Matteo Zola
SLAVIA IL MONDO DEGLI ANTICHI SLAVI
Matteo Zola è giornalista professionista, direttore responsabile di East Journal, collabora con alcune riviste occupandosi di politica internazionale. Ha lavorato come redattore a Narcomafie, occupandosi di crimine organizzato transnazionale. Si è formato presso l’Università di Torino dove ha conseguito Laurea magistrale in Filologia e Linguistica e Master biennale in Giornalismo.
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East Journal è una testata registrata presso il Tribunale di Torino, n° 4351/11, del 27 giugno 2011. Direttore responsabile Matteo Zola.
INDICE CAPITOLO UNO – ŏrīgo Da dove vengono gli slavi / Lo slavo comune / Il vocabolario comune / La radice indoeuropea / Il paleoslavo
CAPITOLO DUE - migrātiō Gli slavi e gli avari / Espansionismo slavo / La Germania slavica / I serbi dalla Polonia ai Balcani / Quando i croati fondarono Cracovia/ Invasioni o migrazioni? / L’etimologia del termine “slavo”
CAPITOLO TRE – sŏcĭĕtās Il mito delle amazzoni / Il mito delle rusalki / il mito della dea Lada / Il ratto delle fanciulle / Libertà sessuale prima del matrimonio / La moglie col prete / I diritti della donna / Il cristianesimo e la vittoria del maschio / La proprietà privata, un’imposizione esterna / La zadruga nei Balcani / In Russia, il mir e l’artel’ / Il collettivismo sovietico
CAPITOLO QUATTRO – religio La mitologia slava delle origini / Le crociate dell’est / La competizione tra Roma e Costantinopoli / Conversione come legittimazione / Lo shock estetico / Cirillo e Metodio, i santi della scrittura / L’eresia bogomila in Bosnia
CAPITOLO CINQUE – impetum I protobulgari, fondatori di un impero / I cazari, ebrei delle steppe / I cumani, vittime o collaborazionisti? / Il conte Dracula era turco? / I tataro-mongoli, incubo d’Europa / Gengis Khan era cristiano? / La lunga lotta dei russi contro i tatari / Giogo tataro o pax mongolica?
CAPITOLO SEI – slavophilia La nascita di un’idea / L’idea panslavista nasce in Polonia / Il panslavismo federale, utopia antizarista / Bakunin, l’utopia infranta / Dal panslavismo agli “slavofili” / Occidentalisti vs slavofili
CAPITOLO SETTE – gentes Gli slavi d’Italia / I pomacchi, musulmani di Bulgaria / I ruteni, popolo dai mille confini / I sorabi, slavi di Germania / Gli arumeni, esuli della romanità / Gli ashkali, egiziani dei Balcani / I tatari di Polonia / I tatari di Crimea
si ringraziano per i contributi Davide Denti [tatari di Polonia], Pietro Acquistapace [cumani], Carlo Pallard [tatari di Crimea] e Christian Eccher [ashkali]
CAPITOLO UNO
D
a dove vengono gli slavi? Quale fu il loro spazio originario? Sono interrogativi senza risposta. Sappiamo che appartengono al grande ceppo indoeuropeo, e sappiamo che giunsero alle porte d’Europa tra il secondo e il terzo secolo dopo Cristo. Cosa fu di loro prima di allora lo si può a malapena dedurre dai ritrovamenti archeologici che ne mostrano la progressiva “iranizzazione”, ovvero un processo di assimilazione di alcuni tratti culturali di popolazioni indoeuropee come i sarmati, gli sciti, gli alani, con cui gli slavi entrarono in contatto e che occuparono l’area della moderna Persia. Dalle popolazioni iraniche
ŏrīgo apprenderanno anzitutto la coltivazione della terra e la cremazione dei morti, tratti salienti della cultura slava fino alla conversione al Cristianesimo avvenuta intorno all’anno Mille. Quando arrivano alle porte d’Europa gli slavi hanno una cultura già definita, una propria produzione artigianale e una forte connotazione agricola. Non hanno scrittura (non l’avranno fino al IX° secolo d.C.) ma parlano la stessa lingua, lo “slavo comune”. Si stanziano nel bacino del Pripjat, tra i fiume Dnestr e Dnepr, o almeno così si crede. A spingerli in quelle terre, a cavallo tra le moderne Ucraina e Bielorussia, è la spinta di altri popoli che premono verso ovest. È infatti quella l’età delle grandi migrazioni.
Lo “slavo comune”. La lingua originaria degli slavi è oggi deducibile grazie alla filologia, esistono infatti molte parole comuni nelle moderne lingue slave grazie a cui è stato possibile stabilire quale fosse il “proto-slavo”, detto anche “slavo comune”, da non confondersi con il “paleoslavo”, di cui parleremo più avanti, che è stata la prima lingua letteraria. Lo “slavo comune” andò differenziandosi via via che le tribù slave si allontanavano tra loro, nello spazio e nel tempo, dopo aver lasciato la “culla” originaria nel bacino del Pripjat. Cosa fu a dividerle? La spinta di altre popolazioni provenienti da oriente, come gli unni e gli avari, frantumarono l’unità slava costringendo le tribù a disperdersi. Queste, nella loro diaspora, arriveranno a occupare uno spazio immenso che va dal Baltico al Mar Nero. L’uniformità linguistica ha retto fino al nono secolo, pur deteriorandosi rapidamente dal sesto secolo in poi. Ne sono nate una dozzina di lingue tra loro collegate da molti dialetti. Oggi, da Mosca a Praga a Skopje, la differenza non è così grande come sembra e sono ancora circa millesettecento le parole comuni. La differenziazione è stata progressiva, tuttavia è stata più marcata dove la continuità tra genti slave è stata spezzata. Ad esempio gli slavi che, dalla “culla” originaria, si Lo spazio slavo nel VI° secolo d.C. diressero verso ovest, si trovarono a un certo
punto separati dagli slavi del sud a causa della presenza germanica e magiara. Le lingue slave si dividono oggi in tre gruppi che raccolgono lingue tra loro simili:
lingue slave occidentali: polacco, ceco, sorabo e casciubo
lingue
slave
Le lingue slave oggi
slovacco,
orientali:
russo, bielorusso, ucraino
lingue slave meridionali: sloveno, macedone, serbocroato e bulgaro
Il vocabolario comune Dal vocabolario comune possiamo comprendere quali fossero le conoscenze tecniche degli slavi e come fosse il loro ambiente originario: descrivevano l’ambiente circostante con termini specifici per l’elemento acquatico (fiume, torrente, lago, mare ma anche palude, fango, acquitrino, ghiaccio). Conoscevano le stagioni, segno che vivevano in una zona temperata, e sapevano definire il tempo. Fanno pare del vocabolario comune il miglio, l’orzo, l’avena, la canapa e il lino, e usavano l’aratro, la vanga, il rastrello, il falcetto e la zappa. Conoscevano l’albero del melo ma non il faggio, cui diedero nome
solo dopo essere migrati verso le terre dei germani (lo chiameranno “buk”, dal tedesco “buche”). Il loro mondo spirituale era fatto di divinità legate alla terra, alla guerra, ma anche a virtù morali (come amore, odio, giustizia, vendetta, bene e male, saggezza e castigo) che avevano sviluppato ben prima dell’incontro con il Cristianesimo. Ma è nella definizione delle strutture famigliari che raggiungono livelli tali da superare i germani, segno dell’importanza e della complessità dei rapporti sociali. I termini per descrivere queste realtà restano ancora oggi comuni ai popoli slavi.
La radice indoeuropea. Gli slavi sono sicuramente indoeuropei Questo si riscontra proprio nel vocabolario famigliare: mat, in russo, e mati in ucraino, ceco, serbocroato, bulgaro e sloveno, sono l’equivalente del latino mater e del tedesco mutter. Nel russo e nel bulgaro il termine sestra corrisponde al latino soror, quindi sorella, soeur, sister. Lo stesso vale per il russo brat, che è brother in inglese e frater in latino. La casa è dom in molte lingue slave, come in latino è domus, ed evidente è la comune origine del latino mare e dello slavo more. Interessante, in ambito tecnico, la parola kamen, che in slavo vuol dire pietra ma la cui radice “kam” è da accomunare alla radice germanica “ham“, che in inglese dà “hammer” (martello, che è
fatto di pietra) e l’islandese hamarr conserva il significato originario di “roccia”. Lo spazio slavo originario resta tuttavia difficile da definire e proprio per questo si è spesso prestato ad essere immaginato. E’ anzitutto uno spazio psicologico, un luogo vasto e perduto cui riandare nei momenti di difficoltà, quando l’identità delle nazioni slave è oppressa. Un’identità tuttavia forte, la cui specificità si è mantenuta grazie al relativo isolamento in cui gli slavi si sono trovati tra il 1000 a.C. e il 500 d.C.. Da quel momento in poi inizierà la storia degli slavi per come oggi la conosciamo. Una storia europea.
Il paleoslavo. Non esistono testimonianze scritte della lingua degli antichi slavi. I primi testi scritti risalgono al IX° secolo e si devono all’opera dei fratelli Cirillo e Metodio, gli “apostoli degli slavi”, che – incaricati di una missione di conversione presso gli slavi da Fozio, patriarca di Costantinopoli - codificarono un alfabeto in grado di tradurre i suoni dello slavo. Tale alfabeto, detto glagolitico (da glagol “verbo” ) era composto di 40 caratteri di cui 24 derivati dal corsivo medievale greco. Resta invece incerta e misteriosa l’origine degli altri 16 segni. Alcuni ritengono possano essere basati su antiche rune in uso presso gli slavi durante l’epoca pre-cristiana. Quel che è quasi certo è che i due fratelli si siano basati sul dialetto slavo di Tessalonica, l’attuale Salonicco, che all’epoca registrava una massiccia presenza di slavi. L’alfabeto fu lo strumento con cui Cirillo e Metodio poterono intraprendere l’opera di conversione delle popolazioni slave e servì da impulso alla produzione letteraria slava. Il paleoslavo, detto anche slavo ecclesiastico, ha giocato un ruolo basilare nella storia delle lingue slave, evolvendosi poi nella moderna lingua slava ecclesiastica, che viene usata ancora oggi come lingua di liturgia da alcune chiese ortodosse e greche cattoliche nell'Europa orientale. La nascita dell'alfabeto glagolitico è strettamente connessa a Effigie dei santi Cirillo e Metodio motivazioni politiche e culturali ed è questo il segreto del suo successo. I capi slavi compresero che la conversione al Cristianesimo li avrebbe messi al riparo dalle influenze e dalle violenze dei potenti vicini, il regno franco e quello bizantino. E capirono che possedere una propria scrittura equivaleva a una dimostrazione di indipendenza. L’opera di conversione di Cirillo e Metodio fu quindi accolta con favore, specialmente in Moravia dove era sorto il primo stato slavo. Qui il principe Rastislav richiese la presenza di un numero sempre maggiore di missionari al fine di rafforzare l'autonomia del proprio stato, sottraendolo così alla dipendenza dal clero germanico, che corrispondeva a una dipendenza dal regno franco. Il glagolitico venne usato in Moravia tra gli anni 863 e 885 a scopi religiosi e statali. I missionari fondarono l'Accademia della Grande Moravia (Veľkomoravské učilište), dove vennero istruiti nuovi missionari. Presto però l’opera dei due missionari venne messa in discussione dalle autorità religiose, l’opera di conversione venne interrotta, il glagolitico venne proibito, i discepoli dell’Accademia della Grande Moravia vennero perseguitati. Alla morte di Cirillo e Metodio, furono due discepoli, Clemente e Naum, a recuperarne l’eredità perfezionando l’alfabeto glagolitico: il nuovo alfabeto venne chiamato “cirillico” in onore del loro maestro. Un nuovo regno slavo, quello di Bulgaria, raccolse i missionari “profughi” della Moravia diventando così un importante centro culturale. Qui l’opera di Cirillo e Metodio diede i suoi frutti. Nei secoli il paleoslavo si evolse originando, intorno al XVI° secolo, lo slavo ecclesiastico moderno che fu lingua letteraria di tutti gli slavi. Una lingua di cultura che servì da base alla codificazione delle moderne lingua slave.
CAPITOLO DUE etnogenesi degli slavi fu un processo molto lento e tuttora oscuro: arrivati dalle steppe dell’Asia essi devono avere completato il loro percorso di costruzione etnica nello spazio che va tra il Dnepr e in Dniestr, nel bacino del Prjpiat. Da questa “culla” europea gli slavi mossero verso ovest all’iniziò nel V° secolo provocando continui processi di aggregazione e disgregazione di gruppi che andavano via via diversificandosi tra loro anche
L’
migrātiō linguisticamente dove, in luogo di un protoslavo comune, cominciarono a prendere piede le parlate locali (a tutt’oggi restano circa duemila parole comuni nelle lingue slave, ed è cosa che un viaggiatore può facilmente sperimentare visitando l’Europa dalla Macedonia alla Russia). Il processo di migrazione delle popolazioni slave è dunque connesso alla loro diversificazione e segna l’ingresso degli slavi nel cuore d’Europa, dalla Polonia ai Balcani, da cui non sarebbero più andati via.
Gli slavi e gli avari. A spingere gli slavi sempre più addentro al continente europeo fu la pressione di altri gruppi, in particolare unni e avari. Dopo aver sterminato i discendenti delle tribù unne, gli avari – una popolazione turcica proveniente dalle steppe – incorporarono e assimilarono i superstiti (Grousset, L’empire de steppes) e, attraverso progressive espansioni, intorno al VI° secolo giunsero nel basso corso del Danubio dove già stanziavano popolazioni slave e longobarde. L’Europa nel 650 d.C.. Il regno avaro nel mezzo
Lo storico Menandro restituisce una cronaca dettagliata di quegli anni in cui, sfruttando la potenza avara, i bizantini cercarono di liberarsi delle popolazioni slave consentendo al re avaro Baina di transitare “con sessantamila cavalieri armati di corazza” nel territorio dell’Impero. Vale forse la pena spendere due parole sugli avari la cui lingua, di origine uralo-altaica, suggerisce che l’origine di questo popolo sia da cercare nelle remote regioni dell’Asia centro-settentrionale da cui sono giunti, in differenti epoche, tutti i popoli turcofoni che hanno partecipato alle vicende storiche europee, come gli unni, i cazari, i bulgari, i tatari e i mongoli. Il gruppo delle lingue uraloaltaiche comprende oggi tutte le lingue turciche (il turco, il kazako, il turkmeno, il kirghiso, e altre), quelle mongoliche (calmucco, buriato, mongolo) e quelle uraliche (samoiedo, finnico, ungherese) parlate da popolazioni che sono eredi dirette di quelle genti che – con alterne fortune– mossero dalle steppe dell’Asia centrale verso l’Europa e la Cina tra il V° e il XII° secolo. Gli avari furono tra i primi a intraprendere la lunga marcia verso occidente. Nel V° secolo li troviamo nel bacino del Volga dove, secondo lo storico antico Prisco, scacciarono la tribù dei sabiri grazie ad una "nebbia rosa che provenendo dal mare spaventò le genti" e fu seguita da "innumerevoli avvoltoi che calarono sulle persone". La descrizione, con accenti apocalittici, dell’arrivo degli avari in Europa restituisce lo spavento che generò la comparsa di questi cavalieri delle steppe, con capelli rasati e lunghe code, e dalle numerose cicatrici sulle gote che servivano a impedire la crescita della barba, da loro ritenuta simbolo di bassezza morale. E’ una descrizione che ritroveremo ogni volta che nella storia un cronista europeo racconterà l’arrivo di uno di questi popoli delle steppe, quasi un topos narrativo tramite cui esaltare la superiorità della propria civiltà di fronte alla forza di genti ignote e, giocoforza, barbare. Al seguito del capo Baian (565 – 602), gli avari giunsero fin nel cuore dell’Europa stanziandosi nell’area dell’odierna Ungheria arrivando a cingere d’assedio Costantinopoli (626 d.C.). Il loro regno confinava a nord con il regno dei franchi, a sud con l’impero bizantino e a ovest con l’Italia longobarda. Malgrado fossero dediti alla pastorizia e all’agricoltura (della quale erano espertissimi), non disdegnavano le razzie e le incursioni negli stati vicini. Carlo Magno, nel 791, decise di porre fine al regno avaro con un’operazione militare che li annientò per sempre. I superstiti, in buona parte ormai cristianizzati, fuggirono nei Balcani mescolandosi ad altre genti, tra cui gli slavi. Il rapporto con gli slavi deve essere stato intenso e risale fino al V° secolo, quando gli avari giunsero nel bacino del Volga al confine di quella che allora era l’area in cui vivevano le popolazioni slave. La spinta degli avari verso occidente provocò una migrazione degli slavi verso l’attuale Germania e Polonia.. La dominazione avara fu tale da essere ricordata secoli dopo, con compassione e terrore, dal monaco kieviano Nestore di Pečerska, nel suo Racconto dei tempi passati. Fredegario, storico alla corte dei Merovingi, all’inizio del VII° secolo narra di come gli slavi fossero usati dagli avari come “carne da macello”, prime linee durante le battaglie. Le tribù slave ancora libere si saldarono allora in un’unione che, in Slovacchia, Moravia e Boemia, diede vita a un proto-Stato slavo in grado di fermare gli avari, che premevano a sud, e i germani che spingevano da ovest. Era quello il regno della Grande Moravia, di cui parleremo più avanti.
Espansionismo slavo. Liberatisi del giogo avaro, ma non dalla cultura dei dominatori, gli slavi ebbero diverse fortune. Alcune tribù si saldarono nel regno della Grande Moravia, fondato da un mercante franco, Samo, ma capace di resistere per un secolo e mezzo alle pressioni dei franchi. La maggior parte delle genti slave migrò verso l’attuale Polonia o cercò rifugio nei Balcani. Fu un fenomeno migratorio di vastissime proporzioni che interessò regioni lontanissime tra loro: dall’Asia minore all’Africa settentrionale, da Creta fino all’Elba. Ne nacquero, nel giro di due secoli, regni stabili nei Balcani, lungo la Vistola, sul Baltico e oltre il Dnepr.
Diffusione degli slavi tra VI° e IX° secolo
La differenziazione tra i gruppi fu lenta ma inesorabile, favorita dalle cesure operate da successive espansioni gotiche o germaniche che isolarono per certi periodi le gentes slave. Dove non si formarono regni autonomi, gli slavi vennero assimilati (in Grecia), deportati (dalla Macedonia), combattuti e vinti (in Tracia), federati all’Impero bizantino (in Asia minore), colonizzati (in Germania orientale). Nella Spagna arabo-berbera della dinastia Omayyade gli slavi furono dapprima utilizzati come mercenari, poi come schiavi, e infine (coloro che seppero affrancarsi dalla servitù) come dignitari dei califfi. A questo milieu culturale si devono i primi testi slavofili, come quello a firma di un imprecisato Habib dal titolo: Contro coloro che negano l’eccellenza degli slavi. Il testo, scritto probabilmente da un intellettuale di origine slava, era redatto in arabo. E in Italia? A Palermo, fino al 1090, quando ebbe termine la dominazione araba sull’isola, esisteva una “via slava”, a render conto della presenza di quella comunità in città. Già nel VII° secolo si assistette a migrazioni dalla Dalmazia, sovente associate ad atti pirateschi, e di proto-bulgari nelle Marche. Risale al 926 un documento che attesta con l’appellativo di župan (vale a dire “signore”, in serbo) il reggente della città di Vieste. La presenza slava nella penisola è quindi millenaria, con buona pace di chi oggi parla di “stranieri” inaccettabili.
Lo “spazio slavo”come spazio psicologico. Questa espansione verso il cuore dell’Europa segnerà i confini psicologici dello spazio slavo. Uno spazio che, anche quando le genti slave ne verranno scacciate, resterà come retaggio mitico. Il retaggio slavo fu una delle giustificazioni culturali della permanenza della Germania orientale nella sfera di influenza sovietica, al punto che la minoranza slava locale, i Sorabi, vennero assurti a testimonianza vivente della “slavità” di quelle regioni. Alla “slavia” perduta andranno i canti e i poemi cechi, polacchi, ucraini, durante le varie occupazioni straniere che nei secoli hanno caratterizzato i destini della nazioni slave. Durante il romanticismo, nell’Ottocento, alcuni letterati slavi – come il boemo Jan Kollar – troveranno nella “slavia” perduta il seme per una nuova rinascita culturale. E tra le regioni “perdute” la più cara, ed amara, è senz’altro la Germania.
La Germania slavica. Nel tardo VI° secolo le popolazioni slave erano ormai penetrate saldamente in Europa, varcando la Vistola e l’Elba, e giungendo fino ad Amburgo. La gran parte del continente europeo era popolato da genti slave che, partite secoli prima dal bacino del Pripjat, si erano spinte in varie direzioni incontrando alterne fortune. A interessarci, per adesso, sono però quegli slavi che migrarono verso occidente e che occuparono aree ampiamente disabitate, abbandonate e lasciate vuote dalle popolazioni germaniche che avevano a loro volta intrapreso la marcia verso sud. Successivamente nota come “Germania slavica”, fu un ‘area di importante diffusione delle popolazioni slave che lasciarono un segno ancora oggi riconoscibile. La prima domanda è: perché gli slavi si mossero verso ovest in quello che Francis Conte, nel fondamentale testo Gli Slavi, definì un “maremoto”? La prima ragione va cercata nell’arrivo delle genti gote nelle regioni della moderna Ucraina, in quel bacino del Pripjat che rappresenta la prima “patria” europea degli slavi. Qui i goti spezzarono l’unità slava delle origini spingendo gli slavi verso occidente e verso settentrione. Una decisiva spinta verso ovest venne dall’avanzata di avari e unni nel IV° e V° secolo, che andò rafforzando la tendenza migratoria. Così nel secolo VIII° gli slavi si trovavano ben addentro al cuore dell’attuale Germania, in terre lasciate liberi dai germani emigrati verso occidente e meridione: dall’Holstein alla Baviera, fino a Bamberga e Ratisbona, era tutta “slavia”. Come lo era anche la Prussia, terra che Bismark volle affermare “cuore” della nazione tedesca. A dirci della presenza slava in Germania è oggi la toponimia. Non una disciplina da prendere sotto gamba poiché il pretesto dell’etimologia fu usato proprio dai tedeschi, fin dai tempi delle guerre franco-prussiane, per reclamare questa o quella cittadina in Lorena e in Alsazia. Successivamente anche il
nazismo usò l’elemento storico per rivendicare uno “spazio vitale” a scapito dei paesi slavi confinanti, arrivando persino a ritenere Danzica una “città da sempre tedesca” malgrado la radice Kdzanzk sia protoslava.
In rosso l’area di diffusione degli slavi nella moderna Germania durante il VII° secolo
Una testimonianza più evidente della presenza slava nell’attuale Germania è nel nome della città di Berlino che nulla ha a che vedere con l’orso, simbolo della città (“bar” in tedesco medievale), ma deriva dallo slavo “berlo”, ovvero “bastone” o “palo”, termine che ancora oggi si trova in ucraino, polacco e ceco. “La città circondata da una palizzata”, questo il significato di Berlino. Poco più a sud di Berlino c’è Lipsia, dallo slavo “lipa”, cioè “tiglio“. Tale radice è alla base di molti toponimi nei paesi slavi, su tutti Lipica, in Slovenia, che diede origine al cognome del filosofo tedesco Leibniz. E’ poi evidente come Graz tradisca la radice slava “grad“, ovvero “la città”, diffusissimo in tutti i paesi slavi. La regione della Pomerania, oggi polacca e un
tempo germanica, deriva dall’antico slavo “po more”, cioè ” a ridosso del mare”. Nel limite estremo della Pomerania sorgeva Stargrad dove “star” è la radice di “vecchio” che i tedeschi hanno rinominato Oldenburg, semplice traduzione del precedente nome
slavo. A sud della Pomerania si trova il Brandeburgo, germanizzazione dello slavo “branibor” dove “bor” sta per “bosco” (come ancora oggi in russo e polacco, mentre è “pino” in bulgaro) e “bran” indica “difesa” e “protezione”. Quindi “bosco che protegge“.
Le popolazioni slave erano stanziali in buona parte della Germania attuale e lì sono rimaste fino alla “riconquista” tedesca intorno al Mille. Sono però stati gli slavi a fondare le città e a civilizzare un’area che le tribù germaniche avevano – nel IV° secolo – abbandonato. Un elemento che non può che far riflettere quanti, nel secolo scorso e in quello attuale, hanno fatto ricorso a narrazioni di stampo nazionalista per rivendicare primazie o proprietà su alcune regioni. Il nazionalismo ha sempre usato l’elemento storico per giustificare rivendicazioni di ordine squisitamente politico. Nel caso della Germania, la ricerca di una radice tedesca nei toponimi di Alsazia e Lorena è stata alla base di rivendicazioni territoriali che nascondevano l’ambizione di possedere quelle importanti e ricche regioni. Sempre in Germania, la negazione della radice slava dei toponimi tedeschi è una delle rimozioni storiche dettate dal sentimento nazionalista. Non solo, ma nei primi decenni del Novecento si diffuse negli ambienti nazionalisti tedeschi la convinzione che gli slavi non fossero indoeuropei (o, come dicevano allora, “indogermanici”) e che quindi non potessero far parte della “razza dominante” europea. Il Generalplan Ost fu la trasposizione politica delle teorie razziste antislave: si trattò di una grande opera di pulizia etnica che tra il 1939 e il 1942 riguardò l’Europa centro-orientale e in particolare la Polonia. Lo scopo era quello di ripopolare “antiche aree germaniche” con coloni tedeschi. Ma, come si è visto, quella “antiche aree germaniche” erano precedentemente slave. Fu con le conquiste di Carlo Magno che gli slavi cominciarono a regredire verso est, e quando il Sacro Romano Impero assunse un carattere tipicamente “germanico” (Trattato di Verdun, 843 d.C.) la “riconquista ” fu completata. La nascita di un ordine monastico cavalleresco, l’ordine teutonico, avrebbe poi fatto piazza pulita degli ultimi slavi pagani rimasti in circolazione. Solo la conversione al Cristianesimo mise gli slavi al riparo, entro un certo limite, dal massacro perpetrato dal clero e dalla nobiltà germanica. Un massacro tale che secoli dopo – in pieno romanticismo – il poeta ceco Jan Kollar chiamo la Germania “tomba degli slavi”. Abbiamo dunque visto che alcune popolazioni slave giunsero nell’attuale Germania e Polonia già nel VI° secolo, popolazioni che non chiamavano se stesse “slavi”, visto che questo nome – come vedremo – è successivo. Gli etnonimi delle tribù slave non erano fissi e dipendevano in larga misura dalla zona di insediamento: “drevliane” erano le tribù insediate nelle zone boschive (“drevo” è appunto il temine protoslavo per “bosco”, “legno”), polabi erano gli slavi lungo l’Elba (“po”, cioè “presso” e “Loba”, cioè il fiume Elba), e così via. Esisteva però un termine collettivo per
definire gli slavi occidentali la cui radice “serb/szerb” è ancora oggi riconoscibile nel nome di almeno due moderni gruppi slavi, come i serbi nei Balcani e i sorabi in Germania, e di molte località della Polonia meridionale. “Serbi”, così probabilmente si designavano collettivamente (o erano designate da altri popoli confinanti) le popolazioni giunte tra il sesto e l’ottavo secolo in Polonia e Germania. Ma sono gli stessi serbi che oggi ritroviamo nei Balcani?
I serbi dalla Polonia ai Balcani. La risposta è senz’altro affermativa. “Serbo” fu un nome collettivo dato a una popolazione slava molto ampia con cui i franchi ritennero opportuno di entrare in contatto vista la loro sempre più massiccia presenza ai confini del regno, quando non al suo interno. Le prime relazioni tra franchi e serbi sono del V secolo ma l’etnonimo “serbo” è più antico, già usato da Tacito nel 50 a.C e poi da Plinio il Vecchio, nel 77 a.C., esso si riferiva però a una popolazione sarmata nel Caucaso del Nord. Qualche secolo dopo, nel 350 d.C., sarà Ammiano Marcellino a chiamare i Carpazi “montes Serrorum” da cui le popolazioni circostanti avrebbero preso il nome. L’etnonimo “serbo” sarebbe quindi di origine latina anche se alcuni studiosi ritengono che gli slavi occidentali chiamassero se stessi “serbi” anche prima della nominazione latina e che anzi “serbo” sia una corruzione della parola “slavo”. Due sviluppi paralleli? Non sappiamo. Sappiamo però che quello era un nome collettivo con cui tutti gli slavi occidentali chiamavano se stessi pur facendo convivere questa denominazione con altre particolari e “locali”. Sappiamo quindi che “serbi” erano tutti gli slavi che si trovavano a occidente, lungo le sponde dell’Oder e della Vistola. Alcuni gruppi mutarono di nome (o vennero diversamente designati) con il procedere del tempo. Erano (forse) ‘serbi’ quegli obroditi che vivevano alle due sponde (ob) del fiume Oder (Odra) e lo erano pure i polabi che vivano presso (po) il fiume Elba (Loba). Sappiamo che obroditi e polabi si insediarono poi nel litorale baltico (facendosi così “pomorani“, cioè coloro che vivono lungo la costa del mare) e che vennero sterminati dai cavalieri teutonici in quelle che furono chiamate “crociate del nord”, tese a far piazza pulita dei “pagani” del Baltico. Altri gruppi, abitanti le grandi pianure del’attuale Polonia centrale, presero il nome di “polani“, dallo slavo “polje”, cioè “campo aperto”, “piana”. E sarebbero i polani i progenitori del polacchi. Tra il VII° e il X° secolo alcuni gruppi slavi presero la via del sud a seguito della “riconquista” germanica o semplicemente perché alla ricerca di terre migliori in cui vivere. Queste scesero nei Balcani e verso l’Egeo portando con sé etnonimi consolidati. E’ il caso di “serbo” che venne poi a designare un gruppo via via più specifico tra gli slavi del sud. Ma a testimoniare la provenienza “polacca” e germanica dei serbi di oggi ci sono i toponimi: Serbow, vicino al fiume Oder; Sarbia, nell’attuale Polonia; Sarby in Slesia; Szarbia, vicino a Cracovia; e molti altri. Nomi che marcano un territorio, quello della “Serbia Bianca” o “Serbia Lusaziana”, territori a cavallo tra Polonia, Germania e Repubblica Ceca. I serbi che oggi conosciamo sono quindi eredi di quei “serbi bianchi” come pure lo sono i croati, i bosniaci, i montenegrini e gli sloveni: tutti figli della migrazione che dalle pianure dell’Europa centroorientale mosse verso i monti dinarici. Questo
lungo percorso racconta del processo di differenziazione dei popoli slavi la cui origine comune è testimoniata dal vocabolario (sono ancora migliaia i termini in comune tra le moderne lingue slave). Malgrado quella comune origine non sono mancate nella storia occasioni di opposizione in cui l’elemento “etnico” si è fatto strumento per affermare divisioni sovente “inventate” o comunque recenti. I moderni nazionalismi dimenticano, o nascondono, la comune origine degli slavi, specialmente di quelli balcanici.
Quando i croati fondarono Cracovia. Sotto la denominazione collettiva di “serbi” coesistevano altre denominazioni circoscritte. E’ il caso dell’etnonimo “croato” la cui origine si perde nella notte dei tempi. Tra gli studiosi è opinione diffusa che tale termine sia di derivazione slavo-iranica. Bisogna spiegare adesso cosa s’intende per “slavo-iranica”. Fino al V° secolo gli slavi vissero a stretto contatto con i sarmati, una popolazione iranica stanziata tra l’Ucraina centrale, il Caucaso e la Russia meridionale. Una terra che gli antichi greci chiamarono Sarmazia e che è attestata con il nome di “Sairima” nell’Avesta, il testo sacro dello Zoroastrismo, antica religione praticata in quello che oggi è l’Iran. Secondo gli antichi greci i sarmati erano sciti, altra definizione collettiva che in greco andava a indicare tutte le popolazioni affacciate a nord del Mar Nero. Sciti e sarmati erano “iranici”, una civiltà oggi scomparsa che si connotava per la cremazione dei morti e la tripartizione sociale, per la tradizione dell’allevamento dei cavalli e dell’agricoltura, oltre che per una lingua indoeuropea. Oggi l’osseto è l’ultimo retaggio linguistico derivante dalla lingua scito-sarmatica.Gli slavi furono per molto tempo a stretto contatto con le popolazioni iraniche, forse da loro appresero l’amore per l’agricoltura (che li caratterizzerà) e l’abitudine a cremare i defunti. Forse erano loro quegli “sciti aratori” che – secondo Strabone – vivevano nel bacino del Dnepr, che abbiamo visto essere il primo luogo in cui gli slavi certamente si assestarono una volta giunti in Europa. Quello su cui gli studiosi concordano è che la lunga convivenza con i gruppi iranici influenzarono in modo decisivo
la cultura slava precristiana. Da quell’epoca deriva la parola “croato”, dal protoslavo xorvat, il cui significato resta misterioso poiché si tratta probabilmente del modo in cui altri popoli non slavi chiamavano quel gruppo che – come spesso accade – fece suo il nome che gli veniva attribuito. Il loro nome si fissò nella forma attuale anche grazie all’assonanza con la parola protoslava krak o krakula, cioè quercia. Questi croati erano parte delle tribù slave che mossero verso occidente intorno al sesto secolo. Erano parte di quel commonwealth di tribù dette “serbe” di cui abbiamo parlato. Arrivati nelle pianure dell’attuale Polonia meridionale diedero il loro nome alla regione, attestata nei testi antichi (si veda Il racconto dei tempi passati redatto a Kiev nel 1100 ad opera del monaco Nestore di Pecerska) con il nome Chrobatia (Crobazia), poi nota come “Croazia bianca”. Qui fondarono alcuni insediamenti che portano ancora il loro nome, come Chroberz (1153, Piccola Polonia), Chrobrza (1380 Kujawa) e Chrobrzany (1337 Malopolska). Su tutte spicca Cracovia che, secondo Francis Conte, fu fondata proprio da questi “croati” bianchi prima della migrazione verso meridione, unitamente ad altre genti slave (o “serbe”), fin nel cuore dei Balcani occidentali dando lentamente vita allo stato croato che, con la conversione al cristianesimo avvenuta nel 925, divenne uno stato “europeo” a tutti gli effetti, arrivando così ai giorni nostri e distinguendosi da quello dei serbi a causa del rito: romano, per i croati; greco per i serbi. Ancora una volta la storia ci svela quanto moderne siano le opposizioni. L’unità degli slavi discesi nei Balcani intorno al VI° e VII° secolo fu spezzata dalla conversione al cristianesimo greco (i
serbi) e romano (i croati). Eppure i due popoli erano uniti quando camminarono dal Mar Nero alla Polonia, e uniti restarono quando discesero nei Balcani dove continuarono a evolversi insieme, con gli stessi caratteri culturali e con la stessa lingua. Diceva il
celebre poeta (croato) Miroslav Krleza che “serbi e croati sono la stessa merda di vacca tagliata in due dal carro della storia”. A vederla in una prospettiva storica che non sia troppo appiattita sul presente, il solco che li divide non è poi così profondo.
Mappa del regno medievale di Polonia con riportati i nomi delle regioni. A destra si vede la “Chrobatia”
Invasioni o migrazioni? Ancora oggi buona parte della storiografia tende a sottovalutare l’importanza delle prime migrazioni dei popoli slavi in Europa destinate a mutare l’aspetto del continente conferendogli, di fatto, l’attuale conformazione etnica. Migrazioni, quelle slave, avvenute in contesto già altomedievale, con i regni romano-barbarici sorti dalla disgregazione dell’impero romano che stavano in buona misura proseguendo, adattandola, la lezione della latinità. Alle migrazioni (o, come si diceva un tempo, “invasioni”) dei popoli barbari è dedicata sempre maggiore attenzione, ma raramente ci si ricorda degli slavi. Si sente spesso parlare dei germani, dei goti, degli unni, ma gli slavi no. Ma la colpa è loro, di quegli antichi slavi che, pur lasciandosi andare a qualche efferatezza, non sono riusciti a colpire l’immaginario dell’epoca: niente brutalità seriali, niente distruzioni di massa, ma un popolo agreste e piuttosto pacifico che adorava i suoi dei silvani. Così pacifici da essere, loro in maggioranza, subalterni ad altre popolazioni.
Per comprendere però la natura delle migrazioni slave occorre fare un passo indietro. Come vedremo prossimamente alcuni regni slavi, come quello bulgaro e kieviano, non sono regni effettivamente “slavi” ma entità in cui un’aristocrazia non-slava comandava su una popolazione in larga parte slava. Eppure quei regni non furono una vessazione nei confronti delle genti slave ma realizzarono una progressiva fusione tra differenti culture. Occorre quindi capire come, nel Medioevo, le popolazioni (le gentes) non fossero gruppi etnicamente omogenei. Ne deriva che nessuna entità statuale possa dirsi “etnicamente pura”. E questo non vale solo per le popolazioni slave. I regni romano-barbarici, come pure i primi regni slavi, erano spesso il risultato della convivenza, e poi della fusione, di differenti elementi etnici. La moderna storiografia (Wenksus, Wolf, Pohl, fino al nostro Azzara) supportata dai metodi di ricerca antropologici, nega assolutamente l’omogeneità etnica delle popolazioni barbare (fossero germaniche, iraniche o slave) che migrarono in Europa con sempre maggiore intensità a partire dal IV secolo d.C. Si tratta di una lezione importante poiché scardina e disinnesca qualsiasi rivendicazione etnico-nazionale del presente che sia basata su concetti di purità, tradizione, alterità ed esclusione. Concetti assai presenti nelle retoriche dei partiti etnonazionalisti che, ad oggi, stanno avendo la meglio in Europa, abili a sfruttare le frustrazioni e le angosce del presente offrendo soluzioni consolatorie radicate in un passato mitico e inesistente. Ecco perché, prima di parlare delle migrazioni degli slavi, occorre dire di come effettivamente avvennero le grandi migrazioni dal IV al VII secolo d.C. Fino a tempi relativamente recenti, e ancora nei testi scolastici fino ai primi anni Duemila, passava la lezione che i barbari invasero, con violenza e saccheggio, l’impero romano e lo distrussero. Barbari rappresentati negativamente, con clave, pelli, senza cultura, che in orde si riversarono sulla civiltà latina. Sappiamo bene che dal III° al V° secolo i barbari vennero accolti nell’impero romano, al fine di difenderne i confini, come popoli federati. L’istituto della foederatio, regolato e disciplinato
attraverso precisi strumenti giuridici, poneva le popolazioni barbare come alleate cui veniva elargito un compenso per il servizio prestato: quello di difendere il limes dell’impero. Con il termine di foederati si potevano intendere sia truppe di differente entità numerica, sottoposte al comando dei propri capi e in genere impiegate presso le regioni di origine, sia popolazioni accolte entro i confini dell’impero per servire in armi e difendere i confini. Queste ultime erano soggette al regime dell’hospitalitas che prevedeva l’assegnazione di un terzo delle terre del territorio loro concesso. In questo modo quelli che erano nemici dell’impero ne diventavano alleati e difensori. E’ quanto accaduto, ad esempio, agli slavi che nel VII° secolo attraversarono il Danubio entrando in quello che era l’erede della romanitas, l’impero bizantino. Gli slavi stanziati a sud del Danubio si fonderanno poi con tribù turche delle steppe (i protobulgari) dando origine allo stato bulgaro, di cui parleremo in futuro. Il sistema della foederatio era tanto più necessario da quando, raggiunta l’espansione massima, l’impero dovette impiegare l’esercito a scopo difensivo e non già d’espansione, con costi di mantenimento altissimi (la crisi economica che fu tra le cause dell’implosione dell’impero romano si deve anche all’eccesso di spese militari). Nel tempo l’esercito andò “barbarizzandosi”, facendo così proprie tecniche militari innovative (come la cavalleria) e permettendo ai capi delle popolazioni barbare federate brillanti carriere politiche: nominati magistri militum dell’impero, essi andarono formando una classe aristocratica parallela a quella senatoria, sostenuta dalle armi. Divennero molto potenti: uno di loro, Odoacre, nel 476 d.C. avrebbe deposto l’ultimo imperatore, Romolo Augustolo. A loro volta i popoli, grazie alla costituzione antoniniana, divennero cittadini di Roma anche nella forma oltre che di fatto. Alla fine del IV secolo l’impero era già “barbaro”. L’invasione, raccontata dall’intellighenzia latina e amplificata dalle cronache cristiane, non ci fu. Questi magistri militum erano chiamati, dai loro popoli, reges e la loro funzione, dapprima elettiva, andò assumendo caratteri di sacralità (che ritroveremo nel concetto di regalità medievale). Il passaggio al cristianesimo sancirà la dimensione verticale del potere, in quanto il re esercitava il potere “per diritto divino”. Un passaggio che per gli slavi, tradizionalmente comunitari con un sistema di potere orizzontale e “democratico”, fu una vera e propria rivoluzione culturale. La formazione delle popolazioni barbariche che, in quattro secoli, penetrarono in Europa, sfugge da qualsiasi facile connotazione geografica e pretesa omogeneità etnica. L’archeologia ci racconta di gentes barbariche dagli usi e costumi assai simili, di influenze reciproche, e i criteri oggettivi fin qui utilizzati per classificarle scivolano nell’impossibilità di tracciare linee precise. Il lavoro di Rinhard Wenksus sulle gentes dell’alto medioevo ha avuto notevole importanza nell’accantonare ogni parametro di definizione oggettivo, ossia percepibile dall’esterno (come lingua, costume, usi particolari) sulla definizione etnica delle gentes adottando piuttosto un carattere soggettivo, vale a dire che un individuo appartiene realmente a una comunità quando acquisisce piena coscienza di esserne membro e ne adotta quei caratteri esteriori di lingua, usi e costumi. Tale adesione muove però da un assunto psicologico dell’individuo, da motivazioni interiori che pongono quindi l’appartenenza etnica sul piano della scelta personale. Più in generale sappiamo che le popolazioni dell’alto medioevo erano composte da gruppi di varia provenienza, unitisi durante le lunghe migrazioni, e che si riconoscevano in unica gentes quando ne condividevano, appunto, caratteristiche culturali nel frattempo modificatesi sia nel gruppo di origine che in quello di provenienza. A capo di tutto c’era poi il riconoscimento del potere e della leadership politica. E’ quello che Wenksus chiama “nucleo di tradizione”: un nucleo di individui socialmente eminenti di capi, guerrieri e talvolta sacerdoti capaci di proporsi come asse di aggregazione e detentori dei caratteri di un’identità etnica cangiante e adattabile. Questo nucleo di tradizione è, ad esempio,
quello turco che fondò e guidò lo stato bulgaro, oppure quello normanno che diede origine alla Rus’ di Kiev. Gruppi dirigenti non slavi per stati a maggioranza slava. Infine, come è ovvio, le popolazioni barbariche dell’alto medioevo non chiamavano sé stesse con il nome che loro attribuiamo oggi: longobardi, vandali, germani, sono (ed erano) denominazioni attribuite dall’esterno, in questo caso dall’intellighenzia latina. Gli scrittori latini attribuivano nomi e caratteristiche rigide alle popolazioni che incontravano, in quanto per loro i popoli barbari non mutavano. Tacito, nel suo trattato sui popoli germani, li accomuna su base geografica, senza tenere conto delle profonde diversità di quei popoli, diversità via via assottigliatesi con la formazione di gruppi più ampi ma che ancora nell’alto medioevo erano presenti. Eccezione fa il termine “slavo” che, come vedremo prossimamente, ha un’origine oscura.
L’etimologia del termine “slavo”. Dopo un’espansione che li portò, tra il quinto e l’ottavo secolo, in Asia minore e in Grecia, in Africa settentrionale e sul Baltico, gli slavi subirono la risposta dei franchi, dei tedeschi, dei danesi e dei bizantini che – dopo averne subito il “maremoto” – riguadagnarono al loro controllo ampie fette di territori slavizzati e ne assoggettano la popolazione ancora in larghissima parte pagana. In particolare fu notevole l’asservimento degli slavi occidentali i quali, occupate le pianure di una Germania abbandonata a seguito delle migrazioni verso sud di longobardi, franchi, goti e vandali, videro il rapido riorganizzarsi
dei gruppi rimasti in entità statali via via più organizzate. Bavari, sassoni e poi franchi, fino ai cavalieri teutonici, per circa due secoli gli slavi subirono la “riconquista” germanica. Tale “riconquista” fu così violenta che il poeta ceco Jan Kollar, nel XVIII° secolo, chiamò la Germania “cimitero degli slavi”. La schiavitù degli slavi divenne proverbiale e diede origine, in pressoché tutte le lingue europee, al termine “schiavo”. Il vocabolo latino “sclavus” (schiavo, appunto) fece la sua comparsa nel XIII° secolo sostituendo il termine classico “mancipium” (da cui “emancipare”, uscire da stato di
asservimento). Allo stesso tempo, nel greco bizantino, compare il termine “sklavos” per dire “servo, schiavo”. I due termini derivano da “slavo” (e non viceversa) poiché all’epoca gli slavi erano “schiavi per eccellenza”. Fu così che il nome di un popolo divenne un termine estensivo per una categoria di persone, tanto che oggi lo ritroviamo nell’italiano, nel francese (esclave), nel catalano (scrau), nel tedesco (sklave), nell’olandese (slaaf) e nell’inglese (calco perfetto, slave). Durante l’alto Medioevo carovane di slavi percorrevano l’Europa da una piazza all’altra, Venezia, Ratisbona, Lione erano i principali mercati per questa particolare “merce”. A Verdun si trovava il più importante mercato di eunuchi del continente. La riduzione in schiavitù delle genti slave fu moralmente possibile, ed anzi caldeggiata, proprio in virtù del loro paganesimo. Il Concilio di Meaux, nell’845, stabilì il divieto di vendere “merce” cristiana ma non riteneva che si dovessero avere particolari cure per i non battezzati. Non bastò a proteggerli la conversione al cristianesimo, poiché a sostituire i tedeschi furono i tataro-mongoli, che ne fecero razzia in Russia, e i mercanti musulmani durante il dominio ottomano sui Balcani: la schiavitù degli slavi di Bosnia ed Erzegovina è descritta nel Viaggio d’Oltremare del siniscalco di Filippo il Buono, nel 1432. Gli slavi, per l’Europa tedesca e il papato germanizzato, furono per larga parte del Medioevo considerati qualcosa “d’altro” rispetto all’Europa. Il mito dell’alterità slava, della loro
irriducibile diversità dal corpo latinogermanico, è durata dal Medioevo fino al Novecento: nei piani dei nazisti non c’era infatti anche l’eliminazione e l’asservimento degli slavi di Polonia? Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, con il diffondersi delle terribili teorie razziste, gli storici tedeschi giunsero ad affermare che gli slavi non fossero nemmeno indoeuropei (o “indogermanici”, come dicevano loro). Una falsità che derivava dal pregiudizio radicato nella storia tedesca, una storia che si è violentemente incrociata con quella degli slavi. Il pregiudizio era tale che il filologo tedesco J. Peisker, nel 1905, sostenne che gli slavi fossero stati schiavi fin dall’antichità: tesi – palesemente infondata – che faceva comodo a uno stato con ambizioni egemoniche verso est, e che occupava antiche terre slave. Tesi che sarebbe poi stata portata all’estremo dai nazisti che elaborarono, nel 1940, il Generalplan Ost che prevedeva l’eliminazione fisica e la deportazione di polacchi e cechi. L’assunto nazista era semplice: se sono schiavi da sempre, come sosteneva Peisker, è perché tale è la loro natura. Quindi perché non assecondarla? Ad Auschwitz sono molti i nomi di cittadini polacchi, non ebrei né oppositori politici, presenti negli elenchi degli internati. La loro colpa? Essere slavi e non essere abbastanza biondi. La teoria panslavista Abbiamo dunque visto come il nome di un popolo sia andato a designare una particolare categoria sociale, quasi a segnarne un destino. Ma cosa significa davvero “slavo”‘, da dove ha origine? L’etimologia è incerta. Nel XVIII° e XIX° secolo prese
piede una teoria che intendeva “emancipare” la parola “slavo”: secondo alcuni letterati russi, in piena temperie panslavista, l’etnonimo “slavo” deriverebbe dal sostantivo “slava”, ovvero “gloria” e “fama”. Un termine comune a molte lingue slave moderne che attesterebbe la grandezza originale degli slavi. Era quella una chiave di lettura ispirata dal nazionalismo e presto i linguisti ne dimostrarono l’infondatezza. La teoria celebrativa Quello che però è certo è che la radice “slav” deriva dall’indoeuropeo “klou / klau” (Villar) con il significato di “sentire“. In greco la radice “klou / klau” ha dato luogo alle nozioni di “sentire” e “ascoltare”, e chi è ascoltato ha fama. Esito simile a quello del latino “inclitus” (avere fama). Che quindi gli slavi fossero quelli che “avevano fama” è una ipotesi suggestiva e che ben risponde all’abitudine tipica dei popoli antichi di nominarsi in senso auto-celebrativo. A sostegno di questa tesi ci sarebbe l’analogia con il nome di un altro gruppo etnico dell’antichità, i Venedi, collocati da Plinio il Vecchio e da Tacito sulle sponde della “Vistla”, l’odierna Vistola. Un popolo che Tolomeo definì “di grandi dimensioni” ed “esteso sul golfo venedico”, cioè il Baltico. Secondo alcuni storici la presenza dei Venedi lungo la Vistola proprio nel periodo in cui gli slavi erano emigrati in quelle terre, deporrebbe a favore del fatto che i Venedi fossero slavi. La radice del nome dei Venedi è l’unica cosa certa: deriva dalla radice indoeuropeaa “wen”, con il significato di “amare”. Quindi “wenetoi” sarebbero “gli amati” o forse “gli amabili”, nel senso di amichevoli (stessa radice del popolo dei Veneti dell’Adriatico occidentale, italici; dei Veneti celti descritti da Giulio Cesare; dei Veneti illirici della Dalmazia; della tribù laziale dei Venetulanos). E’ questa un’altra nominazione autocelebrativa in cui taluni vedono un elemento a suffragio della teoria
autocelebrativa del nome “slavo”, poiché slavi sarebbero appunto i Veneti. La teoria dell’unità linguistica Due etimologie interessanti cominciarono a prendere piede nel secondo dopoguerra, facendo leva sui rinnovati studi di paleolinguistica e linguistica comparativa. Secondo la prima “slavo” andrebbe accostato a “slovo”, cioè “parola”. Gli slavi sarebbero quindi “coloro che parlano con le stesse parole” in contrapposizione a “nemcy”, i “muti” (è significativo che quell’appellativo, conservatosi nella lingua polacca, si riferisca oggi ai soli tedeschi). La connessione tra “slavo” e “slovo” è quasi automatica e sappiamo che molte tribù slave del Medioevo non distinsero mai i due termini. E’ questa la teoria più accreditata e diffusa. La teoria geografica Suggestiva è poi la teoria geografica. Grazie all’archeologia sappiamo che le genti slave, prima della grande migrazione verso il cuore dell’Europa che differenzierà i vari popoli, vivevano in uno “spazio comune” situato nel bacino paludoso del Pripjat, tra i fiumi Dnepr e Dnestr. Secondo alcuni studiosi il termine “slavo” indicherebbe proprio quello spazio originario acquitrinoso, derivando dall’indoeuropeo “skloak” (che in latino ha dato origine a “cloaca” che significa “canale di scolo” o “acquitrino”). Insomma, il classico trasferimento del nome del luogo al popolo che vi abita, cosa per altro comune tra le genti slave: la tribù dei Vislani, che viveva lungo il fiume Vistola (oggi Wisla in polacco); quella dei Pomerani, che viveva po (a ridosso) more (del mare); quelli che vivevano nelle pole (pianure), cioè i polani / polacchi. Secondo questa teoria gli slavi sarebbero dunque “il popolo che vive negli acquitrini”, in quella regione originaria da cui sono poi migrati per segnare per sempre la storia d’Europa.
CAPITOLO TRE
sŏcĭĕtās
e genti slave che arrivarono in Europa nel VII secolo dopo Cristo non avevano una rigida divisione tra i sessi, e non esisteva una subalternità socialmente codificata della donna nei confronti del’uomo. Anche il pantheon paleoslavo annoverava molte divinità femminili legate al culto della terra e della fecondità. Divinità non secondarie per genti dedite all’agricoltura più che alla guerra. Secondo alcuni storici la “libertà” sociale della donna nei popoli slavi dell’alto Medioevo si deve alla profonda influenza esercitata dalle genti scizie e sarmate. Addirittura per questi popoli si ipotizza la presenza di donne guerriere da cui discenderebbe il mito delle amazzoni. Le amazzoni sono un popolo di donne guerriere diffuso dalla mitologia greca, il loro nome deriverebbe da “amazòn” ovvero “senza seno”, asportato per poter meglio combattere e imbracciare l’arco. Erodoto, nel suo celebre Storie, già nel V secolo avanti Cristo, evocava con dovizia di particolari quelle donne guerriere che, collocate sulla piana del Don, si univano ai giovani sciti prendendoli come amanti giusto il tempo della fecondazione. Erodoto descrive quella che racconta essere la loro storia: sconfitte dai Greci, sarebbero emigrate fino alla palude Meotide (l’attuale mare d’Azov) ove si sarebbero unite ad un gruppo di Sciti dando origine ad un unico popolo: i “Sauromati”, i sarmati appunto.
Il mito delle Amazzoni Il mito delle Amazzoni sarà un grande topos letterario dell’alto medioevo. Con ogni probabilità è giunto in Europa proprio insieme ai sarmati, popolazione seminomade di cavalieri che, spinti in Pannonia dalle migrazioni dei goti, si fusero con le popolazioni slave presenti nella bassa Moravia, ove poi si sviluppò il primo grande regno slavo della storia. Il mito e la storia incrociano più volte sarmati e slavi. Una certa mitografia fa risalire ai sarmati l’origine dei polacchi, e certo influenze ve ne furono, ma storicamente ha la stessa validità dei galli progenitori dei francesi. Il mito delle amazzoni lo ritroveremo nel VIII secolo dopo Cristo nell’Historia Longobardorum di Paolo Diacono e ancora nel X secolo il viaggiatore arabo tortosano Ibn Ya’qub parla di donne guerriere nelle sterminate pianure della Rus’. L’elemento mitologico trova riscontri nelle cronache dell’alto Medioevo: Cosma di Praga, padre della storiografia boema, nel XII° secolo narra di donne ceche che
“desideravano ardentemente possedere armi ed eleggevano capitani all’interno del gruppo. Stavano in guerra né più né meno dei maschi e come questi cacciavano nelle foreste.
Né facevano differenze tra abiti maschili e femminili”. In tempi successivi riscontriamo come le donne fossero ammesse nella successione nobiliare in Polonia. La libertà sessuale era assai ampia. Sempre Ibn Ya’kub racconta del privilegio delle donne serbe nello scegliersi lo sposo e, più spesso
ancora, di disporre di sé prima del matrimonio. Vedremo nella prossima puntata quanto ampia fosse la libertà sessuale delle donne slave assai diversa da quella che ci costumava nel resto d’Europa. Una “libertà” della donna che la lenta ma progressiva cristianizzazione ha fortemente ridimensionato ma di cui sopravvive tutt’oggi qualcosa nei movimenti femministi contemporanei. Un’eredità delle (chissà quanto mitiche) amazzoni? Massimiliano Di Pasquale, nel suo Ucraina terra di confine, racconta di Asgarda, un gruppo di centocinquanta ragazze che si
Il mito delle rusalki. Naturalmente, non erano tutte rose e fiori nemmeno nell’alto Medioevo. Un mito più di tutti restituisce la volubilità della condizione femminile: quelle delle rusalki. Le giovani che, disperate, si sono gettate nell’onda rapida dei fiumi, si mutano rusalki, piccole onde che un giorno potrano vendicarsi dell’amante infedele attirandolo nei gorghi. E’ il tema di un celebre scena drammatica di Puskin: “Da que momento in cui, fuori di me, ragazza disperata e disprezzata, mi gettai nelle acque del profondo Dniper mi trovai rusalka fredda e possente, ogni giorno penso alle vendetta, ed ora, a quanto pare, è giunta la mia ora”. La parola rusalki (rusałki, rusálke, rusalije, pусалки) è un termine generico per indicare le divinità, gli spiriti e i demoni femminili associati ai fiumi e ai laghi nella mitologia slava. Le varie tradizioni slave connotano differentemente le ruslaki, variandone caratteristiche fisiche e funzioni. In Russia sono note come beregine (da bereg, che significa sponda, riva). Nei Balcani vengono chiamate samovile dai bulgari e vile da serbi e croati. Il loro aspetto era attraente, giovane ed erotico: lunghi capelli intrecciati e occhi verdi, nude o vestite solo di fiori, il loro scopo era attrarre l’uomo infedele nelle spire dell’acqua. In taluni casi erano
proclamano discendenti delle Amazzoni. Kateryna Tarnovska, leader del movimento, dichiara che lo scopo è emancipare l’Ucraina dal retaggio totalitario, liberando i sogni e desideri delle donne. Donne che vivono secondo una regola comune, e le cui figlie vengono “educate” dal gruppo una volta raggiunta l’età di tre anni. L’acqua è l’elemento sacrale. Asgarda, nome dell’associazione, fa riferimento alla mitologia nordica. Un pasticcio culturale? Non proprio se ricordiamo che il primo regno russo, quello kieviano, è stato fondato da guerrieri vichinghi. Tutto si tiene, nel passato nel presente delle donne slave.
rappresentate come donne metà pesci, come le sirene della mitologia classica.
Per inciso, il simbolo della città di Varsavia, legato al mito fondativo, è appunto una sirena. In generale venivano associate all’acqua e alla primavera, e potevano influire sulla fecondità delle donne, sui
raccolti, sulla pesca, curare malattie, ma anche causare la morte. Le rusalki erano dunque figure pericolose: la notte uscivano dall’acqua sedendosi sui rami dei platani e chiamando gli uomini di passaggio. Se questi erano infedeli, venivano travolti dalle acque e uccisi. La donna tradita, divenuta rusalka, poteva liberarsi dalla sua condizione demonica quando l’amante infedele veniva infine punito. La rusalka oggi. Alle rusalke sono ancora oggi dedicate feste. In Ucraina vengono ricordate con una festa all’inizio della primavera, connessa alla fecondità. E’ interessante notare come il mito delle rusalki racchiuda una serie di significati, in parte sopravvissuti nel folclore e nella mentalità slava, che fanno della donna un essere magico, legato alla ri-generazione della natura, ma al contempo demoniaco. Un essere capace di vendicarsi se viene tradito il patto amoroso. Un essere che può dare la morte pur legandosi alla vita, che agisce dominata dall’odio perché ha conosciuto l’amore. E’ forse temerario affermare che questo mito sopravviva – per estremo – in movimenti come le Femen (che nude, appunto, attraggono con l’inganno erotico ma il cui scopo è una rivendicazione sociale) o nelle Pussy Riot, in cui l’elemento erotico presente fin nel nome si lega a un ben più radicale messaggio politico. Il patto che è stato rotto è appunto quello sociale, il riconoscimento della sostanziale uguaglianza tra i sessi da parte della società maschilista e patriarcale tipica di alcuni
paesi slavi.. Certo queste sono anche, e soprattutto, espressioni di una realtà commerciale e la critica sociale è solo un elemento di marketing. Uscendo dai casi di cronaca, invero un po’ estremi, esiste nella donna slava un richiamo all’autonomia che si scontra con il paternalismo di società mascoline e muscolari. Sono le donne che spesso emigrano, per supportare con le loro rimesse la fragile economia famigliare, anche al costo di lasciare i figli alle cure dei nonni o del padre rimasto in patria. Una scelta di grande coraggio e sacrificio che conferma, se ce ne fosse bisogno, la grande caparbietà delle donne – non solo slave.
Il mito della dea Lada. Persistente nell’inconscio collettivo degli antichi slavi era il mito della dea Lada, simbolo del potere femminile e dell’irresistibile attrazione esercitata dalla donna. Come il sole riscalda la terra, dandole vita, così la donna – che trae forza dalla grande dea – attrae l’uomo sollecitandone gli ardori. Non a caso uno dei giochi di origine pagana durati più a lungo nel mondo slavo è il gorelki, verbo che significa appunto “ardere“, che si traduceva in un inseguimento che allude al rapimento rituale della donna, oggetto di amore e odio, di attrazione e paura, di desiderio e violenza. Poiché se la donna ha ricevuto dalla dea il sacro fuoco della vita che ella sola è capace di dare, allora catturarla significa catturare il fuoco cosicché la vita possa continuare
Il ratto delle fanciulle. Il linguista serbo Vuk Karadzic, uno dei padri della lingua serbocroata, nel suo dizionario serbo-tedesco-latino pubblicato a Vienna nel 1852, descrive il lemma otmica che, in serbo, significa “l’atto di rapire le fanciulle“. Un atto ancora in uso nel XIX° secolo in Serbia, ma non solo. Si entrava nella casa della ragazza, si metteva fuori combattimento il padre o il fratello, e si scappava con la fanciulla consenziente. La famiglia, lanciata all’inseguimento, li lasciava andare se il “ratto” serviva a mascherare l’impossibilità economica di sostenere il matrimonio ma più spesso gli dava la caccia, e non di rado scorreva il sangue. Qualora i giovani fossero sfuggiti, le famiglie parlamentavano e generalmente si
giungeva ad un accordo, altrimenti si incendiavano case e raccolti della famiglia del rapitore. L’usanza, nell’Ucraina del XVII secolo, prevedeva anche il superamento delle barriere di classe. Come racconta Guillame Lavasseur de Beauplan, il contadino poteva rapire, a suo rischio e pericolo, la figlia del suo signore. Dopo ventiquattr’ore di fuga il rapitore era assolto e se anche la fanciulla desiderava contrarre matrimonio, non si poteva rifiutarlo. Ma per chi veniva preso la punizione era il taglio della testa, senza processo. Ma l’usanza è assai più antica. Scrive il monaco kieviano Nestore nel suo Racconto dei tempi passati: “il matrimonio presso di loro (i Drevliani, antica tribù slava dei boschi) non esisteva ma venivano rapite le fanciulle presso le fonti”.
La libertà sessuale prima del matrimonio. Tuttavia nel ratto le donne sono oggetto, al più sono complici, ma certo non libere di decidere da sole. Presso gli slavi gli spazi di libertà femminili erano però assai più ampi: era infatti frequente che fosse la donna a scegliersi il marito. Scrive, nel X° secolo, il grande viaggiatore arabo Ibn’ Yaqub di passaggio per le terre slave: “Quando una giovane si innamora di un uomo, va alla casa di lui per soddisfare il proprio desiderio. E quando un uomo, sposata una fanciulla, la trova vergine, le dice: ‘Se alcunché di buono ci fosse in te, gli uomini ti avrebbero già voluta di certo e ti saresti recata da qualcuno che ti prendesse la verginità’. Indi la ripudia”. Contrariamente a quanto avverrà in epoca cristiana la verginità non è un valore, anzi il valore della donna è dato dalla sua capacità di trovarsi compagni prima del matrimonio. Il già citato de Beauplan, in merito alla situazione in Ucraina, scrive: “contrariamente ai costumi delle altre nazioni, la si vedono le giovani fare l’amore ai ragazzi che piaccian loro, e sono più convinte della riuscita di quanto lo sarebbero i maschi se fossero loro a cercarle”. Erano le femmine ad andare in casa dell’uomo prescelto e “perseveravano e si intestardivano a non uscire dalla stanza finché non avessero ottenuto quel che pretendevano”.
La moglie col prete. Non erano rari i casi di polinadria tra serbe, russe e polacche. Dai documenti ecclesiastici (dopo la conversione, quindi!) emerge con chiarezza la possibilità della donna di lasciare un marito e prendersene uno migliore, pubblicamente e con la piena approvazione della comunità. Non c’era nulla di peccaminoso, specie se l’uomo abbandonato non era in grado di procreare. Più spesso si ammetteva, in caso di infertilità del marito, che la donna potesse giacere con altri uomini “per necessità” e i figli fossero riconosciuti legittimi a tutti gli effetti. In Serbia, affinché il diavolo non ci mettesse del suo, la possibilità di darsi a un estraneo per essere ingravidata era limitata al solo prete del villaggio. L’opera pia e
meritoria (sevap) di aiutare la donna portandola dal pope è ancora attestata nel 1923. In Russia era invece dovuto alla forza della società patriarcale che la donna giacesse con il suocero se il marito non riusciva a fecondarla. Ancora in Serbia era frequente che le mogli, mandate in spose a bambini in età insufficiente alla procreazione, venissero soddisfatte dai padri degli impuberi. Ma qui il margine di libertà è evidentemente ridotto quasi allo zero.
I diritti della donna. Presso gli antichi slavi l’istituto della dote era l’esatto contrario di quello che conosciamo oggi. La famiglia del marito doveva infatti provvedere a una dote per la moglie. I figli maschi erano quindi considerati un onere poiché il padre doveva attingere al proprio patrimonio. Ecco perché raggiunta l’età della spada venivano mandati per il mondo a cercare fortuna. Il viaggiatore arabo Ibn Rusta, nel X° secolo, racconta: “Quando fra gli slavi nasce un maschio, il padre gli mostra una spada e dice ‘non ti lascio alcuna fortuna al di là di quella che ti guadagnerà questa spada”. Alla morte del padre erano solo le donne a ereditare anche in presenza di figli maschi. Dopo la conversione al Cristianesimo gli uomini slavi faranno di tutto, riuscendoci infine, per ribaltare questa usanza.
Il Cristianesimo e la vittoria del maschio. La situazione paritaria sotto molti aspetti,
dal diritto di voto nelle assemblee, al diritto all’eredità, a quello di scegliersi marito e persino ripudiarlo, non era certo vista di buon occhio dai maschi che si adeguavano alle usanze, consapevoli del potere della donna. Un potere “magico” che consentiva loro di far terminare le carestie (in Siberia le donne scavavano nottetempo un solco circolare intorno al villaggio colpito dalla carestia) e far abbondare i raccolti. Era il potere – il culto – della fertilità. Proprio quello che il Cristianesimo, giunto nelle terre slave ormai compiuta la svolta moralistica agostiniana, ricoprirà del senso della colpa o, peggio, dell’impurità della donna immonda del ciclo mestruale. Colpevole di essere donna, la donna subirà anche nelle terre slave la sorte spesso ingrata che ovunque ha conosciuto. La libertà sessuale fu allora impossibile ma divenne, quando praticata, il simbolo della rivolta alla società patriarcale e della sue convenzioni. Lev Tolstoj, in Guerra e Pace, mette negli occhi di Natasa Rostova tutto questo antico e moderno spirito slavo che il lungo perdurare delle usanze pagane fino agli albori della modernità ha conservato nelle donne slave. Una capacità di emancipazione ancora ben visibile nelle società contemporanee.
La proprietà privata, un’imposizione esterna. Leggere il passato con le categorie moderne è sbagliato, almeno nella ricerca storica. E’ la politica che usa il passato piegandolo a suo uso e consumo. Parlare dunque di proprietà collettiva, di vita comunitaria, dimutuo soccorso delle comunità slave del passato non deve spingere a facili conclusioni per quanto riguarda il presente. Cercheremo quindi di mostrare sommariamente quali erano i caratteri “collettivisti” della società tradizionali slave rispondendo infine alla domanda: la loro è una propensione naturale al socialismo? Domanda che si sono fatti in molti, da Marx in poi. Il lessico slavo attesta la presenza, fin dai tempi remoti, di una organizzazione territoriale comunitaria fondata sulla collettivizzazione delle terre: detta opole in Polonia, obcina in Boemia, verv’ nella Rus’ di Kiev, mir in Russia, zupa o zadruga nel Balcani. La Russia e la Serbia sono i paesi dove queste comunità tradizionali si sono conservate fino ai tempi moderni, mentre nei paesi slavi a stretto contatto con l’influenza (o il dominio) tedesco, la proprietà privata ha progressivamente fatto breccia. Già nell’XI° secolo il monaco Helmond, nella sua Cronaca degli slavi, racconta come i duchi tedeschi che conquistarono le terre dei polabi (nell’attuale Polonia) li costrinsero a coltivare “ciascuno il proprio campo” (agrum suum), a testimoniare come la proprietà privata sia giunta agli slavi come prodotto esterno. Era questa infatti la differenza sostanziale tra lo ius slavicum e lo ius teutonicum, il diritto slavo e quello germanico. Le strutture sociali antiche si sono conservate di più laddove il potere politico congiurava al mantenimento della società tradizionale, con i suoi privilegi e obblighi. La Russia zarista e l’impero ottomano sono stati tra i paesi più conservatori in tal senso. Ecco perché la Serbia, la Bosnia e la Russia sono tra le aree in cui, ancora fino all’Ottocento, la pratica collettivista era diffusa.
La zadruga nei Balcani. La zadruga era la struttura famigliare ed economica diffusa nei Balcani meridionali. A livello economico significava lavoro fatto in comune e possesso in comune dei beni. A livello famigliare era unaassociazione domestica guidata da un membro della famiglia (non necessariamente il più anziano) scelto per le sue qualità. La “scelta” lo rende un istituto flessibile e “democratico”. Non una rigida istituzione patriarcale, dunque, ma una comunità in cui il “capo” (lo starechina) non poteva decidere da solo né impegnare la comunità domestica senza averla prima consultata. Lo scrittore serbo Janko Veselinovic(1862-1905) descrive nelle sue novelle la vita della zadruga: “Entrate in casa sua [della donna] e vedrete che non c’è niente di personale. La nuora non poteva dire ‘questa è la mia chioccia, il mio tacchino, la mia oca’, nessuno osava proporre di dividersi la lana, la canapa o il lino. Insieme li preparavano e ammucchiavano. Poi, dal mucchio, ognuno prendeva quel che serviva”. La differenza tra lo “starechina“, il capo della zadruga, e il domacin, il capofamiglia, era tutta nel principio di autorità: il primo si rifaceva a un consiglio di famiglia, poteva essere sostituito e il gruppo poteva anche sciogliersi. Il secondo era il pater familias, padrone della moglie e dei figli, unico decisore delle sorti della famiglia. Due modelli antitetici di società che, talvolta, convivevano.
In Russia il mir e l’artel’. In Russia il “mir” era la veste amministrativa della comunità rurale. Un’istituzione puramente economica che consentiva, al suo interno, la presenza della famiglia patriarcale. Il “mir” nasceva per gestire collettivamente i beni della comunità, che poteva riguardare uno o più villaggi. L’amministrazione zarista incentivò il “mir” poiché le consentiva di interfacciarsi con entità singole da cui era più semplice esigere le tasse: questo portò alla perdita di spontaneismo e autogestione del “mir” che però conservava il principio di uguaglianza economica interna: ogni membro possedeva in relazione alle sue necessità, le terre
o gli armenti non erano i suoi ma gli erano affidati dalla comunità in relazione con i suoi bisogni. Se, ad esempio, il numero di componenti della famiglia fosse calato, il “mir” avrebbe ridotto le terre e il bestiame a lei destinati. L’artel’ era invece l’associazione temporanea di operai o artigiani che alloggiavano insieme per periodi limitati e in relazione a un lavoro da svolgere terminato il quale dividevano fra loro i profitti. Il lavoro era suddiviso durante assemblee giornaliere. Il buon andamento dell’artel’ discendeva dalla certezza egualitaria che la suddivisione del lavoro e la distribuzione dei proventi si portava dietro.
Il collettivismo sovietico. All’indomani del colpo di stato bolscevico, nel 1917, l’istituzione
dei kolkhoz andava a ricalcare il modello delmir. La dottrina sovietica vedeva nei contadini il “naturale spirito socialista del popolo russo“. Eppure il modello collettivista sovietico fu energicamente rifiutato dai contadini russi. Perché? Perché il “mir” non escludeva l’individualismo, la gestione collettiva non impediva di beneficiare di quanto prodotto. Nel “mir” individualismo e sentimento comunitario convivevano. Il kolchoz privava invece il contadino del beneficio della “roba”. Lo scrittore russo Solochov, nel romanzo Terre dissodate (1932) descrive la disperazione dei contadini costretti a entrare nel kolkhozy: “Tutti uccidevano le bestie, quelli che si erano iscritti al kholkoz [...] correvano voci: ‘Bisogna abbattere, non è più roba nostra”. Il “mir” e la zadruga sono stati riferimenti costanti del pensiero socialista e dei movimenti agrari che associavano il progetto rivoluzionario alla comunità rurale. Ma la proprietà collettiva di queste istituzioni era uno strumento di conservazione, di più: era la possibilità di autogestione, e quindi di libertà e sussistenza, a fronte della scarsità di libertà individuali dello stato autoritario. Lo stesso Marx individuò nel “mir” la “cellula del sistema capitalistico” da cui non poteva che svilupparsi uno stato liberale. E per questo la rifiutava. Engels, in una lettera a Marx del 18 marzo 1852, scriveva: “E ci verrà propinata nuovamente quella vecchia panzana panslavista che consiste nel trasformare in comune la proprietà comunale degli antichi slavi e nel far passare per comunisti nati i contadini russi”. Sono dunque gli slavi naturalmente portati al socialismo? La risposta sembra essere negativa. Anzi, il collettivismo tradizionale degli slavi è, secondo Marx ed Engels, contrario al comunismo. Occorreva quindi estirparlo. E con buona dose di realismo il socialismo sovietico – e in misura minore quello jugoslavo – lo estirparono conservando l’antico nome di mir e zadruga per istituzioni che più nulla avevano a che vedere con il collettivismo delle origini. Oggi nulla sembra essere sopravvissuto di quell’antica radice e, a ben vedere, è questo uno dei danni più grossi che il socialismo realizzato ha fatto alla cultura slava.
CAPITOLO QUATTRO
religio
Q
uando gli slavi giunsero in Europa portarono con sé un proprio corpus di leggende, culti e miti che costituivano quella che possiamo definire la “religione” degli antichi slavi. Non ci sono molte fonti in merito al paganesimo slavo, anche perché gli slavi non conoscevano la scrittura e non hanno potuto trasmettere nulla della loro cultura ancestrale. La maggior parte delle notizie sulla mitologia degli slavi deriva, quindi, principalmente dagli scritti di missionari e cronachisti cristiani, fonti non sempre attendibili, poiché caratterizzate da un atteggiamento di frequente disprezzo nei confronti del paganesimo slavo. La Cronaca slava del britannico Helmold è considerata una fonte piuttosto affidabile, come anche la Cronaca dei tempi passati, corpus di scritti annalistici attribuito al monaco kieviano Nestore di Pecerska ma ampiamente rimaneggiata in epoche successive.
La mitologia slava delle origini. Gli storici sono divisi nelle valutazioni in merito ai culti slavi che, secondo alcuni, sarebbero un esempio di enotismo, cioè di un tipo di religiosità che prevedeva la preminenza di un dio sugli altri, e questo spiegherebbe la relativa rapidità della conversione al Cristianesimo. Secondo altri studiosi, gli slavi sarebbero stati politeisti, con un pantheon di divinità diverse e paritetiche, ciascuna responsabile di un aspetto della vita e del mondo naturale. Il pantheon slavo si caratterizzava probabilmente per la presenza di tre ordini: quello celeste, con le divinità astrali (luna, sole, stelle…); quello naturale, con le divinità delle stagioni, agricole o atmosferiche; quello tutelare, con le divinità propiziatrici della guerra, della caccia, della fertilità. Il culto dei morti e il conflitto tra la luce e ombra erano caratteristici del paganesimo slavo. Le divinità della mitologia slava erano contemporaneamente creatrici e distruttrici di vita, come ad esempio nel caso di Jarylo, allo stesso tempo dio della primavera e della morte, simbolo dell’eterna rigenerazione. E’ un culto evidentemente derivato dall’agricoltura, attività legata alle stagioni e al ciclo di rigenerazione e morte. Tali culti sono sopravvissuti ben oltre la conversione al Cristianesimo fondendosi, in parte, con gli elementi della nuova religione. La conversione dei popoli slavi al Cristianesimo abbraccia circa due secoli e coinvolse, in prima battuta, solo le famiglie di più alto lignaggio, legate alla corte e alla nobiltà guerriera. La popolazione rimase per lungo tempo indifferente alla nuova fede e fu solo tramite una capillare e durevole opera missionaria che le genti slave divennero pienamente cristiane. La conversione degli slavi ebbe luogo in coincidenza con il progressivo distanziamento tra Bisanzio e Roma, generando così una competizione per la conversione di popoli (e regni) che era importante portare dalla propria parte. Fu così che la conversione degli slavi divenne il più importante terreno di scontro geopolitico dell’alto Medioevo. L’abbandono del paganesimo, d’altro canto, era divenuto necessario per i popoli slavi che erano ormai diventati oggetto di continue “crociate” che, accanto alla conversione forzata, avevano come esito la sottrazione di porzioni di territori che,
una volta assoggettati, diventavano parte di entità statali non slave. Le “crociate” del nord ebbero come vittime le popolazioni baltiche e slave e furono portate avanti dalla nobiltà germanica in cerca di nuove terre. Le èlites politiche slave compresero che solo convertendosi alla religione del nemico gli avrebbero tolto l’opportunità di invadere e distruggere gli stati slavi.
Le crociate dell’est. Qualche coordinata iniziale, tanto per capire di che parliamo. Il termine “crociata” si riscontra, nell’accezione moderna, per la prima volta nel XVIII° secolo. Successivamente il romanticismo, con la sua re-invenzione del Medioevo, ne produce tutto il corpus visivo che oggi conosciamo. Altra cosa. Il termine, certo, ha una origine medievale e indicava l’assunzione della croce, ovvero la sottomissione al potere della Chiesa: ne derivavano privilegi e immunità fiscali. Tra queste “sottomissioni” una era il pellegrinaggio, e ci stiamo avvicinando al punto. La crociata corrisponde a un movimento di pellegrinaggio armato lentamente affermatosi e sviluppatosi nel tempo – fra XI e XVIII secolo – che dev’essere inteso inserendolo nel contesto del lungo incontro tra le varie culture europee, tra cui occorre annoverare anche quella islamica, che – come scrive lo storico Franco Cardini: “ha prodotto positivi risultati culturali ed economici (come si giustifica altrimenti la notizia di frequenti amicizie e addirittura alleanze militari tra cristiani e musulmani nella storia delle crociate?)”. Cardini fa sue le tesi di Cristopher Tyerman, medievista di Oxford, autore del fondamentale libro:L’invenzione delle crociate (Einaudi). Entrambi gli storici concordano sul fatto che la ”ideologia” della crociata si è affermata e costruita lentamente, a partire dal diritto canonico del Duecento, per consolidarsi solo in età moderna alla luce delle lotte tra Europa cristiana e turchi ottomani. “La polemica illuminista contro le crociate nel nome della tolleranza religiosa – scrive Cardini – ha fatto sì che le crociate siano state considerate, a torto, antenate delle guerre di religione e delle guerre ideologiche”. Cardini torna quindi sulla sua lettura, assai condivisibile, che non sia mai esistito alcuno contro di civiltà tra Europa e Islam. A noi invece interessa l’est. Il castello dell’Ordine teutonico a Malbork, in Polonia
Abbiamo detto che l’ideologia di crociata fu un prodotto, in tempi antichi, del diritto canonico. Partendo dalla realtà del pellegrinaggio “scortato” o “armato”, dove nobili e cavalieri si univano a gente comune, i giuristi del XIII secolo svilupparono nei loro sermoni l’idea di crociata intesa come conversione, sia del pellegrino che dell’infedele. Dopo la Terza Crociata, grazie al fondamentale ruolo degli ordini mendicanti, la predicazione venne progettata in anticipo e “agenti” singoli vennero inviati in determinati luoghi, creando così precisi itinerari di viaggio. Dal XIII la Chiesa aveva ormai elaborato con successo i mezzi per esporre ogni parte dell’Occidente alla chiamata crociata, attraverso la pubblicazione sistematica di bolle, e privilegi in esse contenuti, e con lo sviluppo di predicatori locali meglio qualificati. Per arrivare a questo, però, si dovette passare attraverso una crociata trascurata dalle moderne vulgate cinematografiche, che si mettono nel solco delle mistificazioni del romanticismo. Papa Onorio III, nel 1217,propugnò una crociata dell’est, contro Prussi, Sudovi e Livoni, popolazioni balte stanziate nei territori dell’odierna Lettonia, Lituania ed Estonia. Già nel X e XI secolo i Pomerani e le popolazioni balte stanziate nell’odierna Polonia avevano subito una importante evangelizzazione a seguito della migrazione tedesca che, lentamente, avvenne nei due secoli. La presenza tedesca si consolidò con l’Ordine Teutonico, monastico-militare, sorto proprio in Terrasanta a seguito della terza crociata. In quel 1217 però fu Corrado di Masovia, duca polacco, a lanciare una guerra contro quei popoli “pagani” andando incontro al fallimento e richiedendo, quindi, l’aiuto dell’Ordine che consolidò, in una guerra che durò a fasi alterne ben due secoli, il suo potere in tutta la fascia costiera dell’odierna Polonia fondando la città di Elbag e fortezze tutt’ora visibili a Gniezno, Chelm, e Malbork. La crociata dell’est fu uno dei momenti di produzione dell’ideologia che poi venne perfezionata a Gerusalemme: una ideologia che cercava, nella guerra, una missione di conversione e liberazione da “infedeli” e “pagani”. L’opera di germanizzazione messa in atto nelle regioni baltiche, portata avanti fino al Quattrocento, produsse (dopo le prime inevitabili violenze) effetti interessanti. Le genti slave e balte andarono prendendo cognomi tedeschi, specialmente tra la nobiltà non tedesca che riuscì a mantenere i propri privilegi. La diffusione del latifondo, a causa della aridità del terreno, favorì l’immigrazione di slavi da sud e da est. Questi diventavano “locatores” che, gestendo l’arrivo di nuovi coloni, esercitavano la bassa giurisdizione. Il latifondo favorì, secondo alcuni storici, lo sviluppo di un proto-capitalismo in luogo del feudalesimo. Fu l’avvento della Riforma luterana a cambiare tutto: l’Ordine Teutonico fu secolarizzato (1525) e i sovrani e i nobili ottennero quelle terre prima in mano al clero monastico-armato. I cavalieri divennero mercanti, grazie ai capitali accumulati con il possesso dei latifondi. La crociata dell’est, quindi, oltre a essere un luogo di produzione dell’ideologia di crociata (insieme al cammino di San Giacomo in Spagna), ebbe come esito – sul lungo periodo – la nascita di uno Stato moderno, quella Prussia che sarà culla della moderna Germania, segnando il corso della storia europea.
La competizione tra Roma e Costantinopoli. Il rafforzamento militare e politico dei regni slavi ebbe un ruolo chiave nella conversione al cristianesimo. Ma a quale confessione? La conversione degli slavi avvenne tra l’VIII e il X secolo, prima del “Grande Scisma” che divise la chiesa di Roma da quella di Costantinopoli. Uno scisma la cui data ufficiale è quella del 1054, quando papa Leone IX scomunicò il patriarca di Costantinopoli che rispose con un anatema. Le ragioni dello scisma, più che dottrinali, sono politiche: da una parte c’era Costantinopoli, capitale di quell’Impero Romano d’Oriente che sin dall’anno 380 aveva adottato il cristianesimo come religione ufficiale. Dall’altra c’era Roma con il suo vescovo che rivendicava, in nome di un
passaggio del Vangelo, l’autorità (le chiavi, che nel linguaggio rabbinico sono simbolo del potere divino) per guidare l’intera cristianità. L’esportazione della propria versione del cristianesimo, e quindi la concorrenza tra Roma e Bisanzio, era già cominciata da ben prima del Grande Scisma: sin dal 451, quando il Concilio di Calcedonia aveva posto sullo stesso piano Roma, sede papale, con Costantinopoli, nuova capitale dell’Impero, nonostante la mancanza di fondazione apostolica di quest’ultima rispetto alle altre quattro sedi patriarcali della Pentarchia (Gerusalemme, Roma, Antiochia ed Alessandria). La volontà del vescovo di Roma di mantenere il primato portarono allo scontro con l’altra autorità religiosa del mondo cristiano, il patriarca di Costantinopoli, sostenuto dagli Imperatori d’Oriente, e all’aperta concorrenza per convertire i popoli pagani dell’Europa. La differenziazione tra i due culti era già presente all’epoca della conversione degli slavi e c’era quindi una differenza, anche nel rito, tra le due versioni di quella che era ancora la stessa confessione. Per questo diremo che alcune nazioni slave si convertirono al cristianesimo orientale e altre a quello occidentale anche se lo scisma canonico non era ancora avvenuto.
Conversione come legittimazione. I metodi della conversione sono stati diversi. Il potere papale si affidava alla spada dei cavalieri franchi e tedeschi, quello bizantino all’opera dei missionari. Gli slavi occidentali, per non soccombere alla spada germanica, trovarono nella conversione spontanea l’unica salvezza. Quelli meridionali e orientali scelsero con accortezza quale dei due poteri (germanico-papale o bizantino) fosse più conveniente alle proprie ambizioni di potere. In entrambi i casi la conversione era fonte di legittimazione, si entrava così a far parte dei popoli del “commonwealth” cristiano, portando lo stato nel “mondo che conta”. La conversione fu però un fenomeno che riguardò solo l’aristocrazia, quella del popolo sarebbe venuta dopo e non senza scossoni, ma quel che contava era, in quel momento, il riconoscimento culturale e politico che solo il mondo cristiano poteva offrire. Anche in termini di (più o meno) durature alleanze. Ma la questione era più grande, e non era religiosa ma politica: con chi conveniva stare? Con l’imperatore bizantino o con il Papa di Roma? Il regno polacco, quello ungherese (dove gli slavi giocavano un ruolo decisivo accanto all’èlite magiara) e quello croato, scelsero di aderire alla pars occidentalis: la vicinanza, anche minacciosa, franco-germanica fu un buon argomento per i sovrani. Stesso ragionamento fecero serbi e bulgari scegliendo di stare con l’imperatore di Costantinopoli. Ma la scelta, che oggi può apparire scontata, non lo fu affatto: a convincere Mieszko, re dei polacchi, a preferire il rito romano fu la presenza dei vicini tedeschi: il cristianesimo latino di allora era fortemente “tedesco”, lo era già da Carlo Magno. I tedeschi – come si è detto – erano la spada del Papa e, con la scusa di convertire i pagani, ne facevano sterminio prendendosi le terre. Il re di Polonia comprese che per salvare il suo popolo e il suo stato doveva convertirsi, e doveva farlo da alleato del Papa (e quindi dei tedeschi). Fu una scelta di sopravvivenza: abbandonare gli antichi dèi o perire. Ma funzionò: il Cristianesimo consentì agli slavi di salvarsi dalla “pulizia etnica” tedesca, entrando a pieno titolo nel “mondo che contava”, e trovando finalmente uno sviluppo culturale fino ad allora impedito dall’assenza della scrittura.
Lo shock estetico. Da quella separazione religiosa nasceranno contrapposizioni culturali,
specialmente nei Balcani, che i piazzisti politici di ogni epoca hanno saputo fomentare nel tentativo di separare ciò che il filo della storia ha sapientemente unito. Ma la dimensione politica non esaurisce il discorso: molta importanza giocava anche l’elemento mistico. Un caso
emblematico di come funzionava la conversione, e di quali erano le dinamiche e le ragioni della scelta, è quello della Rus’ di Kiev. Siamo nel X secolo; Volodomir, re di Kiev, comprendendo la necessità del “battesimo della nazione” (c’erano già stati tentativi di conversione infruttuosi in passato), decide di mandare degli emissari in Germania e a Costantinopoli. Al loro ritorno così dissero al re: “E siamo andati dai tedeschi, e vedemmo che nei templi molti riti officiavano ma nulla di bello vedemmo. E dai greci andammo, e vedemmo dove officiavano in onore del loro Dio, e non sapevamo se in cielo ci trovavamo oppure in terra: non v’è sulla Terra uno spettacolo di tale bellezza, e non riusciamo a descriverlo. Solo questo sappiamo: che là Dio con l’uomo coesiste e il rito loro è migliore di tutti. Ancora non possiamo dimenticare quella bellezza, ogni uomo che gusta il dolce non accetta, poi, l’amaro”. Si tratta di quello che il già citato Francis Conte definisce uno “shock estetico“. Al di là delle ragioni politiche questo episodio mostra quali suggestioni agissero su un popolo barbaro ma sensibile come quello slavo: il mistero incarna il divino, che è meraviglia e porta alla grazia. Non è ancora oggi questa la caratteristica del rito ortodosso? Il caso kieviano è interessante perché, oltre allo shock, ci racconta del lento lavorìo per arrivare alla conversione. Il monaco Nestore, nel suo celebre Racconto dei tempi passati, restituisce tutte le influenze culturali del giovane stato. Volodimir, secondo la cronaca nestoriana, avrebbe ricevuto anche emissari bulgari, popolazione turca allora stanziata nell’attuale Ucraina orientale, che convertiti all’Islam ne mostrarono le qualità al sovrano. Ma l’assalto più forte venne dai cazari, popolazione delle steppe convertita al giudaismo, che mandò i propri rabbini a sfidare i monaci cristiani e i dotti islamici che affollavano ormai la corte kieviana. Lo scontro teologico dev’essere stato senza pari. A spuntarla furono i cristiani che vantavano una certa esperienza con gli slavi.
Cirillo e Metodio, i santi della scrittura. Costantino, meglio noto con il nome monastico di Cirillo, e suo fratello Metodio nacquero all’inizio del IX secolo a Tessalonica da famiglia di estrazione militare, forse di origine slava. Di certo Tessalonica era allora una città dalla forte presenza slava. Una presenza che si attesta dal VIII secolo quando gli slavi migrarono fino in Grecia durante la loro lunga diaspora nel continente europeo. Le cronache bizantine dell’epoca ricordano l’arrivo degli slavi come un “maremoto” che spinse la popolazione greca alla fuga verso sud: a quell’epoca risale la fondazione di Monemvasia (la cui coltivazione di vino, poi detto “malvasia”, conquisterà l’Europa), cittadina destinata ad accogliere i profughi greci della Macedonia terrorizzati dai nuovi barbari. Ma una forma di convivenza si rivelò presto possibile e i greci continuarono a gestire la vita pubblica di città ormai ampiamente “slavizzate”. Tra queste Tessalonica, dove il bilinguismo greco e slavo era all’ordine del giorno. Cirillo, che compì i suoi studi monastici a Costantinopoli, fu allievo di Fozio il quale, divenuto poi patriarca, affidò a lui e al fratello Metodio il delicato compito della conversione degli slavi. A Costantinopoli si era ormai capito che le sorti dell’impero dipendevano da quello: farsi amici quei barbari e portarli nella propria sfera di influenza. All’epoca i bizantini credevano che la lingua slava fosse una sola, e non avevano tutti i torti visto che diramazioni sviluppatesi dallo slavo comune non erano ancora nettamente differenziate. Ma Cirillo, per sicurezza, studiò anche il cazaro e il bulgaro, lingue turche utili nei Balcani orientali e nelle pianure della Pannonia. Andarono così, tra un passaggio in calesse e l’altro, cercando riparo nei fienili come nei monasteri, fin nel cuore delle terre slave giungendo infine in Moravia, regione dell’attuale Repubblica Ceca che all’epoca era il centro del primo regno slavo, quello della Grande Moravia.
Un regno strano, messo insieme da un faccendiere franco di nome Samo, “primo re degli slavi”. In Moravia si aveva una gran paura dei franchi, il cui impero confinava con le terre morave, e re Svatopulk era impegnato a respingere i tentativi di penetrazione culturale del clero tedesco impegnato in missioni di conversione che preparavano la strada alla sottomissione del regno o, in caso di opposizione, alla sua distruzione. Gli slavi sapevano qual era la sorte dei pagani: essere assoggettati e convertiti a forza oppure venire passati a fil di spada con tanto di benedizione papale. Era successo ai sassoni, sterminati da Carlo Magno, e loro sapevano di essere i prossimi. Come fare per mantenere la propria indipendenza? Convertirsi al Cristianesimo era necessario, ma quello dell’impero bizantino li avrebbe messi al riparo dalle mire tedesche salvaguardando la loro libertà. Fu così che si rivolsero a Costantinopoli che mandò loro Cirillo e Metodio i quali diedero agli slavi strumenti culturali con cui opporsi alla penetrazione tedesca: primo su tutti, la scrittura. Una volta giunti in Moravia i fratelli Cirillo e Metodio cominciarono a formare discepoli ma per farlo dovettero anzitutto elaborare una forma di scrittura con cui “tradurre” le Scritture in lingua slava. Il glagolitico fu il primo alfabeto slavo (da “glagol”, verbo). La derivazione delle quaranta lettere che lo compongono è tutt’ora un mistero. Il glagolitico non somiglia ad alcun alfabeto noto anche se alcuni studiosi ci vedono qualche vaga somiglianza con l’ebraico (che Cirillo, ovviamente, conosceva). Utilizzato in Moravia, e poi anche in Bulgaria e Macedonia, l’alfabeto glagolitico venne soppiantato dal più semplice cirillico che, a dispetto del nome, non fu inventato da Cirillo ma dal suo discepolo Clemente. L’opera di Clemente e Naum completò quella di Cirillo e Metodio mettendola a frutto. Non a caso i due sono venerati come santi nei paesi slavi: i santi della scrittura. Il glagolitico sopravvisse fino al XV secolo in alcuni monasteri della Macedonia e a Praga dove l’imperatore del Sacro Romano Impero, Carlo IV, fondò un monastero per accogliervi benedettini croati che ancora conservavano l’uso dell’antico alfabeto. L’opera di Cirillo e Metodio fu fondamentale per lo sviluppo delle culture slave. La possibilità di leggere i testi nella propria lingua consentì agli slavi di sviluppare, nel tempo, una cultura e una coscienza nazionale. Un alfabeto e una scrittura comune cementificarono il sentimento di prossimità degli slavi anche quando le distanze tra i nascenti gruppi nazionali andavano ormai approfondendosi. Era quella lingua il “paleoslavo”, o “slavo liturgico”, da non confondersi con il “protoslavo” o “slavo comune” di cui abbiamo già parlato. Se il latino fu la “lingua madre” delle lingue romanze, il paleoslavo fu piuttosto un “fratello maggiore”, terreno comune da cui tutte le lingue slave trarranno una base linguistica e grammaticale. Ma all’epoca furono molti i vescovi cattolici a
opporsi a Cirillo e al suo alfabeto. Secondo loro la Bibbia andava letta solo nelle lingue “sacre”, latino, greco ed ebraico, quelle che comparivano nell’iscrizione della Croce. Molti secoli prima di Lutero, Cirillo difese il diritto degli slavi a leggere la Bibbia nel proprio idioma e per questo temette l’accusa di eresia. Dalla Moravia, passando per la Pannonia all’epoca ancora slava, i due fratelli andarono a Roma e qui ottennero il nulla osta del papa che “consacrò i libri slavoni” innalzando la lingua slava a lingua liturgica. Una volta a Roma, Cirillo morì lasciando al fratello il compito di terminare l’opera di evangelizzazione. Metodio accettò allora la carica di legato pontificio presso gli slavi. Malgrado la benedizione di Roma l’opera di Metodio andò incontro al completo fallimento. L’affermazione del potere germanico in Europa andava di pari passo con la “germanizzazione” della Chiesa, e i vescovi tedeschi divennero sempre più influenti. Non solo, questi vedevano nelle terre slave un proprio “terreno di caccia”, una possibilità per guadagnarsi nuove terre. La Grande Moravia venne assoggettata e spartita tra principi tedeschi. Metodio venne incarcerato. Quando la Santa Sede lo venne a sapere fece pressione per la sua liberazione e, una volta ottenuta, lo mandò dai serbi e dai bulgari. In Moravia, Boemia e Pannonia l’opera di Cirillo e Metodio fu sistematicamente distrutta impedendo la liturgia in lingua slava, veicolo di pericolosi particolarismi. Il nuovo pontefice, Giovanni VIII, sancì il divieto a tradurre in slavo i testi sacri e Metodio finì per diventare un elemento sospetto dal punto di vista dottrinale. Quando nel 885 d.C morì, l’opera sua e quella del fratello parvero dissipate per sempre. Ma non fu così. I loro discepoli, riunitisi sulla tomba del maestro Metodio, decisero di proseguirne l’opera. Apprendiamo dalle Vite di Clemente e Naum, i due discepoli più importanti, quale fu la reazione pontificia: una repressione subitanea e feroce che portò in catene duecento diaconi e sacerdoti venduti sulla piazza di Venezia dai mercanti di schiavi. Per loro fortuna l’imperatore di Costantinopoli si interessò della loro sorte, riscattandoli e inviandoli in Bulgaria. Fu qui che l’opera di Cirillo e Metodio diede i suoi frutti. In Bulgaria governava Boris, di origine turca come tutta la nobiltà. Temendo di perdere la propria indipendenza e consapevole di doversi convertire per non soccombere, il khan Boris si rivolse ai tedeschi e al clero cattolico. Bisanzio reagì con una “spedizione navale e terrestre grandiosa quanto inattesa”. La Bulgaria, passata così nell’orbita bizantina, divenne la meta prediletta dei discepoli di Cirillo e Metodio. Questi “intellettuali profughi” metteranno a punto l’alfabeto glagolitico inventandone una versione semplificata, il cirillico. La scuola di Preslav fu il luogo in cui fiorì la vita intellettuale della Bulgaria che, grazie all’alfabeto cirillico, poté sviluppare una propria tradizione culturale autonoma “slavo-bizantina” utile ai disegni indipendentisti del regno bulgaro. A Ocrida, all’epoca importante centro religioso della Bulgaria, operava Clemente, discepolo di Cirillo e Metodio, cui è attribuita l’invenzione dell’alfabeto cirillico anche se, probabilmente, essa è da ascriversi all’opera dei dotti di Preslav. Dalla Bulgaria l’eredità di Cirillo e Metodio si propagherà nei Balcani e in Russia. Un’eredità fondamentale per l’Europa, senza di loro forse gli slavi sarebbero stati assoggettati alla cultura dominante, germanizzati o latinizzati. Per rendere omaggio al loro apostolato Giovanni Paolo II li promosse, nel 1981, anno del tredicesimo centenario dello stato bulgaro, a “protettori d’Europa“.
CAPITOLO CINQUE
impetum
Fin dall’inizio della loro presenza in Europa, gli slavi hanno dovuto misurarsi con popolazioni di origine turcica con le quali hanno condiviso, tra lotte e convivenza pacifica, uno spazio geografico comune. Questa prossimità con popolazioni turciche ha prodotto esisti originali nella cultura e nella strutturazione dello spazio politico slavo. Basti pensare ai proto-bulgari, popolazione turcica che è alla base del moderno stato slavo bulgaro, o ai tataro-mongoli che hanno così drammaticamente segnato lo sviluppo della Russia. Non si può quindi parlare di antichi slavi senza fare qualche accenno alle popolazioni turciche. Senza volerci addentrare troppo una materia tanto vasta, possiamo dire semplicemente che le popolazioni di cui parleremo erano turcofone, parlavano cioè una lingua appartenente al ramo turcico delle lingua altaiche. Le lingue altaiche comprendono anche un ramo mongolico, uno tunguso, oltre al giapponese e al coreano. Questi rami sono tutti imparentati tra loro, pur nell’evidente differenziazione degli esiti moderni. Nell’antichità però genti turciche e mongoliche hanno condiviso gli stessi enormi spazi delle steppe centro-asiatiche, a ridosso della catena dei monti Altai, nell’attuale Siberia meridionale.
I protobulgari, fondatori di un impero. Dalle steppe dell’Asia centrale giunsero alle porte d’Europa numerose popolazioni di origine altaica e di lingua turca, spinte dalle progressive migrazioni di altri gruppi. Tra questi i cazari, gli avari, i cumani e i peceneghi fino – più tardi – ai tatari. Ci fu però un gruppo destinato a lasciare un segno in Europa, fondando uno stato sopravvissuto fino ad oggi. La storiografia li chiama protobulgari, o bulgari del Volga, e sono una popolazione semi-nomade di lingua turca arrivata nel bacino del fiume Volga intorno al II secolo. Il loro nome deriverebbe dal turco “bulgha”, ovvero mescolanza, a testimoniare il grado di varierà etnica di questo gruppo. Sulle sponde del Mar Nero essi si fusero con tribù sarmate per poi unirsi in alleanza con gli unni compiendo numerose scorrerie in Europa stanziandosi verso i Carpazi. Alcuni giunsero in Italia a seguito dei Longobardi e la loro presenza è confermata dall’esistenza, ancora in epoca medievale, del Comitatus Burgarensis, ovvero del contado Burgaro (o Bulgaro) compreso tra il fiume Ticino e il fiume Seveso nell’attuale Lombardia.
Nel VII secolo discesero dai Carpazi verso la Mesia e la Tracia bizantine, corrispondenti all’attuale Bulgaria, e si unirono a genti slave che già stavano colonizzando le regioni. La società protobulgara era litigiosa e divisa in molti clan ma il Khan Asparuch, a metà del VII secolo, riuscì a riunirla sconfiggendo così l’impero bizantino nella battaglia di Onglossa e ottenendo dall’imperatore il riconoscimento dello stato bulgaro. Nei successivi centocinquant’anni si susseguirono gli scontri tra il khanato bulgaro e l’impero bizantino finché nel 856 fu firmata una pace che sanciva l’esistenza di diritto dello stato bulgaro. Uno stato immenso, che andava dai Carpazi all’Egeo, che conquistò la Serbia e la Macedonia, e che costrinse l’impero a versare tributi ai khan bulgari. In questo periodo lo stato bulgaro andò incontro a una progressiva slavizzazione che diede vita a una cultura originale di cui il Madarski Konnik (Cavaliere di Madara) è un esempio. Una cultura nella quale l’élite guerriera e aristocratica bulgara si univa al ceto mercantile trace e ai contadini slavi, dando origine a sincretismi e influenze poi amalgamatesi in un unicum originale. La capitale Pliska divenne un centro culturale e politico di rilievo e qui cominciarono a concentrarsi i monaci cristiani. Nell’anno 864 Boris I si obbligò a convertire se stesso e il suo popolo al cristianesimo “orientale” malgrado precedenti accordi con l’Impero germanico. Anche se il grande scisma tra la chiesa di Roma e quella di Costantinopoli doveva ancora avvenire, esisteva già una forte “concorrenza“: il pontefice romano, da un lato, e il cesaropapa di Costantinopoli, dall’altro, rivaleggiavano per estendere la propria influenza verso i popoli pagani. Un’influenza foriera di annessioni territoriali o nuovi stati allineati alla politica dell’impero germanico, da una parte, e di quello bizantino, dall’altra. La conversione di Boris I fu quindi un atto politico: Boris cercò dapprima l’alleanza con i tedeschi (e quindi con la chiesa di Roma) in chiave anti-bizantina ma poi preferì legarsi al potente vicino e mettere al sicuro i confini meridionali. Tuttavia, a causa della rinnovata aggressività bizantina, la Bulgaria guardò nuovamente verso occidente passando sotto Roma (866-870); questa nuova situazione fece decidere a Bisanzio di concedere autonomia alle diocesi bulgare. Il figlio di Boris, Simeone il Grande, continuò l’opera di consolidamento di uno stato la cui slavizzazione fu completata dall’opera missionaria di Clemente e Naum, discepoli di Cirillo e Metodio,. caduti in disgrazia presso l’imperatore e malvisti dal papa, che trovarono rifugio in Bulgaria. Grazie all’invenzione dell’alfabeto cirillico, Clemente e Naum diffusero il cristianesimo in lingua slava che divenne così lingua di cultura. Dal punto di vista culturale si possono distinguere due periodi: il primo (VII – IX sec.) detto pagano in cui si manifestavano le credenze degli slavi e dei protobulgari e l’edificazione di fortezze; il secondo (IX – XII sec) detto cristiano vide la conversione del popolo bulgaro e il formarsi di una identità slavo-bizantina molto forte adottando a livello ideologico l’universalismo dell’Impero. Simeone arrivò a essere nominato coimperatore di Bisanzio e portò il regno bulgaro al rango di impero. Boris II non ebbe la stessa capacità del padre e lo stato bulgaro, minacciato da più parti e dilaniato da conflitti interni, cadde nel 1018. La cultura bulgara, sorretta dal culto cristiano in lingua slava (slavo ecclesiastico), continuò però ad esistere così come l’aristocrazia locale. Quando la quarta crociata si risolse nel saccheggio di Costantinopoli e nella proclamazione dell’impero latino d’Oriente, la Bulgaria ritrovò la forza per liberarsi e un “secondo impero” guidato dalla dinastia slava degli Asen ristabilì l’antica grandezza perdendo poi gradualmente terreno di fronte agli ottomani che conquisteranno la Bulgaria nel XIV secolo. Così il regno dei bulgari, fondato da cavalieri turchi delle steppe, cadde sotto i colpi di altri turchi, quelli della stirpe di Osman (Uthman), dando origine alla secolare – tutt’ora viva – competizione tra bulgari e turchi. Nel XVIII secolo, cercando di sottrarsi al dominio ottomano, alcuni bulgari migrarono verso nord percorrendo all’indietro il percorso fatto dagli avi e si stanziarono in Bessarabia, grossomodo l’attuale Moldavia, dove ancora oggi si trova una minoranza linguistica bulgara. Altri andarono
nel Banato asburgico, regione a cavallo tra le moderne Voivodina e Romania, dove ancora si trovano i loro discendenti. Si dovette attendere il 1878 perché la Bulgaria tornasse indipendente. Dell’antica radice turcica non resta nulla. I turcismi presenti nella lingua bulgara sono infatti dovuti alla dominazione ottomana e nulla c’entrano con i protobulgari di cui però i moderni bulgari portano il nome, Come nel caso della Rus’ di Kiev, gli slavi di Mesia e Tracia presero il nome dei loro dominatori, gente “mescolata” che veniva da lontano e che con altra gente, slavi ma anche traci, si rimescolò per dar vita a uno stato che, milleduecento anni dopo, è ancora porta il loro nome.
I cazari, gli ebrei delle steppe. Tra i tanti popoli che hanno influenzato la vita degli antichi
slavi, e che hanno condiviso con loro il torno di tempo che va dal settimo al decimo secolo dopo Cristo, abitando in aree contigue e avendo con essi scambi e contatti, ci sono i cazari. Dei cazari è difficile parlare perché rappresentano un caso del tutto peculiare nella storia europea. I cazari, questo si sa per certo, erano un popolo turcofono, proveniente dall’Asia centrale e apparentato con i bulgari, di cui abbiamo già parlato, e con i tataro-mongoli che secoli dopo invaderanno l’Europa. L’origine del loro nome è controversa: la più accreditata è quella proposta dal linguista Gyula Németh che lo fa risalire alla radice del verbo turco qaz- con il significato di “girovagare, vagabondare“, attività tipica delle popolazioni dell’Asia centrale che, a fronte dell’aridità dei suoli, erano costrette al nomadismo per nutrire gli armenti. Il turco moderno presenta, per lo stesso verbo, la radice kez-, che confermerebbe la bontà della teoria. Questa popolazione, secondo storici e archeologi, sarebbe una filiazione della dominazione “Goturk” dell’Asia centrale. Quello Goturk era un impero, basato su una confederazione di tribù (come quello unno, prima, e mongolo, dopo) stanziato nei territori lasciati liberi dagli unni migrati verso occidente. Sono noti come “turchi celesti”, devoti al tengrismo (religione sciamanica che fu anche dei mongoli) ricevettero missionari cristiani di fede nestoriana che, come vedremo nelle prossime puntate, tanta influenza ebbero sui mongoli di Gengis Khan. I cazari occupano quindi uno spazio storico posto tra gli unni e i mongoli, giungendo alle porte d’Europa nell’intervallo di tempo tra le due grandi invasioni (o migrazioni) di queste due popolazioni. Pare che la tribù che si spinse in Europa, quella detta Ashina, fosse una delle tante dell’impero Goturk, collassato a causa delle spinte centrifughe. Arrivati tra il Mar Caspio e il Mar Nero, si stanziarono occupando alcuni abitati unni e gettando le basi per il futuro stato, combattendo contro gli àvari, i protobulgari, gli slavi e ricavandosi un territorio che andava dalla Crimea al Caspio, fino al Caucaso a sud. Questa espansione copre un periodo che va tra il 630 e il 700 d.C., dopo di che subentra un elemento di assoluto interesse: l’ebraismo. I cazari si convertono alla religione ebraica. Le cause e le modalità di questa conversione non sono chiare e vanno a toccare nel vivo l’identità etnica e culturale del popolo ebraico al punto che oggi esiste, in Israele, una Stele cazara raffigurante la Menorah
diatriba storica accesa che ha, evidentemente, ricadute politiche sul moderno stato di Israele. Essendo assai difficile, per chi scrive, addentrarsi in questa materia, ci limiteremo ad alcuni cenni che possono comunque fornire al lettore elementi di novità. La conversione sarebbe avvenuta tra l’ottavo e il nono secolo dopo Cristo. Sappiamo da fonti slave (il Racconto dei tempi andati di Nestore di Pecerska) che, quando il gran principe di Kiev decise di convertirsi alla religione “migliore”, i cazari inviarono propri rabbini a disputare con imam e missionari al fine di guadagnare alla propria fede un potente vicino. Se avessero vinto loro, forse la Russia oggi sarebbe ebraica. Ma la prima domanda da farsi è: perché scelsero di convertirsi? Le ragioni sarebbero le stesse per cui anche gli slavi si convertirono abbandonando il paganesimo: il mantenimento dell’indipendenza politica. I cazari, tradizionalmente tolleranti, si trovavano pressati dall’impero bizantino – che continuamente inviava missionari in Cazaria – e dal califatto omayyade che a metà del settimo secolo arrivò fino al Caucaso: il timore di perdere la propria identità li spinse a scegliere una religione “più forte”, capace di tenere testa a Islam e cristianesimo, e la scelta ricadde sull’ebraismo. Un’altra spiegazione è che l’élite cazara avesse scelto una religione meno punitiva del tengrismo, che prevedeva la morte del capo qualora questo avesse fallito nella sua missione militare in quanto “non più in grazia di Tengri”. In entrambi i casi la seconda domanda è: come i cazari sono venuti a contatto con l’ebraismo, al punto da decidere di farne la propria religione? Una risposta possibile sta forse nell’emigrazione di molti ebrei, tra cui eminenti rabbini, avvenuta tra il sesto e il decimo secolo a causa delle persecuzioni degli imperatori bizantini Eraclio, Giustiniano II, Leone III e Romano Lacapeno (anche se non tutte le date coincidono). Un’altra teoria vuole che la conversione sia avvenuta per tramite degli Johuro, popolazione di religione ebraica tutt’oggi esistente e residente tra le montagne del Caucaso. Noti per questo come “gli ebrei della montagna“, migrati fin lì dalla Persia, sarebbero stati gli Johuro a trasmettere l’ebraismo ai cazari. Gli Johuro, secondo gli studi genetici sull’aplogruppo Y, sono in tutto e per tutto di origine semitica, parte della diaspora ebraica. E i cazari? Abbiamo detto che erano turchi, non mediterranei come la restante parte del popolo ebraico. Questo significa che non potevano appartenere al popolo della diaspora ma erano dei convertiti, come alcune fonti confermano. Gli studi genetici hanno stabilito che i cazari non erano in alcun modo di origine semitica. Tali studi hanno però dato luogo a interessanti teorie portate avanti da un gruppo di storici israeliani, detti “post-sionisti”, animati dall’intenzione di demitizzare la storia di Israele liberandola dalla necessità di aderire alle sacre scritture. Ebbene, questi storici post-sionisti (Shlomo Sand, Tom Segev, Simha Flapan) dicono che gli ebrei di oggi, quelli ritornati in Israele come quelli residenti in Europa e negli Stati Uniti sono in larga misura di origine cazara. Un’origine indiretta, però. Nel codice genetico degli ebrei aschenaziti, si trova l’aplogruppo R1b-L21. E’ un aplogruppo molto vecchio, ovvero occupa una posizione terminale all’interno del cromosoma Y che ne attesta una certa antichità. Tale aplogruppo si trova anche in popolazioni nordiche, in Bretagna,
Irlanda e coste della Norvegia. Posti che nulla hanno a che fare con i cazari, e nemmeno con gli ebrei di Palestina. E allora? Questi storici sostengono che la conquista cazara della Crimea, all’epoca abitata dai gretungi, popolazione poi ascritta alla grande famiglia dei goti orientali (ostrogoti), abbia spinto questi ultimi alla conversione all’ebraismo. I gretungi, di origine scandinava (come tutte le popolazioni note sotto il nome di “goti”), sarebbero i portatori dell’aplogruppo R1b-L21. La loro migrazione verso la Polonia, la Lituania e la Germania avrebbe dato luogo alla peculiare cultura aschenazita (che si esprimerà con la lingua yiddish). Questa teoria, che vede i cazari come forza detonante e i gretungi convertiti quali portatori dell’aplogruppo in questione, mina alle fondamenta la tradizione storiografica israeliana e il concetto di “razza ebraica”che – anche per ragioni politiche – è alla base dell’idea di “stato-etnico” portato avanti in Israele da partiti come il Likud. Gli aschenaziti, è bene ricordarlo, rappresentano oggi l’80% della popolazione ebraica complessiva. Se davvero gli aschenaziti fossero un’eredità culturale (attenzione, non genetica) dei cazari, allora questo popolo delle steppe, con la sua conversione, avrebbe contribuito alla salvezza del popolo di Israele fornendogli la stragrande maggioranza dei fedeli.
I cumani, vittime o collaborazionisti? Siamo nel 1237, le armate mongole di Batu Khan stanno devastando le steppe intorno al Volga saccheggiando città e villaggi annientando popoli e nazioni, seguendo un piano ben preciso di conquista deciso nel 1235 dal kuriltai presieduto da Ogodei, secondo Gran Khan dell’impero mongolo o, come veniva comunemente definito allora, tartaro. I cumani erano una popolazione nomade di ceppo turco che viveva nelle steppe tra il Mar Caspio ed il Mar Nero, e che nel corso delle sue migrazioni si è divisa in due grandi gruppi che hanno finito per avere storie radicalmente diverse: il primo gruppo, come detto, si è stabilito intorno al Volga, mentre il secondo nelle sue peregrinazioni ha finito con il fermarsi nell’attuale Ungheria intorno all’890. L’esistenza di questi “magiari d’oriente” suscita sia l’interesse dei sovrani ungheresi, che inseguono l’idea di una Grande Ungheria che li ricongiunga alle loro radici, sia della Chiesa cattolica che vede la possibilità di nuove conversioni. I sopracitati cumani sono alle prese con i Mongoli dalla seconda metà degli anni ’20 del XII secolo e fin da allora hanno cercato accordi con i sovrani ungheresi ma la svolta decisiva avviene nel 1237, dopo che le orde di Batu Khan penetrano nelle terre russe saccheggiando i principati di Vladimir e Rjazan, impadronendosi di Mosca ed altre città. Circa 40.000 famiglie cumane, guidate dal loro capo Khotan, entrano nell’Ungheria di Bela IV con la promessa di abbracciare la fede cristiana e di servire nell’esercito ungherese contro i mongoli avanzanti. Lo stanziamento di una popolazione nomade in una società sedentaria ha effetti catastrofici. I cumani non si adattano allo stile di vita imposto dal sovrano ed entrano ben presto in conflitto con i sedentari ungheresi; mentre i primi fanno pascolare le proprie mandrie sui campi coltivati i
secondi accusano i nuovi venuti di essere selvaggi e di violentare le donne ungheresi. Re Bela decide di dividere i cumani in piccoli gruppi e disseminarli nel paese ma ciò non fa che peggiorare la situazione, privando ancora di più i cumani del loro stile di vita tradizionale. Il tutto è poi peggiorato dai baroni del regno che vedono negli accordi tra la popolazione cumana ed il sovrano un pericoloso rafforzamento del potere di Bela IV. Con il nemico mongolo alle porte la situazione non fa che precipitare. I mongoli accusano (falsamente) Bela IV di essersi impossessato di una popolazione a loro soggetta, cercando astutamente un pretesto per attaccare il paese ed a farne le spese sono ovviamente i cumani; questi sono infatti visti dalla popolazione ungherese come spie dei tartari, sospetti accresciuti dal residuo nomadismo, rendendo il rapporto tra le due comunità sempre più teso. A rendere le ostilità ancora più esacerbate ci sono ancora i baroni che, riuniti nel “partito tedesco” si oppongono apertamente a Bela gettando benzina sul fuoco alimentando le dicerie contro i cumani. L’Isteria contro le spie cumane giunge al suo apice quando nel 1241 Batu Khan pone il suo ultimatum al regno ungherese. I borghesi ed i mercanti tedeschi della città di Pest ne assumono il controllo, massacrando Khotan ed il suo seguito: è l’inizio della guerra civile. I Cumani prendono le armi e assaltano i villaggi ungheresi, non esitando a raggiungere i ranghi dei tartari una volta che questi entrano nel paese. L’esercito ungherese viene annientato nella battaglia di Muhi e Re Bela fugge dalle orde mongole venendo inseguito fino sulla costa dalmata, dove si rifugia. L’intero regno viene saccheggiato diventando una terra di morte e desolazione, come constaterà lo stesso re al suo ritorno. Per quanto riguarda la città di Pest questa viene rasa al suolo ed i suoi abitanti trucidati con inusitata ferocia subendo lo stesso destino che fu di Kiev. Che queste due città fossero forti concorrenti di Venezia, che con i mongoli aveva intensi rapporti commerciali tratta degli schiavi compresa, è un’altra storia. Ma chi erano questi cumani? Parlavano una lingua turca. Anzi, da loro prende il nome uno dei quattro rami - il kipčaki - che compongono l’albero linguistico turcico insieme all’Oghuz (da cui derivano il turco e l’azero); al chagatai (da cui derivano uzbeko e uiguro); e il kyrghyz (da cui deriva il kirghiso). Dal ramo kipčaki derivano invece il kazako, il tataro di Crimea, il cumucco, il nogai, il caraciai-balcaro, tutte lingue concentrate tra il mar Caspio e il mar Nero, e che suggeriscono l’estensione della presenza cumana. Detti anche “poloviciani” furono una spina nel fianco della Rus’ kieviana almeno finché l’arrivo dei mongoli non spazzò via entrambi. Quelli che si salvarono, fuggirono verso l’Ungheria e la Romania. In Ungheria, ancora oggi, la regione di Kunsàg (Cumania) porta il loro nome. In breve tempo seppero entrare nell’aristocrazia dell’impero magiaro che era, all’epoca, uno stato multietnico e multi confessionale. La loro presenza seppe rinnovare la tradizionale tolleranza degli antichi magiari cui diedero anche un re, Ladislao il Cumano (1262 – 1290). A una stirpe cumana venne data in vassallaggio la Valacchia, che oggi si trova in Romania, e da quella stirpe nascerà nientemeno che Vlad III, detto “l’impalatore”, cui lo scrittore Bram Stoker si ispirerà per il suo conte Dracula.
Il conte Dracula era turco? Lungo le sponde del lago Siverskoye era la primavera del 1460, anno più, anno meno. Le possenti mura del monastero di Kirillo-Belozersky proteggevano i monaci dai freddi venti che arrivavano ancora dalla Russia orientale. I figli cadetti delle più importanti famiglie boiare della Moscovia studiavano le sacre scritture e dipingevano icone. Tutti tranne uno, il cui nome non sappiamo per certo. Forse si trattava di Fedor Kuritzyn, un uomo della corte dello zar Ivan III, forse no. Sappiamo solo il nome con cui prese i voti, Efrosin.
Per quanto giovane, è uomo colto e smanioso di dare il proprio contributo all'affermazione del suo signore, Ivan III, presto noto con l'appellativo di Ivan il Grande, colui che unì "tutte le Russie" conquistando i principati di Novgorod, Jaroslav, Tver, Pskov. Il nuovo stato aveva bisogno di un nuovo progetto politico, un nuovo modello di gestione del potere. Efrosin si offrì di andare a studiare da vicino un paese di cui all'epoca si faceva un gran parlare, la Valacchia, guidata da un temutissimo principe, Vlad III. Fu così che partì per un lungo viaggio, fino all'attuale Romania meridionale, di cui abbiamo testimonianza grazie al Povest' o Drakule Voevode, il "Racconto di Dracula voivoda" (Sellerio, 1995) che Efrosin redasse per il suo zar. Giunto in Valacchia rimase ospite di Vlad III per alcuni anni. Vlad, membro della Casa dei Drăculești, ebbe una giovinezza difficile. A seguito della crociata di Varna, con cui gli ungheresi cercarono di respingere senza successo l'avanzata turca, fu mandato dal padre come ostaggio a Edirne presso la corte del sultano Murad II. Il padre, Vlad II, non ebbe scelta: il ragazzo era la garanzia che la Valacchia avrebbe versato ogni anno i tributi all'impero ottomano. Il principato di Valacchia si trovò così a servire due padroni, da un lato il regno d'Ungheria, di cui era vassallo, e dall'altro l'impero ottomano, di cui era tributario. Presso i turchi forse Vlad fu vittima di sodomia, e forse da questo derivò la sua ossessione successiva. Alla morte del padre, ucciso dagli ungheresi, i turchi lo posero come principe di Valacchia inviandolo a riconquistarsi il trono con una scorta di soldati turchi. Era il 1456, tre anni dopo la conquista di Costantinopoli. Efrosin ci restituisce alcuni aspetti del suo modo di esercitare il potere. Attraverso una serie di esempi "edificanti" il monaco russo getta le basi per la futura ideologia di potere russa (poi pienamente incarnata da Ivan il Terribile) ma quegli esempi, ai nostri occhi, sembrano solo gratuita crudeltà. Tra tutte le malvagità di Vlad c'era l'abitudine di far impalare i propri nemici. La pala era una punizione ben nota presso i turchi ma nella mani di Vlad divenne "un vero e proprio strumento di terrore di massa" (N. Davies, 1996) con cui il voivoda suggellava il proprio potere. Con una punta affilata e ingrassata, la pala "alla valacca" veniva conficcata nel retto della vittima fino a uscirne dalla bocca. Il supplizio poteva durare diversi giorni. Si ritiene abbia ucciso così migliaia di persone, a partire dalla nobiltà locale fedele alla casata dei Dănești, il ramo nemico dei Drăculești. Tale pratica gli valse l'epiteto di "tepeș", l'impalatore. Efrosin insiste su come quella crudeltà non fosse né gratuita né frutto di follia: Vlad era un sovrano giusto e imparziale, non è il capriccio a guidare i suoi giudizi. Ha emanato leggi che devono essere rispettate in un paese attorniato da nemici in cui l'ordine interno è l'unica garanzia di sopravvivenza. Il monaco slavo lasciò la Valacchia prima della guerra con gli ottomani ma fece in tempo a riportare nei suoi appunti come Vlad ricevette gli emissari turchi che chiedevano la riscossione del tributo annuale: fece loro inchiodare i turbanti alla testa come punizione per non averli voluti togliere al suo cospetto. Questa fu la dichiarazione di guerra, Vlad si unì alla crociata ungherese contro i turchi che terminò, dopo alterne vicende, con la sconfitta. Ma Vlad si distinse per grandi vittorie al punto che il papa lo salutò come "salvatore della cristianità". Al termine della guerra, Vlad trascorse alcuni anni prigioniero del sovrano ungherese Mattia Corvino, e divenne un personaggio noto al mondo tedesco grazie al Geshtichte Dracole Wayde, un resoconto sulle sue gesta pubblicato a Vienna nel 1463. Il testo contribuì in modo decisivo alla fama negativa di Vlad ed è alla base di molte invenzioni successive che lo scrittore irlandese Bram Stoker convoglierà nel suo Dracula (1897).
Il monaco Efrosin, tornato in Russia, pubblicò nel 1488 il suo Racconto di Dracula voivoda che è oggi l'unica testimonianza coeva della vita di Dracula. Quella pagine, secondo alcuni storici russi, influenzarono la politica di Ivan il Terribile. E' interessante ricordare come Ivan il Terribile, nel 1944 venne rappresentato - nell'omonimo film - da Ejzenstejn come "modello" di Stalin. Un modello di crudeltà patologica che muove, forse, proprio da Vlad dandogli una longevità nel mondo russo non dissimile da quella avuta nell'Europa occidentale con il romanzo di Stoker.
I tataro-mongoli, incubo d’Europa. “Non è l’acqua che sale in primavera, non sono i flutti del mare che si sollevano. E’ la forza potente e maledetta dei tatari che si appressano a Kiev, e il vapore delle froge dei cavalli oscura già la luna nel cielo…”. Con queste parole un cantico del XIII secolo racconta l’immane terrore suscitato dall’arrivo di quelli che venivano chiamati tatari, un’enorme armata che invase l’Europa, guidata da Batu Khan, condottiero mongolo nipote di Gengis Khan. I termini “mongolo” e “tataro” sono talvolta considerati equivalenti ma sappiamo che si trattava di due popolazioni differenti: i tatari erano un’antica popolazione turcofona stanziata nell’attuale Manciuria (il termine stesso deriverebbe dal manciù Ta ta me, ovvero “arciere”), e fu una delle cinque grandi tribù che costituivano l’orda che, dall’inizio del XII secolo, dominò la Mongolia e si spinse in Cina, Iran ed Europa. Il termine“mongolo” è quindi un termine ombrello, sotto il quale vengono raccolte tutte le popolazioni che nel passato, come oggi, parlano una lingua mongolica. Le lingue mongoliche appartengono alla famiglia delle lingua altaiche, come anche il turco. Esisteva quindi un apparentamento tra le popolazioni mongoliche e quelle turcofone (come i tatari, ma anche i cazari, i cumani o i protobulgari di cui abbiamo già parlato) e non deve quindi sorprendere che queste popolazioni si siano federate, secoli fa, dando vita al grande impero mongolo. Parleremo quindi in questa sede, e per le successive puntate, di “tataro-mongoli” per indicare le popolazioni che nell’alto Medioevo si spinsero fino in Europa orientale e la cui memoria è tutt’oggi serbata in Europa come sinonimo di razzia e distruzione.
Il termine “tataro” ebbe successo in Europa per via dell’assonanza con “tartaros“, termine greco con cui si indicavano gli Inferi, e davvero infernali furono per gli slavi quegli arcieri a cavallo, abili e feroci. Oggi i tatari della Crimea e della Polonia sono gli eredi indiretti di quelli giunti agli ordini di Batu Khan. Più in generale i “mongoli” sono passati alla storia per la barbarie con cui distrussero i giovani stati degli slavi orientali e per una volta il luogo comune corrisponde alla verità, benché non si trattasse di una brutalità fine a se stessa. Gli slavi orientali avevano già avuto scontri con altre popolazioni turcofone, come i peceneghi o i cumani (detti anche “poloviciani”) i cui territori confinavano a a sud est con quelli dei principati russi. La lotta fra slavi e nomadi era però sempre stata subordinata alla necessità di non distruggersi a vicenda. Ai tataro-mongoli invece non interessa cercare una convivenza, ed è questo il primo elemento che stordisce gli slavi orientali: “In quell’anno [1223] comparvero dei pagani di cui nessuno conosceva esattamente la provenienza, né chi fossero né che lingua parlassero né a quale fede né a quale tribù appartenessero. Tatari vengono chiamati [...] Dio solo sa chi siano e noi ne parliamo a causa delle miserie che hanno cagionato alle province russe” Quel che terrorizzava dei tataro-mongoli era l’apparente insensatezza della loro violenza e di fronte all’incomprensione quella brutalità diventava impossibile da combattere. Il Detto sulla distruzione di Rjazan’, risalente al 1237, mostra con quale ferocia le truppe di Batu Khan si dedicavano alla distruzione del nemico: “Al sesto giorno gli infedeli marciarono sulla città, gli uni con il fuoco, gli altri con le macchine da assedio [...] e conquistarono Rjazan’ al ventunesimo giorno del mese di dicembre. E penetrati nella cattedrale uccisero la principessa Agrippina e bruciarono nella cattedrale il vescovo con tutto il clero. Nella città uomini, donne e bambini furono sgozzati con le spade, altri annegati nel fiume. E i preti e i monaci furono sgozzati fino all’ultimo [...] i templi di Dio furono distrutti e il sangue scorse sui sacri altari [...] tutti furono uccisi, tutti bevvero dal calice della morte. E non rimase nessuno né per gemere né per piangere”. La gratuità apparente del massacro, la ferocia sistematica, avevano l’effetto di seminare un terrore mai provato prima. Per i mongoli prendere Rjazan’ non fu saccheggio o distruzione, fu cancellare dalla mappa geografica la città e occorse un secolo perché Rjazan’ cominciasse timidamente a rinascere, avendo persa per sempre l’antica grandezza.Stessa sorte toccò a Kiev, la regina della città russe. Nel 1240 le truppe di Batu Khan arrivarono alle porte della città e con queste accese parole Serapione di Kiev, archimandrita del monastero delle Grotte, descrisse la tragedia: “Dio ha diretto contro di noi un popolo crudele che non ha risparmiato né la bellezza della fanciulla né l’impotenza degli anziani né la debolezza dei bambini. Il sangue dei nostri padri e dei fratelli come le piene ha irrigato la terra. La potenza dei principi e dei voivodi si è esaurita. Svanita è la nostra grandezza, scomparsa la bellezza del nostro paese. [... ]Taci orgoglio, la nostra bellezza non è più”. L’idea mongola (e l’idea russa) Prima di volgersi all’Europa i tataro-mongoli si scatenarono sulla Cina, assai più prossima. Era quello un impero potente e immenso, ricco e raffinato. Ma Gengis
Khan indicò nella Cina il simbolo di tutta la decadenza della Terra: “Il cielo è stanco dell’arroganza e del lusso spinti all’estremo della Cina. Io vivo nella regione selvaggia del nord dove l’uomo ha delle inclinazioni che impediscono il formarsi dell’avidità e dei desideri. Io ritorno alla semplicità e mi volgo alla purezza”. E si dichiarò investito di una missione di conquista per volere di Tengri, il “cielo blu eterno”, forza soprannaturale tradizionale dei tataromongoli. La sua era una visione messianica ispirata a una saggezza armata che doveva unire i popoli delle steppe e spingerli nel comune destino di governo universale e rifondazione del mondo. Un’idea che non apparteneva ai popoli della steppa prima di lui. Un’idea che diede ai tataro-mongoli la forza di conquistare quasi tutto il mondo allora conosciuto. Quella che muoveva i tataro-mongoli era una vera e propria ideologia che secondo alcuni studiosi sarebbe poi stata ereditata dalla Russia risorta dopo la fine del “giogo tataro”. Non è anche l’idea russa permeata da una visione messianica di rinnovamento del mondo? Non c’è forse un’assonanza tra le parole di Gengis Khan e quelle di Dostojevski che, nel romanzo L’idiota, scrive: “Abbiamo formato una grande nazione, arrestato per sempre l’Asia, sopportato grandi sofferenze ma mai abbiamo perso l’idea russa, quella che rinnoverà il mondo”?
Gengis Khan era cristiano? Tuttavia pensare che fossero solo dei brutali invasori è sbagliato. Temujin, il futuro Gengis Khan (il khan “oceanico”) era forse di fede cristiano-nestoriana, religione che secondo alcune fonti avrebbe appreso in gioventù mentre era al servizio del khan della tribù dei Keraiti di cui sposerà la figlia, Borte, iniziando ad ampliare i propri possedimenti. Il culto nestoriano affermava come in Cristo convivessero due distinte “persone”, l’uomo e il dio, unite dal punto di vista “morale”. In sostanza Cristo era anzitutto un uomo che però conteneva, come un tempio, il dio. Bollata come eretica dal Concilio di Calcedonia (451 d.C.) si diffuse in Asia presso gruppi tatari turcofoni. Pur rimanendo fermamente ancorati alla tradizione religiosa delle steppe, i grandi khan non erano poi così distanti dalla cultura europea. Un esempio di questa relativa vicinanza è la lettera che Ogodai, figlio di Gengis Khan, scrisse al Papa intimandolo a sottomettersi perché “così è voluto da Dio” e “tu verrai alla testa di tutti i re a offrirci servizio e omaggio” altrimenti anche l’Europa occidentale avrebbe conosciuto la furia dei mongoli. Fu poi il turno di San Luigi, re di Francia, che nel 1260 si vide recapitare una missiva in cui il gran khan Guyuk gli offriva un’alleanza contro i mamelucchi che in Egitto le stavano dando di santa ragione ai francesi. E il francescano Rubrouk, latore della missiva, scrisse nella sua Cronaca che il santissimo re stava per cedere all’offerta degli infernali “tartari”. I tataromongoli non erano dunque estranei alla politica europea e la brutalità che essi adoperavano contro i nemici era per loro un modo per convincere gli altri ad arrendersi senza combattere, evitando nuove guerre. Ai loro occhi gli europei erano destinati ad essere sudditi del regno universale dei khan e la rivalità era solo temporanea, necessaria a imporre il volere di Dio. La grande pace avrebbe poi regnato sul mondo. I principi russi che non accettavano questo disegno divino erano ribelli contro Dio e per questo andavano distrutti. Alcuni principi, come Alexander Nevski, scelsero di sottomettersi e fu grazie a loro che la Russia ha potuto risorgere, quasi due secoli dopo. La Russia è sopravvissuta grazie alla sottomissione, all’intelligente accettazione di una supremazia, e all’attesa che il potere dei khan si sgretolasse. Ma in quei due secoli i russi si lasceranno anche “conquistare” da alcuni aspetti della cultura e della mentalità mongola che avrebbero poi integrato nel proprio modo di vivere e di pensare.
La lunga lotta dei russi contro i tatari. Abbiamo visto che l’ideologia dei tataromongoli era l’elemento distintivo rispetto alle altre popolazioni delle steppe che li avevano preceduti. Popolazioni con cui, pur tra feroci scontri, gli slavi orientali seppero trovare un modus vivendi poiché entrambi i gruppi non erano animati dalla volontà di annientare il nemico. L’idea mongola che fosse volere di Dio il loro dominio sul mondo e che ogni ribellione a questo disegno fosse una ribellione contro Dio, li spinse a fare tabula rasa di ogni resistenza. Nella concezione dei mongoli “in cielo c’è Dio, unico, immortale e altissimo. In terra c’è il khan oceanico, l’unico e supremo signore”. Una visione metafisica del mondo che coincide con una visione politica per la quale i popoli della terra possono anche trovarsi de facto fuori dal dominio dei khan ma de jure essi sono membri del grande impero voluto da Dio. Accettare la sottomissione, quindi il vassallaggio, risparmiava dalla distruzione. Ma i russi del XIII secolo, a differenza di altre popolazioni, decisero di combattere per la propria libertà. Se uscirono sconfitti dalla scontro fu perché quella libertà era “anarchica”, non subordinata a una organizzazione che unisse tutti i principati russi i quali, a dirla tutta, si erano fatti la guerra fino al giorno prima dell’arrivo dell’orda. Fu il coraggio dei russi a “costringere” i mongoli alla distruzione. La conquista, come abbiamo visto, fu brutale. Dai legati pontifici in visita nelle terre degli slavi orientali apprendiamo che dei russi “restarono solo mucchi di ossa”. Una volta sottomessi i nemici, l’atteggiamento dei dominatori tataro-mongoli si contraddistinse per la grande tolleranza: non si infierì mai sui nobili scampati al massacro; venne conservata la libertà religiosa; vennero favoriti i commerci grazie alle nuove reti di comunicazione. I tataro-mongoli non tentarono mai di installare propri nobili o proprie istituzioni. Nel 1257 tutte le città russe, da Mosca a Kiev, erano state conquistate. Novgorod era l’ultima grande città russa a non essere ancora stata toccata dalla furia dei conquistatori. Un giorno di primavera arrivarono alle porte di Novgorod due emissari mongoli chiedendo la sottomissione della città. Novgorod era la città “rivale” di Kiev prima dell’invasione, ricca e potente fu anch’essa fondata da quei vichinghi che diedero vita a molti dei principati russi poi caduti sotto i colpi dell’orda. La Cronaca di Novgorod racconta come la popolazione non volesse cedere e rifiutasse di pagare i tributi richiesti dai messi mongoli in cambio della pace. Fu il principe Alexander Nevski, vincitore degli svedesi nel 1240 e dei livoni nel 1242, a evitare la catastrofe. Alexander Nevski fu anzitutto un condottiero e per questo è ricordato e celebrato in Russia. Fatto santodalla chiesa ortodossa nel 1547, è considerato l’eroe nazionale russo e a lui sono dedicati l’omonimo monastero di San Pietroburgo, la cattedrale di Sofia e quella di Tallin. L’eroe però si sottomise ai mongoli contro il volere del popolo. Fu un gesto di grande spessore politico anche se costò la vita a molti suoi concittadini che, nel 1259, si ribellarono alle imposte volute dai mongoli e vennero uccisi su suo ordine.Nevski non voleva in alcun modo offrire ai suoi nuovi “padroni” mongoli ragioni per dubitare della lealtà della città. Da buon vassallo combatté al fianco dei mongoli in molte battaglie. L’eroe della Russia sacrificò la libertà in nome della sopravvivenza e diede così inizio al lungo e travagliato rapporto tra mongoli e russi. La pace mongola consentì alla Russia di ricostruire le proprie forze, di ripopolare le aree abbandonate dopo l’arrivo dei tataro-mongoli e di ricostruire le città. Alcuni centri, come Kiev e Rjazan‘, non torneranno mai più all’antico splendore. Dopo alterne vicende Kiev, la regina della città russe, passerà nelle mani dei polacco-lituani e la leadership e la cultura
vichingo-slava scompariranno lasciando il posto a un progressivo ripopolamento slavo di cui gli ucraini di oggi sono gli eredi. In tal modo Kiev cesserà di essere una città eminentemente “russa” lasciando spazio all’emergere di nuovi centri di potere, su cui svetterà Mosca. Nel settembre del 1380 fu proprio il principe di Mosca, Dimitri (poi noto con l’appellattivo di Donskoj, ovvero “Demetrio del Don”) a sconfiggere per la prima volta un capo mongolo. Fu quella la celebre battaglia di Kulikovo, la “battaglia di Campo della Beccacce” che vide la sconfitta dei tatari dell’Orda d’Oro, uno dei khanati in cui venne diviso l’impero mongolo alla morte di Gengis Khan. Dopo 150 anni di dominio, i russi ritrovavano la via della libertà. Non fu una strada facile. Nel 1382 la città di Mosca venne punita dai tatari che la invasero e bruciarono. Si dovette attendere ancora un secolo perché il principato di Mosca potesse rafforzarsi al punto da spingere i tatari a una “separazione amichevole”. Nel 1480 sul fiume Ugra i due eserciti si incontrarono e senza ingaggiare battaglia i tatari accettarono di porre fine al proprio dominio sulla Russia. Nel 1552 Ivan il Terribile, penultimo principe della dinastia scandinava dei Rurik (ormai slavizzata) diede inizio ai lavori di costruzione della cattedrale di San Basilio, che domina oggi la piazza Rossa, per celebrare la definitiva sconfitta dei tatari ricacciati al di là del Caspio. La cattedrale di San Basilio testimonia però, con le sue cupole, le piramidi dorate, i campanili a forma di minareti, il profilo orientale, quanto forte sia stata l’influenza dei tataro-mongoli sulla cultura russa. Due secoli di dominazione hanno lasciato un segno indelebile sui russi, ma di quanto sia profondo questo segno parleremo la prossima volta.
Giogo tataro o pax mongolica? “Russia mia! Donna mia! Il nostro cammino è dolorosamente chiaro: un dì la volontà di una freccia tatara l’ha tracciato per noi trafiggendoci il seno”. Con queste parole il poeta russo Alexander Blok esprimeva in versi l’opinione secondo cui le invasioni tataro-mongole avrebbero avuto conseguenze determinanti per lo sviluppo della Russia. Blok, il più grande poeta russo dopo Puškin, si inseriva in un dibattito che dall’Ottocento caratterizzava le élites culturali russe: qual è stato il ruolo della Russia nella storia, e che cosa è la Russia? Una domanda difficile per un paese dalla grande storia e dai bruschi e repentini stravolgimenti: le invasioni mongole, il regno di Pietro il Grande, la Rivoluzione d’Ottobre e la caduta dell’Urss sono avvenimenti su cui gli storici ancora oggi non trovano accordo e che segnano uno scarto rispetto alla precedente fase storica. Per quanto riguarda l’influenza mongola sui russi molte sono le teorie degli storici e degli intellettuali.Secondo alcuni la dominazione tataro-mongola avrebbe avuto conseguenze devastanti, portando il paese all’imbarbarimento e all’allontanamento dallo sviluppo europeo. Ecco allora che tale dominazione diventa negativa, un “giogo” che ha costretto i russi alla servitù segnandone il ritardo rispetto agli altri slavi e, più in generale, nei confronti dell’Europa. Queste valutazioni muovono dalla Russia ottocentesca che, dopo aver ricacciato Napoleone, non ha saputo cogliere gli elementi positivi della Rivoluzione francese imbrigliando la società in un immobile autoritarismo che ha impedito, di fatto, la rivoluzione industriale nel paese. Al mancato sviluppo industriale si devel’arretratezza russa (e sovietica) nel corso del Novecento fino ad oggi. Tutto sarebbe colpa dei mongoli. Una tesi fatta propria anche da Karl Marx che scrisse come “nel fango insanguinato della schiavitù mongola e non nella gloriosa rudezza dell’epoca normanna [quella dei vichinghi di Kiev] è nata quella Moscovia di cui la Russia moderna non è che una metamorfosi”. E proseguiva dicendo che “la potenza moscovita nacque e crebbe a quella scuola di abiezione che fu la terribile schiavitù imposta dai mongoli. [...] Alla fine Pietro il Grande cementò insieme l’acume politico del vecchio schiavo al servizio del padrone, con le orgogliose aspirazioni del capo tataro che vuole conquistare il mondo”.
Nella parole di Marx riecheggia l’idea antica, già proposta da Erodoto, che contrappone l’Europa “della libertà” all’Asia del despotismo. Erodoto aveva in mente le città greche opposte all’impero persiano ma l’antinomia si è prestata a numerose rivisitazioni nei secoli. La Russia venne così annoverata dai suoi detrattori come una potenza “asiatica”, autoritaria e distante dai valori europei. E il carattere asiatico della Russia andava ricercato sia nella dominazione mongola che nella cultura bizantina, immobile e autocratica. A questa visione si opposero, in Russia, scrittori e saggisti che invece vedevano nell’eredità mongola e bizantina i due aspetti fondamentali della diversità russa: essi opponevano al razionalismo europeo, per loro nefasto, una spiritualità irrazionale che diventava idea-forza capace di portare la Russia verso il dominio del mondo.
L’idea-forza è la stessa, come abbiamo visto, formulata da Gengis Khan e consapevolmente gli eurasiatisti la ripresero. Dopo l’oblio del periodo sovietico l’eurasiatismo è tornato in auge in Russia. L’opera del filosofo Alexander Dugin propone un neo-eurasiastismo che vede nella Russia la nazione guida del blocco post-sovietico e dell’Europa tutta in funzione anti-americana. A differenza del pan-slavismo, idea politica che pone la Russia alla testa delle nazioni slave, incaricata della missione della libertà per gli slavi oppressi,l’eurasiatismo si pone in diretta connessione con l’oriente asiatico e vede nell’alleanza con la Cina e l’India il motore della
conquista universale. Quella del “pericolo giallo” è un’altra idea ricorrente nel mondo intellettuale russo. Idea che tradisce paure profonde che individuano nell’Asia la madre delle invasioni, dei reggimenti di formiche che preludono alla perdita di libertà e allo stato totalitario. L’ossessione mongola è ricorrente nella letteratura russaspecialmente nei periodi di incertezza. Il termine “mongolo” diventa allora sinonimo di “asiatico”: all’indomani della guerra russo-giapponese, che vide la vittoria dello stato asiatico, in Russia si diffuse il timore dell’invasione “gialla”. Un’idea sviluppata già dal filosofo Vladimir Solov’ev che paventava, nel 1894, una imminente nuova invasione di “mongoli innumerevoli e insaziabili come le cavallette”. E’ interessante notare come lo scrittore polacco Stanislaw Witkiewicz desse alle stampe, nel 1927, un romanzo dal titolo “Insaziabilità” ambientato “nel superbordello di una metropoli cosmica” in un’epoca immaginaria in cui disfacimento e superomismo si fondono, segnando la fine di una civiltà corrotta e minacciata dall’arrivo di un esercito “rosso” che come cavallette tutto divora e distrugge. Quando nel 1939 l’esercito sovietico invase la Polonia molti videro nell’opera di Witkiewicz una premonizione. Per i polacchi l’oriente despotico e totalitario era però la Russia. Segno che ognuno ha la sua Asia con cui fare i conti. Al netto delle paranoie e delle ideologie, l’eredità tataro-mongola sulla Russia è concreta. Se non se ne può indagare in modo oggettivo l’influenza sulla mentalità, e quindi sulle idee politiche e sociali, è però possibile constatare quante siano le parole russe di origine mongola. La maggior parte dei termini commerciali russi è di origine mongola: “bazar” (mercato); “tovar” (merce); “sunduk” (forziere); “barys” (profitto); “tamoznja” (dogana) segno delle intense attività commerciali tra russi e mongoli. Ancora oggi nel centro di Mosca è possibile passeggiare lungo l’Arbat, un quartiere che trae il nome dal “ribat”, la locanda in cui i commercianti alloggiavano e cambiavano i cavalli. E i mercanti tatari entravano in città per quella che ancora oggi è la Bol’saja Ordynka, la strada dell’Orda d’Oro. Per i russi il dominio mongolo è coinciso anche con le (troppe) tasse. Ben presto i russi dovettero pagare i tributi in moneta sonante e non con il grano o altre derrate. Questo portò allo sviluppo del rublo che fece la sua comparsa a Novgorod e Mosca a metà del XIII secolo. Il valore del rublo era di cento den’gi, termine che oggi sta per “soldi” e che deriva dal tataro “tenga”. Anche il copeco, pari oggi ai centesimi di rublo, era una moneta in uso presso il tatari (il kopak). La durezza dell’occupazione tatara ha lasciato anche vocaboli come “kandaly” col significato di “ceppi, catene”. Anche l’uso russo di sedersi su un tappeto o su un materasso (il tjuffiak) deriva da un’usanza tatara di sedersi sui tappeti (tusak). L’abbondanza di termini commerciali dimostra quanto intensi fossero gli scambi sotto il dominio tataro-mongolo. Un dominio che non fu mai particolarmente oppressivo: i russi poterono conservare le loro usanze; i nobili mantennero i propri privilegi e mai i nuovo dominatori cercarono di sostituirli con membri dell’élite mongola. La differenza di religione portò il popolo russo a riunirsi intorno alla fede comune in un ripiegamento nazionale facilmente comprensibile che giovò alla costruzione di una identità comune,cosa quest’ultima assai importante visto che i principati russi erano in costante guerra tra loro prima dell’arrivo dei mongoli. Malgrado l’enorme pressione fiscale, i russi poterono sviluppare una solida economia favorita dall’introduzione dell’efficiente sistema di comunicazioni mongolo e dall’edificazione di nuove strade. Le città russe finirono al centro di una fitta rete di commerci tra l’Europa e l’Asia che contribuì allo sviluppo dell’artigianato. Le lunghe carovane cariche di merci che partivano da Venezia, Bruges, Parigi, passavano per quella Russia che cresceva di ricchezza e forza all’ombra della pace mongolica. Forse, senza la pax mongolica, la Russia non sarebbe mai cresciuta al punto da poter costruire un impero diventando la potenza mondiale che è stata ed è.
CAPITOLO SEI
slavophilia
Dopo la vittoria sui tatro-mongoli, i russi riusciranno a costruire lentamente uno stato unitario destinato a diventare una potenza mondiale. A questa potenza guarderanno i popoli slavi oppressi dal dominio ottomano o tedesco, sperando che dalla Russia potesse venire la libertà e che con Mosca si potesse creare una federazione di nazioni slave. Dopo un primo rifiuto di questo ruolo salvifico, la Russia deciderà di porsi come nazione guida tra quelle slave ma la libertà per i popoli slavi non sarebbe stata la cifra di quell’intervento.
La nascita di un’idea. Malgrado il processo di diversificazione, tra i popoli slavi restava viva la coscienza dell’unità originaria o quantomeno della prossimità culturale. Certo l’idea di una “fratellanza slava” ha richiesto tempo per evolvere e maturare ma già nel 1601 assistiamo alla prima compiuta riflessione sull’unità culturale slava, segno che l’idea circolava sotterranea già da tempo: è il monaco Mavro Orbini, ragusano, con il libro Storia sul regno degli Slavi, pubblicato a Pesaro, a dare impulso all’idea slava. Sulle sue orme andrà un altro prete cattolico, questa volta croato, Jurij Krizanic, autore di una Storia dell’impero russo nel secolo XVII che individuerà nella Russia la nazione guida per il riscatto delle genti slave oppresse dai turchi e dai tedeschi. Non si trattò di adulazione visto che Krizanic, dopo aver esposto le sue idee in Russia, fu
condannato a quindici anni di esilio in Siberia in quanto ritenuto “politicamente pericoloso”. Quando lo zar russo Pietro il Grande decise di attaccare i turchi e liberare Azov, gli slavi videro in lui un salvatore. Specialmente nei Balcani si diffuse la speranza che lo zar attaccasse i turchi anche su quel fronte liberando gli slavi del sud dal “giogo ottomano”. Gli slavi del sud non furono gli unici a sperare nell’intervento “liberatore” della Russia. Anche in Polonia, per resistere alla germanizzazione, si guardava al vicino russo. Lo scolastico polacco Stanislaw Trembecki, colpito dalla sottomissione degli slavi e dalla spartizione della Polonia del 1772, scrisse nel 1784 un poema nel quale dichiarava senza mezzi termini la fratellanza tra russi e polacchi: “E’ lo stesso sangue, la stessa lingua, la stessa natura decisa, la stessa incrollabile audacia, lo stesso sprezzo della morte”.
L’idea panslavista nasce in Polonia. E’ da notare come Trembecki dicesse “la stessa lingua“, anche se tra polacco e russo esistono ed esistevano sensibili differenze che la situazione politica imponeva di accantonare: per la Polonia messa in pericolo della germanizzazione, la Russia poteva essere una nazione sorella. Diversamente, per la Polonia degli anni Trenta del secolo scorso, la Russia era un nemico da cui guardarsi. Segno di come spesso le identità culturali non sono che il riflesso delle necessità politiche. Trembecki era un realista: anche la Polonia aveva ambìto al ruolo di guida dei popoli slavi, ma nel XVIII° secolo non era più in grado di assumersi quell’onere. Il testimone doveva allora passare alla Russia, lo stato più forte tra quelli slavi, e bisognava accettarne il cesaropapismo perché “l’unione degli slavi nell’impero russo condurrà all’Unione dell’Europa e farà scomparire la guerra in questa parte del mondo“. L’Unione Europea fatta a partire dai paesi slavi, un corso alternativo della storia che oggi si mostra in tutta la sua suggestione. Adam Czartoryski (1770-1861), esponente della nobiltà polacca, fu un grande patriota eppure auspicò l’annessione della sua patria alla Russia specialmente per difenderla da Napoleone. Opinioni del tutto differenti ebbe un altro patriota ed eroe polacco, Josef
Poniatowki, erede dell’ultimo re di Polonia, che combatté al fianco di Napoleone per restituire al suo paese almeno una minima libertà, come in effetti avvenne con l’istituzione dell’effimero granducato di Varsavia. Dopo le guerre napoleoniche lo zar Alessandro I° si fece carico dell’idea pan-slavista ma solo per mero tornaconto politico, guardandosi bene dal realizzare quel “sistema federativo delle nazioni slave” che Czartoryski e altri pan-slavisti polacchi auspicavano. Il dominio russo sulle nazioni slave confinanti (Polonia e Ucraina) non fu tanto diverso da quello tedesco su Boemia, Slovacchia, Polonia, Croazia o dal “giogo” ottomano in Serbia, Montenegro e Bosnia. La disillusione sarebbe giunta ben presto.
Il panslavismo federale, utopia antizarista. Se l’origine dell’idea degli “slavi uniti” è polacca (non senza sorpresa), il suo sviluppo è tutto russo. Nei primi anni dell’Ottocento si diffusero in Russia molte società segrete che congiuravano contro l’assolutismo zarista. Questo fenomeno, noto con il termine generico di “decabrismo“, coinvolse rivoluzionari liberali, gradi minori dell’esercito e intellettuali. Nel 1824 alcuni di questi fondarono la Società degli Slavi uniti con lo scopo di “riunire i popoli slavi in un’unione federativa” ma vennero repressi duramente nel 1825 quando l’insurrezione decabrista andò in scena senza successo. L’idea dell’unità slava si era però ormai diffusa e il
grande poeta ucraino Taras Shevchenko diventerà l’araldo della solidarietà slava anche se questa volta il “giogo” contro cui unirsi non era quello ottomano, ma quello russo. Un “giogo” sotto il quale si trovò anche la Polonia che, dopo l’insurrezione del 1830, perdeva ogni chimera nei confronti del vicino russo. L’influenza di Taras Shevcenko si fece sentire e la Confraternita dei santi Cirillo e Metodio riprese l’idea pan-slavista: un romanziere, un giurista e alcuni studenti di Kiev furono i sostenitori di un’unione federativa tra i popoli slavi. Pur trattandosi di un piccolo e apparentemente innocuo gruppo, la reazione della polizia zarista fu durissima come in generale la repressione dell’idea pan-slavista.
Bakunin e l’utopia infranta. E alla repressione seguì la radicalizzazione. Il filosofo rivoluzionario e anarchico Michail Bakunin, invitato al primo congresso delle nazioni slave, tenutosi a Praga nel 1848, nel pieno della temperie nazionalista, disse apertamente che se gli slavi speravano nella Russia sbagliavano di grosso: “voi chiedete la vita e lì c’è solo mortale silenzio” e arrivò a definire la Russia uno stato “knuto-germanico”, dove “Knut” vuol dire frusta. Si diceva insomma che l’impero degli zar era solo una versione diversa di dominio “alla tedesca”.“Entrando nella Russia dell’imperatore Nicola scendereste nella tomba di qualsiasi libertà”. Con Bakunin si infrange l’utopia panslavista. Proprio mentre molte nazioni “risorgevano” in quel 1848 gravido di speranze e conseguenze, l’idea dell’unità slava perdeva colpi. A chi rivolgersi se anche la Russia, il paese guida, non avrebbe garantito alle nazioni slave la libertà? Il tempo dell’autodeterminazione nazionale degli slavi sarebbe presto venuto ma ognuno avrebbe fatto per sé.
Dal panslavismo agli “slavofili”. Ma anche in quella “tomba della libertà” non mancò chi si chiese che cosa fosse la Russia e dove dovesse andare. Verso le grandi pianure dell’oriente o verso l’Europa e i suoi modelli politici ed economici? Una questione aperta fin dai tempi di Pietro il Grande, l’imperatore che fondò San Pietroburgo (1703) e fece della Russia una potenza europea, non già asiatica. L’idea panslavista russa a metà Ottocento si trovò a fronteggiare quella dei “filo-occidentali” e cambiò ragion d’essere. Il pan-slavismo federalista e liberale
(persino libertario, con Bakunin) fu soppiantato dall’idea che la Russia avesse un ruolo messianico: quello diunire gli slavi sotto la sua protezione. L’unità degli slavi non era più, quindi un progetto di autodeterminazione dal basso, pur sotto l’impulso di una nazione guida mossa da ideali solidaristici, ma una realtà imposta dall’alto sotto la spinta dell’egoismo zarista. Gli intellettuali che si fecero promotori di questa idea si chiamarono “slavofili” anche se apparve chiaro fin da subito che erano “russofili”. La lotta tra “russofili” e occidentalisti proseguirà per tutto l’Ottocento e arriverà fino ai giorni nostri, incrociando alcune domande fondamentali sull’identità russa e sul destino della nazione russa.
Occidentalisti vs slavofili. L’utopia
degli “slavi uniti” naufragò di fronte al protagonismo russo che, dopo aver rifiutato il ruolo di motore dell’emancipazione dei popoli slavi dal dominio ottomano e tedesco, fece proprio il ruolo di nazione guida malcelando le ambizioni egemoniche che, nella liberazione degli slavi, trovava giustificazione delle proprie mire espansionistiche. A supporto di tali ambizioni c’era una corrente di pensiero destinata a lasciare il segno in Russia, quella degli slavofili. Il nome è fin da subito un inganno poiché più che “amici degli slavi” erano nazionalisti russi che volgevano lo sguardo al ruolo messianico e metafisico della Russia nel mondo e nella storia.
Opposta a quella degli slavofili era la corrente dei cosiddetti “occidentalisti” che prendevano le mosse dalla lezione di Pietro il Grande, l’imperatore che fondò San Pietroburgo e aprì la Russia all’Europa e alle sue influenze culturali e politiche. Entrambi i gruppi si chiedevano che cosa costituisse l’essenza della Russia, quale fosse la sua
legge storica, quale il suo destino, e pur dandosi risposte differenti partivano dalla stessa ansia di scuotere la Russia e rifarla nuova. Così non deve sembrare assurdo che il principale esponente degli slavofili, Ivan Kireevskij, abbia iniziato la sua carriera fondando una rivista di segno opposto dal titolo, parlante, di “L’Europeo” e viceversa che gli occidentalisti erano fortemente attratti dalla “anima russa”, eterna, profonda e contadina. Il comune amore per la Russia si declinò però in opposte idee sul suo sviluppo che cominciarono a distinguersi nettamente nel 1836 quando Petr Caadaev pubblicò la famosa Lettera filosofica in cui proponeva un occidentalismo intransigente che passasse per l’adozione del cattolicesimo. Caadaev, riflettendo sulla non integrazione della Russia con l’Europa scrisse: “Solitari nel mondo, non gli abbiamo dato nulla e non ne abbiamo appreso nulla. Non abbiamo contribuito in nulla al progresso dello spirito umano e quanto ci è venuto da questo progresso lo abbiamo sfigurato”. La Lettera fu scritta in francese che era, all’epoca, la lingua degli intellettuali e dell’aristocrazia, e il cui uso fu stigmatizzato durante le guerre napoleoniche quando al patriottismo russo ogni cosa andava sacrificata. Caadaev attribuiva al “giogo
bizantino” la colpa del ritardo russo, ovvero a quel carattere di “paralisi contemplativa di fronte alla perfezione” che la Russia avrebbe ereditato tramite la cultura greco-ortodossa.
perversione europea. Non a caso gli scrittori sovietici faranno del contadino il simbolo dell’egoismo, del denaro, dell’ambizione alla proprietà.
Al contrario Kireevskij riteneva che l’apporto bizantino fosse costitutivo dell’essenza russa e quindi andava esaltato, non già rifiutato, poiché aveva dato alla Russia una cultura artistica e una scuola di pensiero libera dal legalismo e dal razionalismo della civiltà cattolico-latina. L’accento sull’irrazionalismo della cultura russa caratterizzerà tutti gli slavofili che ne faranno, ovviamente, un motivo di vanto: per loro il razionalismo europeo era una perversione che allontanava dai veri valori della patria e della religione, che soffocava l’uomo e svuotava la capacità di astrazione in nome della logica. Una logica a cui l’Europa sacrificava la morale. Essi vedevano quindi nell’ortodossia, da un lato, e nel mondo rurale i due aspetti fondamentali dell’identità russa. Per Kireevskij l’uomo europeo è uno schizofrenico in cui “pulsa il sentimento religioso” e al contempo “premono le energie della ragione”. L’uomo russo non è così, è unico e tondo, crede nella fede e non nella ragione, è paziente e pronto al sacrificio, compassionevole e legato alla morale tradizionale. Il simbolo di questa morale è il contadino che da secoli vive sempre nello stesso modo, chiuso nelle comunità rurali del mir e dell’artel.
Per Dostojevskij l’uomo russo era impregnato di spiritualità e questo lo rendeva superiore all’uomo europeo che, nei suoi romanzi, è sempre descritto come immorale e doppio. Il popolo russo, in virtù di questa superiorità, aveva il compito di liberare l’umanità dall’opprimente influsso dell’occidente a partire proprio dai popoli slavi. La Russia zarista sarebbe allora dovuta essere quel “giustiziere” descritto dal poetaTjucev che scrisse: “Si capisce dunque perché la Polonia ha dovuto perire. Non la razza polacca, grazie a Dio, ma la falsa civiltà, la falsa nazionalità che le erano state ascritte”. I polacchi insomma sarebbero slavi che sbagliano. Questa idea servì da base all’imperialismo russo e ne giustificò l’aggressività nei confronti degli altri popoli slavi costretti a entrare nel grembo della “madre Russia”. Più che slavofili erano, con buona evidenza, russofili o russocentrici.
Lo stato autoritario degli zar era quindi, per gli slavofili, una proiezione terrena della verticalità celeste. Lo zarismo incarnava la spiritualità russa e diventava il veicolo attraverso cui la nazione avrebbe compiuto la propria missione nel mondo. Di idee opposte erano gli occidentalisti che invocavano l’introduzione di elementi del pensiero liberare e costituzionale europeo. L’erede degli slavofili fu Solzenicyn, noto in Europa per la sua opposizione all’Unione Sovietica. Egli non era però un campione del liberalismo occidentale ma vedeva nello scientismo marxista un’espressione della
Le opposte idee di occidentalisti e slavofili avrebbero condizionato la riflessione politica russa ancora per molto tempo, attraversando l’epoca sovietica e giungendo fino ai giorni nostri. Il nazionalismo russo, lo stato autoritario e verticale, il ruolo messianico della Russia nel mondo e il suo essere antemurale contro l’avanzata della barbarie occidentale e del suo carico di perversione e immoralità, è ancora oggi ben presente nelle dichiarazioni e nell’agire politico dell’attuale inquilino del Cremlino, il presidente Vladimir Vladimorovic Putin. Gli occidentalisti hanno perso la battaglia ma nella società russa queste due anime convivono. Sono le due teste dell’aquila russa, che guardano in direzioni opposte pur avendo un solo cuore. Forse in ogni russo abitano un Kireevskij e un Caadaev e anche per colpa loro oggi i russi sono un po’ più schizofrenici, come dire… europei.
CAPITOLO SETTE
gentes
Esistono minoranze dimenticate nel cuore d’Europa, genti slave convertite all’Islam, e spesso percepite come estranee al tessuto sociale in cui vivono, oppure minoranze romene o turche in paesi slavi, o ancora slavi in Germania, eredità dell’antica penetrazione slava in quelle terre. Anche in Italia ci sono minoranze slave che da secoli popolano le regioni a ridosso del confine orientale.
Gli slavi d’Italia. La presenza di popolazioni slave in Italia non è recente, esse sono parte integrante del nostro paese da secoli, giunte sulla scorta delle grandi migrazioni che nel VII secolo le portarono dalla Polonia e della Germania fino ai Balcani. La direttrici della penetrazione slava in Italia sono due, una marittima, dall’Adriatico, e una terrestre, dall’attuale Slovenia al Friuli e al Veneto. Risale al 926 un documento che attesta con l’appellativo di župan (vale a dire “signore”, in serbo) il reggente della città di Vieste. A Palermo, fino al 1090, quando ebbe termine la dominazione araba sull’isola, esisteva una “via slava”, a render conto della presenza di quella comunità in città. Già nel VII secolo si assistette a migrazioni dalla Dalmazia, sovente associate ad atti pirateschi, e di proto-bulgari nelle Marche. Tuttavia la presenza slava nell’Italia meridionale non è stata durevole essendo legata alle fortune degli stati slavi balcanici e in particolare alla Repubblica di Ragusa, la “quinta repubblica marinara”, la cui influenza commerciale si estendeva dalla Dalmazia alla Puglia alla Sicilia. Destinata a lasciare un segno duraturo è invece stata la migrazione degli slavi nell’Italia settentrionale, in Friuli e Veneto. E’ probabile che il loro arrivo in Italia abbia seguito la rotta tracciata dai Longobardi i quali, nella loro spinta verso occidente, lasciarono libere alcune regioni orientali che gli slavi ripopolarono complice anche la fuga della popolazione autoctona. Si stanziarono così nell’attuale Friuli e nel Veneto, lungo il corso del fiume Natisone che collegava Aquileia, sede di un importante patriarcato, all’Europa centrale. La prima attestazione certa della presenza slava in Italia è fornita dall’Historia Langobardorum di Paolo Diacono che narra della battaglia di Broxas (oggi Porta Brossana, presso Cividale del Friuli). Qui, nel 664circa, le popolazioni slave stanziate nei territori circostanti tentarono la conquista di Cividale approfittando dell’assenza del duca longobardo Vetteri. Paolo Diacono ricostruisce la vicenda che portò alla battaglia e alla sconfitta degli slavi i quali, in massima parte, fuggirono nelle valli da cui erano discesi. Al di là del fatto storico, la testimonianza di Paolo Diacono ci consente di datare la presenza slava in Italia. La popolazione slava non lasciò traccia di una cultura propria avendo probabilmente abbracciato fin da subito la religione cristiana ed essendosi assimilati alla popolazione locale. Se così fosse, gli slavi italiani sarebbero stati i primi a convertirsi al cristianesimo. Solo la lingua rimase, non sappiamo in che misura, elemento distintivo delle comunità slave. Altri insediamenti slavi vennero favoriti, nel X secolo, dal patriarcato di Aquileia che aveva necessità diripopolare le proprie terre a seguito delle invasioni ungare. Fu così che genti slave furono invitate a stanziarsi nelle valli del Torre e dello Judrio e nella val di Resia. Il relativo isolamento e la distanza dalle altre terre slave portò questi nuovi immigrati a una rapida assimilazione. Al secolo XI risale invece la presenza slava nel Collio dove, grazie al diretto contatto con le popolazioni slave stanziate nell’attuale Slovenia, gli slavi riuscirono a mantenere una propria identità linguistica e culturale.
La presenza slava doveva comunque essere numericamente consistente se, allorché la regione fu conquistata dalla Repubblica di Venezia, fu concesso agli “schiavoni” un particolare statuto civile che li esentava dagli obblighi militari e accordava privilegi fiscali e amministrativi. E’ possibile che il termine “schiavone”, che come sappiamo divenne un etnonimo diffuso per definire le genti slave, avesse un’accezione estensiva e si applicasse anche a coloro che non erano slavi. Durante la Serenissima la presenza slava in Veneto e Friuli fu favorita dai commerci che collegavano le coste della Dalmazia, Venezia e Padova. Toponimi che ricordano la presenza slava sono diffusi in tutto il Veneto ma non tutti sono da ricondurre alla presenza di genti slave: le “porte schiavone” che restano nella toponimia locale erano spesso i luoghi del commercio degli schiavi che, nel basso Medioevo, erano in buona misura slavi fatti prigionieri nell’Egeo, in Grecia e nei Balcani. La sorte della “slavia” italiana seguì quella della Serenissima e, nel 1797, con il passaggio della Repubblica di Venezia all’Impero asburgico, gli slavi si trovarono a far parte di un “commonwealth” che comprendeva altre nazioni slave. Venne così l’età dei Risorgimenti, quello italiano ma anche quello sloveno, croato e serbo. Le nazioni slave riscoprivano la propria storia e rivendicavano l’indipendenza dai grandi imperi. InSlovenia, e non senza difficoltà, si affermò un modello linguistico ed estetico che portò alla prima codificazione dello sloveno. Nel 1808, anche grazie all’occupazione delle truppe napoleoniche, a Lubiana venne data alle stampe la prima grammatica slovena e accanto alle istanze culturali procedono quelle politiche. Sarà solo con la fine della Prima guerra mondiale e la caduta dell’Impero austro-ungarico, che gli sloveni troveranno una via per l’indipendenza entrando a far parte del Regno dei Serbi, dei Croati e degli Sloveni, nucleo della futura Jugoslavia. La nuova mappa del mondo lasciava però il 30% della popolazione slovena al di fuori dei confini del nuovo stato. Quelli residenti nei territori giuliani, friulani e veneti passarono allo stato italiano. Resta tuttavia controverso se quelli della “slavia” italiana siano da considerarsi sloveni oppure se si tratti di un gruppo autonomo, che con le vicende slovene ha poco a che spartire. In soccorso ci vengono i linguisti che, attraverso il metodo comparativo, hanno stabilito che la lingua slava parlata ancora oggi nella “slavia” italiana sia una variante dello sloveno e non una lingua slava evolutasi in modo indipendente dalla comune lingua protoslava. E così è venuta la recente legge di tutela della minoranza slovena in Italia (l. 38/01) che ne ha riconosciuto la presenza storica e i diritti fondamentali. Resta tuttavia chi si oppone a questo tipo di lettura e rivendica l’antichità dello “slavo del Natisone” e ritiene che gli slavi italiani non siano sloveni, da qui l’invenzione del nome “beneciani” per distinguerli dai cugini sloveni. “Beneciano” è un termine che deriva dallo slavo “Benečija”, ovvero Venezia: slavi veneziani, quindi. Le relazioni tra comunità slava e italiana non è sempre stata pacifica. Le persecuzioni antislave operate dal fascismo, la vendetta delle foibe, e le tragedie della Seconda guerra mondiale hanno tracciato un solco profondo tra le due comunità. La presenza slava in Friuli e nell’area giuliana fu occasione per rivendicare alla Jugoslavia quelle terre e durante la guerra partigiana non mancarono atrocità come quella, nota, di Porzûs. Ancora oggi la memoria su quei fatti è oggetto di divisioni e strumentalizzazioni politiche. Tuttavia la presenza slava in Italia è millenaria ed è sempre stata una convivenza pacifica, riscoprirla nella sue radici può forse aiutare a superare i traumi più recenti.
I pomacchi, slavi musulmani di Bulgaria. I pomacchi (lingua bulgara: pomaci) o musulmani bulgari localmente detti anche ahrjani, sono genti slave praticanti l’Islam. La loro origine sarebbe oscura, con tutta probabilità si tratterebbe di bulgari cristianiconvertitisi alla religione musulmana nei secoli del dominio ottomano nei Balcani. I pomacchi vivono per lo più in Bulgaria, anche se si trovano delle consistenti minoranze in Grecia e Turchia. In alcuni casi, il termine “pomacchi” è usato per indicare un’altra popolazione, quella dei torbesh, presente in Macedonia. Poco si conosce della conversione dei pomacchi all’Islam. Si ritiene sia stato un processo graduale, protrattosi in epoche diverse. Una prima ondata di conversione dovette occorrere nella seconda metà del XIII secolo, quando i turchi conquistarono la Bulgaria: si ha infatti notizia di numerosi proprietari terrieri passati all’Islam al fine di mantenere il possesso delle loro terre. Altre conversioni si ebbero sotto il sultano Selim II nel 1512. L’ondata maggiore si ebbe però nel XVII secolo, quando gli abitanti dei monti Rodopi passarono in massa dal Cristianesimo all’Islam. La comunità pomacca aumentò nel corso del XVIII secolo mentre, con tutta probabilità, le ultime conversioni si verificarono all’inizio del XIX secolo.
L’origine del nome “pomacchi” è incerta. Secondo molti studiosi bulgari, il termine deriverebbe dal bulgaro pomagač, cioè “aiutante“, ovvero truppe ausiliarie dell’esercito ottomano, oppure dapomohamedančeni vale a dire “islamizzati”. Quanto al termine ahjani, che i pomacchi un tempo utilizzavano per designare se stessi, deriverebbe dall’antico slavonico religioso agarjani, ossia “infedeli“, oppure dalla confraternita islamica dell’Ahi, molto diffusa nei Rodopi durante l’epoca ottomana. Altre interpretazioni fanno derivare il termine da po măka cioè “attraverso il dolore“, in riferimento ad una conversione forzataall’Islam, oppure da poturnjak, vale a dire “persona resa turca“.
Fino all’inizio del XX secolo, tutti gli storici erano concordi nell’affermare che i pomacchi furono convertiti con la forza. Attualmente, gli studiosi sono maggiormente divisi: considerando infatti che raramente gli ottomani presero delle misure drastiche per convertire i popoli conquistati, si ipotizza che i pomacchi siano diventati musulmani spontaneamente, per ragioni di opportunità politica ed economica. Ufficialmente, gli storiografi bulgari sostengono che la conversione fu forzata e le resistenze del popolo bulgaro furono decise: sarebbe questo un modo per mantenere intatta l’idea secondo cui l’intero popolo bulgaro fu unito nel combattere l’oppressore turco. In tal modo, la “bulgarità” (bălgarština) dei pomacchi sarebbe rimasta intatta, per cui sarebbe meglio parlare di “bulgari musulmani”. Un esempio di questo tipo ci è fornito dallo storico Andrej Pechilkov che nel 1989 affermò che, dopo aver adottato l’Islam perché costretti, i pomacchi riuscirono a confermare la loro identità etnica e la loro lingua. L’identità pomacca sembra ben lontano dal rigore, islamico o bulgaro, tanto caro agli storici del secolo scorso. Una testimonianza di questa identità liquida -propria di tutti i popoli, specie nei Balcani- è la festa diEderles. Il 6 giugno delo calendario giuliano infatti si festeggia, in tutti i Balcani occidentali, il “giorno di San Giorgio” -anche detto Đurđevdan. Il Đurđevdan viene osservato dai Serbi della diaspora in tutto il mondo, ma le celebrazioni maggiori hanno luogo ovviamente in Serbia e in Montenegro. Viene anche festeggiata presso i Gorani nel sud del Kosovo, pur essendo questa un’etnia di religione musulmana. Inoltre, è una festa molto sentita presso i Rombalcanici, a prescindere dalla fede religiosa. In lingua romani prende il nome di Ederlezi. Presso i Rom yugoslavi la feste viene salutata come l’inizio della primavera piuttosto che come una celebrazione religiosa. Ne esiste una versione cattolica, chiamata Jurievo, in Croazia dove cade il 23 aprile del calendario gregoriano. Il fatto che anche i pomacchi -slavi musulmani- festeggino tale ricorrenza conferma quanto indefinibile sia il concetto di confine -etnico, identitario, nazionale- nella penisola balcanica.
I ruteni, popolo dai mille confini. C’è un posto che si trova dove confinano tutti i confini, dove le frontiere si fronteggiano e le dogane impazziscono. Una regione sottosopra, a seconda di come la si guarda. Questo che posto non esiste, non me ne vogliano i suoi abitanti, e si chiama Rutenia. La popolazione locale è piuttosto confusa da secoli di spostamenti: non che siano stati loro a muoversi, bensì gli Stati che hanno mutato così tante volte fronte da rendere i ruteni cosmopoliti loro malgrado. Anche la religione, in Rutenia, è un miscuglio tra oriente e occidente: il culto uniate coniuga il rito greco alla fedeltà al pontefice. Cattolici di rito ortodosso, insomma. La principale città della regione-che-non-esiste è (oggi) Uzhgorod ma non si possono dimenticare Kosice e Leopoli. Un pasticcio vero? proviamo a dipanarlo.Oggi una Rutenia esiste, è una regione dell’Ucraina denominata “subcarpatica” (dagli ucraini) e “transcarpatica” (dagli slovacchi), situata a sud dell’oblast di Leopoli -che invece è parte della regione storica della Galizia- e a est della Slovacchia. In pratica è un insieme di placide valli in cui scorrono, in direzione ovest, gli affluenti del fiume Tibisco. Questa Rutenia è abitata in prevalenza da ucraini (80%) e ungheresi (12%) con minoranze russe, romene, slovacche, tedesche e rom. Il capoluogo di questa regione è, appunto, Uzhgorod. La città fu conquistata dai magiari nel XI secolo, da allora fu parte del Regno d’Ungheria e quindi dell’Impero Asburgico (poi Austro-Ungarico) fino al 1918 quando, a seguito della sconfitta, l’impero venne smembrato col trattato del Trianon. Uzhgorod passò come tutta la Rutenia alla neonata Cecoslovacchia. Quando con lo scoppio della Seconda guerra mondiale la Cecoslovacchia
collassò, la Rutenia si dichiarò indipendente. L’esistenza di questo piccolo stato libero consentì a più di centomila soldati e civili polacchi di fuggire allo sterminio nazista. Alcuni tra quei soldati si ritroveranno a combattere sui fronti di mezz’Europa, in Italia a Montecassino. L’occupazione dell’Armata Rossa mise fine all’indipendenza. Dopo la guerra la Rutenia finì all’Ucraina in seno alla ridefinizione dei confini interni fatta dall’Unione Sovietica. Rutenia è però un concetto assai più volubile. Il termine si fa risalire alla radice norrena roos, termine con il quale le popolazioni slave e baltiche chiamavano i popoli scandinavi nell’alto Medioevo. Quegli scandinavi, che noi conosciamo col nome di vichinghi o variaghi, penetrarono infatti nella pianura tra i Carpazi e gli Urali dando vita a un regno vichingo, quello della Rus’ di Kiev. La frantumazione di quel regno portò alla formazione di numerosi principati poi conquistati dai mongoli e successivamente rinati. Il termine ruteni, quindi, è una derivazione parallela di russi, e di rugi (si pensi oggi all’isola di Rugen) dalla comune radice linguistica norrena. Con “russi” e “ruteni” si intendevano però i vichinghi. Col nome “ruteni” furono poi indicati, intorno al XVI secolo, gli abitanti del Granducato di Lituania (attuale Lituania e Bielorussia). La burocrazia asburgica invece chiamo “rutene” le genti dell’attuale Ucraina occidentale, talvolta sovrapponendola alla Galizia che ha in Leopoli il suo principale centro urbano. L’identità rutena è quindi oggi molto liquida. L’orso rosso in campo dorato è un simbolo che si può ritrovare in Slovacchia orientale, in Galizia, in Ungheria al confine con l’Ucraina e nell’Ucraina stessa. La religione uniate è il principale elemento identitario. Nel 1646, infatti, la chiesa ortodossa rutena prese la decisione di accettare la comunione con il Papa, ma di conservare il rito bizantino. Nasceva così la chiesa greco-cattolica rutena. L’accordo prese il nome di Unione di Uzhgorod. Il culto uniate è anche il simbolo del fondersi di oriente e occidente, punto di incontro tra il mondo bizantino, quello russo e quello cattolico. La persecuzione religiosa del periodo sovietico ha quasi distrutto questa fede, e con lei la cultura rutena, che solo oggi torna a vivere dopo decenni di oscurantismo.
I sorabi, slavi di Germania. Generalmente i popoli slavi costituiscono delle maggioranze:
pensiamo a paesi come Bulgaria, Croazia, Polonia, Slovenia e Russia. Spesso, data l’estrema varietà culturale dell’Europa centrale e orientale, sono anche minoranze in paesi vicini, che non sono necessariamente abitati da maggioranze slavofone, come gli slovacchi dell’Ungheria o gli sloveni dell’Austria. Accanto a questi casi ne esiste uno più particolare: quello di una minoranza slava che vive in un solo paese, senza costituire la maggioranza altrove. Stiamo parlando dei Sorabi, che vivono in Lusazia, regione storica dell’ex Germania Est. Si tratta di circa 70.000 persone divise fra Sassonia e Brandeburgo, stanziate nei dintorni di Dresda: le città più importanti sono Bautzen/Budysin e Cottbus/Chóśebuz. La loro lingua, che appartiene al gruppo slavo occidentale, viene generalmente divisa in sorabo superiore (30.000 parlanti) e inferiore (20.000). A questa suddivisione linguistica corrisponde quella religiosa: i primi sono in prevalenza cattolici romani, mentre i secondi luterani. Il termine con cui si autodefiniscono (serbski) richiama quello utilizzato dai serbi (srpski), ma le lingue sono diverse, in quanto il sorabo presenta marcate affinità col ceco e col polacco.
Nel 1871, dopo secoli di dominio tedesco e boemo, le terre sorabe vengono riunite sotto l’impero germanico. Proseguono i tentativi di assimilare la minoranza slava, ma questa risponde sviluppando le prime strutture politiche, come Macica Serbska e Domowina. Alla fine della Prima Guerra Mondiale, che ha visto la disfatta del Reich, i leader sorabi dichiarano l’autonomia della regione e inviano una delegazione a Berlino per negoziare una pacifica secessione. Respinti dal governo tedesco, il 1° gennaio 1919 dichiarano l’indipendenza. La conferenza che si svolge a Parigi (18 gennaio 1919-21 gennaio 1920) per decidere l’assetto dell’Europa postbellica offre alla minoranza l’occasione ideale per promuovere la propria causa. Una delegazione soraba raggiunge la capitale francese. Non solo le sue richieste vengono respinte, ma la loro regione viene divisa fra Prussia e Sassonia. Intanto è emerso in tutta la sua gravità il problema della lingua: nel 1920 le persone che usano il sorabo come idioma principale sono solo 170.000, mentre 600.000 lo parlano insieme al tedesco. Nella nuova Germania repubblicana la minoranza ottiene il diritto di utilizzare la propria lingua in ambito educativo e religioso, anche se questo non soddisfa le richieste dell’associazione Domowina. Con l’avvento di Hitler la situazione peggiora nettamente: il sorabo viene bandito. Alla fine della Seconda Guerra Mondiale le organizzazioni della minoranza si appellano ai vincitori sperando che il riassetto della Germania includa finalmente l’indipendenza della regione. Ma invano: gli Stati Uniti si ritirano dalla Lusazia lasciando che questa venga occupata dall’URSS e divenga parte della nuova Germania comunista. Il 10 maggio 1945 l’associazione Domowina viene nuovamente legalizzata e riconosciuta come “rappresentante politico, antifascista e culturale dell’intera nazione soraba“. Vengono poi approvate varie leggi che garantiscono alla minoranza altri diritti, che però saranno limitati dal rigido controllo della Stasi. In seguito alla riunificazione (1990) la minoranza soraba diventa la più numerosa delle quattro riconosciute da Berlino: le altre sono i Danesi, i Frisoni e gli Zingari (divisi in Rom e Sinti). L’associazione Domowina continua la propria attività, ma stavolta come organizzazione indipendente dal potere politico. L’anno successivo il governo federale, la Sassonia e il Brandeburgo danno vita alla Stiftung fur das sorbische Volk (Fondazione per il popolo sorabo), che dovrà tutelare le strutture culturali sorabe e fornire loro un adeguato sostegno economico. I tempi sono ormai maturi per un attivismo politico più organizzato. Nel 2005 viene fondato il Serbska Ludowa Strona (SLS, Partito Popolare Sorabo). Il nuovo soggetto politico si presenta come erede del Lausitzer Volkspartei, nato nel 1919 e bandito dalla dittatura. In ogni caso la situazione della lingua resta grave. Nel 2008 un gruppo di esponenti politici e culturali sorabi sottoscrive un appello indirizzato al governo tedesco e all’opinione pubblica. La minoranza lamenta la forte diminuzione dei finanziamenti pubblici “in
seguito a un disimpegno progressivo del governo federale”. “E’ incomprensibile – si legge – che un paese aperto al mondo come la Germania, che ha ratificato tutti i trattati europei sui diritti delle minoranze, non riesca a tutelare adeguatamente il popolo sorabo”. Nel 2011 la grave situazione del sorabo viene confermata dall’UNESCO. Il caso della minoranza soraba assume un valore che trascende il caso specifico, perché ci ricorda che i regimi liberaldemocratici, nonostante un luogo comune molto diffuso, non comportano sempre una tutela effettiva delle minoranze.
Gli arumeni, esuli della romanità. Si sono nascosti sulle montagne per sfuggire alle
invasioni, hanno sviluppato piccole comunità dedite alla pastorizia continuando a usare la loro lingua che conta, oggi, circa 300mila parlanti. Sono gli arumeni, una delle tante minoranze dimenticate dei Balcani. La loro origine è oscura, ma non troppo, il loro stesso nome ne tradisce la provenienza. Era infatti il III secolo d.C. quando, al tramonto dell’impero romano – in quel lasso di tempo che oggi gli storici chiamano età tardo antica – le regioni dei Balcani orientali furono attraversate dalle prime massicce migrazioni di popoli germanici e sarmati. La zona della Dacia, l’attuale Romania, era fortemente romanizzata ed era popolata, appunto, dai Daci romanizzati e dai coloni romani. Con l’arrivo degli slavi e, un secolo dopo, dei magiari, questi popoli romanizzati si ritirarono vero l’interno cercando riparo sulle montagne. Quelli che dai Carpazi, attraverso i monti Rodopi, emigrarono a sud – dirigendosi verso l’attuale Macedonia, la Grecia e l’Albania - sono gli antenati dei nostri arumeni. Si tratta in sostanza di genti romanizzate emigrate verso sud sotto la spinta delle grandi migrazioni dell’alto Medioevo. La progressiva slavizzazione dei Balcani li isolò in sempre più piccole comunità che tra loro si chiamavano “aruman”. L’isolamento ne conservò la lingua che subì, nel corso dei secoli, influenze dal greco e dall’albanese. L’impianto marcatamente neolatino consegna però la lingua arumena alla famiglia delle lingue romanze, specificamente al sottogruppo delle lingue romene. Le lingue romene (anche dette balcanoromanze) sono infatti quattro: il romeno tout-court, l’arumeno, l’istorumeno (parlato in Istria), e il meglenoromeno (nel nord della Grecia). Dalle varianti linguistiche è possibile seguire le tappe di questi esuli della romanità rifugiatisi tra i monti balcanici. Gli aromeni che, dalla Macedonia, si diressero poi in Grecia (nella zona della Moglena) parlano oggi il meglenoromeno, con forti inflenze slave. Queste genti oggi non si riconoscono “arumeni” e chiamano se stessi “vlaschi“. Il termine sembrerebbe derivare dal germanico walh a significare “straniero”. Questo termine veniva usato sia per indicare le genti latine o romanizzate che quelle di lingua celtica. Secondo alcuni sarebbe all’origine anche del termine “valacco“. Minoranze valacche sono presenti nella Repubblica di Macedonia e, durante l’occupazione ottomana della regione, cooperarono con gli slavi nella grande insurrezione di Ilinden–Preobrazhenie del 1903, che portò alla nascita di una effimera repubblica indipendente bulgaro-macedone con capitale a Kruševo, villaggio montano in cui il 30% della popolazione era arumena. Dopo l’invasione ottomana una parte degli arumeni rifugiatisi nei Balcani fuggì nuovamente verso nord in direzione dell’Istria. Intorno alla metà del Quattrocento le aree istriane erano spopolate a causa delle epidemie che attraversarono quelle terre in seguito alle invasioni dei cavalieri magiari. Qui gli arumeni vissero senza problemi fino all’inizio del Novecento. Nel 1922 il Regno d’Italia creò il comune di Valdarso grazie all’operato di Andrea Glavina, politico dalla vita assai particolare e autore del primo libro in istoromeno. Valdarso, che presto raggiunse i
tremila abitanti, fu la “capitale” degli arumeni d’Istria, qui si aprirono scuolein istoromeno. Poi, con la conquista di Tito, la comunità sidisperse seguendo le sorti degli esuli dalmato-istriani. Oggi Valdarso conta appena 300 abitanti mentre un censimento del 1991 conta appena 811 parlanti istoromeni in Istria. Oggi la lingua arumena è riconosciuta ufficialmente solo in Macedonia, l’alfabeto è latino. A seguito della conquista ottomana una parte degli arumeni stanziati in Macedonia emigrò in Valacchia, qui seguì le sorti del popolo romeno e venne – facilemente - assimilato.
Gli ashkali, egiziani dei Balcani. A Veliki Hrt, un sobborgo di Novi Sad, in un campo senza elettricità, senza fornitura d’acqua e strade asfaltate, vivono circa duemila profughi dal Kosovo. Il 20% è di etnia rom e gorani, l’80% è composto invece da ashkali, una popolazione che nel IV secolo d.C. ha lasciato l’antica Persia alla volta del continente europeo. La maggior parte degli ashkali si è fermata nei Balcani, soprattutto nel Kosovo, dove tuttora vive; nel 2002 il governo serbo ha ufficialmente annoverato la componente ashkala nell’elenco delle minoranze nazionali, distinguendola così da quella Rom con cui viene spesso confusa. Da dove vengano di preciso gli ashkali non è noto ma il nome con cui sono chiamati nelle diverse lingue richiama sempre l’Egitto. Inoltre, gli anziani affermano di essere venuti da “Misiri”, che è il nome turco, di origine semitica, per “Egitto”. La loro origine egiziana è stata confortata dalla pubblicazione di un documento degli archivi vaticani che menziona la partenza verso l’Asia minore e i Balcani di 300 000 egiziani, tutti uomini, tra i 306 e 337 d.C., ciò corrisponderebbe alla grande persecuzione di Diocleziano contro i cristiani d'Egitto (303 – 313). Questi rifugiati si sarebbero installati nei Balcani, La scoperta in Macedonia di icone di tipo copto in terracotta confermerebbe anche questa ipotesi.
Gli ashkali hanno una propria lingua (non sono madrelingua albanesi, come si legge spesso sui siti internet a loro dedicati), che si distingue da quella romanì per la presenza di termini e inflessioni arabe; sono musulmani e si riuniscono due volte all’anno, in occasione del giorno della Bandiera ashkala e nel giorno dell’Ashura. Indossano abiti colorati di bianco e di rosa. In Serbia e in Kosovo se ne contano quasi cinquantamila; in Serbia nell’ultimo censimento solo mille persone hanno dichiarato di appartenere alla componente ashkala. In realtà, il numero è sicuramente maggiore, anche se è impossibile stabilire quanti siano gli ashkali presenti sul territorio controllato da Belgrado. Molti di loro, infatti, si stanno a poco poco assimilando ai rom. Il problema è che gli Ashkali – tutti, non solo quelli di Veliki Hrt – vivono in condizione di estrema miseria e lottano quotidianamente per la sopravvivenza, abitano spesso a fianco dei rom di cui a poco a poco fanno propria la lingua e la cultura. In Kosovo gli ashkali hanno programmi nella propria lingua sulle frequenze delle radio e delle televisioni nazionali e la possibilità di studiare il proprio idioma a scuola. In Serbia, invece, non hanno ancora alcun tipo di riconoscimento concreto, anche se nel 2000 le autorità serbe hanno supportato e promosso la fondazione della “Matica Aškalija”, vale a dire la “Società Letteraria degli Ashkali”, il cui scopo è quello di promuovere la lingua e la cultura di questo popolo sia in Serbia sia all’estero. I rapporti all’interno della “Matica” sono però molto tesi: alla fine del 2011, infatti, la maggior parte dei membri del Consiglio della Società ha nominato un nuovo presidente, Abedin Dino Toplica. Il vecchio presidente, Šemsi Jašari, si è però rifiutato di rimettere il mandato. Dato che la Segreteria per i Diritti Umani e delle Minoranze di Belgrado non ha ancora ratificato la decisione del Consiglio, la “Matica” è di fatto divisa in due, cosa che complica i rapporti all’interno del già debole popolo ashkalo. La Società, in ogni caso, può dedicarsi poco alla salvaguardia della cultura nazionale: il principale compito a cui entrambi i direttori assolvono è quello di aiutare i profughi ashkali in termini economici e sociali. Il fatto che sia all’estero sia in Serbia gli Ashkali vengano spesso confusi con i Rom, gli albanesi e gli egiziani non può che passare in secondo piano di fronte alla miseria in cui vivono i componenti di questa minoranza. La “Matica” raccoglie fondi e li spedisce ovunque vi siano Ashkali in difficoltà; a Veliki Hrt, però, la Società ha destinato gli aiuti anche ai rom e ai gorani, senza distinzioni etniche.
I tatari di Polonia. Bohoniki è un villaggio di un centinaio d’anime, una strada sola nella pianura del nord-est della Polonia, a poca distanza dal confine bielorusso. In fondo al paese, adagiato su una collina sulla sinistra, c’è uno dei tre cimiteri tataridi tutto il paese. Gli altri due sono nel vicino villaggio di Kruszyniany (la cui moschea ha da poco subito atti di vandalismo), e a Varsavia. Nel cimitero di Bohoniki riposano generazioni di tatari, incluso il reggimento diulani della Polonia d’interguerra. Le pietre tombali più antiche sono ormai illeggibili, nelle loro iscrizioni in arabo e cirillico dei tempi dello zar. Le tombe più recenti invece seguono lo standard polacco del marmo nero con nomi in bianco o oro. Nei suoi giorni migliori Bohoniki arrivava a tremila abitanti; oggi la maggior parte dei polacchi d’origine tatara vive altrove, in città, dalla vicina Bialystok a Danzica e Varsavia. Tornano a Bohoniki solo un paio di volte l’anno, per le feste religiose o quelle tradizionali come il festival del raccolto Sabantuj in giugno, e al termine del loro viaggio terreno. Le altre comunità tatare sono finite più in là della linea Molotov-Ribbentrop, tra Bielorussia, Lituania e Ucraina. A Bohoniki sono rimaste le tipiche casette di legno a un piano della Polonia rurale, e una moschea, anch’essa di legno. La custodisce Eugenia Radkiewicz, energica sorridente e
fiera rappresentante della comunità tatara. Il suo agriturismo, proprio di fronte alla moschea, è l’unica attività presente nel villaggio. Nel giardino, Eugenia ha ricostruito una yurta tatara, la tenda da campo decorata dei nomadi da cui i tatari sono fieri di discendere: un letto, uno specchio, un tavolo, un cassettone e l’abito di un guerriero mongolo, “mobili tutti originali.” Eugenia parla solo polacco (la lingua tatara lipka, purtroppo, è persa da tempo), ma non manca di farsi capire. In moschea si aggiusta sul capo la tubeteika e sale le scale del minbar per una foto ricordo. La moschea di Bohoniki è stata restaurata tramite una donazione del re dell’Arabia Saudita, dopo una sua visita in Polonia di una decina d’anni fa. Eugenia tiene una foto della Kaaba della Mecca in soggiorno, dove serve il caffé non filtrato, alla turca. Suo figlio c’è stato, in pellegrinaggio in Arabia, è hajj, ma lei non porta il velo. Il suo islam, come quello del resto della comunità tatara di Polonia, così come quello dei musulmani dei Balcani, è un islam d’Europa, che da più di cinquecento anni convive con le altre confessioni della regione, ortodossi e cattolici. Le donne vi hanno sempre goduto di maggiori diritti e libertà che non altrove: la co-educazione di bambini e bambine è la norma, e il velo viene portato solo al momento del matrimonio. I cavalieri tatari lipka (dal nome tataro per la Lituania) arrivarono nella Confederazione PolaccoLituana tra il XIV e il XVII secolo, come profughi dopo le sconfitte dell’Orda Bianca e dell’Orda d’Oro, stati successori dell’impero mongolo in Europa orientale, da parte del restauratore Tamerlano. Ricevettero status nobiliare e terre da parte del granduca lituano Vytautas, e unirono il loro destino a quello della Confederazione. Le compagnie di cavalleria leggera tatara costituivano uno dei fondamenti del suo potere militare, contribuendo alla sconfitta dei cavalieri teutonici nella battaglia di Grunwald del 1410. All’interno della confederazione, i tatari formarono una casta a sè, mantenendo la propria confessione musulmana sunnita e le proprie tradizioni tatare. Nel 1590, erano circa 200.000, con 400 moschee. Il Risāle-yi Tatar-i Leh (Messaggio sui tatari di Polonia), scritto da un anonimo musulmano polacco a Istanbul nel 1557 per il sultano Solimano il Magnifico, enumera un centinaio di insediamenti e moschee nel territorio dell’allora Polonia. Nel 1672 i tatari si ribellarono alla nobiltà polacca, la szlachta, per via di salari non pagati e restrizioni crescenti alla libertà religiosa a seguito della controriforma, ma alla fine scesero a compromesso con l’etmano Jan Sobieski e parteciparono assieme a lui alla battaglia di Vienna del 1683 contro le armate ottomane. A partire dal secolo successivo, i tatari lipka si assimilarono sempre più, adottando costumi e lingua polacca (per le classi più elevate) o rutena (per le classi più basse), ma sempre mantenendo la religione musulmana. Allo stesso tempo, il duca lituano Vytautas che ne aveva incoraggiato l’insediamento entrò nelle loro leggende e folklore come Wattad, “difensore dei credenti nei paesi non musulmani”. Una parte di loro emigrò nell’impero ottomano nel settecento dopo aver sostenuto il candidato sbagliato al trono di Polonia, Stanisław Leszczyński, perdente contro l’elettore di Sassonia Augusto II. Nel ventesimo secolo, un reggimento di ulani tatari rimase presente nell’esercito della Seconda repubblica polacca, e guidato da Aleksander Jeljaszewicz fu una tra le ultime unità militari polacche a soccombere all’invasione nazista del 1939, a Wilno (oggi Vilnius). Oggi i tatari lipka in Europa centro-orientale sono tra dieci e quindicimila, di cui solo duemila in Polonia, riuniti dal 1992 nell’Organizzazione dei tatari della repubblica polacca. Nel 2010, a Danzica, il presidente della repubblica Komorowski ha inaugurato loro un monumento: “i tatari hanno dato il loro sangue in tutte le insurrezioni per l’indipendenza nazionale. Il loro sangue è filtrato fino alle fondazioni della rinata Repubblica Polacca”.
I tatari di Crimea. Tatari di Crimea è il termine usato per identificare le popolazioni turche tradizionalmente stanziate sulla costa settentrionale del Mar Nero, e in particolar modo nella penisola di Crimea. Tatari (spesso storpiato in tartari), è in realtà un vocabolo estremamente generico che sta ad indicare tutti i popoli di lingua e cultura turca dell’Europa orientale e della Russia. Originariamente riferito ai turchi che si insediarono nella regione del Volga a seguito degli eserciti mongoli, e che costituirono il nerbo del Khanato dell’Orda d’oro, questo appellativo finì per designare un insieme vasto ed estremamente eterogeneo di popolazioni. Tutti i tatari sono infatti di stirpe turca, ma possono differire gli uni dagli altri allo stesso modo di un italiano e un portoghese all’interno del mondo romanzo. I tatari di Crimea non vanno quindi confusi con altre realtà che portano lo stesso appellativo, e neppure considerati come una varietà locale di un’ipotetica ed inesistente nazionalità tatara. È dunque necessario sottolineare come, malgrado il nome, essi siano un popolo diverso per lingua e cultura dai tatari che vivono nel Tatarstan o in altre regioni. L’importanza della Crimea nel mondo turco è data innanzitutto dalla sua particolare posizione di confine ecerniera tra due grandi gruppi etnico-linguistici turchi: gli oğuz e i kıpçak. Il gruppo oğuz, a cui appartengono proprio i turchi dell’Anatolia, è sicuramente il più grande e conosciuto. Esempi di popoli di stirpe kıpçak sono invece i tatari della Russia, i kazaki e i chirghisi. Queste due grandi famiglie hanno storicamente avuto nella Crimea un luogo privilegiato di incontro e di commistione culturale. I tatari di Crimea non rappresentano in effetti una totalità omogenea, ma piuttosto un insieme di micro-etnie unite dall’appartenenza al gruppo linguistico turco e da una storia comune. Si possono distinguere almeno tre sottoinsiemi chiaramente definiti. Gli yalıboyu, che vivono sulle coste meridionali della Crimea, hanno caratteristiche culturali e linguistiche tipicamente oğuz, tanto da essere difficilmente distinguibili dai turchi della Turchia. Al contrario i noğay, storicamente insediati nelle zone steppose del nord, sono a tutti gli effetti identificabili come kıpçak. La maggioranza dei tatari di Crimea appartiene tuttavia all’etnia tat, tradizionalmente diffusa in tutta la costa settentrionale del Mar Nero e che presenta caratteristiche intermedie tra i gruppi oğuz e kıpçak. A questi tre gruppi principali, costituiti quasi esclusivamente da musulmani sunniti, vanno aggiunti i cristiani turcofoni chiamati urum. Particolarità caratteristica della Crimea è anche la curiosa presenza di una piccolaminoranza di ebrei di lingua turco-tatara, a loro volta divisi nei due sottogruppi dei kırımçak e dei karay: i primi aderiscono all’ebraismo rabbinico, mentre i secondi al caraismo. Da un punto di vista tanto politico quanto culturale, la Crimea ha tradizionalmente gravitato attorno all’Impero ottomano, e quindi a Istanbul e alla Turchia. Per questa ragione la parlata degli yalıboyu, estremamente affine al turco parlato in Anatolia, ha storicamente avuto un prestigio maggiore. İsmail Gaspiralı, uno dei più grandi intellettuali che l’intero mondo turco abbia mai avuto, alla fine del XIX secolo sviluppò una lingua letteraria tataro-crimeana, ispirandosi proprio a questi dialetti oğuz della Crimea meridionale. Tuttavia, la moderna lingua letteraria dei tatari di Crimea si basa più sui dialetti tat – i più diffusi e caratteristici della Crimea – e presenta, accanto a tratti genuinamente oğuz, anche alcune caratteristiche tipicamentekıpçak. Gaspiralı aspirava infatti a dare il suo contributo alla civiltà turca in senso più generale, mentre oggi l’interesse principale è di utilizzare una lingua il più possibile caratterizzante dei tatari di Crimea, per contribuire alla sopravvivenza di questa cultura sempre più minacciata.
Nonostante la presenza di molti sottogruppi linguistici e confessionali, i tatari di Crimea si percepiscono come un solo popolo, unito da una storia e una cultura comune. L’identità del popolo tataro di Crimea coincide in gran parte con il Khanato di Crimea, uno Stato esistito tra il XV e il XVIII secolo nella parte settentrionale del Mar Nero. Retto dalla dinastia dei Giray, discendente di Gengis Khan e vassalla degli ottomani, il Khanato rappresentò per molti secoli una delle maggiori potenze dell’Europa orientale. Coerentemente con il proprio carattere di frontiera, l’organizzazione del Khanato presentava una mescolanza tra le leggi e i modelli mutuati dall’Impero ottomano, e l’organizzazione per clan familiari, tipica dei Khanatikıpçak che l’avevano preceduto nell’Europa orientale. I tatari di Crimea prosperarono fin quando poterono contare sul supporto degli ottomani, da cui dipendevano fortemente dal punto di vista politico, militare ed economico. Quando l’Impero ottomano cominciò a palesare segni di debolezza, tali da non potere più reggere un confronto ad armi pari con il rivale russo, per il Khanato fu la fine. Gli Zar entrarono in possesso della Crimea nel 1783, e da questo momento cominciò un esodo di massadei musulmani turcofoni dalle coste settentrionali del Mar Nero verso la Turchia. Si stima che nel corso del XIX secolo, circa un milione di persone abbandonarono i territori dell’exKhanato per rifugiarsi in Anatolia.Oggi la maggioranza dei tatari di Crimea vive in Turchia: nella sola provincia di Eskişehir, una delle più massicciamente interessate dall’arrivo dei profughi, essi eguagliano il numero totale di coloro che risiedono ancora in Crimea. Per chi scelse di rimanere nella propria terra, il destino fu quello di essere sudditi di seconda categoria, che videro i propri scarsi diritti ulteriormente ridotti nel corso del tempo. Questa situazione non cambiò in modo sostanziale con la caduta dello zarismo e la nascita dell’Unione sovietica. Fu anzi nel periodo staliniano che i tatari di Crimea vissero le persecuzioni più atroci. Nel maggio del 1944 tutta la popolazione tatara crimeana, pretestuosamente accusata di collaborare con gli invasori nazi-fascisti, fu deportata in Asia centrale. Quasi la metà morì durante gli interminabili viaggi e il lavoro nei campi di prigionia, e ai sopravvissuti fu concesso di ritornare nella propria terra solo con l’inizio della perestrojka a metà degli anni ’80. Essi trovarono però una Crimea molto cambiata, ormai quasi totalmente russificata, che non si dimostrò accogliente verso i musulmani di lingua turca che tornavano. Oggi in Crimea vivono poco più di 200.000 tatari, circa il 12% della popolazione, una comunità piuttosto piccola e mal vista dalla maggioranza russofona. Dopo decenni di esilio i tatari sono oggi nella situazione di chi è diventato straniero nella propria terra. L’ostilità e la paura che i tatari nutrono oggi verso la Russia, è dunque conseguenza di una lunga storia di violenze e soprusi. Eppure questo piccolo popolo, quasi del tutto ignorato prima che i venti di guerra tra Russia e Ucraina puntassero i riflettori del mondo sulla Crimea, ha avuto un ruolo non secondario nella storia dell’Europa. La temibile cavalleria dei Khan di Crimea, componente fondamentale degli eserciti ottomani, ha suscitato per secoli il terrore di tutti i nemici del Sultano, al punto di creare il mito occidentale dei “tartari” come sanguinari cavalieri della steppa. Nel 1683, dopo il disastro rappresentato dal fallito assedio di Vienna, una parte della dirigenza ottomana prese in considerazione di sostituire la Casata di Osman con un’altra dinastia. La scelta sarebbe caduta proprio sui Giray della Crimea. Questa possibilità ovviamente non si concretizzò, ma l’esempio può essere sufficiente a dimostrare l’eccezionale prestigio del Khanato di Crimea. I tatari di Crimea sono dunque una piccola nazione con una grande storia, di cui non è ancora arrivato il momento di scrivere la fine.