Memorie di
Angelo Muià (1913 – 2003) scritte alla fine degli anni ‘90 POW 278590
Angelo MuiĂ POW 278590 nato a Siderno (RC) il 23/01/1913 (testo estratto dal manoscritto originale a cura del figlio Franco)
Estratto dalle memorie di Angelo Muià (1913 – 2003) scritte alla fine degli anni ‘90 … Sono imbarcato sul Caboto il 10 marzo 1939. Il primo viaggio con il Sebastiano Caboto siamo partiti il 14 marzo per Bender Chapur, Golfo Persico. Porti intermedi Livorno, Catania, Port Said, Suez, Massaua, Assab, Bender Chapur. Il viaggio durava circa quattro mesi. Il comandante si chiamava Pasquale M., di Procida. Lo conoscevo molto bene perché era sul p/fo Orseolo (al mio primo imbarco) come 1° ufficiale. Si scaricava a Bender Chapur e si andava a caricare in India e Pakistan. Al quarto viaggio siamo partiti da Genova verso il Golfo Persico con il solito carico, manufatti, stoffe e armi, verso il 15 maggio 1940 e arrivati a Massaua ai primi di giugno. Da Massaua siamo partiti per Bender Chapur ma arrivati nel golfo di Aden abbiamo ricevuto l’ordine di andare ad Assab perché l’Italia era in guerra con Inghilterra e Francia. Ci siamo rifugiati ad Assab in attesa di ordini. Ad Assab siamo stati circa 15 giorni sulla nave. Abbiamo scaricato ad Assab tutta la merce che era a bordo (armi, stoffe, chincaglieria, profumi e altre cose che non ricordo). Le armi sono state consegnate al comando militare di Assab. L’altra merce è stata scaricata nei magazzini della dogana, dove per ufficiale di dogana c’era un certo C. di Reggio Calabria (con parenti a Siderno) e siamo diventato amici inseparabili. C. ad Assab aveva una casa prefabbricata vicino alla caserma del 1° battaglione dove io sono stato assegnato come soldato, dopo il richiamo alle armi avvenuto il 20 giugno 1940. Ad Assab c’era pure l’ingegnere M. di Siderno, era commissario governativo. Poi c’era un muratore (Santo P.) che a Siderno abitava al Mirto e con il quale sono diventato molto amico. Santo P. era in Africa come operaio (muratore). L’aveva fatto andare l’ingegnere M., con il quale erano molto amici. Gli aveva fatto assegnare un pezzo di locale per potersi costruire una casa. Aveva incominciato a costruirsela ma, scoppiata la guerra, ha dovuto abbandonare i lavori perché non c’erano più né cemento né mattoni. Il 25 giugno (giornata che non si può dimenticare) Assab è stata bombardata a tappeto, cioè tutta Assab è stata bombardata dalle otto di mattina alle dieci circa di sera. Ci sono stati parecchi morti, civili e militari. Gli aerei partivano da Aden e arrivavano su Assab dopo circa cinque minuti. Non li sentivamo neanche. Sentivamo solo le bombe quando arrivavano per il rumore che facevano nella discesa. Ad Assab non c’erano né rifugi né contraerea. C’era solo una mitraglia che è stata messa fuori uso subito, come pure l’aeroporto dove c’erano due caccia che sono stati distrutti subito. L’ingegnere M, che era molto pauroso, ha fatto costruire subito rifugi antiaerei a prova di bomba e siccome tutti i giorni venivano a bombardare tutti correvamo sotto ai rifugi. Forse io e C. non siamo mai andati sotto i rifugi. Santo P. ha costruito un rifugio nel suo terreno, dove doveva costruire la casa. In questo rifugio abbiamo messo tutti i nostri averi. Io ho messo vestiti che avevo a bordo più stoffe che C.mi aveva dato e che erano in dogana. Quando C. ha ricevuto l’ordine di consegnare tutto quello che c’era in dogana a una ditta di Addis Abeba siamo andati insieme in dogana e tutto quello che ci interessava l’abbiamo preso. Io avevo preso quattro tagli di
vestiti, dei ciondoli d’oro, medaglie, portacipria e altre cose che finita la guerra pensavo di portare in Italia. Le avevo nascoste nel rifugio di Santo P. assieme a tutto quello che avevo a bordo, più una collezione di talleri d’argento etiopici, più il libretto bancario della filiale del Banco di Napoli che era ad Assab. Tutto quello che possedevo era nascosto sotto il rifugio con la speranza di poterlo prendere a guerra finita. Purtroppo è andato tutto perso. Ad Assab dopo il richiamo mi hanno destinato al 10° Battaglione di presidio ad Assab. Il nostro compito era di presidiare Assab e pertanto si faceva la ronda, si faceva la guardia ai depositi Agip. Questi depositi sotto terra, pieni di carburante per fornire l’Etiopia, erano stati costruiti e tenuti pieni in previsione di guerra in modo da non essere danneggiati dai bombardamenti aerei. Erano fuori dal paese, confinanti con il deserto. Tutto intorno c’erano circa dieci garitte di guardia. In quella più esterna verso il deserto nessuno voleva fare la guardia. Quando toccava alla mia squadra ero sempre io e Santo Paolo. Erano state formate quattro squadre per la guardia ai depositi: tutti volontari, ma erano dispensati da altri servizi ed avevamo permessi speciali, si andava dove si voleva. Io e Santo P. avevamo le biciclette e molte volte si andava nel deserto a caccia di gazzelle. Spesso veniva con noi anche C.. Quando si prendevano una o due gazzelle era grande festa, alla quale partecipava pure il tenente B., comandante della mia compagnia ed amico di Franco C., mio futuro cognato, che allora era capitano di fanteria destinato al presidio di Addis Abeba. Per questo con il tenente B. eravamo diventati amici e quando ho detto che volevo andare ad Addis Abeba per trovare Franco C. mi ha detto “cercherò di farti andare ma non sono sicuro se è possibile. Non si possono ottenere permessi per nessuna parte, e specie per la capitale”: Dopo circa tre o quattro giorni viene e mi dice che è riuscito a farmi andare con un permesso per servizio. Sarei dovuto stare sempre in borghese, potevo stare un mese e potevo viaggiare con qualsiasi mezzo, sia militare che civile, ma da Assab ad Addis Abeba non c‘erano mezzi e si doveva viaggiare con i mezzi di fanteria. Ho viaggiato da Assab a Dessiè con un mezzo militare, da Dessiè a Debrasina con un mezzo civile, da Debrasina ad Addis Abeba con un altro mezzo civile. Il viaggio è durato cinque giorni, andata e ritorno. Come trasporto non ho pagato nulla, mi sono pagato solo il mangiare. Arrivato ad Addis Abeba, nella piazza principale c’era Franco C. che mi aspettava. Il tenente B. era riuscito ad avvisarlo che arrivavo, solo che non sapeva né l’ora né il giorno. Franco era venuto spesso ad aspettarmi finché dopo tre giorni sono arrivato. Franco comandava un battaglione di fanteria che era di presidio all’aeroporto. Mi ha portato li, c’era già una cameretta pronta per me. Per pranzo e cena andavo con Franco alla mensa ufficiali. Ma dopo tre giorni c’è stato un bombardamento all’aeroporto. Io e Franco eravamo andati in città, siamo corsi all’aeroporto ma quando siamo arrivati noi era tutto finito. Avevano danneggiato le piste e qualche baracca, ma nessun ferito. Il giorno dopo è arrivato l’ordine a Franco di lasciare l’aeroporto per i fortini. Addis Abeba era circondata da fortini che servivano per proteggere la città. Franco con il suo battaglione era stato destinato alla protezione della città. Li sono stato 25 giorni. Si stava molto bene e tutte le mattine io me ne andavo in città a piedi, all’ora di pranzo rientravo e la sera si usciva assieme a Franco. Siccome che si sapeva che io ero stato mandato lì in servizio speciale, tutti pensavano che ero una spia, cioè che facevo servizio per controllare il comportamento e riferire alle autorità. Comunque io sono stato molto bene. Finito il mese Franco è riuscito a trovare un mezzo militare che andava ad Assab per portare rifornimenti. Siamo partiti di mattina e la sera ci siamo fermati a Debrasina, dove
c’era un comando militare con la mensa e baracche per dormire. L’indomani mattina siamo partiti per Assab e siamo arrivati a mezzanotte. Quando siamo arrivati mi sono accorto che mi avevano rubato tutto, compreso il libretto di navigazione e il libretto bancario. Ero rimasto con quello che avevo addosso. Ad Addis Abeba avevo comprato un Omega tascabile d’oro per il tenente B. che voleva regalarlo al colonnello per il compleanno. Volevo mettere anche quello in valigia ma Franco mi aveva detto “è meglio che te lo porti in tasca” ed è stata una fortuna perché è l’unica cosa che ho potuto salvare. In ogni modo ad Assab sono andato alla banca e mi hanno fatto un nuovo libretto e alla Capitaneria una dichiarazione di smarrimento, ma ho perso anche quelli perché sono rimasti ad Assab sotto il rifugio di Santo Paolo. A dicembre del 1940 sono stato chiamato dal comandante M., che era stato assegnato come comandante della Capitaneria di Porto di Assab dopo il richiamo. Mi ha detto che le cose si erano messe male e che lui voleva tentare di lasciare l’Eritrea con la nave, andare in Giappone e tentare di raggiungere la Germania. Sapeva che era un’impresa molto difficile ma voleva tentare. Avrebbe chiesto l’autorizzazione al ministero e se l’avesse avuta desiderava che tutti quelli che facevano parte dell’equipaggio del Sebastiano Caboto partissero con lui. Mi ha chiesto se io ero disposto ad appoggiare questo tentativo. Io ho detto subito di sì e così ai primi di gennaio del 1941 siamo ritornati tutti a bordo e siamo partiti per Massaua, dove avremmo fatto revisione delle macchine, fatto rifornimento e provviste e saremmo partiti per questa avventura. Arrivati a Massaua ci hanno attraccati alla banchina e dopo il secondo giorno che eravamo lì ci hanno mandati tutti al comando militare. Ci hanno fornito un fucile, due caricatori e due bombe a mano e ci hanno mandati al fronte che si era formato a due chilometri da Massaua. Al terzo giorno ci siamo ritirati perché incalzati dall’avanzata delle truppe alleate, formate dalla Legione Straniera e da indiani. A Massaua ci hanno ordinato di consegnare le armi ai magazzini e lasciati alla ventura, senza acqua e senza viveri. Senza acqua a Massaua era molto brutto. A Massaua l’acqua veniva da Asmara. Le truppe di occupazione avevano tagliato i tubi però c’erano dei depositi che per un po’ di tempo avrebbero potuto essere utili alla popolazione. Ma il nostro comando militare li ha fatti chiudere, non si sa perché. Io ero riuscito a farmi un rifornimento da un abbeveratoio per i cavalli che si trovava vicino ad un rifugio dove mi ero nascosto. Eravamo sbandati e ognuno si arrangiava come poteva. Io ero riuscito a trovare un rifugio con l’aiuto delle donne eritree. Hanno cercato di aiutare tutti quelli che potevano e tante di loro hanno avuto dei fastidi con le autorità di occupazione. Ma dopo tre giorni sono stato costretto, come tanti altri, a consegnarmi alle truppe di occupazione che rastrellavano la città e fermavano tutti quelli che non potevano dimostrare che erano civili, cioè dovevano avere un tesserino che dimostrava che erano impiegati civili. Tutti i militari venivano portati all’aeroporto, cioè al campo d’aviazione militare, dove non c’erano né locali igienici, né acqua né mangiare. Ci hanno fatto scavare delle buche e lì si andava a fare i nostri bisogni corporali. Con me c’era Alberto C., mio amico e parente che al rimpatrio ha sposato Colomba C., allora ci siamo dati subito da fare. Abbiamo trovato dei capannoni chiusi che erano gli alloggi degli ufficiali e del personale dell’aeroporto. Li abbiamo aperti e dentro abbiamo trovato dell’acqua minerale e dello zucchero a quadretti. Ogni hangar era stato diviso in quattro e in ogni quarto dovevano starci 20 persone. Queste persone erano organizzate a gruppi, con un capo gruppo. Io ero il capo del mio gruppo. Lo zucchero e l’acqua minerale li abbiamo nascosti così si riusciva ad andare avanti. Per cinque giorni non ci hanno dato niente, dopo cinque giorni siamo stati chiamati
tutti i capi gruppo e ci hanno detto che la sera sarebbero arrivate scatolette di carne e gallette che sarebbero stati divisi per ogni gruppo, e ogni capo gruppo doveva ritirarle e dividerle. Come infatti la sera sono arrivati e hanno cominciato a distribuire. Io con l’aiuto di Alberto sono riuscito ad averle ma ad un certo punto hanno assaltato i camion e hanno portato via tutto. C’erano dei militari di scorta ai camion ma quando hanno visto che li assaltavano sono andati via tutti, così chi è riuscito a prendere ha preso. Con il mio gruppo oltre la razione spettante abbiamo preso di più. Per circa un mese siamo stati sotto il controllo della Legione Straniera, dopo siamo passati sotto il controllo degli indiani. Li ho fatto amicizia con un sergente originario di Calcutta. Era quasi sempre come capo posto al cancello di uscita e il mio parente Alberto era riuscito, tramite uno della Croce Rossa, ad avere un tesserino che figurava che lui, C., non era militare ma funzionario civile alla capitaneria di porto e pertanto doveva essere liberato. E così è stato ma dopo più di un mese. Mi aveva promesso che avrebbe fatto di tutto per farmi avere anche a me un tesserino da impiegato civile, naturalmente pagando. (Con la nave siamo partiti da Assab alla fine del 1940 (28 o 29 dicembre). Ho lasciato tutto quello che avevo nel rifugio di Santo P. fino al ritorno dalla prigionia e cioè dopo cinque anni. Non ci siamo più visti, né con Santo P. né con Ca.. Ad Assab sono tornato con la m/n Arabia nel 1962. Sono andato a vedere dove c’era il rifugio: ci avevano costruito un grattacielo. Qui finisce la storia di Assab. Ritornando al campo di concentramento di Massaua, Alberto C. ha fatto di tutto per farmi avere il tesserino da impiegato civile ma purtroppo le cose sono andate non come pensavamo noi. Alberto andando fuori non sapeva neanche lui cosa fare, non aveva lavoro né soldi. E’ riuscito a trovare una villetta abbandonata da italiani e se n’è impadronito. Dentro aveva trovato tanta roba, viveri e altro che ha venduto così mi ha fatto sapere che se riuscivo a scappare dal campo potevo stare con lui nascosto finché non avrei avuto il tesserino. Allora sono andato dal mio amico sergente indiano e gli ho chiesto se poteva aiutarmi a scappare. Lui mi ha detto che mi avrebbe fatto scappare di notte ma che quando sarei stato fuori avrei dovuto arrangiarmi da solo. Ho fatto sapere ad Alberto tramite la Croce Rossa, che veniva al campo tutte le mattine, che sarei scappato a mezzanotte del giorno dopo. Mi ha mandato tutte le istruzioni come avrei dovuto fare e cioè che fuori dal campo ad un certo posto avrei trovato un cunicolo che portava sulla strada che portava ad Asmara e che lì mi avrebbe aspettato lui. Che sarei dovuto stare attento alle pattuglie che giravano per la città e i dintorni. Queste pattuglie erano formate da carabinieri e da soldati della Legione Straniera. I carabinieri per non essere portati nel campo di concentramento avevano accettato di fare servizio con i militari di occupazione per il controllo del territorio. A mezzanotte del giorno stabilito il sergente indiano mi ha accompagnato fino al cunicolo, così dopo circa mezzora sono arrivato dove mi aspettava Alberto e con lui e con l’aiuto degli eritrei siamo arrivati alla villetta dove stava Alberto. Con Alberto nella villetta fra controlli e varie difficoltà sono stato più di un mese. Ogni volta che c’erano controlli andavo a nascondermi in casa di una donna eritrea. Lei era sempre informata quando c’erano controlli. Veniva a chiamarmi e mi nascondeva nel soffitto, a volte anche per ore. Aspettavamo sempre che da Asmara ci portassero il famoso tesserino ma che purtroppo non è mai arrivato. Alberto si barcamenava come poteva. Un giorno era uscito per prendere due panini con la tessera che lui aveva (qualche volta portava un po’ di pesce o carne). Al ritorno mi ha detto che gli avevano detto all’ufficio di collocamento che una compagnia americana cercava personale per mandarlo in Persia e che lui purtroppo era costretto ad andare. In città c’erano dei manifesti che avvisavano tutti coloro che erano scappati dal campo di concentramento che se non rientravano entro 24 ore sarebbero stati
differiti al tribunale militare e così io ho deciso di rientrare al campo di concentramento. Sono rientrato la sera verso le 22 e l’indomani mattina ci hanno presi, messi su una nave e mandati a Port Sudan e di lì ad un porto chiamato Erba (ma lì non c’era mai stata erba). Eravamo accampati lungo il fiume Nilo. Al nostro arrivo c’era solo il deserto. Abbiamo dovuto fare il primo campo e i pozzi per l’acqua perché non c’era niente. Eravamo 90 prigionieri. Abbiamo trovato dei bidoni (quelli che avevano contenuto benzina) da 100 litri pieni d’acqua che certamente proveniva dal Nilo. Siamo arrivato verso le 24 e al mattino alle otto adunata, conta e subito al lavoro, scavare i pozzi per l’acqua e organizzare la cucina. Siccome io parlavo un pò di inglese mi hanno nominato capo campo e così ho dovuto scegliere gli addetti alla cucina e quelli per scavare i pozzi per l’acqua. Siamo riusciti a fare il primo pozzo in un giorno, dal mattino alle otto fino alla notte, quasi mezzanotte, perché non avevamo acqua e l’interesse era nostro. Però siamo stati fortunati perché essendo vicini al Nilo abbiamo trovato subito l’acqua. Nei giorni successivi abbiamo dovuto fare altri due pozzi, uno per gli inglesi e uno per noi. Ma il problema più serio era la cucina. Per pentole ci hanno dato dei bidoni vuoti, i mestoli li abbiamo dovuti fare noi, la legna andare a tagliarla nel bosco. Per tagliarla ci hanno dato dei machete (perché non avevano altro, dicevano gli inglesi). Ci hanno dato mezzo bue, ma senza il coltello per tagliarlo: abbiamo fatto tutto con il machete. Ci hanno dato dei fagioli per cuocerli, galletta per pane, naturalmente contata. Io ho tagliato la mezza bestia a pezzi, l’ho fatta cuocere, ho fatto cuocere i fagioli e messi nel brodo e quello è stato il pranzo e la cena. Il secondo giorno è venuta una commissione capeggiata da un colonnello indiano. Allora ho cercato di fare capire a quel colonnello che avrebbero dovuto prendere dei provvedimenti e farci avere il necessario. Il colonnello ha promesso ed il giorno dopo ci ha fatto avere pentole, coltello e altre cose indispensabili. Non tutto quello che avevo chiesto ma una buona parte. Dopo pochi giorni che eravamo lì mi ha mandato a chiamare il capitano comandante il concentramento e mi ha detto che bisognava preparare altri due campi perché erano in arrivo altri prigionieri e un altro pozzo per l’acqua. Mi sono ribellato ma non c’era niente da fare, dovevamo preparali altrimenti sarebbero stati buttati li. Per aiutare gli altri ho radunato tutto il campo spiegando quello che dovevamo fare. Hanno detto quasi tutti sì e abbiamo fatto tutto quello che era necessario. Dopo tre giorni sono arrivati 390 prigionieri e così in tre campi eravamo 480. Nel nostro campo hanno messo altri 40 e così eravamo 130. In quelli che sono arrivati dopo c’era anche parte dell’equipaggio di una nave e tra questi un 1° ufficiale e un 2° ufficiale. Il 2° ufficiale era di Genova, il 1° barese. Parlavano tutti e due bene l’inglese e così il 1° ufficiale l’hanno fatto capo di tutti e tre i campi, ed il 2° magazziniere. Con il 1° ufficiale andavamo molto d’accordo, con il 2° poco perché anche con il buono del comando faceva obiezione e non voleva dare niente e io gli dicevo di tutti i colori. Una notte siamo andati nel magazzino e abbiamo preso tutta la roba: lui ha fatto la denuncia, il capitano inglese ha mandato me come capo e altri due amici miei sospetti. Hanno visitato da per tutto ma non hanno trovato niente; quello che avevamo preso era nascosto fuori del campo con la complicità di un sergente canadese che era amico di tutti i prigionieri ed in particolare con me. Per questo motivo ha avuto tanti richiami per causa mia. Fuori dal campo di concentramento e vicino al campo staff inglese hanno fatto una prigione, dove sono stato anche io per quattro giorni, e nella quale avevano messo un giornalista e un tenente prigionieri come me. Solo che io dopo quattro giorni sono uscito mentre loro sono stati due mesi, Dopo due mesi li hanno mandati, per quello che si è saputo, a Kartoum (capitale del Sudan) e almeno io non ne ho saputo più niente. Con la
collaborazione del sergente canadese e del cappellano di notte spesso andavo a trovarli e gli portavo quello che potevo. Una notte sono dovuto scappare perché mi hanno visto e mentre scappavo in mezzo ai reticolati mi sono ferito nel fondoschiena, dove ho ancora il segno. Io ero considerato un rivoluzionario e pertanto un giorno è venuto il sergente canadese mio amico e mi ha detto che al comando avevano chiesto al comando generale di Kartoum di mandarmi via da Erba perché ero un capo rivoluzionario, e con me altri 19 persone considerate rivoluzionari. Dopo circa dieci giorni una mattina presto ci hanno preso e messo su un treno e mandati a Port Sudan, imbarcati su una nave e spediti in Sud Africa a Durban. Dopo 15 giorni di navigazione siamo arrivati a Durban, da lì su un carro bestiame mandati sulla costa in un paese chiamato Clawd. All’arrivo siamo scesi dal treno, ci hanno messo sui camion e ci hanno portati a Clawd, dove c’erano stati dei campi per l’esercito sudafricano con delle baracche per dormire e tutto il necessario. Appena arrivati ci hanno messo in riga, ci hanno sequestrato tutto quello che avevamo e ci hanno mandato a fare la doccia. A ognuno di noi era stata assegnata una doccia dove c’era sapone e asciugamani. Fuori dalla doccia ci consegnavano vestiario e tutto il necessario compreso lamette e sapone con pennello per la barba, dentifricio, spazzolino e saponette. Finita la doccia (ognuno di noi forse era più di un anno che non si faceva la doccia e non si lavava i denti) la sorpresa più bella è stato il mangiare: cena con pasta e fagioli, uova bollite, pane e frutta. Subito abbiamo pensato che era una pacchia ma l’indomani abbiamo saputo che a Durban c’era una signora italiana a nome B., con il marito ingegnere costruttore di ferrovie, strade e altro. Questa signora B. raccoglieva fondi tra gli italiani e gli amici, comprava tutto quello che poteva servire e lo portava al campo una volta alla settimana. Spesso lasciava anche soldi per quelli che avevano bisogno di qualcosa che non davano al campo. Questa signora aveva due figli che erano piloti da caccia nell’esercito sudafricano e sarebbero dovuti andare a combattere al fronte italiano. Ma la mamma gli aveva detto che contro gli italiani non dovevano andare e non sono andati (questo per amore di verità). Intanto dopo tante peripezie siamo arrivati all’ottobre 1941. Durante la navigazione da Port Sudan a Durban mi sono ammalato e sono stato ricoverato all’ospedale con l’itterizia. Sono stato all’ospedale 15 giorni. Ritornato in campo di smistamento sarei dovuto andare a Zonderwater dove c’era il concentramento generale e dove c’erano 80.000 prigionieri. Il campo di Zonderwater era formato da quattro blocchi, ogni blocco di quattro campi contenenti ognuno 5.000 prigionieri, con tutti i servizi. Ma nel campo di smistamento, nell’ufficio, c’era Filippo C. di Siderno che mi conosceva (eravamo amici). C. mi ha spiegato tutto il sistema e mi ha detto che mi conveniva restare a Clawd, però avrei dovuto fare qualcosa. Il mio primo impiego era tagliare il pane con la macchina. Il pane arrivava in filoni, da ogni filone dovevano uscire 16 fette, ogni prigioniero riceveva quattro fette a mezzogiorno e quattro la sera. Dopo circa venti giorni che ero addetto al pane mi hanno trasferito in macelleria, perché non si trovava uno all’altezza di dividere la carne, dato che i sudafricani mandavano in campo manzi a mezzane e bisognava disossarli e dividere la carne (per arrosti, per bollito, per bistecche, per stufato e tritata). Sono andato in macelleria e dopo due giorni mi sono bisticciato con il maresciallo responsabile della cucina e dei viveri in generale. Nel campo c’erano tre ufficiali medici e sei o sette sottufficiali e bisognava fare due cucine separate. Questo maresciallo veniva in macelleria e voleva i migliori tagli di carne per le mense ufficiali e sottufficiali ed il resto, cioè gli scarti, andava per i soldati. Io mi sono ribellato e voleva mandarmi via dalla macelleria e mandarmi al concentramento generale. Nel campo c’era un tenente di origine
genovese di nome G., era sudafricano, parlava bene l’italiano e si era rifiutato di andare al fronte contro gli italiani ed era stato mandato nel campo prigionieri come interprete. Il mio amico Filippo C. che era nell’ufficio dove si facevano tutte le pratiche era molto amico del tenente G. e quando ha saputo che mi ero bisticciato con il maresciallo ed il motivo l’ha detto al tenente. E’ venuto a cercarmi, mi ha portato in ufficio, si è fatto spiegare tutto, ha fatto cambiare il maresciallo di cucina con un altro e l’ha spedito al concentramento generale. Con il tenente G. siamo diventati molto amici e siamo stati insieme da gennaio 1942 a fine luglio 1946. A Clawd siamo stati fino a maggio del 1942 dopodiché ci hanno portati a Pietermaritzburg, città interna che dista 120 km da Durban. C’erano quattro campi di prigionia, un ospedale per i prigionieri, c’era un campo di prigionia con tedeschi, uno per lo staff, cioè noi, e due per i prigionieri d’oltremare che arrivavano dall’Italia e dalla Libia. La permanenza in questi campi era di tre o quattro giorni. Dal campo staff erano state organizzate delle squadre che dovevano ad ogni arrivo preparare il campo, fare da mangiare e tutto quello che era necessario. La responsabilità da parte dei sudafricani era del tenente G. il quale ha nominato me quale responsabile per parte dello staff. Ogni volta che c’era in arrivo un contingente, che normalmente era sulle 200 unità, si andava a preparare i campi, cucine e tutti i servizi. Il tenente G. mi faceva un buono di prelevamento di tutto quello che era necessario. Mi mandava un camion e io andavo alla sussistenza e prelevavo i viveri e tutto quello che era necessario e che la legge dava per i prigionieri. Quando arrivavano gli si faceva fare la doccia, si cambiava vestiario, si dava da mangiare e dopo tre giorni si mandavano il treno a Zonderwater e così sempre. Dopo circa un anno e mezzo non arrivavano più prigionieri d’oltremare e così sono ritornato in campo staff. nel campo staff eravamo 220 prigionieri e circa 140 avevano un’attività. Nel campo sono stati costruiti campo di calcio, campo da pallavolo, campo da tennis, una chiesa, ufficio postale, infermeria e molte altre attività. Io rientrato in campo staff ho cercato di fare qualcosa ed il tenente Gasparre mi ha assegnato ai viveri e tutte le mattine andavo con un camion e altri due miei compagni alla sussistenza a prelevare le razioni aspettanti. Lì avevo tutti amici quelli della sussistenza e mi regalavano frutta, burro e quello che potevano. Io li portavo in campo e distribuivo a C. e a Fausto M., bergamasco, che erano in ufficio ed erano miei cari amici.Dopo circa quattro mesi sono stato chiamato da un tenente medico di Messina, G., che faceva servizio all’ospedale prigionieri e mi ha chiesto se volevo andare nella cucina dell’ospedale, che in cucina c’erano quattro prigionieri che non erano all’altezza di fare niente. Che lui, il tenente medico G., faceva arrivare di tutto che i sudafricani per gli ammalati davano tutto quello che lui chiedeva, burro, uova, zucchero, tutto, ma quelli che erano in cucina sprecavano tutto e non facevano nulla. Io gli ho detto che ci sarei andato se veniva con me un certo Romeo F., che era un cuoco in gamba (aveva fatto il cuoco in casa del Duca degli Abbruzzi). Mi ha detto di portare chi volevo io e così ho chiamato Romeo e altri tre che erano stati con me nei campi smistamento. Siamo andati all’ospedale e dal secondo giorno che eravamo lì erano tutti felici e contenti. Per circa tre mesi siamo stati in pace e non si è mai lagnato nessuno. Dopo è arrivato un altro medico con il grado di capitano ed è cambiato tutto perché essendo capitano ha preso lui il comando dell’ospedale. Tutte le mattine c’era l’usanza che il capitano inglese comandante del campo facesse un giro di ispezione in tutti i reparti e lo accompagnava sempre un ufficiale medico. Così il nostro capitano medico accompagnava il capitano inglese. Fin dalla prima mattina ogni volta che venivano in cucina per far vedere che s’interessava faceva sempre qualche osservazione, ma il capitano inglese si faceva sempre una risata.
Io giovedì e domenica facevo il dolce per tutti, staff e ammalati, e naturalmente anche per gli ufficiali che avevano la sala da pranzo per conto loro ed erano servizi da due prigionieri dello staff. Gli ufficiali erano quattro italiani e tre tedeschi, tutti medici. Nell’ospedale c’erano reparti italiani e reparti tedeschi e anche lo staff era formato da italiani e tedeschi. Un giorno il nostro capitano mi manda a chiamare per dirmi che dovevo fare il dolce per gli ufficiali tutti i giorni e per gli altri quando mi avanzava la roba (cioè burro, zucchero e farina). Il tenente medico G. si è alzato da tavola e ha detto al capitano che burro, zucchero e uova i sudafricani li davano per gli ammalati e che gli ammalati dovevano essere i primi ad avere il dolce, e io gli ho detto che gli ufficiali avevano la stessa razione dei soldati e pertanto io non avrei fatto niente di speciale per nessuno. Così si è offeso e mi ha detto che alla prima occasione se non mi comportavo bene mi avrebbe spedito in campo. Il tenente G. mi ha chiamato e mi ha detto di non preoccuparmi che io sarei rimasto all’ospedale finché volevo e che nessuno mi avrebbe mandato via. Per me sarebbe stato meglio se andavo in campo ma stavo all’ospedale per il tenente G. e per gli ammalati, altrimenti sarei andato via subito. Comunque il capitano faceva di tutto per farmi arrabbiare e offendeva per avere l’opportunità di farmi andare via e un giorno l’ha pensata bella. Nell’ospedale c’erano due docce, una per gli ammalati e una per lo staff, ufficiali e sottufficiali e soldati. Naturalmente noi di cucina tutte le sere finito il lavoro andavamo a fare la doccia, a volte andavo prima io a volte Romeo e poi gli altri, dopo che finivano le pulizie e prima che arrivasse il capitano. Tutte le sere dalle ore 19 alle 20 la doccia era riservata a noi di cucina. Una sera Romeo va a fare la doccia ed io ero ancora in cucina che preparavo la lista per l’indomani, vedo tornare Romeo tutto spaventato. Cosa ti è successo? Non possiamo fare più la doccia. Perché? Il capitano ha messo di guardia uno con un bastone perché dice che la doccia è stata riservata per gli ufficiali. Sono subito andato lì, ho chiamato questo tizio che conoscevo bene (non ricordo il nome) gli ho detto: non ho niente contro di te perciò butta via il bastone e vai dal capitano e digli che ti ho mandato via, che la doccia è per tutto lo staff e se ne vuole una per gli ufficiali faccia domanda agli inglesi e se la faccia fare. Ho mandato Romeo a farsi la doccia e quando ha finito me la sono fatta io e poi gli altri. Il capitano come l’ha saputo è corso subito dal capitano inglese. E’ stato chiamato l’interprete e il capitano inglese si è fatto spiegare tutto e mi ha mandato a chiamare. Sono andato lì, mi ha fatto sedere e gli ho spiegato tutto quello che succedeva da quando era venuto il nostro capitano. Allora il capitano inglese ha fatto spiegare al nostro capitano che le docce erano due, una destinata agli ammalati e una per tutto lo staff compresi gli ufficiali. Poi si è rivolto a me e mi ha chiesto che se volevo fare da mangiare per gli inglesi mi avrebbe fatto fare una cucina come volevo e mi avrebbe dato 10 scellini al giorno. Io ho accettato subito, lui si è rivolto al capitano medico e gli ha confermato che per quanto riguardava la doccia quella doveva servire per lo staff e per gli ufficiali, per quanto riguardava me non sarei più stato nella cucina per gli ammalati ma n’avrebbero fatta una per me per fare da mangiare agli inglesi. Sarei rimasto sempre nello staff ma senza dipendere più dal capitano medico né da altri ufficiali. Appena l’hanno saputo Romeo e gli altri della cucina sono andati dal capitano e gli hanno detto che sarebbero tornati in campo, che non volevano stare più all’ospedale. Lui li ha mandati dal tenente G., che è andato subito dal capitano inglese e gli ha detto che lo mandasse al concentramento generale, che lui con quel capitano medico non ci stava più. Il capitano inglese gli ha detto di stare tranquillo che al concentramento generale ci andava il capitano medico, non lui, che aveva già avvisato il comando generale e da un momento all’altro sarebbe arrivato il cambio per il capitano medico. Come infatti dopo è arrivato il cambio. Il nuovo capitano ci ha radunati tutti e ci ha detto che il tenente G. gli aveva spiegato tutto, che lui non era venuto per comandare ma per collaborare con tutti, che lui era un prigioniero come tutti e che si doveva andare tutti
d’accordo per fare passare il periodo della prigionia più tranquilli possibile, aiutare gli ammalati e tutti quelli che avevano bisogno di aiuto. E infatti si è dimostrato una gran brava persona, ma c’era il mio problema dato che io dovevo lavorare per gli inglesi. Romeo e gli altri non volevano che io andassi via dalla cucina, che se andavo via io sarebbero andati via tutti. Così G. ci ha radunati tutti, anche il capitano ha partecipato, e ci siamo messi d’accordo che io avrei fatto da mangiare per gli inglesi ma avrei aiutato e collaborato anche nella cucina dell’ospedale. Così siamo rimasti tutti contenti e amici. Io tutte le mattine andavo in cucina, vedevo quello che c’era da fare e se c’era bisogno del mio aiuto aiutavo. Poi andavo nella cucina che gli inglesi avevano fatto costruire, vedevo quello che c’era da fare, cioè quello che avevano portato e quello che volevano mangiare gli inglesi. Erano sette persone, compreso il capitano. C’era un sergente con il quale ero amico che mi accompagnava in città quando volevo andare (io avevo un permesso permanente speciale e potevo andare in città, però dovevo essere accompagnato da uno dello staff inglese). Conoscendo questo sergente andavo spesso anche a casa sua. Conoscevo la moglie e i figli, ero per loro un amico. Così questo sergente (del quale non ricordo il nome) si è fatto destinare in cucina come aiutante. Tutto quello che avanzava e quello che potevo prendere nella cucina dell’ospedale la sera lo davo a lui. Quando andavo in città e avevo soldi compravo sempre qualcosa da portare in Italia quando sarei rimpatriato. C’era una legge per i prigionieri che rimpatriavano e non si poteva portare seta, pellame, cuoio, sigarette e tante altre cose. Ma io ho portato di tutto: due tagli di vestito per uomo, tre tagli di stoffa per donna, dodici quadrati di cuoio per scarpe, una pelle di vitello per scarpe. Naturalmente con dei trucchi e cioè da un calzolaio che era prigioniero con me mi sono fatto fare con i quadrati di cuoio una valigia foderata dentro con la pelle. Pesava molto, ma io sono stato capace di portarla fino a casa. Nella valigia ho messo stoffa, scarpe, filo, aghi e tutto quello che non si trovava in Italia, saponette e creme. In un vasetto di crema ho messo due fedi d’oro, una per me e una per la mia futura moglie. Poi mi sono fatto costruire una valigetta di latta con il lucchetto dove ho messo 30 pacchetti di sigarette e 20 scatole di fiammiferi. Poi avevo un sacco di tela olona con una coperta di lana. Ero carico come un mulo, ma sono riuscito a portare tutto a casa. Avevo anche 25 sterline sudafricane. Ma torniamo all’ospedale. Per circa sette mesi eravamo come una famiglia. Dopo circa due mesi è venuto il mio amico il sergente e mi ha detto che a Pietermaritzburg doveva venire una commissione della Croce Rossa Internazionale all’hotel President e che il direttore dell’hotel era un suo amico e gli aveva chiesto se c’era un buon cuoco nel campo prigionieri perché avrebbe voluto fare bella figura. Naturalmente il comandante inglese del campo doveva dare il permesso, così il sergente è andato dal capitano inglese il quale gli ha detto “fai tu”. Così ho chiamato Romeo, gli ho raccontato come era la situazione e Romeo mi ha detto che se andavo io andava anche lui. Siccome che l’amico cuoco che poteva fare bella figura era lui, naturalmente bisognava avvisare anche il comando dell’ospedale, che ci ha dato subito il consenso. Così la sera siamo andati in compagnia del sergente all’hotel, ci siamo informati di tutto, abbiamo indicato quello che si serviva e siamo rimasti che la sera prima dell’arrivo della Croce Rossa saremmo stati ospitati per una notte all’albergo, avremmo preparato tutto per il pranzo e la seconda sera saremmo rientrati. E così dopo tre giorni siamo stati portati all’albergo, abbiamo preparato tutto e siamo rimasti a dormire in una stanza dell’albergo. L’indomani mattina ci siamo messi a preparare un gran pranzo di quattro portate, con antipasto e per dolce cassata alla torinese e bignè assortiti.
Fra quelli della Croce Rossa c’era uno svizzero che parlava italiano e conosceva bene l’Italia. Ha detto al direttore dell’albergo “questo è un pranzo fatto da italiani”, così ci hanno voluto con loro e ci hanno ringraziati. Ci hanno offerto champagne e cinque sterline per uno e a me un libro della storia del Sud Africa con la firma. La sera siamo ritornati all’ospedale con la promessa che se volevamo rimanere in Sud Africa ci avrebbero assunti al President, che avrebbero fatto il necessario e avrebbero pensato loro a far venire in Sud Africa tutti i famigliari che volevamo. Ma sia io che Romeo volevamo tornare in Italia e non rimanere in Sud Africa. Lì all’ospedale stavamo bene ma dopo circa cinque mesi si è verificato il primo cambiamento. Il capitano inglese è stato trasferito e con il suo sostituto non si andava più d’accordo. Io dagli inglesi percepivo tre sterline al mese e lui me le ha tolte subito. Così non ho più lavorato per loro e sono tornato nella cucina dell’ospedale. Ma dopo qualche mese è stato trasferito anche il tenente medico G. E così siamo rientrati in campo, dove all’ufficio c’era il mio amico Filippo C. Mi ha detto se volevo andare a lavorare fuori e così sono andato in un albergo ristorante e allevamento polli con quattro prigionieri (due per l’allevamento polli e due per il giardino), io come cuoco per il ristorante e per tutti gli altri, compresi i quattro prigionieri come me. Prima che arrivassi io in cucina a fare da mangiare c’erano un indiano, uno zulù (cioè un nero locale) e la signora P., la moglie del proprietario. Come siamo arrivati il signor P., un ex capitano dell’esercito in pensione, ci ha portato nelle nostre camere, che erano staccate dall’albergo ma ne facevano parte. Erano cinque camere: tre le ha date a noi, cioè in due camere con due letti dovevano dormire gli addetti ai polli e quelli al giardino, e una camera con un letto per me. Mister P. mi ha spiegato quello che ognuno di noi doveva fare, che al mattino alle sei una ragazza di colore ci avrebbe portato il caffè, che nell’hotel c’erano impiegati tra uomini e donne dieci persone di colore (zulù), che noi non dovevamo fraternizzare con queste persone perché la legge lo proibiva, e se non rispettavamo la legge lui sarebbe stato costretto ad intervenire, che lui capiva le nostre condizioni e che se noi avessimo fraternizzato con quelli della nostra razza, cioè con i bianchi, nessuno poteva dire niente. Perciò ci raccomandava di rispettare la legge. Così abbiamo cominciato il nostro periodo di lavoro (che era di sei mesi per legge). Prima mi ha portato in cucina dove a dirigere il lavoro c’era la signora P., che mi ha spiegato la situazione. La signora dava gli ordini e faceva il menu tutte le sere per il giorno dopo, provvedeva per la spesa, compere e tutto. Io dovevo fare il cuoco con l’aiuto dell’indiano, gli zulù facevano le pulizie. Con la signora P. siamo andati subito d’accordo. Mi trattava molto bene, si rivolgeva a me con gentilezza ed alla fine mi ha fatto dare dal marito il doppio della paga stabilita dal contratto, che era di due sterline al mese. A me dava quattro sterline e poi potevo andare nel bar, se volevo, e tutte le mattine potevo avere quante sigarette volevo, mentre agli altri dava cinque sigarette al giorno, come da contratto. Per circa tre mesi tutto filava bene, si stava bene tutti. Io avevo fatto amicizia con una signora americana e tutti i pomeriggi andavo con questa signora lungo il fiume a pescare e ci divertivamo, poi io ritornavo all’albergo e lei restava a pescare. La sera eravamo sempre insieme e tutto andava bene. Naturalmente non m’interessavo di quello che facevano gli altri, né chi frequentavano, ma un bel giorno mi ha chiamato il proprietario e mi ha detto che gli altri prigionieri vivevano e fraternizzavano con i neri, che li avrebbe tolti dalle camere dell’albergo e li avrebbe mandati dove vivevano gli zulù. Lì c’era una casa dove teneva mangimi e attrezzi, li avrebbe tolti e avrebbe messo loro in quella casa. A me mi avrebbe lasciato lì dove ero. Allora io sono andato a trovarli e gli ho fatto una partaccia, gli ho detto che sarebbero stati messi insieme agli zulù. Si sono arrabbiati e mi hanno detto che volevano rientrare in
campo. Gli ho spiegato che non si poteva rientrare in campo prima dei sei mesi, gli ho detto che io sarei andato a stare con loro e che finiti i sei mesi sarei rientrato anche io in campo. Sono andato da mister P. e gli ho detto che se gli altri prigionieri andavano a stare con gli zulù sarei andato anche io con loro, perché anche io ero un prigioniero di guerra come gli altri e che finito il periodo di sei mesi saremmo rientrati tutti in campo. Mister P. ha cercato in tutti i modi di farmi capire che io mi ero comportato meglio degli altri, ma io testa dura gli ho detto che la mia parola era una e perciò sarei andato insieme agli altri e finiti i sei mesi di contratto sarei rientrato in campo come gli altri. Devo dire che i miei compagni hanno cercato di dissuadermi, di farmi restare dove ero, che lì stavo più bene che con loro. Quando hanno visto che non ne volevo sapere di stare dove ero si sono dati da fare e mi hanno preparato una cameretta vicino a loro, e mi hanno sempre difeso e rispettato. Però ognuno non interferiva nelle abitudini e nella vita degli altri: sia la signora P. che il marito e il figlio (che era impiegato a Durban e veniva a casa una volta alla settimana) hanno cercato di convincermi a stare lì e a non rientrare in campo. Ma io testa dura non ne ho voluto sapere e quando sono finiti i sei mesi sono rientrato in campo da solo, cioè gli altri prigionieri sono rimasti perché mister P. è riuscito a farli restare li. La mattina e la sera del giorno prima che dovevo rientrare in campo sono venuti prima la moglie di mister P. e poi il figlio a convincermi di restare, ma io testa dura gli ho detto che la mia parola era una e che il giorno dopo rientravo da solo in campo. Così mister P. la mattina è venuto, siamo saliti in macchina e verso le 11 eravamo in campo. Come siamo scesi dalla macchina mister P. è entrato in ufficio dal capitano (io ero rimasto fuori). Dopo poco mi ha chiamato il capitano per dirmi che mister P. gli aveva chiesto di convincermi a ritornare da lui, perciò il capitano voleva sapere perché non volevo stare. Che lui mi pregava di tornare e che da quanto mister P. gli aveva detto potevo restare anche finché non dovevo rimpatriare e se volevo potevo restare per sempre. Lui avrebbe pensato a farmi raggiungere da chi volevo io. Gli ho risposto che ringraziavo sia lui che mister P. e la famiglia, ma che io sarei rimasto in campo fino al rimpatrio. E così sono tornato il campo. Dopo pochi giorni il capitano mi ha fatto chiamare e andare da lui. Sono andato in ufficio e mi ha chiesto se volevo andare sulla costa vicino a Durban in un hotel con due camerieri, due marinai che s’intendevano di motoscafi e due giardinieri che s’intendevano di piante e fiori. Però dovevo formare io questa squadra e dovevo prendermi la responsabilità di loro e del loro comportamento. Gli ho detto di sì e che quando sarebbe stata pronta la squadra l’avrei avvisato. Sono andato in campo e mi sono messo subito a cercare queste persone, ma dopo qualche giorno mi ha fatto andare ancora da lui e mi ha detto di lasciare perdere, che le autorità non avrebbero dato il permesso perché l’hotel era sulla costa e pensavano che saremmo scappati con i motoscafi. Così non c’era niente da fare però mi ha promesso che avrebbe pensato lui per me. Come infatti dopo circa dieci giorni mi ha mandato a chiamare e mi ha detto di trovare due muratori e due giardinieri per un hotel che si chiamava Champagne Castle Hotel e si trovava nel Transvaal (era vicino a una catena di montagne che divideva il Transvaal dall’Orange Fristete. Ho trovato nel campo due muratori (cioè mi hanno detto di essere muratori ma purtroppo non sapevano tenere in mano la cazzuola) mentre per giardinieri c’erano due cugini ed erano veramente giardinieri. Così sono andato dal capitano con nomi e cognomi, numeri di matricola e tutti i requisiti di tutti. Mi ha detto di tenerci pronti per l’indomani che sarebbero venuti a prenderci.
Così l’indomani sono venuti con due macchine i signori S. proprietari dell’hotel, marito e moglie e un loro amico. Io sono salito con uno dei muratori sulla macchina dei proprietari dell’hotel e subito appena partiti la signora S. si è messa a spiegarmi la situazione. Mi ha detto che c’era stato un altro prigioniero del campo di Zonderwater (cioè dal concentramento generale) dove loro avevano un amico che era nello staff del concentramento e su loro richiesta si era interessato di mandargli questa persona come cuoco. Ma non solo non era capace di fare il cuoco, ma si era messo subito a fare la corte a lei e delle proposte. Così dopo una settimana l’hanno riportato in campo. Che lei era sposata e aveva due figli e che con il marito andava molto d’accordo e che non avrebbe tradito il marito per niente al mondo. Lei s’interessava all’hotel e alla cucina e il marito a tutto il resto. Arrivati all’hotel mi hanno assegnato una casetta fatta in mattoni uguale a quelle dei villeggianti (normali, perché c’erano due tipi di casette per i villeggianti: quelle in mattoni e quelle chiamate tucul fatte di tavole e con il tetto di erba). Erano buone e carine, il clima era ottimo, c’erano solo due mesi l’anno di inverno, cioè luglio e agosto, il resto era sempre primavera. Gli altri quattro avevano una capanna fatta di tavole con il tetto di erba intrecciata, però tutte avevano doccia e servizi igienici. La signora, che noi tutti chiamavamo Mafrò, mi ha portato in cucina e mi ha fatto vedere tutto. Mi ha dato la chiave di tutto, mi ha presentato il cuoco indiano e due addette alle pulizie zulù. Ha detto che avrebbero dovuto fare tutto quello che gli ordinavo io e che cominciando dal mattino seguente io ero responsabile della cucina e dei viveri. Quando c’era bisogno di qualcosa il giorno prima glielo dicevo e l’indomani andavo a comprarlo. La cittadina più vicina era a dieci chilometri, e ci si andava quando si aveva bisogno di poca roba, mentre ogni mese si andava a Durban, a 120 km. Spesso andavo anche io. Alla fine del 1944 era uscita una legge che permetteva a tutti i prigionieri che volevano rimanere in Sud Africa e che avevano qualche ditta o famiglia che si prendeva la responsabilità per tre anni. Dopo tre anni si diventava cittadini sudafricani con tutti i diritti. Appena è uscita questa legge i signori S. mi hanno chiamato e volevano che facessi la domanda per rimanere in Sud Africa. Quando ho detto che volevo rientrare in Italia, che ero fidanzato da otto anni, mi hanno detto che avrebbero pensato loro a tutto e che avrebbero fatto venire la fidanzata e tutti quelli che volevano venire. Io mi sarei sposato per procura e così sarebbe stato più facile farla venire come moglie. Ma io non ho voluto sapere di niente, che sarei rientrato in Italia e se loro volevano mi avrebbero fatto ritornare con la moglie e se avessero voluto venire altri miei fratelli. A Champagne Castle sono andato in agosto del 1944. Sono rientrato per rimpatriare alla fine di novembre 1945. Sono stato sedici mesi e sono stato molto bene. I proprietari e quelli che mi hanno conosciuto mi trattavano come amico, non come prigioniero né come dipendente. Ai primi di novembre 1945 è arrivato dal comando del concentramento generale di Zonderwater l’ordine di far rientrare in campo tutti coloro che volevano rimpatriare. Come il signor S. ha ricevuto l’avviso la sera mi ha fatto andare nella sua casa, dove c’era la moglie, la suocera e un deputato al governo sudafricano loro amico, che io conoscevo ed ero stato a casa di questo signore (non ricordo il nome). Mentre prendevamo insieme il te i signori S. mi hanno ancora chiesto se volevo rimanere e, visto che non volevo rimanere, questo deputato ha preso tutti i miei dati e di mia moglie (allora fidanzata), residenza e tutto quello che era necessario per farmi la richiesta e tutto il necessario per farmi tornare in Sud Africa. E come infatti non ero ancora sposato che è arrivata dal Sud Africa la richiesta per me e mia moglie, con il contratto di lavoro e tutto quanto era necessario per il passaporto. Mi sono sposato il 23 dicembre 1946…
Associazione Zonderwater Block ex POW e.l.