Diario di una vita all'ombra della cortina di ferro

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Ing. navale Giordano Zahar

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PREFAZIONE

Mi sembrò di essermi svegliato in un altro mondo alla fine della quarta classe elementare, quando mi accorsi che nella pagella si era introdotto un nuovo termine di condotta: un »affattoinsufficente«.

Durante l’anno, a scuola era andato tutto bene, senza sintomi di una simile catastrofe. Mio fratello di tre anni più grande di me, pur essendo molto bravo a scuola, aveva vissuto l’anno precedente la stessa sorpresa.

In un giorno di primavera, probabilmente una domenica quando mio padre era a casa, venne a casa nostra il maestro della scuola elementare in una divisa semimilitare, e offrì a mio padre la tessera del partito fascista e la famosa spilla PNF.

Mio padre non accettò nulla e per noi ragazzi l’esito era veramente catastrofico; il maestro andando via, lo minacciò delle conseguenze: ”I tuoi figli faranno barba griggia a scuola con me!”.

L’artista Černigoj che allestiva i saloni delle navi passeggeri, teneva mio padre come assistente. Nel 1938 nel cantiere scoppiò la grande purga, si sospendevano gli allogeni. Sospesero anche Černigoj e mio padre venne trasferito su altri lavori nel doppio fondo delle navi o sulla cima della gru URSUS.

L’ anno seguente a scuola avvenero dei cambiamenti. Morì la moglie del maestro che diede le dimissioni e ritornò alla sua nativa Ronchi dei Legionari.

Alla fine dell’anno scolastico si fece vivo per consegnare il premio ”Dante Alighieri“ per il migliore compito in italiano. Con mia grande sorpresa lo consegnò a me, come se volesse scusarsi per il suo strano comportamento nei confronti della mia famiglia.

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Il premio bastava per un mio primo vestito, niente più calzoni corti ma solo calzoni alla zuava. Il vestito mi serviva per andare all’esame di ammissiome alla scuola media.

Quel giorno mi vide la mia maestra della prima classe elementare e mi disse: “Iscriviti al nautico, un giorno sarai tecnico navale”

Questo consiglio mi è rimasto come un segno del destino per tutta la vita. Superai bene l’esame di ammissione, pur venendo da una scuola elementare di periferia. Quando andai a iscrivermi alla prima media respinsero la mia domanda, visto che ero alloglotta, e mi consigliarono di trovarmi un lavoro presso un buon muratore. Così sarei stato soddisfatto per tutta la vita. “La nostra scuola deve rimanere per i nostri figli!”

PREMESSA

Il giorno 15 marzo 1945 quando Giuseppe Gueli mi condannò a morte in Risiera, iniziai a scrivere il mio DIARIO. Dovevo lasciare una testimonianza, non storica, ma di vita come è stata veramente vissuta. Mi sono sempre preoccupato di raccontare solo la verità!

CARO LETTORE

Questo libro non è un romanzo scritto da un artista pieno di parole d’amore e romanticismi!

E’ solo un diario in cui di solito deponiamo notizie e opinioni del momento come in un magazzino di idee senza badare troppo alla sintassi e all’ortografia!

Si parte da una data e si rispettano le opinioni altrui.

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PRIMA PARTE

I MIEI GIORNI DI RICORDO

PRIMA: “UN PO’ DI SLOVENO”

POI: “CHIODI E FIAMME!”

DAL DIARIO

DI UN TRIESTINO

ABORIGENO

Ing. Navale Jordan Zahar – Giordano

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IL PRIMO dei miei giorni di RICORDO

LA GRANDE ADUNATA

10 giugno 1940

Fin dal mattino presto la grande piazza del paese era in subbuglio. Si preparava il palco: arriverà il Federale e altri ospiti eccellenti dal Comune e da Trieste. Parlerà il Duce.

L’ oste era disperato, perchè doveva allestire la radio con l’altoparlante. La sua era l’unica radio in paese. L’attivista fascista locale, volonteroso e pronto all’azione, raccoglieva i contadini sparsi per le campagne e li spingeva verso casa. Dovevano pulirsi e indossare l’abito migliore. In piazza si era ammassata molta gente. La radio trasmetteva la “Giovinezza” e la “Faccetta Nera”. D’un tratto la musica cessò e si sentivano i forti rintocchi della grande campana di San Pietro. A Roma, in Piazza Venezia, davanti ad una folla “oceanica” il Duce, soprafatto da una folla oceanica, dichiara la guerra alla Francia e all’Inghilterra.

I contadini ritornano ai loro lavori nei campi. Non c’era alcun entusiasmo. Si sapeva che sarebbero arrivate le tessere annonarie, che il caffè di mattina non sarebbe stato più dolce e che il pane sarebbe stato razionato. I genitori erano avviliti, si attendevano le chiamate alle armi.

Molti avevano già vissuto la guerra e sapevano che si avrebbe atteso le notizie dei caduti.

C r e d e r e o b b e d i r e c o m b a t t e r e, era una cosa seria. I militari porteranno via dalla stalla il migliore giovenco per il raduno dell’esercito.

Mio nonno, un “Carsolino” duro, ha i suoi dubbi (da giovane aveva marciato con il generale Radetsky). Mussolini ha dichiarato la guerra alla Francia? La Francia ha dato all’Italia le vittorie

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risorgimentali! L’Antanta ha fatto all’Italia infinite promesse se agredisce l’Austria. Quelle promesse valgono ancora?

IL SECONDO dei miei giorni RICORDO

IL GENERALE M. ROBOTTI VA A LUBIANA

TRIESTE 6 aprile 1941

Il mattino prometteva una bella giornata di primavera. Non presi il tram per andare a scuola risparmiando così un cinquantino di lira quanto costava il biglietto verde andata e ritorno del tram. La città sembrava in festa. All’angolo del Largo Malta e il Corso Vittorio Emanuele Re d’Italia e dell’Albania, Imperatore dell’Africa Orientale, la grande libreria Moderna aveva tutte le grandi vetrine tapezzate con libretti nuovi che recavano il titolo: ”UN PO’ DI SLOVENO”

Anche sulla strada verso scuola tutte le librerie avevano quel libretto esposto nelle vetrine. Con il soldino risparmiato comprai lo strano libretto.

Arrivato a scuola, lo mostrai al mio collega che era niente meno che il figlio del generale Robotti. Un pò disabile, portava sempre la “pelerina”. Si mosse appena e disse: ”Questi libretti li ha regalati mio padre ai suoi soldati che stanno andando a Lubiana. Il libricino ha in fondo un vocabolarietto italiano

sloveno e sloveno

italiano, affinchè i nostri “amici” sloveni e i nostri soldati possano scambiarsi qualche parola”.

Io non sapevo niente di queste “amicizie” e la presenza di questo libricino “Un pò di sloveno” mi sembrava come la presenza di una testa “suina” in una chiesa mussulmana. Colpa dei nostri padri che tornati a casa dalla “vittoria di Caporetto” (come avevano capito loro) subirono il poco amichevole comportamento degli occupatori italiani della nostra “Küstenland”, ora la loro Venezia Giulia, da

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dove erano stati cacciati i tedesco-austriaci, i croati e moltissimi sloveni le cui lingue sono state proibite.

Il Duce non dichiarò la guerra alla Slovenia in base al Concordato laterano del 1929 con il Papa Pio XI e con il suo fascismo diventò un alleato della Chiesa Cattolica di Roma. La Chiesa Cattolica era già presente nella Slovenia.

Il sei aprile 1941 i fascisti arrivarono a Lubiana come amici e alleati. Il vescovo di Lubiana era giustamente felice di riceverli : “Oh Duče, kakšna sreča da si nas sprejel v Vašo družino.” L’esclamazione di felicità del Vescovo era sincera e dovuta.

Prosegue Robotti Junior: “Mussolini ha dato a mio padre anche la “CARTA BIANCA.” Noi non sapevamo cosa significasse questo bianco. Forse stava per bello o per buono!

TRIESTE fine MAGGIO 1941

La capoclasse portò in aula dei libri nuovissimi. Si trattava di nuovi testi di geografia. Avevamo appena finito lo studio delle regioni italiane. Ci spiega che il Generale Mario Robotti (papà del nostro collega scolastico) ha allargato l’Italia verso Oriente e così ora abbiamo una nuova regione che si chiama:

Slovenia italiana con capoluogo Lubiana.

Il re Vittorio Emanuele l’ha annessa al Regno d’Italia il 3 Maggio 1941. Comprende 4.000 KM2 con 320.000 abitanti.

Apro il nuovo testo di geografia: Il Carso

Mi metto a leggere con molta sorpresa la breve descrizione ….”carso è brullo e sassoso, nonostante la stupida ostilita’ della polazione locale, il fascismo è riuscito a rimboscarlo”!

Per me il Carso era di vitale importanza. Sul Carso vivevano i miei nonni.

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Infuriava la Grande guerra, iniziata dall’Italia. Una notte la nuova artiglieria pesante riuscì a colpire anche paesi più lontani. Il nonno era sul fronte isontino, la nonna con sette piccoli bambini, dovette abbandonare in gran fretta la casa ed il potere. Tutti gli abitanti vicini furono trasferiti lontano in Austria dove li attendevano i campi di concentramento, la fame e la solitudine. Gli abitanti locali li offendevano chiamandoli “Slavini”. Finita la guerra, ritornarono al loro paese sul Carso. Trovarono la casa semidistrutta, quasi inabitabile. Ricevettero dalla carità una mucca da latte per i bambini. Non c’era erba nè fieno, i prati erano distrutti dai soldati, i vitigni del buon vino terrano erano stati calpestati e distrutti dalla cavalleria ungherese. Trovarono il loro Carso distrutto, non l’avevano lasciato brullo e sassoso, era stata l’artiglieria italiana che aveva avuto in dotazione dall’Antanta armi della migliore qualità a devastare il Carso.

L’occupatore cambia sul mio Carso i nomi alle persone e alle località. Si proibisce l’uso della propria lingua. Non c’era pane da nessuna parte. I tre ragazzi giovani e le due figlie partono per Trieste e poi per l’Argentina.

Povero Carso mio!

Anche il giovane Zlataper lo abbandonò. Il nostro amatissimo Kosovel frequentava la quarta classe elementare a Pliskovica. Lo portarono via dal Carso quando l’Italia si preparava ad aggredirlo.

L’OCCUPAZIONE DELLA SLOVENIA

Il Generale M. Robotti occupò la Provincia di Lubiana con 60.000 soldati ed i battaglioni (fascisti) “M”.

Il nostro collega del banco accanto fa subito il suo calcolo: un soldato con il fucile in mano e la baionetta in canna per 5 sloveni!

La capoclasse prosegue: il Gen. Robotti ha portato a Lubiana tre tribunali militari di guerra. La chiesa cattolica, con 4.5OO chiese

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e tutta la popolazione contadina, succube del clero, fece uno sbaglio insanabile, non rimase neutrale. Patrioti sloveni vedono il nemico che aggredisce e occupa la loro patria. E’ umanamente giusto che intervengano alla difesa di sè stessi. (Si costituisce il Fronte di Liberazione…OF).

La chiesa arma i suoi “domobranzi” e li manda contro i patrioti sloveni per difendere gli aggressori italiani e tedeschi. Già allora qualche politico dichiara che i cattolici non sarebbero riusciti a riparare questo sbaglio per secoli (Ciano).

Inizia una guerra fratricida. E’ molto strano che i cattolici sloveni non si fossero accorti che Cristo aveva predicato pace e amore, non ricchezza e potere. Qui manca il Vangelo!

A scuola la capoclasse fa sedere il Robotti junior nel mio banco. Sapeva che avrei avuto pazienza con lui. Aveva difficoltà fisiche, tutti lo evitavano. Portava la “pelerina” perchè non poteva maneggiare con i bottoni, lo accompagnavo anche in bagno. Gli insegnai ad usare la matita mettendola sotto il dito medio della mano destra. Era molto felice, saltava per il corridoio e faceva finta di scrivere, sembrava che nessuno avesse avuto la pazienza di insegnargli qualche cosa. Di ritorno dalle vacanze di Natale, la capoclasse, per il solito rispetto verso il padre, gli chiese se suo padre fosse contento di rivederlo dopo tanto tempo. Infatti, lei voleva tenerci al corrente della guerra in Slovenia. Ogni giorno in classe ci faceva leggere Il Piccolo e chiedeva al figlio cosa ne diceva suo padre.

Il figlio pensò a lungo e poi rispose: “Papà è contento della collaborazione dei cattolici sloveni, però è molto arrabbiato con i ribelli che sono contrari all’occupazione italiana. Coloro che non obbediscono dovrebbero essere castrati!”. Io non capivo la parola castrare e così la sera a casa durante la cena chiesi che cosa voleva dire. Tutti risero di me, ma mio padre risolse il problema: “Il bue è un toro castrato!”

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Quando gli Italiani, dopo l’armistizio del 1943, fuggirono in gran fretta per paura della vendetta a causa del grande misfatto lasciato dietro di sè, abbandonarono incostuditi tutti i documenti dei tre tribunali di guerra di Lubiana, innumerevoli sentenze e atti di condanne a morte eseguite, atti notarili e circolari dei comandi d’armata. I volontari della resistenza slovena, affinchè i tedeschi che stavano già arrivando non prendessero possesso di questa documentazione, raccolsero e impacchettarono tutti i documenti murandoli nei nascondigli. I volontari addetti purtroppo non sono sopravissuti e così tutto il materiale è rimasto nel nascondiglio venendo alla luce solo dopo 40 anni.

Lo storico Tone Ferenc, dopo una lunga e attenta elaborazione, ha pubblicato a Lubiana nel giugno 1990 il famoso libro “Si ammazza troppo poco”. In Italia le notizie si sono smarite nell’immenso dimenticatoio italiano, poi coperto dall’enorme offensiva mediatica delle foibe, diretta da coloro che non avevano interesse che gli Italiani conoscessero la verità sulle atrocità prodotte dalle unità militari del generale Robotti e non solo durante l’occupazione della Slovenia. Nelle sentenze e le immediate esecuzioni non sono inclusi:

i morti sloveni come vittime dei combattimenti con le unità militari del generale Robotti, i morti nei campi del Duce,

i morti non liberati dopo la caduta del Duce,

i morti che dopo l’Armistizio son stati trattenuti nei campi per gli “slavi” e poi consegnati ai tedeschi,

i morti che erano in carceri italiane mandati dai tribunali di guerra di Lubiana,

i corpi dei fucilati entro maggio 1942 che dovevano essere messi nelle bare, caricati sui camion e trasportati in grande fretta a Monfalcone. Il sepellimento doveva aver luogo in gran segreto per evitare le manifestazioni commemorative dei familiari delle vittime.

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La nuova regione “Slovenia italiana” come già la Venezia Giulia con il Carso, sono terre conquistate in cui i conquistatori usano “carta bianca” nel senso del “confine orientale”. Queste terre devono essere amministrate in modo da aumentare la presenza di persone italiane e diminuire di numero la presenza di nativi sloveni, croati ecc. di queste terre. Poi saranno annesse al “Regno Italia”.

Nel 1942 si prevedevano gravi perdite nell’immediato futuro. Allo scopo di riorganizzare i partigiani sloveni, Tito con il famoso accordo delle “Dolomiti” (montagne rocciose friabili della Slovenia centrale), estese il suo comando sulla resistenza slovena, impiegando i suoi commissari. In tal modo poteva sviluppare una sua tattica militare e ridurre le perdite umane, già troppo elevate.

FRANCE BEVK

Nato nel nostro Litorale, la ”Primorska”, nominata ad hoc dagli italiani Venezia Giulia, molto amato dalla dalla nostra gente, Bevk, più scrittore che poeta, seguiva con molto interesse gli sviluppi nella nostra patria. Nel 1922 scrisse poche righe contro la politica dell’Italia nel nostro territorio dall’Adriatico alle Alpi: “… non voglio ricordarvi che non è vero che vi interessa solo Trieste per via dei cittadini italiani, ma perchè Trieste sarà la pedana di lancio per le vostre conquiste nei Balcani. Questo deriva dalla Prima guerra mondiale. Abbiamo metà dei nostri paesi distrutti, centinaia di morti, a migliaia i caduti in combattimento, migliaia di morti nei campi di concentramento. Siccome la vostra “reazione” è ancora sempre viva e più o meno si manifesta con l’alzata della testa contro la presenza del mondo slavo, sono evidenti e possibili gli eccessi: «Drang nach Osten!«.“.

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Il sei aprile 1941

Il generale Robotti Mario fu mandato da Mussolini ad occupare Lubiana con 60 mila soldati e poco dopo il generale Mario Roatta con 120 mila, non certo per qualche interesse umanitario si era fatto sapere per Trieste. La pedana di lancio funzionò e la Slovenia italliana con il capoluogo Lubiana fu subito annessa all’Italia, come se si avesse voluto portare aiuto ad una qualche italianità di questa futura regione.

Nel 1918 fu istituito a Trieste il Tribunale speciale che ha produsse 9 (nove) condanne a morte e migliaia di anni di galera alle nostre popolazioni. Così il 6 aprile 1941 vennero portati a Lubiana tre tribunali di guerra che emanavano giornalmente sentenze ed esecuzioni. Le distruzioni causate dalle unità militari italiane superavano di gran lunga quelle di cui scriveva l’amatissimo scrittore del nostro popolo.

I terribili scenari sia sul Litorale sloveno trasformato già in Venezia Giulia, poi ancora peggio, oltre il confine orientale su tutta la provincia di Lubiana (diventata italiana), si dovevano nascondere all’umanità. E non solo, si cercava di valorizzare il termine “brava gente” e per nascondere i gravi crimini commessi, si pensava di calare l’enorme tremendo sipario delle “FOIBE”, dando poi il via ad un enorme offensiva mediatica e trasformando le vittime in criminali.

Ci si chiedeva quale sarebbe stata la prossima avanzata oltre il confine orientale sul territorio slavo? Sarebbero sufficienti i Balcani o si sarebbe andato a riscaldare le gavette di ghiaccio sul Don e portare aiuto all’Italianità a Odessa?

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Il TERZO dei miei giorni RICORDO

L’ISPETTORATO SPECIALE DI PUBBLICA SICUREZZA

TRIESTE 1942

L’ispettorato speciale fu istituito da Mussolini già nel 1942 per difendere l’Italianità delle terre occupate. Dall’autunno in poi dopo ogni rastrellamento facevano scendere sempre più spesso gli studenti dall’ universita’, spingendo fuori, in Via Carducci, anche gli alunni da tutte le scuole durante le lezioni normali. Dovevamo assistere al passaggio di un corteo di ”ribelli” dalla Piazza Foraggi alla Stazione Centrale. (4)

Mi si strigeva il cuore, a guardare quelle colonne di povera gente, erano molto giovani oppure molto anziani. I maschi adulti erano già stati chiamati alle armi, forse mandati ai campi ad Aquila, oppure già fuggiti nei boschi per evitare gli arresti. Mi sembrava di vedere i miei nonni del Carso. Piccoli bambini vestiti male, sporchi, pieni di paglia rimasta sui loro abiti dopo che avevano passato la notte in qualche fienile. Che razza di “ribelli”. I soldati, con i fucili a baionetta in canna, cercavano di spingerli in fila. Un mio collega di classe mi disse sotto voce: ”Anche loro hanno una madre!”. Bravo Giulio! Qualcuno ci minacciò, dovevamo fuggire!

Anche questi “ribelli“ possiamo chiamarli “esuli”, erano stati cacciati con forza dalle loro case, forse già incendiate, qualche familiare “passato per le armi”. La strada li porta ai lagher del duce. Dopo l’otto settembre gli Slavi dei lagher e carceri venivano trattenuti e consegnati ai tedeschi. In fondo della loro strada non li aspettava il “magazzino 18!”

PRIMO MARZO 1942

Le istruzioni del generale Vittorio dell’ Ambrogio del comando supremo, prevedeveva che: alla (21) fucilazione fosse dato

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immediato seguito alla distruzione della casa o del paese e la popolazione (bambini e anziani) deportata nei campi del duce “…eccco i “ribelli”! (di Via Carducci!) (5)

Foto nr. 1 Libreria Moderna Largo Malta

Il Libricino: Un po' di sloveno

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Scuola Media Galileo Galilei Compagni di scuola: Robotti Junior – Zahar G

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Foto nr. 2 Via Battisti Nr. 10 Foto nr. 3 Via C.carducci, Colonne di »Ribelli«

Foto nr. 4 Silos

Stazione Centrale Trieste

Partenze »ribelli« per Gonars, Renici, ecc

Il QUARTO dei miei giorni RICORDO

L’ARMISTIZIO ITALIANO

L’8 e il 9 settembre 1943

La scuola che frequentavo aveva perduto il pareggio, perciò dovevamo ripetere la piccola maturità presso un istituto statale.

Quasi fino alla fine dell’esame era andato tutto bene, poi arrivò il parocco, che doveva andare via, e mi disse: ”Prega il Padre Nostro, basterà per l’esame di religione.” Io rispondo: ”Non so pregare in Italiano, a casa io prego sempre in sloveno ”. Lui corse dalla preside la quale scoppiò a gridare: “Che vergogna, che disonore per

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l’istituto!”. Ricevetti un bello zero, il giorno dopo un altro zero in ginnastica in Piazza della Valle. Nel frattempo Mussolini era stato destituto, si attendeva la fine della guerra. L’otto (8) Settembre 1943 fu firmato ”l'armistizio italiano” con gli alleati angloamericani. Sembrava veramente che la fine della guerra si avvicinasse! Intanto i tedeschi scendevano in massa. (Alessandro Manzoni scrisse nella sua poesia “Il Parlamento”: I Lurchi fanno Pasqua nelle loro tane e poi callano a valle). La storia si ripete.

TRIESTE OTTOBRE 1943

I tedeschi iniziano l’offensiva da Trieste verso l’Istria. Mentre stavo tornando dall’esame di ottobre, vidi da un posto panoramico verso l’Istria tutte le case erano in fiamme. Sembrava che Churchill avesse proposto agli alleati di sbarcare in Istria, sfruttando i porti di Trieste, Pola e Fiume e la collaborazione con Tito, perciò i tedeschi erano intervenuti subito a fare piazza pulita. Intanto scendevano dalla Slovenia italiana i soldati abbandonati dal loro re. I tedeschi li cercavano perché si sentivano traditi a causa dell’armistizio con gli anglo-americani.

I soldati italiani cercavano di liberarsi della divisa e trovare qualche vestito civile. A casa mia ce n’erano già una ventina e mia madre stava loro distribuendo le tute da lavoro di mio padre. Un giovane sergente si vergognava davanti ai soldati semplici e chiese a mia madre un vestito migliore. Allora gli diede un vestito di mio fratello che nel marzo ‘43 era stato prelevato con forza e spedito al campo di concentramento a L’Aquila. Il giovane sergente si meravigliò dell’ aiuto che la nostra gente offriva loro, pur sapendo che si erano comportati male con la popolazione slovena nella Provincia di Lubiana e non solo. Mia madre gli rispose che anche noi aspettavamo il ritorno del figlio da L’Aquila e che forse

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anch’egli avrebbe ricevuto lo stesso aiuto da parte della gente italiana.

I tedeschi davano caccia ai soldati italiani e li portavano ai silos accanto la Stazione centrale di Trieste, da dove i fascisti di Salò li caricavano sui vagoni merci dei treni per Dachau. L’Ispettore Giuseppe Gueli si occupava del loro trasporto per la Germania. In tutto spedì da Trieste la metà di tutti i trasporti Italiani destinati alla Germania (circa 80 treni).

Nel febbraio del 2013 abbiamo avuto modo di vedere su RAI3 Storia un breve documentario in occasione della visita del presidente della Germania Gauck Joachim a Sant’Anna, dove era venuto per chiedere scusa agli italiani per il comportamento dei soldati tedeschi durante la guerra. Nell’agosto ‘45 furono uccisi 100 bambini e 500 civili. Alla fine della visita gli viene detto:

”L’Italia ha mandato 160 treni di mano d’opera in aiuto alla Germania in guerra, mentre i vostri erano ai fronti.”. Tutti siamo rimasti imbarazzati nel sentire queste parole da un rappresentante italiano di massimo rango. Potevano offendere i molti Italiani che avevano vissuto in lagher tedeschi e subìto trattamenti disumani. Forse sarebbe più opportuno che un rappresentante italiano, di così alto livello, si ricordasse che anche i soldati italiani con il loro comportamento criminoso avevano combinato casi per i quali l’Italia dovrebbe chiedere scusa (22)

Il QUINTO dei miei giorni di RICORDO

LE FOIBE ISTRIANE 1943

Dopo l’armistizio i Gruppi di Azione Patriotica (G A P) del PCI diedero caccia ai fascisti, nascosti in Istria in attesa dell’arrivo dei tedeschi.

La lettera del PCI di Trieste del 31 dicembre 1943 al comandante del battaglione Trieste: “....... rispondiamo al vostro rapporto del

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21-09-1943, siamo sodisfatti che i vostri rapporti con gli sloveni sono sempre migliori. Combattiamo per la stessa causa. Non rinunciate alla tattica delle foibe quando si scovano i fascisti, responsabili di azioni contro la popolazione, ex dirigenti e collaborazionisti. In questo caso, crediamo opportuno che pure voi assumiate il nominativo: Distacca- mento d'assalto G A R I B A L

D I.” (6)

Anche Jaksetich pubblica nel suo libro” La Brigata Fratelli Fontanot” quella parte della lettera del PCI indirizzata al GAP dove nomina le FOIBE.

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Doc. nr. 1 Jaksetich, Fratelli Fontanot - foibe
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nr. 2
25/07-1943
Doc.
Linee
piano geografico della V.G

Nella mappa sono segnalati i posti in cui si sono verificati gli atti di sabotaggio dei partigiani: a sud i garibaldini e a nord i partigiani sloveni del IX korpus.

L’allegata mappa geografica fu emessa a Trieste il 27 luglio 1943 e serviva ai gruppi antipartigiani che partivano da Trieste in azione verso l’lstria. L’azione dei garibaldini durò dal 9 settembre ‘43 (armistizio) fino al 2 ottobre ‘43, quando ebbe inizio l’offensiva tedesca da Trieste verso l’Istria. Dopo l’armistizio, il mondo istriano non organizzato prese in mano le armi diventando così una preda facile per i tedeschi che provocarono molti morti. C’erano ovunque le salme insepolte. Gli abitanti dei paesi vicini raccoglievano i loro morti, molti sconosciuti in putrefazione finivano nelle foibe vicine secondo i racconti dei testimoni del luogo. I tedeschi catturarono anche molti prigionieri che venivano portati a Trieste nel silos da dove l’ispettore G. Gueli li portava ai treni per riempire i vagoni merci con destinazione: Dachau. (7)

Novembre 1943

La gestapo, con l’aiuto dei fascisti di Salò, (Mussolini aveva già istituito 23 settembre la RS I) trovò le famose foibe istriane dove i garibaldini avevano forse deposto i loro ostaggi. Estraendo le salme, la gestapo riprese un breve filmino in bianco e nero, (che spesso viene trasmesso in televisione), oganizzando così molta propaganda contro la Resistenza. Gli studenti scesero dal colle, vuotarono le scuole, (8) mandarono tutti in Via Carducci, dove in gruppi si attendeva il turno per assistere al breve filmino della Gestapo nel vicino cinema Excelsior.

Il BALLETO DEI NUMERI

(27) All’inizio del 1944 fu comunicato a Mussolini (Lettera ) il numero 47 di infoibati, estratti dalle foibe istriane (Allers). Qualcuno li vuole 340. La propaganda mediatica li vorebbe a migliaia. Dopo il divorzio Stalin-Tito, il PCI promosse una forte reazione contro Tito, contro i comunisti sloveni e croati. Era facile

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gettare tutta la responsabilità per le foibe ai partigiani sloveni e croati dopo 61 anni quando erano già tutti morti coloro che avrebbero potuto testimoniare. Arriva il 2004 e nasce l’idea del “GIORNO DEL RICORDO”. Le illusioni generano esagerazioni e mostri nel immaginario collettivo! Sarebbe logico che i fascisti italiani fossero stati attaccati da partigiani italiani e dal 09-09-43 al 02-10-43. Un GAP riesce a infoibare 7 fascisti? Forse anche salme altrui, dopo l’offensiva tedesca ce n’erano in zona anche troppe.

Il libro dello storico Tone Ferenc “Si ammazza troppo poco”, pubblicato nel 2004, ha generato paura per i dati sui delitti perpetuati nella “Slovenia italiana“. Ecco il ”giorno del ricordo” con cui si corre al riparo. Ma la “crocefissione ovvero l’inchiodatura” (con chiodi) del ragazzo Zdenko Poje di Papeži (SLO) non si può chiudere nel dimenticatoio .

NOTA BENE: Nessuno si vuole ricordare dell’ofensiva tedesca iniziata il 02 ottobre 1943 da Trieste (Caresana in fiamme!), fino a Pola. Molti cadaveri in putrefazione finirono spesso nella foiba piu’ vicina. La popolazione locale era intenta nella ricerca dei propri caduti.

Il SESTO dei miei giorni di RICORDO

LA FOIBA DI BASOVIZZA 1941-1944

Trieste - 1944

Nel 1944 minarono la ferrovia Pola – Trieste. Il treno fù sospeso, a piedi o in bicicletta era pericoloso, i nostri genitori presero la decisione di non mandarci più a scuola.

Dopo l’arrivo dei tedeschi a Trieste, le tessere annonarie servivano sempre meno. Le famiglie si arrangiavano come potevano. Alcune tenevano bovini e i ragazzi dovevano portarli al pascolo. La migliore erba era intorno alla vecchia miniera di Basovizza.

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Nel 1941 vedemmo una giovane donna gettarsi dentro il pozzo della miniera. Qualche giorno dopo, arrivarono da Trieste gli speologi con un camion pieno di attrezzi vari. Un giovane scese con un paranco nel pozzo. Trovò la giovane e la tirarono fuori. Uscendo dal pozzo, il giovane raccontò ai colleghi che il fondo del pozzo era coperto con uno stratto di ciotoli e che sul lato del pozzo in direzione di Basovizza c’era l’entrata in una profonda galleria. La profondità del pozzo, misurata con l’altimetro che il giovane speologo aveva sul braccio, era di 175 metri sopra il livello del mare. L’altimetro lo conoscevamo tutti, ma era per noi come uno strumento futurista. Il fondo del pozzo corrispondeva anche all’altezza della stazione ferroviara di Sant’Antonio in Bosco, secondo la memoria degli anziani del luogo.

Un giorno di metà estate del 1944, eravamo in 14 tra giovani maschi e femmine a pascolare attorno il pozzo. Quel giorno vedemmo due guardie civiche nelle loro divise celestine che spingevano un giovane civile, un pò zoppicante, fino all’orlo del pozzo e lo spinsero dentro. Le due guardie andarono a prendere un altro ostaggio, maschio civile, pure questo fu spinto nel pozzo. Dopo qualche giorno si ripetè la stessa operazione, questa volta con due ostaggi e più tardi con altri due, in tutto sei vittime. La domenica successiva le due guardie civiche ritornarono con una giovane donna. I ragazzi saltarono fuori dal nascondiglio, tutti gridando “chi va là” ecc. Le guardie presero in mano i fucili e allora ci si dovette ritirare dietro il muretto di cinta, mentre loro spinsero la giovane verso il pozzo con più fretta. Da quel giorno non sono più tornati.

Dal diario di Hemriquez

Durante l’occupazione tedesca 1943 – 1945 operò a Trieste la “guardia civica”. Il generale della “SS” Von Malzen mandò coloro che fecero il giuramento di fedeltà in lingua tedesca, alle tratte antipartigiane ed a scortare i prigionieri verso i lagher o al servizio di sentinella alle caserme della “SS“. A detta del generale Esposito

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della R S I, le guardie civiche pavoneggiavano per la città nella loro uniforme azzurra. Questi non collaborarono con la “SS“ solo perchè non avevano giurato fedeltà in tedesco.

Imparammo a riconoscere le divise soldatesche già da lontano, se le avvistavamo nel vicinato: quelli della Wehrmacht erano con noi buoni, i cetnici erano pericolosi, gli italiani in nero (X-mas) era meglio evitarli, se ci sentivano parlare in sloveno, diventavano agressivi, i domobranci (cattolici sloveni) portavano uniformi inglesi (color cachi) ed era meglio non incontrarli, le uniformi della guardia civica erano buffe in color celestino.

LA BANDA G.GUELI – G. COLLOTTI

Sotto la direzione dell’Ispettorato Generale di Pubblica Sicurezza della Provincia di Trieste, Giuseppe Gueli agiva per reprimere la resistenza. Gaetano Collotti fu la testa della squadra politica che svolgeva i servizi più crudeli.

Giuseppe Gueli Gaetano Collotti, fu Emanuele di Stefano, Catania 1887 Palermo 1917

Erano due campioni siciliani da esportazione, criminali di eccezione. Il loro moto era: “Distruggeremo tutta questa maledetta razza schiava!”

TRIESTE 5 luglio 1943

Dopo la caduta di Mussolini, il re lo spedì sul Gran Sasso, al campo Impertatore, protetto da soldati del regio esercito italiano. Giuseppe Gueli, chiamato d’urgenza dall’Albania, fu mandato a liberare Benito. Dopo l’armistizio, mentre il re d’Italia stava lasciando Roma per rifuggiarsi in Egitto, arrivò il pilota tedesco Otto

Scorzeny, asso del salvataggio aereo alpino, e con un piccolo aereo

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sul Campo Imperatore, prelevò Benito e lo portò a Monaco da Hitler. A Salò sul Lago di Garda Mussolini fondò la Repubblica Sociale Italiana (R S I).

A Trieste si registravano strane novità, i tedeschi allargavano la loro presenza. La nostra scuola per la sua posizione centrale, diventava man mano la sede delle unità collaborazioniste, gli ucraini riempivano l’aula magna con munizioni ed esplosivi. Pian piano occuparono tutto il primo piano e noi dovevamo spostarci in appartamenti privati, dove non c’era posto per 43 alunni per classe. Assistevamo quotidianamente a parate militari, dal Tribunale alla piazza Oberdank, unità istriane con la capra, c’erano i cetnici con l’eterna barba, gli ustascia croati ed i collaborazionisti sloveni in divise inglesi, pronti per marciare su Belgrado e riportare il re Pietro sul trono. La loro canzone preferita era: “…per ognuna delle cinque stigmate di Cristo, crepi un partigiano”.

Itedeschi occuparono l’Italia findove erano arrivati gli Alleati.

Salvato Benito, Giuseppe Gueli fu mandato a Trieste, ora capitale della Adriatische Küstenland, per dirigere l’Ispettorato Speciale di pubblica Sicurezza della provincia di Trieste con l’incarico di trattare la massima crudeltà gli abitanti delle terre occupate: sloveni, croati ed ebrei. All’inizio del suo servizio a Trieste (28) dirigeva personalmente i rastrellamenti contro la popolazione locale. Uccideva chi si opponeva, bruciava case e villaggi. Trascinava donne, bambini e anziani ai silos di Trieste, caricava di gente i vagoni merci dei treni per la Germania da dove solo pochissimi sarebbero tornati, tanto da poter testimoniare.(9)

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Doc. nr. 3

Rapporto G: Gueli 1 del rastrellamento di Collotti a Boršt

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28 Doc. nr. 4 Rapporto Gueli 2
29 Doc. nr. 5 Rapporto Gueli 3

Doc. nr. 6

Rapporto Gueli

Gueli si dimenticò di menzionare la macchina elettrica per la sedia elettrica e il forno della Risiera

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Il SETTIMO dei miei giorni di RICORDO

IL MIO GIORNO PIU’ LUNGO S. ANTONIO IN BOSCO

Boršt 10 gennaio 1945

Quando i tedeschi iniziarono a circondare il paese, entrarono nel paese anche gli agenti di Collotti, il commisario del famigerato “Ispettorato Speciale di Pubblica Sicurezz di Trieste” diretto dall’ Ispettore Speciale Giuseppe Gueli. (9)

In quel momento iniziò per me, per i miei genitori e per i miei paesani il “GIORNO PIU’ LUNGO”. Era l’alba del 10 gennaio 1945. La mattina era fredda e la neve giacciata scricchiolava sotto i piedi. Il cielo era plumbeo e io mi svegliai quella matina perché la mamma doveva prepararsi per fare la visita alle prigioni di Trieste in cerca di mio padre che mancava già due giorni. Tutto intorno alla casa era ghiacciato e mentre stavo per andare allo stagno per prendere l’acqua, un gruppo di uomini in borghese, armati fino ai denti, fece irruzione nel nostro cortile. Dietro di loro vidi arrivare un uomo giovane elegantemente vestito, con una pistola prolungata dal silenziatore. I suoi capelli erano pettinati con cura, composti, lucidi di brillantina: era il Dottore Gaetano Collotti.

Mi afferrò deciso per il petto trascinandomi in cantina da dove non mi potesse sentire nessuno e cominciò a domandarmi: ”Dove sono i bunker?”

Io non sentì altro e i suoi agenti impazienti mi riempirono di botte e manganellate in pieno viso e sui denti inferiori. Per sopportare il dolore e tutto il peso psichico mi misi a fissare l’interno dei fori scuri dei mattoni di un tramezzo davanti alla mia faccia perdendomi nella loro sempre più profonda infinità del buio. Mente rinvenivo sentì la neve che mi veniva strofinata in faccia, avevo perso i denti e il sangue che mi scorreva dalla bocca scioglieva la neve.

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Mi portarono all’osteria Petaros e andando per strada mi accorsi che i tedeschi avevano cinto il paese d’assedio. Ero terrorizzato, sapevo che quando sono ben protetti i fascisti sanno essere dei veri eroi. Nel frattempo, nell’osteria veniva ammassata tutta la gente del paese. Mi condussero in una stanza al primo piano, proprio sopra il banco della mescita.

LA SEDIA ELETTRICA

Mi indicarono uno strano congegno, simile a una macchina da scrivere. Sopra un tavolo c’era una macchina elettrica, laccata di rosso, piena di tasti luminosi e di resistenze elettriche. In cima aveva sette lampadine ciascuna di diversa forma e di dverso colore, era la macchina elettrica per la tortura con la corrente. Da essa uscivano due cavi. Il primo era collegato a due cavi elettrici che terminavano con i morsetti. L’altro invece penzolava libero nell’aria.

Mi legarono ad una sedia e la rovesciarono a terra, poi il dottore in persona iniziò a premere leggermente la punta del cavo libero sulle mie dita, sulle unghie e poi su per il viso. Percosso da terribili scosse elettriche, vidi accendersi la prima, poi la seconda e la terza lampadina e poi il buio. Mi fecero rinvenire con uno straccio inzuppato in acqua e ricominciarono: “Dove sono i bunker?”. L’insistente domanda echeggiava tra le fiammate della corrente elettrica. Tutto durò cinquanta sette minuti, facendo fede all’orologio che stava accanto a quel terribile marchingegno. Essendo giovane e di fragile struttura non avrei resistito una tortura di 60 minuti. La tortura disumana suscitò in me una ribellione sempre maggiore.

Non volli rispondere più in italiano. Quasi subito mi pentì. Temevo che così sarebbero diventati ancor più crudeli. Il dottor Collotti era un uomo garbato, possedeva un linguaggio fornito di eccezionali virtù di pazienza. Dopo ogni tortura si aggiustava con cura il vestito

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e la cravatta, si risistemava il fazzoletto da taschino sulla giacca scura di moderna fattura e infine si puliva le gocce di sangue sulle scarpe laccate. La mia inaspettata resistenza non lo meravigliò affato. Chiamò un giovane ufficiale della “bela garda” (cattolico sloveno), collaborazionista della gestapo, e gli ordinò di tradurre.

L’ufficiale si chiamava Milan, proveniva dal paese Klanec. Conosciuto in tutto il territorio come elemento da evitare, mi si avvicinò quasi irritato per il compito che gli avevano affidato. Evidentemente si vergognava di parlare con me in sloveno davanti a Collotti, dato che di tanto in tanto, mi colpiva rabbiosamente in viso con lo straccio bagnato che serviva per lavare le scottature sul il mio corpo dopo ogni scossa. La corrente elettrica lasciava ustioni sulla pelle. Quest’operazione serviva a cancellare le bruciature e al tempo stesso anche a far rinvenire la povera vittima. Il sangue scorreva dal naso e dalla bocca, mentre quelle dannate lampadine mostravano una sempre maggiore intensità della corrente usata. All’improviso mi venne in mente di parlare di un buncher che sapevo vuoto. Se parlerò, pensai, mi lascieranno in pace per un pò, forse nel frattempo finirà quest’inferno. Così speravo in silenzio e mentre marciavamo verso quel luogo, riuscì a riprendere un pò di forze. Mi trascinarono fino al castello Moccò. All’ingresso, io e Giuseppina, la custode del castello, fummo costretti a posare come ostaggi. Il buncher per fortuna era vuoto. Al rientro mi trovai di nuovo davanti la macchina infernale. Il pavimento della stanza era sporco di sangue e l’aria era satura di puzzo di sangue brucciata, di capelli e unghie carbonizzate. Durante la mia assenza torturarono altri miei paesani. Come potrà finire tutto questo, pensai. Con Collotti ci scambiammo una fugace e fredda occhiata. Al mattino aveva di fronte a sè un ragazzo di sedici anni, ora è diventato un uomo. Collotti proseguì la sua inesorabile missione e inziò a torturarmi. Pensava a come provocarmi un dolore ancor più forte. Si consultò con Fabio, suo assistente, un vero genio del dolore. Decisero d’un tratto di bruciarmi gli organi genitali con l’apparecchio elettrico. Fabio tentò di convincermi a raccontare

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dov’era l’entrata del buncher che avevano scoperto nel frattempo. “Vedi questo apparecchio, ha molti Volt e zero Amper, se io li aggiungo con codesta manovella al voltaggio tu sparisci, ma con grande dolore ci racconti anche quello che non volevi e se per miracolo resti vivo, sarai un invalido sessuale per tutta la vita.“

Pensavo da dove vengono questi geni del male? Per tutto questo dovrei avere l’erezione. Il discendente di una cultura di due millenni aveva anche una fantasia straordinaria. Collotti mandò Fabio a prendere una minorenne raccomandandogli:

“E che non sia buona solo per lui, ma soprattutto per me”. Ritornati in stanza, iniziarono subito a spogliare la minorenne.

INIZIO’ UNA DANZA MACABRA

A lungo non mi fece il “desiderato” effetto sessuale. Quando però quasi non ce la facevo più a più porre resistenza, Collotti si avvicinò a me che stavo in piedi nudo in mezzo alla stanza. Si preparava ad attaccare la corrente. Fabio, esperto della cosa, mi disse: ”Racconta subito tutto quello che sai, il tuo cuore non resisterà, se mai resti vivo, sarai un invalido sessuale per tutta la vita!”. Proposta folle! In quel momento si sentì una raffica forte e lunghissima dal centro del paese, dove avevano scoperto il bunker con i partigiani. Il bunker assediato dagli agenti di Colotti era quello che cercavano tutto il giorno. Allora era già tardi nel pomeriggio. Si sentì la raffica, era di un mitra russo, la riconobbi subito dal suono che mi era noto e amico. Era il mitra del primo partigiano uscito dal bunker. Il partigiano uscito con il mitra fu colpito da una mitraglia tedesca, una Schartz, era Vojko (Žitomir).

I due partifgiani non ancora usciti, Gruden Stanko e Grzetič Ivan, furono uccisi da bombe a mano, gettate nel bunker dagli agenti. L’ostaggio, Romano, fu ferito dalla raffica di Vojko. L’ultimo, Danilo Petaros, rimase gravemente ferito.

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In questa azione alla quale partecipò il presidio della Wehrmacht di Bagnoli, vennero arrestati e torturati 16 paesani, ma nessuno rivelò dove si trovava l’entrata al bunker. Tutto il paese era in mano agli agenti di Collotti, liberi di fare violenza, di terrorizzare e saccheggiare viveri, capi di bestiame e altro. Cose che succedevano quotidianamente in tutti i paesi intorno a Trieste. La sera tardi ci portarono in Via Cologna 6/8, dove non potevano (10) smistarci nello scantinato perchè già gremito di gente. Noi arrivammo per ultimi, perciò dovevamo pernottare nel grande salone, un locale adibito a mensa con un enorme focolare aperto che serviva anche da soggiorno agli agenti stessi quando rientravano dal servizio. Tutti erano in abiti civili e armati. La notte porta anche la nostalgia della famiglia, comunque, parlando con i miei compagni di sventura, ebbi modo di conoscere città istriane che non conoscevo: Carigador, Cittanova, Parenzo e così via fino a Pola, Pirano, Isola e Capodistria che già conoscevo dai racconti dei miei compagni di scuola, i quali d’ estate avevano la fortuna di essere scelti per le colonie estive in quelle località. Non c’erano prigionieri solo giù in cantina. La mattina vidi portare da più parti botti da 150 litri tagliate a metà, pieni fino all’orlo di escrementi umani.

Si sapeva del comportamento disumano della Banda Gueli-Collotti a Trieste. Il vescovo Santin scrisse il 12 marzo 1943 al sottosegretario agli Interni a Roma: “Si finisca con il torturare i civili, altrimenti si penserà che i cittadini italiani a Trieste siano dei barbari.” Molte vittime avevano conosciuto Collotti già nella Villa Triste in via Bellosguardo da dove l’Ispettore aveva traslocato in Via Cologna 6/8 a fine dicembre 1944, portando con sè la “macchina elettrica”.

Da Via Cologna 6/8, dopo le torture di Collotti, Gueli li mandava alla Risiera o al Coroneo, da dove li spedivano per la Germania e da dove moltissimi non sono più ritornati. (11)

Mi portarono al Coroneo, dove trascorsi quasi cento giorni in costante attesa di che cosa mi avrebbe portato il futuro incerto. Mi

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rinchiusero nella cella 47 della sezione minorenni. Rimasi vicino alla porta e dormì sul pavimento. Da lì non potevo neanche stendere le gambe perchè me lo impediva il vaso da notte sporco e puzzolente, pieno di escrementi umani. Il sistema di lavaggio non funzionava. Al mattino seguente, molto presto, cominciai a grattare con una moneta il corpo del vaso, liberandolo dallo sporco accumulato nel tempo dal lontano giorno dell’ inaugurazione del Coroneo al tempo dell’Austria. Mi ricordai che avevano parlato in paese di questa inaugurazione del nuovo fiammante carcere austriaco di prima della grande guerra, il Coroneo, attrezzato con servizi sanitari moderni di allora. I guardiani si accorsero dell’oggetto pulito e lucente come mai prima.

Questo mi portò molta fortuna e diventai “scopino”, posto ambito da molti concorrenti. Mi mandarono subito a pulire il loro gabinetto alla turca, molto sporco. Gli scopini che mi avevano preceduto non l’avevano pulito cercando sempre di evitarlo.

Come “scopino” avevo una posizione molto privilegiata, rimanevo tutto il giorno fuori dalla cella. Lavavo il reparto minorenni, anche la sala dove l’ufficiale tedesco, persona molto importante, riceveva i prigionieri che arrivavano dalla Via Cologna, dai Gesuitti o da altrove e li spediva ai Silos, da dove Gueli li spediva in Germania.

Pulivo anche l’ufficio dell’ufficiale ed era molto contento del mio lavoro. Quando venivano i familiari dei detenuti, il secondino anziano mi mandava a chiamarli. Avevo anche l’accesso alla cucina. Conobbi il sig. Ermenegildo che scriveva a macchina tutti gli scritti che arrivavano dall’esterno, redatti a mano e spesso difficilmente leggibili. Un giorno mi mandarono a prendere il commissario Pola, un personaggio importante da poco arrestato. Vennero a prelevarlo per portarlo all’esecuzione. Quando li vidi portarlo via, scoppiai in lacrime.

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CHIAMATE DALLA VIA COLOGNA (47)

Quando Collotti ritornava dalle sue operazioni nei dintorni di Trieste, trovava nei suoi rapporti espressioni slave che non capiva. Allora mi mandava a prendere al Coroneo. Dovevo tradurre in italiano i nomi e le località. Per esempio: ”Venzo Juckov iz Boršta

“ tradotto in “Vincenzo Petirosso di Sant’Antonio in Bosco”, dopodichè un agente presente esclamò: “Lo abbiamo ai Gesuiti!”. Mi mostravano foto di persone ricercate, credevano che potessi riconoscerle. Io cercavo di evitare il riconoscimento e questo li faceva arrabbiare e di conseguenza si sfogavano su di me. Se vedevo che tenevano le dita libere e iniziavano a stringerle, allora suonava uno schiaffo sonoro, prima dalla sinistra e poi dalla destra. Se invece le dita si stringevano, partiva un pugno direttamente all’altezza dello stomaco. Quando invece il mio intervento non li sodisfaceva e cadevo a terra, arrivava il ”vecchio scarpone”. Cosi finiva tutto e mi riportavano sfinito al Coroneo.

Collotti non poteva capire che l’Italia dopo il ‘18 alla fine della guerra, quando doveva venire a Trieste il re, aveva italianizzato in tutta la Venezia Giuglia 500.000 termini sloveni. Per Collotti le terre occupate erano italiane ed era per lui logico che gli abitanti fossero solo italiani, non sopportava la presenza di sloveni, croati ed ebrei.

OSPEDALE PARTIGIANO “FRANJA”

TRIESTE Coroneo marzo 1945

Al Coroneo, nella cella nr. 47, incontrai due giovani ragazzi venuti dall’estremo nord della Venezia Giulia, Konrad e Ivan. Si erano offerti volontari, per la Flak tedesca a Gradisca che era la contraerea a quattro canne. Quando erano certi che ero della resistenza slovena, prima della loro partenza per Gradisca, mi parlarono del loro volantariato. Non potevano più vivere chiusi in cella, venivano da un mondo di montagne e prati e boschi liberi,

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volevano uscire dalla prigione. Portavano con sè un grande segreto. Nei pressi del loro paese i partigiani avevano costruito in una gola profonda un ospedale partigiano che i tedeschi non riuscivano a trovare in nessun modo. Tutti nel paese avevano l’incarico di provvedere alla manutenzione e al riforimento dell’ospedale. Il materiale arrivava da Gorizia e Trieste, perciò avevano evitato il contatto con me, potevo essere una spia.

IDRIA 15 agosto 1947

Doveva partire da Trieste una comitiva per visitare l’ospedale partigiano “FRANJA” che era l’ospedale di Konrad e Ivan. Decisi di unirmi alla comitiva perché mi interessava l’ospedale che era stato costruito in grande segreto in un posto impossibile: 16 baracche bene attrezzate, la sala chirurgica, una sala per gli operati e la cucina con il camino che non doveva fumare troppo. C’era anche un piccola cascata con una “Turbina De Laval“ che forniva abbastanza corrente elettrica per l’ospedale. Nell’ospedale avevano salvato 575 feriti gravi e c’era stato anche qualche ferito grave del nemico che vi aveva ricevuto cure e trattamento umano.

Alcuni anni dopo la guerra, i due compagni della cella nr. 47 di Coroneo, Konrad Ivan, mi scrissero dall’America. Nell’aprile 1945 a Gradisca avevano aiutato gli Americani. Si erano fatti volontari proprio poco prima della fine della guerra, vennero riconosciuti come soldati USA e gli americani li presero con sé in America. Non sono mai ritornati in Europa.

TRIESTE 17 aprile 2015

L’Unione Europea ha conferito all’ospedale partigiano “Franja” il Marchio del patrimonio europeo. Il sito è iscritto sulla lista sperimentale del patrimonio mondiale dell’UNESCO: Gola Pasice presso Dolenji Novaki, vicino a Cerkno a nord di Idria in Slovenija.

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L’OTTAVO dei miei giorni di RICORDO

LA CONDANNA A MORTE

Trieste 15 marzo 1945

Vennero a prelevarmi dal Coroneo. Quando giungemmo in Via Cologna 6/8, notai uno strano movimento. In mezzo al cortile interno c’era un giovane vestito da aviatore con la testa in una strana posizione. Accanto un agente di Collotti lavava con una “spingarda” da pompieri il cortile sporco di sangue. Il giovane si era gettato dalla finestra della stanza in cui attendeva di essere torturato.

Mi portarono in gran fretta al primo piano, nella solita sala di tortura, non volevano che guardassi il cortile. Avevano paura che l’acqua sporca di sangue uscisse sulla Via Cologna.

La “macchina elettrica” era al suo posto come sempre. Questo mi dava quasi il benvenuto. La macchina produce dolori quando la usano, ma alla fine lavano con l’acqua le brucciature e vengono cancellate tutte le macchie nere delle fiammate. Entrò un agente, portava delle tenaglie e il fil di ferro. Alla vista di tutte queste ferraglie, il mio corpo fu pervaso da un’inquietante angoscia. Spirava un’atmosfera di inquisizione di quando si usavano altri metodi di tortura fisica con conseguenze peggiori che duravano molto tempo prima di essere sanate.

Entrò Collotti e mandò tutti gli agenti con tenaglie e fil di ferro a sigillare le finestre, affinchè altri non ne approfittassero come aveva fatto il giovane visto sul cortile per terra. Poi Collotti uscì con la “macchina elettrica”, restò solo lo scrivano, ma anche egli dovette andare via a sigillare le finestre e non sapeva cosa fare di me. Mi sfilò dalla sedia, mi rimise le manette e mi appese, avevo pochi chili, al chiodo sotto il soffitto con i piedi che non potevano toccare il pavimento. Sento ancora i dolori ai polsi. Quando tutti

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ritornarono, mi trovai disteso sul pavimento. Lo scrivano maneggiava dei fogli appena arrivati che aveva mandato Gueli.

Poi mi guardò e chiese:

“Dove sei rinchiuso?”

“Al Coroneo!”( 12 )

“Come ti trovi?”

“Molto male! Siamo in sette e abbiamo una sola coperta, il vetro della finestra si è rotto per lo spostamento dell’aria quando hanno bombardato il vicino Hotel della posta.”

“Il capo vuole chiudere il tuo caso: abbiamo deciso di mandarti in un posto molto CALDO”

Era una condanna a “MORTE”!(13)

Proprio a me doveva capitare? Non riuscivo a pensare ad’altro, la paura era infinita. Tornando al Coroneo mi chiedevo: ”L’ispettore speciale Giuseppe Gueli, aveva la LICENZA DI UCCIDERE SENZA UNA SENTENZA”.

TRIESTE 1947

ll Tribunale chiamò Giuseppe Gueli a deporre. Si era rifugiato nella sua nativa Catania. Non si presentò, ma mandò una lettera nella quale si difendeva: ”Quello che ho fatto a Trieste come ispettore speciale era per la salvezza dell’italianità’ di Trieste”.

Al Coroneo tenevo segreta la mia condanna. Non volevo che si ponesse su di me un’attenzione ancora più grande. Come scopino avevo molto spazio di movimento. Oltre alle pulizie, aiutavo l’anziano secondino in servizio all’entrata principale della prigione interna per quanto riguardava tutte le chiamate che arrivavano dall’esterno. Dovevo portare le richieste scritte con brutta calligrafia allo scrivano sig. Ermenegildo in cantina, vicino alla

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cucina, per poi riportarle al secondino scritte a macchina e in bella copia. Ermenegildo era una persona meravigliosa, cercava di aiutare tutti. Aveva molta esperienza e molte informazioni utili, era convinto che le condanne a morte in Risiera si sarebbero eseguite forse già al inizio aprile e le fucilazioni a Opicina verso fine aprile. Quindi avevo tre settimane a disposizione per trovare una soluzione chemi permetesse di salvarmi. Non potevo attendere il 1 maggio a fine della guerra come previsto. La prigione aveva, dietro la cucina, un grande vano con le caldaie di riscaldamento fuori servizio già da molti anni. Il cuoco era anche disposto ad aiutarmi. Per nascondermi c’era anche la cabina nera dove si dormiva su un tavolazzo e si riceveva solo pane e acqua. Il locale era usato pochissimo e forse anche il tetto andrebbe bene, ma fine aprile era ancora troppo lontana e faceva ancora freddo.

I russi stavano entrando a Berlino, gli alleati forzavano il fronte oltre il Reno. In Italia si arrivava oltre il Po, verso Milano. Molte anime temevano di non arrivare salve alla fine. Io facevo circolare una carta geografica dell’Europa centrale con i fronti bene aggiornati degli eserciti alleati contro il nazifascismo. Tutti volevano essere informati e vedere la carta per sognare la fine.

LA CELLA nr. 100

Nella cella 100 era rinchiuso il comandante partigiano Joško Franc Uršič di Caporetto, ferito e fatto prigioniero. Lo offrivano in cambio di un ufficiale della SS, ma Uršič non accettava lo scambio.

Il 5 aprile il cuoco mi chiamò per portare il pranzo all’ ospite della cella 100. Accettai volentieri l’incarico, ma avevo paura di ciò che mi aspettava. Infatti, la porta era presidiata da un agente armato. Aperta la porta, vidi su un mucchio di paglia della carne insanguinata. Era difficile pensare che si trattasse di un corpo umano. Le gambe e le mani erano spezzate e solo con fatica riuscì a trovare una faccia sporca di sangue asciutto. Grattai con un

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cucchiaio le labbra, gli ofrii un cucchiaio di zuppa calda. Non appena ebbe sentito il caldo sulle labbra, tutti i suoi muscoli tesi si rilassarono. Non potei offrirgli altro, la sentinella sulla porta iniziò a protestare, il tempo era scaduto!

6 aprile CORONEO

LA CELLA ERA VUOTA. JOŠKO FRANC URŠIČ di Caporetto morì il 7 aprile 1945 in Risiera di San Sabba di Trieste mentre si stava avvicinando la fine della guerra.

LA LETTERA NON IMPOSTATA

Le prime due celle nel corridoio dei minorenni al piano terra venivano tenute libere a disposizione del vicino Tribunale per casi speciali. Gli ultimi giorni di marzo ‘45 arrivò nella seconda cella un giovane ufficiale tedesco. Si vedeva che gli avevano strappato le mostrine dei gradi. Doveva essere un caso grave. Il giorno dopo mi bussò mentre lavavo il corridoio dei minorenni. Con molte difficoltà dovute alla lingua cercò di spiegarmi che apparteneva a una famiglia austriaca e aveva una moglie slovena. Il fratello della moglie era stato ferito e lui laveva nascosto per curarlo. Il fratello di questo ufficiale, che era anche ufficiale tedesco, scoprì il segreto e lo denunciò. Il cognato ferito fu condannato a morte e così pure egli stesso dal tribunale militare tedesco.

L’ufficiale mi cosegnò una lettera indirizzata a sua moglie e mi pregò di impostarla dopo la guerra. Gli spiegai che anch’ io ero condannato a morte e lui mi strinse la mano commosso. Gli promisi che se fossi restato vivo, avrei senz’altro spedito la lettera. Purtroppo non c’era più tempo, nascosi la lettera nel canale dell’aria sopra la porta della mia cella. Il secondino mi cercava perché erano arrivati dei documenti da portare al sig. Ermenegildo che doveva copiarli a macchina.

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Il NONO dei miei giorni di RICORDO

EVASIONE dalla prigione Coroneo a TRIESTE

ll secondino anziano davanti l’entrata principale della prigione ricevette una lunga lista con 86 nomi di detenuti dalla Banda Gueli Collotti di Via Cologna 6/8, scritta a mano. Dovevo portarla portare in cantina dal sig. Ermenegildo che doveva scriverla a macchina in bella copia. Compilò la lista e l’ultimo nome era di mio padre Zahar Rocco al quale aggiunse il mio nome e ottenne:

Nr.

86

ZAHAR ROCCO GIORDANO

La gioia era immensa, speravamo di avere fortuna. Radunati nella grande sala, il conteggio fatto dai guardiani non andava bene. L’ufficiale tedesco che non aveva fiducia negli italiani, ci mandò tutti giù nel cortile interno e ordinò a mio padre di tradurre le sue parole: chi sarà chiamato, faccia un passo avanti, fuori dalla fila. Chiamò il nr 86, uscimmo dalla fila tutti i due. Non si era accorto dell’inventiva di Ermenegildo. Ebbe inizio la salvezza, la MIA EVASIONE!

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Foto nr. 5 Banda - Gueli - Collotti Sant' Antonio in Bosco – Mocco 1945 Foto nr. 6 Zona di "rastrellamento" Gueli - Collotti Torture, sedia elettrica, violentazioni

Foto nr. 7 Via Cologna

Via Cologna 6/8 centro Gueli – Collotti

»Ti manderemo in un posto molto caldo«

al forno di Risiera a San Sabba Trieste

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Foto nr. 8

Prigione Coroneo

Prigione »CORONEO« via Nizza Trieste

Miei 100 giorni, vitto e alloggio

»EVASIONE«

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La sentenza di Giuseppe Gueli Ispettore Speciale

Via Cologna 6/8 Trieste 15 marzo 1945

Ti manderemo in un posto molto caldo.

Giuseppe Gueli: Io sono evaso dal Coroneo

Non avrai nè il mio scalpo, né le mie ceneri!

Nota: Ti assicuro che per fare del male non occorre essere intelligenti, perciò dal Gran Sasso ti avevano mandato a Trieste con la licenza di uccidere.

Scritto a TRIESTE CORONEO 6 aprile 1945 dopo l’EVASIONE!

TRIESTE 04 maggio 1945

NECROLOGIO

L’Ispettore Generale dell’ Ispettorato Speciale di Via Cologna 6/8 Trieste, Giuseppe Gueli mi ha condannato a morte il 7 aprile 1945.

Il 6 aprile 1945 sono EVASO dalla Coroneo.

Il quattro (04) Maggio 1945 sono ritornato a casa. Il Vescovo Santin, scrive a mia madre:

“Vostro figlio Zahar Giordano è morto il 7 aprile 1945 in Risiera di San Sabba a Tieste.

Il Parroco del paese Franc Malalan ha portato la lettera del Vescovo con il necrologio e la riporta al Vescovo per archiviarla.

PARTENZA per la Germania

Uscimmo dal Coroneo in fila per tre. Pensai: ora sono libero, “l’EVASIONE“, sognata dal 15 marzo ‘45 è riuscita. Se ora mi metto a correre su per la Via Nizza, dal punto più alto della

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prigione, qualche agente mi spara! Anche se riesco a fuggire, non potrò andare a casa, Collotti mi farebbe cercare. Se invece resto nella colonna e marciamo insieme, nessuno verrà a cercarmi, cosi sarò con loro a vitto e alloggio. Il 1º maggio sta arrivando, noi non raggiungeremo Dachau, Monaco è lontana.

Ci portarono alla stazione ferroviaria. Il treno non partì perchè a Jesenice in Slovenia, i partigiani avevano minato la ferrovia. Andammo a Roiano nella caserma Stock, attendevamo nuovi ordini. Improvisamente arrivò dal Coroneo l’ufficiale tedesco, prende Stanko, il corriere partigiano condannato a morte da Gueli e lo riporta al Coroneo. Era successo che il govanissimo Berdon Bogdan, il più giovane tra i minorenni, venne scambiato con Stanko per salvarlo. Ma la cosa non riuscì. Stanko andò a finire in una delle celle nere in cantina, a pane e acqua una volta al giorno. Fu dimenticato e lo liberarono i suoi partigiani il 1º maggio. Collotti aveva cercato il padre Berdon, ma non lo trovo’ a casa a San Giuseppe. Arresto’ il figlio Bogdan e sua sorella Majda. Ambedue furono liberati il 20 aprile dall’ufficiale tedesco per onorare il compleanno di Hitler.

Nel proseguimento verso Palmanova, i cosacchi ebbero l’ordine di portarci a Tarvisio. Di notte, gli aerei degli alleati avevano distrutto i ponti, la strada e la ferrovia a Chiusaforte. Ci sbarcarono sul posto e si cominciò subito a lavorare sul ripristino del traffico. Dovevamo fare questo lavoro tutte le notti sotto i riflettori fino al il 29 aprile. Infinite clonne di pesanti camion tedeschi erano pieni di bottino di guerra e lo trasportavano verso la Germania.

Fine della guerra

DOGNA 30 aprile 1945 (31)

Il caporale della TODT, la grande impresa di costruzioni nazista, disse a mio padre: ”Hitler è morto! Spero che ci mandino a casa!”

Non era ancora tutto finito. Io caricai mio padre sulle spalle, aveva

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Spoštovani, ta tekst je zaradi omejitev ISSUU krajšan na 50 strani, povezavo do cele knjige dobite na našem spletnem mestu

Gentili Signori, a causa delle restrizioni ISSUU, questo testo è stato accorciato a 50 pagine, potete trovare il link all'intero libro sul nostro

sito:

http://www.zb-koper.si/publikacije.html

Hvala za razumevanje.

Grazie per la vostra comprensione.

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