbaglio, lo spazio, accompagnato dal Prof. Franco Rustichelli, docente di fisica all’Università di Ancona, che enuncia attraverso formule matematiche, il problema dell’immortalità. Il Tempo, lo sbaglio, lo spazio, è un opera dal raro equilibrio compositivo, che sarà poi riproposta anni dopo, con minore intensità in Calamità Cosmica. Lo scheletro di un essere umano, indossa dei pattini a rotelle e tiene al guinzaglio lo scheletro di un cane. Un opera raffinatissima, la cui atmosfera trapassa in continuazione dall’ironia beffarda alla sospensione metafisica e patafisica: una sfida continua al tempo ed allo spazio. Lo scheletro umano ha poggiato sul dito l’asta, simbolo enigmatico dell’assenza di gravità cosmica e dunque veicolo di verticalità ed immortalità. Intorno a questo elemento è incentrato e canalizzato l’intero campo visivo. Che cos’è l’asta in questo contesto specifico? 12

Forse un raggio di sole, forse un campo di energia che proviene da un altra dimensione e consente il trapasso fisico, forse un relic di una passata dimensione temporale, forse lo scettro di Gilgamesh? Lo scheletro forse incarna simbolicamente e provocatoriamente l’idea dell’im-possibile immortalità? E’ icona del non esistere o relic del passaggio dal non esistere all’esistere veramente? Nel trapasso dalla condizione di vita a quella di morte, ciò che di essenziale rimane è lo scheletro, esso è l’ultima mutazione del corpo è l’anello di congiunzione, l’ultima possibilità della vita ma la prima dell’immortalità. Lo scheletro è ancora materia reale, realtà della realtà, relitto del vissuto, testimone della mutazione dalla vita animata alla realtà inanimata, ma realtà essa stessa. Nello scheletro vi è un ritorno nel presente di ciò che è stato, esso elude la caducità della mutazione e del divenire dell’ essere, è emblema dell’attesa di una continuità a venire che crei nuovo senso vitale, nel territorio dell’immobile immortalità. Lo scheletro è immobile, esso rappresenta l’assenza di movimento, l’assenza di spostamento nello spazio di un corpo per occupare un altro luogo e dunque assumere una nuova sembianza, verificare cioè una diversa possibilità d’esistere. Nel suo stato di quiete apparente incarna perfettamente quanto

dallo stesso artista enunciato nella lettera sull’immortalità del 10. 04. 1970: “ Non potendo intervenire direttamente su se stesso per fermare il corso inesorabile del proprio “tempo interno” e allungare la propria vita, l’uomo ha inventato dei mezzi che lo rendessero più veloce: intervenendo così sullo spazio, indirettamente è riuscito a intervenire sul tempo. Questa operazione potrebbe essere giustificata però solo se lo spazio fosse finito e la nostra fantasia limitata. Purtroppo invece è solo un palliativo e un gravissimo errore” (Il tempo, lo sbaglio, lo spazio). Nel 1971 presenta D’IO un opera audio, una innovazione assoluta. L’opera riproduce la risata dell’attore Vittorio Bignardi, scelto da De Dominicis per il suono cavo, profondo, evocativo ed inquietante. L’opera è esposta nello stesso anno alla Galleria l’Attico, e poi di seguito alla Biennale di Venezia del 72. L’installazione è inquietante: la voce si amplifica fin nelle vicinanze di Via Cesare Beccaria, a sottolineare il passaggio dalla spazio chiuso della galleria dove è esposto solo l’ironico cartellino d’invito alla mostra - D’IO - unica presenza che rimandi ad un oggetto paraestetico. Il gioco di parole D’IO rimanda all’idea che l’immortalità del corpo non è una prerogativa della divinità, ma una condizione aperta a tutti gli esseri umani. Sempre nello stesso anno a

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Parigi in occasione della 7° Biennale di Parigi a cura di Achille Bonito Oliva, presenta la performance “Che cosa c’entra la morte”, antedatata ‘70 sul retro. In questa azione l’artista si aggirava per la mostra con un cappotto nero, un cappello a cilindro nero, un peliche di tigre ed un cartello con scritto “Che cosa c’entra la morte”. Le props, come lo stesso artista dichiarò erano oggetti che provenivano dalla sua attività di impresario di pompe funebri, attività svolta in una delle sue vite precedenti. L’idea ancora una volta è di sottolineare la continuità temporale dell’essere, l’immortalità che attualmente può esser raggiunta attraverso l’arte. E di nuovo lo stesso tema, l’immortalità è l’argomento della mostra del ‘72 agli Incontri Internazionali d’Arte di Palazzo Taverna. La mostra consiste in un cocktail organizzato dall’artista per festeggiare il superamento del 2° Principio della Termodinamica (lunedì 18. 12. 2085 ore 19:00 Palazzo Taverna). La torta del cocktail ha la scritta 2085, l’evento è accompagnato da un testo che recita “Se tutti gli uomini potessero immaginare e desiderare la propria salvezza, la conservazione cioè del proprio corpo per l’eternità, significherebbe che finalmente non ci sarebbe stata dispersione (entropia) mentale. Quindi il secondo principio della termodinamica non sarebbe più valido perchè contraddetto dal

comportamento di un organismo che può progettare senza distrazione (entropia) la sua eterna condizione di sistema isolato”. Nel ‘71 presenta Immortalità, una stampa tipografica su carta, il Manifesto propone una croce latina sulla quale è sovrapposta una croce ad X il cui significato, come acutamente interpretano Maurizio Calvesi e di nuovo Achille Bonito Oliva, sta a significare oltrepassare i confini della morte. La stilizzazione sarà riproposta poi in varie forme negli anni seguenti nelle diverse versioni di Gilgamesh, intersecandosi con diverse lettere sumere, il cui significato è sempre stella. Cielo, Anima ed immortalità. Si può anche ipotizzare, data l’evoluzione e la complicazione che subirà questo stesso simbolo negli anni ‘80 nelle opere pittoriche, che Nel Natale del ‘71 il suo biglietto d’auguri recita “G.D.D. Augura a tutti l’immortalità del corpo”. Il ‘72 è l’anno memorabile. Alla Biennale di Venezia presenta l’opera Seconda Soluzione d’Immortalità, l’Universo è immobile. L’opera incorpora tre altri lavori già presentati in precedenza, Il Cubo invisibile (‘67), Palla di Gomma (caduta da due metri) nell’attimo immeditamente precedente il rimbalzo (‘68) e Attesa di un casuale movimento molecolare generale in una sola direzione, tale da generare un movimento spontaneo della pietra, posti di fronte al Sig. Paolo Rosa,

un giovane portatore della sindrome di down, che è seduto in un angolo della stanza di fronte alle tre opere, punto focale di una ipotetica prospettiva rovesciata. Il punto di vista è doppio, anzi possiamo ipotizzare una modalità percettiva allargata, i punti di vista sono addirittura quattro, quello di paolo Rosa, quello del pubblico ed i punti delle doppie prospettive rovesciate che si intersecano nella disposizione degli oggetti, testi oggettivi anch’essi, secondo la tradizione sumera dell’evento in atto. Paolo Rosa, che rappresenta nell’immaginario dell’artista l’anello di congiunzione umano - divino, immagine di una natura diversa aliena, extraterrestre, forse sottratto geneticamente all’evoluzione o forse depositario di una verità nascosta, altra, portatore non di una sindrome ma semplicemente dell’assenza della percezione spazio temporale umana, perciò divinità, creatura regale, essere dalla natura misteriosa, insondabile ed altra, simbolo di una dimensione d’immortalità oggettiva. Egli è “sintesi di anima e corpo ma, nello stesso tempo, egli è una sintesi di tempo e di eternità.” L’opera fece subito scandalo, fu incompresa e considerata una provocazione sterile. Così Paolo Rosa fu visibile solo nel giorno del 8 giugno del ‘72. Nei giorni seguenti De Dominicis sostituisce Paolo Rosa con una bambina, ma a causa delle Agosto-Settembre-2010

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polemiche la sala viene chiusa, De Dominicis e Simone Carella, il suo assistente, vengono denunciati alla Procura della Repubblica di Venezia per sottrazione d’incapace, assolti poi l’anno seguente. Nel ‘72 si consolida il sodalizio, destinato a durare per tutta la vita, con il mercante Pio Monti. Nasce l’Edizione stampata litografica stampata da Artestudio a Macerata, pubblicata nello stesso catalogo in Biennale. Gino De Dominicis in questo anno coabita con Pio Monti in Via di Monte Giordano: entrambi marchigiani vivono un amicizia fatta di intesa e complicità profonde. Pio Monti venerava Gino De 14

Dominicis, non mette mai in discussione la sua poetica, ma ne assecondava tutte le richieste, cercando i soldi per produrre o acquistare le opere dell’amico anche in tempi difficili. In questo scorcio di anni, dal ‘72 al ‘80 hanno vita le opere “alchemico - concettuali” che tracciano con evidenza inossidabile la completezza di una visione estetica che abbraccia tutti i campi del sapere: filosofia, fisica, letteratura, matematica, alchimia di cui la produzione pittorica degli anni ‘80 - ’90 ne è la sintesi estrema. Il 1975, alla Galleria Lucrezia De Domizio a Pescara, presenta: “Mostra riservata agli animali”

“Quando non si parla più di immortalità del corpo” (ingresso riservato agli animali). L’audience non può entrare, lo spazio della galleria è riservato solo ad un bue, un asino, un’oca, una gallina, mentre gli umani possono solo osservare dalla soglia dell’ingresso. Come osserva acutamente Laura Cherubini: “ Lo ricorda Vettor Pisani, che riferisce anche che gli animali erano stati individuati dall’artista come esseri che non hanno coscienza della morte (in questo senso il lavoro era già, in nuce, nel gattino che circolava nel garage dell’Attico corredato di didascalia). È evidente che De Dominicis,

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lettura particolare, quella che le paragona al Corpus Hermeticum. L’ invisibile immortalità dell’ essere....Galleria Pio Monti. Nella mostra ripetuta identica a distanza di un anno presso la Galleria Pio Monti (Particolare Gennaio ‘77 – Gennaio ‘78 Roma) enuncia un concetto chiave per l’intera poetica di De Dominicis che sarà poi riproposta e sviluppata in larga parte della sua produzione pittorica; l’ubiquità e l’invisibile immortalità dell’essere. Quest’opera-mostra, si propone come l’accadere di nuovo nello stesso luogo di un medesimo evento. L’accadere di nuovo non è semplice ricordare, né mera ripetizione. Il meccanismo del ricordo ci coglie con lo sguardo volto verso il passato, indietro nel tempo, il ripetere implica la riproduzione di uno stessa azione, mentre l’accadere di nuovo postula l’eventualità come soggettività, una soggettività che unisce in un piano di continuità l’evento che accade di nuovo, lo colloca nella dimensione temporale di ciò che è sacro, di una ritualità negli animali come già nel Gino De Dominicis si fa riprendere che riproduce la continuità del giovane Paolo Rosa, è in cerca che fissa gli astanti, inverte la cosmo, i suoi equilibri cristallini. di modelli alternativi al destino relazione osservatore artista, il Questo tema sarà poi riproposto dei mortali, paradigmi circuito visivo parte dall’artista in Urvasi e Gilgamesh, in tutte dell’immortalità del corpo. che guarda gli astanti e non quelle opere pittoriche legate “Sempre alla Biennale interviene viceversa. al tema della cultura e della sulla Terza Soluzione dell’ L’opera d’arte osserva la platea mitologia sumera. Immortalità, GDD vi guarda, nel e non viceversa. Passato e presente coesistono video prodotto dal Gallerista Molteplici le interpretazioni delle in una dimensione estetica che Gerry Schum in cui viene Quattro Soluzioni d’Immortalità, coniuga la novità dell’accadere fisicamente invertita la relazione di cui la prima mai rivelata. di nuovo con la reiterazione di visiva tra chi osserva l’opera e Forse tra le più interessanti, ciò che è già stato. l’opera d’arte in sé. poiché aprono una chiave di Ciò che accade di nuovo è tale Agosto-Settembre-2010

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poiché scisso dal trascorso, dal ciò che è stato. Tuttavia l’attualità dell’evento determina una frattura con il passato; il tempo è dunque quello del nuovo, ma l’evento non può prescindere dal vecchio poiché è nella relazione di identità (la stessa mostra ripetuta a distanza di un anno nello stesso luogo) che determina la sua diversità. Il nuovo evento, la nuova mostra è al contempo portatrice dell’ ambiguità di un tempo immobile, che simula la possibilità di viaggiare a ritroso nella dimensione temporale o di spezzare comunque l’immanenza della realtà oggettuale. Proporre al pubblico a distanza di un anno un evento identico, un opera identica, significa spezzare la relazione con la realtà oggettiva, affermare una dimensione temporale immobile, altra. De Dominicis sostituisce l’idea di un passato impossibile da ripercorrere e rivivere con il concetto di un tempo che ripercorre e ripropone il passato nell’hodie, superando la condizione mortale dell’essere umano. Pio Monti ricordando l’evento sottolinea lo stato di spaesamento che la seconda esposizione creò davvero negli spettatori che si sentirono risucchiati indietro nel passato...a ritroso. Nel gennaio del ‘79 alla Galleria Mario Pieroni espone “11 statue di G. De Dominicis”. Su una serie di volumi solidi, piedistalli insiste sul tema dell’assenza – presenza. 16

Ciabatte e cappelli di paglia, l’osservatore è chiamato a percepire la presenza immateriale degli esseri che sono presenti all’interno degli spazi delimitati. L’invisibilità, è il territorio che ci circonda, ma probabilmente entità abitano questi interstizi leggeri, sono presenze invisibili, ma tuttavia esse esistono. L’invisibilità consiste in diversi attributi, anche in quello dell’ubiquità (cui dedicherà negli anni 80 la serie pittorica Opera Ubiqua), ed è un principio connesso agli attributi della condizione immortale. L’invisibilità e l’idea di sostituire la dispersione di energia con il suo opposto è il tema delle successive mostre alla Galleria Monti. Nei primi anni Ottanta, l’artista presenta Lampadario antientropicoe un opera di rara bellezza e dal profondo significato estetico. Ricorda puntualmente Pio Monti: “Aveva fatto alcuni quadri che poi aveva distrutto e ne aveva messo i resti in un sacco di plastica poi appeso al soffitto. Invece di fare luce faceva ombra”. L’energia non viene dispersa, dunque non c’è entropia. Significativa la scelta di distruggere le opere pittoriche ed integrarle in un involucro lampadario che non disperde energia. A mio avviso questa opera può essere considera il manifesto programmatico della sua futura attenzione rivolta alla pittura, intesa appunto come trade d’union tra dimensioni parallele, come finestra su una dimensione altra

che consente attraverso diverse condizioni estetiche di oltrepassare i limiti dell’accadere e dell’immanenza. Sbarre violate è una riproduzione di una vera e propia cella che l’artista trasforma intervendo con una deformazione a creare un varco tra due sbarre. L’idea non è quella di una semplice evasione, ma quella di una presenza invisibile che si è creata un varco, ha lasciato una traccia del suo continuo passare attraverso due spazi, due dimensioni parallele. E’anche l’allusione alla condizione di illibertà e necessità a cui sottostanno tutti gli esseri umani prigionieri della morte, prigionieri di una natura matrigna che ne limita le possibilità estetiche ed edonistiche. Un esordio a liberarsi ed oltrepassare la propria condizione mortale. Non è questo il contesto in cui analizzare una ad una le opere di Gino De Dominicis, anche se la tentazione filologica, critica, filosofica di approfondire sistematicamente un pensiero che più di ogni altro nella storia dell’arte di tutti i tempi, continua a tentarmi, per la capacità di questo artista di farmi sognare, di propormi interrogativi atti a sollecitare e suscitare le mie continue ricerche ed approfondimenti, ed anche per la consapevolezza profonda che una lettura ordinata, sistematica, scientifica, dell’opera di quest’ artista non è stata ancora avviata. Importante è sottolineare come l’amicizia con Pio Monti, segna

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lo scarto in De Dominicis, che proprio in questi anni inizia a rivolgere la sua attenzione prima timidamente e poi con sempre maggiore intensità alla pittura, lasciando anche in questo territorio una lezione estetica, ben più interessante della coeva Transavanguardia.

Urvasi e Gilgamesh, che unisce sinergicamente il mito indiano di Urvasi (dea della bellezza) e Gilgamesh (re della Mesopotamia che ricercò l’erba della vita e l’immortalità del corpo), modificando sostanzialmente l’epopea sumera. Ritengo che nell’idea di De Dominicis, che riteneva la reincarnazione una possibilità reale degli esseri, e si identificava in un certo senso con Gilgamesh, unire questi due miti significa un lieto fine

nell’epica dell’eroe Gilgamesh. Non escludo che l’artista abbia demandato a questo ciclo un enigmatico messaggio relativo alla Prima Soluzione dell’ Immortalità. Gilgamesh nell’epopea sumera torna sconfitto dal suo viaggio oltre il limite dell’orizzonte: la pianta che consente lo status di immortalità è distrutta da un serpente che la mangia e cambia pelle. La possibilità di Gilgamesh è dunque svanita.

L’avventura pittorica di De Dominicis inizia alla fine degli anni ‘70 quando l’artista rivolge un attenzione sempre maggiore alla civiltà Sumera ed al suo eroe Gilgamesh. La pittura di questo artista è caratterizzata da una qualità nella stesura e nel tratto e da una intensità concettuale che ha precedenti nella storia dell’arte contemporanea solo in De Chirico e Salvador Dalì. L’essenzialità cromatica delle opere, la calibrata composizione delle stesure, la capacità di sintetizzare in pochi tratti essenziali l’espressione di un volto, il suo saper costruire ed evocare atmosfere lontane nel tempo e nello spazio attraverso l’uso di pochi semplici elementi, sono queste le caratteristiche che rendono l’opera pittorica di De Dominicis la vera icona del nostro tempo. Il tema dell’immortalità è parte integrante delle numerose opere pittoriche dedicate dall’artista a Agosto-Settembre-2010

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Ishtar, la divinità sumera ed anche egiziana, il cui status è l’immortalità, che è nume tutelare dell’amore è rifiutata da Gilgamesh, che in tal modo rinuncia ad il suo veicolo per l’immortalità ed allo status di divinità totale. In tutte le diverse versioni Urvasi e Gilgamesh sono ritratti di profilo ed immobili, l’elemento variabile è lo sfondo ed a volte la posizione delle due sagome. La Dea staticamente contempla un orizzonte lontano, mentre il semidio sumero riflette il desiderio dell’immortalità che può essere raggiunta tramite l’unione con Urvasi (che nel mito indiano è dea scesa tra gli uomini e che donerà lo status di immortale al suo amante, donandone un figlio...). La qualità e la consistenza estetica di tutte queste opere è straordinaria: l’artista ci pone di fronte a quell’idea della pittura intesa come ricerca di una cifra stilistica d’effetto, attuata attraverso la rivelazione progressiva di pochi tratti essenziali. L’amore di Urvasi e Gilgamesh è quell’alchimia che consente agli esseri di spezzare il piano obliquo dell’immanenza, di proiettarsi verso il superamento dell’impermanenza del corpo. Urvasi e Gilgamesh ci propone elementi iconografici e stilistici consueti alla poetica di De Dominicis, che ricorrono spesso nell’estetica dell’artista come il tema del transito del tempo, della conquista dell’ immortalità, del raggiungimento di obiettivi impossibili (come la ricerca dell’assoluto e dell’ invisibilità) che sembrano acquietarsi per breve tempo attraverso l’opera d’arte che a queste istanze da forma e sostanza, ponendo così limite all’entropia dell’esistere. 18

In Urvasi e Gilgamesh De Dominicis ci offre una ricercata visione del cosmo prima della nascita stessa dell’universo, metafora dunque del mistero delle origini. In alcune versioni tra le più suggestive, l’artista inserisce tre pianeti sullo sfondo, sovrastati dai due profili in primo piano. In altre versioni invece appare sullo sfondo un paesaggio dove compare una Piramide e a volte dei dischi volanti. E’ chiaro il riferimento e lo studio approfondito compiuto dall’artista dei diversi miti che passano dalla terra di Uruk all’Egitto e probabilmente anche in culti indiani. In questa versione il disco volante allude alla condizione di Gilgamesh, semidio, innesto genetico della stirpe immortale proveniente da Niburu, che si unisce ad Urvasi e raggiunge con lei lo status di immortale. Tra le altre cose De Dominicis amava e conosceva le ipotesi dello studioso Zecharia Sitchin unico traduttore dei Sigilli Sumeri e autore del libro “La via dell’immortalità”, testi nei quali lo studioso spiega puntualmente l’origine dell’Universo. Gli Annunaki, cui fa riferimento lo studioso nella sua ipotesi del dodicesimo pianeta, erano una stirpe divina da ricollegarsi agli antichi Sumeri, secondo alcune ipotesi l’umanità è frutto di un innesto genetico voluto proprio dagli Annunaki che tuttavia crearono questi esseri privi dello status di immortale, modificando appunto il codice genetico introducendovi la morte e l’invecchiamento. De Dominicis nella serie Urvasi e Gilgamesh descrive puntualmente questa complessa visione cosmologica, attua riferimenti incrociati ed evidenti al Corano, alla Bibbia, all’

Apocalisse di Giovanni. Attraverso tutte queste enigmatiche immagini ci offre un canale per attraversare lo spazio ed il tempo ed osservare un altro universo ed un altro tempo. E’ questa la dimensione dell’ immortalità dove le coordinate spazio - temporali si sovrappongono in continuazione, mutano e dunque il tempo si attua attraverso la velocità della luce, cioè lo spazio. La prospettiva è solo simbolica ed accennata, non esiste unità di luogo, tempo e azione, ma la sovrapposizione di passato, presente e futuro. E’ questo enigma che l’artista vuole sciogliere attraverso l’abbandono estetico. L’arte in qualche modo è canale per parlare di una dimensione diversamente non esperibile.

Crediti: Pagina 16: Gino De Dominicis, Il tempo, lo sbaglio, lo spazio, 1969, scheletro umano, pattini a rotelle, asta, cm400x220 x170 Courtesy Lia Rumma. Pagina 20: Gino De Dominicis, Autoritratto, senza titolo, matita e tempera su tavola, 1995 collez. Privata, Pagina 21: Gino De Dominicis, Silohuette au chapeau, 1988 olio su tavola convessa, cm 68x59x15. collezione Jean Todt. Pagina 24: Gino De Dominicis, Lo Zodiaco, 1970, Stampa su carta, Collage, Foto Claudio Abate, cm66x100 courtesy. Pagina 25: Gino De Dominicis, Ritratto di Marta, Olio su Tavola, 1989 ca. Collezione Privata. Pagina 27: Gino De Dominicis, Urvasi e Gilgamesh.

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Sabato 7 agosto 1993. Appuntamento alle 16:00 sotto lo studio in Via S. Pantaleo, 66. Gino è già lì. Poco dopo arriva l’autista che dal garage ci porta la macchina, allora una splendida Jaguar MK 10 color verde bottiglia. L’obiettivo del nostro viaggio è Venezia, come d’abitudine per il Maestro tutti gli anni nel mese di agosto. Sarà un viaggio con molte tappe, alcune previste, come Ancona, altre decisamente fuori programma. Noi ci conosciamo e ci frequentiamo assiduamente oramai da quattro anni, ma un viaggio insieme (il secondo sarà con una Rolls Royce bianca nel ’95) è tutta un’altra cosa. Era già strano vederlo alla luce del giorno, in partenza insieme per un mese mi sembrava quasi una stravaganza. Senza voler poi sottolineare l’eccentricità del bagaglio di Gino: due samsonite rigide, una con i vestiti, l’altra con i soldi. Ovviamente ero lusingata di 20

accompagnare il Maestro nelle sue vacanze. Si parte. Fa un caldo infernale, trentanove gradi, la radio funziona male, non c’è l’aria condizionata, anzi non c’è proprio aria. Gino ha caldo e inizia ad andare su tutte le furie (e chi ha avuto modo di conoscere il Maestro da vicino può sapere…). Prima tappa: ci si ferma a Orte. Facciamo il pieno ma poi decidiamo di lasciare la macchina al parcheggio di un hotel sull’autostrada. Gino ormai è fuori controllo e incaponito nella ricerca di Antonio, l’autista della Lincoln blu. Lo vuole a tutti i costi. Io in queste situazioni mi trasformo in una specie di entità metafisica, so che una parola sbagliata potrebbe essere fatale. Quindi esisto solo se mi interroga. In attesa di Antonio cerchiamo un taxi con l’aria condizionata (tema martellante del viaggio) che ci porti ad Ancona. Dopo circa mezz’ora arriva una

vecchia Thema blu, niente aria condizionata, solo un climatizzatore. Impensabile arrivare sino ad Ancona in queste condizioni. L’atmosfera si fa sempre più bollente. Seconda tappa: stazione ferroviara di Terni sempre in cerca di un taxi con l’aria condizionata. Niente. Decidiamo allora di prendere il treno: l’Intercity delle 19.48, prima classe con aria condizionata al massimo. Finalmente ci si inizia a rilassare, complice la presenza di una bambina seduta di fronte a noi che mette Gino subito di ottimo umore. Passa circa un’ora e, come previsto, il freddo del vagone sta diventando ormai insopportabile. Terza tappa. Scendiamo a Fabriano e proseguiamo con un taxi (senza aria condizionata, vista l’ora) fino ad Ancona dove arriviamo alle dieci di sera liberi finalmente dal caldo soffocante della giornata. Il portiere del Grand Hotel

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Passetto ci assegna le nostre stanze: la numero 302 per Gino e la 328 per me. Appuntamento dopo cinque minuti nella hall, ne chiedo dieci, ci accordiamo per sette, il Maestro sta morendo di fame. Mi trasformo da sera alla velocità della luce e finalmente siamo liberi di poter consumare il rito della cena ad Ancona: lo stoccafisso in umido con patate del ristorante La Moretta. Ottimo cibo e ottimo umore, la serata si ristabilisce negli ambiti della nostra capacità comunicativa. Gli argomenti sono svariati: lavoro, denaro, soluzioni, progetti, il valore della tradizione, il significato del mondo e le sue distorsioni, il problema culturale dell’occidente, il significato dell’artista… E poi il gioco: “Dovendo scegliere qualcosa da mangiare da portarsi sulla luna, sceglierei sicuramente lo stoccafisso della Moretta!” (il gioco ovviamente prosegue in tutte le sue evoluzioni, un libro, un film, una canzone… per Gino “Imagine” di John Lennon).

Rimaniamo ad Ancona anche il giorno seguente. Lunedì 9 agosto Si riparte. Gino contento, ha trovato Antonio e la Lincoln blu. Televisione, stereo, frigobar, divani di pelle e le gambe che si possono allungare lo mettono subito di buon umore. La partenza per Venezia è rimandata a domani. Deve passare prima per Macerata ad incontrare dei parenti. Lo lascio al suo appuntamento e proseguo sola con quel macchinone in giro per la città sotto gli occhi di tutti. Imbarazzante e divertente. Quello più divertito è sicuramente Gino a mandarmi in giro come la sua principessa. La sera andiamo a Rimini. Gino non ci è mai stato e vuole vedere il Grand Hotel per “verificare Fellini”. Il movimento notturno della Riviera, le ragazze e le prostitute del lungomare piacciono al Maestro che, dopo una pizza divorata alle tre di notte e l’autista in macchina che dorme,

decide di fermarsi per la notte, ovviamente al Grand Hotel di Fellini anche se “ nei film è più grande che nella realtà”. Martedì 10 agosto. Siamo finalmente arrivati a Venezia. Entrambi molto felici. Alloggiamo all’Excelsior al Lido e il pomeriggio si lavora nello studio vicino al Gritti, un palazzo del Seicento sul Canal Grande con la stanza da letto affrescata dal Tiepolo. Venezia è la mia città natale e la meta, l’unica possibile, delle vacanza di Gino: “A Venezia si fanno le vacanze intelligenti perché di giorno vai al mare e il pomeriggio alla Biennale”. Ma Venezia è anche la città dove ci siamo conosciuti, all’inaugurazione della Biennale del 1989, quando una notte in Piazza S.Marco si è avvicinato a me, mi ha preso per mano e camminando mi ha detto: “E tu da dove sei uscita fuori?”. Consuelo Fabriani. Agosto-Settembre-2010

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intreccio i mondi sovrapposti in cui viviamo. Di De Dominicis si può dire e è estremamente che alla lucidità dell’istinto, ha improbabile che opposto l’istinto della lucidità: esista qualcosa di soprannaturale certo l’invisibile non è oscuro né è altrettanto difficile dimostrare misterioso; è trasparente. che il soprannaturale non esiste. Tutto il suo lavoro tende a creare Gli eventi naturali dell’esistenza una sorta di modello per un’arte e quelli inesplicabili sembrano destinata a non sembrare tale, in realtà combinarsi in un unico un’arte in cui non è l’oggetto a significare (quindi non è mitico processo nella vita di Gino De Dominicis, la cui opera concettuale) ma piuttosto a “manifestare” una sorta di è la negazione stessa della procedimento paradossale moderna concezione di opera, destinato a trovare la strada una reazione contro l’arte del della verità. suo tempo. Per De Dominicis non c’è “arte Per De Dominicis l’arte visiva non aspira a dire ma ad “essere”. in sé”, l’arte non è una cosa Ciò che importa è dimostrare in ma un mezzo, un filo per quale misura lo svolgimento trasmettere ciò che altrimenti del pensiero tradizionale non sarebbe visibile. s’incontra con il movimento del Negare l’esistenza dell’ignoto pensiero contemporaneo. non è più legittimo che farne La fisica, la biologia, le l’oggetto di un atto di fede, lo matematiche, nei loro punti scetticismo rende liberi e permette di accettare, con libertà estremi, confermano oggi certi dati dell’esoterismo, di spirito, i poteri dell’ignoto e s’incontrano con certe visioni l’intervento del caso. del cosmo, dei rapporti Fin dal principio l’artista ha dell’energia e della materia, opposto alla vertigine della che sono visioni ancestrali. accellerazione la vertigine del Le scienze di oggi, se ci ritardo, l’immobilità. accostiamo a esse senza La sua opera è molto più che conformismo scientifico, un azzardo, è un azzardo dialogano con gli antichi maghi, metafisico; un enigma che avalchimisti, taumaturghi. volge in un un inesplicabile 22

Si sta svolgendo sotto i nostri occhi una rivoluzione, e si tratta di un nuovo insperato connubio della ragione, al vertice delle sue conquiste, con l’intuizione spirituale. Rispetto al campo dei riferimenti culturali dispiegato da De Dominicis: l’arte sumera, l’astrologia, l’alchimia, il pensiero di Parmenide, ciò che colpisce è quanto esso faccia sorgere, di fronte a quanto non si può vedere senza l’arte, quanto non si può vedere che “attraverso l’arte”. Ogni aspetto del lavoro di De Dominicis riproduce un mistero, è un linguaggio cifrato, ma purtroppo nessuno è stato in grado di leggerlo perchè la sua spiegazione esula dal territorio dell’arte (e quindi della critica) e va ricercata piuttosto nella relazione tra sostanza e apparenza, nella concezione dell’universo come concerto mirabile di corrispondenze, nel rapporto tra micro e macro cosmo,nella coincidenza perfetta tra inferiore e superiore e cioè tra cielo e terra. Una immaginazione potentemente applicata allo studio della realtà scopre che è molto tenue il confine tra il meraviglioso e il positivo, o

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meglio, tra l’universo visibile e l’universo invisibile. Il mondo visivo di De Dominicis, dall’apparenza così enigmatica, in realtà non è enigmatico affatto ma sembra suggerire che esistono uno o più universi paralleli al nostro. Sono lì in attesa che l’occhio e l’orecchio si incontrino dietro lo stesso specchio, senza dimensioni. Dove il fantastico è una costante divaricazione del reale, della norma e non dalla norma. Questo orizzonte è la scoperta che non c’è peggiore irrealtà di quel che lampantemente e tranquillamente “appare”, non c’è devianza più incredibile della visibilità stessa. Oggi è facile trovare le immagini, troppo facile fermarle, congelarle, lasciarle sospese a vivere e a morire. Bisogna prelevarle in un tempo che è prima di ogni tempo, non inattuali ma capaci di evocare la presenza di un mondo che non è un limite, non è estenuazione epressionistica ma è “surplus” di significazione fin dal primo momento, sfida ai limiti nelle possibilità di carico connotativo e semantico. Con l’immaginazione che è tutt’altra cosa che una fuga

verso l’irreale. Ciò che De Dominicis scopre nell’arte sumera è che il suo genio non risiede solo nel suo lato fantastico ma nella sua potenza d’eternità: essa ci suggerisce che la nostra più profonda relazione con l’arte è di ordine metafisico. Nelle teste delle dee dalle pupille ipnotiche, nei personaggi dal becco d’uccello, di cui possiamo forse trovare i lontani antenati in rare figure preistoriche, De Dominicis sembra arrivare alla purezza dell’elementare, a un elementare impercettibilmente riconquistato e firmato dall’uomo. In Sumer, come in Egitto, in Messico, in India, il sacro è anche il luogo supremo del fantastico. Il problema che la loro creazione pone all’artista è quello di dare vita a una figura che sia altro da ciò che rappresenta. Un sumero non avrebbe potuto pregare una statua nella quale non avesse trovato che l’imitazione di una figura umana. Il magico potere di ogni statua era garantito da quanto la differenziava da simile imitazione. Certi mezzi usati dagli scultori sono facilmente individuabili:

grandi teste con pupille enormi, sproporzionate rispetto al corpo e alle mani piccole e racchiuse, naso a becco ereditato dall’uomo uccello preistorico, schematizzazione violenta, barbe a piani come le scalinate delle ziggurat. L’arte legata all’idealizzazione è un potente mezzo d’immaginazione e le sue opere sono state considerate per molto tempo come l’imitazione di modelli immaginari. Ora non solo il dio Abu dei Sumeri non è un’imitazione di una figura immaginaria ma non è un’imitazione. Tant’è che alcuni hanno supposto che la civiltà dei sumeri provenga nientemeno che da un altro pianeta, a tal punto è avulsa da qualsiasi precedente figurativo, da qualsiasi tentazione relistica (a differenza di quella egiziana che le è più o meno coeva). L’iperstilizzato e iperformalizzato mondo di De Dominicis non deriva da un altro mondo, da un “dodicesimo pianeta”,quasi un’oggettivazione anatomica della soggettività rivendicata all’occhio. O forse una leggenda. L’arte che aspira all’immortalità è il solo mezzo di creazione, Agosto-Settembre-2010

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non è espressione, perchè lo scopo dell’artefice non è di esprimersi in quanto individuo ma liberare dall’umanità la figura umana per apparentarla a quella degli dei, che essa carpisce mentre sembra che le rifletta. La dimensione si avvicina sempre più alla sostanza dell’arte, alla sua decantata “immaterialità”,alla condizione originaria e pura dell’immagine. Affascinante rimpicciolimento progressivo della centralità della figura umana, l’arte evoca la presenza dell’uomo (è il pubblico che si espone all’opera d’arte) e si riferisce alla vita, anche all’immortalità, mentre la stilizzazione (quella dell’arte cristiana e del buddismo, che spiritualizza un sentimento) tende a suscitare la venerazione e si riferisce all’eternità. Ne deriva il loro profondo legame con la morte, che non è trapasso, ma quell’invisibile che avvolge l’universo. La “mors osculi”, stato in cui la morte e la vita si coniugano non ci permette di vedere la Dea, ma finchè dura l’illuminazione, dice Bruno: “vedere la dea è essere visti da lei”. Nelle due opere il momento dell’apparizione,la presenza femminile, coincide con quello della sparizione. Ishtar: cardine del mondo degli immortali, apparenza che si dissolve e torna ad apparire. L’apparenza è la forma momentanea dell’apparizione. Questo è il segreto motore dell’opera di De Dominicis in 24

cui i flash dei riflettori accecano lo spettatore (1996, La Nuova Pesa). E’ la forma che afferriamo con i sensi e che per loro tramite si dissolve. L’apparizione non è una forma ma una congiunzione di forze, un nodo. La differenza essenziale tra quest’installazione, in cui siamo accecati dalla violenza della luce, e quella in cui lo specchio, posto in alto sulla testa dello spettatore, riflette tutto, fuorchè la nostra propria immagine (1988, Lia Rumma) è che nella prima l’apparenza si denuda in una presenza che si offre alla nostra contemplazione, anzi siamo noi ad essere contemplati da lei, nella seconda è un’apparenza che deve essere decifrata, è l’elemento riflettente che rende enigmatica l’opera. L’enigma ci lascia intravedere l’altro lato della presenza, l’immagine unica e duplice: il vuoto, la morte, la distruzione dell’apparenza e, simultaneamente, la pienezza momentanea, la vivacità nella quiete. Lo zero è pieno, la pienezza si apre, si vuota. Presenza femminile: vero abisso in cui si manifesta ciò che è nascosto, ciò che sta dentro alle pieghe del mondo. In “Gilgames e la terra del vivente”, antica epopea mesopotamica, solo un immane disparità di forze separa il cielo dalla terra. Non già una disparità di mente

o di cuore o di cerimonie. Siamo in una fase religiosa già più avanzata rispetto alla superstizione preistorica. Crollata ogni impalcatura cosmica fra dèi e uomini, la vita appare alleggerita e fulgente, ma anche solitaria, fugace e irreversibile. Per la prima volta appare il

sentimento tenebroso della morte, il conflitto fra i desideri del dio e il destino dell’uomo. Gilgames, l’eroe divino cerca disperatamente l’immortalità, piange la perdita del suo compagno d’avventure strappato crudelmente alla vita. I Sumeri evasero dal sacro verso il perfetto, confidando nella sovranità dell’estetico. La perfezione dell’apparenza era indissolubilmente

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alla necessità avvolgendola nell’inganno. La vera frattura del pensiero si ha quando Platone per la prima volta afferma “quanto differiscano nel loro esssere la natura del necesssario e quella del bene”. E intende una distanza immensa, invalicabile - quella stessa distanza per cui il Bello sarà riassorbito nel bene, come suo strumento, agente o pedagogo - o rimarrà sospeso nell’aria, come una fattura maligna, che illude la mente per sottometterla ancora di più alla necessità. La sfera del mito precede anche la separazione delle cose dallo spazio, dell’oggetto dal soggetto, è il recupero della originaria unità dell’uomo col mondo, dell’assoluta integrità dell’essere. La figura di Gilgames rappresenta per De Dominicis il re-demiurgo, l’artista, l’eroe semidivino che si rende conto che il velo dell’apparenza può nascondere dietro di sé anche l’azzardo di chi alla necessità vuole sottrarsi, di chi ancora cerca un’impunità che il tempo non concede: l’immortalità. Secondo la dottrina dei Attingendo alla leggenda De Dominicis dimostra che come Rosacroce raggiungere l’universo spirituale trasforma lo spirito il mito le figurazioni dell’arte dell’osservatore stesso, ci ha non hanno un significato e un valore in sé, si limitano a rivelare creduto Saint Germain lo ha profetizzato De Dominicis una condizione interiore che usando l’arte come mezzo, viene considerata come la sola autentica rispetto alla non come disciplina interiore. autenticità o alla mistificazione Come solo un iniziato o un illuminato può fare. dell’immagine del mondo che I Rosacroce propugnavano, viene accreditata come attraverso la loro opera segreta, oggettivamente certa. Nel mito il bello si sovrappone silenziosa e disinteressata, una congiunta a una accettazione della vita senza riscatto, senza salvezza, senza attesa di una ripetizione, circoscritta alla precaria meraviglia del suo manifestarsi. Soltanto perchè la vita è irreparabile e irripetibile, la gloria dell’apparenza può raggiungere una tale intensità.

riforma universale improntata a ideali altamente umanitari, un tentavo di conciliare le forze spirituali, una integrazione dei loro aspetti più ricchi e positivi. Il sincretismo tra le religioni animava anche il cabalismo mistico, nutrito di influenze ellenistiche e cristiane, e forse dall’incontro con il mondo del misticismo islamico che probabilmente avevano fatto in Templari nella loro lunga permanenza in Terrasanta. Lo scopo finale dell’ideale rosacruciano e quello di dare potere all’uomo sulla natura e su se stesso, e che questo diventi infinito, che l’immortalità e il controllo di tutte le forze naturali siano alla sua portata e che tutto ciò che avviene nell’universo sia conosciuto. Il linguaggio spirituale non precede il linguaggio scientifico ma è piuttosto il risultato di questo. Ciò che avviene nel nostro presente è potuto avvenire nei tempi antichi, su un altro piano di conoscenza. Ecco perchè per De Dominicis l’immortalità non è smplicemente una metafora. Alla luce della conoscenza della filosofia ermetica, al più alto livello, l’immortalità fisica è un traguardo. Le “Soluzioni d’Immortalità” prospettano i gradi del “Corpus Hermeticum”: “Al primo stadio riesci a comunicare con altre menti e a proiettare in esse pensieri e immagini, al secondo a caricare i luoghi con stati emotivi, acquisire autorità sul Agosto-Settembre-2010

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regno animale. In un terzo stadio si può tentare di proiettare il proprio doppio in qualsiasi punto dello spazio per poi arrivare alla dissociazione e cioè dissolversi in un luogo e riapparire in un altro, integralmente. L’ultimo stadio è quello dell’ indistruttibilità della sostanza, il prolungamento della vita fisica e quindi l’immortalità. Come Parmenide, ma con la lucida coscienza dell’artista, De Dominicis non crede al supermento ma al ribaltamento dalla realtà esterna a una realtà interna. Con la strana oggettività capace di cogliere il movimento estatico, quello dell’onda. Il movimento dell’eterno, di ciò che è. L’increspatura, la scia , la curvatura, il fremito, o l’immobilità nella luce che non è ai immobile perchè

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la luce, si sa muta a ogni istante. Non c’è processo di trascendenza, dal basso all’alto, ma un processo dall’alto al basso, dal trascendente all’immanente. Questa realtà viene espressa con un paradosso, anzi portando il paradosso al suo estremo limite. Parmenide inventa una metafisica basata sulla logica. Mentre Eraclito sostiene che tutto cambia, Parmenide replica che nulla cambia. Se possiamo sapere ciò che si considera comunemente come passato, in realtà ciò non può esssere passato ma deve in un certo senso esistere tuttora. Quindi deduce che non vi sia nulla di simile a un mutamento. Il ragionamento arriva all’ assurdo nella sua pretesa di dimostrare l’impossibilità di ogni cambiamento ma ciò che la filosofia, e non solo la filosofia ma anche la fisica e la psicologia e la teologia

ha accettato fino a tempi più recenti è il concetto di indistruttibilità della sostanza che da esso deriva. De Dominicis si serve di questo paradosso per confutare il secondo principio della termodinamica (polemizzando con lo scienziato Liguori). Ciò che vuole dimostrare non è tanto una nuova scoperta scientifica ma piuttosto il fatto che bisogna guardare alle cose antiche con occhi nuovi e quanto ciò può aiutare a comprendere il futuro. Non siamo più , ormai in un epoca in cui il progresso si possa identificare esclusivamente con quello scientifico e tecnico. Heisenberg ha dichiarato: “Lo spazio in cui si sviluppa l’essere spirituale dell’uomo ha dimensioni diverse da quello in cui si è dispiegato durante gli ultimi secoli”. Di fronte alla divisione delle attività dell’intelletto umano in

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campi distinti bisogna immaginare una sintesi che abbraccia l’intelligenza razionale e l’esperienza mistica dell’unità. Questo fine è il solo che si accordi col mito, espresso o no, dell’epoca a venire. Parmenide nel poema “Sulla natura” espone una dottrina in cui il solo vero essere è “l’Uno” infinito e invisibile. Ma l’Uno non è concepito dal filosofo nella maniera in cui noi concepiamo Dio, sembra che pensi a lui come a qualcosa di materiale e di esteso, dato che ne parla come di una sfera. Solo che non può essere suddiviso, perchè è presente ovunque tutto intero. “La Palla di gomma (caduta da due metri) nell’attimo immediatamente precedente il rimbalzo (1968) rappresenta l’unità e contemporaneamente l’immobilità. La tematica metafisica di Parmenide è soltanto uno stimolo a cercare un rapporto nuovo, al di là dell’esperienza dei sensi, tra lo spazio e il tempo. E’ la messa in scena dell’istante, il punto in cui il prima e il dopo coincidono, lo spazio dove la geometria riguadagna a sé

anche l’inesattezza, dove il momento più banale può allucinarsi nella domanda che spacca o scinde completamente la realtà, ne promuove l’immagine di calco, lo stratificarsi di momenti scindibili in ripetizioni infinite me sempre uguali, immutabili. La continua invenzione è la creazione come macchina attiva, filosofica, destabilizzante, svelante e rivelante dentro la macchina-mondo e quindi fingentesi anche fuori dal mondo, unico modo per esserci sapendolo. Oltrepassati tutti i generi, superate tutte le definizioni, anche le più cerebrali, troviamo questa distanza che per De Dominicis è anche distanza dalla storia, dal divenire, dalla teoria dell’eterno ritorno. Come il rapporto, il vincolo ribadito e originario con una realtà in cui immortalità e materia non sono due termini che si oppongono ma la sola possibilità di dare corpo all’invisibile. Se l’apparenza è l’insieme di sensazioni - visive, tattili, uditive - nel momento della percezione dell’oggetto, l’apparizione è la realtà

soggiacente e stabile, mai del tutto visibile: il sistema di relazioni che, simultaneamente, è la forma e l’essenza dell’oggetto. Tutto è reso ed oggettivato dal titolo: ogni cosa esiste in una condizione di irrelatività e di impossibilità. La palla poggiata a terra de “La Palla colta nel momento del rimbalzo”, non sarebbe nulla senza questo esercizio di decifrazione. La relazione tra l’opera e il titolo è il non-analizzabile analizzato, il normale, l’ovvio, l’evidente mutati di segno, il capovolgimento consapevole della realtà della cosa nella non-realtà del nome: si può mantenere il nome quando la cosa è stata segretamente cambiata di segno, quando si può giocare solo fuori scena, su ciò che non è nominato e che è lasciato alla nostra immaginazione. Ne “Lo Zodiaco” e “La mozzarella in carrozza” (1969 - 1970) abbiamo due opere nell’ identità dello stesso linguaggio e, in questa identità che non è tale, il vertiginoso miraggio della duplicità dei possibili.

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De Dominicis si preoccupa di geometrizzare, di anestetizzare e, spesso, di esasperare i conflitti latenti fra gli oggetti (sempre messi fra virgolette) cercando di dissacrare il rapporto fra l’occhio, la mano e la mente. Il titolo non ha necessariamente lo scopo di garantire un senso né è investito dalla funzione elementare di dare un nome alle cose. Piuttosto invita a sospettare che nelle pieghe dell’opera si nasconda una insondabile profondità. Da allora, la messa in scena funzionale e la proliferazione combinatoria marcheranno tutti i titoli successivi (fino a diventare dei veri e propri testi) spesso per dar vita a un paradosso violento: “se una parola si può usare in maniera sensata, deve denotare qualcosa, non niente, e quindi quanto quella parola denota deve in qualche modo esistere”. Non è un procedimento operativo ma un mutamento di giudizio che non senza ironia, rimette in gioco la logica parmenidea. Infatti nulla di ciò che è passato e di cui possiamo ancora parlare è realmente passato, esiste tuttora, è eterno e immutabile. De Dominicis compie un gesto sottilmente diverso, fa e rifà i suoi concetti a partire da un orizzonte mobile, da un centro sempre decentrato, da una periferia sempre spostata che li ripete e li differenzia. E’ proprio dell’opera d’arte non solo il potere di fare ma quel grande potere di fingere, di falsificare e d’ingannare di cui ogni opera di finzione è il prodotto tanto più evidente quanto più questo potere è in essa dissimulato. Solo per un istante tutte le cose manipolate dall’uomo hanno la 28

fatale tendenza ad emettere senso. Appena installate nella loro nuova gerarchia esse subiscono un’invisibile trasformazione e diventano oggetti di contemplazione, studio o irritazione. Da questo li può salvare solo una salutare iniezione di ironia, che fa ritrovare all’opera d’arte la propria libertà e la propria neutralità. Termini come artificio, falsificazione, riferiti al pensiero e all’arte, ci provocano. Pensiamo che un tal genere di frode è troppo semplice, pensiamo che se vi è falsificazione universale è comunque in nome di una verità forse inaccessibile. L’ironia è lo sviluppo ragionato e delirante che ispira i titoli, il principio del gioco di parole in cui si rende visibile ciò che altrimenti sarebbe invisibile e inconcepibile: “D’Io” (1970); “Piramide invisibile galleggiante nel vuoto” (1987); “Macchina che fa sparire gli oggetti” (1968). L’elemento esilarante non rende più comprensibili le opere ma le collega con il centro dell’uomo, con la fonte della sua energia: l’indeterminazione, la contraddizione. L’ironia è un mezzo di comunicazione tra un piano e un altro, permette davvero salti di livello, molteplici letture, sfalsamenti verbali, istanza di rovesciamento continua tra interno e esterno, tempo e spazio. De Dominicis fa presto a capire che la parte più importante dell’ opera di un artista è il lavoro che egli sa di non poter più intraprendere. L’artista vive con un’idea, coabita con essa, la sonda la saggia, finchè non trova la ragioen per cui essa è impossibile...in quel momento, sicuramente, egli l’ha

compresa più a fondo. Ma se è vero che un artista dovrebbe essere valutato per ciò che non ha fatto e le opere create, in senso più pieno quelle che ha pensato e capito più a fondo - sono quelle in cui egli non si cimenta, è altrettanto vero che l’opera d’arte esiste in virtù del testimone, ossia che l’opera esiste soltanto nella mente dell’artista e dello spettatore che ne fruisce. Possiamo ritrovare lo stesso principio nelle “azioni” come “Tentativo di volo” (1969) o “Tentativo di far formare dei quadrati invece che dei cerchi intorno a un sasso che cade nell’acqua “(1969). Spezzando del tutto la già malferma parallelità, contiguità, unità del tempo-luogo dell’ accadimento, De Dominicis nega l’intero sistema dei valori. Si riduce così alla pura azione, immotivata e gratuita ma proprio per (1969) uno scheletro con i pattini sostiene una lancia in bilico su un dito, mentre con l’altra mano tiene al guinzaglio lo scheletro di un cagnolino, ne “In principio era l’immagine“ (1981), nella sala, davanti alla grande immagine centrale della testa, un water chiama direttamente in causa l’opera di Duchamp. De Dominicis dimostra di aver capito ciò che è sfuggito alla maggior parte dei continuatori di Duchamp e cioè che il “ready made” è un’arma a doppio taglio: se si trasforma in opera d’arte, rende inutile il gesto di profanazione, se preserva la propria neutralità, trasforma il gesto stesso in opera. L’ironia è l’antidoto che contrasta un elemento troppo serio come “l’immortalità” o troppo sublime come l’idea. L’ironia è critica perchè oggi abbiamo un pensiero critico e

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non un pensiero metafisico questo esige che l’opera d’arte e il suo autore siano critici o partecipino dello spirito critico. Quella di De Dominicis è un’opera che riflette su se stessa, impegnata a distruggere la stessa cosa che crea. La funzione dell’ironia non può non apparire con maggior chiarezzza: negativa è la sostanza critica che impregna l’opera; positiva, critica la critica, la nega e in questo modo si pone in un territorio al di là di qualsiasi paragone, qualunque giudizio, fino a far piegare la bilancia dalla parte del mito. In questo consiste il suo opporsi ad ogni interpretazione, alla banale capillare diffusione delle immagini fotografiche a non cedere al confronto dei diversi sistemi referenziali , alla contiguità che sempre più, in epoca di telecomando e di mondi paralleli televisivi si contrasta lavorando su tutte le forme di contestazione e di discontinuità. De Dominicis ha dimostrato l’estrema solitudine fin dall’ inizio rivendicata al discorso dell’arte, praticatissimo ma da nessuno sostenuto, alla necessità che chi “lavora per illuminare” mantenga una zona d’ombra su di sé. Alla ricerca dell’enigmatico anche nell’ovvio. Le sue paradossali confutazioni della realtà e del tempo, la sua predilezione per i temi della vita e della morte, le sue audaci decifrazioni dell’irreale, sono diventate citazioni correnti solo dopo la sua morte. Nonostante l’impossibilità di staccarsi dal vuoto insostenibile della visione e insieme dall’ abitudine in cui quello stesso vuoto ci conferma, è riuscito a creare un linguaggio di cristallina geometria che governa la scacchiera sorprendente

delle sue metafore e dei suoi simboli dove l’unica certezza è che l’universo visibile è illusorio. L’arte non è un semplice inganno, è il potere pericoloso di andare, attraverso l’infinita molteplicità dell’immaginario verso ciò che è. La differenza fra reale e irreale, l’inestimabile privilegio del reale è che la realtà è meno reale, non essendo altro che irrealtà negata, dissolta dall’ energico lavoro della negazione e da quell’altra negazione che è il lavoro stesso. Proprio questo meno, questo azzeramento, sorta di scarnificazione e di assottigliamento della distanza ci permette di andare oltre l’orizzonte del banale e del già visto. La libertà non è una conoscenza ma ciò che si trova dopo la conoscenza. De Dominicis ci inganna proponendosi (o negandosi) lui stesso come doppio e “citazione” ( Io non sono il Conte di Saint Germain) mentre è la sua arte a non fermarsi mai e a produrre continui multipli di sé, nuovi travestimenti e smascheramenti, mai dicendoci davvero qual’è il soggetto. I suoi lavori non chiariscono nulla, ribadiscono un girare a vuoto o dal vuoto, un infinitizzarsi dell’assurdo, una sottolineatura ironica dell’ impossibilità di capire. Ama i tarocchi, l’astrologia, l’alchimia, l’esoterismo e le scienze ermetiche ma non è un irrazionalista. Egli applica alla ragione una critica razionale: l’umorismo delirante e ragionato è il disinganno della ragione. L’opera è solo una via, quella che ci permette di andare attraverso le traiettorie abbacinanti del senso, da un punto all’altro ma è anche la più indefinita, come ogni essenza

dell’immaginario impedisce per l’eternità ad Achille di raggiungere la tartaruga, e forse all’uomo di raggiungersi vivo in un punto che renderebbe la sua morte perfettamente umana, e pertanto invisibile.

Crediti: Pagine 8 - 9: Gino De Dominicis, Necrologio, stampa tipografica su carta, cm 71x101, Edizione Galleria L’attico, Roma, Courtesy Fabio Sargentini. Pagine 10 -11: Gino De Dominicis, Statua, 1979 sandali in paglia intrecciati, Collezione Maxxi, Courtsey MAXXI. Agosto-Settembre-2010

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In settembre forse, un mio amico mi chiamò per dirmi che lo aveva invitato un tale artista importante Gino De Dominicis a casa, desideroso di fare comporre un testo per sanremo per una Conobbi Gino De Dominicis sua amica, divenuta poi la celebre intorno al 1991, fu un incontro del tutto casuale, anche se non cantante Niki Nicolai, sicchè mi era un caso conoscere Gino De invitava per l’incontro essendo io appassionata d’arte ed artista in Dominicis. Ero a Roma nel mitico bar della erba. Andai a Roma e ci preparammo pace con amici, era inverno e all’incontro serale, l’incontro che faceva freddo fuori, vidi un avrebbe sconvolto e cambiato la signore che mi guardava, era mia vita. elegante ma sobrio con un Salimmo le scale dello storico cappello che non voleva palazzo di via S. Pantaleo e una sicuramente togliersi, fece un gentile signorina ci indicò la strada accenno di sorriso e poi uscì nel buio più cupo per raggiungere dileguandosi nella notte. Tornai a Firenze, dove studiavo Gino De Dominicis. Cammina cammina nel lettere con indirizzo storico artistico, mi dimenticai subito. grandissimo appartamento fatto In Giugno tornai a Roma, la città di stanze e corridoi scorgemmo una stanza illuminata con della vacanza e dei miei amici, candele e un lungo tavolo con e camminando di sera verso il un uomo seduto davanti a noi. solito indimenticabile bar della pace, da lontano notai la vite del La vista è sempre stata il mio balcone dell’antico palazzo, che senso migliore e forse anche la sua sicchè ci siamo riconosciuti era scesa quasi fino a terra e da lontano e non seppi mai se tra le foglie appariva ancora quell’incontro fosse davvero per quel vento si fumava la sua la sua amica o per sperare che sigaretta sottile, mi parve bellissimo, l’uomo più bello del andassi con quel mio amico con cui mi aveva sempre vista. mondo, e solo da vicino mi accorsi che aveva gli occhi celeste Non ne parlammo mai. In quella stanza con i soffitti d’oro ghiaccio e i capelli castani. Mi risorrise con piu’ enfasi della io sarei stata sempre felice e non avrei dovuto mai più uscire. prima volta, e poi si dileguò facendo arrivare un taxi davanti La stanza dove Gino è morto, al bar con un sacco di gente che dove c’era il suo letto enorme di tela bianca, il lungo tavolo antico affollava le strade. con la statuetta del bambino Stavolta non lo dimenticai macabro che suonava un facilmente. In che anno ha conosciuto Gino De Dominicis? Ricorda le circostanze del vostro incontro?

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tamburo, la stanza della grande disegno su tela che gradatamente scompariva, le tre televisioni una enorme il padre, la media la madre, la piccola il bambino, la sua stanza. Era elegantissimo e bellissimo e mentre mi avvicinavo avevo il cuore che saltellava, sensazione rimasta uguale ogni volta che lo avrei rivisto. Divantammo amici da quella sera, nonostante i miei gusti pittorici fossero l’opposto delle sue idee e litigammo tutta la sera. Ti ha mai chiesto di posare per lui? Ricordi qualche episodio? Mai, mi chiese di farmi fare dei calchi dal vivo, mise appunto un mezzobusto in studio, ma ogni tanto ci metteva sopra l’asta dorata piccolina in bilico. Un giorno invece attaccò sotto un occhio una lacrima di silicone. Mi dette fastidio vedere la mia testa con la lacrima di silicone, era una cosa che non capivo. Riusciva a disegnare benissimo senza modelli, magari aveva delle idee suggerite da sembianze di donne, ma faceva tutto solo. Poi amava girare filmati ad alcune sue amiche o assistenti. Spesso poi li mostrava a qualche amico, ma questo fa parte della vita segreta di Gino De Dominicis.. In un certo momento diventi talmente vicina a De Dominicis

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che ti chiede di vivere accanto a lui, al piano di sopra, cosa vuol dire vivere vicina ad un artista come Gino? Tensioni...gioie. Credo che lui amasse mantenere costante la sua privacy, ma verso la fine penso desiderasse qualcuno vicino, Gino era molto affettuoso ed espansivo, mentre io molto timida, probabilmente per l’età e perchè ho sempre provato un certo timore reverenziale, lui era un grande artista, e spesso non capivo comportamenti scostanti ed estremi da parte sua. In verità solo una volta Gino mi chiese di sposarlo, ma il secondo giorno che ci vedemmo e io dissi che era prematuro, sicchè non me lo chiese mai più, “non uscire mai più da questa casa “disse “sposiamoci”. Ora se lo conoscessi lo farei il primo minuto, perchè persone come Gino non esistono, vivemmo un tempo sospeso tra la vita e il sogno. Se un giorno ero triste entravo da lui e magari i fiori erano volati dal vaso, appesi al muro, e una delle assistenti correva recitando verso di noi “presto presto, i fiori sono scappati dal vaso”, e io mi divertivo sapendo che aveva preparato tutto lui. Spesso giocava a pallone nella stanza da letto ma vestito in giacca e cravatta. Credo dormisse vestito e sopra il letto, perchè lo lasciavo la sera così e lo ritrovavo uguale il giorno dopo. Eravamo insonni, e ci piaceva andare a dormire all’alba, e potevamo stare ore con un tipo

di musica a guardare un suo quadro, senza parlare. Prima di andare a cena fuori, ogni sera, Gino entrava nello studio e diceva alle assistenti “spazzolate il maestro” e loro prendevano le spazzole per il cappotto. Nei ristoranti incontravamo il mondo dell’arte che conta, gente del cinema, dello spettacolo. Ora so quanto eravamo felici e vicini ma le liti rovinavano tutto. Si incazzava se dipingevo il mio profilo. Lo facevo per comodità, per non cercare altrove, mi piaceva disegnarmi, ma questa cosa proprio non la sopportava, e non potevo usare i colori che usava lui cioè il bianco, il nero, il blu, praticamente tutti. E allora se faceva così lavoravo lontanissima da lui, ma mi sentivo di rubargli le idee se mi fossi disegnata. Ma lo facevo comunque. Un giorno salì appunto al piano di sopra per cercare una tela dove mi ero fatta un autoritatto, era nervosetto e agitato, non saliva mai, era salito apposta. Prima voleva essere gentile e voleva vedere la tela, ma io l’avevo nascosta, allora si agitò e diede un pugno ad una delle innumerevoli finestre di quella casa bianca, era tutta bianca, con la moquettes bianca, si poteva anche impazzire in quella casa tutta bianca. Si mise a cercare dietro le porte, era una casa con pochissimi mobili, allora fuggii in un bagno, aprii la doccia e mentre lui arriva, l’acqua ripuliva la tela dal disegno.

Lo guardammo mentre scompariva. Si prese la tela, con quel disegno quasi invisibile, andai via, non ci parlammo per un bel po’di tempo, forse un anno. Disse che lo avevo ferito, che lui dipingeva davanti a me sempre, che mi aveva aperto tutte le sue porte, non mi escludeva mai, e io invece mi nascondevo, a pensarci ora mi sento male, davvero, ma io pensavo di non essere all’altezza per mostrargli le mie cose, non lo facevo per cattiveria o altro, ma lui infieriva additandomi un comportamento anomalo tipico del sud. Una volta mi disse “tu sei come me da giovane” cioè vivevo di sogni e speranze di un mondo giusto, sembravo distante ma ero vicinissima “eri come me” era un messaggio chiaro, era come dire “io non sono più come te”, ma sfatato, più abituato a combattere battaglie, a prendere quello che si vuole, non c’era più tempo per il sogno dell’arte, lui era negli inferi ed io nel purgatorio. Quando Gino morì feci un grande ritratto per averlo vicino in quei terribili mesi passati a piangere, con i ray ban neri, il cappello, la camicia bianca, la giacca nera, i morbidi capelli e la sua sigaretta sottile, quando ero disperata lo srotolavo e lo guardavo, poi lo riarrotolavo perchè nessuno doveva vederlo, solo io, alla fine di quel delirio, durato 6 mesi, lo tagliai in minuscoli pezzettini per buttarlo via. La sua casa è chiusa da allora. Io spero che ci sia ancora dentro la sua anima. Agosto-Settembre-2010

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