LUX.9 FOSCARINI
IRONIA_IRONY
SCIMMIETTA ZIZÌ / ZIZÌ MONKEY, GIOCATTOLO IN GOMMA PIUMA ARMATA / TOY MADE OF REINFORCED FOAM RUBBER, BRUNO MUNARI, PIGOMMA, 1953
EDITORIALE
IRONIA ESISTE LA POSSIBILITÀ DI FAR PARLARE IL DESIGN ATTRAVERSO UN LINGUAGGIO IRONICO? DI PARLARE DEL DESIGN IN MODO IRONICO? DI FAR SORRIDERE ATTORNO ALLA CONDIZIONE E AI CARATTERI DEGLI ARTEFATTI E DEI LORO ARTEFICI? UN TEMPO L’ARTE È STATA PRATICATA, PARREBBE UN PO’ MENO ATTUALMENTE. RIFARE UN PUNTO E RILANCIARE UN TEMA E UNA MODALITÀ INEDITA DI PROGETTARE, COMUNICARE E FAR PARLARE DEGLI OGGETTI CI SEMBRA UTILE E “INTELLIGENTE”. NEL SENSO DI COSTRUIRE POSSIBILITÀ DI “INTELLIGERE” – LEGGERE ATTRAVERSO L’INTELLETTO – LE COSE E LA REALTÀ. LA STORIA CI AVEVA ABITUATI ALLA POSSIBILITÀ DI PROGETTARE CON IRONIA GLI ARTEFATTI DEL MONDO; I CASTIGLIONI PRENDEVANO UNA SELLA DI BICICLETTA PER FARE UNA SEDUTA DONDOLANTE, BRUNO MUNARI IMMAGINAVA UNA SCOMODA SEDIA PER GLI OSPITI POCO GRADITI, MICHAEL GRAVES PENSAVA CHE IL NOSTRO RISVEGLIO SAREBBE STATO MIGLIORE AL CINGUETTARE DI UNA TEIERA. PERSONALMENTE CI LASCIA PIÙ PERPLESSI LA POSSIBILITÀ DI ARRIVARE AL SORRISO DELL’INTELLIGENZA CON UN ACCENDIGAS DI FORMA FALLICA. CERTO L’IRONIA POTREBBE FAR PARTE DELLE NUOVE QUALITÀ DEGLI ARTEFATTI SU CUI MOLTI DISCETTANO, E ALLORA ABBIAMO PROVATO A RAGIONARE ATTORNO A COME – E SE – SI LEGA, SI LEGÒ IN PASSATO, SI LEGHERÀ IN FUTURO IL FARE UMORISTICO CON LA CULTURA DEL PROGETTO: DAI PRODUCT DESIGNER ITALIANI E INTERNAZIONALI AL VISUAL GIORGIO CAMUFFO, DA PAUL KLEE A MOSCHINO, DA W. HEATH ROBINSON (LETTO DA ITALO LUPI) A JEAN-PHILIPPE DELHOMME, FINO AL CONTRIBUTO “ANTIRONICO” DI ALESSANDRO BERGONZONI.
IRONY CAN DESIGN SPEAK THE LANGUAGE OF IRONY? CAN WE TALK ABOUT DESIGN IN AN IRONIC WAY? CAN WE SMILE ABOUT THE CONDITION AND THE CHARACTER OF ARTIFACTS AND THE PEOPLE WHO MAKE THEM? THE ART USED TO BE A WELL-PRACTICED ONE, NOW IT SEEMS TO HAVE DWINDLED. TO OBSERVE AND REVIVE AN UNUSUAL THEME AND APPROACH TO DESIGN, TO COMMUNICATE AND CREATE A LANGUAGE FOR OBJECTS SEEMS A USEFUL AND “INTELLIGENT” THING TO DO. IN THE SENSE OF BUILDING POSSIBILITIES FOR “UNDERSTANDING” – FOR INTELLECTUALLY APPRECIATING – THINGS AND REALITY. WE HAVE BEEN ACCUSTOMED THROUGHOUT HISTORY TO BELIEVE THAT ARTIFACTS CAN BE DESIGNED WITH INTELLIGENT IRONY; THE CASTIGLIONI BROTHERS USED A BICYCLE SEAT TO MAKE A ROCKING CHAIR, BRUNO MUNARI IMAGINED AN UNCOMFORTABLE CHAIR FOR UNWELCOME GUESTS, MICHAEL GRAVES BELIEVED THAT WE WOULD AWAKEN MORE HAPPILY TO THE CHIRPING OF A TEAPOT. PERSONALLY, WE HAVE SOME MISGIVINGS AS TO WHETHER IT IS THE SMILE OF INTELLIGENCE THAT IS PROMPTED BY A PHALLIC GAS LIGHTER. IRONY MAY CERTAINLY BE CONSIDERED ONE OF THE NEW QUALITIES OF ARTIFACTS THAT EVERYONE IS TALKING ABOUT, WE HAVE THEREFORE CHOSEN TO DISCUSS HOW AND IF, IN THE PAST, IN THE PRESENT AND IN THE FUTURE, HUMOR WAS, IS AND WILL BE RELATED TO THE CULTURE OF DESIGN: FROM ITALIAN AND INTERNATIONAL PRODUCT DESIGNERS TO VISUAL DESIGNER GIORGIO CAMUFFO, FROM PAUL KLEE TO MOSCHINO, FROM W.HEATH ROBINSON (INTERPRETED BY ITALO LUPI) TO JEAN PHILIPPE DELHOMME, TO THE “ANTIRONIC” CONTRIBUTION BY ALESSANDRO BERGONZONI.
SEDIA PER VISITE BREVISSIME (SINGER) / CHAIR FOR SHORT VISITS, BRUNO MUNARI, ZANOTTA, 1945-1991
EDITORIAL
CONTENTS
EDITORIALE EDITORIAL
001 IRONIA IRONY ILLUSTRAZIONE ILLUSTRATION
004 JEAN-PHILIPPE DELHOMME DESIGN
006 DISCORSO SEMISERIO PER NON PRENDERSI TROPPO SUL SERIO A SEMI-SERIOUS DISCUSSION NOT TO BE TAKEN TOO SERIOUSLY di/by Alberto Bassi DESIGN
016 TOSCA 020 L’IRONIA NEL DESIGN ITALIANO IRONY IN ITALIAN DESIGN di/by Dario Scodeller LETTERATURA LITERATURE
030 IRON SIDE di/by Alessandro Bergonzoni DESIGN
DESIGN
090 FIBER EVOLUTION ARCHITETTURA ARCHITECTURE
096 SORRIDERE DELL’ARCHITETTURA MODERNA SMILING ABOUT MODERN ARCHITECTURE di/by Italo Lupi DESIGN&DESIGNER
104 GIULIO IACCHETTI di/by Ali Filippini DESIGN
114 BLOB ARTE ART
116 PAUL KLEE E L’IRONIA: TRA STORIA E SOCIETÀ PAUL KLEE AND IRONY: FROM HISTORY TO SOCIETY di/by Tulliola Sparagni ILLUSTRAZIONE ILLUSTRATION
124 NOVELLO
036 DESIGN IRONICO CONTEMPORANEO CONTEMPORARY IRONIC DESIGN di/by Lorenzo Imbesi
046 EPPUR GENIALE! BUT THAT’S BRILLIANT!” di/by Volker Albus
054 ELFO 058 DESIGN E IRONIA? HONNI SOIT QUI MAL Y PENSE! DESIGN AND IRONY? HONNI SOIT QUI MAL Y PENSE! di/by Volker Fischer MODA FASHION
070 MOSCHINO: TO BE OR NOT TO BE, THAT’S FASHION di/by Maria Luisa Frisa GRAPHIC DESIGN
080 GIORGIO CAMUFFO. IRONIA È AUTONOMIA GIORGIO CAMUFFO. IRONY AND INDEPENDENCE di/by Maddalena Dalla Mura
003
004
Jean-Philippe Delhomme Illustratore e scrittore, ha pubblicato suoi lavori in diversi periodici internazionali – fra i quali “Glamour”, “Vogue”, “GQ” – nonché collaborato a varie campagne pubblicitarie a stampa e video. L’interpretazione in chiave divertente e leggera del mondo della moda, del design e dell’arte gli consente di scavare oltre le apparenze e le imposizioni culturali della società contemporanea. An illustrator and writer, he has published his works in many international magazines, including “Glamour”, “Vogue”, “GQ”, and has collaborated in many advertising campaigns, in print and video. His light and entertaining interpretation of fashion, design and art allows him to delve beyond the appearances and cultural impositions of contemporary society.
ILLUSTRAZIONE_ILLUSTRATION
JEAN-PHILIPPE DELHOMME
light is the only furniture we want in our space
006
DESIGN
DISCORSO SEMISERIO PER NON PRENDERSI TROPPO SUL S
A SEMI-SERIOUS DISCUSSION NOT TO BE TAKEN TOO SERIOUSLY English text p. 12
L SERIO
CAPITELLO, STUDIO 65, GUFRAM, 1970-1971
DESIGN
DESIGN
IL BOLLITORE CON L’UCCELLINO / TEA KETTLE WITH BIRD, MICHAEL GRAVES, ALESSI, 1985
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DISCORSO SEMISERIO PER NON PRENDERSI TROPPO SUL SERIO di Alberto Bassi
Ridere, ridere “a crepapelle”, sghignazzare, sorridere; satira, umorismo, comicità, sarcasmo, ironia. Comunque si vada a declinare, in relazione da una parte ai modi e agli obiettivi, dall’altra agli esiti, andiamo ad argomentare attorno a un’unica comune attitudine. Non vogliamo qui discettare su filosofici e filologici distinguo attorno alle differenze, ci interessa invece provare a ragionare attorno a come – e se – si lega, si legò in passato, si legherà in futuro il fare umoristico con la cultura del progetto e del design. Non senza discutere siamo giunti alfine a privilegiare la più difficoltosa fra le attitudini al sorriso, quella dell’ironia. Scelta perigliosa perché collegata – si dice – alla possibilità e capacità di dialogare con l’intelligenza, piuttosto che all’intenzione di colpire nel profondo attraverso lo sberleffo satirico oppure in superficie attraverso il motto facile e di frequente scontato del comico. La satira sa essere assieme tragica e violenta, mentre, almeno per noi, costituisce definitivo attestato che Totò (perito massimo del genere, oltre che personale nume) non amasse le (presunte comiche) barzellette. E allora via a lavorare attorno all’ironia, alla ricerca del riso per via dell’esprit de finesse dell’intelletto. La capacità di saper guardare agli altri – e a sé – e godere del senso del relativo e del limite che suscita l’aver trovato un pertugio alla possibilità di non prendersi troppo e sempre sul serio, ma di saper
considerare la propria e altrui limitatezza alla luce illuminante del fulmine del “motto di spirito”.
Se ci guardiamo attorno, dentro la società e la cultura, di tutto ciò si vanno trovando sempre più sparute tracce. Ormai qualunque dabbenaggine e il suo contrario paiono dover essere trattate come verità di
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ANNA G, CAVATAPPI / CORKSCREW, ALESSANDRO MENDINI, ALESSI, 1994-1998
BULB, INGO MAURER, 1968
010 DESIGN
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DESIGN
fede, che a pronunciarle siano uomini comuni o luminari, perché infine il confine fra serio e faceto pare dissolto. E i comici a prendersela con i politici che gli rubano il mestiere e ciò che pareva risibile e incredibile, anche solo da immaginare, divenuto realtà tristemente concreta. Per chi crede non si possa dire tutto e il contrario di tutto, che vero e falso non siano identici, che sarebbe buona cosa che ognuno facesse il suo con competenza, etica e significato, resta pratica meritoria, educativa e necessaria guardarsi attorno per osservare ciò che merita un sorriso, che viene toccato dalla salutare ironia e permette di staccare dal quotidiano e dal banale. Nella rarità. In particolare nel design. La storia ci aveva abituati alla possibilità di progettare con intelligente ironia gli artefatti del mondo; i Castiglioni prendevano una sella di bicicletta per fare una seduta dondolante, Bruno Munari immaginava una scomoda sedia per gli ospiti poco graditi, Graves pensava che il nostro risveglio sarebbe stato migliore al cinguettare di una teiera, Ingo Maurer se la nostra lampada aveva le ali d’uccello o angelo. Personalmente più perplessi ci lascia la possibilità di arrivare al sorriso dell’intelligenza con un accendigas a forma di fallo o con un nano per comodino: ma abbiamo fatto le scuole dai preti e abbiamo visto i cartoni di Disney. Tutti discettano attorno alle nuove qualità degli artefatti e certo l’ironia potrebbe stare fra queste. E allora meglio una poltrona in stile di plastica trasparente (almeno nella versione originale), ma immediatamente dopo ci è toccato il cavallo nero o peggio pistole e fucile con lume incorporato, che una volta erano solo semplice ed onesto kitsch e saranno in futuro (in verità lo sono già) la manna delle case d’aste e dei mercanti di modernariato (e dei poveri di spirito). Resta che l’ironia dell’intelligenza è merce (abbastanza) rara nel presente filosoficamente incerto del design, praticamente sconosciuta in alcune aree delle discipline che con il progetto dovrebbero dialogare. Ad esempio, almeno in Italia con poche eccezioni, la comunicazione o la pubblicità. Escludendo l’automobile, dove di frequente messaggio e ricordo sono affidati a un sorriso (e del resto come si fa a esaltare ancora potenza, prestanza, velocità o risibili luxury status), il panorama è ultrapiatto per divani, lampade, seggioline, bicchieri, elettrodomestici e più o meno avveniristici aggeggi vari. I mobile phones e i loro servizi insegnano: testimonial dalla battuta greve o tuttalpiù intenti a usare il povero telefonino come arma di sfregio. Velo pietoso – anche perché in qualche modo correi… – è da stendere poi su ironia e scrittura attorno al design, dagli oggetti ai protagonisti. E ce ne sarebbe; la materia certo non manca; forse neppure l’intelligenza e nemmeno di sicuro il pubblico (a meno di pensare tutti minus habens, come talvolta si evince da televisione, pubblicità e amenità connesse). E allora forse è il coraggio.
A SEMI-SERIOUS DISCUSSION NOT TO BE TAKEN TOO SERIOUSLY by Alberto Bassi To laugh, to “roll” in laughter, to smirk, to smile; satire, humour, comedy, sarcasm, irony. However you look at it, by modes and objectives, or results, what we are talking about is a common attitude. The intent here is not to debate philosophical and philological details about the differences, what we are interested in is how and if, in the past, in the present and in the future, humour was, is and will be related to the culture of design. And we will discuss whether in the end, we have preferred the most difficult of the approaches to humour, irony. A perilous choice because, it is said, it presumes the
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PETALI, MICHELE DE LUCCHI, PRODUZIONE PRIVATA, 1997
GNOMO, PHILIPPE STARCK, KARTELL, 1993
SELLA, ACHILLE E PIER GIACOMO CASTIGLIONI, ZANOTTA, (1957) 1983
014 DESIGN
possibility and the capacity to open a dialogue with intelligence; it does not intend to wound deeply as would a satirical slap in the face, or superficially with the easy and often predictable punch line of the comedian. Satire can be both tragic and violent, while at least in our opinion, the definitive word comes from Totò (the best of them all, and our own personal favorite) who had no liking for (presumably funny) jokes. And so the decision fell on irony, on the provocation of laughter through esprit de finesse, the intellect. The ability to look at others – and at one’s self – and to enjoy the sense of relativity and limitation that derives from discovering how to avoid taking one’s self too seriously all the time;
to recognize our personal limits and those of others in the blinding flash of razor-sharp “wit”.
If we take a look at society and culture, we find fewer and fewer traces of it. It seems like every wellintentioned principle and its opposite are considered as articles of faith, whether pronounced by common men or great intellectuals, because even the boundary between the serious and the facetious seems to have dissolved. Comedians take it out on politicians who infringe on their profession, and what once appeared laughable and unbelievable even to our imagination has now become sadly real. For those who think it is wrong to say everything and its opposite, that true and false are not the same thing, that it would be best if each person did what was expected of him in terms of expertise, ethics and meaning, it remains a meritorious, educational and necessary practice to look around at what deserves a smile, at what is inspired by healthy irony and gives us a break from everyday banality. It’s a rare thing. Particularly in design. History had accustomed us to the fact that the world’s artifacts can be designed with intelligent irony; the Castiglioni brothers made a rocking chair out of a bicycle seat, Bruno Munari imagined an uncomfortable chair for unwelcome guests, Graves thought we would wake up happier at the twittering of a teapot, Ingo Maurer if our lamp had the wings of a bird or an angel. Personally, we remain perplexed at the prospect of seeing the smile of intelligence prompted by a phallus-shaped gas lighter or a seven-dwarf bedside table: but we went to a congregational school and watched all the Disney animation movies. Everyone is talking about the new qualities of artifacts, and irony may certainly be considered one of them. So a classical-style chair made out of transparent plastic (at least the original version) is just fine, but then we were confronted with the black horse or worse yet with pistols and guns with incorporated lampshade; this used to be simple and honest kitsch, but in the future (perhaps even now) it will become a windfall for auction houses and dealers in modern antiques (and for the poor in spirit). The point is that intelligent irony is (rather) hard to come by in the philosophically uncertain present of design, and practically unknown in some of the disciplines that design must deal with. In Italy for example, with few exceptions, this is true of communication or advertising. Apart from automobiles, where the message and the memory are often entrusted to a smile (how else can you communicate power, performance, speed or a ridiculous luxury status), the scene is totally flat when it comes to sofas, lamps, chairs, plates, goblets, appliances, more or less futuristic devices. There is something to be learned from mobile phones and phone services: testimonials with crude slogans or at worst, intent on using the unfortunate phone as a weapon. Not to speak of – and in a way the fault is ours too – irony in design criticism, from the objects to the protagonists. It should be there, there certainly is no lack of material; nor intelligence, and certainly not audience (unless you think they are all minus habens, like television and advertising seem to). So maybe what is really lacking is courage.
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DESIGN
TOSCA DESIGNWORK
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DESIGN
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DESIGN
L’IRONIA NEL DESIGN ITALIANO DIZIONARIO DEI GESTI ITALIANI / DICTIONARY OF ITALIAN GESTURES, BRUNO MUNARI, 1994
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the End
auto-stop
che vvuò?
pardòn
ruba!
pagare
only one time
posso?
O.K.
Trés chic
no grazie
sigaretta?
Salve
IRONY IN ITALIAN DESIGN
English text p. 27 FORCHETTE PARLANTI / TALKING FORKS, BRUNO MUNARI, 1958
DESIGN
DESIGN
L’IRONIA NEL DESIGN ITALIANO di Dario Scodeller
“Ho come la sensazione di avere una mano sul culo” disse Fabrizio De André sedendo sulla poltrona Joe. JOE, DE PAS-D’URBINO-LOMAZZI, POLTRONOVA, 1971
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Nel giugno 1940 un giovane studente del Politecnico di Milano si presenta all’esame di composizione con il progetto per un “gruppo rionale fascista”: due volumi squadrati e paralleli sono collegati da una piastra orizzontale. Il modello planivolumertico dell’edificio è realizzato con due fette di formaggio (Fontina) tagliate perfettamente in scala. Lo studente si chiama Achille Castiglioni e quel dileggiante accostamento tra forma di formaggio e forma architettonica rivela il suo precoce sense of humour progettuale. La parodia dell’avanguardia (e dell’“avanguardismo”) è, fra i tratti anticonformisti del design italiano, quello che esprime maggiormente la disillusione di una generazione, cresciuta tra il carattere “ciarlatanamente baldanzoso” (come lo definiva Diego Valeri) delle provocazioni futuriste e l’utopia tradita del Moderno. L’uso dell’ironia è per loro, innanzitutto, un modo di “prendere
le distanze”, per ricordarsi di non prendersi (più) eccessivamente sul serio.
Tomàs Maldonado ha scritto (“Casabella”, 692), a proposito di Achille Castiglioni, che il suo approccio “lascia trasparire una temperie ironica, sardonica, talvolta mordace, ma mai [...] cinica. Quando negli oggetti da lui progettati – aggiunge – traspare una intenzione ironica, essa non mira cinicamente a ridicolizzare gli utenti, a rendere esplicita una loro presunta ottusità o rozzezza, ma piuttosto a fornire una versione caricaturale delle pretese dei suoi colleghi e, non per ultimo, delle sue proprie pretese”. Nello storico filmato della conferenza tenuta ad Aspen, in Colorado, nel 1989 vediamo Achille Castiglioni infierire teatralmente su alcuni suoi oggetti e sulle loro prestazioni: prende a calci il bordo
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MEZZADRO, SGABELLO / STOOL, ACHILLE E PIER GIACOMO CASTIGLIONI, ZANOTTA, (1957) 1971
EDDY, LAMPADA CON VENTOSE / LAMP WITH SUCTION CUPS, MARCO FERRERI - CLAUDIO BELLINI, LUXO, 1984
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di gomma della lampada Noce, stacca lo stelo a jack della lampada Ipotenusa mettendosela sotto il braccio, punta la luce della Gibigiana sugli occhi del pubblico per dimostrare che lo specchietto è regolabile. L’ironia di molti suoi oggetti è legata all’utilizzo più che alla forma: è uno stratagemma situazionista per agevolarne l’accoglienza in una sfera personale ed intima. La Ventosa (1962), si propone come lampada incredibilmente versatile, che si può attaccare ad uno specchio come sulla fronte, l’aspirapolvere Spalter (1956) si porta a tracolla come una “borsetta alla moda” con cui fare i mestieri di casa, lo sgabello Sella (1957) necessita di due gambe umane per diventare una seduta, la lampada Toio (1962) è una canna da pesca al cui filo ha abboccato un faro d’automobile, il water Aquatonda (1971) è una poltrona con lo sciacquone incorporato che le fa da schienale. Il Mezzadro (nato come forma plastica rigida da contrapporre alla forma morbida deformabile della poltrona Cubo, nella mostra di Villa Olmo del 1957) ironizza sfacciatamente sull’ambiguità della formafunzione. La seduta più comoda è quella del trattore: la sua forma è un calco del sedere dei contadini padani. Nel 1971 (anno in cui Zanotta lo mette in produzione) lo sgabello, inoltre, appare come una “presa per il culo” della pop-art e delle sue facili trasposizioni dal quotidiano. Nel numero 85 di “Edilizia Moderna” del 1965, interamente dedicato al design e curato da Vittorio Gregotti, uno dei capitoli è dedicato a quegli oggetti che si propongono come “interpretazione caricaturale”. Si tratta, scrive il curatore, di “un modo di guardare il mondo sorridendo, nel quale si riconosce forse meno attenzione, ma certamente più comprensione per ciò che avviene (...) un modo criticamene valido, non meccanicistico o fatalistico, di affrontare la realtà, perché non opera trasposizioni rigidamente fisionomiche dei problemi, ma di essi, proprio per mezzo degli oggetti fa un po’ la caricatura. Questo atteggiamento corrode le più diffuse convenzioni e consente all’uomo di circondarsi di oggetti da usare con disinvoltura, senza soggezione: lascia più spazio al compiacimento nell’utilizzazione che nel possesso delle cose”.
L’ironia può essere intesa, allora, anche come un atteggiamento critico e produrre oggetti-commedia che ci chiamano in causa in quanto attori del quotidiano. La Sedia per Visite Brevi (1945-1991) di Munari ci ricorda la nostra mancanza di
concisione e discrezione, allo stesso modo in cui i rebbi delle sue Forchette Parlanti fanno il verso alla nostra gestualità istrionica. L’ironia inoltre possiede il carattere dell’immediatezza; per funzionare (per “passare”) essa non deve avere troppo “spessore”: l’indubbia ironia della poltrona-sdraio Mies (1969) degli Archizoom, per esempio, non è altrettanto sottile di quella munariana. Si tratta, perciò, di un’arte tutt’altro che facile da praticare. In tempi recenti si è discusso su una certa tendenza dell’oggetto quotidiano a “vestirsi d’ironia”, come conseguenza della strategia di marketing adottata da alcune aziende, tuttavia si è dovuto riconoscere che l’ironia non può essere appiccicata agli oggetti e, soprattutto, essa non è necessariamente nelle corde di tutti i progettisti. Dopo la Biennale del 1964, l’influenza dell’arte pop alimenterà la diffusione di una nuova generazione di oggetti che faranno dello “scarto ironico” una delle componenti principali del progetto. La seduta Pratone (1966) del Gruppo Sturm, la poltrona gonfiabile Blow (1967) dei De Pas, D’Urbino, Lomazzi, il serpentone di luce del Boalum (1969) di Livio Castiglioni e Gianfranco Frattini, la seduta Tube Chair (1969) di Joe Colombo, sono altrettante caricature della generazione beat e del suo desiderio di informalità, nomadismo e trasgressione. Per la poltrona Sacco (1968), di Gatti, Paolini e Teodoro, il discorso è duplice, perché lo sketch televisivo di Paolo Villaggio, nei panni dell’impiegato Fracchia che si affloscia e si capovolge sulla poltrona, diventa a sua volta una critica ironica (e a tratti cinica) dell’informale “moderno” assunto come status da una
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VIDUN, VICO MAGISTRETTI, DE PADOVA, 1987
BLOW, DE PAS-D’URBINO-LOMAZZI, ZANOTTA, 1968
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borghesia vessatrice e tradizionalista. La televisione restituiva per la prima volta al design il punto di vista dei consumatori. In una delle sue rare apparizioni televisive Fabrizio De André, fatto accomodare sulla poltrona Joe (1971), a forma di gigantesco guantone da baseball, esprimeva al suo intervistatore l’imbarazzo di provare “la sensazione di avere una mano sul culo...”.
IRONY IN ITALIAN DESIGN by Dario Scodeller
“It feels like there is a hand on my backside” said Fabrizio De André as he sat on a Joe chair In June 1940 a young student at the Politecnico di Milano came to the composition exam with a project for a “district Fascist group”: two parallel and boxy volumes connected by a horizontal plate. The volumetric model of the building was made out of two pieces of cheese (Fontina) cut perfectly to scale. The student was named Achille Castiglioni and that mocking correspondence between a form of cheese and architectural form revealed his precocious sense of humour in design. The parody of the avant-garde (and “avant-garde movements”) is, among the non-conformist characteristics of Italian design, what best expresses the disillusionment of a generation that grew up surrounded by the “buoyant charlatanry” (as Diego Valeri defined it) of Futurist provocations and the betrayed utopia of Modernism. To them the use of irony represented primarily a way of “taking their distances”, of remembering not to take themselves too seriously (any longer). Tomàs Maldonado wrote about Achille Castiglioni (“Casabella”, 692) that his approach “reveals an ironic, sardonic, sometimes biting, but never (…) cynical temperament. When the objects he designed – adds – reveal an ironic intent, they do not cynically seek to ridicule the users, to make their presumed dullness or coarseness explicit, but to provide a caricature of his colleagues’ pretenses, and not least of all, his own.” In the historic video of the lecture he held in Aspen, Colorado in 1989, we see Achille Castiglioni theatrically attacking several of his objects and their performance: he kicks the rubber edge of the Noce lamp, he pulls out the jack-ended stem of his Ipotenusa lamp and puts it under his arm, he points the light of his Gibigiana into his audience’s eyes to demonstrate that the mirror is adjustable. The irony of many of his objects involves their use rather than their form: this is a situationist strategy to help the object enter the personal and intimate sphere. The Ventosa (1962) is presented as an incredibly versatile lamp that can be stuck onto a mirror or a forehead, the Spalter vacuum cleaner (1956) may be worn over the shoulder like a “fashion purse” to do the housework, the Sella barstool (1957) needs two human legs to become a chair, the Toio lamp (1962) is a fishing rod that caught a car headlight, the Aquatonda toilet (1971) is an armchair where the incorporated flushing tank serves as the backrest. The Mezzadro (which started out as a rigid plastic form to contrast the soft deformable form of the Cube chair in the exhibition at Villa Olmo in 1957) brazenly ironizes on the ambiguity between form and function. The most comfortable seat is the tractor seat: its form is a mold of the backside of local farmers. In 1971 (the year Zanotta put it into production) the stool also appeared as a mockery of pop-art and its easy transpositions from daily life. In issue number 85 of
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DESIGN
“Edilizia Moderna”, 1965, entirely dedicated to design and curated by Vittorio Gregotti, one of the chapters is dedicated to objects that are presented as “caricatural interpretations”. This, writes the curator, is “a way of looking at the world with a smile, in which there is perhaps less scrutiny, but certainly a greater understanding for what is going on (…) a critically valid, neither mechanistic nor fatalistic, approach to reality, that does not rely on rigidly physiognomic transpositions of the problems, but uses the objects to create a sort of caricature of them. This attitude corrodes the more widespread conventions and allows people to surround themselves with objects that they can use more casually, without subjection: it leaves more space to the pleasure of using things rather than to their possession.”
Irony may then be understood as a critical attitude, producing comedy-objects that engage us as actors in daily life. The Chair for Short Visits (1945-1991) by Munari
reminds us of our lack of concision and discretion, in the same way that the prongs of his Talking Forks mimic our histrionic gesturing. Irony also possesses the gift of immediacy; to work (to be understood) it cannot be too “deep”: the unquestionable irony of the Mies chair-lounge chair (1969) by Archizoom, for example, is not as subtle as Munari’s. This is clearly a rather difficult art to practice. Recently there has been debate about a certain trend that takes our everyday objects and “swathes them in irony”, the consequence of marketing strategies adopted by certain manufacturers; this however has led to the realization that irony cannot just be applied to any object, and above all, that it involves a talent that is not necessarily within the reach of all designers. After the 1964 Biennale, the influence of pop art fostered the diffusion of a new generation of objects which relied on “ironic displacement” as one of the major factors in the design. The Pratone chair (1966) by the Gruppo Sturm, the inflatable Blow chair (1967) by De Pas, D’Urbino, Lomazzi, the Boalum (1969) snake light by Livio Castiglioni and Gianfranco Frattini, the Tube Chair (1969) by Joe Colombo, are all caricatures of the beat generation and its search for informality, nomadism and transgression. The Sacco chair (1968) by Gatti, Paolini and Teodoro raises two issues, because the television sketch by Paolo Villaggio, in his role as the employee Fracchia who sinks down into and rolls upside down in the chair, in turn becomes an ironic (and sometimes cynical) criticism of “modern” informality elevated to status symbol by a traditionalist and coercive bourgeoisie. For the first time television brought the consumer’s point of view to design. In one of his rare appearances on television Fabrizio De André sat down on the Joe chair (1971), a chair shaped like a giant baseball glove, and expressed his embarrassment to the interviewer for “feeling like there was a hand on his backside.” Dario Scodeller Architetto, si occupa da molti anni di comunicazione visiva, design espositivo e retail design. È tra i fondatori, nel 2003, dello studio di progettazione Archiroom. Ha svolto una vasta attività di ricerca sulla storia e sul progetto della luce artificiale. Ha insegnato dal 2002 al 2005 come docente incaricato alla facoltà di design del Politecnico di Milano. Collabora alla rivista “Casabella” e insegna storia del design all’università di San Marino. An architect, for many years he has worked on visual communication, exhibition design and retail design. He was among the founders of the Archiroom design studio in 2003. He has conducted extensive research into the history and design of artificial lighting. From 2002 to 2005 he taught at the Design Department of the Politecnico in Milan. He collaborates with “Casabella” magazine and teaches history of design at the University of San Marino.
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LE GRANDS TRANS-PARENTS, DESIGN ORIGINALE: MAN RAY, 1938, DINO GAVINA, SIMON, 1971
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LETTERATURA
LITERATURE
IRON SIDE
DI ALESSANDRO BERGONZONI
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LETTERATURA_LITERATURE
SIDE
IRON
di Alessandro Bergonzoni
Iron side: la parte dell’ironia, qualcosa che
non cammina con le proprie gambe. Basta ironia ia ia o! Canzoncina per canzonanti canzonabili. Quell’ironia che usa la presa in giro ma non porta in giro: FastarlÏ (sembra il nome di un 033
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LETTERATURA_LITERATURE
mago fermo). A forza d’ironia non s’usa
fantasia ci si nasconde dietro la siepe per poter far niente. Non c’è sorpresa e cioè nulla di n’uovo dentro. Non si nasce non si fa nascere, si sorride alle volte di ciò che si sa già ma non si esplora mai il chissà. Ironia come il contrario di immaginazione una scusa bella e buona che diventa brutta e cattiva… Con l’ironia si fabbricano alibi alla grande follia, alla genial genia, alla creazione di idee… È solo carta da pareti, è moquette coprente per non cambiare il pavi-mente, per non cercare altri strati. È povertà di spirito, è falsa comicità, è umor d’umorismo senza r’umore. Non suona, non dirige, non è diretta al massimo dà retta, ubbidisce a chi vive solo se schernisce: gli ironicicronici. È paura di oltrepassare, di trascendere, di scoppiare, deflagrare, detonare. È la pace del senso, unico, mai vieto.
È il bisogno di sicurezza, un ago da abbaglia che abbaglia ma non morde, è il poco accettato dagli accontentabili disabituati all’oltre, è l’indifferenza al cambio senza marcia in più. Spira non respira è colpa sua se tutto è leggero e lieve (che sarebbero bei concetti se non fossero scuse per non veder la forza e la durezza del pensiero, l’energia della diversa diottria). È solo una lente di gradimento, ma non sa l’enorme, non conosce lo sconosciuto, si siede sul basta, non s’alza non comincia al massimo ricomincia. È soffio di ventilatore, l’antieolo, è burro mai burrasca, è lavandino o vasca ma mai mare; si tratta solo di onde per cui, finalità finita. L’ironia non sa infinire sa solo smettere, sorda e muta ma senza cambiare. Chi invece inventa non può usare l’ironia, non scherza perché a forza di scherzare ci si impavida. Bisogna sapere che c’è differenza tra creazione e ricreazione. Troppo facile fare il verso a qualcuno bisogna andare verso qualcun altro, l’altro invisibile o inviso, la faccia dell’impossibile il muso della bestia bella, l’incredibile, il segreto secreto, per buttar fuori il mistero, nero foriero (non importa se vero!). L’ironia si fonda troppo sulla verità, (troppo comodo), nell’aspettativa troppo aspettata, è la porta della soglia mai quello che sta dietro o dentro, è sberleffo lessato, la battuta abbattuta, morta, corta, è lussazione mai rottura, è slogatura della solita partitura, è incuria mai furia. Mai visione, al massimo è televisione, mai soggetto solo oggetto e assoggettato. È brina è ru senza giada, sembrerebbe lenire il dolore ma solletica solo il suo torpore, è chiacchera che non parla e se parla non dice, si addice, mai predice. È droga giornalistico-imitativa, aneddotico-discorsiva, è cielo in bottiglia, sabbia per scarpe, vista e rivista, bassa rivista, data in dote a chi non ha doti, ruminanza indegluttita, che alla fine chiede sempre scusa del disturbo mai creato, che non turba che inurba, che ti fa abitante ma inabitato, non ha un dentro, è un pregiudizio universale, piove sul bagnato, beve senza sete, irrisoria ma senza denti sporgenti, non scanna, si adagia sugli allora e non vola perché ha le ban’ali. Siccome per diventare fiumi non basta un corso d’acqua, invece che ironizzare il mondo, dobbiamo divenire oceanici e catapultare fuori dallo scafandro il pensiero che s’anima, buttando la zavorra ironica che vuol tenerci giù; facciamo così: da adesso più! Antironicamente vostro
ALESSANDRO BERGONZONI Alessandro Bergonzoni è un artista poliedrico, uomo di teatro e scrittore, che gioca con le parole e i loro nomi. Cerca libere e consequenziali associazioni che si susseguono e inseguono. Sono intraducibili e in sostanza inefficaci e incomprensibili al di fuori della lingua originaria. Per questo il testo non è stato tradotto. Per noi era un’occasione imperdibile per avere un suo contributo. Ce ne scusiamo con tutti coloro che non leggono “Lux” in italiano. Alessandro Bergonzoni is an artist, an actor and playwright, who plays with words and names. He looks for free and consequential associations, unfurling and flowing in sequence. They are impossible to translate and are basically ineffective and incomprehensible in any but their original language. For this reason this text has not been translated. The author’s contribution to this publication was an opportunity not to be missed. We apologize to all our readers who do not read “Lux” in Italian.
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DESIGN IRONICO CONTEMPORANEO
CONTEMPORARY IRONIC DESIGN English text p. 43
MINAVAGANTE, INES PAOLUCCI - DANIELE STATERA, 2005
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IRONIA CONTEMPORANEA PER IL DESIGN di Lorenzo Imbesi
GOLOSIMETRO, PAOLO ULIAN, 2002
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L’immagine del trickster nella mitologia è associata ad una divinità che veste i panni di animale antropomorfo oppure di essere umano con marcate deformità e che soprattutto possiede una speciale abilità all’inganno e, con piccoli trucchi e sotterfugi, riesce sempre a risolvere situazioni istantanee con personale profitto. È un personaggio che non ha grandi ambizioni e progetti lungimiranti, piuttosto si attesta alla banalità del quotidiano immediato, ricercando soluzioni puntuali e rielaborando le risorse contingenti. Non possedendo strumenti idonei al caso, con opportunismo deve affidarsi alla sua intelligenza creativa per rispondere a contesti sempre nuovi e senza soluzioni date. Ecco che si deve affidare a tattiche di sviamento o ad astuzie istintive, spesso fingendo e giocando con l’ambiguità. Non potendo disporre di uno spazio proprio, si muove sempre su territorio estraneo, agendo sulla sorpresa, sviluppando le caratteristiche e le potenzialità contingenti del territorio, scoprendone le autonomie interstiziali ed articolandone in maniera imprevista l’organizzazione. Un’arte di arrangiare lo spazio per renderlo abitabile attraverso configurazioni mai definitive. La figura del trickster riflette bene in questo senso un tema ricorrente nella produzione progettuale contemporanea, che più che concentrarsi su soluzioni strutturali totalizzanti, si interessa delle
ritualità e delle gestualità minime che ci circondano, incrociando un popolo minore di oggetti in grado di scoprire lo straordinario nell’ordinario. Attraverso la sperimentazione di esperienze di self-brand appare uno spazio spontaneo e alternativo che rielabora la produzione spettacolare ufficiale sviluppando un sapere critico, ma che non si carica di un vero e proprio progetto
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BATEAU, ZOLLETTA DI ZUCCHERO / SUGAR CUBE, ENRICO AZZIMONTI E JORDI PIGEM, 2003
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politico unitario. La posizione del trickster avvicina così nel gioco progettista e consumatore, uniti nel rintracciare zone attive di riappropriazione rielaborando gli elementi del nostro ambiente quotidiano attraverso azioni di contaminazione, deformazione, alterazione. Gioco e consumo si riabilitano così come attività primarie contestuali al progetto e alla produzione. È il gioco della merce che il design propone con ironia dadaista come strategia di sviamento dal pensiero comune delle cose, a cui si sottendono trappole ironiche. Giocare con l’inganno significa non riconoscere le regole del gioco, o piuttosto inventarne di nuove ogni volta e mobilitare zone di creatività. Il trickster non riconosce infatti una razionalità esterna, ma riesce a muovervisi dentro apprezzandone spesso le qualità più nascoste, inserendovi elementi d’urto ed interferenze nei meccanismi di funzionamento per dissacrarne l’aura. In questo senso Michel de Certeau (1990), nell’osservare la microfisica degli oggetti quotidiani che si nasconde nelle pieghe dei poteri disciplinari, oltre l’economia della produzione, constata l’emergenza di un’attività dispersa e orizzontale che non si esprime con prodotti propri, ma con modi di usare che riarticolano ciò che il sistema offre. Le pratiche di consumo conterrebbero cioè un valore enunciativo in grado di produrre nuovi significati, sviluppare forme di conoscenza, moltiplicare zone di riflessione, diffondere potere di progetto. Altrettanto il design, nello sguardo del quotidiano, si fa interprete di gesti e comportamenti imprevedibili ma dotati di alta capacità creativa nascosta che si manifesta nell’uso ordinario, individuandone le possibili evoluzioni con nuove idee in grado di caricare di nuovo senso i gesti di ogni giorno. La ricerca progettuale si muove così come il bambino rovescia la vita per sperimentarne i significati attraverso un esercizio di disordine dadaista. Il bambino rompe il giocattolo nei suoi elementi primari: smonta, decostruisce, seziona per comprenderne le caratteristiche materiali e reinterpretarne le proprietà. Poi, rimonta e costruisce secondo nuovi parametri che non riconoscono le precedenti strutture normative. Il gioco si appropria così indebitamente del mondo degli adulti per svelarne l’aspetto nascosto e sfidare ciò che diamo per certo. Altrettanto, il design applica la tecnica dello straniamento e del détournement per creare forme al servizio dell’economia dell’immaginario e costruire situazioni ludiche con alto valore cognitivo. Osservazione etnografica, comportamento, consumo, progetto e produzione quasi si confondono rivelando atteggiamento ludico, casualità, impredicibilità, ricerca, gesto avanguardistico depurato però dall’ideologismo dei movimenti storici, piuttosto inglobando il pluralismo eclettico e la complessità dei linguaggi contemporanei. Muovendosi tra provocazione situazionista e dialettica contaminante, svolge un’azione di riflessione critica sulla tradizione storicizzata del progetto industriale. Oggetti che raccontano storie attraverso e al di là dell’uso, mostrando spesso il processo di cui sono il risultato, un processo mai lineare ma fatto di continui rimandi e citazioni. Il passaggio dall’homo œconomicus all’homo ludens (J. Huizinga, 1973) riabilita il gioco come qualità produttiva, e tutte le proprietà informali e i valori intangibili legati all’improvvisazione creativa e alla spontaneità ludica. La rottura della rigida dicotomia tecnologia/funzionalismo apre così alla sperimentazione basata sull’inutilità e la gratuità, implicando invenzione pura ed estro creativo. Il gioco, non solo game agonistico strutturato in schemi di azione normati, è interpretato allora anche come play in cui sperimentare comportamenti, piacere ludico in atto al di fuori di regole combinatorie di mosse. Il play è il gioco che i bambini inventano creativamente da soli senza dover competere in squadre, con norme prestabilite a cui attenersi o punizioni per l’eventuale trasgressione. Casualità e spontaneità diventano materiali di progetto, più che per la produzione di oggetti distribuiti con le relative istruzioni per l’uso, per la creazione di situazioni da reinventare ogni volta stimolando comportamenti improvvisati
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MAT-WALK, PAOLO ULIAN, DROOG DESIGN, 2002
PIMP MY (IKEA) CHAIR, JOE VELLUTO, 2006
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con il valore di veri e propri happening irripetibili. Tecnologia industriale al servizio della soggettività del desiderio oltre l’oggettività dell’economia. Attenzione: il trickster è entrato in fabbrica!
CONTEMPORARY IRONY IN DESIGN by Lorenzo Imbesi The image of the trickster in mythology is associated with a divinity that appears as an anthropomorphic animal or as a human being with substantial deformities who possesses a particular ability to deceive; by means of petty tricks and subterfuges, he is always successful at turning instant situations to his own personal advantage. This is a figure with no great ambitions or long-term plans, mired in the banality and immediacy of everyday life, who seeks exact solutions and elaborates contingent resources. Since he does not possess the tools he needs, he must opportunistically rely on his creative intelligence to respond to continuously changing contexts with no given solutions. He must then count on diversionary tactics or instinctive cunning, often feigning and playing on ambiguity. Not having his own space, he is always moving on someone else’s territory, acting on surprise, developing the contingent characteristics and potential of the territory, discovering the interstitial autonomies and articulating their organization in unexpected ways. The art of arranging space to make it livable through ever-undefined configurations. The figure of the trickster in this sense reflects a recurring theme in contemporary design: instead of concentrating on totalizing structural solutions, it is more interested in the minimum rituals
and gestures that surround us, encountering a minor population of objects that can reveal the extraordinary in the ordinary. The experimentation with self-branding experiences
has created a spontaneous and alternative space that re-elaborates the spectacular official production to develop critical knowledge, but is not interested in an actual unitary political project. The position of the trickster thus brings together designer and consumer in a game, united in seeking active areas of appropriation by reconfiguring the elements of our daily spaces through contamination, deformation, alteration. Play and consumption are thus rehabilitated as primary activities that appear contextually with design and production. This is the merchandise game that design presents with Dadaist irony as a strategy of deflection from everyday thought about things, setting ironic traps underneath. Playing with deception means not recognizing the rules of the game, or inventing new ones every time and mobilizing zones of creativity. The trickster does not in fact recognize an outer rationality, but moves on the inside, often perceiving the most hidden qualities, adding elements of shock and interfering with how they work to desecrate their aura. In this sense, as Michel de Certeau (1990) observed the micro-physics of daily objects concealed within the folds of disciplinary powers, he verified not only the economy of production but the emergence of a widespread and horizontal activity which does not express itself in its own products, but by using things in ways that rearticulate what the system has to offer. Consumer practices thus seem to harbor an outspoken value that can produce new meanings, develop forms of knowledge, multiply areas of consideration, spread the power of design . And as design looks at everyday life, it
interprets gestures and behaviors that are unpredictable but have a great hidden creative capacity that may be seen in normal use, identifying ways they could evolve with new ideas that can give new meaning to everyday gestures. Design research moves in this way, in the same way as the child who upsets life to experiment with new meanings through a Dadaist exercise of disorder.
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TUTTITUBI, SEDIA / CHAIR, LORENZO DAMIANI, 2003
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PIDGIN, PORTACHIAVI / KEY RING, ODOARDO FIORAVANTI, OPOS-INCOTEX, 2005
The child breaks his toy into primary elements: he takes apart, deconstructs, sections to understand its material characteristics and reinterpret its properties. He then puts it back together and rebuilds it according to new parameters that do not consider the earlier standardized structures. Play undeservedly takes possession of the adult world to reveal its hidden aspects and challenge our certainties. In the same way, design applies the techniques of estrangement and détournement to create forms at the service of the economy of imagination and to build conditions for play with greater cognitive value. Ethnographic observation, behavior, consumption, design and production somehow blend together to reveal a ludic approach, randomness, unpredictability, research, avant-garde gesture purged of the ideology of historic movements, comprehensive of eclectic pluralism and the complexity of contemporary languages. Acting between a situationist provocation and a contaminating dialectic, it reflects critically on the historicized tradition of industrial design. Objects that tell stories through and beyond their use, often showing the process they were generated from, a process which is never linear but full of references and quotations. The transition from homo œconomicus to homo ludens (J. Huizinga, 1973) rehabilitates play as a productive quality, like all the informal properties and intangible values involved in creative improvisation and ludic spontaneity. Breaking the rigid dichotomy between technology and functionalism leaves the field open to experimentation based on uselessness and gratuity, implying pure invention and creativity. The game, which is not just competition structured into patterns of standard actions, is then interpreted as play in which to experience certain types of behavior, a ludic pleasure that takes place outside the rules for combining moves. Play is what children creatively invent on their own without having to compete in teams, follow established rules or suffer penalties for breaking them. Randomness and spontaneity become design materials, not just for the production of objects distributed with instruction booklets, but for the creation of situations to reinvent over and over again, to stimulate spontaneous behaviour that can spur unrepeatable happenings. Industrial technology at the service of the subjectivity of desire beyond the objectivity of the economy. Beware: the trickster has come to the factory! Lorenzo Imbesi Architetto, PhD in progettazione ambientale, svolge attività didattica e di ricerca nell’area del disegno industriale presso l’Università La Sapienza di Roma; attualmente, fra le attività, pubblica saggi e articoli e collabora con numerose riviste di settore e quotidiani (“Diid”, “Domus”, “il Manifesto” e “Alias”). Architect, PhD in environmental design, he is involved in teaching and research in industrial design at the Università La Sapienza di Roma; he currently writes essay and articles and collaborates with many professional magazines and newspapers (“Diid”, “Domus”, “il Manifesto” and “Alias”).
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EPPUR GENIALE!
BUT THAT’S BRILLIANT! English text p. 51
L’UCELLINO, INGO MAURER, 2005
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EPPUR GENIALE! di Volker Albus
Far ridere va di moda. Non solo su Internet o in televisione: sembra che anche nel design il motto “lasciatemi divertire” sia onnipresente. In particolare i giovani talenti del product design sembrano aver trovato nell’umorismo la chiave che apre loro qualsiasi porta. Mostre, pubblicazioni, eventi – di qualsiasi manifestazione si tratti, le moderne menti creative in erba vogliono una cosa sola: divertire e divertirsi. Sta di fatto che i progettisti di oggi, con il loro sguardo rilassato e divertito, non vedono più il paesaggio, domestico o lavorativo che sia, come un’asettica sala operatoria o come un accogliente sanatorio, ma come un parco giochi, o meglio, come lo schermo di una Playstation (non dimentichiamo la tecnologia) a misura di fruitore: per lui e lei, per giovani e meno giovani. Insomma, indubbiamente nel luna park del design ci si diverte, ma bisogna stare attenti ai trabocchetti che si celano dietro a un oggetto che vuol essere spiritoso: esso provoca un’ilarità immediata, ma momentanea. Può far ridere a gola spiegata, ma una volta sola, poi basta. Non c’è niente di più frusto di una barzelletta ripetuta all’infinito di cui si sa già come va a finire. Pensate a come è sentirsela raccontare tutti i giorni – da una persona, oppure da un tavolo, da una sedia o da una piantana: il risultato non cambia. L’aspetto del design spiritoso può addirittura diventare irritante se un oggetto si rivela una barzelletta e nulla di più, un giocattolo lontano anni luce dall’idea di servire a qualcosa. Se invece un progetto nasce dall’ironia, ci muoviamo su livelli del tutto differenti. Non solo l’ironia è più discreta dello scherzo, ma è anche molto più raffinata e ha molti più aspetti da
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GALERIA H2O CHAIR, MARTI GUIXÈ, GALERIA H2O, 2000
CHAIR DO ADD #2, JURGEN BEY, STUDIO MAKKINK & BEY, 2000
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scoprire. Non agisce mai in maniera diretta, ma sempre per vie indirette, unisce la beffa sottile alla critica costruttiva. Sia chi la mette in atto sia chi la recepisce gioca un match che richiede un tipo ben diverso di preparazione da quello del burlone e che comporta un allenamento costante in discipline quali doppi sensi, luoghi comuni, allusioni, quiproquo – insomma, un sapere universale, ma allo stesso tempo alla portata di tutti. E che ha i suoi vantaggi: mentre anche la battuta migliore divampa come un fuoco e dura un attimo, la brace pungente dell’ironia continua a bruciare sotto la cenere e svanisce soltanto quando tutte le sue componenti, nel flusso del cambiamento di tradizioni, convenzioni e informazioni, non trovano più il terreno per venire recepite. Perciò l’effetto dell’ironia nel product design (o nell’arte) non è immediato e scoppiettante, ma nasce da presupposti del tutto differenti che premettono da parte dello spettatore un certo livello di cultura e informazione. Prendete, ad esempio, la seduta Galeria H20 Chair di Marti Guixé. A prima vista sembra uno sgabelluccio sproporzionato dalle gambe tozze che non si sa bene a che debba servire. Soltanto quando si capisce come funziona questo mobile, che ricorda vagamente una seduta e sul quale si impilano libri e riviste fino a formare una vera e propria sedia (dalla quale si può scendere solo togliendo dalla pila le riviste o i libri), si capisce a fondo la nonchalance di questo progetto. Lo stesso vale per la sedia do add#2 di Jurgen Bey, la cui scocca sporge da un lato per 40 cm e fa vacillare tutta la struttura. Solo nel momento in cui ci si siede ci si accorge – non si può fare a meno di sorridere a fior di labbra – che questa superficie curva null’altro è che un comodo ripiano per chi siede. Niente di speciale, a dire il vero, ma che questo ripiano è il prolungamento della scocca e che quindi è lì pronto non appena ti siedi e non te lo devi avvicinare, è ciò che lo rende semplice e geniale. Prendiamo un altro esempio: la poltrona Little Beaver di Frank O. Gehry che suscita veri e propri “ooooh!” di stupore non di primo acchito quando la si vede, e neanche quando si constata che il cartone ondulato di cui è fatta è caldo e confortevole, ma quando si scopre che qualsiasi macchia, non importa se causata da Fido o dal nipotino in visita, può essere tagliata via: un bel vantaggio rispetto agli altri imbottiti! Al profano tuttavia l’essenza non convenzionale di questi oggetti sfugge. E non solo questo. Non riesce a partecipare minimamente del loro aspetto sovversivo e a comprendere il complesso processo creativo a monte. Perché ciò che abbiamo davanti agli occhi non sono soltanto una seduta, un ripiano o una poltrona dal materiale insolito. No: questi sono progetti che, grazie a componenti molto semplici, quasi banali, ma altrettanto sottili e geniali, mettono in dubbio tradizioni legate alla funzione, alla conformazione e all’uso dei materiali profondamente radicate nella nostra cultura dell’arredamento. In altre parole: una volta vista la poltrona Little Beaver non ci verrà che un sorriso malizioso pensando a chi si affanna a spolverare e a tenere puliti gli imbottiti nel salotto buono.
BUT THAT’S BRILLIANT! by Volker Albus Making people laugh is back in style. Not only on Internet or on television: it seems like in design the slogan “letmeamuseyou” is everywhere. In particular young talents in product design seem to have chosen humour as their key to open doors. Exhibitions, publications, events – whatever the occasion, up and coming creative modern minds want only one thing: to amuse and be amused. The fact is that today, with their playful and relaxed approach, designers no longer see the landscape,
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LITTLE BEAVER, FRANK O. GEHRY, VITRA COLLECTION, 1983
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be it home or office, as an antiseptic operating room or a hospitable sanatorium, but as a playground, or better yet as the screen of a Playstation (let’s not forget technology) custom-made for the user: for him or for her, for the young or the not-so-young. There is no doubt that a design playground is good fun, but it is important to watch for the traps hidden within an object whose intent is to be funny: it creates an immediate but momentary laugh. It can even make you laugh out loud, but only once, that’s it. There is nothing more exasperating than a joke repeated over and over again when you already know the punch line. Imagine what it would be like to hear it every day – told by a person, or a table, a chair or a floor lamp: the result is always the same. Humorous design can even become irritating if an object turns out to be nothing more than a joke, a toy light years from any notion of utility. But if a project is rooted in irony, we are talking about a completely different level. Not only is irony more discreet than a joke, it is also more sophisticated and has many more facets to discover. It never acts directly, but chooses an indirect route, it combines subtle mockery and constructive criticism. The person who initiates it and the person on the receiving end engage in a game that requires a much different type of preparation than a simple joke dues; it requires assiduous training in disciplines such as plays on words, stereotypes, allusions, misunderstandings – universal knowledge but accessible to all. It has its advantages: while the best of punch lines ignite and last just a second, the searing coals of irony continue to burn under the ashes and fade away only when all its components, in the fluid evolution of traditions, conventions and information, cease to be comprehensible. This is why the effect of irony in product design (or in art) is neither immediate nor exhilarating, but is based on totally different premises that require a certain level of culture and information on the part of the spectator. Take the Galeria H2O Chair by Marti Guixé for example. The first impression is of a poorly proportioned stool with stubby legs that serves an ill-defined purpose. Only when you understand how it works, this piece vaguely reminiscent of a chair onto which you pile books and magazines until it actually becomes a chair (that you can only climb down from by removing magazines and books from the pile), can you understand the nonchalance of this project. The same is true of the chair do add#2 by Jurgen Bey, whose seat sticks out 40 cm on one side, making the entire structure unstable. Only when you sit on it do you realize – and this inevitably provokes a smile – that this curved surface is simply a comfortable shelf to sit on. Nothing special, actually, but the shelf is an extension of the seat and it is right there when you need it to sit down, you don’t need to pull it close, that’s what makes it simple and brilliant. Let’s take another example: the Little Beaver chair by Frank O. Gehry provokes oohs and aahs, but not when you first see it, and not even when you realize that the corrugated cardboard it is made out of is actually warm and comfortable, but when you realize that any stain, be it caused by Fido or visiting grandchildren, can be cut away: quite an advantage over other upholstered seating! To the profane however, the non-conventional essence of these objects remains incomprehensible. And not only. They are incapable of participating even minimally in their subversive quality or of understanding the complex creative process behind them. Because what we have before our eyes is not just a chair, a shelf or an armchair made out of unusual materials. No: thanks to their simple, even banal components, which are just as subtle and brilliant, these projects raise questions about our
traditions of function, conformation and use of materials that are deeply rooted in our furniture culture. In other words: once you have seen the Little Beaver chair, all you can do is
crack a malicious smile at all those people dusting and cleaning the upholstered seating in their formal living room. Volker Albus Collabora a “form” ed è docente alla Hochschule für Gestaltung di Karlsruhe. Collaborates with “form” magazine and teaches at the Hochschule für Gestaltung in Karlsruhe.
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ELFO DENIS SANTACHIARA
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DESIGN E IRONIA? HONNI SOIT QUI MAL Y PENSE!
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DESIGN AND IRONY? HONNI SOIT QUI MAL Y PENSE! English text p. 65
MILK BOTTLE LAMP, TEJO REMY FOR DROOG DESIGN, 1991
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DESIGN E IRONIA? HONNI SOIT QUI MAL Y PENSE! di Volker Fisher
Agli occhi dei funzionalisti convinti l’accoppiata design e ironia appare un peccato mortale e imperdonabile. Nel migliore dei casi la ritengono un abbinamento sbagliato: che cosa ha a che vedere infatti un prodotto nato sotto i migliori auspici della funzione e dell’ergonomia con un atteggiamento che ben si addice perlopiù alla letteratura, che si compiace della discrepanza tra essere e apparire e che, Oscar Wilde il dandy decadente per eccellenza, ha portato all’apice? A ben vedere, contrariamente all’opinione dei funzionalisti che la vogliono nata soltanto con il postmodernismo, questa discrepanza esiste in tutte le categorie estetiche fin dall’antichità. Sia nel teatro, sia nel film, nella pittura o nell’architettura: in tutte queste forme d’espressione l’ironia e i suoi parenti stretti, il sarcasmo, la beffa e l’umorismo, sarebbero impensabili senza un processo a monte che rende i contenuti metafora, racconto, poesia. In tal modo, una volta astratto il contenuto dall’aspetto materiale e funzionale, dalla situazione contingente in cui esso si presenta, l’oggetto – film, prodotto o rappresentazione teatrale – porta alla luce associazioni a prima vista secondarie. Il dizionario parla chiaro quando definisce l’ironia e le sfumature di tutto ciò che riesce a strapparci un sorriso: “Al contrario dell’umorismo, l’ironia è una forma di straniamento e di attenuazione. L’ironia è più polemica e più critica dello scherzo; è un atteggiamento che mette a nudo; diversamente dalla beffa, però, è l’affermazione indiretta di un concetto la cui autenticità è indubbia anche da parte di chi non lo condivide”. Le divergenze tra forma e significati, ad esempio tra ergonomia (= valore pratico) e valore simbolico si può trovare nella forma di un oggetto, nel
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SEDIA THONET, THONET CHAIR
CONSUMER’S REST CHAIR, STILETTO STUDIOS, 1983
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modo in cui lo si percepisce oppure in quello in cui lo si usa. Il messaggio ironico di un prodotto si manifesta per eccesso nel sarcasmo o nella caricatura, per difetto in un umorismo attenuato che suscita un sorriso a fior di labbra. Ci sono tra le sedute, gli oggetti principi del design, esempi alquanto arguti di funzione al servizio dell’ironia: i due fratelli brasiliani Fernando e Humberto Campana presentarono nel 2001 al Salone di Colonia una poltroncina fatta di scarti di legname, elegante, ma con nome tanto cinico quanto di sicuro impatto, Favela. Una seduta del francese Rajdar Coll-Part, un designer che, per sua stessa definizione, si ritiene “un parassita della società”, fatta con dieci grucce e un sostegno per la deambulazione, non poteva che chiamarsi Fauteuil Lourdes (1996). Il produttore di mobili italiano Zanotta ha rieditato il famoso sgabello in legno che Max Bill progettò per la Scuola di Ulm con il nome di Sgabillo, mentre, sempre in Italia, Matteo Thun nel 1989 ha reso omaggio al Salone del mobile di Milano alla sedia Thonet, l’evergreen tra le sedute moderne, con quattro esemplari, ciascuno ornato di un gonnellino diverso. Il nome? Quattro Stagioni. Per il marchio Moooi dell’olandese Marcel Wanders il compatriota Maarten Baas ha creato una serie di poltrone rivestite in pelle dall’opulenza barocca ma con un nome che rivela il loro carattere macabro: la rifinitura delle Smoke Dining Chairs si effettua bruciando le loro parti in legno. Una componente dada, l’elemento sorpresa, talvolta anche un effetto choc – spesso bastano però già un pizzico di umorismo o di follia – : sono questi i materiali principali del design ironico. Ma alla vista delle maxiborse da Esercito della Salvezza unite a magliette strappate e lenzuola annodate che Coll-Part riunisce per comporre il suo Canapé de rues, dai piedi fatti di lattine e bottiglie di birra, o davanti alla Rag Chair di Tejo Remy (Droog Design, 1991) fatta di stracci, anche al connoisseur più cinico il riso muore in gola. Nonostante l’aspetto de-formante conferito dall’ironia, questi oggetti assolvono la loro funzione.
Anzi, è proprio dallo scopo a cui sono destinati che emerge l’aspetto ironico.
Pensiamo, per esempio, alla poltrona in cemento armato Grand Comfort-Sans Comfort-Dommage à Corbu di Stefan Zwicky (1980), oppure a un altro omaggio lecorbusieriano ma gonfiabile, la seduta Sofina della ditta Joker (1999); oppure alla più che concreta “idea di seduta” di Hildegard Erhard (1987), fatta di sacchi di cemento e di pallets di legno; alla sedia flessibile, ma pure in cemento, Solid di Heinz H. Landes (1986), senza dimenticare la sedia Consumer’s Rest-Stuhl di Stiletto Studios (1990). Allo stesso modo assistiamo a una delocalizzazione di elementi preesistenti con la seduta Taxi Cab di Constantin Boym (2001), che ricorda i famosi coprisedili con le palline di legno usati dai tassisti newyorchesi. Anche mobili progettati qualche decennio prima, quali il divano Mae West’s Lips di Salvador Dalí (1936), ridisegnato dallo Studio 65 nel 1971 con il nome di Bocca o la tazza da tè rivestita in pelliccia di Meret Oppenheim, sottendono allusioni ironiche legate al loro uso. E che dire dell’iperbole tipica della cultura pop che si cela dietro alla lampada Bulb di Ingo Maurer, una lampadina gigantesca nata – manco a dirlo – nel 1968 o della lampada da tavolo Moloch del 1971 di Gaetano Pesce, alta tre metri? L’ironia strizza l’occhio al kitsch quando pensiamo all’orologio a cucù ideato da Robert Venturi per Alessi (1989) o al nano-sgabello di Philippe Starck per Kartell che prima si trovava in colori che ne sottolineavano palesemente l’aspetto parodico, mentre ora è disponibile anche nei più discreti nero e oro?
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IMBOTTITURA ANTISOMMOSSA / SUITED FOR SUBVERSION, RALPH BORLAND, PROTOTYPE, 2002
PANCHINA TRANSENNA / BARRIER BENCH, PHILIPPE MILLION, PROTOTYPE, 2002
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Dalla pop art (molto vicina alla cultura camp descritta da Susan Sontag) sono scaturiti quasi esclusivamente oggetti carichi di ironia, come, fra i molti, le decine di poltrone gonfiabili Blow (1967) di De Pas, D’Urbino e Lomazzi. Ma spesso pure i riferimenti di carattere sessuale scelti per oggetti di uso quotidiano possono essere letti in chiave ironica – anche qui gli esempi sarebbero molteplici. Può capitare infine che l’ironia nasca da pezzi banali utilizzati in un nuovo contesto: da un’idea simile è nata la lampada Milk bottle lamp di Tejo Remy (1991) fatta di semplici bottiglie di latte vuote; pensiamo poi al comò You can lay down your memories (1991), realizzato con cassetti senza guide presi da una discarica e tenuti insieme da un robusto pezzo di nastro trasportatore. Ancora ritroviamo il designer Coll-Part che con una serie di pentole impilate e aperte su un lato ha ideato una libreria o inventato, grazie soltanto a un materasso appoggiato sulle molle di un autotreno, il Bureau de bureaucrate (1994). L’ironia negli oggetti di uso comune conferisce un aspetto umano non solo all’utilizzo che ne facciamo, ma a tutto il nostro vissuto quotidiano arricchendolo più con il sorriso che suscitano di quanto facciano gli oggetti puramente funzionali, riflettendo e rappresentando così le affascinanti contraddizioni che ha la vita in ogni suo aspetto. L’ironia aiuta, insomma, a “potenziare l’immaginazione del fruitore”, come disse una volta a ragione Matteo Thun. Né più, né meno.
DESIGN AND IRONY? HONNI SOIT QUI MAL Y PENSE! by Volker Fischer To the eyes of convinced functionalists the combination of design and irony appears as an unpardonable mortal sin. In the best of cases they consider the combination to be a wrong one: what connection is there between a product conceived under the best auspices of function and ergonomics and an attitude that might be intrinsic to literature at best, which revels in the divergence between being and appearing and was brought to its apogee by that most decadent of dandies, Oscar Wilde? In fact, contrary to the opinion of functionalists who sustain that it is a product of Postmodernism, this divergence has existed in every esthetic category since Antiquity. In theatre and in film, in painting or in architecture: in all these forms of expression irony and its close relatives, sarcasm, mockery and humour, would be unthinkable without an underlying process that turns their contents into metaphor, narration, poetry. In this way, once the content has been purged of its material and functional aspects, of the contingent situation in which it exists, the object – film, product, or drama – brings associations to light that were secondary at first. Dictionaries speak clearly when they define irony and the nuances of everything that manages to provoke a smile: “Unlike humour, irony is a form of estrangement and understatement. Irony is more polemical and critical than a joke; it is an attitude that seeks exposure; unlike mockery however, it is the indirect assertion of a concept whose authenticity is unquestionable even to those who do not share it”. The divergence between form and meaning, for example between ergonomics (=the practical value) and the symbolic value may be found in the form of an object, in the way it is perceived or used.
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CAMPARI LIGHT, INGO MAURER, 2002
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The ironic message of a product may manifest itself strongly in sarcasm or in caricature, or more moderately in an understated humour that provokes a smile. Among chairs, the king of design objects, there are extremely clever examples of function at the service of irony: at the 2001 Fair in Cologne, the two Brazilian brothers Fernando and Humberto Campana presented a chair made out of wood scraps, elegant, but with a name as powerful as it was cynical, Favela. A chair by French designer Rajdar Coll-Part, who by his own definition considers himself a “parasite of society”, was made out of ten coat hangers and a walking aid: what else could it be called but Fauteuil Lourdes (1996)? The Italian furniture manufacturer Zanotta re-edited the famous wood stool (in Italian, “sgabello”) that Max Bill designed for the School of Ulm under the name of Sgabillo, while in Italy, at the Salone del Mobile in 1989, Matteo Thun paid tribute to the Thonet chair, the modern chair classic, with four examples, each adorned with a different skirt. The name? Four Seasons. For the Moooi brand by Dutch designer Marcel Wanders, his countryman Maarten Baas created a series of Baroquely opulent upholstered leather armchairs with a name that underlines their macabre nature: the finish of the Smoke Dining Chairs is achieved by burning their wood parts. A Dada-like component, the element of surprise, sometimes even shock – often requires little more than a trace of humour or folly: these are the principal materials for design with irony. But at the sight of the large Salvation Army bags combined with torn T-shirts and knotted sheets put together by Coll-Part for his Canapé des rues, with feet made out of tin cans and beer bottles, or the Rag Chair by Tejo Remy (Droog Design, 1991) made out of scraps of fabric, even the most cynical of connoisseurs must choke his laughter. Despite the de-forming view that irony can present, these objects serve their function. In fact it is the very purpose they are made for that brings out the irony. Look for example at the reinforced concrete chair Grand Comfort-Sans Comfort-Dommage à Corbu by Stefan Zwicky (1980), or another, inflatable, tribute to Le Corbusier, the Sofina chair by the manufacturer Joker (1999); or the more-than-concrete “idea of chair” by Hildegard Erhard (1987), made out of cement bags and wood pallets; the flexible, but cement, chair Solid by Heinz H. Landes (1986), without forgetting the Consumer’s Rest-Stuhl by Stiletto Studios (1990). At the same time we are witnessing a delocalization of existing elements as in the Taxi Cab chair (2001) by Constantin Boym, which is reminiscent of the famous seat covers made out of wooden spheres used by New York taxi-drivers. Even furniture designed decades ago such as the Mae West’s Lips sofa by Salvador Dalì (1936), redesigned by Studio 65 in 1971 under the name of Bocca or the fur-lined tea cup by Meret Oppenheim, are based on ironic allusions related to their use. And what should be said about the typical hyperbole of pop culture behind the Bulb lamp by Ingo Maurer, a gigantic light bulb conceived – of course – in 1968 or the Moloch table lamp in 1971 by Gaetano Pesce, three meters high? Does irony wink at kitsch in Robert Venturi’s cuckoo clock for Alessi (1989) or in the mini-stool by Philippe Starck for Kartell which used to be manufactured in colors that blatantly emphasized the parody that it was, whereas now it has become available in the more discreet black or gold? Pop art (very similar to the culture of camp as described by Susan Sontag) generated objects that were almost exclusively brimming with irony, such as, an example among many, the dozens of inflatable Blow chairs by De Pas, D’Urbino and Lomazzi (1967). But often even the sexual
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DESIGN
references in everyday objects may be interpreted in an ironic key and there are many examples of this too. Sometimes the irony is generated by familiar objects used in a new context: a similar idea lay at the basis of the Milk bottle lamp by Tejo Remy (1991), made out of simple empty milk bottles; then there was the dresser You can lay down your memories (1991), made out of drawers without tracks found in a junkyard and held together by a solid piece of conveyor belt. Again we find designer Coll-Part who created a bookcase made of stacked pots open on one side, or invented the Bureau de bureaucrate (1994) featuring a single mattress resting upon the shock absorbers of a truck. Irony in everyday objects confers a human appearance not only to the way things are used, but to our daily life in general. It makes life far richer with the smile it provokes than purely functional objects can, reflecting and representing the fascinating contradictions that distinguish every facet of life. Irony helps to “strengthen the imagination of the user” as Matteo Thun once said, rightly so. Nothing more, nothing less. Volker Fischer Curatore del settore design del Museum für Angewandte Kunst di Frankfurt a/M, è professore onorario alla Hochschule für Gestaltung Offenbach a/M e autore di numerose pubblicazioni dedicate alla storia del disegno industriale e dell’architettura. The curator for the design section of the Museum für Angewandte Kunst in Frankfurt am Main, he is an honorary professor at the Hochschule für Gestaltung Offenbach am Main and the author of many publications dedicated to the history of industrial design and architecture.
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FAVELA CHAIR, FERNANDO E HUMBERTO CAMPANA, EDRA, (1991) 2003
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MOSCHINO: TO BE OR NOT TO BE, THAT’S FASHION
MOSCHINO: TO BE OR NOT TO BE, THAT’S FASHION
English text p. 76 CAMPAGNA STAMPA AUTUNNO-INVERNO / FALL-WINTER ADVERTISING CAMPAIGN, 1990-91
FASHION
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MOSCHINO: TO BE OR NOT TO BE, THAT’S FASHION di Maria Luisa Frisa
“Mettere, togliere, capovolgere, aggiungere, provare, scartare”. Si può mischiare la precisione con l’ironia, la pazienza con lo spontaneismo infantile, la meccanica del computer con l’oro del misticismo. Basta che la tecnica non rimanga fine a se stessa e così pure i sentimenti. […] Ironia, provocazione, umorismo sono una denuncia a non fare della progettazione una missione o peggio, una speculazione”. Frammenti da La “Ricetta”, testo di Mauro Foroni sulla filosofia Moschino
“Io sono come un cuoco, in un certo senso, potrei dire che eseguo ricette classiche, inventate dal tempo”. Moschino
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DISEGNO DI UN MANICHINO REALIZZATO PER LA MOSTRA “L'ABITO OLTRE LA MODA” / DESIGN OF A DUMMY MADE FOR THE EXHIBITION “L’ABITO OLTRE LA MODA”, PALAZZO FORTUNY, VENEZIA / VENICE, 1991
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Ideal dress = No Stress & No Dress In Love we trust! Dreams Can Come True I am still what I am! Love has no colours You can’t judge a girl by her clothes
Sono infiniti gli slogan coniati da Franco Moschino. Parte integrante della sua moda e, allo stesso tempo, commento fatto tirandosi fuori a guardare e a guardarsi. Elemento decorativo, ironico, critico. Esclamazione. Slogan che da una parte ironizzano sugli stereotipi del mondo della moda e sui suoi dictat, mentre dall’altra fanno riflettere sul senso di un sistema della moda che in quegli anni ottanta rampanti, esagerati, crudeli stava diventando centrale, non solo come fattore trainante dell’economia, ma anche come incredibile produttore di immagini e comportamenti. Stop to The fashion System, scrive sul disegno del volto di una donna Vampiro, deturpata da una grande X rossa, con la bocca gocciolante di sangue e con questo stesso titolo si diverte a scrivere anche un atto unico in onore del mondo dell’abbigliamento, che chiude con questa frase: “La Moda non c’è più, sono rimasti solo la gente ed i vestiti”. Pensando a Moschino e alla sua Factory, il gruppo di complici che hanno lavorato per lui e a quelli che continuano oggi a lavorare nel suo nome, in primis Rossella Jardini, il primo riferimento che viene in mente sono quelle compagine di artisti che riescono divertendosi, con intelligenza e straordinaria ironia, a prendere in giro e a smontare il mondo dell’arte e le sue regole. Moschino è stato capace di fare questo con la moda. Guascone e vorace, è riuscito a fare cose che oggi ai nostri occhi rivelano tutta la forza innovativa di un progetto che andava ben oltre l’immagine della moda corrente, di quel pret-à-porter, protagonista negli anni in cui si è trovato a lavorare. Moschino ribadisce la qualità intellettuale del suo lavoro nella moda. Quella che
gli permette di tenere insieme le cose più diverse senza cadere nel cattivo gusto. Non è difficile riconoscere la sua capacità critica e speculativa: la scelta ideale di quelli che
lo stilista ritiene i fautori dell’avanguardia storica del novecento, e la dichiarazione implicita di varie passioni utilizzate come materia di lavoro. Dall’abito-uniforme, da Chanel a Burberry, fra costumi discendenti dal classico teatro dell’arte, fino all’adozione di pizzi settecenteschi e di punti all’uncinetto. Dalla maschera di Arlecchino al fascino caleidoscopico dei patchwork, all’immortale carisma del denim. Ancora dai grandi orecchini bijoux ai capelli alla J.R. Ewing, dagli impenetrabili sguardi immancabilmente riparati da un nero paio di Persol all’umoristica passione per i repechage dei carré di Hermes o delle sahariane alla YSL, lo stile Moschino è uno statuto di libertà interpretativa. Una fuga dal ghetto dei trend epocali, ma anche dalla trappola delle stagionicollezioni e dalla mitologia dell’originale e dell’irripetibile riferito alla moda. Tutto torna nel fantastico Carosello di Moschino. In questa fantasmagoria il perfetto tailleur di Chanel diventa il punto di partenza per infinite variazioni. Ma insieme c’è anche l’ecologia, la difesa degli animali, la compassione per i bambini malati. Lui si diverte, con addosso una parrucca alla Marilyn, si fa fotografare ridente per una sua campagna pubblicitaria e poi:“It’s all so simple”, scrive su un definitivo abito a trapezio bianco. La tensione etica verso un mondo che si vorrebbe migliore non è una cosa malinconica e triste. È invece una mezza luna, una pizza, un punto interrogativo, un cuore… Uno “Smile!” un simbolo trasformato in un messaggio d’impegno universale.
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MOSCHINO: TO BE OR NOT TO BE, THAT’S FASHION by Maria Luisa Frisa
“Put on, take off, turn upside down, add, try, discard”. You can mix precision with irony, patience with infantile spontaneity, computer mechanics with golden mysticism. The important thing is that technique cannot be an end in and of itself, and the same goes for feelings. […] Irony, provocation, humour are a warning not to make design a mission or worse, speculation”. Fragments from La “Ricetta”, text by Mauro Foroni about the Moschino philosophy
“I am like a cook, in a certain sense, I might say that I prepare classic recipes, invented by time”. Moschino
Ideal dress = No Stress & No Dress In Love we trust! Dreams Can Come True I am still what I am! Love has no colours You can’t judge a girl by her clothes
COLLEZIONE PRIMAVERA-ESTATE / SPRING-SUMMER COLLECTION, 1987
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COLLEZIONE PRIMAVERA-ESTATE / SPRING-SUMMER COLLECTION, 1994
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Franco Moschino coined an infinite number of slogans. An integral part of his fashion, and a commentary as well, he stepped aside to look around and to look within. A decorative, ironic, critical element. An exclamation. Slogans that in part ironize on the stereotypes of the fashion world and its dictates, and in part spark a reflection on a fashion system that in the yuppie, exaggerated, ruthless Eighties was becoming pivotal, not only as a leading force in the economy, but also as an incredible producer of images and behavior. Stop to The Fashion System, he wrote on the drawing of a female Vampire’s face, scarred by a large red X, with her mouth dripping blood, and using the same title he had fun writing a one-act play in honor of clothing which ended with the phrase: “Fashion is dead, all that’s left are people and clothes”. Thinking of Moschino and his Factory, the group of accomplices who worked for him and who continue to work in his name today, first and foremost Rossella Jardini, the first reference that comes to mind are the companies of artists who enjoy making fun of the world of art and debunking its rules, with intelligence and a great deal of irony. Moschino did this with fashion. Hot-blooded and voracious, he did things that now reveal the innovative power of a project that reached beyond the image of going fashion, of the pret-à-porter that was so important during the years in which he worked. Moschino confirmed the intellectual quality of his work in fashion, which
allowed him to bring together the most divergent things without degenerating into bad taste. It is not hard to recognize his critical and speculative talent: the ideal choice of those whom
the fashion designer considered the makers of the historic twentieth-century avant-garde, and the implicit declaration of the many passions he used as material for his work. From the uniform-dress, from Chanel to Burberry, from costumes descending from the classic teatro dell’arte, to the adoption of eighteenthcentury lace and crochet. From Harlequin’s mask to the kaleidoscopic attraction of patchwork, to the immortal charisma of denim. And again from the large bijoux earrings to the J.R. Ewing hats, from the impenetrable eyes perennially hidden behind a pair of black Persols, to the humorous passion for recovering Hermes carrés or YSL-like safari jackets, the Moschino style is a statute for freedom of interpretation. A flight from the ghetto of epochal trends, but also from the trap of season-collections and the myth of fashion as original and unrepeatable. Everything is clear in Moschino’s Merry-go-round. In this phantasmagoria the perfect tailored suit by Chanel becomes the point of departure for an infinity of variations. But with it comes ecology, the protection of animals, the compassion for sick children. He laughs and enjoys it, and donning a Marilyn wig, has himself photographed for an advertising campaign and then: “It’s all so simple” he writes on a definitive white A-line dress. The ethical tension towards a world we wish was better is neither melancholy nor sad. On the contrary it is a half-moon, a pizza, a question mark, a heart… A “Smile!” a symbol transformed into a universal message of commitment. Maria Luisa Frisa Direttore del corso di laurea in design della moda all’Università Iuav di Venezia, è fashion curator della Fondazione Pitti Discovery di Firenze. Curatrice di mostre e volumi – dedicati agli sconfinamenti fra arti, moda, design, comunicazione –, dirige per Marsilio la collana Mode e dal 2003 lavora, fra l’altro, al progetto Laboratorium, un nucleo variabile di persone che sperimentano strategie estetiche differenti all’interno dei processi di comunicazione. Director of the undergraduate program of fashion design at the Università Iuav di Venezia, she is the fashion curator for the Fondazione Pitti Discovery in Florence. She curates exhibitions and books – dedicated to the interaction between art, fashion, design and communication – directs the Mode series for Marsilio and since 2003, among other things, is involved in the Laboratorium project, a variable group of people who experiment with different esthetic strategies within the processes of communication.
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CAMPAGNA STAMPA PRIMAVERA-ESTATE / SPRING-SUMMER ADVERTISING CAMPAIGN, 1985
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GIORGIO CAMUFFO IRONIA È AUTONOMIA
STUDIO CAMUFFO, POSTER, ANDY REMENTER, 2007
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GIORGIO CAMUFFO IRONY AND INDEPENDENCE English text p. 87
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GIORGIO CAMUFFO. IRONIA È AUTONOMIA di Maddalena Dalla Mura
Conosco Giorgio Camuffo da quasi due anni: persona curiosa, grafico, organizzatore e curatore di eventi, docente universitario e direttore del corso di laurea specialistica in comunicazioni visive e multimediali (facoltà di design e arti dell’Università Iuav di Venezia). Venticinque – forse più – anni di attività alle spalle, dagli inizi con Giulio Cittato alle esperienze con Oliviero Toscani nella Fabrica (Benetton) della prima ora, e da lì in giro per il mondo, per fissare infine a Venezia lo studio che porta il suo nome. Una base che offre, a chi sa sfruttarlo, un punto d’osservazione privilegiato. Con Giorgio non è concepibile esaurire l’intervista in una successione di domande e risposte. Per lui non si dà propriamente precedenza fra pensiero e parola, come pure fra pensiero e disegno: parola e disegno sono la forma del pensare nel suo farsi, un modo per esplorare e condividere un argomento, per confrontarsi, per sondare le possibilità. Se lo capisci allora ti diverti. Per questa intervista non l’ho neppure incontrato, ci siamo sentiti al telefono: a puntate, per suo desiderio, con una serie di appuntamenti mancati e gli appunti raccolti su tanti foglietti. (15 gennaio 2008, 15.05) Parliamo di ironia. “La grafica è ironica? Forse Venezia lo è. Secondo te sono ironico? Da giovane avevo un gruppo: Ironico lirico... Avrei sempre voluto fare il comico...” Ma la comicità è differente dall’ironia. “Sì, la comicità ha degli obblighi, deve fare ridere. L’ironia non deve fare ridere e forse è meno immediata. È un coltello che taglia e qualche volta va in profondità; può essere molto seria. La comicità è più “semplice”, è per un pubblico più ampio, è per tutti. Però è artefatta, deve essere progettata, calcolata nei tempi e modi giusti per far ridere.” L’ironia non può essere progettata? “Non so, mi pare più istintiva...” Di solito si dice che
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STUDIO CAMUFFO, ILLUSTRAZIONE / ILLUSTRATION, JOSHUA, 2007
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l’ironia è più “intelligente”, più sofisticata. È così? “È difficile dirlo. La comicità si rivolge a un pubblico, ne ha bisogno, è uno spettacolo. L’ironia è piuttosto una performance.” Anche la performance ha il suo pubblico. Intende dire che mentre fare il comico può essere una professione, non si può dire altrettanto per l’ironia? “È piuttosto... un’attitudine personale, un punto di vista. Non sopporto quelli che non guardano il mondo.” D’accordo, un’attitudine. Ma come si riconosce? Per esempio nella grafica o nel design: quali nomi potrebbe citare? Starck è ironico, secondo lei? “Mh...” Sottsass? Glaser? “Non è la prima cosa che direi di loro. No.” Allora Castiglioni? “Sì certo! Ma anche Alan Fletcher, Tibor Kalman, oppure Charles Eames: in tutto quello che ha fatto, oggetti, grafica, video, è stato ironico nel modo di lavorare, affrontando anche grandi temi ma con semplicità. Eames rompeva con la tradizione, mostrava altro...” Allora l’ironia permette di guardare le cose da un altro angolo? “Pensa a Duchamp, ecco, ora dico un’ovvietà ma se devo portare un esempio prenderei lui: basta spostare, capovolgere, aggiungere i baffi. È un modo di vedere il mondo, sì.” Quindi è particolarmente importante per chi progetta. “Adesso devo andare, ti richiamo fra un’ora.” Sì, certo... (16.30) Chiamo Giorgio. Allora, dove eravamo arrivati? “Sai, non so se l’ironia sia un metodo di lavoro, è piuttosto un modo di vivere. E deve essere sempre in riferimento a qualcosa...” Altrimenti non posso spostare, modificare. “Io nel mio lavoro ho sempre cercato questo: di andare in un’altra direzione, di generare uno scarto, che può essere a volte anche solo un colore, una forma.” L’ironia è una risorsa nel vostro settore? “Non so se oggi sia richiesta nei lavori cosiddetti creativi. Però sicuramente aiuta la creatività, ed è un’arma fondamentale per comunicare: le persone vogliono divertirsi ma anche essere stimolate.” Un’ora fa ha detto che per l’ironia il pubblico non è importante... “Attenta! Non ne ha bisogno. Non si esaurisce con uno scoppio di risa, deve lasciare un certo gusto in bocca. Per quel che mi riguarda, ciò che mi interessa non è semplicemente fare un bel progetto grafico. Voglio costantemente mostrare – al committente e a chiunque guarderà quel che ho fatto – che si può andare in una direzione differente, che si può orientare l’attenzione verso quello che non è il dato più immediato, scontato, che ci muoviamo in un mondo più ampio.” È un atto critico? Aiuta a relativizzare ciò che ci circonda, a mettere in luce altre facce? “Sì, devo analizzare, guardare e proporre un taglio, una visione.” Come fa con i progetti/periodici “VINS” e “Sugo”. “Sono fra quelli a cui tengo maggiormente. VINS, il nome stesso è un’ironia. Tempo fa un amico americano ospite in un mio appartamento ha lasciato scritto sul muro: “Venice is not sinking”, Venezia non sta affondando. Ho pensato: se lo ha scritto allora è vero. Così ho ideato questa rivista che offre una visione totalmente inedita di Venezia. Tutta disegnata a mano, con testi e opere di molti giovani autori, veneziani o che di Venezia sono appassionati.” Anche “Sugo” è un progetto ricco di contenuti inediti, “d’autore”. “Il sottotitolo è “Rivista di scritture indecise”. Indecise perché non ci sono certezze. Ironia è anche un modo per non prendersi sul serio.” Allora c’è ironia nel panorama contemporaneo? “Ora generalizzo, ma in Italia non molta. Non nella grafica; l’unico ironico poteva essere Cerri ma ha abdicato... Certo è che anche l’imprenditoria non esprime grande slancio.” E fra i giovani? “Sicuramente ci sono eccezioni, ma mi sembra che i grafici giovani siano poco ironici, hanno delegato tutto alla forma tralasciando il contenuto. Mi interessano di più gli illustratori, sono più vivi, più autonomi. Ecco: ironia è autonomia.” È vero. (17 gennaio 2008, 8.56) “Ciao, sto andando a fare lezione.” Parlerà di ironia? “No, il corso è sugli oggetti magici: la magia che cambia il mondo!” Ma sull’ironia, non avrà cambiato idea, spero... “Stamattina ho chiesto a mia moglie se sono ironico. Lei mi ha detto “sì”. Le ho chiesto perché, ma lei ha risposto “non so”. Tu cosa dici?” Si ricomincia...
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VINS, PERIODICO / MAGAZINE, 2007
SUPER GIORGIO, ILLUSTRAZIONE / ILLUSTRATION, JOSHUA, 2007
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GIORGIO CAMUFFO. IRONY AND INDEPENDENCE by Maddalena Dalla Mura I have known Giorgio Camuffo for almost two years: he is a curious man, a graphic designer, an organizer and curator of events, a university professor and the director of the graduate degree program in Visual and Multimedia communications (faculty of design and Arts at the Università Iuav di Venezia). Twenty-five – maybe more – years of activity, from his early days with Giulio Cittato to his experience with Oliviero Toscani in the early days of Fabrica (Benetton), and globe-trotting after that, finally settling down in Venice in the studio that bears his name. A base that offers a privileged observation point for those who know how to make the best of it. It is inconceivable that an interview with Giorgio be conducted as a series of questions and answers. With him there is no real priority between thought and word, or between thought and drawing: word and drawing are the same form of thought in his work, a way to explore and share an issue, to discuss it, to look into the possibilities. Once you figure this out, then it’s fun. I didn’t even meet him for this interview, we talked over the phone: episodically, at his request, with a series of missed appointments and notes scribbled on a pile of scraps of paper. (January 15 2008, 15.05) Let’s talk about irony. “Is graphic design ironic? Maybe Venice is. Do you think I’m ironic? When I was young I had a band: Ironico lirico… I always wanted to be a comedian…” But comedy is different from irony. “Yes, comedy has obligations, it has to make you laugh. Irony doesn’t have to make you laugh and maybe it is less obvious. It is a sharp knife that sometimes cuts deep; it can be very serious. Comedy is “simpler”, it is made for a wider audience, it is for everyone. But it is artificial, it has to be designed, calculated with the right timing and the right approach to make people laugh.” Doesn’t irony need to be designed? “I don’t know, it feels more instinctive…” People usually say that irony is more “intelligent”, more sophisticated. Is that true? “That’s hard to say. Comedy is addressed to an audience, it needs it, it’s entertainment. Irony is more of a performance.” OK, an attitude. But how do you recognize it? For example in graphics or design: who would you refer to? Do you think Starck is ironic? “Mh...” Sottsass? Glaser? “That’s not the first thing I would say about them. No.” Then Castiglioni? “Of course! And Alan Fletcher too, Tibor Kalman, or Charles Eames: in everything he did, objects, graphic design, videos, the way he worked was ironic, he addressed important themes but did it with simplicity. Eames departed from tradition, he showed other things….” Then irony allows you to look at things from a different point of view? “Just look at Duchamp, now I am going to say the obvious, but if I have to come up with an example, I would take him: just shift, turn upside down, add a mustache. It’s a way of looking at the world, yes.” So it is particularly important for designers. “I have to go now, I’ll call you back in an hour”. Yeah, sure… (16:30) I call Giorgio. So, where were we? “You know, I am not sure if irony is a working method, I think it’s a way of life. And it must always refer to something…” Otherwise I cannot shift, modify. “In my work that is what I have always sought to do: move in a different direction, generate a displacement, which can sometimes be in a color, a form.” Is irony a resource in your field? “I don’t know if it is necessary in so-called creative work. But it certainly is helpful to creativity, it is a fundamental weapon in communication: people want to be amused but they also want to be stimulated.” An hour ago you said that an audience is not important to irony… “Careful! It doesn’t need it. It does not end in laughter, it has to leave a certain taste in your mouth. As far as I am concerned, I am not interested in just a good-looking graphic design project. I always want to show – to my client and everyone else who will see what I do – that you can take a
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SUGO #3, PERIODICO / MAGAZINE, 2007
different direction, that you can focus attention on what is not the most immediate, given, fact, that we live in a wider world.” Is it a critical act? Does it help to relativize what surrounds us, to highlight other factors? “Yes, I have to analyze, to look at and to offer a point of view, a vision”. Like you do in your “VINS” and “Sugo” projects/magazines. “Those are the ones I am most fond of. VINS, the name itself is ironic. Some time ago an American friend of mine was staying in my apartment, and he left this written on the wall: “Venice is not sinking”. I thought: if he wrote it, it must be true. So I conceived this magazine to offer a totally original vision of Venice. It’s all drawn by hand, with writings and works by very young authors, who are Venetian or in love with Venice.” “Sugo” is also a project full of original, artistic content. “The subtitle of the magazine is “A review of undecided writings”. Undecided because there are no certainties. Irony is also a way of not taking yourself too seriously.” Then is there irony in our contemporary world? “I am generalizing now, but not too much in Italy. Not in graphic design; the only ironic one could have been Cerri, but he abdicated… Of course industry doesn’t express particular dynamism either.” And young people? “There are definitely exceptions, but I feel that young graphic designers are not very ironic, they have delegated everything to form and neglect content. I am more interested in illustrators, they are more vibrant, more independent. There: irony is independence”. That’s true. (January 17 2008, 8:56) “Hi, I’m going to class.” Will you talk about irony? “No, the course is about magical objects: magic that changes the world!” But you haven’t changed your mind about irony, I hope… “This morning I asked my wife if I was ironic. She said “yes”. I asked her why, but she answered “I don’t know”. What do you say?” Here we go again…. Maddalena Dalla Mura Laureata in conservazione dei beni culturali all’università degli studi di Udine nel 2000, sta svolgendo un dottorato di ricerca in design del prodotto e della comunicazione presso lo Iuav di Venezia. Alterna alle collaborazioni con quotidiani e riviste, le attività di ricerca documentaria e di redazione per case editrici, istituzioni e periodici specializzati. A graduate in the conservation of the cultural heritage from the Università degli Studi in Udine, she is currently pursuing her Ph.D. in product design and communication at the Università IUAV in Venice. She alternates her collaboration with newspapers and magazines with her work in documentary research and editing for publishers, institutions and specialized reviews.
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FIBER EVOLUTION
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FIBER EVOLUTION English text p. 92
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DESIGN
FIBER EVOLUTION design: Marc Sadler
Spirito innovativo, passione per la ricerca e sperimentazione di nuovi materiali e tecnologie sono alla base della collaborazione fra Marc Sadler e Foscarini, che ha dato vita a numerosi modelli di successo, fra cui la lampada Mite e Tite – Compasso d’oro 2001 – e la serie Twiggy. Oggi nasce l’evento Fiber Evolution: installazioni speciali realizzate da Marc Sadler componendo modelli della collezione Foscarini. Con Fiber Evolution l’oggetto seriale entra in collegamento con il mondo del progetto, dando forma ed espressione alla naturale predisposizione delle lampade Foscarini ad essere impiegate, anche in composizione, per caratterizzare spazi importanti. Grandi sculture luminose che esaltano e sviluppano la forte personalità di ogni modello che le compone, perfette per allestire una scenografia di emozioni e trasformare uno spazio in un’esperienza da ricordare. Foscarini: lampade per comporre la vostra scenografia. Innovative spirit, passion for research, development of new materials and technologies are the basis of the collaboration between Marc Sadler and Foscarini, which ended in a number of successful models including the Mite and Tite lamps - Compasso d’Oro 2001 - and the Twiggy series. Now comes a new event; Fiber Evolution: special installations created by Marc Sadler with lamps from the Foscarini Collection. In Fiber Evolution standard objects become part of the contract world, giving form and expression to Foscarini lamps’ natural inclination to be used in large-scale compositions, to characterize important spaces. Large lighting sculptures that exploit and develop the strong personality of every model which is part of them: they are perfect to create emotional scenarios and to turn a space into an experience to remember. Foscarini: lamps to create your scenario.
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FIBER EVOLUTION, MARC SADLER, KÖLN-STOCKHOLM, 2008
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ARCHITECTURE
SMILING ABOUT MODERN ARCHITECTURE: HOW TO LIVE IN A FLAT English text p. 101
An improved dinner-waggon
ARCHITETTURA
SORRIDERE DELL’ARCHITETTURA MODERNA: HOW TO LIVE IN A FLAT
Bungaloid
the bungalow kitchenette
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SORRIDERE DELL’ARCHITETTURA MODERNA: HOW TO LIVE IN A FLAT di Italo Lupi
Londra millenovecentotrentasei: nell’atrio del Finsbury Health Centre, su un murale, forse attribuibile a Eric Ravilious, campeggia la scritta ARIA PULITA, NOTTE E GIORNO. È la reazione della modernità all’immutabile senso di vecchio, di chiuso, di disordine delle modeste case della piccola borghesia inglese. Il trionfo dell’igiene, della salute, di una razionalità che, per forza, si costringe nei pochi metri disponibili delle nuove abitazioni similrazionaliste. C’è molta voglia di abbandonare quelle casette tutte uguali che George Orwell, nel suo “Coming up for Air”, così descriveva: Era una spaventosa mattina di gennaio col cielo sporco, di un grigio giallastro. […] Dal quadratino di finestra del bagno potevo vedere le dieci iarde per cinque di erba con una siepe di ligustro attorno […] Dietro ogni casa di Ellesmore Road c’è lo stesso giardino interno, ci sono gli stessi ligustri, la stessa erba. La nostra sala da pranzo è un ambientino di sei iarde per cinque, forse anche di cinque per tre, e la credenza giapponese di legno di quercia … non lascia libero molto spazio […] Sapete come queste strade appestino ovunque i sobborghi […] sempre tutte uguali, lunghe, lunghe file di casette semistaccate […] una uguale all’altra […] La facciata con decorazioni a stucco, il cancello che puzza di creosoto, la siepe di ligustro, la porta di ingresso dipinta di verde […] In una di queste, […] un tipo antisociale, che probabilmente finirà all’ospizio, ha verniciato la porta di blu, anziché in verde” .* In quegli stessi anni William Heath Robinson ha appena abbandonato la penna sottile con cui ha splendidamente disegnato fiabe di Perrault e Rabelais, e con magistrale minuzia ha descritto gli alberi e la natura incantata per i sogni shakespeariani delle Notti di Mezza
The aquarium work-table
Chaste designs in chromium
Chromium comfort
The chromium shaving chair
Disadvantage of poor steel
Modernity in bedroom furniture
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Washing day
Estate. Abbandona una maniera illustrativa che ancora risente degli influssi liberty di Aubrey Beardsley e si mette a guardare la nuova realtà con un tratto che le corrisponde. Londra si espande, l’architettura si rinnova in qualche significativo episodio di modernità, i manifesti della metropolitana di Paul Nash, Oleg Zinger, McKnight Kauffer spingono i londinesi a cercare casa a Hampton Court, residenze nei nuovi quartieri di Kew Gardens, a muoversi verso periferie che tengono conto di un nuovo modo di abitare. Robinson conosce le architetture di Lubetkin & Tecton per lo zoo di Regent Park, quelle di Welch & Iander per le stazioni dell’Underground e ha visto le radio in bachelite di Wells Coats; questa edilizia e questi oggetti ricompaiono nei suoi disegni così sintetici, così lineari, così attenti. E li guarda con il sospetto tipico di chi deve ironizzare su questa nuova società nel momento del brevissimo regno di Edoardo VIII. Il suo occhio è un registratore attentissimo che analizza e irride nuovi modi e nuovi atteggiamenti: terrazzi, balconi, aggetti, economia degli spazi, i tappeti geometrici, i costanti mobili in tubolare cantilever, i bagni che scompaiono, i giardini pensili che sporgono dalle finestre, le persone sospese nelle piccole stanze stereometriche, la nuova necessità dell’isolamento acustico, l’igiene dei nuovi servizi. E da tutto questo tenta di difendersi con l’invenzione di nuovi marchingegni acrobatici, di stantuffi, di tubi che nascondono whisky, di mobili che spariscono, di nuove scomodissime comodità in una parodia della modernità, quasi una anticipazione di molte macchine inutili munariane. E poi la impeccabile descrizione dei personaggi: i ricchi costretti nei nuovi spazi, nei piccoli spazi di una più estesa democrazia, i poliziotti eleganti e impassibili, le camerierine in nero come le ha tramandate la letteratura e una celebre fotografia di quegli anni. È la modernità che irrompe nel paese delle impeccabili tradizioni, dove però tutto è, si può dire, più domestico che sul continente: i dipinti di William Roberts o di Stanley Spencer sono dei ritratti perfetti dell’Inghilterra post-Vittoriana, ma non sono Picasso, non sono Sironi, non sono De Chirico. E così la simpatia dickensiana con cui Robinson guarda l’umanità che popola i suoi disegni, corrisponde perfettamente al volto del suo autore così come è ritratto, in una famosa fotografia, con il suo gatto in grembo, lo sguardo dolce, il vestito appropriato e l’arredo modesto della sua casa. Un esempio di civile, umana comprensione. Che Dio strabenedica l’Inghilterra.
SMILING ABOUT MODERN ARCHITECTURE: HOW TO LIVE IN A FLAT by Italo Lupi London nineteenthirtysix: the lobby of the Finsbury Health Centre is dominated, on a mural that may perhaps be attributed to Eric Ravilious, by the slogan CLEAN AIR, NIGHT AND DAY. This is the reaction of modernism to the immutable feeling of age, claustrophobia, and disorder in the modest homes of the English middle class. The triumph of hygiene, health, and rationality that for obvious reasons must be constrained within the few meters of space available in the new rationalist-like homes. There is a powerful urge to abandon these houses that all look alike, as described by George Orwell in “Coming up for Air”: It was a beastly January morning, with a dirty yellowish-grey sky. […] Down below out of the little square of bathroom window I could see the ten yards by five of grass
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A bed dining-table for
A bachelor’s bed-sitting-room
with a privet hedge around it. […] There’s the same back garden, same privets, and same grass behind every house in Ellesmere Road, […] Our dining room, like the other dining rooms on Ellesmere Road, is a poky little place fourteen feet by twelve, or maybe it’s twelve by ten, and the Japanese oak sideboard… doesn’t leave much room […] You know how these streets fester all our inner-outer suburbs […] Always the same, long, long rows of little semi-detached houses […] as much alike as council houses […] The stucco front, the creosoted gate, the privet hedge, the green front door […] At perhaps one house in fifty, some anti-social type who’ll probably end up in the workhouse has painted his front door blue instead of green.” * Those were the years when William Heath Robinson had just abandoned the subtle pen with which he created the splendid drawings for the fairy tales by Perrault and Rabelais, and with masterly meticulousness illustrated the enchantment of trees and nature in Shakespeare’s Midsummer’s Night dreams. He abandoned a manner of illustration still influenced by Aubrey Beardsley’s Liberty style and began to look at the new reality with a corresponding style. London was growing, a new architecture was emerging in several significant modern constructions, the posters for the Subway by Paul Nash, Oleg Zinger, McKnight Kauffer inspired Londoners to look for housing in Hampton Court, homes in the new district of Kew Gardens, to move towards the suburbs which catered to a new lifestyle. Robinson was familiar with the architecture of Lubetkin & Tecton for the Regent Park zoo, of Welch & Iander for the Underground stations and he had seen the bakelite radio by Wells Coats; these buildings and these objects appear in his exquisitely synthetic, linear, meticulous drawings. And he looks at them with the typical mistrust of someone who must ironize about this new society during the short-lived reign of Edward VIII. He meticulously recorded, analyzed and made fun of new lifestyles and new attitudes: terraces, windows, overhangs, economy of spaces, geometric rugs, the ubiquitous tubular cantilever furniture, disappearing bathrooms, gardens hanging out of windows, people suspended in small stereometric rooms, the new need for acoustic insulation, the hygiene of new services. And he attempted to defend himself with the invention of acrobatic new devices, of pistons, of tubes that concealed whisky, disappearing furniture, new and extremely uncomfortable commodities in a parody of modernism, an anticipation somehow of many of Munari’s “useless machines”. And then the impeccable description of the characters: the rich constrained into new spaces, into the smaller spaces of a wider democracy, the elegant and unflappable policemen, the chambermaids dressed in black as brought to us by literature and by a celebrated photographer of the time. Modernity erupts into a country with impeccable traditions, where everything is, one might say, more domestic than on the continent: the paintings of William Roberts or Stanley Spencer are perfect portraits of a post-Victorian England, but they are not Picasso, they are not Sironi, they are not De Chirico. And so the Dickensian sympathy with which Robinson looks at the humanity that populates his drawings, corresponds perfectly to the face of its author as he is portrayed in a famous photograph, with his cat on his lap, a kind look in his eyes, a good suit and the modest furniture in his house. An example of civil, human comprehension. May God bless England. *G. Orwell, Una boccata d’aria, Mondadori (dal testo di Marialuisa Reggiani, La casa degli inglesi, in “Abitare”, agosto 1981) *G. Orwell, Una boccata d’aria, Mondadori (from the text by Marialuisa Reggiani, La casa degli inglesi, in “Abitare”, august 1981) Italo Lupi Architetto, si occupa di progetti grafici e di allestimenti. Per sei anni art director di “Domus” e poi, fino al 2007, direttore e art director di “Abitare”. Lavora allegramente a Milano. Italo Lupi is an architect who works in the field of graphic and exhibition design. He served as art director of “Domus” for six years, and later, through 2007, as director and art director of “Abitare”. He works happily in Milan.
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GIULIO IACCHETTI
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GIULIO IACCHETTI English text p. 111
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GIULIO IACCHETTI di Ali Filippini
Giulio Iacchetti si occupa di industrial design dal 1992. All’attività di progettista alterna l’insegnamento presso numerose università e scuole di design, in Italia e all’estero. È stato insignito con diversi premi internazionali. Con Matteo Ragni nel 2001 si aggiudica il Compasso d’oro con la posata multiuso biodegradabile Moscardino, oggi parte dell’esposizione permanente del design al MoMA di New York. Per Coop ha ideato il progetto “Design alla Coop” e attualmente è incaricato del coordinamento del progetto Coop Eureka. Lavora in più settori, collaborando con aziende di livello internazionale: da Bialetti a Caimi Brevetti, da Mandarina Duck a Thonet Vienna. Vorrei che mi parlassi di questa tua prima lampada per Foscarini. È difficile ascrivere Tropico alla categoria delle lampade tout court. Si tratta in realtà di un sistema modulare che offre infinite possibilità di costruire paralumi di forme e dimensioni diverse. Il tutto riducibile in confezioni ridotte nel peso e nelle dimensioni. Questa è la tua prima collaborazione con l’azienda. Ti è stato assegnato un brief di progetto o ti sei mosso liberamente? Per Tropico mi sono mosso in completa autonomia, conoscendo bene il fulcro attorno al quale si muove la ricerca di Foscarini. Il tutto si può riassumere in un duplice pensiero: “una lampada deve essere bella anche quando è spenta” e “ricerca di nuovi sistemi e materiali”. Nel considerare
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MOSCARDINO, FORCHETTA-CUCCHIAIO / FORK-SPOON, PANDORA DESIGN, 2000
MOLLETTA DA BUCATO / CLOTHES PAG, COOP, 2005
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questi principi-guida ho aggiunto una grande flessibilità di utilizzo e di dimensioni, ma soprattutto un riferimento forte al tradizionale lampadario di Murano. I componenti del sistema Tropico non sono che una reinterpretazione contemporanea dei piccoli pendenti in vetro molato. Da dove inizi per disegnare la luce? Tutto si concretizza attorno alla sorgente luminosa, che è l’unica invenzione tecnologica che non smette mai di stupirmi. Il progetto della lampada si misura nel disegno del paralume, il mezzo che argina la luce e modella l’ombra. Ho cercato di mantenere nel mio progetto la qualità decorativa che distingue i prodotti Foscarini. La valenza scultorea degli oggetti di Marc Sadler, Patricia Urquiola, Luca Nichetto mi hanno fornito indicazioni utili per addentellare il mio progetto alla famiglia dei prodotti Foscarini. Sei considerato un capofila della nuova generazione dei designer italiani, quasi un “padre” per i designer emergenti che probabilmente hanno trovato nella tua storia personale, e professionale, qualcosa che serve loro da sprone. Che consigli offri al giovane designer? Nelle attività di gruppo a cui ho dato vita, non ho fatto altro che raccogliere attorno a me professionisti appartenenti alla mia generazione che da tempo osservavo con attenzione. Per tanti anni ho percorso strade solitarie e lontane dal design system; a un certo punto ho sentito l’esigenza di confrontarmi con chi stimavo. Il progetto “Design alla Coop”, ad esempio, è stata un’esperienza unica che ha lasciato un segno in chi ne è stato coinvolto, e al tempo stesso ha contribuito a far crescere l’interesse per il design democratico. Per quanto riguarda i consigli: li ho sempre mal sopportati e cerco di non produrmi nel ruolo del dispensatore di saggezza. A tutti i ragazzi che mi chiedono un parere su cosa fare suggerisco di non ascoltare consigli: se un progettista è tale, obbligatoriamente deve disegnare in modo originale ed innovativo il suo percorso professionale, non ha molto senso seguire strade già battute. Guardando ai tuoi oggetti emerge una certa ironia di fondo, comunque una componente un po’ ludica che appartiene certamente alla tradizione del grande design italiano. Quanta importanza ha nella tua ricerca progettuale questo aspetto? Forse più che dall’ironia, che comunque vena tanti miei progetti, sono attratto dalla potenzialità autonarrante degli oggetti, cioè la capacità di raccontare storie, di tracciare percorsi che partono dal risolvere una funzione per raggiungere attitudini non previste. Una fusione di significati che può tradursi in un messaggio dalla valenza politica come nel formaghiaccio Lingotto dove l’acqua, sottoforma di cubetti di ghiaccio, è equiparata all’oro; oppure nello spremiagrumi San Peter Squeezer 8x1000, dove la riproduzione stilizzata della cupola di San Pietro funge da spremiagrumi e la piazza da contenitore per il succo… il rimando al versamento volontario dell’8x1000 per la Chiesa è del tutto evidente. L’“utile” è al centro dei tuoi progetti, anche quando sembra mascherato dal “gioco”: ti occupi indistintamente di design di accessori, oggetti per la casa, arredamento, c’è una tipologia che preferisci e perché, ma soprattutto che tipo di ricerca sta alla base di tutti questi aspetti? È veramente l’utile al centro dei miei progetti? È da tempo che la questione della funzione non è il mio primo interesse quando progetto. Al mondo esistono milioni di oggetti prodotti dall’ossessione per la performance. Sento la necessità di andare oltre. Allora, fatta salva la funzione, mi interesso dei margini, dei dettagli evocativi che rimandano ad altri significati. Questo approccio che indica un come e non un cosa mi lascia totalmente libero e pronto ad occuparmi di qualsiasi tipologia merceologica.
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TROPICO, LAMPADA / LAMP, FOSCARINI, 2008
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GIULIO IACCHETTI by Ali Filippini Giulio Iacchetti has worked in industrial design since 1992. He alternates his work as a designer with periods of teaching in many Italian and foreign universities and design schools. He has won many international awards. In 2001 he won the Compasso d’oro with Matteo Ragni for the Moscardino biodegradable spork, which is now in the permanent design collection at the MoMA in New York. For Coop he conceived the “Design alla Coop” project and is currently responsible for coordinating the Coop Eureka project. He works in many sectors, collaborating with international companies: from Bialetti to Caimi Brevetti, from Mandarina Duck to Thonet Vienna. Tell me about your first lamp for Foscarini. It is hard to fit Tropico into the category of ordinary lamps. It is actually a modular system that offers infinite possibilities for building lampshades in different sizes and shapes. The whole thing can be reduced into small and lightweight packages. This is your first collaboration with the company. Were you assigned a brief or did you work independently? On Tropico, I worked totally independently, basing myself on a good understanding of the focus of Foscarini’s research. It may be summarized in the following two premises: “a lamp must be beautiful even when it is turned off ” and “the search for new systems and materials”. As I assessed these guiding principles, I added significant flexibility of use and dimensions, and in particular a powerful reference to the traditional Murano chandelier. The components of the Tropico system are none other than a contemporary reinterpretation of the small polished glass pendants. What do you begin with to design light? It all coalesces around the lighting source, which is the only technological invention that never ceases to amaze me. The design of a lamp is measured by the design of the shade, the means to control the light and shape the shadow. I wanted my design to maintain the decorative quality that distinguishes Foscarini products. The sculptural quality of the objects by Marc Sadler, Patricia Urquiola, Luca Nichetto provided me with useful ideas on how to fit my project into the family of Foscarini products. You are considered a leader of the new generation of Italian designers, something of a “father figure” for up-and-coming designers who have probably found something stimulating to them in your personal and professional history. What advice can you give young designers? In the working teams that I have formed, I have done nothing more than gather around me professionals from my own generation whom I have been observing carefully for some time. For years I walked down solitary roads far from the design system; at a certain point I felt the need to dialogue with people I respected. The “Design alla Coop” project, for example, was a unique experience which made its mark on the people who participated, and at the same time contributed to increasing the interest in democratic design. As far as advice is concerned: I have always been wary of it and try not play the role of dispenser of wisdom. My advice to kids who ask me what to do is to never take advice: if a designer is just that, he must necessarily sketch out his own professional career path in an original and innovative way, it doesn’t make much sense to go down previously drawn paths.
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Looking at your objects, they display a certain sense of irony or at least a playful element which certainly belongs to the tradition of great Italian design. How important is this factor in your design research? Rather than irony, which does appear in many of my projects, I am attracted by the self-narrating potential of objects… by their ability to tell stories, to trace directions that start with the solution to a function and achieve unexpected attitudes. A fusion of meanings that can translate into a message with political significance, such as the Lingotto ice tray where water, in the form of an ice-cube, becomes equivalent to gold; or the Saint Peter Squeezer 8x1000, where the stylized reproduction of the dome of Saint Peter’s becomes the squeezer and the square the container for the juice… the reference to the voluntary donation of 8/1000 of your taxes to the Church is perfectly evident. “Usefulness” is at the center of your projects, even when it is camouflaged as “play”; you indistinctly design accessories, household items, furniture, is there a typology you prefer and why, but above all, what kind of research underlies all these aspects? Is usefulness really at the center of my projects? It is a long time since function has been my primary interest in design. There are millions of objects in the world produced by the obsession of performance. I feel the need to move beyond that. So, given the function, I am interested in the margins, in the evocative details that refer to other meanings. This approach, which indicates a how rather than a what, leaves me free and open to work on any market typology.
LINGOTTO, VASCHETTA FORMA GHIACCIO / ICE MAKER, F.LLI GUZZINI, 2003
Ali Filippini Nato nel 1973, è laureato in design al Politecnico di Milano. Partecipa a vari progetti di ricerca e collabora con alcune riviste di settore, anche on-line, occupandosi in particolare di industrial design. Svolge attività didattica presso l’Università Iuav di Venezia e l’università Iulm di Milano. Born in 1973, he graduated in design from the Politecnico di Milano. He has participated in a number of research projects and collaborates with several trade an web magazines, particularly on the subject of industrial design. He teaches at the IULM University and at the Università Iuav di Venezia.
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ST.PETER - 8xMILLE, SPREMIAGRUMI DA COCKTAIL / COCKTAIL SQUEEZER, PANDORA DESIGN, 2007
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DESIGN
BLOB KARIM RASHID
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ARTE
PAUL KLEE E L’IRO TRA STORIA E SOCIETÀ
ART
PAUL KLEE AND IRONY: FROM HISTORY TO SOCIETY
RONIA:
ANCHE “LUI” DITTATORE!, PAUL KLEE, PRIVATE COLLECTION, 1933
English text p. 120
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ARTE_ART
PAUL KLEE E L’IRONIA: TRA STORIA E SOCIETÀ di Tulliola Sparagni
Tra il 1903 e il 1905 Paul Klee, non ancora trentenne, realizza la sua prima opera perfettamente compiuta. Si tratta di un ciclo di 10 incisioni intitolate programmaticamente Invenzioni, Opus I. Con questi fogli Klee si presenta per la prima volta al pubblico nel 1906, l’anno in cui scopre e si entusiasma per il Candide di Voltaire. Scettico sulle sue capacità pittoriche, oppresso dalla paura di appartenere ad una generazione di “epigoni”, il giovane artista sceglie un “basso profilo”, preferendo il piccolo formato, il bianco e nero del disegno e della grafica, la vena satirica e caricaturale, esemplificata dalla rivista “Simplizissimus”, sulla quale amerebbe vedere pubblicate le sue creazioni. Nelle Invenzioni Klee si rappresenta nelle vesti di un Comico, una “maschera come opera d’arte, dietro di essa l’uomo” (Diari, 1903, 517), ma ancor più chiaro è l’autoritratto di Perseo, 1904, 12 che reca come sottotitolo L’ironia ha sconfitto il dolore. L’uomo barbuto dall’espressione ironica fronteggia infatti la testa mozzata di Medusa, la donna, qui come in altri fogli del ciclo, vista come nemica ed estranea. In modi volutamente sgraziati, anticlassici e fintamente semplici, Klee prende in giro la società e i suoi riti, ed insieme i grandi temi del simbolismo e della decadenza fin de siècle, dalla femme fatale, all’eroe artista, dall’eros all’aristocrazia. In attesa di proclamarsi pittore – e questo avverrà solo nel 1914 con il viaggio in Tunisia e la scoperta della luce e dei colori mediterranei – Klee afferma il primato del disegno e non casualmente, negli anni precedenti il suo ingresso nel circolo del Cavaliere Azzurro di Wassily Kandinsky e Franz Marc (1911), è ancora un’opera in bianco e nero a coinvolgerlo profondamente. “Progetto di illustrazioni: Candide di Voltaire offre innumerevoli allettamenti, tanto è ricco di occasioni da sfruttare… In Candide c’è qualcosa
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CANCELLATO DALLA LISTA / DELETED FROM THE LIST, PAUL KLEE, BERN, ZENTRUM PAUL KLEE, 1933
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ARTE_ART
di superiore che mi affascina, ed è il modo di esprimersi di questo francese, così preciso nella sua ammirevole concisione” (Diari, 1909, 865). Per dare corpo al pensiero illuminista di Voltaire e sottolineare la pungente ironia del filosofo sul “migliore dei mondi possibili”, Klee crea uno stile figurativo completamente nuovo che abbandona ogni riferimento naturalistico. Figure lunghe, nude e magre come insetti (perché no? lombrichi) sono tratteggiate con linee nervose e sciolte che sottolineano l’inconsistenza dei personaggi e del loro mondo governato da ingiustizia e stupidità. Per entrambi, scrittore e illustratore, solo l’ironia può salvare dal dolore e dal pessimismo. Negli anni successivi alla prima guerra mondiale, l’ascesa di Klee nel panorama artistico tedesco e il decennio di insegnamento al Bauhaus ispirano all’artista nuove direzioni creative e figure come angeli e saltimbanchi, paesaggi come quelli della Sicilia e dell’Egitto si affermano come dominanti nella sua opera. “Lirico-astratto” è così l’immagine che riassume l’artista nel periodo di sua massima affermazione. Tuttavia con quei precedenti non stupisce che a
distanza di molti anni sia ancora al disegno satirico che Klee affidi uno dei suoi più taglienti esercizi di ironia, penetrando profondamente nel commento delle vicende politiche e
sociali che lo attorniano. Nel 1933 l’artista compone una serie di oltre 200 disegni a matita in cui afferma di “aver disegnato la rivoluzione nazionalsocialista”. Abbandonato il chiaro e preciso disegno a penna e inchiostro del periodo Bauhaus, ora Klee si abbandona grazie al tratto morbido della matita, a un segno arruffato e libero, privo di contorno che ricorda molto da vicino le illustrazioni per il Candide e che si differenzia non poco dalle esemplificazioni pedagogiche degli anni precedenti. I temi trattati da questo gruppo omogeneo di fogli derivano dalla più pressante e pesante attualità: militarismo, persecuzione, indottrinamento, antisemitismo, naturismo. Protagonisti della matita di Klee si affacciano così barbari, guerrieri, schiavi, bambini bellicosi, animali da circo, giganti e nani, mentre sotto l’oratore che arringa la folla con il saluto nazista si agita una Folle festa (1933, 314). Costretto dal regime nazista a lasciare l’insegnamento e ad abbandonare la Germania per ritirarsi nella natia Berna, Klee adotta la parodia come strategia creativa e ci lascia una serie di immagini di cronaca politica che, velate e complesse, non hanno però nulla da invidiare come durezza ai taglienti disegni politici di un Grosz sulle miserie della repubblica di Weimar. Lo schivo e riflessivo Klee, uno dei grandi maestri della grammatica astratta, il mistico che inventa nuove cosmogonie, ci appare ora sotto una veste diversa, a suo modo come erede della satira politica di Goya e Daumier, e commentatore disincantato, ma non per questo meno feroce, del suo mondo circostante.
PAUL KLEE AND IRONY: FROM HISTORY TO SOCIETY by Tulliola Sparagni Between 1903 and 1905 Paul Klee, who had not yet reached the age of thirty, created his first perfectly accomplished work. It was a cycle of ten etchings programmatically entitled Inventions, Opus I. These are the works with which Klee presented himself to the public for the first time in 1906, the year in which he discovered and became enthusiastic about Voltaire’s Candide. Skeptical about his skill in painting and oppressed by the fear of belonging to a generation of “epigones”, the young artist decided to keep a “low profile”: he preferred small formats and the black and white of drawing and graphics, exploiting the satirical and caricatural vein exemplified by the magazine “Simplizissimus” on which he would have liked to see his creations published. In the Inventions Klee represents himself as a Comedian,
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CANDIDE 10 CAP. VOUS NE SAVEZ PAS NAISSANCE, PAUL KLEE, BERN, ZENTRUM PAUL KLEE, 1933
FOLLE FESTA / MAD FEAST, PAUL KLEE, BERN, ZENTRUM PAUL KLEE, 1933
MASCHERA: EBREO ROSSO / MASK RED JEW, PAUL KLEE, PRIVATE COLLECTION, 1933
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a “mask as a work of art, with the man behind it” (Diaries, 1903, 517) but even more obvious is the self-portrait of Perseus (1904, 12) whose subtitle reads Irony has conquered pain. The bearded man with the ironical expression is standing before the decapitated head of Medusa, the woman, seen here and in other works in this cycle as the enemy and as extraneous. In deliberately graceless, anti-classical and artificially simple ways, Klee mocks society and its rituals, as well as the great themes of symbolism and the fin de siècle decadence, from the femme fatale to the artist hero, from eros to aristocracy. Before proclaiming himself a painter – which he would not do until his trip to Tunisia in 1914 when he discovered the light and colors of the Mediterranean – Klee asserted the primacy of drawing and it is no coincidence that, in the years before he entered the Blaue Reiter group, founded by Wassily Kandinsky and Franz Marc (1911), he would become profoundly involved in a black and white work. “Illustration project: Candide by Voltaire has many attractions, and offers many opportunities…. Candide has something greater that fascinates me, it’s the way this Frenchman expresses himself, he is so precise in his admirable concision.” (Diaries, 1989, 865). To materialize Voltaire’s Enlightenment thought and underline the sharp irony of the philosopher’s “best of all possible worlds”, Klee creates a completely new figurative style that abandons any reference to nature. Long figures, naked and thin like insects (why not? worms) are sketched out in nervous and loose lines that emphasize the inconsistency of the characters and their world governed by injustice and stupidity. For both, the writer and illustrator, irony is the only salvation from pain and pessimism. During the years following World War I, Klee’s rise in the German artistic world and the ten years he taught at the Bauhaus inspired the artist towards new creative directions: figures such as angels and street artists, landscapes like Sicily and Egypt become dominant themes in his work. “Lyrical-abstract” thus becomes the image that summarizes the artist in his period of greatest achievement. With these
precedents it is no surprise that many years later Klee again chose satirical drawing for one of his sharpest exercises in irony, for his penetrating comments on the political and
social issues that surrounded him. In 1933 the artist composed a series of over 200 pencil drawings in which he asserted that he had “drawn the national-socialist revolution”. Having abandoned the clear and precise pen and ink drawings of his Bauhaus period, Klee was now liberated by the soft lines of the pencil, developing a free and irregular drawing style without outlines which are very reminiscent of his illustrations for Candide, and quite different from the pedagogical expressions of previous years. The themes he addresses in this homogeneous group of drawings are drawn from the most urgent and critical events of his time: militarism, persecution, indoctrination, anti-Semitism, naturism. The protagonists of Klee’s pencil appear as barbarians, warriors, slaves, belligerent children, circus animals, giants and dwarfs, while below the orator who speaks to the crowd displaying the Nazi salute rages a Mad Feast (1933, 314). Forced by the Nazi regime to leave his teaching and abandon Germany for his native Bern, Klee adopts parody as a creative strategy and leaves us a series of images on political events which are veiled and complex, but as brutal as any of Grosz’s sharp political drawings about the misery of the Weimar Republic. The shy and meditative Klee, one of the great masters of abstract grammar, the mystic who invented new cosmogonies, now appears under a different guise, in his own way as the heir to the political satire of Goya and Daumier, and as a disenchanted but no less ferocious commentator about the world around him. Tulliola Sparagni Vive e lavora a Milano. Storico dell’arte, per diciotto anni ha lavorato presso la Fondazione Antonio Mazzotta come direttore scientifico dell’attività espositiva. Docente di storia dell’arte per vari anni alla NABA-Nuova Accademia di Milano, attualmente si occupa di mostre e collezioni come free-lance. Lives and works in Milan. An art historian, for eighteen years she worked at the Fondazione Antonio Mazzotta as the scientific director of exhibitions. She has taught art history for many years at NABANuova Accademia in Milan, and is currently working free-lance on exhibitions and collections.
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124 Giuseppe Novello (1897-1988) Pittore e illustratore. Le sue tavole umoristiche hanno raccontato, con occhio ironico e acuto, le trasformazioni della società italiana, in particolare i comportamenti della piccola e media borghesia. Pubblicati sulla stampa quotidiana, i suoi disegni sono stati raccolti in vari volumi, fra i quali, La guerra è bella ma scomoda (1929), Il signore di buona famiglia (1934), Che cosa dirà la gente? (1937), Dunque dicevamo (1950), Sempre più difficile (1957) e Resti fra noi (1967). Painter and illustrator. His comic drawings have chronicled the transformations of Italian society from a sharp and ironic point of view, especially the behavior of the lower and middle-class bourgeoisie. Originally published in daily newspapers, his drawings have been gathered into a number of books, including La guerra è bella ma scomoda (1929), Il signore di buona famiglia (1934), Che cosa dirà la gente? (1937), Dunque dicevamo (1950), Sempre più difficile (1957) and Resti fra noi (1967).
ILLUSTRAZIONE_ILLUSTRATION
NOVELLO
Il sottile umorista si sente alfine compreso The subtle humorist feels he has finally been understood
(egli ignora che i suoi pantaloni non sono abbottonati) (he doesn’t realize his trousers are unbuttoned)
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LUX.1
LUX.3
LUX.4
VISIBILE E INVISIBILE_ MATERIA E NONVISIBLE AND INVISIBLE MATERIA_MATTER AND NON-MATTER
LUX.2
LAMPADE E LAMPADINE_LAMPS AND LIGHT BULBS
FARLEGGERO_ LIGHTNESS
CONTENTS
CONTENTS
CONTENTS
CONTENTS
Storie di luce_A brilliant idea. 10 years of Orbital. Il dono della sintesi. Compasso d’oro ‘01. Karim Rashid. Welcome to the future. Blob. Lampoon. Maui. N+N Corsino.
Storie di luce_Exciting light. La ville Lumiere by Rodolfo Dordoni. Magia e tecnologia del vetro_ Transparents secrets. Jozeph Forakis. Design star. D&G Event. O-space. Ellepi. Bague. Yet. Blob outdoor. Fleurs.
Ogni cosa che fa luce: strumenti e fantasie dell’illuminazione_All the things that make light: instruments and fantasies for lighting di/by Raimonda Riccini Quale lampada per quale luce_The right blub for the right light d i/by Alberto Pasetti Plastiche... Riflessioni_ Reflections on... plastic di/by Marinella Levi e Valentina Rognoli Patricia Urquiola e la lampada Bague_Patricia Urquiola and the Bague lamp di/by Fiorella Bulegato La nuova sede Foscarini_the new Foscarini headquarters di/by Fiorella Bulegato James Turrell: la luce come visione e corpo_James Turrell: light as vision and body di/by Luca Massimo Barbero Mattotti di/by Goffredo Fofi
Lightdesign. Design leggero_Designing for lightness di/by Alberto Bassi Supernova. Il dirigibile, il più leggero dell’aria_The blimp, “lighter than air” di/by Alberto Bassi Lightweight. L’architettura aerea di Buckminster Fuller_ The aerial architecture of Buckminster Fuller di/by Cecilia Colombo La sostenibile leggerezza dei materiali_The sustainable lightness of materials di/by Marinella Levi e Valentina Rognoli Nichetto-Gai di/by Fiorella Bulegato Mobilità spaziale_Spatial mobility di/by Luca Massimo Barbero La linea_The line di/by Osvaldo Cavandoli
LUX.5
LUX.6
LUX.7
LUX.8
TRASPARENZA_ TRANSPARENCY
COLORE_COLOR
LIGHT & SOUND
SEMPLICITÀ_SIMPLICITY
CONTENTS
CONTENTS
CONTENTS
CONTENTS
Vedere dentro le cose_Looking inside things di/by Alberto Bassi Caboche. Trasparenza, travestimento, seduzione, simulazione_Transparency, dressing up, seduction, simulation di/by Cristina Morozzi Alle origini del design del vetro: Wilhelm Wagenfeld_At the roots of glass design: Wilhelm Wagenfeld di/by Ali Filippini Lenin. Vedo o non vedo, questo il dilemma_To see or not to see, that the question di/by Marinella Levi e Valentina Rognoli Strutture pneumatiche_ Inflatable structures di/by Pier Paolo Peruccio Ombre cinesi. Massimo Gardone interpreta N+N Corsino_Shadow play. Massimo Gardone interprets N+N Corsino di/by Studio Azimut Enrico Franzolini e la lampada Big Bang_ Enrico Franzolini and the Big Bang lamp di/by Fiorella Bulegato Haloscope. Miro Zagnoli. Sovraesposizioni di/by Carole Simonetti
Popdesign. di/by Ali Filippini Cocò. La percezione del colore_ The perception of color di/by Paolo Legrenzi ed Emanuele Arielli Teorema. I colori della moda_ The colors of fashion di/by Cristina Morozzi Due rossi di Venezia. A perfect red_Two venetian reds. A perfect red di/by Manlio Brusatin Progetto del colore. Un approccio biologico ed evoluzionistico_The design of color. A biological and evolutionistic approach di/by Aldo Bottoli Lagranja design e la lampada Uto_Lagranja design and the Uto lamp di/by Fiorella Bulegato Chi ha paura dello spectrum? Il colore di Ellsworth Kelly_Who is afraid of the spectrum? Ellsworth Kelly and color di/by Luca Massimo Barbero Yet. Peter Max. The land of blue
Il suono degli oggetti_The sound of objects di/by Alberto Bassi Gli artifici caldi di Livio Castiglioni_Livio Castiglioni’s “hot wires” di/by Dario Scodeller Twiggy. Nuovo design degli strumenti musicali_ The new design of musical instruments di/by Ali Filippini Aretha. Ascoltare la luce, vedere il suono. Chris Levine_Hearing light, seeing sound. Chris Levine di/by Maddalena Dalla Mura Atelier Oï: luminose e sonore corde_ Atelier Oï: sound and light cords di/by Fiorella Bulegato Light Club di/by Francesco Messina Sons et lumiéres di/by Elena Dellapiana Plot:Bach. Partitura luminosa_Plot:Bach. Luminous score di/by Maddalena Dalla Mura Circus. James Irvine di/by Fiorella Bulegato Brian Eno. Spostamenti progressivi del piacere_Brian Eno. Progressive shifting of pleasure di/by Enzo Gentile
La semplicità è la complessità risolta_ Simplicity is complexity resolved di/by Alberto Bassi New Buds. Il codice binario: l’illusione della semplicità_The binary code: the illusion of simplicity di/by Raimonda Riccini Mini di/by Silvia Baruffaldi Good design di/by Bruno Munari Cloud. La semplicità nell’interaction design_ Simplicity in interaction design di/by Gillian Crampton Smith e Philip Tabor Semplicità: intervista con John Maeda_ Simplicity: interview with John Maeda di/by Gillian Crampton Smith e Philip Tabor Empire. Basic fashion di/by Maria Luisa Frisa Ludovica+Roberto Palomba di/by Ali Filippini Classico, semplice, primitivo. La strada maestra dell’architettura_ Classic, simple, primitive. The high road to architecture di/by Elena Dellapiana
Less is more, more is a bore... interview with Massimo and Lella Vignelli di/by Fiorella Bulegato Wagashi. Gualtiero Marchesi: il gusto della semplicità_ Gualtiero Marchesi: the taste of simplicity di/by Maddalena Dalla Mura
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EDITOR AND COORDINATOR: ALBERTO BASSI GRAPHIC AND EDITORIAL CONCEPT: ARTEMIO CROATTO / DESIGNWORK ART WORK: ERIKA PITTIS / DESIGNWORK ENGLISH TRANSLATIONS: OLGA BARMINE GERMAN TRANSLATIONS: DONATELLA CACCIOLA, BONN MADE AND PRINTED IN ITALY BY GFP EDITION 04.2008
ISBN 978-88-903384-0-3
PHOTOCREDITS: cover > MASSIMO GARDONE / STUDIO AZIMUT, ITALY; pp 01-16-17-54-55-90-91-114-115-128 > MASSIMO GARDONE / STUDIO AZIMUT, ITALY; p 02 > IMAGE COURTESY OF: “BRUNO MUNARI”, PHOTO: RAMAZZOTTI E STUCCHI, ED. COSMIT ‘99, ITALY; p 05 > JEAN-PHILIPPE DELHOMME; pp 10-66> IMAGE COURTESY OF: INGO MAURER p 20 > IMAGE COURTESY OF: “SU MUNARI”, PHOTO: IVO SAGLIETTI, ED. ABITARE SEGESTA CATALOGHI, ITALY, 1999; p 21 > IMAGE COURTESY OF: “SU MUNARI”, ED. ABITARE SEGESTA CATALOGHI, ITALY, 1999 p 48 > MARTI GUIXÈ, 2000; p 49 > PHOTO: IMAGEKONTAINER; p 50 > IMAGE COURTESY OF: STUDIO MAKKINK & BEY, THE NETHERLANDS; p 52 > IMAGE COURTESY OF: VITRA; pp 58-59 > PHOTO OBJECTS BY: MARSEL LOERMANS; p 64 > PHOTO OBJECTS BY: “SAFE. DESIGN TAKES ON RISK”, ED. P. ANTONELLI, THE MUSEUM OF MODERN ART, NEW YORK, 2005; pp 71-73-74-76-77-79 > IMAGE COURTESY OF: “X ANNI DI KAOS 1983-1993”, ED. LYBRA IMMAGINE, ITALY, 1993; pp 80-81-82-83-85-86-88 > IMAGE COURTESY OF: STUDIO CAMUFFO, ITALY; pp 93-94-95 > IMAGE COURTESY OF: FOSCARINI, ITALY; pp 96-97-99-100-102 > IMAGE COURTESY OF: “HOW TO LIVE IN A FLAT”, HUTCHINSON & CO., LONDON, 1936; pp 104-105-106-107-108-110-112-113 > IMAGE COURTESY OF: GIULIO IACCHETTI, ITALY; pp 117-119-121-122 > IMAGE COURTESY OF: “PAUL KLEE, UOMO, PITTORE, DISEGNATORE”, ED. MAZZOTTA, ITALY, 2004 / IMAGE COURTESY OF: “PAUL KLEE. 1933”, VERLAG DER BUCHHANDLUNG WALTHER KÖNIG, KÖLN, 2003; p 125 > IMAGE COURTESY OF: “CHE COSA DIRÀ LA GENTE?”, MONDADORI, MILANO, 1937.
ESISTE LA POSSIBILITÀ DI FAR PARLARE IL DESIGN ATTRAVERSO UN LINGUAGGIO IRONICO? DI PARLARE DEL DESIGN IN MODO IRONICO? DI FAR SORRIDERE ATTORNO ALLA CONDIZIONE E AI CARATTERI DEGLI ARTEFATTI E DEI LORO ARTEFICI? UN TEMPO CERTO L’ARTE È STATA PRATICATA, PARREBBE UN PO’ MENO ATTUALMENTE. RIFARE UN PUNTO E RILANCIARE UN TEMA E UNA MODALITÀ INEDITA DI PROGETTARE, COMUNICARE E FAR PARLARE DEGLI OGGETTI CI SEMBRA UTILE E “INTELLIGENTE”. NEL SENSO DI COSTRUIRE POSSIBILITÀ DI “INTELLIGERE” – LEGGERE ATTRAVERSO L’INTELLETTO – LE COSE E LA REALTÀ. IS IT POSSIBLE TO MAKE DESIGN SPEAK THE LANGUAGE OF IRONY? TO SPEAK OF DESIGN IRONICALLY? TO MAKE PEOPLE SMILE ABOUT THE CONDITION AND CHARACTERISTICS OF ARTIFACTS AND THEIR MAKERS? THE ART USED TO BE A WIDELY PRACTICED ONE, SOMEWHAT LESS NOWADAYS. TO TALK ABOUT IT AND TO REVIVE A THEME AND AN UNUSUAL APPROACH TO DESIGNING, COMMUNICATING AND MAKING OBJECTS SPEAK SEEMS A USEFUL AND “INTELLIGENT” THING TO DO. BECAUSE IT CAN BUILD OPPORTUNITIES FOR “UNDERSTANDING” – FOR INTELLECTUALLY APPRECIATING – THINGS AND REALITY.