Zona Calcio - N°1, Febbraio 2015

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N째1 - Febbraio 2015 - Il meglio del gioco pi첫 bello del mondo

diretto da Lorenzo Di Caprio

Serie A

Il pagellone del calciomercato

Interviste

Manuel Pascali, Arturo Di Napoli

Tattica

Il Napoli di Benitez

ESCLUSIVA

Daniele Rugani <<STUDIO PER DIVENTARE GRANDE>>

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SOMMARIO 4 • Daniele Rugani: «Studio per diventare grande» - Lorenzo Di Caprio 7 • Il pagellone del calciomercato – Attilio Malena 11 • La Juventus vola sulle ali di Pogba - Nino Lanza 14 • Milan, la rivoluzione mancata – Alessandro Nizegorodcew 16 • Inter, un bilancio in rosso… ma non troppo – Francesco Donatelli 17 • Tattica, il Napoli di Benitez – Luigi Laino 23 • Felipe Anderson, un talento alla riscossa – Gianfranco Cicchetti 24 • Argentina e Italia, così lontane eppure così vicine – Simone Balocco 26 • Arturo Di Napoli: «La mia nuova vita a Malta» - Gianluca Lia 27 • Torres, il bomber con la sindrome da Peter Pan – Jacopo Di Caprio 29 • Manuel Pascali, “There Is Only One Captain” – Matteo Mosciatti 34 • Il mercato di Lega Pro – Adelmo Pagliuca Hanno collaborato in questo numero Simone Balocco, Gianfranco Cicchetti, Jacopo Di Caprio, Francesco Donatelli, Luigi Laino, Nino Lanza, Gianluca Lia, Attilio Malena, Matteo Mosciatti, Alessandro Nizegorodcew, Adelmo Pagliuca.

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SI PARTE

Il primo numero non si scorda mai, immagino.

E allora che sia il più curato possibile. Di certo, ci abbiamo messo tanto impegno: posso assicurare che dare vita ad un magazine (seppur online e gratuito), di questi tempi, è tutto tranne che una cosa semplice. La prima copertina di “Zona Calcio” ospita Daniele Rugani, stella dell’Empoli e difensore dal sicuro avvenire: si tratta di un’intervista spontanea e per questo interessante, come ce l’aspettavamo. Grazie a Daniele e all’Empoli Football Club per la disponibilità. A febbraio, comunque, è anche tempo di bilanci: in questo numero troverete un ricco pagellone sul calciomercato delle 20 squadre di A oltre che speciali sul momento che stanno vivendo i principali club d’Italia. E ancora: interviste ad Arturo Di Napoli (ex bomber, ora allenatore in quel di Malta) e Manuel Pascali (capitano del Kilmarnock ed unico italiano nella Scottish Premier League), senza dimenticare lo spazio riservato ad approfondimenti, calcio estero e Lega Pro. Tutto qua? No, ovviamente. Buona lettura Lorenzo Di Caprio


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Daniele Rugani

<<STUDIO PER DIVENTARE GRANDE>> Il talento dell’Empoli ha già convinto tutti, ma resta con i piedi per terra: «Juventus? Non ci penso, ho ancora molto da dimostrare». Intervista di Lorenzo Di Caprio Non c’è da sorprendersi se la storia tra l’Empoli e Daniele Rugani va avanti da ormai dieci anni: “migliorare” e “lavorare”, parole chiave in casa empolese, sono i verbi più ricorrenti nei pensieri calcistici (e non) del ragazzo nato a Lucca, assoluto protagonista alla sua prima stagione in Serie A e promesso sposo della Juventus in quel di giugno. Un mix perfetto, che nei 190 cm del centrale Under 21 lega la consapevolezza di essere un talento cristallino alla fame di aspirare a risultati sempre migliori. Simpatico, gentile e sincero: questo è Daniele Rugani nell’intervista rilasciata in esclusiva ai microfoni di Zona Calcio. Daniele, una vita all’Empoli: possiamo dire che i primi calci al pallone li hai tirati qui… «La mia storia con l’Empoli è iniziata quando militavo in una squadra provinciale, l’Atletico Lucca, e alcuni dirigenti mi vennero a vedere. Da quel giorno, si fecero vivi sempre più spesso fino a quando chiamarono a casa e informarono mio padre del loro interesse. Dopo pochi mesi, mentre ero in quinta elementare, iniziò la mia carriera con questi colori e posso dire di essere cresciuto con questa società: migliaia di viaggi passati in una seconda casa che mi ha permesso di crescere come persona oltre che come calciatore».

Foto di Empoli FC

L’Empoli era anche la squadra per cui tifavi da bambino? «No, da piccolo ero tifoso della Juventus. Sull’Empoli ovviamente sapevo che fosse un club professionistico e dalla grande importanza, quindi ero emozionato ed orgoglioso della scelta fatta… col senno di poi ha ripagato! ».


5 Senza dubbio. Nella tua vita hai sempre giocato da difensore centrale? «Quando ero più piccolo, prima di andare all’Empoli, ero un centrocampista tuttofare. Appena arrivato in azzurro, però, fui subito spostato in difesa, probabilmente anche per via della mia altezza. Credo sia stata un’ottima intuizione». C’è stato un momento preciso in cui hai capito di poter fare del calcio il tuo mestiere? «Sinceramente no, però ci ho sempre sperato. Fin da piccolo ho scelto di fare lavorare in quella direzione, consapevole dei sacrifici che a differenza dei miei coetanei dovevo fare: avevo la voglia e l’ambizione per aspirare a diventare un calciatore, era la mia più grande passione». Torniamo al presente: siete la sorpresa più bella di questo campionato, la tifoseria vi sostiene e voi ripagate con un gran calcio. Che aria si respira nello spogliatoio? «Siamo tranquilli, forse la nostra forza è proprio questa. Viviamo in un ambiente sereno che lavora molto con i giovani ed ha fiducia in loro, si lavora senza condannare qualcuno al primo errore. Credo che la tranquillità si noti anche dall’esterno, noi stiamo bene e pensiamo a dare il massimo perché sappiamo che sarà una stagione complicata dove ci sarà da soffrire. Personalmente mi ritengo fortunato, buona parte del merito per la mia crescita va a questo modo di lavorare».

Eppure l’Empoli ha raccolto meno punti di quanto meritasse: come mai? «È un peccato perché sicuramente meritavamo qualche punto in più, ma penso che siamo sulla strada giusta: da inizio campionato credo siamo cresciuti molto soprattutto a livello mentale, abbiamo preso pienamente coscienza dei nostri mezzi e con un po’ di fortuna in più riusciremo a raccogliere risultati ancora migliori. Bisogna continuare a lavorare, tutti ci stanno facendo dei complimenti ma in fin dei conti quello di cui ci importa maggiormente è la classifica». Buona parte del merito di queste prestazioni va anche a Mister Sarri: cosa vi spinge a fidarvi tanto di lui? E cosa senti di aver imparato tu personalmente dalle sue indicazioni? «Moltissimo, se non tutto, è merito del mister: ha dato un’identità ben precisa alla squadra, qui ognuno sa quello che deve fare proprio perché ogni elemento è perfettamente inserito all’interno della squadra. Personalmente, mi sento di aver imparato davvero tanto innanzitutto perché ritengo Sarri un allenatore molto preparato, bravo a lavorare con i giovani e carismatico. Sono felice di essere un suo giocatore e cercherò di sfruttare al massimo quest’opportunità fino a quando mi verrà concessa».


6 Credi che il modello gestionale empolese, basato sul costante utilizzo di giovani, possa essere preso come spunto da altre società di Serie A? «L’ambiente di Empoli favorisce questo tipo di politica perché è così da sempre, lo dimostrano i grandi giocatori usciti da questo settore giovanile in passato. Allo stesso tempo, però, ritengo che il nostro sia un esempio da seguire, perché qui giocano tanti giovani – molti dei quali italiani – e non mi sembra che i risultati diano torto a questa strategia. E poi non mi pare tanto impensabile da riproporre in altri ambienti». Molti dicono che sei uno degli amanti dell’allenamento extra: confermi che spesso ti trattieni sul campo d’allenamento oltre il dovuto? «Sì, fin da ragazzino sono sempre stato ambizioso e determinato anche in questo senso. Adesso sto facendo bene, sono sulla bocca di molti addetti ai lavori e mi fa piacere, ma non mi accontento mai, so che si migliora e fare qualche lavoro in più ti premia. È nella mia filosofia e nel mio carattere. Sono cresciuto cercando sempre di guardare l’errore piuttosto che la grande giocata perché solo così un calciatore prende coscienza dei propri limiti e capisce dove crescere». Ricordi un attaccante che ti ha messo particolarmente in difficoltà? «Per le sue caratteristiche, posso dire che marcare Sebastian Giovinco mi ha creato bei problemi». E intanto la Juventus ti osserva partita dopo partita e non vede l’ora di riaccoglierti in quel di Vinovo: ci pensi spesso ai bianconeri? «Sono sincero: al momento non ci penso. Ho solo vent’anni e devo dimostrare ancora molto per meritare quella maglia. Certo, posso assicurare di mettercela tutta per raggiungere questi obiettivi: se poi un giorno sarò in grado di meritarmela sarò felicissimo».

Tu, comunque, un’esperienza nelle giovanili bianconere l’hai già fatta due anni fa: come ti sei trovato con l’ambiente juventino? «Posso dire che già a livello di Primavera c’erano più pressioni, perché noi eravamo la Juventus e dovevamo lottare per vincere il campionato ed il torneo di Viareggio. Si parla di una mentalità vincente che parte dal settore giovanile e termina ovviamente in prima squadra: anche dal comportamento dei dirigenti capisco perché la Juventus riesce a mantenere certi livelli, ho trovato un bell’ambiente». Poi è arrivata la convocazione in Nazionale. Deve essere stata una gran bella soddisfazione. «Confrontarsi con tutti quei campioni rappresentando la Nazionale maggiore è stata una bellissima esperienza. Ho cercato di trarre il maggior numero di insegnamenti, ma cerco di non perdere di vista la realtà e di non volare troppo in alto. Voglio mantenermi con i piedi per terra, è stato un regalo meraviglioso ed in futuro lavorerò per tornare a vestire l’azzurro, ma per ora è un capitolo chiuso e devo concentrarmi sul presente». Quali sono le tue passioni oltre al calcio? «A me piace molto il tennis, quando posso lo pratico anche visto che sono abbastanza bravo. Per il resto, mi piace stare con gli amici, andare al cinema e leggere». Daniele, pensi di lasciare l’Italia in futuro? «Non ho mai pensato a questa possibilità nell’immediato. Credo, però, che da qui a fine carriera mi piacerebbe fare un’esperienza all’estero». Che girone di ritorno attende l’Empoli? «Il mister ci sta caricando, sappiamo bene che affronteremo partite durissime e dobbiamo avere ancor più cattiveria rispetto alla prima metà di stagione se vogliamo raggiungere la salvezza. Sappiamo di dover dare tutto per raggiungere l’obiettivo, ma siamo motivati: in questi mesi ci siamo resi conto di avere le carte in regola per restare in Serie A».


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Il Pagellone del Calciomercato

Vince il Milan, bene Inter e Napoli. Scendono Genoa e Parma di Attilio Malena

Tenere Baselli nonostante le pressanti richieste di Sampdoria, Milan e Fiorentina, è un segnale di forza di una società seria che vuole raggiungere l’obiettivo prefissato nel più breve tempo possibile e ottenere in toto la cifra stabilita per uno dei talenti più promettenti del nostro calcio. L’operazione Pinilla convince ed ha già portato i risultati sperati, Emanuelson può dare quel qualcosa in più al centrocampo e il riscatto definitivo di Zappacosta può consentire ai bergamaschi una sicura plusvalenza futura.

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Sufficienza non raggiunta per gli isolani, in netta ripresa sul campo ma non sul mercato dove hanno dimostrato limiti di programmazione. La prima punta inseguita per tutta la sessione invernale (da Gilardino a Osvaldo, passando per Pavoletti) non è arrivata e alla lunga questa assenza potrebbe pagare. Buoni i colpi Husbauer e M’Poku, giovani di sicuro valore che prima però dovranno adattarsi al campionato italiano. Servirà un grande Zola per tenere la squadra compatta e raggiungere la salvezza.

5,5

Il mercato dei bianconeri non è giudicabile, con il direttore sportivo Rino Foschi che ha dovuto cercare calciatori utili alla causa di Domenico Di Carlo senza un euro di budget. Era riuscito a prendere El Hamdaoui, ma il giocatore ha rifiutato e allora resta il gruppo come punto di forza con Defrel, appetito da Torino, Bologna e Fiorentina, rimasto alla base. Basterà per salvarsi?

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8 La ciliegina poteva essere Rolando Bianchi, ma alla fine è arrivato ad un prezzo ridicolo Nicola Pozzi, che difficilmente riuscirà a garantire i gol giusti per una salvezza tranquilla. Tante scommesse e pochissime certezze, Maran avrà un duro compito fino alla fine della stagione.

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Nessuna operazione che vada ad intaccare un progetto portato avanti da anni. Fiducia ai giovani con poca gente esperta a fare da chiocchia: Brillante, Saponara e Somma potranno giovare del grande lavoro di Sarri. La salvezza da raggiungere tramite un’idea di gioco ben precisa, la classifica al momento è bugiarda.

6

Ottima la cessione di Cuadrado al Chelsea anche se la plusvalenza non è stata poi cosi alta. Gilardino rimane un grande attaccante e Diamanti, se motivato, può essere un valore aggiunto. Un vice Joaquin forse sarebbe stato apprezzato da Montella e dai tifosi, ma con Babacar, Gomez e presto anche Rossi, lo stesso Montella ha l’imbarazzo della scelta giocandosi le proprie carte per l’Europa fino alla fine.

6

Troppe teste finiscono sempre per fare confusione, una squadra che viaggia spedita verso l’Europa smantellata senza un vero motivo. Via Matri, Sturaro, Antonelli e Pinilla per Borriello, Niang, Tino Costa, Laxalt, Pavoletti e Ariaudo. Rosa rivoluzionata con il povero Gasperini che dovrà cercare di far rendere al massimo i nuovi nel più breve tempo possibile, altrimenti tutto può succedere e forse anche lui terminerebbe nell’occhio del ciclone.

4,5

Rinforzare la squadra non era facilissimo, ma arrivano Fernandinho e Pisano, fedelissimo del direttore sportivo Sean Sogliano che lo aveva lanciato a Varese. Greco fatica a trovare una vera collocazione in Serie A: che sia la volta buona?

5,5

Roberto Mancini ora non ha più alibi, deve migliorare il rendimento e dare un vero volto ai nerazzurri. Shaqiri, Brozovic e Santon, senza dimenticare in estate Murillo, sono giocatori da progetto a lungo termine che ti possono consentire una plusvalenza netta in futuro. L’affare Bonazzoli più Duncan porta nelle casse nerazzurre quasi dieci milioni di euro e non è totalmente da condannare: se il classe ’97 dovesse esplodere, come tutti ci auguriamo, tornerà all’Inter; in casoo contrario, se la Samp decidesse di privarsene i meneghini percepirebbero il quaranta percento del ricavato. Chapeau per Piero Ausilio, che ancora una volta ha fatto quadrare i conti.

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I campioni d’Italia sono una macchina perfetta e rivoluzioni a stagione in corso potevano comportare qualche battuta d’arresto di troppo. Arriva Sturaro, grande gregario di centrocampo e come sempre italiano, più Matri gratis con ingaggio pagato in parte dal Milan. Tante operazioni per il futuro, vedi il riscatto definitivo di Rugani, ma un vero e proprio bagno di sangue la perdita di Giovinco a parametro zero. Undici milioni per la metà non sono pochi e forse si poteva fare di più, ma il mercato nel complesso non può essere bocciato.

6


9 Il solito difetto dei biancocelesti si è palesato nuovamente. Bergessio poteva dare quel qualcosa in più per la lotta Champions, ma Lotito ci ha pensato seriamente solo a poche ore dal termine del mercato e Ederson ha fatto saltare tutto. Il grosso è stato fatto in estate ma il riempitivo Mauricio deve adattarsi allo stile di gioco imposto da Stefano Pioli.

5,5

Rossoneri protagonisti in questa sessione di mercato. Operazioni intelligenti, un Milan più italiano con Bocchetti, Cerci, Destro e Antonelli convince tutti. La squadra non era da buttare e ora può puntare a risalire la classifica. Suso, messo nelle condizioni giuste, può diventare un valore aggiunto. Qualche piccola difficoltà in uscita, con i vari Armero, Mexes, Zaccardo e Essien rimasti ancora sul groppone, ma Galliani si conferma ancora una volta uno dei re del mercato.

7,5

Uomini giusti al momento giusto. Strinic rappresenta un’intuizione grandiosa a parametro zero e Gabbiadini è un calciatore formidabile, da poche parole e tanti fatti. Primi tre punti regalati con una splendida giocata individuale contro il Chievo ma ancora tanto da fare per entrare nei cuori dei tifosi partenopei.

7,5

Vazquez e Dybala non rimarranno ancora a lungo, i siciliani si aggrappano al lavoro e Iachini, vecchia volpe, ha costruito una squadra intorno a loro. Pochi acquisti degni di nota e un perno fondamentale come Munoz perso per pochi spiccioli. Mercato sottotono.

5,5

Società allo sbando, un via vai in uscita continuo. Prima Cassano, poi Paletta ma potrebbe non essere finita qui. Acquisti importanti come Rodriguez, Varela e Nocerino ma una dirigenza che ha sbagliato tutto e non può essere certamente assolta. L’incubo fallimento aleggia, purtroppo, sul Tardini.

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Obiettivi quasi tutti mancati per l’uomo mercato Sabatini. Mirava Chiriches ed è arrivato Spolli, si sarebbe fatto a piedi il lunghissimo viaggio dall’Ucraina fino all’Italia per portare Luiz Adriano ma è arrivato Doumbia. Ibarbo può esplodere ma al momento non vale tutti i soldi che i giallorossi andranno a versare nelle casse del Cagliari. Ci si aspettava sinceramente di più.

6

Mihajlovic non farà i salti di gioia, ma i blucerchiati ci hanno divertito. Blitz improvvisi e affari portati a termine in tempi più o meno brevi, Muriel e Correa sono autentiche bombe ad orologeria che se esplodessero potrebbero davvero fare le fortune della società del presidente Massimo Ferrero. Eto’o rimane un grandissimo calciatore anche se non sembra nemmeno il lontano parente del bolide che faceva il terzino destro pur di vincere tutto con l’Inter di Mourinho. Perdere Gastaldello in difesa può sembrare una mossa qualsiasi, anche se in realtà l’attuale nuovo bolognese era un uomo fondamentale nella retroguardia di Sinisa Mihajlovic.

6,5


10 Premiamo il progetto più che l’operato totale degli uomini mercato a gennaio. Tutto italiano, giovane e deciso. Il gruppo al primo posto e il singolo a mettersi a disposizione per la squadra. Vita a parametro zero è una mossa intelligente e Lazarevic è una buona alternativa ai fantastici tre Berardi, Zaza, Sansone.

6

Tante prime punte a disposizone di Ventura, da sempre bravo a rigenerare calciatori che sembrano sul viale del tramonto. Tanti obiettivi sondati, trattati e poi definitivamente sfumati. Ichazo, arrivato al posto di Gillet, può ritagliarsi uno spazio importante.

5,5

il solito calciomercato dei friulani, nessun nome ad effetto ma questa volta nemmeno calciatori troppo funzionali al progetto di Stramaccioni. Perica è un buon prospetto , nessun gioiello a parte Muriel ceduto: manca poco alla sufficienza.

5,5


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La Juventus vola sulle ali di Paul Pogba!

di Nino Lanza

I bianconeri hanno iniziato il 2015 nel migliore dei modi e ora sono sette i punti di vantaggio sulla Roma. Il segreto? La definitiva maturazione di Paul Pogba

La Juve c’è e in realtà non è mai andata via. Il passaggio di consegne da Conte ad Allegri è stato meno traumatico del previsto e anche il progressivo cambio di modulo è stato gestito in modo esemplare dall’ex tecnico di Cagliari e Milan. Smaltita la “pareggite” di fine 2014, infatti, i bianconeri hanno iniziato l’anno nuovo alla grande. Dopo il preoccupante 1-1 contro l’Inter, la Juve ha inanellato tre vittorie di fila (più due in Coppa Italia) a cui si aggiunge lo 0-0 contro l’Udinese, che le hanno consentito di prendere sei punti ai rivali della Roma e portarsi a più sette in classifica. Mentre la Juve vinceva con Napoli, Hellas Verona e Chievo, i giallorossi pareggiavano in rimonta con Lazio, Palermo, Fiorentina ed Empoli. La squadra capitolina sembra aver problemi ad uscire da questo primo momento di difficoltà della gestione Garcia e non riesce ad aggrapparsi a nessuno dei suoi pilastri. La Vecchia Signora dopo un pessimo mese di Dicembre, condito da una sola vittoria e culminato con la sconfitta in Supercoppa contro il Napoli, ha invece sfruttato il momento negativo degli avversari, allungando le distanze tra il primo e il secondo posto. È riuscita ad uscire dal momento buio con tanta pazienza e grazie alla classe dei suoi singoli. Rispetto alla Juve “contiana”, che si basava su un’aggressività collettiva, l’undici di Allegri predilige un gioco ragionato, con più possesso palla e probabilmente più spettacolare, che punta ad esaltare le qualità del singolo.


12 A tal proposito, se nella prima metà di stagione è stato Carlos Tevez a trascinare i suoi a suon di gol, ultimamente a rubare la scena è stato senza dubbio Paul Pogba.

I quattro gol nelle ultime cinque partite sono solo un assaggio del talento di questo ragazzo, che a soli 21 anni è diventato un “faro” per il resto della squadra. Se prima la Juve era “recupera Il francese negli ultimi sei mesi è maturato in palla e dalla a Pirlo”, adesso è Paul il maniera incredibile: segna con continuità, fa centro della manovra bianconera, il assist, svolge con grande intensità anche la calciatore da cui passa praticamente ogni fase difensiva (dove prima peccava) e azione. richiama i compagni come un vero leader nei momenti importanti. Lo dimostra anche Senza trasformare la sua presenza in una l’ultima uscita stagionale contro l’Udinese, dipendenza, Allegri è riuscito a porre dove ha sofferto parecchio la marcatura a Pogba al centro del suo progetto tattico, uomo dell’ottimo Allan ma nonostante ciò ha sfruttando anche la versatilità degli altri messo comunque lo zampino nell’occasione centrocampisti come Marchisio, Vidal e migliore della sua squadra. Pereyra. Le sue prestazioni lo hanno migliorato di partita in partita, tanto che alla fine di ogni match cresce il valore del suo cartellino. Oggi si parla addirittura di 100 milioni di euro: questa è la cifra che vogliono sentire in Corso Galileo Ferraris prima di sedersi al tavolo delle trattative. Sono poche le squadre che potrebbero permetterselo (Real Madrid, Psg e Manchester City), ma la Juventus fin quando può se lo gode e aspetta la doppia sfida col Borussia Dortmund, sperando che possa ridicolizzare gli avversari anche in Champions League.

Paul Labile Pogba Centrocampo

Francia 1993

CURIOSITÀ SENZA SPONSOR! Incredibile ma vero: il centrocampista francese, corteggiato da tutta Europa, non ha ancora uno sponsor tecnico. Nike (con cui aveva un contratto ai tempi dello United) e Adidas lo corteggiano spudoratamente a suon di milioni, mentre il giocatore alterna scarpe dei due marchi di domenica in domenica. Nelle prossime settimane, comunque, Pogba scioglierà le riserve e si legherà ad uno dei due marchi per percepire circa cinque milioni annui.



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Milan, la rivoluzione mancata

I rossoneri viaggiano ad alti e bassi, ma guai a crocifiggere Inzaghi “Ogni opinione rivoluzionaria attinge parte della sua forza alla segreta certezza che nulla può essere cambiato”. Parole di Clarence Seedorf? No, anche se il tecnico olandese le avrebbe volentieri prese in prestito da George Orwell e dal suo “La strada di Wigan Pier”. Seedorf era giunto al Milan sperando di poter rivoluzionare tutto: via due terzi dei calciatori, Galliani a casa e dentro Sogliano, Maldini, Albertini, Stam e Crespo, cambiamenti radicali nella gestione degli allenamenti, dei colloqui, della figura dell’allenatore nella sua totalità. Il calcio 2.0, un’utopia per cui il Milan non era pronto. Seedorf ha anche commessi errori evidenti (non tecnici, sia chiaro), ma il calcio espresso dal suo Milan era tra i migliori d’Italia nonostante una rosa a dir poco mal costruita. La rivoluzione, però, è stata interrotta sul nascere per dar spazio a Filippo Inzaghi, il cui Milan è ancora un rebus da risolvere. Vi è altresì un’unica certezza: nessuna rivoluzione è prevista all’orizzonte. L’entusiasmo, la continuità e la frenata. Il Milan di Filippo Inzaghi è partito forte e sulle ali dell’entusiasmo ha saputo giocare sia in ripartenza sia creando calcio. Da una parte non è affatto vero che i rossoneri abbiano sempre giocato di rimessa, come da molti addetti ai lavori sottolineato, dall’altra va riscontrato come i momenti di “bel gioco” siano stati troppo sporadici all’interno dei singoli incontri. Milan-Napoli, Parma-Milan, Milan-Udinese, il secondo tempo di Empoli-Milan sono esempi lampanti di un calcio brillante, aggressivo, tecnico e di assoluto valore. Torino-Milan, Milan-Atalanta, Milan-Palermo e altri match rappresentano invece l’inesperienza di Pippo, uno stile troppo rinunciatario o una costruzione del gioco a dir poco deficitaria. Il Milan aveva concluso il 2014 con due ottime prestazioni contro Napoli e Roma, ma all’inizio del nuovo anno la situazione è precipitata.

Le colpe e gli alibi di Pippo. Una delle domande che più ricorre tra tifosi e addetti ai lavori riguarda Inzaghi e le sue responsabilità. La colpa principale va assegnata di diritto alla società, che costruendo la rosa in maniera poco sensata, e arrivando da un ottavo posto in campionato, ha sin da subito parlato di “obiettivo terzo posto”, mettendo sotto enorme pressione Inzaghi e gli stessi giocatori. La stagione 2014/2015 doveva essere quella della ripartenza, dell’entusiasmo, dei giovani, di una squadra che giocava bene e divertiva a prescindere dai punti in classifica. Doveva essere l’annata della spensieratezza, l’annata della rivoluzione. Ma così, evidentemente, non è stato. Detto ciò le critiche da rivolgere a Inzaghi sono mentali e non tecniche, psicologiche e non tattiche. Quali allora le colpe di Pippo? L’ex bomber rossonero deve crescere dal punto di vista della gestione dello spogliatoio, deve “mettere in campo” il pugno duro quando necessario e, fattore più importante di tutti, riuscire a non trasmettere ansia negativa alla squadra. Mentalmente il Milan è di cristallo e la partita con il Parma ne è la testimonianza evidente.


15 Ripartire da Milan-Parma. La schizofrenia di Milan-Parma è l’emblema del momento tecnico e psicologico dei rossoneri, che rispecchia ciò che attualmente vive nella testa del mister. Discreta partenza, gol realizzato, immediato gol subito e un paio di azioni difensive da codice penale che potevano portare gli emiliani in vantaggio. Secondo tempo di carattere ma senza gioco, poi il gol di Menez grazia alla premiata ditta Poli-Cerci e finale di match molto positivo. Il Milan si è liberato di ansie e angosce, tornando a giocare a calcio. Dopo la mission impossible di sabato sera contro la Juventus, gli uomini di Inzaghi avranno le due sfide casalinghe con Empoli e Cesena, decisivo banco di prova per il futuro.

Era necessario un costruttore di gioco che avesse anche un fisico prestante. Perché al Milan mancano anche i saltatori in mezzo al campo, problema che si ripercuote sui calci piazzati ma anche e soprattutto sui rinvii del portiere. Serviva qualcuno che facesse girare la squadra, che desse tranquillità. Rivoluzione ancora una volta rimandata, anche se a giugno: con l’addio di Van Ginkel, Essien e De Jong, bisognerà ricostruire la mediana nel migliore dei modi. L'acquisto di Destro è stato fondamentale perché Pazzini non dà più garanzie e appare in forte calo dall'intervento al ginocchio di un paio di anni fa. L'ex giallorosso può portare freschezza e dinamicità all'attacco, palesando le sue grandi doti realizzative. Non si può andare avanti con i gol del solo Menez. La squadra rossonera è stato sempre criticata, giustamente, perché si concentrava troppo sul mercato attaccanti. Mai come in questo caso Destro è stato però un acquisto necessario.

Calciomercato: gli affari conclusi e il centrocampista mancato. Galliani ha agito bene nel mercato di gennaio: Paletta è un signor difensore, Antonelli va a coprire un clamoroso buco (terzino sinistro mancino) nella rosa rossonera, Bocchetti può essere utile in più ruoli, mentre Cerci ha già dimostrato col Parma di poter essere decisivo. I ruoli scoperti sono stati tutti coperti tranne uno: l’ormai noto centrocampista. Che si voglia giocare a 2 o a 3 a centrocampo poco cambia: De Jong ha ormai la testa altrove da quando il Milan ha deciso (perché?) di non rinnovargli il contratto, Montolivo sta rientrando pian piano dal gravissimo infortunio, Van Ginkel non convince, Muntari sta vivendo una preoccupante involuzione, Essien è lontano anni luci dal grande campione che fu e Poli ci mette l’anima, ma le sue caratteristiche sono ben delineate.

Il Milan di Filippo Inzaghi è ancora in fase embrionale, così come la carriera del mister di Piacena. Pippo deve avere la possibilità di sbagliare senza ansie, ma allo stesso tempo deve tornare a trasmettere al gruppo quei valori (tecnici e di atteggiamento in campo) che il Milan deve rappresentare in ogni stadio del mondo. Poi si ripenserà alla rosa, sperando di poter contare sulla fondamentale qualificazione europea per due motivi: 1) Il Milan è abituato a giocare ogni tre giorni, ha nel dna la consuetudine di confrontarsi a livello internazionale, che potrebbe essere definita quasi come una necessità. 2) Disputando la doppia competizione ci si può permettere una rosa ampia e giocatori meno scontenti. Si potrebbero finalmente inserire i giovani in maniera graduale, avendo importanti risorse anche per campionato e Coppa Italia. Si dia tempo a Inzaghi, ma Inzaghi sfrutti bene il suo tempo.

CONCLUSIONI

di Alessandro Nizegorodcew


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Inter, un bilancio in rosso ma non troppo I nerazzurri si assicurano ottimi giocatori con pagamenti sostenibili negli anni, ma ora serve una scossa sul campo. di Francesco Donatelli Podolski, Shaqiri, Brozovic e Santon: sono questi i rinforzi che dovranno rilanciare le ambizioni dell’Inter in campionato e coppa. Non male sicuramente, calcolando che questi acquisti graveranno sulle casse societarie a partire solo dal prossimo bilancio. Proprio far quadrare le finanze del club è forse l’obiettivo principale di Erick Thohir: dalle parole del tycoon si evince che i ricavi annuali nerazzurri si aggirano intorno ai 180-200 milioni e che il passivo invece si attesti sui 108 milioni. Il debito coi fornitori si aggira sui 70 milioni, coprendo poco più del 70% del debito totale accumulato dai nerazzurri. Per quanto concerne il monte ingaggi, ad oggi, si spendono poco meno di 80 milioni di euro (25 in meno all’anno scorso). Andando sulle spese di mercato, invece, a giugno è previsto il riscatto di Shaqiri e la seconda rata del pagamento di Gary Medel: il totale dovrebbe essere di 8 milioni (5 per la prima delle tre rate da pagare al Bayern per l’elvetico e 3 al Cardiff per le prestazioni del cileno). Sul fronte entrate, c'è da registrare da parte della Sampdoria un pagamento di 10 milioni e mezzo totali per Bonazzoli e Duncan, mentre potrebbero entrare 11 milioni dal Sunderland per Alvarez nel caso in cui il club di Poyet raggiungesse la salvezza. Sicura anche l'entrata di 5 milioni dall'Estudiantes per Pereira. Alla fine della fiera, il rapporto entrate/uscite dovrebbe essere in positivo di 18 milioni nel migliore dei casi e 7 nel peggiore: nulla di determinante in vista del Financial Fair Play, certo, ma un buon punto di partenza.

Un'eventuale entrata in Champions, al momento poco pronosticabile ma obiettivo dichiarato dei nerazzurri, frutterebbe al club 50 milioni di euro: fondi importantissimi, che permetterebbero al club di non cedere un big. Scenario quasi obbligato, quest’ultimo, in caso di mancata qualificazione nella massima competizione europea, con Icardi e Handanovic indiziati principali (specie dopo il recente rinnovo di Mateo Kovacic fino al 2019). In definitiva, si può affermare che il ds nerazzurro Piero Ausilio abbia agito di previdenza. Non ha infatti comprato con dei pagherò “scoperti”, ma si è voluto cautelare cedendo dei giovani della cantera (ricordiamo che su Bonazzoli pende un diritto di recompra da 15 milioni nel caso esploda, per cui non è completamente perso) e assicurandosi vari obblighi di riscatto come quelli di Alvarez e Pereira. L'Inter è una big e non può aspettare un miracolo finanziario, puntando alla Champions senza i giocatori adeguati. Nati per vivere (adesso e qui). Liga docet.


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Napoli, il miglior attacco è la difesa Di Luigi Laino L’analisi di un sistema tattico è un compito gravoso, che richiederebbe pagine e pagine di accurate argomentazioni sulle singole fasi del gioco, e finanche sulla gestione di quegli episodi singoli così decisivi nell’andamento delle partite. Ovviamente in questa sede un tentativo così esteso non è praticabile, e bisogna mettere su un’indagine più limitata, per quanto, si spera, comunque esauriente. Stante quanto detto sopra, approccerò al sistema di gioco che ho scelto di studiare, quello del Napoli di Benítez, a partire da una serie di opinioni affermatesi nel corso della sua gestione. Le riassumo in maniera succinta: • «Il troppo turn-over l’equilibrio di squadra»

destabilizza

• «la preparazione psicologica nel suo complesso è carente» • «la squadra non sa difendere e l’allenatore non sa fare la fase difensiva» I punti (2) e (3) sono connessi. Il punto (1) vorrei liquidarlo in modo breve, giacché ritengo che sia assodato: vi è, tra gli allenatori più importanti, una sostanziale uniformità di giudizio circa la necessità di mantenere costanti le rotazioni per prevenire gli infortuni degli uomini chiave, e fare in modo che la squadra non mostri, nell’arco di una faticosa stagione, cali nell’intensità di gioco. Vediamo dunque di partire da quello che è secondo me il problema principale, esposto al punto (3). .

La tattica. Benítez viene annunciato dal Napoli il 27 maggio 2013 in qualità di nuovo allenatore. Circa un mese e mezzo dopo, il 15 luglio, pubblica sul suo sito un articolo abbastanza lungo sulla scomparsa delle ali offensive e l’affermazione del 3-5-2, che chiama alternativamente 1-5-3-2 oppure 1-3-5-2. Da quel che capisco, l’allenatore spagnolo sostiene che l’incentivazione della preparazione fisica e tattica ha fatto sì che l’innalzamento del valore dei terzini abbia comportato al contempo una diminuzione dell’incidenza e dell’efficacia nel gioco da parte delle vecchie ali, preposte al dribbling e alla creazione della superiorità numerica. Per tale motivo, non più capace di auto-sostenersi nell’uno contro uno, l’ala ha avuto bisogno dell’aiuto del terzino. Così facendo si è però venuta a creare contestualmente la necessità di una revisione difensiva: con l’ala e il terzino alti, la fascia difensiva risulta infatti vulnerabile. A partire da questa situazione, la necessità di una copertura sistematica del centrocampista centrale è bell’e pronta; per fare un esempio: se, partendo da un 4-4-2 classico, l’ala viene sostenuta in attacco dalla sovrapposizione dell’esterno basso, in caso di perdita del pallone, viene richiesto lo scivolamento di uno dei due centrocampisti fra i difensori, e viene pertanto a crearsi una difesa a tre.


18 Nel complesso succede questo: «[…] Si produce un continuo incorporamento degli interni e dei laterali sulle fasce per sostenere gli attaccanti. La salita del laterale viene coperta dall’interno mentre questi recupera la sua posizione, e da qui siamo ad un passo dal sistema 1-5-3-2. Alla conferma che i laterali causassero danni, si pensò che un interno con più qualità del laterale avrebbe causato un danno anche maggiore, e se a ciò aggiungiamo che l’avversario non può giocare con più di uno o due attaccanti, la libertà d’attacco del nostro terzino ci fornirà di un sistema perfetto». La rappresentazione che me ne faccio, dopo qualche momento che sto lì a pensarci, è la seguente: i terzini salgono, il centrocampista scala in difesa, le vecchie ali diventano degli interni. Ancora sulle conseguenze di questo movimento: «I vantaggi del sistema 1-5-3-2 o 1-5-4-1 consistono nell’accumulare una gran quantità di uomini dietro, il che dà maggiore sicurezza alla nostra difesa e al centrocampo. Il sorprendente incorporamento degli interni e dei laterali fa sì che traiamo profitto in ciascuna delle nostre azioni offensive. Si richiedono interni e laterali di grande qualità e condizione fisica per effettuare corse larghe e finire con buoni cross. In pratica, quello che di solito succede è che l’estremo di difesa non può percorrere ogni volta grandi distanze, in salita e discesa, sulla fascia, motivo per il quale si spostano dal centrocampo e in realtà il sistema si converte in un 1-3-3-2-2, giacché gli estremi laterali spingono gli interni più avanti». L’esterno in questa disposizione è fondamentale, come si evince: tale figura in sostanza sostituisce quella del vecchio terzino fluidificante, capace sia di difendere che di creare opportunità offensive coi suoi cross e le sue discese. La Juventus di Conte offriva, sotto questo aspetto, un prospetto perfetto per il modulo, con gli interni di corsa e tecnicamente dotati, e i due corridori inesauribili sulle fasce.

Ma, naturalmente, il succo del discorso non è questo. Benítez infatti insiste su un punto: la maggiore densità centrale, costruita a partire dai tre di difesa a cui si aggiungono i tre di centrocampo, crea un comparto di sei giocatori in grado di offrire l’impressione di compattezza e solidità difensiva. E visto che l’1-5-3-2 era il modulo di Mazzarri, che Benítez sta subentrando al tecnico livornese, e che il post porta in calce la data del 15 luglio 2013, come ricordato, tutto questo può significare soltanto due cose: 1) aprire alla possibilità di continuare ad usare il sistema, stante l’assortimento dei giocatori in rosa e l’apprezzamento dei benefici del modulo; oppure (2) l’avvertimento iniziale che il cambio del sistema di gioco nell’1-4-2-3-1 potrebbe comportare problemi esattamente dal punto di vista difensivo. La difesa e i fatti. Io non ho mai francamente creduto all’eventualità che Benítez avrebbe potuto adoperare l’1-5-3-2. Certo, gliel’ho visto usare nella partita più celebre della sua carriera, quando era sotto, in finale di Champions, per tre a zero, contro il Milan di Ancelotti: in quel caso, fu proprio la maggiore occupazione della zona centrale ad innescare tatticamente la vittoria, per contrastare quel Milan, dal centrocampo a rombo, che del possesso palla e della densità in mezzo al campo faceva il suo punto di forza – ed anche se c’è da dire che si trattò di un rinforzo della strategia iniziale, dacché il Liverpool si schierò con un atipico 1-4-1-3-1-1, molto probabilmente già in partenza, quindi, motivato dalla volontà di soffocare lo spazio centrale. Questo però è appunto rimasto un caso sporadico nella carriera di Benítez: fu una mossa d’emergenza, di adattamento ad un avversario pericoloso e sulla carta più forte.


19 D’altra parte, il discorso sulla maggiore esposizione al rischio non mi convince più di tanto. Io quelle partite tiratissime di Champions col Chelsea di Mourinho, in cui vedere un tiro in porta non era un evento esattamente ricorrente (nella partita di ritorno, i Reds tirarono sei volte in porta, di cui quattro nello specchio, dato UEFA), me le ricordo; così come non ho dimenticato quel Valencia in cui gli attaccanti non erano esattamente i maggiori beneficiari del gioco della squadra. Per farsi un quadro approssimativo della propensione generale del sistema Benítez, basta in effetti dare un semplice sguardo a quei freddissimi numeri che corrispondono alla casella dei «gol subiti», e confrontare il risultato con la voce dei «gol fatti»: 2001-2002: Valencia, 27 gol s., 51 gol f.; 2002-2003: Valencia, 35 gol s., 56 gol f.; 2003-2004: Valencia, 27 gol s., 71 gol f.; 2004-2005: Liverpool, 41 gol s., 53 gol f.; miglior difesa: Chelsea, 15 s. 2005-2006: Liverpool, 25 gol s., 57 gol f.; miglior difesa: Chelsea, 22 s. 2006-2007: Liverpool, 27 gol s., 57 gol f.; miglior difesa: Chelsea, 24 s. 2007-2008: Liverpool, 28 gol s., 67 gol f.; miglior difesa: Man Utd, 22 s. 2008-2009: Liverpool, 27 gol s., 77 gol f.; miglior difesa: Man Utd e Chelsea, 24 s. 2009-2010: Liverpool, 35 gol s., 61 gol f.; miglior difesa: Man Utd, 28 s. 2010-2011: Inter, 16 gol s., 23 gol f.; 2012-2013: Chelsea, 39 gol s., 75 gol f.; miglior difesa: City, 34 s. 2013-2014: Napoli, 39 gol s., 77 gol f.; miglior difesa: Juventus, 23 s. 2014-2015 (in corso): Napoli, 24 gol s., 34 gol f. È vero anche che i numeri non sono tutto, ma qui si evince una tendenza pressoché contraria a quella che vedrebbe in Benítez un allenatore poco dedito alla difesa, dal momento che le statistiche delle sue squadre sono sempre fra le migliori a livello difensivo . Se si unisce questo alla generale tendenza difensivista esibita da Benítez nelle partite di cartello, l’impressione non può che diventare, poi, totalmente opposta a quella del giudizio da cui siamo partiti. Michael Cox, che scrive per il Guardian e Zonalmarking, parla addirittura di un marchio Benítez sull’impostazione difensiva che avrebbe caratterizzato per anni gli scontri della Premier League durante il suo regno ad Anfield, e dipinge la figura di un allenatore che in genere costruisce a partire dalla solidità difensiva, per poi arrivare, solo negli anni, a sviluppare un gioco offensivo e piacevole. Cox dice che questo accade quando Benítez acquisisce completa fiducia nei suoi giocatori, lasciandoli liberi di esprimersi maggiormente in fase offensiva .

La tendenza però mostrata al Napoli è differente: eccezion fatta per il primo anno al Liverpool, la statistica relativa ai gol subiti è la peggiore di sempre per l’allenatore spagnolo, assieme a quella del Chelsea, dato rispetto al quale va però considerato il fatto che Benítez non fu in carica dall’inizio della stagione. Più di una volta, Benítez ha sottolineato la circostanza in conferenza stampa asserendo che, al contrario di quanto aveva sempre fatto, la rosa dei giocatori messagli a disposizione dalla società lo invogliava a partire dalla costruzione della fase offensiva del gioco. In linea col suo approccio ragionato, stavolta la soluzione migliore è parsa essere quella di costruire a partire dall’attacco.


20 Questo per dire che il giudizio circa la sofferenza difensiva del Napoli va corretto, e quantomeno formulato in questo modo: non è l’allenatore a non curare o a non saper fare la fase difensiva, dato che le sue squadre hanno mostrato, nel corso degli anni, una tendenza affatto differente, ma è l’applicazione dei giocatori della fase difensiva ad essere carente. Viene da chiedersi, allora: basta cambiare il metodo di costruzione del sistema di gioco per spiegare questo scivolamento? Il ritorno alla tattica è a questo punto necessario, ma non sufficiente per ottenere una qualche risposta di massima. Bisogna infatti scovare più a fondo, e in particolare nella tenuta mentale della squadra: soltanto l’incrocio di queste due occasioni può restituirci l’intelligenza del problema. Tattica e psicologia. Il sistema Benítez basa la sua fortuna anzitutto sul quadrilatero centrale che si compone dei due centrali difensivi e dei due mediani: non sempre infatti c’è tempo sufficiente per le ali per ripiegare, e non di rado il modulo si espone a fasi di transizione in cui affronta l’avversario con soli sei effettivi dietro la linea della palla. Inoltre il quadrilatero ha compiti essenziali in fase di possesso palla e costruzione di gioco: Benítez non applica la salida lavolpiana, e i primi passaggi della manovra partono sovente dai difensori centrali. In sintesi, restando alla bassa metà campo, l’impianto abbisogna di difensori centrali chiaramente bravi e intelligenti nelle letture in difesa, ma anche dotati tecnicamente per favorire la corretta gestione del pallone, nonché di mediani polivalenti, in grado sia di effettuare contrasti precisi ed efficaci, sia di impostare. In questo contesto non servono né i puri marcatori in difesa, né i registi o gli incontristi in mezzo al campo. Ora, se si mettono a confronto soprattutto i mediani attuali del Napoli con quelli allenati in precedenza da Benítez, il risultato è veramente sconfortante. Le squadre di Benítez si sono sempre fregiate di centrocampisti tuttofare di caratura internazionale, da Baraja ad Albelda, da Xabi Alonso a Gerrad, da Mascherano a Lampard; da questo punto di vista, e considerando che il primo attaccante di fama mondiale Benítez lo ha avuto a partire dal 2007-2008 (Fernando Torres al Liverpool), possiamo dire che i suoi successi principali si sono basati sulla presenza dei mediani e non su quella del classico giocatore decisivo da trenta-quaranta gol a stagione.

In questo momento, però, verrebbe da scommetterci, nella rosa del Napoli non vi è un solo centrocampista che soddisfi Benítez, se non parzialmente David López, che infatti dopo qualche settimana di assestamento è diventato praticamente il primo titolare (sedici pres.). La linea che è emersa, peraltro, di condotta del tecnico spagnolo, e manco a dirlo, a questo punto, privilegia in effetti la tenuta difensiva del quadrilatero, se è vero che Gargano sembra ormai aver scalzato gli altri due giocatori del reparto, Inler e Jorginho (tutti e due incapaci di coprire lo spazio fra centrocampo e difesa, e non pochi sono stati i gol che il Napoli ha subito lo scorso anno per questo difetto strutturale dei suoi centrocampisti, vd. p. e. il gol di Cassano al San Paolo). In realtà però la strategia di Benítez è cucita sull’avversario, e può passare dalla chiusura degli spazi e al contropiede che sostiene nei big-match, al gioco propositivo di quelle partite in cui la squadra parte con i favori del pronostico. Anche il ritmo di gioco può variare: dalle giocate eseguite rigorosamente di prima contro le grandi squadre, si passa al privilegio del possesso contro le piccole. In proposito, la sua filosofia di gioco è piuttosto malleabile, e fa dell’equilibrio e della sagacia nella scelta degli atteggiamenti tattici da adottare durante le partite, cioè della loro intercambiabilità, il suo punto di forza.


21 Le prima fonte di risposta alle domande di cui sopra emerge dunque dalla caratura degli uomini a disposizione di Benítez, e alla differente distribuzione iniziale di talento che caratterizza la rosa. Con i migliori della squadra a presidiare la metà campo offensiva, e a fronte di una povertà della squadra nell’ossatura centrale bassa, Benítez ha propeso per dare alla squadra una natura offensiva, la quale però infine rivela il difetto di appoggiarsi su di un telaio tutt’altro che solido negli uomini del suo quadrilatero. Paradossalmente, questo difetto emerge proprio quando il Napoli deve condurre il gioco: proiettata in avanti, alla ricerca del gol, la squadra ha spesso subito ripartenze letali dovute alla scarsa attitudine degli uomini del quadrilatero nella gestione delle situazioni di emergenza e alla lettura di posizionamento difensivo per quanto concerne l’intera squadra. Faccio un solo esempio, ma che ritengo abbastanza efficace:

Napoli-Chievo 1-1, Giornata n. 21. Questa interpretazione della difesa del Napoli è curiosa. Sardo è il terzino del Chievo che attacca ed è molto alto. Le due punte invece sono molto larghe, tant’è che Britos si fa attirare fuori dal movimento di quello che non capisco se è Théréau o Paloschi. Ad ogni modo, il terzino clivense può chiedere la triangolazione per il buco che adesso ha il Napoli centralmente, perché Behrami non corre all’indietro per sostituirsi al compagno: come Inler, rimane sul trequartista del Chievo. L’errore di Britos forza dunque notevolmente i meccanismi dello schema, induce Behrami all’errore, e nonostante l’interpretazione corretta di Albiol nell’uscire appena possibile su Sardo, il Napoli prende gol.

Il sistema di gioco 1-4-2-3-1 comporta il rischio di una sovraesposizione dello spazio centrale dietro i mediani, e se non contempla il ripiegamento tempestivo delle ali scopre anche i terzini. Peraltro, la sofferenza in zona centrale si fa maggiormente evidente quando il Napoli gioca contro squadre sistemate a tre in mezzo: i tre interni possono infatti soffocare i due mediani, e a ciò Benítez di solito cerca rimedio stringendo molto una delle due ali, creando a sua volta un terzetto per opporsi agli avversari (la scorsa stagione, nella vittoria per 2-0 sulla Juve di Conte, la mossa decisiva fu accorciare la distanza fra Callejón e i mediani, in modo da schermare le incursioni di Pogba sul centro-sinistra: Callejón in fase passiva faceva praticamente la mezzala e non l’ala destra).

Questo difetto del 4-2-3-1 è ora molto più acuito, perché vi sono molte più squadre che giocano con questo tipo di centrocampo, mentre all’epoca dei primi trionfi di Benítez il 4-4-2 ancora imperava, restituendo un semplice uno contro uno, perfettamente simmetrico. In definitiva, si può dire che quando il Napoli non si arrocca dietro a giocare la sua partita di cartello, soffre terribilmente l’incapacità dei giocatori nell’adattarsi alle situazioni di emergenza e alle esigenze di riposizionamento immediato fronte alla palla. Tutte queste capacità – o incapacità – attengono inoltre alla gestione psicologica che i calciatori praticano dei diversi momenti della partita. E qui va fatto un discorso su ampio raggio, ma in fondo non troppo complesso.


22 Procedo induttivamente. Sin dalla stagione passata, , il Napoli ha dimostrato di soffrire ferocemente quelle situazioni in cui la capacità psicologica di gestire le difficoltà è essenziale: vedi per esempio la trasferta con la Roma che inaugurò il grande cammino dei giallorossi, o i tonfi di Londra con l’Arsenal e la partita di Dortmund. La tendenza è divenuta preoccupante certezza già a partire dal preliminare di Champions, contro l’Athletic Bilbao, nella nuova stagione. Britos e Maggio che si scontrano sul calcio d’angolo hanno innescato una pericolosa reazione a catena, culminata nell’errore grottesco di Albiol e Rafael. Questo stesso errore si è poi esteso a macchia d’olio, assumendo dimensioni persino più preoccupanti, e tramutandosi in una sorta di angoscia generale circa la percezione di sé da parte di una squadra costruita per sognare lo scudetto, e trovatasi invece gradualmente, ma in maniera inesorabile e dura, a dover affrontare la realtà di non poter competere per le primissime piazze. In genere, in effetti, nei momenti di difficoltà, la sensazione che restituisce veder giocare la squadra è quella di una compagine frustrata da aspettative che sa non potrà mai raggiungere. Se c’è allora un aspetto che a mio avviso mostra la proficuità del lavoro di Benítez, sta proprio in un argine messo a questo movimento. Di solito queste tare psicologiche rischiano di segnare una squadra fino al cambio dell’allenatore. La gara di Supercoppa di dicembre si è aperta con un infortunio macroscopico di Albiol e Koulibaly che si sono scontrati e hanno dato via libera a Tevez. La squadra però ha mostrato, rispetto ad altre circostanze, una maggiore capacità di controllo mentale, tant’è che è riuscita, soprattutto nel secondo tempo, ad impensierire e mettere sotto la Juve, fino a costringerla al pareggio. Anche l’insidiosissima trasferta con la Lazio ha mostrato progressi sotto questo aspetto, con la squadra che non ha rischiato tantissimo, considerando l’ottima stagione che sta facendo la compagine di Pioli.

Per concludere, possiamo dire che gli errori di una squadra dipendono sempre dall’interazione fra le attitudini dei singoli e le debolezze a cui la espone il sistema tattico adottato, e che quindi, purtroppo per il Napoli, le caratteristiche naturali di certi giocatori non attenuano, ma anzi esaltano i difetti del sistema. Se questo è vero, è altrettanto certo che gli effetti di questo contrasto possono risultare notevolmente attenuati dalla preparazione psicologica, e in particolare dall’adozione di una strategia più aggressiva o quantomeno esigente da parte dell’allenatore nelle sue richieste ai giocatori. Vedremo se si tratterà di un’inversione di tendenza momentanea o di un deciso cambio di paradigma.


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Felipe Anderson, un talento alla riscossa di Gianfranco Cicchetti Bidone stagionale o nuovo fenomeno della serie A? E' l'abisso intercorso tra i giudizi maturati nei confronti di Felipe Anderson dall'estate 2013 al derby di poche settimane fa. Il talento brasiliano della Lazio è riuscito a dividere e sorprendere i critici grazie alla parabola che lo ha visto protagonista negli ultimi diciotto mesi. Arrivato a Formello con un fardello di 7.5 milioni di euro (tanto Lotito ha dovuto versare al Santos e al fondo inglese che ne deteneva parte del cartellino), il giovane asso brasiliano ha faticato molto più del previsto per prendere in mano la squadra biancoceleste e sostituire il connazionale Hernanes, del quale era il naturale e logico erede. Stella e astro nascente nel Santos, dove aveva debuttato in prima squadra a soli diciassette anni ed era diventato uno dei migliori elementi della nazionale verdeoro U20, oggetto misterioso nella Lazio prima con Petkovic e poi con Pioli. Erano in molti a sostenere l'inadeguatezza di questo giocatore, sul quale soltanto in pochi avevano notato l'immenso talento già notato in precedenza in Brasile.

FELIPE ANDERSON PEREIRA GOMES Ruolo: trequartista o punta esterna Club: Lazio Data di nascita: 15/04/1993 Luogo di nascita: Brasilia (Brasile) Nazionalità: Brasile Ingaggio: 0,8 mln Valutazione: 20 mln Agente: Nick Arcuri - Stefano Castagna

Brava la Lazio ad insisterci e dargli ancora la possibilità di crescere e maturare, rinviando di qualche mese un ambientamento durato forse troppo ma che in realtà era dovuto principalmente alla scarsa fiducia concessa al ragazzo, con relativo minutaggio insufficiente (sole tredici le presenze racimolate nello scorso campionato). Atleta di Cristo e ragazzo professionale, Felipe Anderson non ha mollato e ha saputo attendere il momento giusto per farsi conoscere meglio dai propri tifosi. Pioli ha fatto il resto, inserelndolo al momento giusto senza poi più toglierlo quando ormai il brasiliano aveva finalmente preso fiducia nei suoi notevoli mezzi, assumendo una continuità di rendimento a livelli altissimi. Con cinque reti in campionato (oltre a cinque assist) ed un gol in Coppa Italia, Anderson si è preso la scena del nuovo corso laziale, guadagnandosi giustamente l'appellativo di uomo in più della squadra di Pioli. L'ex tecnico del Bologna è stato saggio nell'utilizzarlo nel suo ruolo più congeniale, nel quale si era messo in mostra nel Santos e nel quale riesce a sprigionare lampi di classe assoluta, fatti di accelerazioni, dribbling, conclusioni imparabili e numeri di alta scuola. La certificazione di calciatore importante e non di semplice sorpresa l'abbiamo avuto nel derby romano: un gol e un assist in appena mezzora di gioco, la palma di man of the match insieme all'intramontabile Totti a cementare l'ingresso nell'Olimp(ic)o dei grandi. Qualcuno oserà ancora definirlo un bidone?Difficile, molto difficile. La prossima domanda invece sarà un'altra: quando la Lazio e il calcio italiano riusciranno a trattenere ancora un talento così?


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Italia ed Argentina

COSÌ LONTANE EPPURE COSÌ VICINE di Simone Balocco Argentina ed Italia sono da oltre un secolo “cugine” non solo per motivi economici e commerciali, ma anche perché oltre la metà degli abitanti del Paese sudamericano è di origine italiana. Certo è che i due Paesi hanno un altro tratto in comune: il gioco del calcio. La nostra Serie A da sempre gode del talento dei giocatori argentini per impreziosirsi, diventando il luogo della loro esplosione e della loro definitiva consacrazione: dagli oriundi campioni del Mondo “Luisito” Monti ed Atilio de Maria a Renato Cesarini negli anni Trenta; da Omar “El Cabezon” Sivori al “Petisso” Bruno Pesaola nei '50; da Daniel Passarella a Ramon Diaz negli anni Ottanta; da Abel Balbo a Nestor Sensini, da Gabriel Omar Batistuta a Hernan Crespo che hanno rafforzato le squadre di A nei Novanta; dagli interisti Javier Zanetti e Diego Milito, fino ad oggi con Carlos Tevez. Senza contare il più forte calciatore della storia, Diego Armando Maradona, che con le sue magie ha fatto sognare Napoli dal 1984 al 1991. In totale, oltre 300 calciatori argentini hanno militato in Italia nelle nostre serie calcistiche.

Ca va sans dire che i recordmen di presenze e di marcature nella storia della Seleccion sono di origine italiana ed hanno stabilito i propri primati quando militavano in Serie A: “El Pupi” Javier Zanetti (145 gettoni) ed “Il Re Leone” Gabriel Batistuta (56 reti). Ed i capitani che hanno alzato al cielo le due Coppe del Mondo finora conquistate dall'Argentina? Semplice, anche loro (Passarella e Maradona) sono stati esponenti della golden age del calcio italiano negli anni Ottanta. Arriviamo dunque ad oggi, dove nella classifica marcatori della serie A tra i primi dieci giocatori ci sono quattro argentini... nei primi cinque posti: Carlos Tevez con 13 reti è per ora il capocannoniere del campionato; con dodici reti segue Gonzalo Higuain, nato in Francia quando il padre Jorge militava nel Brest; il social Mauro Icardi e la sorpresa Paulo Dybala che di reti ne hanno siglate undici e sono andati entrambi a segno domenica. L'intruso in questa “speciale” classifica è Jérémy Ménez: il numero 7 del Milan, dodici gol per lui finora in stagione, fa rima con “Tevez”, è francese e gioca in una squadra che non ha mai avuto tanto appeal con i calciatori argentini. Su questi giocatori le loro squadre di club stanno puntando in maniera molto forte: la Juventus cerca con le reti del suo numero 10 di vincere il quarto scudetto consecutivo e di spingere la squadra in Champions League; Higuain potrebbe lasciare a giugno il “San Paolo”, ma fino alla fine del torneo cercherà di portare il Napoli al terzo posto in classifica e dove possibile in quel dell'Europa League; l'ex Sampdoria, padre da pochi giorni di Francesca, piace invece a tanti top club europei e l'Inter dovrà fare in modo di tenersi stretto il talento sbocciato nella Genova blucerchiata per tentare una disperata rincorsa Champions ed andare il più avanti possibile in Europa; Dybala, infine, a giugno quasi sicuramente saluterà la Serie A perché al club rosanero arriverà (sicuramente) la richiesta di qualche squadra guidata dallo sceicco di turno cui non potrà dire di no, come avvenne nell'estate 2011 con l'offerta shock del Paris Saint Germain per un altro argentino, Javier Pastore.


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Ma guardando la classifica marcatori a scendere si nota che anche il “gemello” di Dybala, Franco Vasquez, lo scorso anno addirittura fuori rosa ed ora tassello inamovibile nell'undici di Iachini. Ha già siglato sei reti e, con il rinnovo firmato poche settimane fa, si candida ad una lunga permanenza in Sicilia. Attualmente in Serie A giocano ben 39 argentini, alcuni capitani delle loro squadre (Denis), altri giocatori fondamentali (Diego Perotti, Gonzalo Rodriguez, Albano Bizzarri), altri riserve che lottano per un posto da titolare (Juan Iturbe, Javier Saviola). Senza contare che la squadra italiana con più giocatori in rosa provenienti “dalla fine del Mondo” (come disse appena nominato papa Jose Mario Bergoglio, anch’egli argentino) gioca in Serie B, il Catania: il club siciliano si compone oggi di sette giocatori argentini e da anni la squadra etnea è chiamata dai cittadini sudamericani “la Segunda”, una seconda selezione nazionale: dalla stagione 2009/2010 gli etnei hanno sempre avuto in rosa almeno dieci argentini, con il top raggiunto nel 2012 e lo scorso anno quando a Torre del Grifo erano in quattordici a giocarci.

Serie A ed Argentina, un connubio rafforzatosi lo scorso 13 luglio al “Maracana”, quando la Selecciòn sfidava la Germania con in campo tre elementi “italiani” (Sergio Romero, Lucas Biglia, Gonzalo Higuain) ed una nostra vecchia conoscenza (Ezequiel Lavezzi), con in panchina Hugo Campagnaro, Mariano Andujar, Rodrigo Palacio, Federico Fernandez, Ricky Alvarez, l’ex Roma Fernando Gago ed un'altro che sarebbe arrivato in Italia a torneo terminato, il viola Josè Maria Basanta. Argentina ancora una volta seconda, ma la sfortuna ha voluto che uno dei “nostri”, Higuain, andasse vicinissimo al gol sbagliando clamorosamente. Calcio a parte, il legame tra Roma e Buenos Aires toccò l'apice il 13 marzo 2013, quando Jorge Bergoglio, gesuita con radici astigiane già citato precedentemente, salì al soglio pontificio: un altro argentino si sarebbe fatto amare in Italia. E proprio in onore del Santo Padre cinque mesi dopo ci fu l'amichevole Italia-Argentina, vinta dagli ospiti 2 a 1 con in campo in totale undici calciatori che giocavano, o hanno giocato, in Italia. Argentina ed Italia, due Paesi così lontani eppure così vicini…grazie allo sport più bello del mondo, ovviamente.


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Arturo Di Napoli

<<La mia nuova vita a Malta>>

di Gianluca Lia

Arturo Di Napoli è uno dei tanti giocatori che, una volta appese le scarpette al chiodo, ha deciso di percorrere la carriera di allenatore. Eroe della città di Messina, portata nella massima serie a suon di reti, l’ex centravanti ha rilasciato un’intervista esclusiva a “Zona Calcio” dove parla della sua nuova avventura: da circa un mese, infatti, allena la Vittoriosa Stars, società di Serie B maltese. Di Napoli è giunto nella piccola isola mediterranea dopo aver allenato il Rieti in Eccellenza, il Riccione in Serie D e soprattutto il Savona nell’attuale Lega Pro. Partiamo dal suo passato, quello da calciatore: che bilancio fa della sua carriera? «Ho giocato tanti anni per altrettante piazza, e ognuna di queste mi ha insegnato qualcosa. Le esperienze all’Inter e al Napoli rimarranno sicuramente importanti per me, mi hanno fatto crescere come uomo nonostante non le poche presenze. A Messina e Salerno ho fatto bene e sono fiero di aver scritto la storia con quelle maglie». Quale esperienza le rimarrà nel cuore per sempre? «Ovviamente il Messina occupa un posto speciale, però a Napoli posso dire che mi sentivo bene e tranquillo. Per quanto di buono raccolto nell’esperienza partenopea devo sicuramente ringraziare Vujadin Boskov» Il Messina non sta vivendo un momento semplice, economicamente parlando: che effetto le fa? «Mi fa male non soltanto perché sono particolarmente legato all’ambiente, ma anche perché le squadre inghiottite dalla crisi sono sempre di più e la cosa deve preoccupare». Com’è cambiato il tuo rapporto con il calcio da quando hai iniziato ad allenare? «Molto, credo sia normale. Come calciatore non hai delle responsabilità se non quella di mantenerti in forma; diversamente, in qualità di tecnico hai l’onere di gestire una rosa di atleti e curare numerosi aspetti in società. Si tratta di una scelta, comunque, perché è ovvio che fare l’allenatore ha anche molti aspetti positive».

Come mai ha scelto di fare quest’esperienza a Malta? «Avevo bisogno di una nuova avventura in grado di farmi accumulare esperienza. Sogno di tornare in Italia per una panchina di A o B, ma nel frattempo mi concentro qui perché voglio dare un contributo importante al fine di far crescere il calcio maltese». Com’è stato il suo impatto con la squadra? «Mi sono sentito subito a mio agio, tutto lo staff mi ha aiutato ad inserirmi al meglio. Ho chiesto ai ragazzi di aiutarmi mettendosi a disposizione così come io farò con loro. Ci sono molti giovani interessanti, credo molto in loro e sicuramente l’inserimento di nuovi talenti in prima squadra è uno dei miei principali obiettivi». Quale messaggio vuole lasciare ai suoi nuovi tifosi? «A loro non posso che chiedere un supporto importante: per noi significano tanto e vogliamo la loro spinta per raggiungere subito la promozione nella massima serie, dove questi ragazzi meritano di essere».


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Torres, il campione con la sindrome di Peter Pan di Jacopo di Caprio Quando si parla di calciatori si pensa che la vita di ognuno di loro non sia condizionata dal microcosmo in cui vivono. Si dà per scontato che un campione debba avere necessariamente spalle grandi per affrontare le insidie di compagni di squadra invidiosi, allenatori esigenti e media asfissianti. Può accadere, infatti, che il rapporto tra qualità tecniche e gestione dello stress sia asimmetrico con potenzialità da supereroe e armatura da normodotato. Quando si parla di Fernando Torres non ci si trova di fronte ad un alunno discolo, ad un crack senza cervello o, peggio ancora, al predestinato che ha dilapidato un patrimonio. Tutt’altro: Fernando José Torres Sanz - con debolezze, virtù e talento - sarebbe il protagonista perfetto di un libro di John Grisham. In lui risiede quella innata capacità di rialzarsi dopo una caduta fragorosa, di rispondere con veemenza alla sconfitta: quel modo particolare di risposta alle sfide della vita che fa impazzire gli americani. Un’altra a cosa a cui gli statunitensi sono particolarmente affezionati sono le statistiche. E nel caso dell’eterno bambino natio di Fuenlabrada, ci troviamo di fronte ad un saliscendi di prestazioni apparentemente insensato. È quantomeno paradossale che un calciatore pagato qualcosa come 50 milioni di sterline sia riuscito a timbrare il cartellino soltanto 20 volte in 110 partite nell’arco della sua avventura al Chelsea. Osservando le statistiche senza alcun spirito critico si nota la media di un gol ogni sei partite: non esattamente un bottino da attaccante dominante. Ma, tenendo conto che ai dati deve essere attribuito un peso relativo, va specificata anche una particolare disinvoltura a segnare quando la palla scotta. Nei suoi 20 gol al Chelsea, infatti, si annoverano 4 realizzazioni nelle final four: semifinale di Champions League 2012, finale di Europa League 2013, Supercoppa europea 2013 e semifinale di Champions League 2014.

Fernando Torres è il testimonial senza tempo del Romanticismo: fantasia ed emotività sono la forza che ne tratteggia la differenza della media. Lo stesso uomo che al Chelsea si comportava da coniglio bagnato, nella stagione 2003-2004 - a soli 19 anni - era già il capitano della seconda squadra della capitale. L’Atleti per Torres non è semplicemente un ripiego: rappresenta l’orgoglio di tifare per la squadra meno potente al cospetto del club più glorioso di Spagna e d’Europa. Da bambini quando si sceglie per chi parteggiare, non si pensa a troppe cose: Alessandro Nesta e Paolo Di Canio scelsero la Lazio in un contesto quasi esclusivamente giallorosso; Wayne Rooney scelse l’Everton in una città, Liverpool, dove risulta la normalità lasciarsi calamitare dal suono di “You’ll Never Walk Alone”.


28 Evidentemente, in tenera età la possibilità di sognare è al primo posto nella scala dei valori. È dunque conseguenza naturale che Fernando Torres sia stato decisivo proprio nella città di Wayne Rooney: a Liverpool si è sentito amato come a casa e ad aiutarlo c’era un grande amico come Steven Gerrard. Non è un caso che nella fase più brutta della carriera di Gerrard, quando il capitano finì dietro le sbarre per un aggressione ad un dj tifoso del Manchester United, l’amicizia si sia intensificata ancora di più. Col numero 8 inglese formava la coppia stilisticamente più bella dell’intero panorama calcistico europeo. Forse solo un allenatore calcisticamente cocciuto come Rafael Benitez poteva pensare che Gerrard e Torres erano in grado di coesistere senza la presenza di un terzo violino. Tra il 2007 e il 2011, Steven Gerrard e Fernando Torres erano rispettivamente il centrocampista e l’attaccante moderno prima che nascesse l’accezione stessa. Il supporting cast doveva essere marginale al contesto, ma se tale compito era occupato da Xabi Alonso e Mascherano si arriva ad un passo dal disegno divino di spodestare i rivali del Manchester United dal trono di Inghilterra. Dopo l’esperienza fallimentare al Milan, la vita ha destinato al Nino un altro futuro rischioso: tornare nella sua Itaca. Compito arduo per chi ignora ogni tipo di logica nel proprio sentiero. Ai Colchoneros, invece, basterebbe che il Peter Pan del football internazionale ritornasse ad essere il bello di coppa perché per i giorni lavorativi è già presente in rosa un illuminista convinto come Mario Mandzukic. Chi non crede a queste anomalie può tranquillamente riavvolgere il nastro del 15 Gennaio: doppietta al Bernabeu e Real Madrid fuori dalla Coppa. Il regista di quella notte è un inguaribile sognatore come Diego Simeone.

La forma più alta del cholismo è rappresentata proprio dalla rinascita dei talenti più criticati. E se Torres lo ringraziasse ancora col Real, dopo aver nel frattempo attentato anche il Barcellona, l’operazione ritorno da riuscita si tramuterebbe in geniale.


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There is the only One Captain

Manuel Pascali, Capitano del Kilmarnock FC ed unico giocatore italiano della Scottish Premier League, ci racconta il suo incredibile percorso e ci insegna che nella vita, prima o poi, ognuno di noi avrà la propria chance di Matteo Mosciatti Ci sono storie che meritano di essere raccontate, perché il calcio non è solo quello che siamo abituati ad ammirare in TV ma può essere molto più esaltante, soprattutto se la gloria la conquisti da solo, con tenacia ed aggressività, senza mollare mai. È questo il caso di Manuel Pascali, trentatreenne di Milano conosciuto più nel Regno Unito che da noi per essere il Capitano della più antica squadra di calcio di Scozia. Vestite le maglie di Sant’Angelo Lodigiano, Alessandria, Pizzighettone e Carpenedolo, la chiamata del Parma nell’estate del 2007 sembrava la meritata svolta ad un’interminabile gavetta nei campionati “minori”, ma purtroppo (o forse “per fortuna”) i ducali lo spedirono al Foligno prima che iniziasse la stagione, sgretolando i sogni di gloria dell’ambizioso centrocampista. Eppure “Paska” non si diede per vinto, onorò al massimo la causa della società umbra ed una volta terminati i play-off di Serie C ottenne la proposta che gli ha cambiato la vita, vedendo ripagati con gli interessi i sacrifici e il sudore di otto anni “dietro le quinte”. All’indomani del suo gol nel 2-2 contro il Partick Thistle, facciamo quattro chiacchiere con Manuel Pascali, The Captain of Kilmarnock Football Club…

Ciao Manuel, come stai? «Bene, grazie, sono contento della rete segnata contro il Partick, la mia terza in questa stagione. Qualche gol l’ho sempre fatto in carriera, proverò ad arrivare a cinque entro fine campionato. Peccato per lo sfortunato pareggio subito all’84’: volevamo i 3 punti per rosicchiare un po’ di posizioni ed avvicinarci alla Top 6 (In Scozia le prime sei si affrontano in una sorta di play-off validi per Scudetto, Champions ed Europa League), ma purtroppo è andata così. Siamo comunque contenti dei risultati ottenuti sino ad oggi, calcolando che l’anno scorso ci salvammo all’ultima giornata e che in estate abbiamo cambiato praticamente metà rosa. Il quarto posto che occupavamo dopo dodici giornate ha fatto sognare società e tifosi, poi siamo calati ed oggi ci ritroviamo a metà classifica. Lotteremo senz’altro per entrare nella Top 6; meglio facciamo, maggiori saranno le possibilità di raggiungere l’obiettivo». Il calcio è sempre stata la tua più grande passione e da qualche anno è anche il tuo lavoro. Come ti sei avvicinato a questo sport da piccolo? «Quando avevo 5 anni di robe da fare ce n’erano poche! Sono cresciuto in una famiglia tranquillissima che non mi ha mai fatto mancare niente e in cui la passione per il calcio era tanta. Mia mamma è una grande tifosa dell’Inter ed ha trasmesso la sua fede calcistica a tutti noi; io cominciai a dare i primi calci al pallone nella squadretta del paese (San Donato Milanese), mentre mio fratello maggiore Diego faceva parte dei Pulcini. Come ho detto, per giocare le alternative non erano molte, così bastavano zaino, pallone e via!».


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Oggi sei l’unico calciatore italiano della Scottish Premier League, come ci sei finito? Raccontaci il tuo percorso. «Ebbi la fortuna di vivere due anni fantastici a Pizzighettone: raggiungemmo i play-off di C2 in entrambe le stagioni e nella seconda li vincemmo superando Sassuolo e Valenzana. Tra i miei compagni di squadra c’era Sergio Porrini, difensore che aveva vestito le maglie di Atalanta, Juventus e Rangers Glasgow, il quale mi diceva spesso “Fidati Pasca, il calcio scozzese è il tuo!”. Sergio aveva mantenuto un paio di contatti e sapeva che da un po’ di tempo in Scozia erano interessati all’acquisto di giocatori italiani, così due anni più tardi il suo amico Stefano Salvatori, ex centrocampista di Milan, Fiorentina e Hearts mi chiese cosa ne pensassi. Io, terminata l’esperienza con il Carpenedolo, ero sotto contratto con il Parma che mi aveva girato in prestito al Foligno, squadra allenata da Bisoli e della quale facevano parte Volta, Cacciatore e Parolo, mio grande amico tutt’oggi. Nonostante la mia risposta positiva, la proposta di Porrini e Salvatori di tentare l’avventura in Scozia sfumò. Un mese dopo, quindi a giugno 2008, ero in vacanza con amici quando mi chiamarono Sergio e Stefano per dirmi che il Kilmarnock era in ritiro a Lucca e che avrei potuto sostenere un provino con gli scozzesi. I due giorni successivi da morire dal ridere: io sulla spiaggia a fare allenamenti di tecnica con i miei amici con la palla da beach volley! Tornato dalla vacanza, andai da solo a Lucca e mi allenai tre giorni con il Kilmarnock, il cui staff mi chiese di venire in Scozia per un’ulteriore settimana di prova. Lì giocai un paio di amichevoli: quella contro il QPR di Briatore (all’epoca Presidente della società inglese) fu decisa da un mio gol. Giocai benissimo e convinsi il Kilmarnock ad offrirmi tre anni di contratto, risolvendo alcune pratiche con il Parma».

Dopo la “bocciatura” del Parma avevi perso le speranze di raggiungere il grande calcio? «Il Parma mi fece firmare il contratto, tuttavia non mi diede mai alcuna possibilità e non so se rimanendo in Italia me la sarei guadagnata. Da quando avevo 18 anni ho sempre avuto la fortuna di disputare 20-30 partite l’anno sentendo grande fiducia da parte di tutti gli allenatori che ho avuto. La semifinale play-off di C1 fu il punto più alto della mia “prima carriera”, visto che con due vittorie in più avrei raggiunto la Serie B, che ai tempi era praticamente il traguardo massimo per un trentenne con zero presenze in A. Sinceramente, il Parma mi fece indispettire perché non mi permise nemmeno una volta di confrontarmi con il grande calcio, quando in caso di “fallimento” sarei stato il primo ad ammettere di non essere all’altezza della Serie A. Tuttavia accettai la bocciatura come un’extra-motivazione senza mai buttarmi giù e con la voglia di dimostrare, un giorno, che si fossero sbagliati».


31 Come fu l’impatto con una realtà così diversa da quelle a cui eri abituato? «Stavo iniziando a vivere quello che avevo sempre sognato ed erano anche i primi anni in cui si scrivevano i cognomi sulle maglie. In attesa che gli appartamenti della società fossero pronti, mi misero in una camera d’hotel. Le mie giornate passavano così: la mattina ci allenavamo, tornavo in albergo e poi andavo in palestra a fare un po’ di stretching e robe varie. Avevo tutto ciò che mi serviva. Il mio unico obiettivo era sentirmi un giocatore di serie A e smentire tutti coloro che non mi avevano dato fiducia in Italia». Il campionato scozzese è generalmente considerato un torneo di seconda fascia rispetto a quelli di altre nazioni europee. Cosa puoi dirci al riguardo? «I soldi fanno la differenza e gli introiti e gli investimenti nel calcio che ci sono in Inghilterra, Spagna e Germania non permettono neanche ad un grande campionato come quello italiano di tenere il passo. Anche Francia e Portogallo stanno salendo. Credo che la Scottish Premier League sia migliore dal punto di vista tecnico rispetto a quello che si possa pensare, anche perché le poche risorse economiche (esclusi Celtic e Rangers) spingono le società a puntare sui giovani. Qui sono molti i ragazzi che a vent’anni vantano già cento presenze in campionato! Poi però, nonostante alcuni di loro siano davvero talentuosi, capita loro di “perdersi” per colpa della cultura sportiva che si tende ad avere: gli scozzesi danno poca importanza ai particolari (allenamenti, ritiri, dieta) eppure la loro passione per gli incontri di pallone è paragonabile a poche popolazioni nel mondo. Il loro sport nazionale è il golf, tuttavia l’etica, il rispetto reciproco e la lealtà del calcio spinge giovani e vecchi allo stadio, insomma, tutta un’altra cosa rispetto all’Italia! Per non parlare della rivalità tra le due squadra di Glasgow. In Scozia o sei dei Celtic o sei dei Rangers, ma la differenza non si nota solo durante le partite, perché il tifoso biancoverde avrà sempre uno stile di vita diverso rispetto a quello degli acerrimi nemici».

A proposito: i sedicesimi di Europa League vedranno affrontarsi l’Inter e il Celtic Glasgow. A cosa dovranno stare attenti i nerazzurri? Credi che la sfida sarà equilibrata? «Sicuramente l’esperienza internazionale dei giocatori dell’Inter pone i nerazzurri come favoriti, tuttavia giocare al Celtic Park non è mai facile ed il brutto girone di Champions disputato non è ancora andato giù ai tifosi. La squadra di Mancini verrà “aggredita” per tutta la partita anche perché qui si gioca un calcio diverso, più diretto e passionale e molto meno tattico. Gli arbitri lasciano correre ed il gioco è più fisico, tanto che al primo contatto i giocatori difficilmente vanno giù. Tutto ciò rende i match più divertenti, spettacolari e coinvolgenti». In tutto ciò hai trovato il tempo di sposarti e diventare papà di due splendidi bimbi… «Sì, purtroppo non viviamo insieme perché un paio d’anni fa mia moglie ricevette un’importante proposta di lavoro a Milano, ma quando è possibile riusciamo a vederci. Le numerose risorse tecnologiche ci permettono di rimanere quotidianamente in contatto. L’importante per entrambi è assicurare serenità a Francesco e Daniel, i nostri bambini».


32 A proposito di Italia: come giudichi la Serie A da “esterno”? E i continui scandali che colpiscono il nostro sport nazionale? «Credo che innanzitutto gli scandali allontanino la gente dal calcio. Un genitore potrebbe pensare di far praticare altri sport ai propri figli per farli crescere in un ambiente più sano e l’immagine del Paese infangato da corruzione e favoritismi la trasmettiamo, purtroppo, anche all’estero. Per carità, io non voglio giudicare nessuno, ma qui mi chiedono come sia possibile che un allenatore condannato in seguito a uno scandalo sia ora il CT della Nazionale. L’anno scorso un calciatore britannico stuprò una ragazza e da quel giorno non ha più trovato una società disposta ad ingaggiarlo. Ci fu una raccolta di firme alla quale aderirono tantissimi tifosi al fine di lasciare il giocatore in questione senza squadra. Inoltre tutta quella gente negli hotel di riferimento durante il calciomercato, i box, le camere chiuse a chiave, a cosa servono? In Scozia le trattative si fanno al telefono o via fax, un paio di firme e via. Il problema è che in Italia gli scandali non colpiscono solo il calcio; bisognerebbe cambiare radicalmente la cultura, ma mi rendo conto che questo sia molto difficile e che non basterebbe qualche anno per farlo. Parlando delle squadre di Serie A posso dirti che a Inzaghi, a mio avviso, manca l’esperienza necessaria per affrontare i momenti difficili e che l’assenza di “senatori” penalizza il Milan. Non ci sono più i vari Maldini, Nesta, Gattuso e Ambrosini, mentre la Juve dispone di caratteri forti come Buffon e Chiellini che risultano fondamentali all’interno di uno spogliatoio. Vedo bene la Lazio, gruppo compatto che potrà lottare per il terzo posto fino alla fine, e la Samp, nella quale tutti i giocatori si aiutano dando il 100% per novanta minuti. Guardo le partite su Sky e penso che Daniele Adani sia un opinionista fantastico».

A giugno scade il tuo contratto con il Kilmarnock. Rinnoverai? In questi sei anni hai mai ricevuto proposte da società italiane? «A novembre abbiamo iniziato a parlare del rinnovo. In Scozia se giochi dieci anni consecutivi nello stesso club ti organizzano il “Testimonial Year”, un anno ricco di eventi per celebrare una fedeltà che nel calcio è sempre meno frequente. Fisicamente sto bene e cerco di fare il meglio possibile per la squadra e per me, poi se la società decidesse di puntare su altri giocatori lo accetterei tranquillamente. Se finissimo bene la stagione le possibilità di continuare aumenterebbero; in caso di offerte da altre squadre darei la priorità al Kilmarnock, il club che ha creduto in me e che mi ha dato l’opportunità di essere qui a parlare con te, anche perché da queste parti si tende a trattare con calma e con tempi piuttosto lunghi. Magari troveremo un’intesa, vedremo. L’unico contatto per tornare in Italia fu con un mio ex compagno che mi chiese se mi sarebbe piaciuto andare a Pavia, ma sono sempre stato sotto contratto con i “Killy”. A parte le persone con cui ho lavorato, sono finito nel dimenticatoio per le società italiane: conosco le dinamiche del calcio nel nostro Paese e so che nessuno punterebbe su di me. Anzi, a dire il vero penso che la maggior parte di tifosi e addetti ai lavori non mi conosca nemmeno!». Qualche anno fa si è parlato della possibilità per alcune squadre della SPL di approdare in Premier League. Ci speri ancora? «Se ne parlava per Celtic e Rangers. Diciamo che magari se quelle due si levassero dalle p…e potremmo vincere noi il campionato! (ride, ndr)».


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Dicci due cose per cui la Scozia è meglio dell’Italia e due cose che ti mancano della tua patria. «Il Regno Unito è famoso per la costante presenza di maltempo. I primi tre anni era triste tornare qui dopo un paio di giorni in Italia, dove di sicuro la primavera è tutta un’altra cosa. In Scozia il cibo italiano lo trovi in molti ristoranti, mentre quando vai di fretta sei costretto ad accontentarti della qualità scadente dei fast-food. Diciamo che generalmente la roba da mangiare è buona, tuttavia sono pochi quelli che sanno cucinarla come si deve! Quando lasci l’Italia ti accorgi di quanto tu sia stato fortunato a crescere in un Paese così attento al mangiare, fondamentale per sportivi e non; da queste parti zero frutta e verdura. La cosa che mi piace di più da quando sono arrivato è il senso di sicurezza trasmesso dalle istituzioni. Gli episodi di criminalità che ero abituato a sentire sin da piccolo mi avevano trasmesso una “cultura del sospetto” tale da rimanere a bocca aperta quando, durante uno dei primi giri in città, vidi una mamma lasciare il proprio figlio nel passeggino fuori da un negozio per fare degli acquisti. I criminali esistono dappertutto, ma la sicurezza di questa Terra non è paragonabile a quella dell’Italia. Inoltre io vengo da Milano, la cosiddetta Capitale della Moda, dove prima di tutto vieni giudicato per come appari e per come ti vesti. Qui è addirittura illegale mettere foto sul proprio curriculum, perché potrai avere anche cento tatuaggi e duemila orecchini, ma se vali verrai giudicato per le tue qualità e per il modo in cui fai il tuo lavoro. Mi è capitato di incontrare poliziotti che sembrano galeotti, ma se lavorano bene, perché non possono avere due piercing? Puoi persino arrivare al campo d’allenamento in tuta, cosa che difficilmente si vede in Italia».

Cosa consiglieresti ad un ragazzo che, come te in passato, gioca da anni in Lega Pro o in categorie inferiori sognando i grandi palcoscenici? «Gli direi di non avere paura di provare, non solo nel calcio ma nella vita in generale, così da non avere rimpianti. So di alcuni giocatori che, al contrario del sottoscritto, preferirono trovare una nuova squadra in C2 piuttosto che tentare l’esperienza all’estero. Cambiando Paese ti stupisci di quante cose si possono scoprire, di quante novità ti sarebbero rimaste sconosciute, puoi solo arricchirti. Il mio consiglio è di non aver paura, perché alla fine in un’esperienza del genere c’è solo da guadagnare». Salutandoti ti chiedo: dove ti vedi tra dieci anni? «Tra dieci anni mi vedo sulla panchina del Kilmarnock a vincere lo scudetto da allenatore, titolo che manca da oltre mezzo secolo ai “Killy”. Credo che nella vita bisognerebbe sempre sognare in grande ed avere obiettivi importanti, facendo di tutto per raggiungerli, altrimenti che senso avrebbe andare avanti? Se poi non dovessi riuscirci, avresti comunque guadagnato qualcosa nel percorso fatto. Io nel frattempo mi accontento di allenare la mia squadra del fantacalcio con ottimi risultati contro gli altri ragazzi italiani che giocano all’estero: Verratti, Immobile, Criscito, Donati (tornato in Italia), Borini, Fausto Rossi e Michele Di Piedi, attaccante che gioca in Birmania!».


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Il Mercato di Lega Pro di Adelmo Pagliuca

La sessione invernale del calciomercato 2014/2015 non è stata avara di colpi in Lega Pro. Ecco la raffica contenente gli affari principali. Girone A L'Albinoleffe prende Silva Reis dal Catanzaro, l'Alessandria accoglie in squadra Germinale, Iunco e Morero. L'Arezzo si affida al talento di Crescenzi, Yaisien, Guidi, Sabatino e Testardi, mentre il Bassano ingaggia solo Spadafora e Casarini dal Savona. Il Como ufficializza l'ex Roma Cassetti, Ivan Castiglia, Maritato, l’ex Pescara Berardocco e Marconi. Pasi e Finazzi alla Cremonese, la FeralpiSalò si assicura Palma a centrocampo e la Giana punta su Polenghi, ex Lecce, e Sinigaglia. Il difensore Bagnai al Lumezzane, Beleck dalla Fiorentina al Mantova. I colpi principali del Monza sono Gilberto Martinez, ex Brescia, Uliano, Omar Torri, D'Ambrosio, De Lucia, Pugliese ed Uliano. Foglio e Gavazzi al Novara, il Pavia ingaggia Mattia Marchi. Il Pordenone prova a risollevarsi con l'ex Atalanta Bjelanovic e Bertolucci, Calzi torna alla Pro Patria, mentre Quintavalla, ex capitano del Savona va al Real Vicenza. Perini è del Renate, il Sud Tirol ha chiuso per Novothny, Shekiladze e Zullo, Barbuti alla Torres, Giorico e Guerra al Venezia. Girone B L'Ancona ingaggia Lisai dalla Torres, Grassi, Nardini ed Altobelli vanno all'Ascoli. Il difensore Massoni alla Carrarese, il Forlì puntella l'attacco con Gliozzi, Rosafio e Morga. Volpe e Legittimo al Grosseto, il giovane Tutino al Gubbio, Pozzebon dall'Avellino a L'Aquila. Pagano e Pizza alla Lucchese, il Pisa ingaggia Floriano dal Barletta, Caponi dal Pontedera, Arrighini dall'Avellino e Ricciardi dal Latina. Luca Ricci, Martignago e Pacciardi dal Catanzaro alla Pistoiese, De Cenco passa al Pontedera, il Prato prende Sorbo, De Agostini, Gazzoli e Rinaldi. Giovio ed Alessandro per il Pro Piacenza, la Reggiana ingaggia Giannone dal Bologna e Vacca dal Catanzaro. Cuffa, Caio Secco e Musetti passano al San Marino, Berardino e Falconieri al Santarcangelo, la Spal prende il difensore Cottafava, Pigini torna a Teramo. Il centrocampista Scicchitano firma col Tuttocuoio.

Girone C Ingretolli dall'Ischia al Barletta. L'attaccante classe '94 arriva dal Pescara e nella prima parte di stagione ha segnato 4 reti in Campania. L'unico acquisto del Benevento è Djiby. La Casertana si assicura Caccavallo, 4 gol con la Paganese nella prima parte di stagione. Il Catanzaro ingaggia Mounard e Giandonato dalla Salernitana, Razzitti dal Brescia, Mancuso dal Cittadella e Ghosheh dal Venezia. Il colpo principale del Cosenza è Statella, per il Foggia c'è Minotti. I due acquisti dell'Ischia che spiccano sono Millesi, ex Avellino, ed Infantino, proveniente dalla Torres. La Juve Stabia porta in Campania Burrai, Carrozza, Maiorano ed Aveni. Il Lecce si impone prendendo Gustavo e Manconi dal Novara, Herrera dalla Paganese e Di Chiara ed Embalo dal Palermo. Del Sorbo e Masi alla Lupa Roma, Pepe e Bucolo al Martina. Il Matera si assicura Diop, Ashong e Carretta, il Melfi ingaggia Cicerelli e Gallo. Buon mercato anche del Messina, che porta a casa Rullo, Ciciretti, Mancini, Barusso, De Paula e il portiere Berardi. Perna, Bolzan, Aurelio, Malaccari e Biasci sono gli acquisti principali della Paganese, la Reggina, oltre ai ritorni di Aronica, Belardi e Cirillo, ha chiuso anche per l'attaccante Balistreri ed il centrocampista Gallozzi. Moro e Antonio Bocchetti alla Salernitana, Volturo al Savoia. Forte torna alla Vigor Lamezia.


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