EMOZIONI A COLORI LA PSICOLOGIA DEI COLORI NEL CINEMA
Sassanelli Domenica Tarantino Giuseppe
Sassanelli Domenica, Tarantino Giuseppe
Cdl in Disegno Industriale Realizzazione del prodotto Professore: Michele Colonna A.A. 2018/ 2019 Caratteri utilizzati: - Baskerville (Normal, Bold, Italic) designer John Baskerville, 1750 circa - Courier New (Regular, Bold) designer Monotype - ITC Franklin Gothic Std (Demi Condensed, Book, Book Italic) designer Victor Caruso & David Berlow, 1980-91 Carta utilizzata: Patinata opaca 150 g.
Premessa Perché i film horror usano prevalentemente il rosso? Perché alle donne viene associato il colore rosa? Quale tipo di verde sta provocando quel senso di terrore nauseabondo nella famosa scena del bagno di Shining? Quale colore è alla base della sensualità in American Beauty?
Nella pagina seguente riferimento a Shining
È noto da sempre che i colori sono in grado di influenzare la percezione delle cose. Il cromatismo è un tipo di linguaggio visivo molto potente e fondamentale nella società. Social media, pubblicità e film fanno ormai affidamento ai colori per comunicare e trasmettere sensazioni definite. La maggior parte dei film fanno affidamento sul colore anche per rendere riconoscibile sia la pellicola sia lo stile del regista. “Il colore è mezzo per influenzare l’animo” affermava Kandinsky. E si sa quanto sia fondamentale il coinvolgimento emotivo nell’approccio dell’intelletto (intus +leggere= leggere dentro) a qualsiasi tipo di testo scritto! Animo e intelletto si coniugano felicemente in un rapporto di profonda dipendenza e di autonomia al tempo stesso per una maggiore adesione e comprensione.
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All work and no play makes Jack a dull boy. All work and no play makes Jack a dull boy. All work and no play makes Jack a dull boy. All work and no play makes Jack a dull boy. All work and no play makes Jack a dull boy.
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Anthony Perkins in Psycho, 1960 regia: Alfred Hitchcock fotografia: John L. Russell
Dal bianco e nero
al colore
Keanu Reeves in Matrix, 1999 regia: Andy e Larry Wachowski fotografia: Bill Pope
Vasilij Vasil’evic Kandinskij Mosca, 16.12.1866 – Neuilly-sur-Seine, 13.12.1944
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O
ggi come ieri il colore ha un ruolo determinante nella vita, negli stati d’animo e nella comunicazione, difatti è in grado di trasmettere effetti psicologici ed emotivi su chi lo osserva. Nell’arte in particolare il colore ha assunto un ruolo fondamentale, basti pensare ai puntinisti Seurat e Signac che si rifecero alle leggi ottiche della visione di Chevreul, Rood e Sutton e, specialmente, dei contrasti simultanei o dei colori complementari con l’intento di dare un fondamento scientifico al processo visivo e operativo della pittura; passando da Van Gogh, in cui la tensione cromatica corrisponde simbolicamente allo stato psicologico da descrivere ma anche da Paul Klee e Vasilij Kandinsky. Quest’ultimo nell’agosto del 1910 termina uno degli scritti più innovativi e particolari del secolo, Lo spirituale nell’arte, un libro di avanguardia in cui definisce la sua teoria sul colore.
17 Secondo Kandinsky il colore agisce su due livelli, uno fisico e uno psichico.
I
livello, quello fisico, si basa sull’ “impatto estetico” che il colore ha sulla nostra retina e quindi sulla nostra corteccia occipitale dove viene elaborato e analizzato dal nostro cervello. È la “concreta sensazione visiva” che abbiamo nel momento in cui osserviamo una particolare cromia. Kandinsky, inoltre, teorizza un vero e proprio “movimento” dei colori. Quelli caldi e luminosi si avvicinano allo spettatore, hanno un movimento centrifugo. Quelli freddi e scuri si allontanano dando un senso di profondità e calma, hanno un movimento centripeto. L’occhio è abbagliato ed attratto da colori chiari e caldi mentre sprofonda in colori scuri e freddi. Questo concetto è vero anche per la fotografia e per il cinema. I colori chiari e caldi richiamano l’attenzione dell’occhio umano in una sorta di rapimento romantico.
II
livello di analisi, quello spirituale, è ovviamente più profondo. Il colore viene elaborato dal nostro cervello, si va oltre ai caratteri puramente estetici e si arriva ad un piano emozionale. Nascono associazioni di idee che arrivano all’anima. C’è innanzitutto un collegamento della vista con i cinque sensi per cui un colore può rimandare a un gusto o profumo (giallo, limone, acido) o ad una sensibilità tattile o uditiva di tipo musicale; ma un colore può rimandare anche a elementi visivi (rosso, sangue, violenza) e infine emozionali (violenza, paura). I colori quindi, una volta elaborati dal nostro cervello grazie ad associazioni di idee come esperienze e memorie personali, generano delle emozioni e sensazioni varie. Nel cinema la scelta dei colori di paesaggi, costumi e non solo, non è casuale ma indirizzata al miglioramento della narrazione che scena dopo scena accompagna lo spettatore. Il colore in un film può aiutare il regista a esprimere la tensione o la passione in una scena o a indirizzare l’attenzione su un dettaglio significativo, o ancora, a suggerire il mood dell’intera trama. Ma…
18 Come è stato introdotto il colore nel mondo cinematografico?
Étienne Jules Marey Beaune, 05.03.1830 – Parigi, 15.05.1904
S
i pensa che inizialmente le prime produzioni fossero interamente in bianco e nero ma in realtà la storia del cinema non è andata proprio così. Il 28 dicembre 1895 è oggi convenzionalmente considerata la data di nascita del cinema. Prima di questa data venivano prodotti movimenti disegnati, non si era in grado di registrare immagini fotografiche che mostravano un movimento. È proprio in questi anni che vennero fatti i primi esperimenti, in particolare nel 1892 da Charles-Émile Reynaud, il primo ad utilizzare il colore per le sue Pantomime luminose, disegni animati, proiettate al Museo Grévin di Parigi. A lui si deve la nascita del teatro ottico, un nuovo strumento dotato di un sistema di nastri mobili che permettevano a delle lastre di vetro di scorrere innanzi alla luce del proiettore. Queste lastre erano dipinte a mano, dallo stesso Reynaud, immagine per immagine e applicava le sue tinture a pastello direttamente sulla pellicola Eastman di 70 mm di larghezza. Purtroppo con la comparsa di nuovi e più pratici sistemi di ripresa e proiezione, terminarono le proiezioni al museo Grévin e vi fu il declino dell’impresa di fabbricazione dei giocattoli ottici di Reynaud, per questo, disperato, distrusse con un martello tutti i suoi apparecchi e gettò nella Senna quasi tutte le sue pantomime luminose e le sue fotopitture animate. Dalla distruzione si salvarono solamente Pauvre Pierrot, Autour d’une cabine e alcuni frammenti di altri filmati. Coloro che per primi si interessarono alla possibilità di registrare e riprodurre il movimento furono Eadweard Muybridge e Étienne Jules Marey. Il primo riuscì a fotografare le varie fasi della corsa di un cavallo servendosi di dodici macchine fotografiche posizionate lungo il percorso compiuto dall’animale, il secondo fu il primo a
Thomas Edison e il Kinetoscopio sviluppato tra il 1889 e il 1892 da William Dickson
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usare un meccanismo ad intermittenza per impressionare la pellicola fotografica e nel 1882, realizzò la prima cinepresa, il fucile fotografico, uno strumento capace di impressionare dodici fotogrammi in un secondo sfruttando un meccanismo del tutto simile a quello di una comune rivoltella (in inglese, il verbo “to shoot” ha ancora oggi il duplice significato di “sparare” ed “effettuare una ripresa cinematografica”). Negli Stati Uniti Thomas Alva Edison e il suo assistente William Dickson, realizzarono il kinetoscopio, una grande cassa all’interno della quale erano posizionati dei rulli che permettevano il trascinamento della pellicola. Lo spettatore, inserendo una monetina nell’apposita fessura, poteva azionarlo con una manovella e veder scorrere le immagini attraverso un piccolo foro posto su in cima, un pò come avveniva per il mondo nuovo. Due anni dopo gli esperimenti di Reynaud, nel 1894, uno dei film prodotti da Thomas Edison e realizzati da William Dickson, Annabelle Serpentine Dance, venne colorato anch’esso a mano, stavolta con la tintura di anilina, fotogramma per fotogramma. Si trattava di un film dalla durata di 20 secondi. Anche Georges Méliès, considerato il mago del cinema delle origini, impiegava 21 donne nello studio di Montreuil per colorare a mano i suoi film fotogramma per fotogramma. Furono diversi gli strumenti realizzati per le proiezioni di immagini in
I fratelli Auguste Marie (1862 – 1954) e Louis Jean Lumière (1864 – 1948)
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21 movimento, fino a quando i fratelli Lumière, sulle lezioni di Thomas Alva Edison e di Reynaud, idearono una piccola ed elegante macchina da presa: il cinematografo, che utilizzava una pellicola da 35mm. La macchina da presa montata sul proiettore diveniva sua parte integrante. I Lumière presero inoltre l’importante decisione di filmare alla velocità di 16 fotogrammi al secondo (16 ft/s). Il 28 dicembre del 1895, i due fratelli organizzarono la prima proiezione pubblica a pagamento presso il Salon Indien del Grand Café di Parigi in Boulevard des Capucines 14. In uno spettacolo di 25 minuti vennero proiettati 10 film. Dopo la nascita del cinematografo, in particolare nei primi anni del 900, la casa di produzione francese Pathè mise a punto un procedimento, chiamato Pathecolor, per velocizzare la colorazione delle pellicole cinematografiche utilizzando delle maschere, o stencil, ricavate dall’intaglio di copie della medesima pellicola a cui si voleva dare la colorazione, che venivano inserite in una macchina con rulli di velluto imbevuti di colorante. Dopo aver prodotto le maschere per l’intero film, venivano poste a contatto con la pellicola da colorare, che scorreva ad alta velocità (18,29 metri al minuto) attraverso la macchina per la colorazione. Il processo era ripetuto per ogni serie di maschere corrispondenti ai diversi colori, di solito il numero di colori applicati variava da 3 a 6. Le pellicole colorate a stencil potevano essere identificate dai contorni netti che definivano le aree colorate. I colori, spesso, erano pastelli morbidi. Un altro sistema di colorazione consisteva in un bagno per immersione, delle copie destinate alla proiezione, in uno speciale colorante trasparente che donava a ciascuna copia una luce del tutto particolare. Una bobina che mostrava una bagnante al mare era tinta di verde, una scena di forgiatura o d’incendio erano tinte di rosso, il blu era utilizzato per le regate sull’acqua, il giallo accompagnava una migrazione attraverso il deserto, e così via. Intorno al 1906 George Albert Smith, in Inghilterra, mise a punto un procedimento di mescolanza additiva che donava l’illusione del colore su una pellicola in bianco e nero, proiettata dietro filtri alternati rossi e verdi. Questo sistema fu battezzato nel 1909 con il nome di Kinemacolor. È da considerarsi il primo processo per la visione a colori delle pellicole cinematografiche. L’innovazione del colore da principio venne vista favorevolmente, ma presto si svelarono i molteplici inconvenienti del Kinemacolor: il
A sinistra l’originale A destra in Technicolor
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blu e il bianco rendevano male, i colori si percepivano con una certa pastosità e poteva capitare che se i colori non si sovrapponevano bene, lo spettatore poteva percepire uno sfarfallio verdastro. Grazie alla persistenza dell’immagine sulla retina, le immagini venivano percepite come un filmato continuo e il cervello dello spettatore fondeva i due fotogrammi a colori parziali in un unico fotogramma a colore pieno. Dopo aver prodotto almeno 250 film, il Kinemacolor venne abbandonato, per ragioni economiche, poco prima della Prima Guerra Mondiale e venne rimpiazzato da un nuovo sistema, completamente americano, messo a punto durante le prime fasi della guerra e lanciato nel 1916: il Technicolor. Creato da Dr. Herbert Kalmus, il Dr. Daniel Comstock e W. Burton Wescott, questo procedimento si basava inizialmente sulla mescolanza additiva a due colori, rosso e ciano; bisognava porre un prisma dietro l’obiettivo della cinepresa per separare i fasci luminosi che, selezionati attraverso due filtri, impressionavano diversamente i fotogrammi, producendo così due negativi: in rosso e ciano. Nel 1932 venne perfezionato. Consisteva in una cinepresa in grado di catturare immagini su 3 pellicole in bianco e nero; ognuna delle tre pellicole veniva impressionata, servendosi di un sistema di filtri e di tipi particolari di pellicola, esclusivamente dalla luce nella gamma di uno dei 3 colori primari: rosso, verde, blu. I tre negativi così ottenuti venivano successivamente imbibiti con colorante rispettivamente ciano, magenta e giallo. A questo punto le tre pellicole venivano stampate su un’ulteriore pellicola in grado di assorbire i colori per contatto, ottenendo in tal modo il positivo da proiezione. Questo procedimento prese il nome di Technicolor Process 4 e ottenne un clamoroso successo grazie a Biancaneve e i sette nani. Dopo altri tipi di
23 procedimenti si giunse, nel 1997, al Technicolor process 6. Film da ricordare con il Technicolor sono Becky Sharp (1935) di Robert Mamoulian, Il sentiero del pino solitario (1936) di Henry Hathaway fino a Via col vento (1939) e Il Mago di Oz di Victor Fleming. Negli Stati Uniti, dopo il Technicolor, nacque un’altra grande tecnica cinematografica per conferire colore alle pellicole, l’Eastmancolor, il procedimento a tutt’oggi più utilizzato del mondo. L’Eastmancolor conferisce il colore più reale alla pellicola cinematografica, con colori nè troppo carichi, nè troppo sbiaditi, praticamente corrispondenti alla realtà visiva. L’Eastmancolor raggiunse anche l’Italia ma solo dopo il Ferraniacolor, un sistema tutto italiano sviluppato negli anni 50 dalla Ferrania Technologies che aveva la sua sede a Cairo Montenotte, in provincia di Savona. Il Ferraniacolor conferiva alle pellicole un colore troppo sgargiante e acceso, quasi da risultare irreale, o in alcuni casi assumeva colori instabili o sbiaditi. Risultava molto difficile stabilizzare il colore, se c’era troppa luce esso era troppo carico, viceversa se la scena era girata in condizione anche solo di minima oscurità, essa perdeva di colpo la sua pastosità. Già a partire dal 1955 si iniziò ad abbandonare il procedimento del Ferraniacolor in favore dell’Eastmancolor, che ebbe un’enorme fortuna a Cinecittà a partire dal 1958. Comunque sia furono prodotti molti film con il Ferraniacolor, soprattutto il primo film a colori della storia del cinema italiano e cioè Totò a colori (1952) che necessitò di parecchia luce per poter essere realizzato con una cromatura di colore stabile e soddisfacente.
SFUMATURE DI CINEMA
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F
in dalla prima scena il colore imposta lo stato d’animo e il tono di un film prima che uno qualsiasi degli attori abbia pronunciato una parola. La scelta non è casuale, la composizione di ogni fotogramma è studiata minuziosamente per colpire il subconscio e generare nello spettatore tranquillità, gioia, paura, ansia, noia, esprimere la tensione, la passione, indirizzare l’attenzione su un dettaglio significativo, rappresentare i tratti caratteriali dei personaggi ed anche mostrare cambiamenti, flashback, realtà parallele; ovviamente anche altre componenti manipolano le sensazioni, come i suoni o la scelta del tipo di montaggio (veloce, frenetico). In alcuni casi la predilezione di una tonalità rispetto ad un’altra vuole semplicemente soddisfare le esigenze estetiche o i gusti di un regista. Assieme a quest’ultimo una figura molto importante è quella del direttore della fotografia, egli deve saper sposare conoscenze tecniche e doti artistiche e deve occuparsi di: predisporre l’illuminazione delle scene che il regista ha solo creato o immaginato mentalmente, dei movimenti della macchina da presa, della scelta dell’obiettivo, della messa a fuoco, dell’apertura del diaframma per l’esposizione e naturalmente anche dei colori. I colori giocano un ruolo essenziale se si vuole stimolare una certa emozione al posto di un’altra. I tre componenti principali di un colore sono tonalità, saturazione e valore. La tonalità è il colore stesso. La saturazione è l’intensità del colore. Il valore è la luminosità. Cambiando uno di questi varia anche il tono del film. Un colore è significativo non solo preso nella sua singolarità ma anche nell’accostamento con altri colori scelti per la realizzazione del film. Per far questo i registi si rifanno alla teoria cromatica della ruota dei colori, cioè alla schematizzazione dei colori in base alla loro percezione visiva. Vi sono diverse combinazioni di colori: • Schema di Colori monocromatici: si utilizza la stessa tonalità variandone saturazione e/o luminosità. • Schema di Colori analoghi: colori vicini tra loro nel cerchio cromatico. • Schema di Colori complementari: colori opposti nel cerchio cromatico. • Schema a triade o triadico: tre colori equidistanti tra loro nel cerchio cromatico. Ma ora approfondiamo meglio l’argomento.
Johnny Depp in Paura e delirio a Las Vegas, 1998 regia: Terry Gilliam fotografia: Nicola Pecorini
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Indice dei colori
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ROSSO Stanley Kubrick John Alcott The Shining, 1980
VERDE Alfred Hitchcock Robert Burks Vertigo, 1958
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ROSA Wes Anderson Robert Yeoman Grand Budapest Hotel, 2014
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27 BLU Denis Villeneuve Roger Deakins Blade Runner 2049, 2017
ARANCIONE George Miller John Seale Mad Max: Fury Road, 2015
94 110
VIOLA Ryan Gosling Benoît Debie Lost River, 2014
GIALLO Quentin Tarantino Robert Richardson Kill Bill, 2003
ROSSO
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Il rosso che di solito abbiamo in mente è un colore dilagante e tipicamente caldo, che agisce nell’interiorità in modo vitalissimo, vivace e irrequieto […], dimostra un’energia immensa e quasi consapevole [...]. Wassily Kandinsky
Jessica Harper in Suspiria, 1977 regia: Dario Argento fotografia: Luciano Tovoli
I
l rosso è uno dei colori con più significati e probabilmente uno dei più potenti da mostrare su uno schermo. È il primo colore dell’arcobaleno e si ritiene sia anche il primo colore percepito dai bambini, il primo a cui tutti i popoli hanno dato un nome. In latino “rubens” (rosso) è sinonimo di colorato. Di solito i registi che ne fanno un uso massiccio stanno cercando di incrementare un senso di rabbia, pericolo imminente, dolore o morte ma, se inserito in un contesto romantico, può trasformarsi nel simbolo della passione e dell’amore. Stanley Kubrick, che è un maestro nell’uso del colore come significante, nel suo 2001: Odissea nello spazio dipinge lo sfondo di rosso nella sequenza più claustrofobica e terrificante del film: il momento cruciale in cui Hal 9000 viene disattivato. Se pensiamo al colore rosso e a Stanley Kubrick non potrà non venirci in mente The Shining, girato nel 1980.
30 In questo film la sfumatura cremisi ha una funzione ben precisa: richiama il sangue, la violenza ma anche lo scivolare del protagonista nella follia omicida. Proprio per questa ragione, il rosso è ricorrente negli ambienti dell’intera pellicola: il famosissimo fiume di sangue che esce dall’ascensore ne è un esempio, ma anche il celebre ed inquietante bagno in foto. Rossi sono gli arredi dei corridoi nei quali si aggira Danny con il suo triciclo, così come rosse sono le luci che avvolgono Jack nel bar e nel suo girovagare nell’hotel. Anche Bergman nel suo dramma Sussurri e Grida sceglie il rosso come colore predominante degli ambienti, usato per rendere costantemente palpabile l’alone di morte e dolore che accompagna tutta la pellicola. Ovviamente, se inserito in un contesto romantico assume un connotato erotico e differente da quello sopra citato. Ne è un esempio l’uso che ne ha fatto Spike Jonze nel suo Her, completamente costruito sulle tonalità calde volte a comunicare lo stato emozionale di un personaggio innamorato. American Beauty è una pellicola improntata sulla vita di Lester, uomo della classe media americana che conduce un’esistenza di routine, infelice e senza passioni; l’incontro e l’infatuazione per una compagna di classe della figlia lo porterà a cambiare la propria vita. La pellicola fa fronte a temi come la repressione di pulsioni, la depravazione e il delirio, pertanto i cromatismi utilizzati nel film seguono la vicenda del protagonista in un climax di emozioni, impulsi e passioni: la base tonale regnante è il rosso. Non a caso, l’apatia di Lester nei confronti della vita viene delineata dal rosa e, con lo svolgimento della vicenda, anche la storia cromatica prende vita e i colori diventano più definiti e scuri, fino al rosso mogano del corpo centrale del film, concentrazione delle pulsioni passionali più infime, per poi aumentare il valore cromatico in colori meno scuri, ma comunque intensi, come: rosso mattone, rosso vino e, infine, rosso rubino che conclude la storia. Mentre Suspiria, del 1977 di Dario Argento, è film che omaggia apertamente il cinema espressionista tedesco sia per il suo contrasto visivo e sia per l’utilizzo sapiente dei colori, capaci di deformare gli spazi e la realtà in cui si muovono i personaggi. La fotografia, caratterizzata prevalentemente dal rosso, va ad enfatizzare l’aspetto fantasioso e orrorifico dell’opera, conferendo un’aurea di tensione e mistero al tutto. Blu scuro, giallo e verde, ogni singola cromia viene utilizzata per creare un dipinto in movimento, capace di ricordare a tratti i colori utilizzati dal
Leonardo Di Caprio in The Avietor, 2004 regia: Martin Scorsese fotografia: Robert Richardson
Liv Ullmann in Sussurri e grida, 1972 regia: Ingmar Bergman fotografia: Sven Nykvist
Suspiria, 1977 regia: Dario Argento fotografia: Luciano Tovoli
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Mena Suvari in American Beauty, 1999 regia: Sam Mendes fotografia: Conrad L. Hall
pittore Edvard Munch per i suoi quadri. Un film incredibile che attraverso la fotografia riesce a creare un’atmosfera da incubo impossibile da dimenticare, soprattutto grazie a delle cromie complementari che rendono ancora più mistica la storia narrata. Nell’alchimia il rosso rappresenta l’uomo, il sole, lo zolfo, l’oro. Per gli Indiani d’America significa gioia e fertilità, ha il significato della vita e del calore. Questo colore si associa con la circolazione sanguigna e con lo sviluppo cellulare, scalda il corpo e stimola la produzione di sangue, la liberazione di adrenalina e fa salire di poco la pressione arteriosa. Il rosso rende loquaci, aperti, premurosi e passionali. Nella cultura cinese rappresenta buona fortuna e prosperità, nella nostra cultura ha più probabilità di essere associato alla sessualità. Pensiamo al rossetto, alle rose rosse, alla biancheria rossa, ai film “a luci rosse”. Ma questo colore non è un talismano per la nostra seduttività. Una donna che si appropria del rosso può voler esprimere carattere, comunicare indipendenza, emancipazione, forza, determinazione. Non necessariamente un appello sessuale. Nell’immenso capolavoro La corazzata Potemkin di Sergej Michajlovic Ejzenštejn del 1925, tanto odiato dal ragionier Ugo Fantozzi quanto importante per la storia del cinema, c’è solo un colore: il rosso di una bandiera. L’opera del regista tedesco nasce in un’epoca dove tutti i film erano ancora in bianco e nero e se si voleva aggiungere un colore, lo si doveva dipingere a mano per ogni singolo frame. Una scelta che alla fine venne adottata per l’opera di Ejzenštejn per dare maggiore enfasi e potenza visiva ad un simbolo di libertà e di giustizia. Un rosso che
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Twin Peaks, 1990-1991 regia: David Lynch e Mark Frost fotografia: Peter Deming
irrompe improvvisamente sullo schermo e che lo fa con una potenza visiva incredibile, soprattutto se rapportata per l’epoca in cui è stata realizzata questa scena. Lo spettatore dopo aver visto massacri, soprusi e morti di innocenti, rimane quasi abbagliato e destabilizzato da una bandiera colorata, simbolo di giustizia e pace. Ultimo episodio della trilogia dei colori, Film Rosso, di Krzysztof Kieslowski del 1994, gode di un fascino superlativo che lo consacra, senz’altro, come il più intenso dei tre. Valentine (Jacob), conosce per caso un ex giudice (Trintignant) che intercetta e spia le telefonate del vicinato. I due si avvicineranno, dando vita ad un rapporto complesso e stimolante. Ciò che colpisce particolarmente di Film Rosso (oltre alle continue panoramiche a schiaffo), è l’acuta analisi psicologica dei personaggi. In particolare, il personaggio di Trintignant, appare come una sorta di divinità che muove le pedine e costruisce una storia a proprio piacimento (il finale è particolarmente indicativo, a tal proposito). D’altronde il fascino dell’attore ex divo, dal volto scavato dalla vecchiaia, che gli conferisce un’aurea monumentale, è immancabile. Così come lo sono i riferimenti alle altre pellicole appartenenti alla trilogia. Grande lavoro del direttore della fotografia, Piotr Sobocinski (candidato agli Oscar per questo film), capace di sfruttare al meglio gli ambienti e di far prevalere il colore rosso senza cadere nell’esagerazione. Film Rosso ha tutto ciò che agli altri due film manca, riesce a coniugare passione e sentimento con un sottile umorismo nero. Un vero e proprio capolavoro. Il colore rosso è particolarmente adatto per gli horror movie. I colori caldi, con una forte dominante di rosso come in Scarface, esprimono passione, violenza, rabbia e potere. Gli stessi colori
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Michelle Pfeiffer in Scarface, 1983 regia: Brian De Palma fotografia: John A. Alonzo
caldi, soprattutto il rosso, possono servire anche per anticipare una scena forte e far assumere alla vicenda un tono inquietante. Come accade in Twin Peaks. Nel 1985 Gene Wilder con The Woman in Red tinge di rosso la tipica femme fatale, sensuale, misteriosa e pericolosa (la femme fatale già da prima, in letteratura, è stata spesso associata alla dark lady, figura tipica di donna dominatrice, lussuriosa e diabolica). The Aviator del 2004, regia di Martin Scorsese, ha una peculiarità nella scelta del colore. Per la prima ora di film le scene hanno toni solo del rosso e del ciano, per riprodurre l’effetto del Multicolor, la tecnologia disponibile all’epoca e di proprietà di Hughes, protagonista del film. Gli eventi che si svolgono invece dopo il 1935 vogliono emulare l’aspetto del sopracitato three-strip Technicolor, che rendeva tutto più saturo e intenso. Da notare inoltre i due colori principali che vengono proiettati in diversi momenti sul volto del protagonista, interpretato da Leonardo Di Caprio. Insomma, un film che non solo descrive la vita di Howard Hughes, ma omaggia e ricostruisce la storia della tecnologia utilizzata nel cinema per la resa dei colori.
Mélanie Laurent in Bastardi senza gloria, 2009 regia: Quentin Tarantino fotografia: Robert Richardson
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S
tanley Kubrick è ormai universalmente riconosciuto come pietra miliare del cinema; è il soggetto di vari corsi universitari, e ci sono interi volumi che parlano dei suoi processi creativi e degli elementi ricorrenti della sua poetica. Famoso per il supercut sulla sua più celebre tecnica cinematografica, la prospettiva ad un punto. Nel 2015 il filmmaker Rishi Kaneria pubblicò un video sui capolavori del regista americano. Ma ad attirare l’attenzione del filmmaker è stato il suo uso del colore rosso. Non solo il sangue, ma anche luci, vestiti, dettagli dell’arredo ne fanno uno dei colori più usati da Kubrick. Il montaggio di Kaneria comprende scene di Spartacus, 2001: Odis-
sea nello spazio, Arancia meccanica, Barry Lyndon, Shining, Full Metal Jacket e Eyes Wide Shut, non solo per ricordarci i motivi per cui tutti noi amiamo Kubrick, ma per mostrare quanto spesso il regista si affidi al colore rosso per i momenti drammatici di terrore, isolamento o individualismo. La colonna sonora? La nona sinfonia di Beethoven, ovviamente. E a quel video si è ispirato un altro appassionato cinefilo, Marc Anthony Figueras, che però ha ampliato la scala cromatica aggiungendo il blu, il giallo, il viola, il rosa, l’arancio, il verde, il bianco e il nero, in un altro “supercut” che rievoca le vecchie visioni kubrickiane. Il lavoro del direttore della fotografia John Alcott per Barry Lyndon
segna un pilastro importante nella storia del cinema contemporaneo. Barry Lyndon (1975) è la trasposizione del romanzo di William Makepeace Thackeray ambientato nell’Inghilterra del 18° secolo in una pellicola comica drammatica; film con Tre nomination per Kubrick: miglior film, miglior regia e migliore sceneggiatura. Ciò che più stupisce gli spettatori alla metà degli anni Settanta è il trattamento delle scene notturne. In effetti, volgendo risolutamente le spalle alle convenzioni abituali e alle costrizioni tecniche per cui una scena ambientata nel passato, alla fine risultava illuminata come quelle moderne, Alcott e Kubrick optarono per la luce “naturale” dell’epoca: quella delle candele. Scelta estetica resa possibile dall’evoluzione tecnica, in campo ottico, nella fabbricazione della pellicola con nuove emulsioni ul-
trasensibili, e nei procedimenti di sviluppo e stampa in laboratorio. Ma le esigenze del regista e del direttore della fotografia trovavano talvolta soluzione solo grazie a un lavoro di bricolage, ad esempio l’adattamento di un obiettivo a grande apertura previsto in origine per funzionare su macchine fotografiche, come racconta John Alcott: “Stanley ha avuto l’idea di adattare l’obiettivo fotografico Zeiss 50 alla sua macchina da presa Mitchell. La Zeiss da 50 mm diaframma 0.7 con lente in 3 esemplari, nasceva da un progetto della NASA interessata a fotografare il lato oscuro della luna nell’ambito del programma Apollo. È Ed Di Giulio che ha modificato la Mitchell in modo che vi potesse essere installato questo obiettivo a grande apertura. È il genere di sfida che piace a Stanley. Sono pochi i cineasti che
Stanley Kubrick New York, 26.07.1928 – St Albans, 7.03.1999
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Keir Dullea in 2001:Odissea nello spazio, 1968 regia: Stanley Kubrick fotografia: John Alcott e Geoffrey Unsworth
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39 si pongono problemi di questo tipo e decidono di dedicarvi il tempo necessario. Sono stati necessari tre mesi per mettere a punto questo nuovo obiettivo”. John risultò essere perfezionista e metodico quanto Stanley e tra loro nacque subito l’intesa. In un’intervista riguardante le difficoltà tecniche riscontrate sul set di Barry Lyndon, Alcott disse: “Questa ottica è ineguagliabile, quando si guarda attraverso qualsiasi altro tipo di lente si può stabilire se è o meno a fuoco. Ma quando utilizzi questa Zeiss, che sembrava avere una fantastica gamma di messa a fuoco, si scoprono in realtà gli enormi limiti di profondità di campo. Abbiamo dovuto analizzarla effettuando test da 200 fino a circa 4 metri”. Un obiettivo luminosissimo dunque ma, quando utilizzato al massimo delle sue peculiarità, con un’area di nitidezza estremamente esigua. Alcune delle scene a lume di candela, dove solo gli occhi dell’attore inquadrato sono a fuoco, lo dimostrano. Kubrick “voleva conservare la patina naturale e l’atmosfera degli antichi castelli di notte per come realmente erano. L’uso di qualsiasi altra luce avrebbe reso artificiali le scene.” Le limitazioni tecniche dell’ottica costrinsero gli attori a muoversi lentamente senza indietreggiare
o avanzare, per lasciare invariato il fuoco conferendo alla pellicola una fluidità ipnotica, a detta di alcuni onirica. Il procedimento messo a punto da Kubrick e Alcott tocca l’apice nelle scene di gioco, come quando Lord Ludd, circondato dalle sue amanti (omaggio a Watteau) affronta Balibari e Redmond; o nell’incontro con Lady Lyndon, dove l’azione drammatica si concentra nello scambio di sguardi: la calda luce delle candele sui cristalli (rafforzata dai riflettori), i colori cangianti dei costumi, il viso truccato di uomini e donne, l’affettazione dei personaggi creano davanti ai nostri occhi l’impressione di un mondo completamente “altro”. Si osservi che l’impiego di questa illuminazione, giustificato quando si tratta di un palazzo, pone invece problemi di verosimiglianza quando si gira in ambienti più modesti, come nella capanna di Lischen che, per necessità di ripresa, sfoggia una mezza dozzina di candele: spesa voluttuaria assolutamente improbabile all’epoca. Le riprese “a luci basse”, l’uso di un obiettivo a grande apertura di diaframma, la forzatura del negativo in laboratorio, danno tuttavia un effetto estetico interessante: la creazione di una “grana” sull’immagine, effetto differente
40 da quello più frequente della “tramatura”. Così, l’immagine cinematografica sa ritrovare le preoccupazioni pittoriche di certi fotografi anglosassoni di fine Ottocento. Altrettanto interessante è il lavoro sull’immagine in esterni. Nei paesaggi, Kubrick e Alcott rinunciano a quello che è stato a lungo uno dei “luoghi proibiti” della ripresa: la “falsa tinta”, cioè la variazione di luce naturale, come per l’arrivo di una nuvola sul sole durante le riprese. Barry Lyndon è dunque il primo film a proporci superbi paesaggi e soprattutto ammirevoli cieli, degni del pennello di Constable, dove l’occhio vede vivere la luce e il vento. Bisogna ancora sottolineare le “luci basse” in esterni (effetto di crepuscolo o di nebbia), come l’impiego della luce radente alla fine del giorno nella scena in cui il capitano Quin corteggia Nora Brady prima di essere interrotto dall’arrivo di Redmond: qui il riferimento a Gainsborough è stupefacente. La luce del giorno morente esalta i colori, soprattutto negli abiti femminili, tutto acquista rilievo grazie alle ombre prodotte e si crea un effimero clima drammatico. Altrettanto straordinari sono i risultati ottenuti nella stilizzazione cromatica in 2001 Odissea nello spazio (1968), dove John Alcott esordì come
“fotografo aggiuntivo” imparando evidentemente molto bene da Geoffrey Unsworth. Non a caso pochi anni dopo divenne “titolare” in Arancia meccanica (1971). Rimane comunque senza dubbio uno dei suoi capolavori l’utilizzo della luce e dei colori in Shining (1980), dove ogni ambiente dell’immenso albergo acquista personalità e dignità propria di personaggio, oltre che per la maestria del regista inglese, anche per la raffinatezza fotografica di Alcott che scalda e raffredda i toni a suo piacimento in ogni scena, a seconda dell’effetto che il racconto vuole in quel momento trasmettere allo spettatore. Da ricordare poi che Alcott fu anche Direttore della fotografia del film Sotto Tiro (1983) di Roger Spottiswoode, dove anche nella trama, e di conseguenza nell’uso delle immagini, ci si cimenta proprio con il ruolo della fotografia nelle vicende umane e con la possibilità che il “filtro” fotografico sulla realtà possa influenzarne lo svolgimento e la loro stessa conclusione. John Alcott si affermò nella sua breve vita come uno dei più importanti direttori della fotografia del mondo. Ricordato come uomo modesto e timido, Alcott preferì far brillare i set piuttosto che rivolgere i riflettori su sé stesso.
Con Kubrick sviluppò il concetto di uso della luce “naturale”, tecnica che fu eseguita anche in diverse scene di Shining, illuminate con fonti reali come lampadari e finestre. Per settimane effettuò test su modellini in scala del labirinto, così come per Barry Lyndon, studiò i pittori del settecento per penetrare gli ambienti in assenza di illuminazione artificiale. Alcott era la mente alla quale si deve il compimento di alcune meraviglie della cinematografia e, come spesso accade per i grandi, visse la sua presenza con riservatezza e senza protagonismo. Per impegni già assunti con la produzione di Senza via di scampo, non fece parte del cast di Full Metal Jacket, ennesimo cult di Kubrick. Le pellicole uscirono entrambi l’anno seguente la scomparsa di Alcott, anno in cui ben tre suoi film entrano nella top 20 dei “Best Shot” della American Society of Cinematographers. John Alcott morì nel 1986, stroncato da un infarto, durante un viaggio con la moglie a Cannes, una delle mecche di quel cinema che - come per Kubrick - faticò a conferire loro gli onori dovuti. Di Kubrick, Alcott disse: “Se non fosse stato un regista, sarebbe probabilmente divenuto il più grande direttore di fotografia.” Ma senza di lui, Kubrick non si
Jack Nicholson in Shining, 1980 regia: Stanley Kubrick fotografia: John Alcott
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42 servì più della luce naturale. Esiste uno stretto rapporto tra il cinema del regista e maestro di scacchi Stanley Kubrick e le arti figurative, nel senso che ogni sua immagine filmica è il risultato di studi approfonditi e di strategie complesse, generandosi in un’articolata e polisemantica esperienza visiva nella scacchiera dell’iperrealtà. La maniacale e capillare ricercatezza che Kubrick dimostra nei propri film si manifesta frequentemente proprio nello spiccato gusto per l’inserimento di riferimenti artistici. Un procedimento che deve molto a Visconti nell’attenzione all’autenticità meticolosamente filologica delle ricostruzioni di ambienti e situazioni ma che, a differenza del regista italiano, non ha retaggi in una visione (neo)realista o estetizzante, alimentandosi piuttosto dalla colta complessità visionaria dell’autore e dalla sua volontà di utilizzare il potenziale evocativo dell’arte al servizio di un intento non unicamente figurativo, ma legato, nella ricchezza di elementi formali di astratta idealizzazione e nel notevole e “superiore” valore estetico delle immagini, alla dimostrazione dell’inaccessibilità del mondo che il cinema rappresenta per chi ad esso si avvicina. “Il cinema è la fotografia della
fotografia della realtà”, afferma Kubrick. Un interdipendente insieme di rimandi e citazioni dà vita ad una doppia scrittura testuale sulla quale viene tessuta la vicenda narrata, intersecandosi con enigmatiche isotopie tematiche che arricchiscono la sostanza filmica e ne ampliano i significati; la capacità del regista è nel fondere intrinsecamente l’opera d’arte con la situazione narrativa in atto, raggiungendo così una forma di unitarietà inscindibile fra tutti i mezzi artistici usati e riuscendo ad attribuire ad ogni singola inquadratura, contemporaneamente, diverse tipologie semantiche (tematica, figurativa, mitica, sociologica). I riferimenti all’arte possono quindi richiamare temi e contenuti collegati a determinate opere, oppure evocare parallelismi tra le opere citate e le situazioni narrate nel film; ad esempio in Barry Lyndon i “quadri” che il regista mette in scena hanno la funzione di elementi di mediazione fra il presente ed il passato, una macchina del tempo per raggiungere un’epoca distante, e, contestualmente, nella loro lontananza e fissità, alludono all’impossibilità di un approccio vero e profondo con la Storia, di cui è disponibile solo la rappresentazione. In 2001: Odissea nello spazio, ope-
Malcolm McDowell in Arancia Meccanica, 1971 regia: Stanley Kubrick fotografia: John Alcott
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ra mitica quanto umana, Kubrick inizia ad utilizzare il colore, evitando tuttavia di dare rappresentazioni realistiche agli elementi filmici, ma piuttosto facendo assumere ad essi significati che naturalmente non assumerebbero. La serie delle Dune di Mondrian, coi loro colori mentali, possono considerarsi quali suggestioni figurative, insieme ad alcune vedute di Friedrich, per i paesaggi desertificati del film, dalle tonalità basse e chiare. I corridoi di luce rimandano alle Skylight series del pittore pop Allen Jones; la sequenza del viaggio oltre l’infinito, quando l’astronauta Bowman cerca di raggiungere Giove, entrando in nuove dimensioni di esperienze spazio-temporali,
diverse da quelle terrestri, è ideata facendo ricorso ad un vorticoso succedersi di immagini elettroniche, di Optical art, di strutture architettoniche, di circuiti stampati, di fotografie molecolari, evocando Donald Judd, Richard Serra e Sol LeWitt, in un estraniante iper-spazio metafisico. Per la forma più idonea a comunicare il senso ed il valore della continuità cosmica, senza connotazioni emotive, il regista si indirizza alla Minimal art e sceglie un parallelepipedo tutto nero, elemento di volumetria pura privo di seduzioni decorative e di godimento estetico. Il monolito, nella sua astrazione totemica e divinatoria senza tempo e senza cultura storica, riscontra un preciso
Danny Lloyd in Shining, 1980 regia: Stanley Kubrick fotografia: John Alcott
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riferimento contemporaneo nelle Space columns di Peter Kolisnyk a Toronto e nelle sculture 3×1 di William Turnbull. In Arancia meccanica, Kubrick usa l’esperienza della Pop art e la sua carica giocosa ed oltraggiosa, provocante e disarmante, per smascherare una società desertificata nei valori, con l’esibizione oltremisura di comportamenti o di oggetti, presi come simboli grotteschi di una dimensione reale di degradante drammaticità, rappresentata nel suo atteggiamento mercificatorio, massificante ed onnivoro. Il film stesso è un’opera pop, con un uso del colore marcatamente antinaturalistico, quasi fumettistico, a sottolineare situazioni dall’andamento schizofrenico, rese con un’ambiguità presa dal linguaggio pubblicitario:
l’occhio rigogliosamente truccato del protagonista Alex sembra la réclame di un rimmel; i balordi nelle loro divise bianche da pronto intervento, abbinate all’elegante bombetta nera, paiono personaggi gessosi di Segal tornati alla vita e alla violenza come mummie assassine; la coperta color verdino sul letto di Alex abbinata al rosa delle pareti è una ricercata installazione kitsch. Le figure di donne nude in atteggiamenti esibiti, trasformate in sedie e tavolini nel Korowa Milk Bar, ritrovo della banda di Alex, risentono della scultura di Henry Moore, dei lavori di Allen Jones ed ancora dell’antropomorfismo di Segal; l’appartamento della donna dei gatti contiene elementi di arte contemporanea quali il fallo di gesso, riferibile a Princess di
45 Brancusi, e il dipinto che richiama Great american nude di Wesselmann. La scena dell’ora d’aria del protagonista in carcere è uno speculare rimando figurativo ed emotivo alla Ronda dei carcerati di Van Gogh. In Shining, Kubrick ribalta i canoni del cinema horror, generalmente dominato da ambienti tenebrosi, abbagliando gli spazi di luce bianca e producendo ugualmente un senso di terrore, grazie all’uso insinuante della soggettiva, che trascina nelle allucinazioni vissute dai protagonisti. Il film inizia con ardite inquadrature in movimento di paesaggi del Colorado, presi dall’alto, che citano i vertiginosi e vibranti effetti dell’aeropittura italiana di Dottori. L’inquietante Overlook Hotel, co-protagonista di Shining, è un grande edificio di montagna con accanto un labirinto di siepi, come labirintica e claustrofobica è la struttura dell’albergo, che richiama opere architettoniche di Wright nei gabinetti e nel salone dove Nicholson scrive, assai vicino a quello dell’Imperial Hotel di Tokyo, progettato da Wright stesso nel 1916, nel gioco delle simmetrie e degli apparati decorativi e cromatici. L’ultimo Eyes Wide Shut (1999) è uno dei film più pittorici di Kubri-
ck, con scene in cui i colori sembrano disposti con cura su una parete bianca come da un vero pittore, con modalità “finzionali” opposte a quelle “emozionali” dei lavori precedenti, che ricollegano il film al testo al quale è ispirato, Doppio sogno di Schnitzler. Oltre ai riferimenti ad un sabba di Bosch nella scena orgiastica, sono presenti atmosfere affini al mondo secessionista di fasto e decadenza di Klimt, dove spesso è l’oro a dominare lo sfondo: come nella sequenza del ballo, in cui cascate luminose originano bagliori aurei diffusi che sembrano generati dallo schermo, concorrendo a creare fra gli ambigui personaggi un clima di cerebrale sensualità che lascia una sensazione di sceneggiatura onirica. Come un testamento.
Jim Carrey in The Mask, 1994 regia: Chuck Russell fotografia: John R. Leonetti
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Non si muove, non esprime […], non desidera nulla, non chiede nulla. […] Assoluta assenza di movimento.
Wassily Kandinsky
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l verde nasce dal giallo e dal blu, l’incontro tra un colore caldo ed uno freddo. Può esprimere tranquillità ma anche monotonia, immobilità del tempo, ripetizione di noiose routine, prigionia. Ne sono esempio Il miglio verde (2000) di Frank Darabont e Hunger (2008) di Steve McQueen. Uno dei colori più particolari, in grado di cambiare totalmente il suo significato in base al luogo in cui è inserito. Un’ambientazione selvaggia e immersa nel verde della vegetazione può dare sia allo spettatore che ai personaggi un senso di rinascita e sfida alla sopravvivenza. Tuttavia, un ambiente chiuso o casalingo dalle tonalità verdi, può dare al contrario una sensazione di noia e monotonia. Ne è un esempio l’uso che ne viene fatto nel film L’Uomo senza sonno, volto a rendere l’idea della ripetitività, di una routine quotidiana immersa nel malessere. “Il verde assoluto è il colore più calmo che ci sia: non si muove, non esprime gioia, tristezza, passione, non desidera nulla, non chiede nulla… Questa assoluta assenza di movimento… può venire a noia… Da un punto di vista musicale esprimerei il verde assoluto con i toni calmi, ampi, semigravi del violino.” diceva Wassily Kandinsky nel Lo spirituale nell'arte. Il verde significa forza, perseveranza, equilibrio, stabilità, solidità e costanza. È il colore della speranza, di chi vuole crescere, affermarsi, comandare. La scelta del verde indica autostima. La persona “verde” è calma e tranquilla, amante della stabilità, di una vita senza scosse ed imprevisti. Molto onesta, equa e realista,
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Vita crescita natura fertilità acido veleno rabbia invidia morte
desidera sicurezza e continuità, è competitiva e un po’ arrivista, ha difficoltà a collaborare con gli altri, non disdegna di mirare ad una certa affermazione personale. Prefissato un obiettivo, lo segue fino in fondo con decisione, grinta ed agilità mentale. Molto efficiente ed abile sul lavoro, in casa ama l’ordine e la pulizia. Un intellettuale dotato di grande moralità e di buon senso. Il verde è associato a Venere, dea dell’amore e della fertilità. Talvolta è anche associato ad una simbologia negativa. È il colore della rabbia, della putrefazione e dell’invidia; nel corpo umano è segno di grave malattia e di morte. A livello internazionale, è il simbolo del permesso (passare ai semafori); viene anche usato nei siti che pubblicizzano prodotti alimentari a base vegetale e prodotti naturali per bellezza. È un colore molto ricorrente in Blade Runner di Ridley Scott dove aiuta ad esprimere malinconia, squallore, noia e solitudine alludendo anche alla vita da schiavi condotta dai replicanti oltre al degrado della società e della metropoli di L.A. Benché il verde sia un colore che esprime quiete, “è immobile, privo di movimento”, simboleggia la natura, l'ambiente, la vita, la crescita, la fortuna, la gioventù ma anche l'acido e il veleno. L’effetto di stabilità prodotto dal verde rappresenta, da un punto di vista psicologico, i valori saldi che non mutano. È un colore concentrico, passivo, difensivo, autonomo e cauto. Fight Club (1999) di David Fincher è un film pieno di verde, soprattutto nelle scene iniziali che si muovono nella monotonia e noia della routine di una persona comune, come se niente avesse un senso. Anche qua come ne L’uomo senza sonno il protagonista è insonne. Il verde è nel simbolo di Starbucks, nelle luci e negli sfondi. Il verde è uno dei colori principali della serie di Harry Potter composta da sette film. Colore per eccellenza dei Serpeverde, è associato con la Magia Oscura, con l’invidia e con gli occhi di Lily e Harry. Così come per i Grifondoro, il verde e l’argento dei Serpeverde sono associati all’elemento che più rappresenta la casa: l’acqua. Nel folklore, il verde ha da sempre connotazioni soprannaturali. La Rowling spiega che è un colore che appartiene alle fate, è collegato alla sfortuna e alla morte. Ecco perché non andrebbe mai indossato ai matrimoni.
Brad Pitt in Fight Club, 1999 regia: David Fincher fotografia: Jeff Cronenweth
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50 Il verde riporta anche delle associazioni positive, come l’energia e la rinascita. Nel mondo magico, la Rowling ci spiega che viene utilizzato a rivelare lo status magico ad altri maghi, spesso combinato con il viola. Insomma, così come alcuni studenti della casa di Serpeverde, le teorie su questo colore sono piuttosto sfuggenti. Il verde è anche il colore della natura che rimanda all’idea di aria aperta, libertà, tranquillità, riposo e silenzio. Inevitabilmente Sean Penn realizza Into the wild con toni caldi e verdi, per rifarsi ad una vita spensierata in un paesaggio bucolico. In Dallas Buyers club (2013), di Jean-Marc Vallée, il verde si ritrova come tonalità dominante in quei film in cui i protagonisti assumono droghe, farmaci o vengono avvelenati da sostanze tossiche. Si allude ancora alla “natura” in quanto queste sostanze sono dei derivati naturali. Alludendo alla sensazione di pace indotta da alcuni stupefacenti, viene usato anche in Trainspotting (1996) di Denny Boyle. In Natural born killers (1994) di Oliver Stone, i protagonisti cercano in una farmacia l’antidoto per il veleno del serpente a sonagli da cui sono stati morsi. Wes Anderson è forse il regista che più di chiunque altro ama il colore e gioca con le più svariate sfumature nella sua filmografia. Famoso per l’utilizzo del rosso e del giallo, riesce a dare spazio anche al verde nel film Moonrise Kingodom – Una fuga d’amore, diretto nel 2012. Nessuna tonalità, d’altra parte, poteva meglio fare da sfondo ad una storia bucolica e ambientata nella natura incontaminata, si armonizza perfettamente alle atmosfere della pellicola. Una delle pellicole più amate e odiate degli ultimi 20 anni, Il favoloso mondo di Amélie (2001) di Jean-Pierre Jeunet ha sicuramente una caratteristica innegabile: la bellissima fotografia di Bruno Delbonnel. Il film ha un look estremamente vintage, sia nei costumi, sia nelle scenografie che nei colori. Anche in questo caso il bianco è sostituito dal giallo, il nero da un verde scuro, ed ogni inquadratura è caratterizzata principalmente da verde, rosso e giallo. L’intento del regista era proprio quello di distaccare la storia dal reale, ambientarla in un mondo sopra le righe e ricostruire il “favoloso” modo di vedere le cose di Amélie. In, ultimo, come non citare il film Matrix (1999) diretto da Lana e Lilly Wachowski. Il codice verde che costituisce la struttura della Matri-
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Keanu Reeves in Matrix, 1999 regia: Andy e Larry Wachowski fotografia: Bill Pope
Michael Fassbender in Hunger, 2008 regia: Steve McQueen fotografia: Sean Bobbitt
ce, non è casuale. Difatti la colorazione verdastra, oltre ad essere un richiamo dei primi computer, è data dalla somma dei colori primari giallo e blu, attribuiti dai registi rispettivamente ai colori delle macchine e degli umani.
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uando si parla del più famoso ed influente regista inglese, Sir. Alfred Hitchcock, molti sono i film che vengono in mente: Psycho (1960) in primis, subito seguito da North by Northwest (1959), The Rear Window (1954) e Vertigo. Hitchcock, da grande esperto del “visibile” quale era, ha sempre tenuto d’occhio l’arte e le sue tendenze e per Psycho andò a trarre ispirazione dall’opera del pittore americano Edward Hopper, mai davvero inserito in nessuna corrente se non quella personalissima del proprio stile, che almeno trent’anni prima aveva ritratto proprio la casa perfetta per il suo film. L’aveva messa vicino ad una ferrovia (appunto The House on the railway), scorciandola leggermente dal basso in modo da renderla incombente e inquietante quel tanto che bastava. La luce, i tagli di ombre, tutto già nel quadro di Hopper concorreva a dare a quella casa non solo dignità di personaggio ma anche personalità forte e multipla. E fu così che il grande regista inglese ottenne anche l’effetto di mostrare al mondo, riprodotta in tre dimensioni e animata da un sinistro soffio vitale, la casa dipinta tanti anni prima dal grande pittore americano. È importante ricordare
che Hitchcock ha iniziato la sua carriera nell’era dei film muti. I suoi primi nove film come regista erano tutti silenziosi, e persino il suo primo film sonoro, Blackmail (1929), fu pubblicato in versioni silenziose e sonore. I limiti della forma silenziosa hanno portato i registi a sviluppare un linguaggio visivo per consentire loro di dire con le immagini ciò che non potevano usare, il dialogo o il suono. All’epoca dell’arrivo del suono, nel 1927, (più tardi in Europa) questo linguaggio cinematografico era diventato così sofisticato che alcuni ritennero che il suono fosse quasi inutile. Altri - tra cui Hitchcock - sentivano che l’arrivo del suono significava che qualcosa andava perso nel cinema. I registi non erano più costretti a raccontare una storia usando solo le immagini, e di conseguenza la narrativa visiva del cinema ne soffriva. Nel corso della sua carriera, Hitchcock ha continuato a credere nel cinema come mezzo visivo. Per lui, il dialogo e il suono dovrebbero rimanere secondari, rispetto all’immagine, nel raccontare la storia. Questo non vuol dire che fosse completamente disinteressato al dialogo ma è vero che quando pensiamo a Hitchcock tendiamo a ricordare le immagini - la scena della doccia
Sir Alfred Joseph Hitchcock Londra, 13.08.1899 – Los Angeles, 29.04.1980
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54 in Psycho (1960) o l’ammanettato Robert Donat e Madelaine Carroll in The 39 Steps (1935) - piuttosto che le linee di dialogo. “Quando raccontiamo una storia al cinema, dovremmo ricorrere al dialogo solo quando è impossibile fare diversamente; cerco sempre prima di raccontare una storia in modo cinematografico, attraverso una successione di scatti e frammenti di film nel mezzo”, ha affermato Hitchcock. Egli ha capito, come pochi altri cineasti, che l’attrazione del cinema è il modo in cui ci permette di guardare senza essere visti, di soddisfare la nostra curiosità sulla vita degli altri. I suoi film riguardano spesso l’atto di guardare, in modo ossessivo o malsano. Pensa al James Stewart in sedia a rotelle che spia i suoi vicini in Rear Window (1954), o Anthony Perkins a Norman Bates che guarda Janet Leigh che si spoglia in Psycho (1960). “Le donne in pericolo” sono state la caratteristica di molti film di Hitchcock, come lo erano stati nel cinema sin dai suoi primi giorni. Il primo film di Hitchcock, The Pleasure Garden (1926), presenta una donna che cade vittima di un marito ingannevole e violento, mentre le vittime dell’assassino in The Lodger sono donne bionde. Hitchcock stesso preferiva le attrici
bionde e più di uno era obbligato a tingersi i capelli per un ruolo. Diverse attrici si sono lamentate del fatto che Hitchcock era brutale sul set, e spesso sembrava divertirsi guardando i suoi personaggi femminili soffrire. Nel film Vertigo il regista inglese ha collaborato con Robert Burks. Dal 1951 (con L’altro uomo – Strangers on a train) fu il suo direttore della fotografia preferito, seguendolo nella gran parte dei capolavori della sua maturità artistica, basti pensare a tutti i film in cui ha collaborato: Il delitto perfetto (1954), La finestra sul cortile (1954), L’uomo che sapeva troppo (1956), Il ladro (1956), La donna che visse due volte (1958), Intrigo internazionale (1959), Gli uccelli (1963), Marnie (1964). Per questi film, e per le esigenze di un regista come Hitchcock che ad ogni girato inventava cose nuove, occorreva continuamente trovare delle soluzioni per illuminare scene in teatro di posa che poi venivano montate con sfondi o altri trucchi per diventare scene all’aperto. Virtuoso di posizionamento e diffusione delle luci, ricreare in modo artificiale la luce naturale del giorno era uno dei suoi “passatempi” preferiti. Se si guarda con occhio attento molte di quelle scene, ci si accorge (e non sempre) di quante siano le
Kim Novak in Vertigo, 1958 regia: Alfred Htchcock fotografia: Robert Burks
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56 situazioni in cui si passa da una luce artificiale ad una naturale senza che quasi se ne abbia percezione o in quanti casi nella stessa immagine siano combinate insieme parti di diverse inquadrature riprese in condizioni completamente differenti. I film con Hitchcock hanno segnato la sua carriera come direttore della fotografia, e ciò che colpisce immediatamente di loro è la loro portata visiva. Infatti, durante gli anni Cinquanta, Hitchcock realizzò due tipi distinti di film. Per Paramount, ha realizzato film di grosso budget a colori, con star affermate e tattiche di suspense gradevoli alla folla. Per lo studio più avventuroso della Warner Bros., ha realizzato film con budget inferiori, di solito in bianco e nero, con attori meno conosciuti ed esplorando forme di ironia e pessimismo che divennero i toni dominanti dell’ultimo lavoro di Hitchcock. Si dice che il regista sia stato devastato dalla morte di Burks, molti credono che se questo incidente non si fosse verificato, i due avrebbero continuato a realizzare numerosi altri capolavori. La storia di Vertigo è una storia di inganno e ossessione. Una storia di una fobia che viene usata per un crimine pauroso, inquietante. Parecchi film di Alfred Hitchcock mostrano una
tensione, una suspense sospesa fino all’ultimo fotogramma. In gioco c’erano delitti o interessi da tenere ben nascosti. Vertigo, conosciuto in Italia col nome di La donna che visse due volte, è un film diverso. Se in tutti i suoi film molti sono i tratti comuni, a partire dal genere noir / thriller psicologico, Vertigo ha qualcosa che si fa distinguere: l’uso particolare ed accentuatissimo del colore, soprattutto della coppia di complementari rosso-verde, quest’ultimo sarà probabilmente il colore che più renderà celebre la pellicola. La perfezione di Hitchcock lo rende un film magnifico, già partendo dai titoli di testa, un mix psichedelico di cerchi, spirali e ipnotiche sovrapposizioni che lasciano intendere chiaramente il tema del film, arricchiti da un primo piano della protagonista, Madeleine/ Carlotta. I colori vestono un ruolo fondamentale per il film; la scelta è legata al significato e alle sensazioni che vuole trasmettere. L’ossessione per i colori di Hitchcock, presente anche nel Il delitto perfetto, qui diventa chiave di lettura. Un elemento quasi di vitale importanza per capire il film. Il primo colore che accompagna la prima sequenza in cui viene presentata la situazione di Scottie, è un blu molto cupo che non fa altro
57 che dare l’idea di una profonda instabilità, di una profonda tristezza legate all’evento iniziale. Il rosso è presente quando viene mostrata per la prima volta Madeleine. Compare in un locale completamente rosso, ma lei è vestita di verde, colore rappresentativo della donna; un verde saturo e netto che salta subito all’occhio dello spettatore. Il bellissimo contrasto tra il locale rosso e il suo vestito verde è da antologia. Anche l’auto di Madeleine/Carlotta è verde. La protagonista guida un’auto verde e quando si reca in visita a un cimitero la fotografia del film è dominata da tinte verdi che avvolgono la scena in una atmosfera onirica. La donna dimostra di essere vittima di strane ossessioni: si identifica con la bisnonna Carlotta che, abbandonata dall’amante e privata della figlia, morì suicida a ventisei anni, la stessa età di Madeline. Successivamente il verde dominerà tutte le immagini legate alla morte. Una volta arrivati a casa anche Scottie è vestito di verde e fa vestire di rosso Madeleine. Scambio di colori, scambio di conoscenze. I colori sono completamente messi a servizio dell’evoluzione e dello sviluppo dei personaggi i cui cambiamenti sono segnalati anche dalle variazioni cromatiche che li
circondano. Anche Judy, la donna che incontra dopo la morte di Medeline e che somiglia all’amata morta, veste di verde. Quando Scottie la conosce per la prima volta la vede vestita di verde. Il poliziotto inizia a frequentare Judy, spingendola a vestirsi e a comportarsi come la donna amata e perduta. Emblematica a riguardo è la celebre scena in cui il profilo di Judy presenta uno sfondo di color verde: ciò rappresenta a pieno il perfetto slittamento voluto da Scottie tra le due figure femminili, il protagonista sta cercando di trasformare una donna viva in una ormai morta. Attraverso la rigenerazione di una donna morta Scottie torna alla vita. Il protagonista desidera unirsi fisicamente e idealmente col fantasma di Madelaine, tanto che concentra tutte le sue energie nella creazione di un simulacro della donna perduta. In realtà realizza una nuova illusione, senza rendersi conto del fatto che Judy-Madeleine è la Madeleine che crede morta. In conclusione, il protagonista e l’intera storia possono dirsi incentrati sul concetto dell’illusione. Durante la scena dell’incubo di Scottie due colori sono ricorrenti. Il rosso, il colore dell’amore, ma anche dell’ossessione e della paura, delle vertigini di cui Scottie soffre, e il verde
Kim Novak e James Stewart in Vertigo, 1958 regia: Alfred Hitchcock fotografia: Robert Burks
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59 colore del brivido, dei fantasmi, del distacco dalla realtà, della perdizione e dell’irrazionalità. Il blu e il giallo, invece, sono i colori della realtà, del reale. Midge, la donna innamorata di Scottie, veste di giallo e ha una casa quasi completamente gialla e tutto ciò che tocca è dello stesso colore, mentre Scottie è circondato dal rosso, almeno all’inizio del film, e quando è in depressione, veste di blu. Il protagonista potrebbe essere un alter ego dello stesso Hitchcock, proprio perché, al pari di un regista, tenta di dar vita, manipolando Judy, a un soggetto inventato. L’intero film è ambientato a San Francisco. Il Golden Gate Bridge, divenuto uno dei luoghi culto per gli appassionati di cinema, presente nella scena in cui Madeleine si getta in acqua, fu scelto da Hitchcock già nel 1951. Lo spazio filmico è strutturato in base ad un continuo alternarsi di alto e basso. Alle superfici piane in cui il protagonista si muove sicuro si oppone la verticalità del campanile, del monastero o dei tetti in cui Scottie è in evidente difficoltà. Il regista, fin da subito, vuole che lo spettatore condivida con Scottie anche l’esperienza della vertigine, resa tecnicamente attraverso la sincronia tra la zoomata all’indietro e la carrellata
in avanti. Spirali, elementi circolari e riflettenti, poi, sono onnipresenti nel film, per suggerire costantemente il tema del multiplo, dello sdoppiamento di persona. Particolarmente importanti, nella seconda parte del film, sono le immagini in cui compare lo specchio. Quest’ultimo rappresenta l’elemento attraverso cui il protagonista vede se stesso e, contemporaneamente, ha la possibilità di vedere il personaggio femminile che, a sua volta, si osserva sulla superficie riflettente. Vertigo rappresenta, nella filmografia hitchcockiana, il film forse più sperimentale e avanguardista di tutti per quanto riguarda i colori e gli effetti visivi, soprattutto se si pensa all’epoca in cui è stato ideato, con mezzi tecnologici estremamente più limitati di quelli d’oggi e ben pochi altri esempi con cui confrontarsi. Il tema della spirale, in particolare, è un fil rouge che guida lo spettatore dai titoli di testa, ai capelli di Madeline, alle scene di vertigini, all’incubo, ai titoli di coda. Raramente un film rispetta in modo così coerente il titolo nonché il tema di base, sia a livello concettuale sia a livello estetico/visivo.
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Il rosa. Questo colore non entra mai in guerra e sembra sempre sul punto di svanire nell'invisibile. Christian Bobin
Ana de Armas in Blade Runner 2049, 2017 regia: Denis Villeneuve fotografia: Roger Deakins
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onsiderato il colore della femminilità per antonomasia, il rosa, delicato e romantico, è il colore preferito delle bambine e delle persone che si considerano romantiche e sognatrici. Inizialmente non era così, perché è stato considerato, per secoli, un colore abbinato al sesso maschile. Nel Diciottesimo secolo era perfettamente normale per un uomo indossare un abito di seta rosa con ricami floreali. I bambini e le bambine fino ai 6 anni, inoltre, erano vestiti e vestite con abiti lunghi di colore bianco senza sostanziali differenze tra maschi e femmine. Più che basata sul sesso, la distinzione degli indumenti avveniva per età: differenziava semplicemente i più piccoli dai più grandi. Il rosa e il blu, insieme ad altri colori pastello, furono introdotti nell’abbigliamento per bambini nella metà del Diciannovesimo secolo, ma non implicavano alcun significante di genere. Uno dei primi riferimenti all’attribuzione dei colori al sesso si trova in Piccole Donne di Louisa May Alcott, dove un nastro rosa è usato per identificare la femmina e uno azzurro il maschio. L’usanza però viene definita dalla stessa Alcott come “moda francese”, come a dire che non era ancora una regola riconosciuta ovunque, ma anzi, era una specie di vezzo “esotico”. Il rosa veniva visto più vicino al rosso, un colore forte e virile legato agli eroi e ai combattimenti, mentre il blu veniva associato al colore del velo con cui veniva rappresentata la Vergine Maria, per questo più indicato per vestire le bambine. Nel 1775 alla corte francese di Maria Antonietta il “couleur puce” divenne l’uniforme di Fontainebleau e il solo colore che si potesse indossare. Lo ritroviamo proprio nel film Marie Antoinette del 2006 diretto da Sofia Coppola.
62 Tra gli anni Trenta e Quaranta le cose iniziarono però a cambiare: gli uomini cominciarono a vestire con colori sempre più scuri, associati al mondo degli affari, per distinguersi dalle tinte chiare percepite come più femminili e legate alla sfera domestica. A un certo punto, negli anni Cinquanta, avvenne una precisa assegnazione dei colori: il rosa finì per essere identificato con le donne e divenne onnipresente, non solo nell’abbigliamento, ma anche nei beni di consumo, negli elettrodomestici e nelle automobili. Questo colore può assumere diversi significati in base alle tonalità con cui si presenta. Il rosa pastello può simboleggiare innocenza, giovinezza, purezza d’animo, dolcezza ed ha una capacità fortemente rilassante. Lo ritroviamo in film come l’horror It Follows, un film del 2014 diretto da David Robert Mitchell, in cui viene utilizzato per introdurre la protagonista adolescente prima della perdita della sua verginità ed anche, per citare un must, in Grand Budapest Hotel del 2014 scritto, diretto e co-prodotto da Wes Anderson, tutto un pink dégradé dalla facciata Art Nouveau dell’albergo alle montagne di scatole della pasticceria. Se è acceso e tende al fucsia, può essere associato ad uno stile posh, alla frivolezza e a personaggi caratterizzati da un look particolarmente glamour. Come non citare in questo caso Gli uomini preferiscono le bionde, una pellicola del 1953 diretta da Howard Hawks. È un colore che, derivato dal rosso ma mitigato dalla purezza del bianco, indica anche fascino, bellezza, delicatezza, raffinatezza, empatia, tenerezza; inoltre attenua sentimenti di rabbia e aggressività, il senso di abbandono e la voglia di vendetta verso gli altri.
Marilyn Monroe in Gli uomini preferiscono le bionde, 1953 regia: Howard Hawks fotografia: Harry J. Wild
Kirsten Dunst in Marie Antoinette, 2006 regia: Sofia Coppola fotografia: Lance Acord
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Wesley Wales "Wes" Anderson Houston, 1.05.1969
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no stile inconfondibile e originale che permette di individuarlo da una sola inquadratura, è quello che caratterizza i film di Wes Anderson. Madri risolute, bambini fuori dal comune, adulti eterni fanciulli, sognatori e spesso depressi, sono alcuni dei personaggi che caratterizzano i suoi racconti ironici, surreali, eleganti ed eccentrici, costruiti con una maniacale cura psicologica ed estetica, come egli stesso affermò: “ogni film che ho fatto è nato dall’accumulo di informazioni circa i personaggi: chi sono e come è il loro mondo.” Amare i film di Wes Anderson significa amare il lavoro del direttore della fotografia e, colui che lo ha accompagnato in suoi sette capolavori, è Robert Yeoman e si possono immaginare quanti ostacoli avrà dovuto superare considerando l'inclinazione di Anderson per la creazione di mondi immersivi con scenografie e costumi altamente dettagliati, così come la sua insistenza sul fatto che tutto sia perfetto all'interno
della cornice. La vincita del primo Oscar per la migliore fotografia è avvenuta nel 2015 con Grand Budapest Hotel. Inizialmente, Yeoman, ha girato i suoi progetti nello stile degli anni ottanta ma nel corso del tempo ha semplificato la sua tecnica. Durante l’illuminazione degli interni ha una regola semplice: creare la luce più morbida possibile, apparentemente da una fonte, dal lato; per controllare la fuoriuscita usa le griglie della cassa per le uova. Questa tecnica consente agli attori di potersi muovere liberamente garantendo sempre la loro luminosità. Negli esterni, tende a tenere i suoi attori retroilluminati oppure illuminati lateralmente, quando non scatta in condizioni ideali tende ad usare delle sete per diffondere la luce. Adora girare su pellicola, per lo più serie Kodak e usa ogni tipo di obiettivo. La maggior parte dei recenti film che ha realizzato, compresi quelli con Anderson, sono caratterizzati da colori intensi. Alle volte per dare una luce
65 speciale ai volti utilizza lanterne cinesi che permettono di portarli “fuori dallo sfondo”. Recentemente ha iniziato ad utilizzare luci a LED, anche se continua ad avere un debole per gli apparecchi alogeni al tungsteno. Ma oltre questo, cosa rende i film di Wes Anderson, film inconfondibilmente di Wes Anderson? Innanzitutto quando si parla di Wes Anderson non si può far a meno di parlare dei suoi colori brillati, dei suoi contrasti cromatici e della sua fissazione per le divise e gli hotel. L’apice della sua ossessione per gli hotel viene raggiunta con Grand Budapest Hotel, un connubio di ironia, azione e anche drammaticità, capace di coinvolgere lo spettatore in questo viaggio nel tempo piuttosto contorto. Questa pellicola di 100 minuti è ispirata ai racconti dello scrittore austriaco, vissuto nella prima metà del novecento, Stefan Zweig, che ritorna all’interno della narrazione in diverse citazioni. Le figure sembrano essere sagome che spariscono nell’orizzonte di ambienti immensi, attraverso l’uso di focali piattissime. Non solo la natura inghiotte i personaggi ma anche gli stessi ambienti che essi popolano, basti pensare all’immenso e maestoso palazzo rinascimentale che risucchia le
sue figure in sé, facendole diventare parte della sua struttura grazie alla palette di colori utilizzata. Il racconto inizia negli anni ’80 ma, grazie a giochi cromatici e variazioni di dimensioni dello schermo, si viene catapultati negli anni ’60 e infine ’30, bagnati dai totalitarismi. Ogni scena è calibrata e le tonalità di colori presenti si armonizzano come in un dipinto, ad ogni momento ripreso viene abbinata una precisa intenzione cromatica e l’effetto che deve fare sull’occhio di chi guarda. Negli anni ’60, quando l’hotel è ormai anonimo, spogliato da ogni lusso, l’immagine è in anamorfico e i colori che prevalgono sono l’arancione e il verde oliva.
66 Negli anni ’30, l’hotel è ancora lussuoso, sfarzoso, con fregi e magnifici particolari, nel pieno delle sue attività. In momenti caricaturali i colori si fanno contrastanti abbinando il viola acceso delle divise dell’hotel al rosso, come la scena in ascensore in cui il concierge Monsieur Gustave H. e il lobby boy Zero Moustafa si trovano in ascensore con la sfrontata e ricchissima Madame D, mentre in scene che vogliono prendersi più sul serio utilizza schemi di colori monocromatici, ad esempio gli incontri tra il lobby boy e Agatha sono quasi sempre dominati dal rosa confetto, stesso colore utilizzato per l’hotel, che ricorda una grande casa di bambole. Dal rosa confetto dell’hotel si passa al grigio e al nero del castello della famiglia di Madame D già contaminato dal nazismo, con il suo aspetto cupo e brutale, come lo stesso figlio di Madame D. Gli alberghi appaiono di frequente nelle sue opere, a partire dal motel di Bottle Rocket, fino a quello di Hotel Chevalier, il cortometraggio che funge da prequel a Il treno per il Darjeeling. L’hotel è l’opposto della casa, è una sistemazione transitoria che ben si adatta a personaggi in perenne movimento, alla ricerca di un cambiamento e spesso in fuga.
La fotografia del corto e gli arredi della stanza sono dominati dal colore giallo. Tutto si gioca sulla tonalità ocra, in perfetta sintonia con quella dell’accappatoio indossato dalla protagonista. Il tema della “divisa” viene ripreso in diversi film da Anderson per mostrare cambiamenti o caratteristiche dei personaggi. In Rushmore il protagonista indossa occhiali dalla montatura spessa, divisa della scuola, cravatta a strisce e basco rosso da intellettuale francese. Con un solo sguardo, si intuisce subito la sua forte devozione per la scuola privata Rushmore e la sua natura stravagante ed egocentrica, un po’ nerd e un po’ freak. Solo a maturazione compiuta, il protagonista si libera della sua preziosa uniforme, che è una delle tante coperte di Linus che il cineasta dona ai suoi personaggi, ed indossa un completo verde in velluto, fuori moda, che segna la crescita e il definitivo cambiamento nella propria esistenza. Mentre in Moonrise Kingdom – Una Fuga D’amore del 2012, gli abiti dei protagonisti sono lo specchio della loro personalità, Suzy indossa sempre un vestitino in tonalità pastello e scarpe da tennis, Sam veste una divisa da boy scout e si distingue dai suoi compagni al campo scout per via
Tony Revolori e Saoirse Ronan in Grand Budapest Hotel, 2014 regia: Wes Anderson fotografia: Robert Yeoman
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degli occhiali vistosi e di un copricapo in pelliccia. Sono disadattati, ribelli, talvolta violenti. In questo caso le scelte di Wes Anderson puntano più su scene caratterizzate da un unico colore in tutte le sue tonalità. Questa scelta aumenta l’effetto volutamente retrò dell’intero film, l’atmosfera delicata e fantasiosa che lo domina sin dai primi momenti ed è anche un modo per rappresentare la totalità dei sentimenti tipica dell’infanzia dei due protagonisti. Nei suoi film domina una luce tendenzialmente calda che evidenzia i contrasti e accentua la percezione di irre-
altà. Altri elementi dello stile di Anderson sono i movimenti di macchina, la cura del décor e la definizione degli outfit, rétro e cool insieme, ideati dallo stesso Anderson e la simmetria delle inquadrature che pongono le figure al centro dello schermo ma soprattutto dell’attenzione. I colori per Wes Anderson non rappresentano una componente aggiuntiva e quasi scontata del film ma un elemento che ne determina l’ossatura e il risultato finale che altrimenti, non sarebbe così convincente e coinvolgente.
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blu
The Tree of Life, 2011 regia: Terrence Malick fotografia: Emmanuel Lubezki
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onsiderato il colore freddo per eccellenza viene usato generalmente per trasmettere passività, pensieri positivi, di tranquillità o un senso di meraviglia. È una tonalità contraddistinta da un elevatissimo numero di sfumature diverse ed è immediato il suo riferimento al cielo e al mare, i cinesi lo considerano il colore dell’immortalità. È un colore che rende l’idea di isolamento e solitudine, soprattutto se i personaggi ne sono circondati, come nella celebre scena del mare ne Il petroliere, un film del 2007 diretto da Paul Thomas Anderson. Ma è solitamente abbinato alla sicurezza, alla calma, alla tranquillità e alla malinconia, elementi presenti nel film The Truman Show del 1998 diretto da Peter Weir. La palette del film si sviluppa sui toni del grigio e del blu. I colori raccontano i sentimenti e la situazione di Truman. In una prima situazione di dubbio e diffidenza, i colori sono poco saturi poiché ignoti al protagonista ma quantomeno definiti, con il passare del tempo iniziano a schiarirsi fino a quando la saturazione arriva al grigio chiaro, punto in cui i dubbi sul fatto che la sua vita sia macchinata da qualcuno diventano sempre più insistenti. Lo ritroviamo anche
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Ryan Gosling in First Man, 2018 regia: Damien Chazelle fotografia: Linus Sandgren
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nel film Midnight Special di Jeff Nichols del 2015, in cui il bambino protagonista osserva il mondo costantemente filtrato da questa tonalità, reagendo alla vita con un sano stupore infantile. Nonostante sia un colore che suscita calma e serenità, Tim Burton nel film Batman, del 1989, sceglie il blu per caratterizzare la città di Gotham City, governata dalla malavita fino all’arrivo di Batman. Il colore della pace finisce per rappresentare al meglio una città allo sbando, totalmente dominata dalle sfumature di blu. Un altro film che è impossibile non citare è Avatar di James Cameron, del 2009. Vi è una forte presenza di tonalità di blu e azzurro, partendo dall’ambientazione arrivando ai personaggi principali, gli umanoidi Na’vi. Assieme al verde, arancio e rosa, rappresentano i colori tipici del genere Sci-Fi e tecnologico, utilizzati con lo scopo di trasmettere allo spettatore la spettacolarità di un ambiente incontaminato, mettendolo a confronto con la crudeltà che il genere umano è in grado di dimostrare. Cameron ha dichiarato che la scelta del blu come colore della pelle è stata dettata sia dalla necessità di voler rendere i personaggi diversi, alieni, ma anche perché si è ispirato alle religioni orientali in cui le divinità erano rappresentate di blu. In La, la land un film del 2016 scritto e diretto da Damien Chazelle, i colori saturi assumono un ruolo centrale. Il blu è il colore che appare per primo. È il colore del successo hollywoodiano e del mondo dello spettacolo, ma anche del grande potenziale di Mia. Quando si reca alla festa con le sue coinquiline è vestita di blu e subito si nota la differenza da loro, sottolineata dal fatto che le altre ragazze sono vestite di un altro colore ma non in blu. Il blu è inoltre presente in un’altra scena chiave, ossia quando Mia e Sebastian ballano assieme sulle colline attorno alla città. In questo momento ha però un ruolo diverso, serve infatti a far vibrare in tutta la sua forza il giallo del vestito della protagonista femminile. Nel film di fantascienza Sul Globo d’Argento diretto da Andrzej Zuławski nel 1977, il blu ricopre ogni elemento e conferisce agli ambienti estraneità, inospitalità e freddezza. Altri film hanno fatto uso del blu, come Watchmen un film di Zack Snyder del 2009, in cui Dr. Manhattan è blu e Eternal Sunshine of the Spotless Mind, un film del 2004 diretto da Michel Gondry, difatti anche gli amori perduti e gli amori difficili sono macchiati di blu.
Ryan Gosling in Solo Dio perdona, 2013 regia: Nicolas Winding Refn fotografia: Larry Smith
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DENIS VILLENEUVE
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enis Villeneuve ha dimostrato di essere uno dei principali registi del cinema contemporaneo. Conosciuto per i suoi intensi drammi, Villeneuve spesso permette ai suoi ambienti di agire come estensioni dei suoi personaggi. Gran parte di ciò si ottiene attraverso la scelta del colore. Il regista crede che ogni aspetto dell’ambiente di un personaggio debba riflettere il suo stato emotivo, la sua mentalità e le sue trasformazioni attraverso la tavolozza dei colori. Nei suoi film, i colori caldi si comportano allo stesso modo del fuoco, illuminando percorsi sia mentali che fisici. I colori freddi, d’altra parte, irradiano, conferiscono un senso di distanza, mantenendo il perso-
ROGER DEAKINS
naggio in uno stato emotivamente congelato. Il mistero è al centro dei film di Denis Villeneuve. Tenendo lo spettatore all’oscuro, Villeneuve consente di innescare l’intrigo e la suspense. I colori, per lui, non sono semplici elementi della storia ma, insieme agli oggetti della scena, devono migliorare questi sentimenti di tensione. In Sicario ad esempio, ricorre l’ultilizzo dei colori discordanti, che si discostano dalla combinazione di colori del film e attirano l’attenzione su elementi importanti. In una particolare scena, quella in cui Alejandro entra nella stanza degli interrogatori, la brocca blu dell’acqua contrasta con la stanza gialla, contribuendo a rafforzare l’idea di avvicinarsi alla violenza. Il regista
di Blade Runner 2049 utilizza toni freddi per migliorare la sua gamma di colori dei film. In questo sequel del famoso Blade Runner del 1982 di Ridley Scott, entrato ormai a far parte della storia del cinema, Villeneuve mette in scena un futuro in cui “il clima si è evoluto in modo disastroso e chi è sopravvissuto lo fa in condizioni molto difficili. L’Oceano si è alzato e le città sono protette da giganteschi muri”. In una scena mentre K cammina per una strada, la sua figura si staglia contro il freddo ambiente. Nella palette di colori di un film, il blu rappresenta la malinconia e l’isolamento. K non deve pronunciare una sola parola, perché la tavolozza dei colori del film rivela l’incertezza della sua situazione attuale e del suo futuro. Ancora una volta, per Denis Villeneuve tutto all’interno di una scena dovrebbe avere uno scopo e attirare l’attenzione sugli stati emotivi dei suoi personaggi. Blade Runner 2049 rende innanzitutto omaggio all’estetica della pellicola di Ridley Scott, a quelle atmosfere di una Los Angeles dove pioggia battente e oscurità perenne camminavano a braccetto con una tecnologia super avanzata e un’umanità al collasso. Le atmosfere cupe e noir del primo Blade Runner sono diventate or-
Denis Villeneuve Trois-Rivières, 03.10.1967
76 tografica da oltre trent’anni e che ha collezionato il record assoluto di tredici nomination all’Oscar dal 1995 al 2016 per film come: Le ali della libertà, Kundun, Fratello, dove sei?, L’uomo che non c’era, L’assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford, Non è un paese per vecchi, The Reader, Il Grinta, Skyfall, Prisoners, Unbroken e Sicario. Senza ottenere nomination ha lavorato anche a Barton Fink – È successo a Hollywood, Il grande Lebowski, A Beautiful Mind, The Village, Jarhead, Revolutionary Road e Ave Cesare, per dirne alcuni. mai iconiche. In Blade Runner 2049 le immagini sono di grande Deakins ha iniziato a lavorare impatto visivo grazie alla splendi- negli anni Ottanta, occupandosi della fotografia di Orwell 1984 e da fotografia di Roger Deakins. Vincitore del premio per la miglior Sid & Nancy. Poi ha lavorato con Martin Scorsese, Ron Howard, fotografia nel 2018, Roger Deakins si è guadagnato il titolo come Sam Mendes e, spessissimo, con miglior direttore della fotografia di i fratelli Coen. Il manifesto del suo modo di fare cinema è l’equilibrio, sempre. Adam Epstein ha scritto su Quartz che: “ogni inquadratura perché il cinema in fondo non è altro che un equilibrio magico e del film meriterebbe di stare in sottilissimo tra tutte le parti che una galleria d’arte” e tanti critici lo compongono. Se in Blade Runhanno ammirato forme, luci e ner 1982 di Ridley Scott, Jordan colori di ogni scena, notando in Cronenweth costruiva un immagiparticolare come, nonostante la bizzarria e la ricercatezza di certe nario cyberpunk futuristico, straricimmagini, il film risulti comunque co di particolari, densissimo di elementi a livello di composizione molto realista. Non c’era certo dell’immagine e costantemente bisogno del nuovo Blade Runner illuminato da luci psichedeliche in per portare sotto i riflettori un uomo che calca la scena cinema- continuo movimento, qui Deakins
77 nariamente contemporaneo nel cogliere e anticipare lo spirito del tempo presente e futuro, non solo per via della sua monumentale sceneggiatura o per gli straordinari set disegnati da Dennis Gassner, ma anche per l’idea tecnica di cinema che propone. Villeneuve, come già fatto per Sicario, ha chiesto a Deakins di utilizzare lenti sferiche. Queste lenti solitamente non vengono utilizzate su una macchina da presa digitale in quanto, per via della grandissima pulizia e definizione, creano un’immagine “fredda” e “artificiale”; la tendenza attuale è infatti quella di prediligere alle sferiche le lenti anamorfiche. All’interno del film regista e direttore della fotografia mantengono una prospettiva che sottolinea la sproporzione tra
Ryan Gosling in Blade Runner, 2017 regia: Denis Villeneuve fotografia: Roger Deakins
asciuga le sue immagini fino alla loro essenza, immerge i personaggi dentro atmosfere rarefatte, trova nel look visivo linee minimaliste, elegantissime e disegna un futuro distopico sporco, ma di una raffinatezza mozzafiato, che con l’andare avanti della narrazione, con l’aumento del ritmo e la crescita del fattore umano, si libera sempre più in una straordinaria sinfonia visiva, in cui il suo peculiare uso del giallo, del blu e del contrasto tra luce e oscurità, prende la sua connotazione più viva. I movimenti di camera sono più lenti e ci sono più inquadrature larghe che mostrano un territorio più ampio del primo e, paradossalmente, ancora meno vivibile del primo. Blade Runner 2049 è straordi-
78 uomini rispetto all’ambiente che li circonda, ricorrendo a grandangoli e a una profondità di campo ricercata con la forza, negli edifici ciclopici e nei lunghi corridoi. Le inquadrature perfettamente pesate orizzontalmente sono uno dei punti fermi del linguaggio del film, che spesso cede anche alla tentazione della simmetria pura o di un’asimmetria spinta ma elegante e ordinata. Nel film è presente anche una tendenza a inclinare il piano verticale, allo scopo di rendere più forti le scene che raccontano la perdita del controllo da parte del protagonista, fino al meraviglioso momento in cui giace sulle scale innevate, inquadrato dall’alto. Questo linguaggio, fatto di grande rigore formale, è però solo una parte del codice estetico di Blade Runner 2049, che è costruito in modo altrettanto, e ancor più meticoloso attraverso l’uso del colore. Il film è una continua esplosione di colore. Esso non è utilizzato solo come strumento estetico, ma è una parte fondamentale del linguaggio filmico, che aiuta lo spettatore a individuare i temi di una narrazione altrimenti tanto complessa da risultare labirintica. Particolare risulta, e non solo in questo film ma nel cinema moderno in generale, l’utilizzo
dell’ “orange and teal” e cioè l’arancione e il tè blu (conosciuto anche come foglia di te). Questi due colori vengono solitamente abbinati nella stessa scena perché, essendo complementari, creano un contrasto molto piacevole per l’occhio umano; ma sulla tavolozza di Deakins, estesi con la gamma dei rispettivi colori analoghi, raccontano due realtà completamente separate: quella di un mondo senza speranza e disumanizzato (il blu-verde) e quella di un mondo che è in contatto con un “miracolo” (il rosso-arancio, ma anche il giallo). Il punto di partenza e quello di arrivo dell’arco narrativo del protagonista K; due dimensioni apparentemente inconciliabili che si incontrano pienamente in una sola scena, quando il personaggio di Ryan Gosling decide di sacrificare la propria vita per un bene superiore, combattendo davanti allo spinner che viene inghiottito dai flutti che rifrangono le luci “orange and teal”. Non sono solo queste due tonalità ad essere usate ma anche il colore bianco/argento che svolge un ruolo predominante nella narrazione. Il bianco infatti è il colore dell’anima, che viene associato ai momenti più umani del film, quelli che vedono individui esposti nella loro fragilità e unicità. Una
79 scelta cromatica che si collega a doppio filo con il simbolo dei fiocchi di neve, usati a più riprese proprio per rappresentare il tema della caducità dell’esistenza e dell’anima. Vi è poi il meraviglioso personaggio di Joi, uno “spettro” che viene rappresentato in associazione con il colore giallo-verde, con una magnifica citazione del neon usato dal direttore della fotografia Robert Burks per inquadrare la “rinascita” di Kim Novak nell’indimenticabile La donna che visse due volte di Alfred Hitchcock. Un verde che, in un momento di completa antitesi (quello in cui K incontra la gigantesca pubblicità olografica della “Pink Joi”), viene sostituito dal suo colore opposto: il rosso-viola, che nella teoria del colore è proprio il complementare del giallo-verde. L’utilizzo frequente del giallo ricorda anche un ritorno all’infanzia. Il rosso-viola compare in modo meno evidente anche nella scena iniziale sul letto, in cui un momento particolarmente intimo tra K e Joi viene congelato da una notifica. Se a ciò aggiungiamo che sulla ruota dei colori terziari l’arancio-rosso, il blu-verde, il giallo-verde e il rosso-viola sono tra loro colori complementari doppi con schema rettangolare, e che ovviamente il bianco è la somma
dei colori nella sintesi additiva, è evidente quanto le scelte cromatiche di Deakins e Villeneuve siano frutto di un disegno straordinariamente ispirato e preciso. La maggior parte dei colori che vediamo sullo schermo non sono stati ricreati in un secondo momento al computer, ma sono stati già ripresi originariamente sul set e anche molti scenari sono stati scenografati, gran parte della pellicola è stata girata a Budapest. Per la scena in cui K arriva a Las Vegas, ad esempio, quell’arancione che invade l’inquadratura è ottenuto illuminando il set dall’alto con 250 “lanterne”, la metà delle quali alterati con una gelatina ambrata, montando davanti alla lente un filtro appositamente realizzato e schiarendo il cielo sulle tinte del giallo con 20 potenti illuminatori alterati con gelatine verdi. Le scenografie di Blade Runner 2049 sono direttamente ispirate all’architettura brutalista. Se è vero che non mancano le citazioni del futurista italiano Antonio Sant’Elia, basta un veloce sguardo a edifici londinesi come il Royal National Theatre, il Barbican Estate e la Trellick Tower per notare l’immediata somiglianza tra gli edifici del brutalismo con le strutture ideate da Dennis Gassner. Non mancano anche
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81 adotta questa soluzione per avere una luce particolarmente morbida e diffusa. Nel caso della suddetta scena di Blade Runner 2049, invece, l’impianto adottato è decisamente più complesso. Per ottenere il risultato, il cinematographer ha commissionato al suo team la costruzione di due giganteschi anelli concentrici su cui sono stati montati 256 fari direzionali dimmerabili. Dei programmatori hanno impostato una sequenza alla console luci che faceva sì che inizialmente ci fosse solo un cerchio in movimento di 12 fari a piena potenza, e che col proseguire della scena i fari intermedi alle luci accese venissero alzati progressivamente. L’incredibile risultato lo conosciamo tutti, ma rivedendo con maggior consapevolezza la scena è chiaro quanto questo complessissimo set illuminotecnico abbia contribuito alla riuscita di quel momento di cinema così intenso.
Jared Leto e Ana de Armas in Blade Runner, 2017 regia: Denis Villeneuve fotografia: Roger Deakins
le citazioni di stili successivi ma debitori alla corrente avviata da Le Corbusier. L’architettura degli edifici sacri del giapponese Tadao Ando caratterizza gli ambienti della Wallace, e soprattutto il modo in cui le lame di luce fendono i severi muri di nudo cemento, spostandosi nel corso della giornata. Quella pensata da Deakins per gli ambienti della Wallace Corp, è infatti una luce perennemente in movimento, almeno nelle scene in cui vi si trovano i protagonisti, e se nel primo Blade Runner l’invenzione principale di Cronenweth era un “sole artificiale” reso con i fari per imbarcazioni, nel caso del sequel la principale invenzione del direttore della fotografia è questa luminosità fluida e mutevole, fuggevole come i raggi del vero sole, ormai morente e freddo. Al di là dell’ovvio simbolismo legato a una luminosità crescente e dell’atmosfera vibrante, la vera trovata geniale è quella con cui Deakins decide di rendere visivamente lo smarrimento di Deckard. Gli attori, infatti, sono sovrastati non da illuminatori statici ma da un anello di luci distanti tra loro, che gira continuamente, creando quasi una vertigine di luci e ombre. Deakins ha fatto dell’uso di anelli di luce un vero marchio di fabbrica, ma il più delle volte
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L’arancione è come un uomo sicuro della sua forza […]
Il suono sembra quello di una campana che invita all'Angelus […]
o di una viola [...].
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L’
Harrison Ford in Blade Runner 2049, 2017 regia: Denis Villeneuve fotografia: Roger Deakins
arancione è il colore dell'ottimista ad oltranza, della persona sincera e aperta. Esprime azione, determinazione, forza e sicurezza. Mantiene diverse caratteristiche del rosso ma vengono meno altri significati come amore, passione, violenza. È per molti versi similare al giallo. Chi ama questo colore per natura è allegro e vivace, il suo atteggiamento è in genere brillante, positivo ed energico. Il modo di ragionare è semplice, chiaro e lineare, molto coerente, affabile, abitualmente loquace, estroverso e socievole. Apprezza in pieno la vita, esprimendo sempre e ovunque coraggio, spontaneità e buonumore, ed ha ottimi rapporti con gli altri. Rispetta tutti ed è dotato di grande umanità, ha sempre bisogno di conoscere ed essere coinvolto da interessi diversi. Questo colore è spesso associato alle atmosfere esotiche, al calore e all’energia, se usato nel modo giusto, può stimolare una sensazione di pericolo imminente, come un avvertimento, situazioni ostili come il deserto o l’atmosfera di un altro pianeta. Mad Max: Fury Road, ad esempio, è interamente girato facendo ampio uso di tonalità arancioni per aumentare la desolazione e lo straniamento dei paesaggi post apocalittici, che tinti di arancio somigliano più a un pianeta ostile come Marte che alla terra. L’arancione lo ritroviamo anche nel lungometraggio di Refn, Solo Dio Perdona. È associato soprattutto al personaggio interpretato di Ryan Gosling in una tonalità rosso-arancio. Secondo Kandinsky nel Lo spirituale dell'arte: “L'arancione è come un uomo sicuro della sua forza, che dà un’idea di salute. Il suono sembra quello di una campana che invita all’Angelus, o di un robusto contralto, o di
84 una viola che esegue un largo”. Ormai sembra che ogni gioco e film di questi tempi sia tutto sui colori blu e arancione, almeno quando si tratta di poster e box art. C'è una buona ragione per questo. Si chiama “teal and orange”. Ma partiamo con ordine: cos’è il teal and orange? Letteralmente significa “verde acqua e arancione”, ed è la tecnica cinematografica dell’utilizzo del colore più importante e più largamente utilizzata. Il perché di questa scelta è in realtà piuttosto semplice: il verde acqua e l’arancione sono colori complementari, e perciò risultano più gradevoli da vedere per un prolungato periodo di tempo per l’occhio umano. La necessità che ha portato a questa scelta cromatica, era quella di mettere le persone al centro dell’immagine. Le sfumature della pelle
sono tendenti al giallo, l’arancione e il rosa; perciò si cominciò a riempire di blu e verde le zone buie dell’immagine, per creare un contrasto naturale che desse risalto ai protagonisti delle inquadrature. Con queste premesse, si è però arrivati rapidamente al punto in cui i blockbuster di Hollywood sono ormai completamente invasi da sfumature di blu e arancione, superando la questione della pelle umana e costringendo i direttori della fotografia e gli scenografi a creare immagini con comparse, sfondi e oggetti di scena che siano di uno di questi due colori. Il teal and orange è più di una tendenza, dietro c'è una teoria della scienza e del colore, che tenta di spiegare non solo perché i colori
sono così diffusi, ma perché la tendenza non ha mostrato segni di diminuzione. Il grande cambiamento compiuto dalla digitalizzazione ha reso molto più semplice l'applicazione di una singola combinazione di colori a più scene contemporaneamente. Quanto più ad un film si può dare un bell'aspetto con un solo schema, tanto meno lavoro bisogna fare. Inoltre, dato che i cineasti stanno riunendo diversi formati cinematografici in un singolo film, l'applicazione di uno schema di colori uniforme aiuta a legarli insieme. L'inizio della digitalizzazione e la recente tendenza verso l'arancio e il verde acqua sono una coincidenza, i due colori erano popolari nei film molto prima che i computer iniziassero a fare scherzi con tutto. Solo perché alcune grandi serie, come Transformers e Battlefield, hanno iniziato a usarlo, è passato dall'essere un look alla firma di una convention. A differenza di altre coppie di colori complementari, l'arancio infuocato e il blu freddo sono fortemente associati a concetti opposti, fuoco e ghiaccio, terra e cielo, terra e mare, giorno e notte, umanesimo investito contro elegante indifferenza, buone esplosioni vecchio stile contro futuristico scienza, è un tropo perché è usato di proposito, e fa qualcosa. Alcuni esempi di teal and orange nel cinema li troviamo in: The Imitation Game (2014), un film biografico storico su Alan Turin; in Into the Woods (2014) un musical fantasy e in The Wolf of Wall Street (2013). Mad Max (2015) sembra un po' più giallo dei precedenti tre. Ora che la maggior parte dei film sono girati digitalmente è molto più facile tornare indietro e riequilibrare le cose per ottenere qualsiasi effetto desiderato. O 'Brother Where Art Thou (2000) viene molto spesso citato come film in anticipo per il grado di colore pesantemente digitale. Secondo quanto riferito, il Coen voleva che fosse retrogrado a scapito del realismo, motivo per cui è stato valutato in modo così pesante: l'intero film è un bel color seppia caldo. Il cineasta del film ha detto: “Volevano che assomigliasse a una vecchia immagine colorata a mano, con l'intensità dei colori dettata dalla scena e le tonalità naturali della pelle che erano tutte le sfumature dell'arcobaleno”. La maggior parte delle tonalità della pelle variano tra la pesca chiara e quella scura, lasciandole nel segmento arancione di qualsiasi ruota dei colori. Blu e ciano sono esattamente sul lato opposto della ruota. Sembra plausibile che, a prescindere dal fatto che abbia o meno origini nella teoria dei colori, l'arancione e il blu hanno ormai raggiunto il
Solo Dio perdona, 2013 regia: Nicolas Winding Refn fotografia: Larry Smith
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livello di convenzione. Nel bene e nel male, colorare un film in questo modo lo fa sembrare un vero film. Ma come ha detto a The Guardian il colorista Stefan Sonnenfeld: “Non esiste un processo decisionale a colori, specifico, in cui ci si sieda in una stanza e si dica: 'Useremo solo colori complementari per provare a spostare il pubblico in una particolare direzione - e si usa solo quelle combinazioni.' Ogni film ha il suo look.” Sonnenfeld, a quanto pare, ha lavorato su alcuni film visivamente spettacolari e alcuni dei film più arancioni e blu degli ultimi 15 anni: la serie Transformers. Per essere onesti, i film d'azione sono particolarmente adatti all'arancio e al blu. Dopotutto, le esplosioni sono solitamente di colore arancione. Transformers è così arancione e blu che un team di ricercatori, costruendo un algoritmo per rendere più automatica la gradazione del colore, lo ha utilizzato come uno dei loro gradi di colore di esempio. Il loro metodo, pubblicato nel 2013, si adatta allo stile visivo caratteristico di ogni film. Il metodo non è completamente automatico (richiede all'utente di identificare quali parti del frame sono in primo piano e sullo sfondo) ma è stato certamente un miglioramento dello stato dell'arte. Poiché la tecnologia di gradazione del colore continua a migliorare, potremmo vedere altri cineasti espandersi in più tavolozze nuove.
Shia Saide LaBeouf in Transformers, 2007 regia: Michael Bay fotografia: Mitchell Amundsen
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ad Max è una serie cinematografica ideata e diretta da George Miller, ambientata in uno scenario post apocalittico, ad eccezione del primo film. George Miller, mentre studiava medicina all'Università del New South Wales, assieme a suo fratello gemello, John, realizzarono St. Vincent's Revue Film (1971), un cortometraggio che vinse una competizione locale. Il premio era la partecipazione gratuita ad un laboratorio cinematografico, dove Miller incontrò Byron Kennedy. I due divennero spesso collaboratori e nel 1971 realizzarono il cortometraggio acclamato dalla critica Violence in the Cinema, Part 1. I due alla fine svilupparono la storia che divenne Mad Max nel 1979. Il film cupo e violento, prodotto da una società di produzione formata da Miller e Kennedy, comprendeva acrobazie spettacolari, azione intensa e un cast di personaggi eccentrici, che sono diventati marchi della serie. Miller è ossessionato da ciò che definisce la “plasticità” del cinema: il modo in cui un film viene realizzato unendo una serie di scatti come “note su un pianoforte”. La musicalità del cinema e, in particolare, il cinema del montaggio, è stato il principale fondamento della sua carriera, dal primo Max
89 ai suoi due lavori di animazione, i musical jukebox a ruota libera Happy Feet (2006) e Happy Feet Two (2011). Gli effetti speciali e il montaggio sono, in qualche modo, sempre stati collegati, basti pensare agli effetti illusori nei film di Georges Méliès. Gli effetti digitali, per Miller, offrono nuovi modi per esplorare la plasticità dell'immagine del film: sono un'estensione del principio del montaggio. L’ultimo capitolo della saga è Mad Max: Fury road. Ci sono tanti motivi per amare Mad Max: Fury Road e uno di questi è certamente la meravigliosa palette di colori saturi, con le sue enormi distese di sabbia d’orata, il sangue cremisi e la lucentezza del cielo sui toni del blu intenso e freddo. Sin dalla prima inquadratura, il film di George Miller conquista con le proprie immagini. Qualche tempo dopo la sua uscita, Mad Max: Fury Road è arrivato anche in una versione in bianco e nero. George Miller ha affermato di essere rimasto “colpito da quanto le immagine fossero più iconiche; più elementari, astratte e autentiche.” Questa non è una semplice conversione in b/n della pellicola originale ma una versione rimaneggiata dal cineasta australiano, che ne ha aumentato i contrasti per rafforzare i dettagli e rendere ancora più
Mad Max
Il futuro appartiene al pazzo
epico l'inseguimento nel deserto. La visione di questa edizione di Fury Road palesa poi in maniera ancora più forte alcuni riferimenti che Miller ha voluto inserire per omaggiare lungometraggi del passato come La fontana della vergine di Ingmar Bergman o il capolavoro del cinema muto Come vinsi la guerra di Buster Keaton. Questa versione è stupefacente, ipersupersaturata e vibrante; ma la palette a colori originale non è assolutamente da ignorare. I primi Mad Max si ricordano anche per i colori sporchi e realistici, in Fury Road invece il regista sembra aver puntato alla direzione opposta con colori molto accesi. La scelta è dovuta al fatto che dopo i primi Mad Max sono usciti tantissimi film post-apocalittici e videogame che hanno imitato quel look con i colori desaturati. È diventato quasi un cliché, una cosa abbastanza deprimente. Inizialmente Miller aveva pensato di girare Fury Road solo in bianco e nero, ma poi ha deciso di concentrarsi sui due colori principali del deserto: il giallo/arancione e il blu del cielo: le tonalità arancioni vengono usate per aumentare la desolazione e lo straniamento dei paesaggi post apocalittici. Questi due colori dominano largamente le immagini, come a sancire una cesura tra
l’adrenalina corrosiva dell’inseguimento diurno e le stasi, i pantani reali e interiori della notte. Il film ha 2.700 stacchi in 114 minuti di montaggio. Ogni scena è stata girata 7-8 volte, guidando finché il terreno non veniva oscurato dalla sabbia in movimento. Miller fa un lavoro tecnicamente enorme nel tenere insieme una simile mole di materiale. Le sequenze scorrono magnificamente, senza mai un intoppo, grazie al direttore di montaggio Margaret Sixel, nonché sua moglie. Lo stile di montaggio è fondamentale nei film d’azione. Utilizzando le tecniche “Eye Trace”, una tecnica di editing per dirigere l'occhio dello spettatore attraverso scatti consecutivi, e “Crosshair Framing”, ogni azione si trova al centro dell’inquadratura, rendendola immediatamente comprensibile. Inoltre la messa a fuoco è costantemente al centro e lo spettatore non è costretto a girare la testa in tutte le direzioni per provare a seguire quello che sta accadendo sullo schermo, a differenza dell’approccio “chaos cinema” dove vengono usate delle telecamere traballanti, le shaky cam, e un montaggio supersonico, che travolge lo spettatore con un falso senso di dinamismo dovuto ad inquadrature non congruenti e apparentemente
casuali che rendono incomprensibili le scene d’azione. Durante le riprese attraverso il walkie talkie Miller diceva: “Metti la croce sul naso! Metti i mirini sulla pistola!” mettendo al centro mirino i nasi dei personaggi, le armi, (Crosshair Framing), e guidando l’occhio dello spettatore con l' “Eye Trace” da sinistra a destra per pugni, colpi di pistola, lance, incidenti automobilistici ecc, posizionavano in punti critici delle varie scene la messa a fuoco. Ogni nuovo scatto doveva occupare lo stesso spazio dello scatto precedente. Questa non è affatto una nuova tecnica, ma girando l'intero film in questo modo, Margaret Sixel ha amplificato e accelerato le scene, con la certezza che l'informazione visiva sarebbe stata compresa. Il ritmo tambureggiante delle immagini ha il suo corrispettivo nelle musiche poderose, ritmicamente molto forti e connotate da una netta venatura rock. Anche Miller l’ha detto: “Questa è la mia opera rock”. Il folle chitarrista futuristico che suona il suo strumento su uno dei vari automezzi ne è il simbolo trash. Erano presenti anche degli esperti di serpenti, per farli spostare prima che iniziassero le riprese così da non schiacciarli. Ogni singolo passaggio del film, ma anche dei precedenti Mad
George Miller Brisbane, 03.03.1945
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Mad Max: Fury Road, 2015 regia: George Miller fotografia: John Seale
92 Max, fino al millisecondo è stato pianificato tramite storyboard, che il regista ha realizzato perfino prima di scrivere la sceneggiatura; egli stesso ha affermato: “Devo vedere tutto davanti a me, è l'unico modo in cui riesco a mantenere l'intero film nella mia mente e ottenere la musicalità giusta. Le tavole sono come i battiti musicali con cui hai a che fare, strutturando il ritmo del film”. Anche gli attori avevano in mano copie dei bozzetti, perché sapessero cosa dovevano fare in ogni momento. Brendan McCarthy, fumettista, ha realizzato 3500 tavole, che rappresentavano tutto. Il direttore della fotografia è John Seale (anche regista), che ha lavorato con molti grandi registi, da Sydney Pollack a Ron Howard, da Rob Reiner a Wolfgang Petersen, è tornato dalla pensione appositamente per girare questo film, senza essere minimamente intimidito dal dover gestire multiple macchine da presa contemporaneamente per catturare le incredibili acrobazie con più di 150 veicoli. Rendere comprensibili tutte le scene al pubblico mettendo ogni azione al centro dell’inquadratura, ha sempre fatto parte anche della filosofia lavorativa di Seale: il film bisogna renderlo il più agevole possibile al pubblico, per far si
che si senta parte di ciò che sta osservando, oltrepassando lo schermo. In un’intervista il colorista Eric Whipp ha affermato: “Oltre alle sfide nella creazione di un aspetto iper-colorato, ricco e grafico, John sapeva che la continuità dell'illuminazione non era perfetta. Le riprese sono durate oltre sei mesi e hanno funzionato a un ritmo frenetico, quindi il processo di valutazione è stato utilizzato per appianare alcune delle differenze di luce diurna tra gli scatti. George è anche un forte sostenitore del fatto che un pubblico dovrebbe concentrarsi sugli occhi del personaggio. Abbiamo dedicato molto tempo a garantire che l'attenzione in ogni dato scatto ti guidasse verso gli occhi o qualunque altra azione importante potesse essere nel frame.” Per dare al film il giusto aspetto da mondo post apocalittico, tutti gli oggetti di scena usati per le riprese sono stati costruiti usando materiali di recupero: lattine e vecchi copertoni sono stati usati per fare le armi, i veicoli sono stati ricostruiti partendo da automobili rottamate e altre attrezzature sono state costruite fondendo e saldando vecchi oggetti metallici e cianfrusaglie varie. La location della Cittadella è stata prodotta attraverso una combinazione di
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Tom Hardy in Mad Max: Fury Road, 2015 regia: George Miller fotografia: John Seale
94 fotografie principali in Namibia, riprese a Sydney e lavori di effetti visivi. Le rocce fotografate in Australia sono state rielaborate utilizzando la fotogrammetria, una tecnica di rilievo che permette di acquisire dei dati metrici di un oggetto, cioè forma e posizione, tramite l'acquisizione e l'analisi di una coppia di fotogrammi stereometrici. “Ho un'assoluta avversione per le persone che dipingono le rocce”, spiega Jackson, supervisore generale degli effetti visivi. “Voglio solo sempre usare le superfici e le trame reali e modellare il più possibile.” Hanno dedicato molto tempo a rielaborare le trame e la geometria della scogliera per formare la Cittadella, fino al look finale richiesto, al regista non piaceva molto la colorazione nera che si trova sulle Blue Mountains, quindi hanno dovuto ridarle colore, per cercare di mantenerla il più autentica possibile. Nella scena in cui un tornado solleva un veicolo e un gruppo di War Boys, in aria, dopo essere stati colpiti dal War Rig, l'auto viene squarciata mentre un fiume di corpi gira su altri veicoli e oltre la telecamera. I primi anticipi dello scatto avevano i corpi come figure fisse che volavano nell'aria. Questo era basato sul desiderio iniziale di Miller di seguire le dina-
miche e la fisica reali, dal momento che una grande quantità di filmati di riferimento per incidenti, che il regista aveva cercato, tendeva a mostrare quel movimento. Il film ha anche preso parte a riprese di incidenti. Inoltre, molte riprese sono state girate in pieno giorno nel deserto della Namibia e successivamente trasformate in blu notte dal colorista Whipp. La forza visiva della pellicola deve molto al design degli automezzi, che sono i veri protagonisti. Anche qui vige la regola dell’esasperare ogni elemento; rostri sulle ruote,
95 auto ricoperte di aculei, cingolati d’assalto, autocisterne blindate, e chi più ne ha più ne metta. Questi veicoli hanno un ruolo decisivo anche perché rappresentano la vera scenografia, che per il resto si perde nelle linee informi del deserto. Inoltre, questa ambientazione, potremmo dire astratta e quasi sempre lineare, se da un lato toglie ostacoli al percorso, dall’altro esalta la dimensione estetica del movimento, il suo essere uno stato mentale prima che una contingenza. Il vero luogo delle vicende è la condizione psicologica del movimento esasperato, della velocità parossistica. La potenza del film è sicuramente legata anche ad altri fattori; la realizzazione delle sequenze è reale, non computerizzata; Miller ha lavorato con veri veicoli in movimento. Questo elemento, non secondario, conferisce alle immagini l’adrenalina della velocità vera, del trovarsi in costante equilibrio precario su mezzi lanciati a velocità folli. L’estetica ha un altro cardine notevole nella fisionomia dei personaggi: su tutti l’orroroso Immortan Joe con la sua maschera dentata, ma anche l’imperatrice Furiosa è riuscitissima, androgina, rasata e con un braccio meccanico. Ma il concentrarsi su macchine e colori è stato forse neces-
sario per la produzione visto che, come a volte capita, le necessità del cinema hanno in questo caso cambiato le carte in tavola. Il film è stato girato quasi interamente in Australia ma molto di quello che si vede, infatti, non è il territorio australiano, ma il deserto della Namibia, appunto, dove la troupe ha dovuto spostarsi per le difficoltà trovate “in casa”, metereologiche principalmente. Un escamotage tipico di Hollywood, ma che, almeno in questo caso, non toglie nulla al fascino che un panorama come quello scelto può avere e trasmettere. I deserti, in fondo, non sono tutti uguali e non lo sono i loro colori. Eppure l'aver unito in una ideale connessione queste due aree tanto lontane e diverse, per una volta ci offre la possibilità di sognare due volte.
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Christina Hendricks e Eva Mendes in Lost River, 2014 regia: Ryan Gosling fotografia: Benoît Debie
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l viola rappresenta la realizzazione dei desideri. È uno dei colori più seducenti, spesso è associato al mistero, all’ambiguità (sessuale in molti casi) e alla stravaganza. È il colore della metamorfosi, della transizione e della magia, preferito dai bambini, dalle donne incinte e dalle personalità immature. È il colore tradizionale della mistica, della spiritualità ma anche della fascinazione erotica, indica l'unione degli opposti, la suggestionabilità. È il colore dell'arte, della fantasia, del sogno, dell'altruismo e della guarigione. È sinonimo di dignità e nobiltà, intelligenza, prudenza, umiltà e saggezza. Il carattere “viola” è un po' difficile con tendenze opposte e inconciliabili. Ha bisogno di sentirsi libero, vuole affascinare, suscita ovunque simpatia e ammirazione. È molto disponibile e comunicativo, possiede grande umanità, coltiva interessi ad alto livello, colto e sensibile. Desidera aiutare gli altri in modo significativo, ha inclinazione per l'occulto, ha buon gusto e cura molto il suo aspetto fisico, raffinato cultore della bellezza e dell'arte, di una vita eccitante. In un articolo pubblicato dal New York Times, Leatrice Eiseman - direttrice dell'Istituto che guida le scelte cromatiche delle case produttrici dei colori che poi verranno utilizzati nel design, nella moda e nell'architettura - ha spiegato che il viola: “È il più complesso dei colori perché è frutto della fusione di due opposti ovvero il caldo rosso e il freddo blu che insieme creano qualcosa di unico”. La storia del viola, inoltre, è antichissima. Veniva prodotto, nella sua sfumatura porpora, nella città fenicia di Tiro dal muco delle lumache di mare. Era occasione di commercio costosissimo e da Tiro, via nave, veniva portato verso Gerusalemme ed era oggetto di saccheggi e furti da parte dei predoni del mare; in seguito il viola è stato il colore della Chiesa e della nobiltà. La Regina Elisabetta I d'Inghilterra, nel XVI secolo, aveva vietato ai suoi sudditi di portare abiti viola e il nobile colore veniva indossato solo dai più stretti membri della royal family. Si è dovuto attendere fino al 1856 perché il viola fosse prodotto sinteticamente grazie a una casuale scoperta del chimico William Henry Perkin che lo scoprì nel tentativo di elaborare un vaccino contro la malaria. Il New York Times ricorda che il viola, in meteorologia, viene utilizzato per indicare i fenomeni atmosferici più violenti e il National Weather Service, in occasione dell'uragano Harvey, ha dovuto utilizzare due nuove sfumature di viola per indicare la potenza delle piogge.
98 Il viola è, però, anche il colore della meditazione e viene utilizzato dalla New Age come colore profondamente spirituale. Era viola la pioggia di Prince con la sua Purple Rain così come viola sono, nella mitologia, gli unicorni più rari e magici. In teatro indossare il viola porta sfortuna anche se in pochi sanno il perché. Anche in questo caso le radici della scaramanzia hanno un fondamento di verità storica. Nel Medioevo e nel primo Rinascimento il periodo, per antonomasia, nel quale la vita teatrale era più florida, era quello del carnevale che, alla sua conclusione, lasciava spazio alla Quaresima. Nel corso dei 40 giorni precedenti alla resurrezione del Cristo, la Chiesa imponeva la chiusura dei teatri su cui venivano affissi dei drappi viola in segno di lutto e penitenza. Chiaramente nel corso di quei 40 giorni i teatranti non potevano lavorare e non guadagnavano nulla ed era il momento dell'anno più difficile per attori, registi e drammaturghi. Ecco, perché, da allora, il viola è associato alla sfortuna in teatro. In molti film, anche di animazione, ritroviamo la presenza del viola e delle sue sfumature nelle scenografie e nei costumi dei protagonisti. Non c'è dubbio che i film in bianco e nero abbiano il loro fascino, ma cosa dire dei film o cartoni a colori? I colori riescono a dare vita alle figure e alle immagini, le rendono “realistiche” ai nostri occhi. Anche qui, quindi, il colore ha uno scopo molto importante. In ogni film o cartone ci sono decine, migliaia di colori differenti ma c'è sempre una percentuale di colori che vince sugli altri, caratterizzando quel determinato film. Nel caso specifico del viola è possibile riscontrarlo nel cartone d'animazione della Walt Disney La Bella Addormentata dove prevalgono, sulla palette, anche varie tonalità di rosso e giallo. Altro grande cartone d'animazione dove appare il viola è dello Studio Ghibli ed il titolo è Laputa Castle in the Sky. La palette per questo cartone dimostra un modo versatile per dipingere una scena notturna. Le tonalità viola e blu sono invitanti ma suggeriscono la profondità, l'azione e il contrasto con i volti dei personaggi in modo piacevole. La palette generale ci comunica l'oscurità senza un uso eccessivo di colori scuri e si fonde con sfumature violacee senza sforzo. Si nota che questo colore più acceso è riscontrabile più facilmente nei cartoni animati anzichè nei film, nei quali i colori presenti sono più caldi. Un film che presenta il colore viola è An Educazion del 2009,
99 diretto da Lone Scherfing, basato sulle autobiografiche memorie della giornalista britannica Lynn Barber. Infine anche in Kill Bill: Vol 1. e 2, uno del 2003 e uno del 2004, nei quali sono apparse differenti tonalità di viola, andando dal viola scuro, il viola melanzana, fino a sfumare con il lillà; sfumature complementari del giallo, colore predominante nelle pellicole, come si può ben notare dalle copertine dei film. Il colore viola compare nel film Last River di Ryan Gosling proprio per evidenziare la sensualità di uno dei personaggi più affascinanti dell’intera pellicola, la cui silhouette viene mostrata in penombra e avvolta in una magica luce viola. Impossibile non citare questa pellicola che ha fatto parlare molto di sé negli ultimi anni, sia nel bene che nel male. L’estetica è uno dei punti cardine di La la land ed un aspetto indispensabile alla resa della pellicola. Attraverso i colori saturi Chazelle propone un mondo evasivo e favolesco della controversa vita di Los Angeles, e allo stesso tempo vuole omaggiare il vecchio cinema hollywoodiano. In questo caso il viola e tonalità di blu rimandano all’idea dei sogni; il giallo viene messo in scena nei momenti cruciali della trama, poiché simboleggia il cambiamento; il rosso rende invece un’idea di realismo e richiama i protagonisti nella realtà. Il film risulta quindi un alternarsi di colori complementari fra soggetto e sfondo; da notare, infatti, i vestiti monocromatici che risaltano dall’ambiente, come il giallo del vestito di Mia che è complementare del tramonto viola. Nel film Spring Breakers di Harmony Korine, l’uso del viola viene utilizzato per esaltare l’esuberante. Un mix di droga, violenza e colori accesi, una pellicola facilmente fraintendibile, visto che la trama si presenta come la vacanza da sballo dei teenager e presenta volti come Selena Gomez e Vanessa Hudgens. Tuttavia Spring Breakers ha un innegabile spiccato senso estetico, realizzato soprattutto dal direttore di fotografia Benoit Debie. Le luci al neon sono le protagoniste di ogni scena e il fluo risalta ai nostri occhi anche grazie ai coloratissimi costumi. Principalmente viene utilizzato il viola e il ciano, e quest’atmosfera serve ad accrescere quel clima disturbante ed ossessivo del film. In Solo Dio perdona, di Nicolas Winding Refn, le luci sono intense ma non disturbanti, talvolta vengono accostati colori incisivi come il rosso e il viola, altre volte il neon rimane sullo sfondo, ed invece in altre
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Il colore più complesso della scala cromatica scene l’ambiente viene completamente colorato in maniera monocromatica. Da notare sicuramente è la non-complementarietà dei colori, che non generano armonia bensì potenza, rabbia ed inquietudine. Per essere un film il cui tema centrale è la violenza, direi che Refn ha centrato il punto. Il colore più “complesso” della scala cromatica. Per questo il viola è stato scelto dal Pantone Color Institute come colore del 2018. Nella sua sfumatura fluo ben rappresenta la complessità dell'epoca in cui stiamo vivendo fatta di violenza e spiritualità, di magia e storia e di suggestioni che passano dal virtuale al reale in pochi clic. Nel 1985 Il colore viola diventa il titolo di un grande film drammatico, diretto da Steven Spielberg. Spielberg ci regala un film intenso, denso di emozioni e sentimenti che colpiscono lo spettatore fin dalle prime scene. Ma è importante considerare che il tema dominante del film non è il razzismo, inteso nel senso più classico del termine. Il razzismo infatti non viene esercitato dagli uomini bianchi sui neri, ma sono i maschi neri che mettono le loro mogli, le loro amanti e le loro figlie in condizioni terribili e strazianti. Per questo, il film può essere considerato il manifesto di una dichiarazione di riscatto ed uguaglianza di tutte le sfumature di razzismo, che trascendono il colore della pelle.
Il colore più
Spring Breakers, 2012 regia: Harmony Korine fotografia: Benoît Debie
Lost River, 2014 regia: Ryan Gosling fotografia: Benoît Debie
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RYAN GOSLING BENOÎT DEBIE
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Christina Hendricks in Lost River, 2014 regia: Ryan Gosling fotografia: Benoît Debie
ost River è l’eccentrico esordio alla regia del celebre attore canadese Ryan Gosling. Il film, scritto, diretto e prodotto dallo stesso Gosling, è stato presentato al Festival di Cannes nella sezione “Un Certain Regard”, suscitando non pochi dubbi e polemiche. Si tratta, infatti, di un’opera sicuramente inaspettata da parte di un attore così in vista, nella quale confluiscono elementi eterogenei provenienti da registri diversi. Gosling, con Lost River, prova difatti a far incontrare idealmente fantastico e quotidiano, consegnando allo spettatore una vera e propria “avventura contemporanea” nel cuore del paese americano. Come scrive giustamente Mark Olsen: “Lost River sembra
104 un [...] incrocio tra il fantastico, l'assurdo e il romantico”. Centrale fin dal titolo è il luogo dove questa vicenda dai risvolti surreali si svolge: la cittadina dall’evocativo nome di “Lost River”. Nei titoli di testa, una serie di piani fissi di abitazioni abbandonate alternati a vicende di vita quotidiana (questi ultimi, effettuati attraverso una macchina a mano che recupera certe modalità di ripresa già viste nel recente cinema di Terrence Malick) ci introducono ai due veri protagonisti del film: Billie (Christina Hendricks), una solitaria madre tutrice di due figli, e la città di Lost River, un luogo in fase di de-urbanizzazione. La rappresentazione del contesto sociale e urbano di Lost River è preciso. Il regista afferma infatti che era nelle sue intenzioni creare un mondo “alieno ma riconoscibile come il nostro” non ancora post-apocalittico quanto, piuttosto, “pre-apocalittico”, prossimo a una fine imminente. Lost River è dunque un luogo in via di disfacimento; una città-fantasma composta per lo più da palazzi abbandonati e case sventrate prossime alla demolizione. Una “terra di nessuno” dove gang di ragazzi e teppisti improvvisati si contendono le ultime risorse di rame ricavate dagli scheletri di
costruzioni solitarie. Al contempo, le case ancora abitate vengono abbattute: chi non può più pagare l’affitto, viene sfrattato. È ciò che accade a Billie e alla sua famiglia, intimati senza tanti convenevoli a lasciare il proprio domicilio, sul muro della loro casa viene impressa la lettera “D”, segno distintivo delle abitazioni prossime alla demolizione. Determinata a non rinunciare alla propria casa, la donna si reca alla banca per ottenere un prestito, ma le viene negato. Riceve però, sottobanco, la raccomandazione per un lavoro in un misterioso locale notturno nel cuore di Lost River. Scopriremo, poco più avanti, che in questo suggestivo locale si svolgono spettacoli di carattere grandguignolesco, diretti dall’avvenente Cat interpretata da Eva Mendes – attrice decisamente a suo agio in cammei “d’autore”: pensiamo a Holy Motors di Leos Carax. Ma nel varcare questa ipotetica “soglia”, Billie scopre un mondo che, forse, non aveva mai immaginato. Lost River, per utilizzare la terminologia di Michel Chion, si può considerare una sorta di lynchtown, ovvero uno di quei luoghi doppi, noti al pubblico di David Lynch, in cui ogni cosa è in grado di partorire il proprio riflesso oscuro, ma con una sottile variante. La
105 città ideata da Gosling, a differenza di una Twin Peaks, forse la più celebre delle varie lynchtowns, non dispone di alcuna superficie rassicurante: piuttosto, a Lost River, si può andare solo più a fondo nell’incubo. La desertica cittadina, inospitale e violenta di giorno, di notte si fa incredibilmente popolosa soprattutto in quei luoghi di perversione dove gli abitanti possono mostrare il loro vero volto. Il film, per mezzo di precise scelte scenografiche, di costumi e di décor, lavora proprio sull’ambiguità scaturita da questi elementi di carattere profilmico. Nel finale del film, un montaggio alternato ci mostrerà una “doppia liberazione”: quella di Billie, che uccide il proprio “benefattore” durante un peep-show, e di Bones, che si immerge nelle acque del bacino idrico per estrarre un oggetto sommerso, e liberare così Lost River dall’“incantesimo”. È nei confronti del cinema di David Lynch che l’opera prima di Gosling si rapporta maggiormente. Come non pensare, ad esempio, in riferimento ai titoli di testa commentati da una musica anni Cinquanta/Sessanta a quelli di Velluto blu (Blue Velvet, 1986). Ma non solo. Il film di Gosling è popolato da tutta una serie di
personaggi, bizzarri ed eccessivi, che volentieri travalicano il confine della normalità per sfociare nell’assurdo: gli stessi che abitano molti celebri mondi lynchani (pensiamo, ad esempio, al Bobby Perù di Cuore selvaggio (Wild At Heart, 1990)). Bully e Face, i due teppisti di Lost River perennemente alla ricerca di Bones, sono due personaggi sopra le righe, ambigui e inquietanti e, nel caso di Face, addirittura sfigurati (come lo è Bobby Peru). Sono in qualche modo dei figli illegittimi del Frank Booth di Velluto blu: isterici, sadici (pensiamo alla terribile sequenza in cui Bully uccide il topo di Rat), nonché sessualmente ambigui. Ma Gosling paga il suo debito anche con Strade perdute del 1997, il cui titolo originale, Lost Highway, potrebbe aver ispirato lo stesso Lost River. Del capolavoro di Lynch, Gosling recupera diversi elementi iconografici. Pensiamo, ad esempio, all’ossessione per il fuoco; oppure alla folle corsa in auto sull’autostrada immersa nella notte, ripresa da Gosling in maniera similare. Dunque, in questa sua ricerca formale, il regista sente il bisogno di confrontarsi con quel cinema che più lo affascina e che lo ossessiona. Fondamentale per la configurazio-
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Ryan Thomas Gosling Londra, 12.09.1980
ne formale dell’opera di Gosling si rivela essere il contributo del belga Benoît Debie. Il celebre direttore della fotografia di Gaspar Noë (impossibile non citare il suo titanico lavoro per Enter the Void del 2009) e Harmony Korine con il seminale Spring Breakers – Una vacanza da sballo del 2012, in questa sua prima collaborazione con Gosling, dà vita ad un vero e proprio “manto visivo” che si dimostra essere uno dei nuclei portanti dell’opera. I colori accesi che avevano caratterizzato le due fondamentali opere sopra citate li possiamo ritrovare nel film di Gosling: un espediente necessario per calare il film in una atmosfera onirica e surreale. Afferma lo stesso
107 Debie a riguardo: “Il film inizia con toni molto 'sociali' e realistici, con la storia di una madre che vive in una città economicamente devastata (Detroit) e che sopravvive a malapena facendo un lavoretto dopo l’altro per pagare le bollette e crescere i propri figli, ma poi, a poco a poco, il film si evolve attraverso immaginari universi paralleli che perfino io definirei “fantascientifici”. Per me è stata una grande esperienza trasmettere tutto ciò sullo schermo.” In particolare, è nella caratterizzazione luministica del locale che Debie ha l’occasione per creare gli effetti cromatici più interessanti, non solo sul palco dove si esibiscono Cat e Billie, ma soprattutto nelle stanze sul retro, dove i clienti possono assistere a dei bizzarri peep-show. La strutturazione del luogo è emblematica: un lungo corridoio inondato da una luce violacea, curiosamente, lo stesso colore del vestito indossato da Billie durante il suo primo incontro in banca, su cui si affacciano diverse stanze al cui interno è disposto un bizzarro involucro dalla sagoma umana chiamato shell (guscio). Si tratta di una sorta di esoscheletro trasparente dove le donne sono protette dai clienti. La particolare forma di questo guscio distorce i loro lineamenti. È difatti
ciò che accade a Billie nel finale del film, dove il suo volto, contratto dal terrore, assume i connotati mostruosi di un personaggio che sembra uscire dal mondo defigurato di Inland Empire – L’impero della mente del 2006. Questo uso dei colori così accesi, che tendono a una rottura di significazione nei confronti di un semplice valore cromatico, è sicuramente debitore del cinema “eccessivo” di Mario Bava e Dario Argento, altri due nomi che il regista cita fra le influenze del film e che idealmente omaggia con la presenza, nel cast, di una delle dive dell’horror italiano, Barbara Steele, interprete del capolavoro baviano La maschera del demonio (1960). Dunque, una funzione figurale del colore che la fotografia di Debie porta ad un grado di assoluta salienza. Ma Lost River è soprattutto un film di performances. I personaggi sembrano costantemente mossi da una volontà di esibirsi (per un pubblico, o semplicemente per l’occhio dello spettatore). Basti pensare all’utilizzo dei brani musicali diegetici. Per ben due volte, nel corso del film, viene cantata una canzone. Rat intona “Tell Me”, il brano che tornerà anche nei titoli di coda, illuminata dalle luci al neon di Debie. Più avan-
108 ti assistiamo ad una concitata performance di Dave che esegue “Cool Water”, brano molto vicino al registro musicale di Nick Cave. Ma non solo. Come già anticipato, il film è interpuntato dagli spettacoli gore del misterioso locale. Durante la propria esibizione, Billie si “toglie” la faccia dopo averla incisa con un bisturi: si tratta di un rituale, di una cerimonia che evidenzia lo sdoppiamento del personaggio. Uno sdoppiamento da intendersi non tanto in riferimento alla doppia vita condotta dalla donna (madre/prostituta), quanto allo scollamento tra il sé e la propria immagine. Una volontà di concedersi, completamente, allo sguardo (degli/dello spettatori/e). Ma il momento più significativo in cui il film denuncia questa teorizzazione della performance è probabilmente nel pre-finale, ovvero quando Dave si mette a ballare per Billie, rinchiusa dentro allo shell. La macchina da presa, statica, passa da campi totali a primi piani, dinamizzando e stilizzando a dismisura lo spazio. Dave balla in questo suo assolo, mentre i volti dei due personaggi si sfigurano poco alla volta. I loro corpi diventano, letteralmente, figure nello spazio che la tensione formale della sequenza riduce a
immagini al di fuori del corpo o forse sarebbe più corretto dire dopo il corpo. La fotografia di Debie e la messa in scena di Gosling si fondono, così, per creare un universo spaesante, fatto di soggettive e campi lunghi, di forzature dell’immagine e cromatismi folli. Uno spazio “geometrico”, ma al tempo stesso difforme e dove lo scontro (o l’incontro) tra corpo dell’attore e corpo cinematografico è definitivo. Come scrive Jason Bailey: “L’eccezionale fotografia di Benoît Debie crea stati d’animo mutevoli in un attimo, passando da una bellezza irregolare all’inferno urbano, che vengono combinati assieme a un immaginario sempre più surreale per dare all’immagine una qualità spettrale, da incubo.” Al contempo, “Gosling utilizza un audace senso ellittico di messa in scena, con il dialogo spesso rimpiazzato da stralci di conversazioni già iniziate, riempiendo i bordi della sua storia con colorati, memorabili personaggi (molti di loro, a quanto pare, non-attori che interpretano variazioni su loro stessi) e che aggiungono un po’ di sapore in più alla narrazione nuda e cruda.” È dunque un film di vuoti e di pieni, Lost River dove, forse, l’estrema stilizzazione (il pieno) sembra
109 un passo più in là: lo sfaldamento di Lost River non investe più solo il film, ma il corpo stesso del personaggio, i suoi connotati, il suo volto verso la de-figurazione. Il film, è stato per lo più filmato in 35mm, ma ci sono alcune scene scattate con Red Epic di Ryan Gosling, compresi i colpi rubati o una scena subacquea. La maggior
Christina Hendricks in Lost River, 2014 regia: Ryan Gosling fotografia: Benoît Debie
voler nascondere un vuoto. Un atteggiamento non troppo lontano da quello di Refn in Solo Dio perdona (Only God Forgive, 2013), film interpretato dallo stesso Gosling. Un’altra opera dove la costruzione, ricercatissima, della messa in scena equivale alla sua distruzione, al suo sfaldamento, e “alla sua sconfitta”. Ma Gosling fa
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Christina Hendricks e Eva Mendes in Lost River, 2014 regia: Ryan Gosling fotografia: Benoît Debie
parte del film è stata realizzata con una serie Cooke S5, equipaggiato con tre obiettivi Hawk 1.0 e una serie di obiettivi anamorfici russi che Debie aveva già usato su Spring breakers e che ha montato su Red Epic. Come ha affermato Debie: “Mi piace mescolare i formati e in definitiva è un altro strumento artistico.” In Lost River spesso ci troviamo davanti a inquadrature con elementi fissi e un contorno in movimento, dove la simmetria non sfugge ad un occhio più attento, come la corsa sul ponte illuminato o il tragitto in macchina sempre a lume di lampione. E poi c’è lei, la casa in fiamme. Si sa il fuoco affascina, staresti ore a guardarlo e Ryan lo sa, quindi lo utilizza a suo piacimento, regalandoci quella bellissima
scena della casa in fiamme nella sua interezza, riproponendola più volte e fissandola come scena finale dei titoli di coda. Alcune scelte sono geniali e i particolari risultano molto curati, come la giacca dorata di Bully, la poltrona “trono” sulla macchina, le celle dei “giochi”, la città sott’acqua, le bici illuminate o i lampioni sommersi (tutto ciò che ne rimane ed emerge del vecchio mondo). I personaggi come la nonna muta, sempre truccata alla perfezione e vestita a puntino, o Face lo scagnozzo di Bully, avvicinano la pellicola al grottesco, certo aiutano molto anche Eva Mendes e i suoi siparietti. Per non parlare del balletto nella sala delle celle, uno dei momenti più alti del film. Probabilmente ci sarà anche un motivo riguardante la scelta dei
111 nomi così scontati, Bully il bullo, Rat la ragazza col topo, Bones il ragazzo pelle e ossa, Face il ragazzo senza labbra. Lo stile, con la scelta dei tagli e inquadrature e un uso funzionale della luce (o della sua totale assenza) è tangibile, come anche la scelta di far arrivare prima l’audio del video nel cambio scene, o enfatizzarne il cambio con effetti sonori. Ma i veri protagonisti di questa pellicola sono i colori, forti e vivi a contrasto con una città morente e un popolo decadente, il verde della vegetazione, il rosso del sangue, il fuoco, il viola carichissimo, tanto tantissimo viola fluo e neon, per poi arrivare all’amatissimo nero, un nero pece che inghiottisce tutto il resto. Lost River è stato uno dei film più attesi nella selezione “Un certain regard” alla 67° Festival di Cannes. Per creare le immagini sul primo e strano lungometraggio che oscilla tra favola sociale e storia fantastica, il giornalista Francois Reumont ha condotto un’intervista per conto della AFC al direttore della fotografia Benoit Debie. Quest'ultimo parlando di Ryan Gosling ha affermato: “È un puro cinefilo. Ha un solido universo visivo, cita molti vecchi film in bianco e nero, con luci contrastanti, le cose sono davvero alla vecchia
maniera. Ha lavorato con molti registi e si sente che ha imparato molto da loro. Personalmente, mi ha immediatamente detto che era un fan di Enter the Void e in Lost River trovi alcuni colori o influenze del film di Gaspard Noë. Quando ho letto la sceneggiatura, mi ha fatto pensare alla fotografia di Bill Henson. È un artista australiano che lavora molto sulle lunghe esposizioni e che fa ritratti di giovani o paesaggi di notte con una resa molto onirica. E quando gli ho mostrato queste immagini, ha detto, 'è esattamente quello che voglio'. Quindi abbiamo iniziato a mirare al buio e all'oscurità […] Ryan ama l'oscurità e devo dire che come ha fatto Harmony Korine - il regista di Spring breakers - mi ha spinto molto lontano dal punto di vista fotografico. Ciò è stato ancora più audace da parte sua, perché il film è stato girato utilizzando film stock ed è stata la sua prima volta come regista.”
Stefano Fresi in Smetto quando voglio, 2014 regia: Sydney Sibilia fotografia: Vladan Radovic
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Il giallo agisce prepotentemente su di noi […]. Wassily Kandinsky
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l giallo il più delle volte è il colore del sole, dell’oro, dell’allegria e della fantasia, caldo, gaio, tonico, dinamico e creativo. Nelle sue tonalità più chiare, attira ed eccita l’occhio e riprende alcune delle caratteristiche dell’arancione, con cui può essere talvolta sfumato. Rappresenta l’ottimismo, l’intelligenza, la saggezza, la parola, la vivacità, l’estroversione, la leggerezza e la crescita. Rimanda alla radiosità che risveglia e dà calore, all'espansione e al movimento, alla libertà e all'autosviluppo. Il giallo è il colore dell'illuminazione e della redenzione. Chi preferisce il giallo, quindi, tende al cambiamento e alla ricerca del nuovo, della liberazione dagli schemi, ha un carattere aperto, ottimista, estroverso, divertente e scanzonato, sereno e cordiale. È entusiasta della vita e s’infiamma facilmente. Tiene molto ad affermarsi e a conseguire posizioni di prestigio personale, cerca sempre esperienze nuove. Ha bisogno di una vita piena e intensa, pensa sempre al futuro in modo gioioso. È molto convincente, ambizioso, vanitoso, coraggioso ma anche generoso, deve sentirsi importante. Il giallo è per luogo comune il colore della gelosia. Se associato al verde è più facilmente percepito dall’occhio umano, che riesce a distinguere varie gradazioni di verde e di giallo. Questo colore stimola la razionalità e l’emisfero sinistro del cervello, migliora le funzioni gastriche, stimolando la digestione e tonifica il sistema linfatico. Stimola l’attenzione e l’apprendimento, acuisce la mente e la concentrazione ed aiuta ad eliminare le tossine attraverso il fegato e l’intestino. Quando in un film prevale questa tonalità, il più delle volte il regista vuole portare alla mente pensieri positivi e felicità. È un colore forte ed importante ma allo stesso tempo capace di rilas-
Jake Gyllenhaal in Enemy, 2013 regia: Denis Villeneuve fotografia: Nicolas Bolduc
114 sare la mente. Lo sa bene Wes Anderson, conosciuto anche per il suo uso massiccio del giallo proprio con questi connotati, oppure Il mago di Oz del 1939, diretto da Victor Fleming. Impossibile non citare La la land (2016) di Damien Chazelle che ha fatto parlare molto di sé negli ultimi anni, sia nel bene che nel male. L’estetica è un aspetto indispensabile alla resa della pellicola. Attraverso i colori saturi Chazelle propone un mondo evasivo e favolesco dalla controversa vita di Los Angeles, e allo stesso tempo vuole omaggiare il vecchio cinema hollywoodiano. In questo caso il blu rimanda all’idea dei sogni; il giallo viene messo in scena nei momenti cruciali della trama, poiché simboleggia il cambiamento; il rosso rende invece un’idea di realismo e richiama i protagonisti nella realtà. Il film risulta quindi un alternarsi di colori complementari fra soggetto e sfondo. Da notare infatti i vestiti monocromatici risaltati dall’ambiente, come il giallo del vestito di Mia che è complementare del tramonto viola nella scena “A lovely night” di Ryan Gosling ed Emma Stone. Nel 2014 esce una pellicola italiana, Smetto quando voglio di Sydney Sibilia, incentrata sulla storia di un gruppo di ricercatori italiani. Balza agli occhi una fotografia originale in cui i colori sono saturi al massimo, tanto che azzurro e verde tendono a confondersi l’uno con l’altro e il giallo sembra quasi “bruciato”. Questa “acidità” cromatica e forte fluorescenza è particolarmente fastidiosa alla vista ma assolutamente peculiare, originale e d’impatto.
115 I colori sgargianti caratterizzano anche Antiporno, un film esasperato ed urlato di Sion Sono, che attraverso i suoi colori accesi da voce al genere femminile. Il regista realizza un’eccelsa critica alla società giapponese, mettendo sul banco dei testimoni gli uomini e le loro colpe. Il giallo è il protagonista assoluto dell’intera opera, onnipresente in qualsiasi scena e nettamente in contrasto con la scenografia a cui è associato. Se è vero che il colore prescelto dal regista infonde allegria, spazialità ed apertura, allora non può che scontrarsi volutamente con la sceneggiatura e i luoghi in cui è stato girato il film, emblemi di prigionia e tristezza. Un contrasto unico ed affascinante, estremamente funzionale e che porta ancora di più al limite un’opera che lo era già di partenza. Quella di Sion Sono è un’opera che raramente si scorda per la bellezza dei colori utilizzati, per la loro vivacità e per come riescono a colpire in piena faccia lo spettatore, soprattutto dove risultano complementari tra loro. Ennesimo messaggio implicito che evidenzia l’instabilità emotiva e conflittuale delle protagoniste. In Kill Bill le squillanti trombe della soundtrack Green Hornet (strumento associato da Kandinsky al giallo) accompagnano l’ingresso in scena di Uma Thurman in moto e in tuta gialla. Tonalità virate al giallo (seppur pallido e sbiadito) ricorrono anche nel combattimento contro gli 88 folli. La luce sfumata di cromie giallo-arancio è presente anche in alcune “scene action” di City of God (2003) di Fernando Meirelles e Kátia Lund. Nel film Apocalypse now il giallo rimarca il carattere eccentrico e folle del colonnello Kilgore, interpretato da Robert Duvall. In Sin city, come nel fumetto originale, il giallo è utilizzato in maniera selettiva per Roark Jr. (That yellow bastard). Simboleggia la pazzia ma anche la malattia fisica. In Her (2014) la regia di Spike Jonze è sublime, si rimane incantati nel guardare quei colori accesi ma allo stesso tempo molto chiari, il rosso fuoco che si mischia al tenero candido giallo, quasi come se non ci trovassimo nel futuro ma in un romantico passato, anche grazie alla riscoperta di sentimenti ormai rari. Altra pellicola con una buona rappresentanza di gialli è sicuramente Enemy di Denis Villeneuve con Jake Gyllenhaal (tratto dall’Uomo duplicato di Saramago). La paletta del film, in realtà, è abbastanza complessa, essenzialmente la luce vira al seppia ma anche a varie sfumature di gialli tendenzialmente un po’ sbiaditi, sicuramente meno energici e
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Sin City, 2005 regia: Robert Rodriguez, Frank Miller e Quentin Tarantino fotografia: Robert Rodríguez
vitali rispetto agli esempi precedenti. La scelta dei colori in Enemy aiuta a creare atmosfera e mistero. Il giallo è un colore che allude anche al bizzarro, all’insolito, alla pazzia. Lo affermò anche Kandinsky: “La visione diretta del giallo rende ansiosi, emozionati, eccitati e rivela la violenza del colore, che agisce prepotentemente su di noi. Un giallo così intenso è come il suono sempre più acuto di una tromba o quello sempre più assordante di una fanfara. Da un punto di vista psicologico può raffigurare la follia, intesa non come malinconia o ipocondria, ma come eccesso di furore, di irrazionalità cieca, di delirio. Un malato infatti aggredisce la gente all’ improvviso, getta le cose per terra, disperde inutilmente le sue energie in tutte le direzioni, fino all’esaurimento”. Dal punto di vista puramente estetico crea uno stile originale e caratteristico. È anche un colore particolarmente amato ed usato dal regista Villeneuve, legato alla sua infanzia.
Antiporno, 2016 regia: Sion Sono fotografia: Ito Maki
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CAPITOLO I
U
no stile ben definito e a tratti ridondante, la capacità di mescolare generi e stili, il citazionismo sfrenato ai limiti del plagio unito ad un dominio totale delle possibilità e specificità del linguaggio cinematografico, fanno di Quentin Tarantino il regista più influente nel panorama del cinema mondiale contemporaneo. Non ha mai studiato cinema. Non l’ha mai fatto in senso tradizionale, non ha frequentato scuole. Ha studiato recitazione e ha lavorato nella videoteca del suo paese, in California, inte-
grando in questo modo la sua già vasta conoscenza cinefila e sviluppando un’attrazione morbosa nei confronti dei b-movies, produzioni di bassa qualità realizzate con budget limitato, e verso il cinema italiano di genere, come gli spaghetti-western e il poliziottesco. La grande mole di film visionati in questo periodo della sua vita ritorna con forza nella sua produzione cinematografica attraverso numerose citazioni. Questo lavoro fu anche un’ottima occasione per entrare in contatto con alcune
Quentin Jerome Tarantino Knoxville, 27.03.1963
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120 personalità di spicco dell’industria hollywoodiana che spesso visitavano il negozio. In questo modo, Quentin Tarantino trovò l’ispirazione e la forza di volontà per scrivere insieme a Craig Hamann il suo primo film nel 1987, My Best Friend’s Birthday, in cui tutti i dipendenti del videonoleggio entrarono a far parte del cast e della troupe. Tuttavia, metà dell’opera andò perduta in seguito ad un incendio avvenuto durante lo sviluppo della pellicola. Negli anni Ottanta vendette le sue prime sceneggiature ed esordì alla regia nel 1991 con il film, ormai cult, Le iene, che lancia la sua carriera da regista. Le iene è innanzitutto un pastiche di riferimenti alla cultura popolare e al cinema, a partire dai nomi dei protagonisti. I rapinatori del film, tra i quali figura Quentin Tarantino stesso, utilizzano infatti i nomi dei colori per celare la loro identità, proprio come nel film di Joseph Sargent del 1974, Il colpo della metropolitana. Le iene mette in luce anche le grandi capacità di Tarantino nell’articolazione della trama. Invece di presentare linearmente la rapina che sta al centro delle vicende del film, il regista decide di non mostrarla e di raccontarla invece a posteriori attraverso i dialoghi dei suoi protagonisti, riuscendo così a lascia-
re spazio anche a diversi colpi di scena che trovano perfettamente il loro ruolo nella storia. La decostruzione narrativa della trama è uno degli aspetti che caratterizzano fortemente anche Pulp Fiction. Il secondo lungometraggio di Quentin Tarantino, vincitore della Palma d’oro al Festival di Cannes del 1994; racconta infatti diverse storie intrecciate tra di loro senza tuttavia farlo in ordine cronologico. Il risultato di questa operazione è un continuo senso di smarrimento che mantiene lo spettatore ben saldo alla poltrona in attesa di ottenere le risposte agli interrogativi che lo animano. A contribuire a questa sensazione è un altro dei marchi di fabbrica dell’autore americano: l’estetizzazione della violenza. Non si può parlare di Tarantino senza riflettere su questo tema, la violenza è l’elemento attorno al quale vengono costruiti tutti i suoi film. La rappresentazione della violenza in Pulp Fiction non vuole proporsi infatti come un tentativo di commento sociale ma come una vera e propria forma di spettacolarizzazione volta a creare un sentimento di piacere nello spettatore. Grazie anche ai dialoghi, Tarantino riesce a rendere piacevoli numerose scene che a primo impatto potrebbero apparire di
121 cattivo gusto. I dialoghi paradossali, che puntellano l’andamento narrativo di tutti i film di Tarantino, sono in parte ispirati alla verve ironica e grottesca delle opere di Elmore Leonard, scrittore molto amato dal regista. Oltre alla violenza e alla deframmentazione della trama esistono altri elementi ricorrenti nella filmografia di Tarantino, uno di questi è il ricorso a citazioni e omaggi ai generi e alle pellicole che hanno segnato il suo immaginario, utilizzati come modelli narrativi ed estetici pronti ad essere reinterpretati e mescolati tra loro, usati e riattraversati. Il mexican standoff, ad esempio, quando due o più persone si tengono di mira reciprocamente e si ritrovano in una specie d’equilibrio precario che si può rompere da un momento all’altro, è un chiaro rimando alla scena finale de Il buono, il brutto e il cattivo di Sergio Leone, uno dei film preferiti dal regista. Quando voleva quel particolare tipo di close-up (primo piano), con un’angolazione molto specifica e una dimensione molto specifica, diceva a Richardson, il direttore della fotografia, “Dammi un Leone”. Altri marchi di fabbrica sono il corpse view, quando la scena è ripresa dal punto di vista di un uomo disteso a terra, il trunk shot,
un’inquadratura dall’interno di un cofano di una macchina, usata più volte in Jackie Brown e in quasi tutti gli altri film, il 360° shot, cioè il movimento circolare della macchina da presa, e il cambio di punto di vista o di linguaggio che è raro nei film ed è invece più frequente nei romanzi: ad esempio, nel corso della narrazione in terza persona, improvvisamente un capitolo viene raccontato in prima persona da un personaggio, oppure in forma di lettera. Inoltre, oltre ad un uso massiccio del piano sequenza, la filmografia di Tarantino è attraversata da una passione, al limite del feticismo, per i piedi femminili.
CAPITOLO II
I
l suo film più citazionista è di certo Kill Bill. I due film sono stati girati come un’unica opera ma sono usciti nelle sale in due momenti separati (il primo nel 2003, il secondo nel 2004). L’idea è di Harvey Weinstein, boss della Miramax. Non volendo tagliare nulla delle scene girate da Tarantino, Weinstein ha deciso, pochi mesi prima della distribuzione, di farlo uscire in due parti.
122 I due volumi sono dei revenge movies, incentrati sulla vendetta. A differenza di Pulp Fiction, la rappresentazione della violenza in Kill Bill non funge solo da elemento spettacolarizzante, come ad esempio nell’esagerazione della messa in scena del sangue, sono stati utilizzati infatti più di 1700 litri di sangue finto, ma anche come motore narrativo. Kill Bill rappresenta la vera e propria summa delle ossessioni cinefile del regista. Tarantino cita Sergio Le-
one, i fratelli Shaw, Fernando Di Leo, George A. Romero e accosta con sapienza filologica e con un pizzico di follia i generi più disparati, dallo spaghetti-western ai chambara movies, dai kung-fu films agli splatter, dalle serie tv ai revenge movies; vi si ritrova la frammentazione temporale e permane la suddivisione in capitoli. Sangue zampillante, braccia mozzate, il costume giallo e alcune scenografie di Bruce Lee in L’ultimo combattimento di Chen, una Gogo Yubari (Chiaki Kuriyama), la Lucy Liu del remake di Charlie’s Angels, inoltre l’appartamento di Bill in Messico è il numero 101, lo stesso di Neo in Matrix. La camera 101 è anche una citazione di 1984 di George Orwell, è la stanza in cui risiede la cosa che temi di più. Un altro riferimento è a Lady Snowblood, film del 1973 di Toshya Fujita, un regista nipponico, che si era sempre occupato di film generazionali con protagonisti giovani in fuga dalla società. Lady Snowblood e Kill Bill si assomigliano in maniera incredibile, pur vivendo una sottocultura totalmente differente. Entrambi i film condividono il tema della vendetta femminile, particolarmente caro al cinema giapponese. Già mentre scorrono i titoli di testa, si avverte una strana sensazione di déjà vu:
è dovuta alla canzone The Flower of Carnage di Meiko Kaji, protagonista del film di Toshya Fujita. Nel mondo costruito da Tarantino a sua immagine e somiglianza, infatti, le donne non sono affatto il sesso debole ma possiedono istinti predatori pari o superiori a quelli degli uomini, hanno il segreto desiderio di uccidere o di essere uccise. In Kill Bill Tarantino gioca con la simbologia. Non più solo con quella dell’inclinazione della macchina da presa, da sempre nei suoi film esibita e connotativa, ma anche con quella dei colori, dei nomi, degli sguardi. Il regime simbolico dei colori è dichiarato fin dall’incipit del film: dopo il prologo nel quale si assiste a un primissimo piano del viso di Uma Thurman emaciato, la prima inquadratura dopo i titoli di testa mostra la casa della “casalinga” di Pasadena inserita in un cadrage (inquadratura) le cui caratteristiche concorrono a dare un senso di serenità: la casa è inquadrata frontalmente, al centro dell’immagine, con linee armoniose, spezzate solo dal tronco di un albero che è però solidità e naturalità. I colori sembrano quelli di un quadro dipinto con i pastelli e, oltre a un cielo limpido di un azzurro tenue, la tinta predominante è il verde, il colore che più di ogni
altro è rassicurante, tiepido. Verde è il colore della primavera, dell’equilibrio, della stabilità. Verde è il colore dello yang, dell’anima femminile che nutre e dà pace. Vernita Green, il nome non è casuale, è immersa in questa dimensione, dopo aver lasciato la Deadly Viper Assassination Squad. La quiete e la serenità del verde viene invasa irrimediabilmente da un’automobile gialla che entra in campo e si dà come elemento di disturbo e destabilizzazione. Il gioco di colori funziona da campanello di allarme, metafora anticipatrice di ciò che accadrà di lì a poco, quando la donna bionda che scende dalla macchina ucciderà la casalinga davanti agli occhi della figlia. Il giallo percorre il film come una lama, come una trama, come colore da cui è impossibile fuggire: è il colore della macchina, dei capelli, del vestito che indossa la protagonista. “Intenso, violento, fino a essere stridente, oppure pastoso e accecante come una colata di metallo in fusione, il giallo è il più caldo, il più espansivo, il più ardente dei colori, difficile da spegnere e che oltrepassa sempre i limiti nei quali lo si vorrebbe confinare”, recita il Dizionario dei simboli. Questo colore e questa donna sembrano incarnare la forza e l’eternità divina, il potere
Uma Thurman in Kill Bill-Volume 1, 2003 regia: Quentin Tarantino fotografia: Robert Richardson
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124 sulla vita altrui, l’impossibilità di scappare dal suo controllo. Un altro colore che viene messo in scena con insistenza per tutto il film è, ovviamente, il rosso, colore del fuoco e del sangue. Lo si trova sul cofano dell’automobile della protagonista su cui sono disegnate fiamme, nell’abito e sulle unghie di O-Ren nei cui occhi viene riflesso nel momento in cui il suo personaggio potrebbe coincidere con quello di Uma Thurman per la sete di vendetta e il dominio sulla vita altrui, nell’incendio, nel sangue che spruzza da braccia e teste mozzate. Lo si trova anche nell’illuminazione che pervade il ricordo della protagonista dopo aver guardato negli occhi Vernita Green: la passione di morte che si scatena nella donna tinge le immagini di rosso e macchia il bianco: colore della purezza, non riesce a rimanere integro in nessuna sequenza in cui viene inserito. Ultimo, ma non per frequenza, il nero, il colore della morte, delle tenebre, del nulla, è messo in scena ogni qual volta non-compare Bill, viene dato per assenza di luce, è il dominante degli abiti delle “Vipere”. Anche rispetto ai nomi Tarantino fa riferimento a una simbologia universalmente riconosciuta: nessun personaggio viene chiamato con il
nome di battesimo, forse perché non esiste al di là dell’universo, forse perché rappresenta un archetipo piuttosto che una persona, forse perché ognuno di loro è una marionetta senza personalità e senza anima. L’associazione criminale capeggiata da Bill si chiama Deadly Viper Assassination Squad: la vipera è rappresentata nell’antico Egitto nell’atto di
ingoiare i defunti e simboleggia pertanto il luogo nel quale si compie il trapasso dalla vita terrena a quella ultraterrena, dal mondo dei vivi a quello dei morti: compito della squadra è essenzialmente quello di uccidere. Tutti coloro che ne fanno parte sono chiamati con nomi di serpenti velenosi: sono esseri freddi, che strisciano dalle oscurità delle origini per dare la
125 simbolo della vendetta contro cui nessuno può fare nulla. All’interno del film la parte in bianco e nero era stata girata inizialmente a colori e in seguito modificata perché ritenuta troppo cruenta. Un’altra figura fondamentale per questo capolavoro è stata quella del direttore della fotografia, Robert Richardson. Circa Kill Bill, Richardson ricorda che: “Una delle prime affermazioni fatte da Quentin è stata che voleva che ogni capitolo della sceneggiatura si sentisse come una bobina di un film diverso”, “voleva entrare e uscire dai vari stili di firma di tutti questi generi: western, melodramma, thriller, horror, aveva una conoscenza assoluta di ciò che voleva che ogni sequenza assomigliasse.” Essendo stato girato in luoghi differenti (Cina, Giappone, Messico e California) Richardson ha ammesso che il mantenimento della coerenza visiva rispetto alla scala del quadro è stata la sua momento stesso della celebrazione. Chi è adesso non ci è dato più grande preoccupazione. Ciò che Richardson cerca in qualsapere, tanto che le uniche volte che qualcuno la chiama per nome siasi genere è ciò che questo gequest’ultimo viene coperto da un nere rappresenta: l’atteggiamento nei confronti del film, piuttosto “beep”: non possiamo accedere alla sua identità, non esiste più in che il film stesso. Le differenze quanto persona, è stata spogliata tra i diversi film sono negli angoli, nei personaggi, nella sensibilità del figlio, della comprensione e che il regista ha nei confronti della compassione e allora non possiamo percepirla se non come del soggetto. Non c’è mai stato
Kill Bill-Volume 1, 2003 regia: Quentin Tarantino fotografia: Robert Richardson
morte all’uomo, suo rivale. Uma Thurman, ricostruendo linearmente il tempo, è stata Arlene Machiavelli, con un chiaro riferimento al letterato del Quattrocento italiano, Black Mamba, serpente mortale dell’Africa, e La Sposa: colei che, anche in vista del figlio che aveva in grembo, sta cominciando e dando origine a una nuova vita, che le viene però interdetta nel
Kill Bill-Volume 1, 2003 regia: Quentin Tarantino fotografia: Robert Richardson
126 qualche modo con i suoi limiti. “Ho avuto problemi con l’udito, quindi i miei occhi sono sempre stati al centro delle mie capacità”, disse a The Talks. È stato tre volte vincitore dell’Oscar dell’Academy Award for Cinematography. Ha rapporti di lavoro con alcuni dei più grandi registi di Hollywood come Martin Scorsese e Oliver Stone. Con quest’ultimo ha debuttato come direttore della fotografia nel film Salvador (1986). I due si sono uniti di nuovo su Platoon, dove Richardson ha ottenuto la sua prima nomination all’Oscar come Miglior Fotografia. un dibattito su come ottenere le proporzioni widescreen di Kill Bill. Assieme a Martin Scorsese ha La produzione è stata ripresa nel lavorato in Hugo (2011) che gli è valso il suo terzo Oscar come miformato Super 35mm utilizzando le telecamere preferite di Richard, glior film. Il suo secondo Oscar è stato per un altro film di Scorsese Panavision Platinum, dotate di The Aviator, nel 2004. La sua colobiettivi Primo e configurate per le riprese in 3-perf. Le difficoltà di laborazione con Quentin Tarantino filmare le sequenze delle arti mar- è iniziata con Kill Bill Vol. 1 nel ziali sono state molto complesse. 2002. Si sono nuovamente riuniti nel sequel e da allora hanno fatto Il duello tra Black Mamba-Uma Bastardi senza gloria e Django Thurman e i seguaci del boss Unchained di cui Richardson ha O-Ren Ishii-Lucy Liu, dura in tutto 20 minuti. Le riprese sono durate ottenuto la sua ottava nomination per l’Oscar per la cinematografia. otto settimane su un set dello Richardson è il direttore della Studio cinematografico di Pechifotografia che Tarantino ha scelto no, solo due settimane in meno per la maggior parte dei suoi film, rispetto all’intera produzione di anche per il suo ultimo film Once Pulp Fiction. Upon a Time in... Hollywood. La fama di Richardson come Lo stile del cineasta cambia di direttore della fotografia iniziò in
127 volta in volta per adattarsi ai vari film di cui si occupa. Egli solitamente non cerca la motivazione per l’illuminazione. Illumina una scena basata sulle sue stesse motivazioni, per quanto riguarda la storia e l’umore. Il suo marchio di fabbrica è la sorgente di luce molto calda / forte, dall’alto o leggermente indietro, puntata verso il basso, che videnzia i bordi dei personaggi. Questo appare in quasi tutto il suo lavoro, indipendentemente dal genere, dall’ambientazione o dallo stato d’animo della scena. La luce fa un lavoro magnifico per ritagliare i personaggi dallo sfondo e creare profondità istantanea nella foto e aggiungere interesse. Questo aspetto dovrebbe essere raggiunto con una forte luce diurna proiettata in testa o in altri casi in una posizione posteriore di tre quarti. A seconda della quantità di luce desiderata nell’inquadratura, viene utilizzato un riempimento o un’altra luce per conferire alla parte anteriore dei personaggi un bagliore piacevole. Un’altra tecnica utilizzata è il panning, utilizzata per riprendere soggetti in movimento mantenendo l’impressione di dinamismo dell’immagine. È un modo interessante di riprendere la scena con velocità e aggiungere umorismo, invece di guardare due persone
che hanno una conversazione. Nel corso del suo lavoro, l’inquadratura di Richardson è coerente. Il modo in cui sceglie di inquadrare un film e gli attori al suo interno sono simili nei suoi film. Le sue inquadrature sono incorniciate per essere composte in modo equilibrato e spesso coinvolgono la simmetria, sia con gli attori che con l’ambientazione. Ovviamente è il tipo di direttore della fotografia che apprezza la simmetria come bellezza a differenza di alcuni. Un’inqudratura usuale per Richardson è la ripresa da dietro un attore nel mezzo e gli altri due posizionati di fronte a lui / lei su entrambi i lati. La ritroviamo in Shutter Island, Bastardi senza gloria e The Aviator.
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Sitografia Auralcrave: https://auralcrave.com/2017/09/05/luso-dei-colori-ne-la-donna-che-visse-due-volte-di-alfred-hitchcock/ Diario Di Rorschach: https://diariodirorschach.com/blog/2018/03/17/vertigo-e-i-colori-di-alfred-hitchcock/ Cinematographe: https://www.cinematographe.it/recensioni/vertigo-analisi-filmica/ Photo Riflettendoci: https://photoriflettendoci.wordpress.com/2016/05/13/seguendo-i-maestri-della-luce-e-dellombra-resto-del-mondo/ Screenonline: http://www.screenonline.org.uk/tours/hitch/tour2.html E A Te Se Sei Rimasto Con Harry: https://eateseseirimastoconharry.com/colori-harry-potter/ Filmpost: https://www.filmpost.it/curiosita/cinema-colori-la-forma-dellacqua-guillermo-del-toro/ Wordpress: https://photoriflettendoci.wordpress.com/tag/alfred-hitchcock/ Cinematographe: http://www.cinematographers.nl/GreatDoPh/burks.htm Wikipedia: https://en.wikipedia.org/wiki/Robert_Burks#Cinematographic_Style Cinematographe: https://www.cinematographe.it/news/mad-max-fury-road-colori-video/ Film: https://www.film.it/speciali/cannes-2015/interviste/dettaglio/art/ mad-max-parla-il-regista-pochi-effetti-speciali-il-resto-tutto-vero-42867/ Mondo Fox: https://www.mondofox.it/2016/12/14/mad-max-uno-sguardo-ravvicinato-alla-high-octane-collection/
130 Turismo: https://www.turismo.it/oltreconfine/articolo/art/nel-des erto-di-fuoco-di-mad-max-fury-road-id-8370/ Bergamo Post: http://www.bergamopost.it/da-vedere/mad-max-fury-road-uno-spettacolo/ Fantascienza: https://www.fantascienza.com/20052/mad-max-fury-road-17-cose-dasapere-prima-di-vedere-il-film Britannica: https://www.britannica.com/biography/George-Miller-Australian-director Vashi Visuals: https://vashivisuals.com/the-editing-of-mad-max-fury-road/ Screen Week: https://blog.screenweek.it/2015/06/mad-max-fury-road-limportanza-del-montaggio-e-del-centro-dellinquadratura-433781.php Film Light: https://www.filmlight.ltd.uk/customers/meet-the-colourist/eric_whipp.php Fxguide: https://www.fxguide.com/featured/a-graphic-tale-the-visual-effects-of-madmax-fury-road/ Uproxx: https://uproxx.com/hitfix/how-mad-max-fury-road-lured-oscar-winner-john-seale-back-behind-the-camera/ Breve Storia Del Cinema: http://brevestoriadelcinema.altervista.org/1-1.html Associazione La Dolcevita: https://associazioneladolcevita.wordpress. com/2016/06/09/lavvento-del-colore-nel-cinema-americano-e-in-quello-italiano/ Wikipedia: https://it.wikipedia.org/wiki/Pellicola_cinematografica_a_colori Filmpost: https://www.filmpost.it/curiosita/cinema-arte-colore-nel-cinema/ Zauberklang: https://zauberklang.ch/filmcolors/timeline-entry/1218/ Wired: https://www.wired.it/play/cinema/2014/07/08/il-primo-film-colori/?refresh_ce=
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132 Ciao Cinema: http://www.ciaocinema.it/grand-budapest-hotel-di-wes-anderson-a-cura-di-arianna-pagliara/ Cinemagazzino: http://www.cineamagazzino.it/approfondimenti/incontri-ravvicinati/ wes-anderson-estetica-e-stile/ Altervista: http://artesatura.altervista.org/la-la-land-colori-saturi-significati/ Alice Sogno: https://alicesogno.it/immagine/la-psicologia-del-colore-nel-cinema/ Cinepaxy: https://cinepaxy.wordpress.com/2015/01/27/sul-globo-dargento/ Naturopata Online: https://www.naturopataonline.org/medicina-alternativa/cromoterapia2/15623-colore-rosa-significato-in-cromoterapia-e-proprieta.html Effetto Notte: http://www.effettonotteonline.com/news/index.php?option=com_content&task=view&id=564&Itemid=23 Cultura Inquieta: https://culturainquieta.com/es/cine/item/10825-psicologia-cromatica-la-influencia-del-color-en-el-cine.html Hipertextual: https://hipertextual.com/2015/12/paletas-de-colores Areadomani: https://www.areadomani.it/2017/11/13/lutilizzo-dei-colori-nella-grafica-pubblicitaria/ Wikipedia: https://it.wikipedia.org/wiki/Jean-Louis_Trintignant Wikipedia: https://it.wikipedia.org/wiki/Piotr_Soboci%C5%84ski Homolaicus: http://www.homolaicus.com/linguaggi/teoria-colori2.htm Each Magazine: https://eachmagazine.com/2017/05/06/la-psicologia-dei-colori-nei-film/ Fare Film: https://farefilm.it/tecniche-e-tecnologie/alcune-tecniche-che-gli-aspiranti-registi-dovrebbero-imparare-da-alfred-hitchcock-4479
133 La Scimmia Pensa: https://www.lascimmiapensa.com/2018/05/13/10-film-dove-il-colore-e-protagonista/ C’era Una Volta Hollywood: https://ceraunavoltahollywood.wordpress. com/2017/08/21/10-film-dai-colori-saturi/ Scuola Di Cinema Indipendente: https://www.scuoladicinemaindipendente.com/news/ la-fotografia-anima-del-film/ Chora: http://www.chora.me/cinema/i-colori-nel-cinema-pt1/ Circaquasi: https://www.circaquasi.com/psicologia-del-colore-nel-cinema/ Bipolart: https://bipolart.it/psicologia-cromatica-leffetto-dei-colori-nel-cinema/ Filmpost: https://www.filmpost.it/curiosita/cinema-arte-colore-nel-cinema/ Il Cinema Ritrovato: http://distribuzione.ilcinemaritrovato.it/per-conoscere-i-film/barry-lyndon/il-lavoro-sulle-luci Stilearte: https://www.stilearte.it/kubrick-odissea-nello-spazio-della-pittura/
Indice del volume
Premessa
12
Dal bianco e nero al colore
22
50 sfumature di colore
24
Indice dei colori
26 ROSSO 34
“The Shining” (1980), Stanley Kubrick & John Alcott
44 VERDE 50
“Vertigo” (1958), Alfred Hitchcock & Robert Burks
58 ROSA 62
“Grand Budapest Hotel” (2014), Wes Anderson & Robert Yeoman
66 BLU 72
“Blade Runner 2049” (2017), Denis Villeneuve & Roger Deakins
80 ARANCIONE 86
“Mad Max: Fury Road” (2015), George Miller & John Seale
94 VIOLA
100
“Lost River” (2014), Ryan Gosling & Benoît Debie
110 GIALLO 116
“Kill Bill” (2003), Quentin Tarantino & Robert Richardson
127 Sitografia
140