UNIVERSITÀ DEL SALENTO ________________________________________
FACOLTÀ DI ECONOMIA Corso di Laurea Specialistica in Scienze Economiche
Tesi di Laurea in
Politica Economica (Corso Avanzato)
LA MISURAZIONE DEL BENESSERE E LA CRESCITA ASPETTI TEORICI ED EVIDENZA EMPIRICA
Relatore:
Prof.ssa Alessandra Chirco
Laureando:
Antonio Castellano ANNO ACCADEMICO 2007-2008
- Indice -
Indice INTRODUZIONE ............................................................................................................... 3 1. BENESSERE, SVILUPPO E CRESCITA: ASPETTI INTRODUTTIVI ................. 6 1.1. EVOLUZIONE DEL CONCETTO DI BENESSERE ............................................................. 6 1.1.1. Utilitarismo e benessere classico .......................................................................... 7 1.1.2. Nuove concezioni di benessere e l’approccio di Amartya Sen ............................ 13 1.1.3. Possibili estensioni del concetto di benessere ..................................................... 23 1.2. CRESCITA E SVILUPPO ............................................................................................... 26 1.2.1. Dalla crescita alla sostenibilità........................................................................... 26 2. LA MISURAZIONE DEL BENESSERE ATTRAVERSO IL PIL .......................... 33 2.1. COS’È IL PRODOTTO INTERNO LORDO .................................................................... 33 2.1.1. Storia del PIL...................................................................................................... 33 2.1.2. Definizione e calcolo ........................................................................................... 36 2.2. VANTAGGI DEL PIL ................................................................................................... 39 2.3. LIMITI DEL PIL ........................................................................................................... 42 2.3.1. Mercati non monetari......................................................................................... 43 2.3.1.1. Crescita e impoverimento sociale ............................................................... 44 2.3.2. Aspetti ambientali .............................................................................................. 46 2.3.2.1. I beni ed i servizi forniti dall’ambiente ....................................................... 47 2.3.2.2. Le spese difensive ambientali...................................................................... 50 2.3.2.3. Il deprezzamento dello stock di capitale naturale....................................... 53 2.3.2.4. Implicazioni sulla crescita. ......................................................................... 55 2.2.3. Consumi intermedi e spese difensive.................................................................. 57 2.2.4. Beni durevoli e infrastrutture pubbliche ............................................................ 59 2.2.5. Distribuzione del reddito.................................................................................... 60 2.2.5.1. Crescita economica e disuguaglianza......................................................... 63 2.2.6. Tempo libero e disoccupazione............................................................................ 65 2.2.7. Indebitamento estero .......................................................................................... 66 2.2.8. Pil e Benessere .................................................................................................... 67 3. INDICATORI ALTERNATIVI DI BENESSERE .................................................... 69 3.1. ALCUNE CLASSIFICAZIONI ....................................................................................... 69 3.2. GLI INDICATORI SOGGETTIVI.................................................................................... 74 3.3. GLI INDICATORI SOCIALI .......................................................................................... 77 3.3.1. Human Development Index ............................................................................... 79 3.4. GLI INDICATORI DI CONTABILITÀ ESTESA ............................................................... 83 3.4.1. Measure of Economic Welfare (MEW) .............................................................. 84 3.4.2. Contabilità ambientale, Green GDP e Genuine Saving..................................... 85 3.4.3. L’Index of Sustainable Economic Welfare (ISEW)............................................. 88 3.5. L’ISEW E IL GENUINE PROGRESS INDICATOR ........................................................ 89 3.5.1. Aspetti teorici ..................................................................................................... 89 3.5.2. Metodologia di calcolo ........................................................................................ 92 3.5.3. I risultati ............................................................................................................ 95
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4. INDICATORI ALTERNATIVI E SCELTE DI POLICY....................................... 100 4.1. ALCUNI ESEMPI ....................................................................................................... 101 4.1.1. Apertura dei mercati ........................................................................................ 101 4.1.2. Politiche di riduzione fiscale............................................................................. 104 4.1.3. Investimenti in ricerca e sviluppo .................................................................... 106 4.1.4. Ricorso al credito .............................................................................................. 109 CONCLUSIONI .............................................................................................................. 113 BIBLIOGRAFIA............................................................................................................... 116
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- Introduzione -
Introduzione
Il miglioramento continuo della qualità della vita è forse l’obiettivo principale che ogni individuo si propone di raggiungere nell’arco della sua esistenza. Il livello di qualità della vita, quello che comunemente può essere definito come benessere individuale, dipende dal grado di soddisfazione degli infiniti bisogni materiali e immateriali che caratterizzano ogni essere umano. L’aspirazione verso più alti livelli di benessere è avvertita naturalmente anche a livello di collettività, tanto da poter essere considerata come il fine ultimo di tutte le scienze sociali, e delle scienze economiche in particolar modo. L’economia, infatti, altro non è che lo studio di come organizzare risorse scarse per soddisfare al meglio i bisogni individuali e collettivi. A livello sociale però non è semplice fornire una precisa e condivisa definizione di benessere, che possa essere utilizzata per costruire un indicatore in grado indirizzare con chiarezza le politiche economiche e istituzionali di una comunità. Tradizionalmente il problema è stato affrontato assumendo una sostanziale equivalenza tra benessere e reddito. Con estrema semplificazione, il ragionamento alla base di questa ipotesi può essere così sintetizzato: esiste un complesso di bisogni la cui soddisfazione aumenta il livello di benessere di una collettività; poiché le merci servono a soddisfare i bisogni, averne a disposizione una maggiore quantità consente di raggiungere un più alto livello di benessere. Per questo motivo nel corso dei decenni il Prodotto Interno Lordo (PIL), nato per misurare il valore dei beni e servizi finali prodotti in un Paese, è
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- Introduzione -
diventato il principale indice di benessere sociale, anche in virtù di una forte correlazione positiva con altri “segnalatori” di benessere, quali ad esempio la durata della vita media. Parallelamente si è sviluppato quel particolare filone di studi economici che va sotto il nome di teoria della crescita, il cui scopo è quello di spiegare sia i fattori che determinano la crescita economica di un paese sia quelli che determinano i differenti tempi e ritmi di crescita tra i diversi paesi. Tuttavia negli ultimi anni molti studiosi hanno sottolineato come sempre più spesso la crescita economica misurata dai sistemi di contabilità nazionale non si sia tradotta in concreto sviluppo per gli individui, cioè in un miglioramento effettivo della qualità di vita. Uno degli obiettivi di questo lavoro è quello di descrivere i limiti intrinseci del Prodotto Interno Lordo nell’assolvere correttamente al compito di misurazione del benessere. Il PIL, infatti, considera solo alcuni degli aspetti che possono avere un effetto sul benessere sociale e individuale trascurandone altri ugualmente importanti, mentre attribuisce un valore positivo ad elementi, quali ad esempio l’inquinamento e le spese di guerra, che invece riducono la qualità di vita delle persone. Le critiche rivolte verso questo indice hanno dato vita ad una vasta ricerca volta a costruire una nuova misura del benessere di una società. Sono stati creati in questo modo decine di nuovi indicatori molto differenti tra loro, ma nessuno è ancora riuscito ad affermarsi quale sostituto del PIL. Si vuole, quindi, individuare tra le varie proposte uno o più indicatori che possano concretamente essere utilizzati in alternativa al Prodotto Interno Lordo, sia come parametro guida delle politiche governative sia nella ricerca economica, e valutare se l’utilizzo di questo indice abbia delle ripercussioni sulla stima dei modelli di crescita tradizionali.
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- Introduzione -
Il lavoro si articola in quattro capitoli. Nel primo capitolo si procede ad un inquadramento teorico del problema introducendo i concetti di benessere, crescita e sviluppo. In particolar modo si ripercorre a grandi linee il dibattito che si è svolto intorno alla definizione di benessere sociale, con la contrapposizione dei differenti approcci sull’argomento, dall’utilitarismo classico di Pigou alle nuove elaborazioni sociali ispirate dall’opera di Amartya Sen. Parallelamente si osserva anche l’evoluzione della teoria della crescita, da concezioni prettamente quantitative verso nuovi scenari di sviluppo, che oltre la dimensione economica considerano rilevanti anche gli aspetti sociali e ambientali. Nel secondo capitolo si prende in considerazione il Prodotto Interno Lordo descrivendone le modalità di calcolo, gli scopi per cui è stato concepito e le ragioni che lo hanno portato a diventare il più importante indicatore in campo economico. Inoltre si analizzano in dettaglio alcuni dei suoi limiti nell’assolvere correttamente al compito di misura del benessere e le implicazioni che questi possono avere sulle dinamiche di crescita. Il terzo capitolo è dedicato ad una rassegna dei principali indicatori proposti come misure alternative di benessere. Dopo aver descritto l’evoluzione di questi indici e le possibili modalità di classificazione si approfondisce l’analisi di quegli indici che sembrano avere i migliori requisiti concettuali per essere impiegati nella teoria economica come misura del benessere. Nell’ultimo capitolo si vuole verificare la possibilità di utilizzo di uno di questi indici nella stima dei modelli di crescita tradizionali. Si procederà infine ad un confronto tra i risultati ottenuti con il PIL e quelli ottenuti utilizzando l’ISEW/GPI, ritenuto il più adatto a essere utilizzato nella teoria della crescita rispetto a indicatori di tipo sociale come lo Human Development Index.
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1. Benessere, sviluppo e crescita: aspetti introduttivi
1.1. Evoluzione del concetto di benessere Come indicato in precedenza uno degli obiettivi del presente lavoro è quello di individuare un valido indicatore del benessere di una società che possa essere utilizzato nella teoria economica della crescita. Si ritiene, quindi, necessario innanzitutto cercare di chiarire il concetto stesso di benessere, che seppur ampiamente utilizzato nel linguaggio comune, presenta numerosi aspetti di ambiguità che ne rendono assai difficile una definizione condivisa. Le definizioni di benessere sono, infatti, numerose e ancor più numerose sono le modalità della sua misurazione. Esse hanno dato luogo, tra l’altro, allo svilupparsi di un'intera disciplina di studi: l'Economia del Benessere. L’Economia del Benessere è, in sostanza, quel ramo della teoria economica che indaga sulle condizioni e sui mezzi che consentono di aumentare il benessere economico, sia per il singolo che per la collettività nel suo complesso. Se per benessere individuale si intende genericamente il grado di soddisfazione dei bisogni dei singoli individui, il concetto di benessere sociale o collettivo presenta, invece, numerosi problemi teorici. La definizione di benessere sociale è legata, infatti, alla possibilità di conoscere
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- Benessere, sviluppo e crescita: aspetti introduttivi -
le preferenze dei membri della collettività, aggregandole in qualche modo. Ciò presuppone, però, la possibilità di poter confrontare le utilità individuali, e proprio su questo punto si sono registrate profonde divergenze fra gli economisti. Vi è, inoltre, disaccordo anche su quali elementi sia giusto o possibile includere nel concetto stesso di benessere e, di conseguenza, in un indicatore ideale per la sua misura. Alcuni cenni sul decennale dibattito teorico che si è sviluppato su questi problemi possono aiutare a capire meglio i termini della questione.
1.1.1. Utilitarismo e benessere classico
Il pensiero dell'economista inglese A.C. Pigou è generalmente considerato il punto di partenza per ogni studio finalizzato alla definizione e alla misurazione del benessere di una collettività, che lui interpretava come somma delle soddisfazioni individuali. Il termine stesso di Economia del Benessere deriva dal titolo di una sua opera del 1920 con la quale espose la propria versione della teoria del benessere in termini di utilità cardinale1. La teoria di Pigou si ricollega alle posizioni che ammettono la misurabilità e
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il cardinalismo pigouviano le utilità o soddisfazioni che ogni individuo trae dalla fruizione di beni economici godono di tre proprietà: a) sono misurabili in senso cardinale; b) sono confrontabili fra individui diversi; c) possono essere sommate per calcolare l'utilità collettiva della società in cui gli individui vivono. Pigou assumeva, poi, che il reddito fosse soggetto ad un’utilità marginale decrescente. Così il benessere complessivo di una società poteva aumentare anche con reddito nazionale mantenuto costante: bastava che si operasse una redistribuzione del reddito dai più ricchi ai più poveri. In questo consisteva la condizione di equità. D’altro canto, se il reddito di uno o più componenti la società aumentava senza modificare la distribuzione negli altri individui, il benessere complessivo cresceva. In questo consisteva la condizione di efficienza.
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comparabilità delle soddisfazioni dei vari individui, posizioni che si ritrovano nella corrente filosofica dell'utilitarismo2. Proprio il confronto interpersonale delle soddisfazioni individuali è stato al centro di forti critiche da parte di numerosi autori. Essi hanno notato che sarebbe stato possibile effettuare questo confronto soltanto nel caso in cui tutti gli individui avessero posseduto la medesima funzione di utilità; ma questa era un'ipotesi inverosimile e per di più non verificabile. Robbins (1932) affermò che la comparabilità implicava un giudizio di valore e che nei confronti interpersonali si ottenevano risultati diversi a seconda delle premesse di valore fatte. Molti economisti cercarono di superare le incongruità teoriche presenti nelle teorie di Pigou sviluppando un filone di studi che viene indicato con il nome di “Nuova Economia del Benessere” e le cui basi originarie vanno individuate nell'opera di Vilfredo Pareto, il primo a proporre una misurazione ordinale dell’utilità. Pareto aveva in precedenza affermato che i singoli soggetti economici operanti sul mercato avrebbero volontariamente acconsentito agli scambi nella misura in cui ne avrebbero potuto trarre dei vantaggi, e che, quindi, la produzione e gli scambi si sarebbero arrestati nel momento in cui si fosse raggiunta una posizione di massimo benessere. In una tale situazione (definita punto di ottimo paretiano) non sarebbe stato, infatti, possibile migliorare la posizione di un qualsiasi soggetto senza peggiorare contemporaneamente quella di qualcun altro. In base alla teoria paretiana il benessere sociale, dunque, aumenta se aumenta l'utilità di un individuo e se al tempo stesso non si riduce quella di un altro. Si noti che la
Si tratta di una dottrina filosofica di natura etica per la quale è "bene" (o "giusto") ciò che aumenta la felicità degli esseri sensibili. Si definisce perciò utilità la misura della felicità di un essere sensibile. Tale dottrina, che ha le sue origini nel pensiero greco di Protagora ed Epicuro, trova una formulazione compiuta nel XVIII secolo ad opera (poi ripresa da Mill) di Jeremy Bentham, il quale definì l'utilità come ciò che produce vantaggio e che rende minimo il dolore e massimo il piacere.
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definizione di “ottimo” usata da Pareto non si riferisce a una specifica situazione di allocazione delle risorse tra gli individui migliore secondo un dato criterio, ma a un insieme di diversi possibili stati allocativi, ciascuno dei quali è contraddistinto da una differente distribuzione della ricchezza sociale. In questa prospettiva, quindi, il benessere è valutato esclusivamente in termini di efficienza, escludendo ogni possibile considerazione di tipo equitativo. Negli anni Trenta molti economisti ritennero di poter ricorrere al concetto di Pareto-ottimalità per valutare la performance di un sistema economico senza dover esprimere giudizi di valore e descrissero le condizioni che si sarebbero dovute verificare affinché l’economia venisse a collocarsi in un punto di ottimo paretiano che massimizzasse il benessere. Vennero così formulati i teoremi fondamentali dell’economia del benessere per esprimere la relazione tra equilibrio concorrenziale e ottimalità paretiana3. Si trattò di un periodo particolarmente fecondo per la letteratura economica e non a caso tre premi Nobel (Arrow, Samuelson e Hicks) furono tra coloro che diedero contribuiti significativi a questo filone di ricerca. Una conseguenza dell’adozione da parte degli economisti della Pareto-ottimalità quale criterio di analisi del benessere fu, però, che il tema della distribuzione del reddito perse gradualmente di importanza, in virtù del fatto che tale criterio di ottimalità tratta delle implicazioni di benessere a partire da una “data” distribuzione del reddito.
I due teoremi fondamentali dell’Economia del benessere: nel primo si asserisce che nel caso di concorrenza perfetta l’allocazione delle risorse che si ha in un mercato concorrenziale, se esiste, costituisce un “ottimo” paretiano. Il secondo teorema si basa su considerazioni di equità, che mancano nell’approccio di Pareto: sotto alcune condizioni riguardanti le funzioni di utilità individuali e le funzioni di produzione, da un’allocazione delle risorse efficiente, ma considerata non equa, è possibile passare ad un’altra qualsiasi situazione di “ottimo”, e quindi anche ad una che sia considerata equa, modificando adeguatamente quella distribuzione delle risorse e lasciando poi all'operare del mercato concorrenziale il compito di attivare i meccanismi attraverso i quali può essere raggiunta l'efficienza. 3
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- Benessere, sviluppo e crescita: aspetti introduttivi -
Per ovviare a tale criticismo alcuni autori, in particolare Kaldor (1939) e Hicks (1939), cercarono di introdurre nella teoria economica l'aspetto della distribuzione del reddito tramite il cosiddetto principio dell’indennizzo, in base al quale un aumento del reddito complessivo di una società migliora sempre il benessere dell'intera società qualora gli individui che ne siano avvantaggiati indennizzino quelli svantaggiati pur conservando, i primi, un vantaggio netto. Tuttavia anche questo approccio fu criticato per la possibilità di situazioni paradossali in cui i soggetti danneggiati dalla redistribuzione del reddito sono portati a compensare i soggetti che di quella redistribuzione si avvantaggiano onde convincerli a tornare all'allocazione originaria4. Un altro punto di debolezza della concezione utilitarista (sia nella versione di Pigout che in quella di Pareto) consisteva nell’attribuire alle preferenze dei singoli individui un’autorità assoluta: in un’ottica sociale è evidente che esistono delle cose che hanno valore anche se nessuno esprime delle preferenze per esse, mentre, al contrario, esistono delle cose dannose per la società in quanto tale, ma preferite da qualche singolo individuo (e quindi inserite nel concetto di benessere sociale nella visione utilitarista). Ne consegue che anche l’uso dell’operatore somma, quale metodo di aggregazione delle utilità individuali per stabilire il valore da assegnare al benessere sociale risulta inappropriato. Bergson (1938) introdusse il concetto analitico di Funzione di benessere sociale, espressa in forma ordinale al fine di specificare le preferenze della società; concetto che in seguito venne ripreso da Samuelson (1947) che approfondì le implicazioni e applicazioni di tale funzione. La forma funzionale proposta da Bergson e Samuelson è molto generale, e l’additiva ne costituisce solo
Cosiddetto Paradosso di Scitovski, dal nome dell’economista che lo descrisse nel suo lavoro del 1941, “A Note on Welfare Propositions in Economics”.
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uno dei possibili casi (si ricordano, ad esempio, la forma moltiplicativa o la cosiddetta Maxmin5, cioè la massimizzazione del benessere dei soggetti che si trovano nella situazione peggiore); la funzione di benessere sociale aggrega le utilità delle singole persone basandosi su quello che viene definito individualismo etico (ciò che conta è il benessere degli individui; ogni individuo, libero nei giudizi su se stesso e sugli stati del mondo in relazione a se stesso, è il miglior giudice del proprio benessere). Per superare i limiti derivanti dall’impossibilità di effettuare confronti intertemporali si pensò di chiamare i singoli individui a esprimere le loro preferenze nei confronti delle possibili alternative nell’ordinamento sociale6. Una
funzione
del
benessere
sociale
di
questo
tipo
è
definita
“individualistica” perché riflette le preferenze che ogni individuo di una società esprime nell’ordinare ogni coppia di situazioni che gli si può presentare, subordinatamente al fatto che le preferenze individuali non siano in conflitto tra di loro. Anche questa concezione di benessere collettivo venne, però, duramente criticata. Arrow, nel suo celebre lavoro Scelte sociali e valori individuali del 1951 arrivò a dimostrare che, date alcune ipotesi ragionevoli, è impossibile determinare una funzione di benessere sociale che preservi le scelte sociali7. La sua opera è convenzionalmente considerata l’origine di nuova
Rawls J. (1971). A Teory of Justice. Harward University Press. In quest’ottica ogni individuo nella scelta tra possibili alternative deve tener conto non solo della quantità e della qualità dei beni e dei servizi che può ottenere nelle varie alternative, ma anche del modo in cui essi possono essere ottenuti e venire distribuiti, nonché di tutte le altre caratteristiche che possono contribuire a contraddistinguere una situazione sociale da un'altra. 7 Cosiddetto “Teorema dell’impossibilità di Arrow”. Esso dice che, dati i requisiti di universalità, non imposizione, non dittatorialità, monotonicità, indipendenza dalle alternative irrivelenti, non è possibile determinare un sistema di votazione che preservi le scelte sociali. Lo scopo era trovare una qualsiasi procedura di decisione collettiva che potesse soddisfare alcuni requisiti ragionevoli per una scelta non dittatoriale. 5 6
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branca dell’economia del benessere, di natura fortemente astratta, nota con il nome di teoria delle scelte sociali8. Stante l’impossibilità dimostrata da Arrow, si sviluppò un particolare filone di studi che, rifiutando l’individualismo etico, esaminò il benessere sociale in termini di democrazia secondo un approccio multidisciplinare che mescolava la trattazione più strettamente economica con varie impostazioni sociologiche e politiche. Le difficoltà delineate nel passaggio da ordinamenti di preferenza individuali a scelte sociali coerenti condussero alcuni autori, tra i quali Tinbergen, a sostituire le preferenze individuali con le preferenze dei responsabili della politica economica relativamente all’intera collettività. Nell’opera di Tinbergen si assiste a un ampliamento del concetto stesso di benessere, in precedenza inteso principalmente come soddisfazione di tipo “materiale”: egli, infatti, distinse le componenti del benessere sociale in due generiche categorie: (I) le componenti di un individuo considerato in quanto tale e (II) le componenti dell’individuo come parte di una società. Alla prima categoria appartengono gli elementi che determinano il benessere materiale e spirituale dell’individuo, come, ad esempio, le quantità di beni disponibili, le possibilità d’istruzione, il diritto di partecipare alle decisioni. Alla seconda appartengono, invece, gli elementi che determinano le relazioni fra gli individui, come il grado di libertà personale, il grado di giustizia, il clima sociale e la pace, sia interna che internazionale. La Teoria delle Scelte Sociali studia le proprietà e l’efficienza dei diversi strumenti normativi (ad es. i criteri di voto) con cui è possibile trasformare, grazie alla definizione di un opportuno criterio di scelta “collettivo”, un sistema di preferenze individuali, distinte e potenzialmente antagoniste, in un nuovo e coerente ordinamento di preferenze avente natura “sociale”. Posteriormente all'opera di Arrow furono sviluppate numerose linee distinte di ricerca volte a superare l’impossibilità di aggregazione da lui dimostrata, ma, a meno di cambiare l'impostazione di base, tutti gli studiosi finirono per arrivare a risultati di impossibilità. Prendendo spunto da Arrow, Sen (1970), ad esempio, dimostrò che, in uno stato che voglia far rispettare contemporaneamente efficienza paretiana e libertà possono crearsi delle situazioni in cui al più un individuo ha garanzia dei suoi diritti. Egli dimostrò dunque matematicamente l’impossibilità del liberismo di Vilfredo Pareto, basato appunto sul concetto di efficienza. 8
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Tinbergen si dovette però scontrare con l’oggettiva difficoltà di esprimere in termini quantitativi gran parte degli elementi da includere nella funzione del benessere sociale (definita a partire dalle preferenze dei responsabili della politica economica), tanto che egli arrivò a ritenere non possibile la costruzione pratica di tale funzione. Queste difficoltà, ancora oggi non pienamente superate, hanno alimentato un’intensa ricerca nell’ambito dell’Economia del Benessere volta a individuare adeguati indicatori normativi del benessere sociale, indicatori alcuni dei quali verranno analizzati nel dettaglio nei prossimi capitoli.
1.1.2. Nuove concezioni di benessere e l’approccio di Amartya Sen I tre principali filoni di analisi descritti in precedenza (l’approccio di tipo pigouviano e la sua evoluzione tramite la funzione di benessere sociale; l’approccio di Pareto e il suo sviluppo tramite il principio dell’indennizzo; l’approccio normativo) hanno lasciato irrisolti una serie di problemi che hanno dato vita a nuove teorie circa il concetto di benessere sociale. Un primo ordine di criticità era legato alla soluzione del problema della distribuzione del reddito, con l’individuazione di un criterio di valutazione del benessere che si basasse simultaneamente su considerazioni sia di efficienza che di equità distributiva. Data la scarsità di conoscenze empiriche riguardo le molteplici componenti del benessere, alcuni autori ritennero che non fosse possibile tener conto dell'aspetto distributivo nel valutare un sistema economico; per cui l'aspetto dell'efficienza produttiva sarebbe stato l'unico criterio con il quale giudicare la desiderabilità di un determinato assetto sociale. Al contrario, altri studiosi
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ritennero che l’aspetto dell’equità distributiva dovesse avere un’importanza maggiore rispetto a quello dell’efficienza produttiva. Nozick e Rawls, in particolare, focalizzarono la loro analisi sul concetto di democrazia definendo il benessere in termini di uguaglianza. Le loro conclusioni, però, furono diametralmente opposte in virtù della diversa concezione di uguaglianza sottesa alle loro teorie. Rawls auspicava, infatti, una condizione di egualità nella quantità di beni primari sociali posseduti dagli individui, mentre per Nozick era fondamentale l’uguaglianza in termini di diritto alla libertà. Secondo l’approcio di Rawls (1974) la disuguaglianza economica e sociale è permessa soltanto se l’eventuale beneficio, maggiore della disuguaglianza, va al soggetto più svantaggiato e al tempo stesso la disuguaglianza permette a ognuno le stesse occasioni e opportunità. Risulta, quindi, possibile confrontare il benessere dei soggetti valutando la composizione dei rispettivi panieri di beni primari sociali9. Se questo confronto indica uno svantaggio relativo si giustifica una “reintegrazione” a favore degli individui svantaggiati. Robert Nozick sostenne, invece, in Anarchia, stato e utopia (1974), che l'unica eguaglianza ammissibile, dal punto di vista morale, è l'eguaglianza dei diritti individuali. Secondo la sua visione poiché ogni individuo “appartiene a se stesso”, nessuno, tanto meno lo Stato, può legittimamente controllare i comportamenti dei singoli soggetti. Lo Stato non può porsi alcun fine collettivo, e deve limitarsi a proteggere i diritti individuali (cosiddetto Stato minimo). Il benessere, in questo caso, si sostanzia in una giustizia
I beni primari individuati dal Rawls (1982) rientrano nelle cinque categorie seguenti: a) le libertà fondamentali, (ad es. la libertà di pensiero e di coscienza; la libertà di associazione; le libertà politiche, ecc); b) la libertà di scelta di un'occupazione; c) responsabilità e potere; d) il reddito e la salute; e) le basi sociali del rispetto di sé. 9
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distributiva, finalizzata a garantire i diritti delle persone e non a soddisfare le loro preferenze. Oltre che per l’aspetto equitativo le teorie del benessere “tradizionali” furono criticate per la loro inadeguatezza a spiegare le relazioni tra la crescita economica e lo sviluppo sociale in senso lato. In realtà questo problema, già avvertito dalla teoria dello sviluppo economico in relazione ai Paesi più arretrati, ha recentemente interessato gli studiosi con riferimento ai Paesi industrializzati. In questi paesi l’aggravarsi dei problemi socioeconomici, spesso anche in presenza di crescita economica sostenuta hanno portato all’affermarsi di teorie che puntano lo sguardo sullo sviluppo sociale di una collettività piuttosto che sulla mera crescita in termini economici. Come si vedrà più avanti, proprio questi problemi sono alla base delle critiche rivolte al Prodotto Interno Lordo quale corretto indicatore di benessere di un Paese. Negli ultimi decenni l’autore che maggiormente ha contribuito a una riformulazione della scelta sociale che fosse in grado di superare i limiti della funzione di benessere classica è stato sicuramente l’indiano Amartya Sen, anche lui vincitore del Premio Nobel per l’Economia. In un primo momento anche Sen elaborò un concetto di benessere riferito a un gruppo di individui, secondo un impostazione di tipo normativo, introducendo il concetto di “titolo valido”. L’idea alla base di tale formulazione era che la capacità dei diversi gruppi sociali di disporre di beni e servizi è connessa alla natura giuridica, economica, sociale e culturale di una società. E il titolo valido di un individuo rappresenta il paniere di beni e servizi sui quali ha diritto (che può, cioè, “comandare”) secondo le modalità possibili in base al contesto in cui vive. In un sistema basato sulla proprietà privata e sugli scambi di mercato, l’insieme dei titoli validi dipende dalle dotazioni iniziali del soggetto e dalla
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relazione tra queste e l’insieme dei panieri che egli può ricevere scambiando sul mercato. Seguendo questa impostazione, egli sostenne, ad esempio, che alcune gravissime carestie verificatesi nella regione indiana (Bengala 1943 e Bangladesh 1974) furono provocate non tanto dalla riduzione delle quantità prodotte di cibo, quanto da un improvviso e rapido peggioramento delle opportunità di scambio di alcuni strati della popolazione10. Questo esempio è significativo del fatto che il giudizio sul benessere di un individuo richiede che si specifichino le sue “capacità”, cioè le funzioni che egli riesce a esercitare su di un certo paniere di beni e non il semplice possesso del “titolo valido”. In altre parole un soggetto potrebbe avere i titoli validi ma non la capacità effettiva di utilizzarli. Se si considera un individuo come soggetto dotato di un insieme di funzioni di utilizzazione (ciascuna delle quali specifica gli utilizzi relativi ai beni posseduti, possibili per il soggetto in questione), il benessere del soggetto può allora essere interpretato come la “valutazione della funzione di utilizzazione adottata dal soggetto in corrispondenza di un dato insieme di beni”. Per formulare giudizi di benessere sociale non è sufficiente conoscere le quantità totali di risorse disponibili per una collettività: il livello di benessere associato a quelle quantità, infatti, non è indipendente dalla distribuzione delle quantità tra i suoi componenti, in quanto questa influenza la capacità e la libertà di utilizzazione degli individui. Su queste basi i responsabili della politica economica dovrebbero poter utilizzare indicatori normativi quali, ad esempio, misure della povertà, della disuguaglianza, del reddito nazionale, e di tutti quegli aspetti considerati rilevanti in termini normativi.
Sen, A. (1981). Poverty and Famines: An Essay on Entitlement and Deprivation. Clarendon Press, Oxford.
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Nella definizione di benessere come capacità di scelta uno degli elementi fondamentali è costituito dalla considerazione dello svantaggio iniziale, per cui gli indicatori normativi, per costituire un valido supporto informativo ai responsabili della politica economica, dovrebbero essere in grado di tener conto delle posizioni di svantaggio degli individui sfavoriti. Tuttavia lo stesso Sen, nell’individuare un indicatore delle capacità di utilizzazione con il quale definire la “qualità della vita” di una collettività, riscontrò l’esistenza di un rilevante problema teorico. Se il benessere è definito come capacità di scelta, vi è la possibilità che le scelte liberamente effettuate dagli individui conducano a situazioni inique. Questo avviene, ad esempio, in tutti quei casi dove la scelta è la partecipazione a una qualche forma di “lotteria”; in una tale situazione si potrebbe dare all'individuo la libertà di scegliere una situazione che potrebbe portare a dei risultati negativi (per l'individuo stesso), cioè a diminuire il proprio campo di scelta e quindi, in definitiva, il proprio benessere. Se l'individuo, infatti, effettua una scelta che gli causa perdite la sua capacità di scelta, ex-post, è di fatto diminuita. Ma se si impedisce all'individuo di effettuare tale scelta, il suo benessere, espresso appunto in termini di capacità di scelta, diminuisce exante. Ne segue, che la razionalità di in processo di decisione sociale è una nozione insufficiente ad affrontare i problemi relativi al benessere sociale, che possono essere risolti solo all'interno di una teoria della giustizia (Carlucci). Partendo da queste considerazioni, negli anni Ottanta e Novanta, Amartya Sen sviluppò un nuovo approccio alla concezione di benessere (inteso nell’accezione inglese di well-being anziché di welfare tipica dell’utilitarismo), da un lato estendendo la sua nozione di “capacità di scelta”, dall’altro scostandosi marcatamente da essa. La distanza dal suo vecchio approccio risiede essenzialmente nel fatto che egli considera e definisce il benessere
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non più per una collettività di persone, ma per un individuo. L’estensione concerne due nuovi concetti introdotti da Sen, quelli di capabilities (capacitazioni) e di functioning (funzionamenti). I funzionamenti riguardano le esperienze effettive che l’individuo ha deciso liberamente di vivere, gli stati di fare o di essere (doing e being nel linguaggio seniano), che una persona può desiderare e che per lui creano valore (dai funzionamenti più elementari: essere nutrito a sufficienza, non soffrire di malattie evitabili; ai più complessi: essere in grado di partecipare alla vita della comunità, aver rispetto di sé, ecc.); le capacitazioni sono, invece, le alternative di scelta, ossia l’insieme dei funzionamenti che un individuo può raggiungere. In termini formali un gruppo di n funzionamenti può essere rappresentato da un’ennupla di variabili, ciascuna indicata con Fi , i=1,2,…,n. I funzionamenti rispecchiano situazioni obiettive, che si riferiscono agli stati di fare o di essere desiderabili dall’individuo; ma soltanto k ≤ n di questi n funzionamenti sono sia a lui disponibili sia da lui sceglibili. Questo insieme di k funzionamenti rappresenta la sua capacitazione. Considerando, ad esempio, uno spazio delle aspirazioni bidimensionale, formato, da soli due funzionamenti: − avere una buona istruzione = F1 − essere nutrito in modo adeguato = F2 , i sottoinsiemi differenti e possibili sono quattro: 1) sia F che F sono presenti, 1
2
2) F è assente ma F è presente, 1
2
3) F è assente ma F è presente, 2
1
4) sia F che F sono assenti. 1
2
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Se un individuo è in grado di godere sia di F che di F , la sua capacitazione 1
2
è formata dalla coppia (F , F ) e k=2; se viceversa può godere o del solo F o 1
2
1
del solo F , la sua capacitazione è formata da un solo funzionamento (F 2
1
oppure F , rispettivamente) e k=1. Nell’ultimo caso k=0. Utilizzando una 2
notazione booleana, dove 0 indica l’assenza e 1 indica la presenza di un determinato
funzionamento,
la
situazione
precedente
può
essere
rappresentata tramite un diagramma cartesiano in cui gli assi corrispondono ai funzionamenti F e F . In questo modo vengono a crearsi i quattro punti 1
2
(0,0), (0,1), (1,0) e (1,1), corrispondenti alle quattro differenti capacitazioni. Un individuo con capacitazione (1,1) può liberamente scegliere di avere una buona istruzione (F ) oppure di nutrirsi adeguatamente (F ), oppure di 1
2
godere di entrambi i funzionamenti. Può, inoltre, decidere di rinunciare a F
1
e F , ma in questo caso la sua situazione è comunque differente rispetto a 2
quella di un soggetto che rinuncia a nutrirsi e a istruirsi perché impossibilitato nella scelta di altre soluzioni, come nel caso del punto (0,0). Lo schema seguente, mostra in maniera molto semplificata il processo di benessere così come si viene a delineare nell’approccio di Sen:
Fig. 1 - Processo seniano di determinazione del benessere.
Limitare l’attenzione al primo dei blocchi del diagramma, lo spazio dei redditi e dei beni disponibili, equivale a interpretare il benessere secondo
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- Benessere, sviluppo e crescita: aspetti introduttivi -
una concezione di tipo tradizionale. L’impostazione di Sen, però, pone in discussione due assunti tipici della tradizione utilitarista, cioè l’esistenza di una relazione, diretta e determinata, tra quantità di beni posseduta e utilità totale conseguibile e la sostanziale identità concettuale tra la nozione di utilità e l’idea di benessere. Ciò che un individuo può ricavare dai beni dipende da una pluralità di fattori e di condizioni individuali e ambientali (in senso lato) e dunque giudicare il beneficio personale soltanto in base alla quantità di denaro, di beni o di risorse a disposizione può risultare del tutto fuorviante. A parità di reddito, risorse o beni a disposizione, si possono ottenere livelli diversi di benessere a seconda delle capacità di conversione di cui si dispone e che consentono di trasformare questo insieme di risorse in realizzazioni potenziali (l’insieme delle capacità indicate nel blocco intermedio della figura 1) o di funzionamenti effettivamente realizzati (il terzo blocco a destra nella figura 1). Fattori di conversione e scelte diventano pertanto due elementi importanti all’interno di questo approccio. I fattori di conversione dipendono dalle caratteristiche personali degli individui, quali l’età, il sesso, l’istruzione, le condizioni fisiche e psichiche, le abilità e i talenti, oltre che dall’ambiente famigliare, sociale, economico, naturale, culturale, politico-istituzionale circostante. Le scelte entrano in gioco nel passaggio dalle spazio delle capacità a quello delle effettive realizzazioni: scegliere di compiere una determinata azione avendo una pluralità di alternative a disposizione ha un valore intrinseco per il benessere dell’individuo che occorre riconoscere e valutare, rispetto a una condizione opposta in cui la stessa realizzazione acquisita è l’unica opzione disponibile.
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- Benessere, sviluppo e crescita: aspetti introduttivi -
Per Sen, quindi, il benessere degli individui, nella duplice accezione di qualità di vita e well-being11, può essere sempre espresso in termini di capacitazioni. Se il well-being è definito in termini di capacitazioni, la sua valutazione corrisponde alla valutazione dell’insieme dei funzionamenti che costituiscono tali capacitazioni. Di conseguenza, per misurare il benessere attraverso l’approccio proposto da Sen, due problemi devono essere risolti in maniera soggettiva: − la
scelta
dei
funzionamenti
necessari
alla
definizione
della
capacitazione che viene ritenuta equivalente al well-being oppure alla qualità della vita; − la determinazione dei loro valori relativi, cioè dei pesi da attribuire ai singoli funzionamenti, in quanto non tutti ugualmente rilevanti. Data la soggettività di questa duplice scelta è teoricamente possibile costruire infiniti indici di benessere alternativi tra loro; in effetti, partendo dalle idee di Amartya Sen, numerosi autori hanno sviluppato misure di well-being da utilizzare nella teoria economica e tra queste senza dubbio la più celebre è lo Human Development Index (HDI) calcolato annualmente dall’ONU (si veda § 3.3.1). Negli ultimi anni la teoria di Sen è stata rivista e sviluppata dall’opera di Martha Nussbaum, che ha introdotto alcune modifiche sostanziali alla relazione tra funzionamenti e capacitazioni. Quest’ultime non sono più costituite da insiemi di funzionamenti che si ha la capacità di ottenere: ogni funzionamento che può essere ottenuto è esso stesso una capacitazione, cosicché la caratterizzazione del well-being è fatta per mezzo di un insieme
Sen effettua una distinzione tra i concetti di well-being e qualità della vita (o standard di vita): se i funzionamenti riguardano soltanto la vita di un individuo, l’associata capacitazione può essere considerata equivalente al suo standard di vita. Al contrario, se i funzionamenti sono più generali, ad esempio concernenti la vita anche di altre persone, la capacitazione associata può essere considerata equivalente al suo well-being. In questo senso il concetto di well-being include quello di standard di vita.
11
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- Benessere, sviluppo e crescita: aspetti introduttivi -
di k capacitazioni ognuna delle quali è un funzionamento disponibile e ottenibile. Inoltre, è stata superata la posizione che identificava il well-being o la qualità della vita in termini esclusivamente individuali, introducendo il ruolo dello Stato nel mettere a disposizione dei propri cittadini le capacitazioni di cui necessitano. In questa analisi delle principali teorie del benessere occorre, infine, accennare all’emergere di una nuova corrente di pensiero, che identifica il concetto di benessere con quello di felicità percepita, e che ha dato vita a un filone di studi che prende il nome di “Economia della Felicità”. Dal punto di vista economico, uno degli ambiti di ricerca più rilevanti e interessanti di queste teorie è il rapporto tra felicità e reddito. Gli studi evidenziano una relazione molto più complessa di quella generalmente definita nelle funzioni di utilità dei modelli standard. Dimostrano, infatti, che sulla mera correlazione positiva via via decrescente tra reddito e benessere, solitamente postulata dagli economisti, si innestano almeno altre due componenti, una di carattere psicologico e l'altra di carattere sociologico. Secondo la prima, esiste una rincorsa tra aspirazioni e realizzazioni: una volta raggiunta una meta in termini di reddito, gli individui innalzano progressivamente l'obiettivo dei loro traguardi successivi, riducendo il grado di soddisfazione per quanto già raggiunto. Per la seconda, nel rapporto tra reddito personale e felicità è fondamentale il confronto con il livello di reddito del gruppo di riferimento, l'insieme di persone con il quale l'individuo si rapporta solitamente. Dunque, il reddito relativo ha effetti molto superiori a quelli del reddito assoluto. In particolare, redditi al di sopra (al di sotto) della mediana tendono a determinare effetti positivi (negativi) sulla felicità individuale. Tuttavia anche lo stesso Sen, a cui molte di queste teorie fanno esplicito riferimento, mette in guardia dall’utilizzo di approcci di carattere
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“psicologico” sostenendo che il sentirsi soggettivamente felice è meno importante della “felicità oggettiva”, misurata attraverso indicatori della qualità della vita più concreti (salute, educazione, libertà, diritti, etc.). La critica di Amartya Sen all’approccio della felicità è fondata sull’ipotesi dello “schiavo felice”, secondo cui possono esistere individui talmente soggiogati dalla privazione dei diritti più elementari da non essere neanche in grado di concepire condizioni di vita migliori, dunque, “felici della loro condizione di assenza di diritti”12.
1.1.3. Possibili estensioni del concetto di benessere Da quanto finora descritto appare chiaro come sia difficile giungere a una definizione condivisa e univoca del concetto di benessere, che è stato accostato di volta in volta a quelli di utilità, capacità di scelta, libertà, uguaglianza, felicità , disponibilità di beni primari, ecc.. L’analisi dell’evoluzione degli aspetti concettuali e definitori del benessere ha evidenziato come i punti di disaccordo tra gli economisti siano, in realtà, numerosi ed eterogenei. Essi hanno riguardato, solo per fare alcuni esempi, gli elementi stessi da includere nel concetto di benessere, la possibilità di quantificare il valore di alcuni di questi elementi, i criteri di aggregazione delle preferenze individuali e la necessità di considerare aspetti quali l’equità distributiva o i cosiddetti fattori di conversione. Il dibattito che si è sviluppato intorno a questi temi potrebbe apparire, in prima analisi, come mera speculazione teorica. Tuttavia esso assume rilevanza quando si cerca di costruire un sistema di misurazione empirico
12
Sen, A. (1993). Capability and Well-being, in The Quality of Life (edited by Nussbaum, M. and Sen, A.), pp. 31-53. Clarendon Press. Oxford.
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del benessere che possa essere utilizzato nella teoria economica o nella valutazione delle scelte politiche. L’individuazione degli elementi da considerare in una tale misurazione dipende, infatti, dalla definizione di benessere che si intende adottare. La figura seguente, elaborata dalla Deutsche Bank Research, illustra le componenti principali da includere in una possibile valutazione in relazione ad alcuni possibili aggregati di benessere.
Fig. 2 – Elementi del well-being (fonte: Deutsche Bank Research).
A un primo livello, indicato con il nome di economic well-being, appartengono quegli elementi di carattere materiale a cui è possibile attribuire un valore economico, anche se non necessariamente derivante dall’esistenza di un mercato ufficiale. Accanto al consumo e agli investimenti, tipici elementi rientranti nel calcolo del Prodotto Interno Lordo, troviamo, infatti, elementi quali il tempo libero, la ricchezza posseduta e le attività non di mercato che hanno effetti positivi sul benessere, mentre disoccupazione e insicurezza reddituale hanno un effetto opposto.
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- Benessere, sviluppo e crescita: aspetti introduttivi -
Il secondo aggregato (living conditions) comprende oltre che gli elementi prettamente economici anche aspetti non materiali di well-being, come la salute, l’istruzione e la qualità dell’ambiente naturale. Questi elementi presentano maggiori difficoltà di aggregazione, ma la loro importanza dipende dal fatto che possono essere ancora controllati in qualche modo dalla politica economica e quindi la loro inclusione potrebbe risultare utile per valutare e monitorare nel complesso le politiche governative. Se si accetta, infine, la definizione di benessere che identifica questo concetto con quello di felicità occorrerà includere nella misurazione quei fattori di carattere soggettivo e psicologico (ambiente familiare e lavorativo, appartenenza a un gruppo sociale, tipologia di attività svolta, ecc.) che hanno un effetto sul grado di soddisfazione degli individui ma che non sono controllabili dalla politica economica. In definitiva si può osservare che non esiste un concetto di benessere valido in senso assoluto: l’adozione di una determinata definizione di benessere e la costruzione di indici quantitativi coerenti con l’approccio scelto dovrebbe dipendere dall’obiettivo di analisi che si intende raggiungere. Nei prossimi capitoli si illustreranno le ragioni per cui il Prodotto Interno Lordo, l’indice normalmente usato per misurare il benessere di una nazione, non sia in realtà adatto a tale scopo, a prescindere dalla concezione di benessere che si intende adottare. Il Pil presenta, infatti, importanti differenze concettuali anche rispetto al livello più ristretto di benessere, definito in precedenza well-being economico.
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- Benessere, sviluppo e crescita: aspetti introduttivi -
1.2. Crescita e sviluppo
Un miglioramento nel livello di benessere di una società viene comunemente descritto con i termini “crescita” o “sviluppo”. Tuttavia, da quanto finora detto, appare chiaro come queste due nozioni non siano, in realtà, necessariamente le stesse. Herman Daly mette in evidenza questa differenza, nel suo libro “Beyond Growth: The Economics of Sustainable Development”: “To grow means to increase naturally in size through the addition of material through assimilation or accreditation. To develop means to expand or realise the potentialities of bringing gradually to a fuller, greater or better state. In short, growth is the quantitative increase in physical scale while development is qualitative improvement or the unfolding of potentiality. An economy can grow without developing, or develop without growing, or do both, or neither”. In altre parole la crescita fa riferimento a un concetto “ristretto” di benessere inteso esclusivamente come quantità di beni e servizi disponibili, mentre lo sviluppo comprende anche elementi di qualità della vita di natura sociale, culturale e politica.
1.2.1. Dalla crescita alla sostenibilità La crescita continua dei livelli reddituali è un fenomeno relativamente recente nella storia dell’umanità. Si stima, infatti, che dalla fine dell’Impero
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Romano sino al 1500 l’aumento del reddito pro capite in Europa fu pressoché nullo e molto contenuto anche fino alla fine del 1800; solo nell’ultimo secolo i tassi di crescita sono aumentati in maniera esponenziale. La crescita economica dipende da molteplici fattori e da cause complesse che costituiscono una delle materie di studio fondamentali per le scienze economiche.
Le teorie e le politiche della crescita che oggi sono maggiormente utilizzate fanno riferimento a due principali tipi di fattori: fattori strettamente economici, fattori extra-economici e istituzionali. Nella seconda categoria rientrano quegli elementi che pur non essendo cause immediate della crescita economica riescono ugualmente a influenzarla in maniera indiretta. Il sistema politico e giuridico, l’influenza delle istituzioni che regolano i diritti di proprietà, il grado di integrazione dei mercati e la distribuzione del reddito sono esempi di questi fattori che hanno un ruolo importante nelle dinamiche di crescita di un’economia. Le teorie della crescita economica in senso stretto che sono attualmente prevalenti sono state avviate, invece, negli anni quaranta e cinquanta, anche se numerose idee in merito erano già presenti nell’opera degli economisti classici della rivoluzione industriale. Smith, Ricardo, Malthus e Marx, infatti, si già erano interessati all’argomento fornendo spunti di analisi che hanno poi ispirato la successiva teoria della crescita. Ricardo sostenne ad esempio che la crescita non potesse prolungarsi indefinitamente nel tempo a causa della limitatezza delle risorse naturali. Il vincolo di risorse (la terra), unitamente alla produttività marginale decrescente del lavoro avrebbero ridotto progressivamente l’accumulazione di capitale fino ad annullarla completamente. Una conclusione molto simile
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a quella cui, molti anni dopo, è pervenuta la teoria neoclassica, attraverso il modello Ramsey-Solow. Marx, invece, introdusse il ruolo del progresso tecnologico. Questo favorendo l’innovazione di tipo capital intensive, avrebbe comportato un aumento della composizione organica del capitale13, e di conseguenza una riduzione del saggio di profitto pari al tasso di crescita: in questo modo tutte le economie avrebbero conseguito nel lungo periodo un livello di accumulazione (ed un livello di crescita) pari a zero. Tra i modelli di crescita neoclassici un ruolo centrale spetta ai lavori di Solow (1957) e di Swan (1956). La caratteristica essenziale di questi modelli è l’inclusione, tra le variabili esplicative, dei risparmi, del tasso di crescita della popolazione e dei cambiamenti tecnologici. I contributi a questo filone di studi sono stati numerosi e una trattazione completa risulterebbe impegnativa e non necessaria ai fini del presente lavoro; è tuttavia interessante notare come l’evoluzione dei modelli di crescita abbia posto al centro del dibattito il tema della sostenibilità e come in coerenza con questo si siano sviluppate le prime ricerche volte a individuare misure della qualità della vita alternative al Prodotto Interno Lordo. Secondo il modello di Solow il livello di reddito di equilibrio, nel lungo periodo, è determinato dalla produttività del capitale investito in mezzi di produzione, dal livello di consumo scelto dalla collettività, dal tasso di crescita della popolazione e dal tasso di obsolescenza del capitale stesso. Il modello di Ramsey-Cass-Koopmans, un’evoluzione dello schema proposto da Solow che rimarrà il riferimento standard della teoria sino agli anni ’80,
13
Marx indica in questo modo l’intensità di capitale, cioè il rapporto tra i mezzi di produzione (capitale costante) e il capitale totale.
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descrive con maggiore precisione le scelte degli individui, anche se al centro dell’analisi rimane sempre l’accumulazione di capitale. Questi modelli hanno molto da insegnare sulla sostenibilità futura di particolari scelte di consumo nel presente. Essi sono in grado ad esempio di spiegare come la massimizzazione del benessere nel breve periodo sia un impedimento al raggiungimento del massimo livello di ricchezza in archi temporali più lunghi. Consumi troppo elevati rendono impossibile o ritardano l’accumulazione del capitale, mentre un basso livello di consumo potrebbe essere sub-ottimale perché impone agli individui sacrifici non adeguatamente remunerati dall’accumulazione di capitale. Essi sono stati concepiti però per descrivere la crescita economica in anni e in paesi in cui essa avveniva, per la gran parte, attraverso l’accumulazione di capacità produttiva in termini di impianti, macchinari e infrastrutture, e con lo spostamento di risorse produttive da settori informali (lavoro domestico, agricoltura di sussistenza, ecc.) a settori ad alta produttività “formale”. Il miglioramento tecnologico non è spiegato, bensì assunto come esogeno e il capitale accumulato ha rendimenti decrescenti che impongono un tasso di crescita più basso di quello osservato nel presente e costante nel lungo periodo. Ciò era dovuto sia alla mancanza di un’analisi approfondita delle dinamiche di innovazione, vero propulsore della crescita nel lungo periodo, sia a una concezione che immaginava le risorse naturali come illimitate e non esauribili. Entrambe queste carenze sono state superate negli anni ottanta e novanta: le crisi energetiche, l'emergere di problemi ambientali e il rallentamento della crescita dei paesi industrializzati dopo l'esplosione del secondo dopoguerra hanno determinato un ripensamento dei vecchi paradigmi in tutte le discipline che si interessano di benessere e sostenibilità. Particolarmente significativi in questo senso sono stati i contributi di Paul Romer (1986), Robert Lucas (1988), Philippe Aghion e Peter Howitt (1992),
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che hanno rivitalizzato la teoria della crescita economica di lungo periodo ponendo al suo centro l’analisi del progresso tecnico. Grande attenzione è stata attribuita così al ruolo del capitale umano e dell’innovazione tecnologica nell’aumento della produttività e nel contrasto alla naturale tendenza alla stagnazione. Questo forte interesse per tutto ciò che è capitale umano, conoscenza, risorse intangibili prelude la grande importanza data agli indicatori di istruzione, innovazione tecnologica, spesa in ricerca e sviluppo che si ritrovano in tutti i più recenti indicatori di sviluppo umano sostenibile. Nel 1986, a riprova del fatto di come il tema della sostenibilità ambientale sia ormai centrale nella teoria economica della crescita, Solow inizia a studiare l’effetto dell’esaurimento di risorse naturali non rinnovabili sulla misura del Prodotto Nazionale Netto. Nel 1990 John Hartwick include le risorse rinnovabili e si definisce in questo modo il quadro teorico del modello di Solow-Hartwick. Viene qui enunciata una regola pratica (il criterio di Hartwick-Solow) che permette di ottenere la sostenibilità di un sistema economico nel senso di “consumo non decrescente nel tempo”: le rendite (surplus dei ricavi sui costi di produzione) generate dall’estrazione di risorse non-rinnovabili devono essere risparmiate e reinvestite in capitale artificiale (impianti, infrastrutture, capitale umano, etc.). In questo modello si accetta ancora la possibilità di sostituire capitale tecnico e conoscenza, prodotti dall’uomo, al capitale naturale con qualche costo nel breve periodo ma senza pregiudizio per la crescita di lungo periodo. Questa sostenibilità (definita sostenibilità debole) ha come assunto fondamentale la convinzione circa la possibilità di rendere intercambiabili il capitale naturale e il capitale artificiale. L'accento viene posto sulla somma di queste due quantità che deve permanere costante nel tempo; è quindi implicito che con il progredire della civiltà umana e il conseguente utilizzo delle risorse naturali, sia
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pensabile una perdita di peso percentuale del capitale naturale nel tempo a favore di quello artificiale. La sostenibilità cosiddetta “forte” rappresenta, invece, una visione della problematica meno ottimistica nei confronti dell'intervento umano e non considera intercambiabile il capitale naturale perduto con stock di capitale artificiale. In quest'ottica è il capitale naturale a dover essere costante nel tempo, senza alcuna possibilità di compensazione. Secondo l’impostazione di sostenibilità forte la crescita si deve necessariamente spostare dalle considerazioni di tipo quantitativo verso quelle di tipo qualitativo. Come si osserverà meglio nel terzo capitolo l’evoluzione degli indicatori di benessere segue un percorso analogo e parallelo a quello della teoria della crescita. Anche in questo caso, infatti, vengono inizialmente apportati aggiustamenti al Prodotto Interno Lordo per tener conto del deprezzamento del capitale fisico e umano, come nel caso del MEW (Masure of Economic Welfare) proposto da Tobin e Nordhaus (1972). Si passa successivamente ad apportare correzioni per il deprezzamento dello stock di risorse esauribili e a registrare le variazioni positive e negative della qualità ambientale, definendo ad esempio la misura del PIL verde, fino ad arrivare a misure che attribuiscono un peso maggiore alla perdita di risorse naturali secondo un’impostazione di sostenibilità forte. È questo il caso dell’ISEW e del GPI, che oltre a considerare elementi quali la distribuzione del reddito e l’indebitamento estero, attribuiscono alla perdita delle risorse naturali non rinnovabili e alla riduzione della diversità biologica un valore pari alla quantità di risparmio necessaria per compensare le generazioni future del mancato godimento dei servizi del capitale naturale.
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2. La misurazione del benessere attraverso il PIL
2.1. Cos’è il Prodotto Interno Lordo
2.1.1. Storia del PIL I primi studi per misurare la ricchezza di una nazione si devono, alla fine diciassettesimo secolo, a William Petty, il quale si occupò di misurare la forza dell’Inghilterra nel mobilitare le risorse produttive per la creazione di beni e servizi. L’obiettivo ultimo era creare una misura di paragone con altri stati esteri, in particolare Olanda e Francia. La motivazione principale era, dunque, il confronto internazionale, tema determinante anche per la nascita del futuro indicatore di Prodotto Interno Lordo e ricorrente in tutta l’evoluzione degli indicatori di qualità della vita e sviluppo sostenibile. Nel 1776, anche Adam Smith nella sua opera “An Inquiry into the Nature and Causes of the Wealth of Nations” si preoccupò di definire il proprio concetto di ricchezza di una nazione, come la quantità di beni che il lavoro produce in maniera diretta oppure che il frutto del lavoro permette di acquistare da altre nazioni:
…il lavoro annuale di ogni nazione è il fondo da cui originariamente provengono tutti i mezzi di sussistenza e di comodo che essa annualmente
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- La misurazione del benessere attraverso il PIL -
consuma, e che sempre consistono del prodotto diretto del lavoro o di ciò che con esso viene acquistato da altre nazioni.
Nella visione smithiana una nazione è tanto più ricca tanto quanto più riesce a rendere produttivo il suo lavoro. In questa prospettiva, la produzione di beni e servizi che hanno come effetto l’aumento della produttività del lavoro è certamente preferibile a quella che è, invece, destinata a opere non produttive o al mero soddisfacimento di piaceri. Smith suggerì, inoltre, che la ricchezza dovesse essere misurata in termini pro capite, un’intuizione che è rimasta valida fino ai nostri giorni. Per giungere a una definizione più completa di Prodotto Interno Lordo bisogna attendere, però, il ventesimo secolo quando, in seguito alla Grande Depressione americana e con la minaccia di una nuova guerra alle porte, si avvertì la necessità di disporre di adeguati sistemi di misurazione dell’attività economica. Anche la rivoluzione keynesiana, che si andava diffondendo in quegli anni, richiese nuove basi conoscitive per le politiche distributive e di sviluppo. I moderni studi di contabilità nazionale e le prime stime del Pil con metodi tuttora validi, nacquero negli anni Trenta con i lavori pionieristici di numerosi economisti tra i quali C.G. Clark, W. Leontief, W. C. Mitchell, R. Stone e i premi Nobel S. Kuznets e J. E. Meade14. I sistemi di misurazione del reddito nazionale si svilupparono inizialmente seguendo i principi della contabilità aziendale e, coerentemente con questi, contenevano una registrazione delle transazioni avvenute fra i diversi attori
Simon Kuznetz si occupò della raccolta e dell’organizzazione delle statistiche di reddito nazionale per gli Stati Uniti nel 1934, 1941 e 1946. Gli inglesi Stone e Meade posero le basi della contabilità nazionale del Regno Unito pubblicando durante la seconda guerra mondiale un Libro Bianco sulla stima del reddito nazionale, mentre Leontief svolse un ruolo decisivo nella raccolta dei dati mediante un impianto teorico da lui elaborato, l’analisi input-output.
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del sistema economico. Si considerava, dunque, il Paese alla stregua di una grande azienda di cui si dovesse misurare il reddito complessivo. Per la necessità di misurare il valore delle transazioni il sistema era basato unicamente su quelle transazioni (consumi e investimenti) che generavano un flusso facilmente misurabile in termini monetari. La misura del reddito così ottenuta è esattamente il concetto di PIL di un Paese ancora oggi utilizzato da tutti i sistemi di contabilità nazionali. Nel secondo dopoguerra i paesi europei che aderirono al Piano Marshall per la ricostruzione delle loro economie dovettero predisporre adeguati piani di sviluppo attraverso l’uso dei nuovi sistemi di bilancio nazionale. Inoltre venne affidato all’OCEE (Organizzazione per la Cooperazione Economica Europea) il compito di garantire l’uniformità dei criteri di predisposizione di questi piani nei vari stati nazionali. Questo diede un ulteriore impulso all’affinamento e alla diffusione internazionale del PIL e, più in generale, della moderna contabilità nazionale. In sintesi le ragioni storiche che hanno portato alla nascita di un indice per la misura della ricchezza nazionale vanno rintracciate nella duplice necessità di effettuare confronti internazionali tra le capacità produttive delle singole nazioni e di valutare l’azione delle politiche economiche intraprese. Successivamente, a partire dal secondo dopoguerra, la funzione del PIL è andata gradualmente modificandosi, assumendo il ruolo di principale indicatore di progresso economico, ampliamente utilizzato da economisti, studiosi, politici e mass media per descrivere il benessere di una nazione o di un territorio. Esso viene comunemente usato per programmare gli interventi di politica fiscale e monetaria, per disegnare strategie di crescita nei paesi sottosviluppati, ma influenza anche i piani di investimento delle società private ed è in grado di alimentare le aspettative di rendimento sui mercati azionari.
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- La misurazione del benessere attraverso il PIL -
2.1.2. Definizione e calcolo Il prodotto interno lordo (PIL) è definito come il valore di mercato complessivo delle merci prodotte all'interno di un’entità geografica, in un certo intervallo di tempo (solitamente un anno), e destinate a usi finali (consumi finali, investimenti, esportazioni nette). Il termine prodotto si riferisce all’output dell’attività economica. Fa essenzialmente riferimento alle merci, cioè all’insieme delle cose che formano oggetto di scambio sul mercato, comprendendo sia quelle materiali (beni)
sia
quelle
immateriali
(servizi).
Alle
merci
vengono
convenzionalmente assimilate, per ragioni pratiche, altre categorie come i servizi della pubblica amministrazione15. Il prodotto è definito interno perché riguarda solo le attività realizzate nel territorio di un determinato paese, indipendentemente dalla nazionalità dei fattori produttivi. In questo senso il concetto di Pil si differenzia da quello di Prodotto Nazionale Lordo (PNL), che rappresenta, invece, la produzione realizzata dai fattori produttivi di un Paese, a prescindere dal fatto che essi si trovino o meno all’interno del Paese stesso. Il prodotto è detto lordo, invece, perché il deprezzamento del capitale utilizzato nella produzione di beni e servizi non è dedotto dal valore totale del PIL16.
La pubblica amministrazione vende solo una quota minima del suo prodotto; per il resto produce servizi non destinati alla vendita ma finanziati dalla collettività in maniera indiretta (principalmente attraverso le imposte). Escludere i servizi pubblici dal conto del prodotto significherebbe escludere dal conto dei redditi le paghe dei dipendenti pubblici, che finirebbero per essere considerate trasferimenti unilaterali e non corrispettivo da lavoro. Il prezzo dei servizi pubblici è posto uguale al costo sostenuto dalla p.a. per produrli (somma delle remunerazioni dei fattori produttivi, capitale e lavoro, più consumi indiretti, più tassazione indiretta nel caso che la p.a. tassi se stessa). 16 Se al PIL si sottrae il valore degli ammortamenti si ottiene il Prodotto Interno Netto (PIN). 15
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- La misurazione del benessere attraverso il PIL -
Nel calcolo, inoltre, non viene conteggiata la produzione destinata ai consumi intermedi, che rappresentano il valore dei beni e servizi consumati e trasformati nel processo produttivo per ottenere nuovi beni e servizi. Il PIL, come ogni misurazione economica, può essere misurato in termini reali o termini nominali. Il PIL nominale misura il valore della produzione ai prezzi del periodo in cui è stata ottenuta; il PIL reale, invece, misura la produzione di un periodo ai prezzi di un qualche anno base. Dividendo il PIL nominale per il PIL reale si ottiene un indice chiamato “deflatore del PIL”. Il PIL reale, al contrario di quello nominale, può essere utilizzato per effettuare confronti temporali. La precedente definizione di PIL riguarda il lato della produzione. Tuttavia è opportuno ricordare che in un’economia chiusa i costi di produzione sono uguali alla
somma delle retribuzioni dei fattori produttivi. Pertanto in
questo caso il Pil è contabilmente uguale al Reddito Nazionale, cioè alla somma dei redditi percepiti all’interno del sistema economico in un dato periodo di tempo (salari, stipendi, profitti, rendite, interessi). Sempre in un’economia autarchica il PIL è anche uguale alla somma della spesa nazionale in un dato periodo di tempo (Spesa Finale, che costituisce l’insieme degli impieghi di reddito). Il PIL rappresenta, quindi, il punto di incontro di tre aspetti economici fondamentali: la domanda, il reddito e la produzione. Coerentemente con questo esistono tre differenti approcci teorici per misurare il valore del Prodotto Interno Lordo: − l’approccio del reddito, che misura il PIL sommando i redditi provenienti da lavoro dipendente (salari, stipendi e contributi sociali a carico dei datori di lavoro), i redditi da capitale (rendite, interessi e profitti), gli ammortamenti e le imposte indirette al netto dei sussidi pubblici;
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- La misurazione del benessere attraverso il PIL -
− l’approccio della domanda, in cui il valore del PIL è dato dalla somma dei classici elementi della domanda aggregata (consumi, investimenti, spesa pubblica) a cui si aggiungono le esportazioni nette e la variazione nelle scorte; − l’approccio del valore aggiunto, in cui la produzione totale di beni e servizi dell'economia è diminuita dei consumi intermedi e aumentata delle imposte nette sui prodotti; tale ammontare è pari alla somma dei valori aggiunti a prezzi base delle varie branche di attività economica aumentata delle imposte sui prodotti (IVA, imposte di fabbricazione, imposte sulle importazioni) e al netto dei contributi ai prodotti.
A fini esemplificativi si riporta nella tabella seguente il calcolo del Prodotto Interno Lordo italiano relativo all’anno 1996, secondo le tre differenti modalità di scomposizione:
DOMANDA
VALORE AGGIUNTO
REDDITO
Consumo
1.101.172
Agricoltura
52.514
Redditi da lavoro
808.807
Spesa Pubblica
352.019
Industria
594.619
Redditi da capitale
635.469
Investimenti
348.848
Servizi
1.147.762
Entrate statali nette
200.100
Esportazioni
491.126
Importazioni
-397.307
Variazione Scorte
6.417
Tasse sul val. agg.
107.380
Ammortamenti
257.899
PIL
1.902.275
1.902.275
1.902.275
Tabella 1: PIL italiano nel 1996 secondo i tre differenti approcci (Fonte: Piana ,2001)
Come si evince dalla tabella, utilizzando ciascuna delle tre tipologie di calcolo si perviene al medesimo risultato finale. La scelta del criterio di
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scomposizione è quindi indifferente dal punto di teorico e dipende principalmente
dalle
finalità
di
analisi
che
si
vogliono
condurre
sull’aggregato economico del Prodotto Interno Lordo. L’Istat ad esempio utilizza la metodologia del valore aggiunto per il calcolo del Prodotto Interno Lordo italiano. Occorre inoltre ricordare che la contabilità nazionale italiana, al pari di quella degli altri paesi dell’Unione Europea, segue gli schemi e le definizioni dell’ultima edizione del Sistema europeo dei conti (Sec95) che impongono tra l’altro di contabilizzare nel PIL anche l’economia non direttamente osservata17.
2.2. Vantaggi del Pil Come visto, il Pil nasce per misurare il valore della produzione destinata al consumo finale, ma assume in breve tempo una funzione diversa rispetto a quella per cui era stato concepito. Lo stesso Kuznets critica però questa estensione sottolineando la distinzione tra benessere e crescita della ricchezza. Nel 1962 scrive infatti:
17
Sulla base delle definizioni internazionali (contenute nel Sec95 (Eurostat 1995) e nell’Handbook for Measurement of the Non-observed Economy dell’Ocse) l’economia non osservata comprende il sommerso, le attività illegali, la produzione del settore informale e le inadeguatezze del sistema statistico. Teoricamente tutte le componenti andrebbero incluse nel calcolo del Pil Allo stato attuale, però, la contabilità nazionale italiana, al pari di quella degli altri partners europei, esclude l’economia illegale per l’eccessiva difficoltà a calcolare tale aggregato e per la conseguente incertezza della stima, e attribuisce solo una stima del settore sommerso, che negli ultimi anni si è attestata intorno al 17-18% del PIL stesso.
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“Distinctions must be kept in mind between quantity and quality of growth, between its costs and return, and between the short and the long run. Goals for more' growth should specify more growth of what and for what”. E già prima, nel 1934 affermava che il benessere di una nazione può essere scarsamente influenzato dalla misura del reddito nazionale così come calcolato. Resta da chiedersi, dunque, il perché del successo di questo indice proprio come indicatore di benessere, non solo tra i non addetti ai lavori, ma anche e soprattutto tra gli economisti, che pur riconoscendone i limiti, continuano a utilizzarlo ampliamente nelle analisi teoriche ed empiriche. Innanzitutto a favore del PIL giocano la sua relativa semplicità di calcolo e la sua grande capacità di aggregazione. Inoltre bisogna considerare anche la presenza di collaudati sistemi di contabilità nazionale sottostanti alla costruzione di questo indice, sistemi che sono stati appositamente costruiti e perfezionati nel corso del tempo e la cui mole di informazioni è difficilmente sostituibile nel breve periodo. Ma l’aspetto che forse più di tutti ha contribuito al successo del Prodotto Interno Lordo è la sua forte correlazione con quelli che si possono definire segnalatori primari di benessere. Ci si riferisce, ad esempio, al livello di istruzione, alla disponibilità di cure mediche, alla presenza di infrastrutture e alla durata della vita media. La tabella seguente, relativa a 14 paesi, ad esempio, evidenzia una forte relazione positiva tra il livello di reddito pro capite e l’aspettativa di vita alla nascita e una forte reazione negativa del PIL procapite con il tasso di mortalità e il tasso di analfabetismo.
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Tab. 2 – Pil procapite e principali indicatori sociali per 14 Paesi.
Queste semplici osservazioni spiegano, quindi, che il PIL nella sua semplicità riesce a fornire una buona indicazione del benessere generale di una nazione, specie nel confronto internazionale. Tuttavia un’analisi più dettagliata evidenzia come queste relazioni con i principali segnalatori sociali non siano sempre di tipo lineare. A titolo esemplificativo è possibile osservare la figura 3 che mette in relazione il PIL procapite e l’aspettativa di vita alla nascita in 42 paesi. 90 sp era 80 nz a 70 di vit 60 a all 50 a na 40 sci ta 30 (an ni) 20 10 0 0
10000
20000
30000
40000
50000
PIL procapite in $ (PPP)
Fig. 3 – Rapporto tra PIL procapite e speranza di vita alla nascita per 42 paesi (Dati: CIA)
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È facile in questo caso notare che la relazione è molto forte per livelli di reddito molto bassi, dove variazioni anche contenute del reddito procapite riescono a produrre grandi miglioramenti nella qualità di vita della popolazione; al contrario in quei paesi che già dispongono di redditi sufficientemente alti un aumento della ricchezza economica ha effetti molto ridotti sulle aspettative di vita. Questo implica che il PIL fornisce informazioni sempre meno accurate sul benessere di una collettività man mano che il livello di reddito aumenta: nelle economie che si trovano nelle prime fasi dello sviluppo gli aumenti reddituali sono realmente associati ad aumenti nel livello di benessere; nelle economie mature la qualità della vita potrebbe dipendere maggiormente da variabili non legate direttamente alla ulteriore ricchezza posseduta.
2.3. Limiti del Pil Nonostante l’ottima capacità di sintesi, la collaudata struttura di contabilità nazionale che lo supporta e la sostanziale correlazione con i più comuni criteri di classificazione della qualità della vita, il Prodotto Interno Lordo è stato fortemente criticato per alcune debolezze intrinseche che lo rendono un indicatore fortemente parziale e distorto delle attività che contribuiscono al benessere di una collettività. Nei paragrafi seguenti si analizzeranno nel dettaglio i principali limiti del PIL nell’assolvere al ruolo di indicatore di benessere di una nazione.
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2.3.1. Mercati non monetari
Il primo importante limite del PIL è riconducibile al fatto che esso tiene conto esclusivamente delle transazioni avvenute nei mercati monetari, cioè in tutti quei casi in cui la transazione è regolata da un prezzo di tipo monetario. Esistono tuttavia numerosi e importanti bisogni che possono essere soddisfatti anche – e in qualche caso soltanto – con mezzi “non mercificati”. Classici esempi di mercati non monetari sono il lavoro domestico svolto dai membri di una famiglia, la produzione di sussistenza e le attività di volontariato. Queste attività, pur fornendo servizi essenziali per il benessere di una famiglia o dell’intera collettività, e sebbene abbiano di norma un elevato valore aggiunto, non sono registrate nella contabilità nazionale in quanto non avvengono nella forma delle transazioni formali. Gli stessi servizi appaiono, invece, nella contabilità nazionale qualora vengano affidati a persone che se ne occupano professionalmente, come domestici, assistenti per anziani o asili nido, e che per questo ricevono una remunerazione che è conteggiata nel Prodotto Interno Lordo di un paese. Il legame fra benessere e PIL sarebbe, dunque, fortemente impreciso in tutti quei casi in cui le attività “non monetarie” assumono un ruolo predominante nel contesto socio-economico di una collettività. Inoltre uno spostamento della produzione dal settore informale a quello formale avrebbe l’effetto di aumentare il Prodotto Interno Lordo di un paese, lasciandone tuttavia inalterato il livello di benessere18.
Un ragionamento analogo può essere fatto anche per l’economia sommersa, se questa non fosse contabilizzata nel Pil o se la sua stima risultasse sottodimensionata.
18
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2.3.1.1. Crescita e impoverimento sociale Coerentemente con queste osservazioni numerosi autori hanno avanzato l’ipotesi che parte della crescita economica registrata nel corso del tempo sia dovuta a un mero processo di sostituzione di beni non di mercato con mezzi mercificati. In particolare, alcuni recenti articoli (Antoci e Bartolini 1997 e 2004, Bartolini e Bonatti 2002, 2003a, 2003b, 2004a, 2004b), cercano di fornire una spiegazione teorica al cosiddetto Paradosso di Easterlin19, cioè l’osservazione empirica secondo cui il livello di benessere individuale dipende molto poco da variazioni del reddito, analizzando il ruolo delle esternalità negative che riducono il capitale sociale. Secondo questo approccio le difficoltà teoriche ed empiriche dei modelli di crescita tradizionali dipenderebbero dalla mancata considerazione del fatto che il benessere e la capacità produttiva dipendono largamente da beni che non sono acquisibili sui mercati formali, ma che sono forniti dall’ambiente sociale e che prendono il nome di beni relazionali. I beni relazionali (in questa categoria rientrerebbero, ad esempio, il volontariato o l’assistenza familiare agli anziani) hanno la caratteristica di richiedere un’attività di partecipazione sociale, che è tipicamente ad alta intensità di consumo di tempo (time-intensive), e possono essere sostituiti da beni privati (di mercato) che, invece, non richiedono tale attività (sono definiti perciò time saving). Inoltre il valore dei beni relazionali aumenta con il grado di partecipazione sociale.
Anche conosciuto come Paradosso della Felicità. Con questa espressione ci si riferisce all’inatteso andamento di un indice di benessere soggettivo medio (SWB), ottenuto con interviste dirette, il quale invece di aumentare insieme al reddito procapite (come la teoria predice), rimane costante, o cresce in modo incerto, o addirittura diminuisce. Nel 1974 Richard Easterlin, utilizzando dati raccolti con autovalutazioni soggettive, arrivò ad individuare correlazioni non significative e robuste tra Reddito Nazionale e felicità complessiva, tra reddito e felicità dei singoli individui all’interno di uno Stato e tra aumento di reddito e felicità delle persone valutata nel corso della loro vita.
19
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Il processo di crescita economica genera esternalità negative che riducono la capacità dell’ambiente sociale di fornire questi beni. Questo in virtù del fatto che si sostituiscono attività ad alta partecipazione sociale con attività che non richiedono tale partecipazione. In questo senso le esternalità negative costituiscono una causa della crescita, data la capacità del mercato di fornire sostituti “privati” al diminuire del valore dei beni relazionali. Gli agenti per contrastare la diminuzione del loro benessere o della loro capacità produttiva aumenteranno il consumo di beni privati acquistati sul mercato. Le esternalità obbligano gli individui a fare sempre maggiore affidamento sui beni privati al fine di prevenire il deterioramento del proprio benessere e generano un costante aumento dell’output misurato dalla contabilità nazionale. Si crea, dunque, un meccanismo auto-rinforzante, dove la crescita genera esternalità negative e le esternalità negative generano crescita. Quindi, secondo questi modelli di crescita, che prendono il nome di modelli GASP (Growth as Substitution Process), le anomalie della teoria della crescita individuate da Easterlin (crescita del reddito e diminuzione del benessere percepito) sarebbero i due lati della stessa medaglia. Le persone si impegnano maggiormente per il denaro perché necessitano di difendersi dagli effetti delle esternalità negative; lavorano di più e risparmiano di più per sostituire, nel presente e nel futuro, i beni relazionali con quelli di mercato. Ma l’incremento del proprio reddito non si traduce in un miglioramento di benessere perché riguarda un semplice processo di sostituzione20.
Antoci e Bartolini 1997 e 2004 mostrano, sotto varie ipotesi relative ai pay-off e alle esternalità negative, come quest'ultime siano il terzo fattore della crescita (insieme alla tecnologia e all’accumulazione di capitale). Attraverso due giochi evolutivi, senza progresso tecnologico e accumulazione, essi dimostrano che le esternalità negative sono in grado di generare crescita della produzione pro capite a causa del loro esclusivo impatto sull'offerta di lavoro. In Bartolini e Bonatti 2003b questi risultati sono ottenuti in un mondo con agenti ottimizzanti. Di conseguenza, la proposizione in base alla quale le esternalità costituiscono un fattore di crescita non dipende dalle ipotesi di razionalità limitata (o di qualunque altro
20
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2.3.2. Aspetti ambientali
Le principali critiche rivolte all’indice di Prodotto Interno Lordo sono relative, però, al rapporto tra produzione e ambiente. Queste critiche, che in parte si basano sui medesimi aspetti teorici visti in precedenza con riferimento ai beni relazionali, hanno iniziato a diffondersi negli anni ’60 con la nascita dei primi movimenti ecologisti. Qualche anno più tardi un gruppo di importanti studiosi guidati da Aurelio Paccei, presidente del Club di Roma21, elaborò uno scenario di crescita economica e consumo delle risorse naturali che preannunciava il veloce esaurimento delle risorse naturali e una tipo) degli agenti in gioco. Questi tre modelli, in base alle ipotesi utilizzate, permettono di affermare, quindi, che l’accumulazione di capitale e il progresso tecnologico non costituiscono una condizione necessaria per la crescita. Bartolini e Bonatti 2002a analizzano, nella versione con agenti ottimizzanti, le condizioni che generano equilibri multipli e il ruolo svolto dalle attitudini culturali di una società nella scelta del percorso di crescita. Bartolini e Bonatti 2003 e 2003a incorporano il meccanismo di sostituzione dei beni free con quelli economici nei principali paradigmi della teoria della crescita: la crescita endogena e quella esogena. Bartolini e Bonatti 2003 introducono questo meccanismo in un modello di crescita esogeno alla Solow-Ramsey, trovando che le esternalità negative aumentano l’offerta di lavoro e l’accumulazione di capitale e, di conseguenza, il livello di produzione di equilibrio. Bartolini e Bonatti 2003a indicano che, se l’offerta di lavoro è endogenizzata in un modello alla Ramsey-Rebelo, il modello risultante non genera crescita perpetua in assenza di esternalità negative (accumulazione e progresso tecnologico non sono quindi condizioni sufficienti di crescita endogena). La caratteristica comune dei sei modelli è che il meccanismo di sostituzione avviene a livello dei consumi. Bartolini e Bonatti 2002b mostrano come la sostituzione possa operare anche nella produzione: usando un modello di crescita esogeno nel quale il capitale sociale e ambientale entra unicamente nelle funzioni di produzioni e nel quale è inserita la scelta la scelta tra lavoro e tempo libero, essi dimostrano che sotto alcune ipotesi l’erosione del capitale sociale ed ambientale può favorire il processo di crescita. Di conseguenza la crescita può essere un processo mediante il quale, non sono i beni finali, ma anche quelli intermedi free sono sostituiti con i loro equivalenti reperiti attraverso il mercato. 21 Si tratta di un’associazione non governativa, non-profit, di scienziati, economisti, uomini d'affari, attivisti dei diritti civili, alti dirigenti pubblici internazionali e capi di stato fondata nel 1968 dall'imprenditore italiano Aurelio Peccei e dallo scienziato scozzese Alexander King, insieme a vari premi Nobel, leader politici ed intellettuali. Il suo scopo è quello di contribuire al cambiamento globale, individuando i principali problemi che l'umanità si troverà ad affrontare, analizzandoli in un contesto mondiale e ricercando soluzioni alternative nei diversi scenari possibili.
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crescita drammatica dell’inquinamento. Il rapporto che conteneva i risultati di questi studi, “I limiti dello sviluppo” pubblicato nel 1972, ebbe un eco internazionale e un impatto fortissimo sull’opinione pubblica. Nonostante i numerosi limiti d’analisi, che hanno portano a previsioni che si sono rivelate a posteriori completamente inesatte, il rapporto rappresenta il momento nel quale l’elaborazione teorica si sposta dal concetto di crescita inteso come tensione verso una più elevata qualità della vita a quello di ricerca di percorsi di sviluppo che permettano di preservare nel tempo il benessere nel frattempo raggiunto (Massetti 2007). Anche gli shock petroliferi degli anni ’70, che misero in luce la scarsità delle risorse naturali, resero possibile l’emergere del concetto stesso di valore economico del capitale naturale, prima indefinito a causa della sua apparente illimitata disponibilità. Dal punto di vista ambientale, le principali critiche avanzate da economisti ed ecologisti al PIL quale indicatore di benessere e, più in generale allo schema di contabilità nazionale che lo sostiene, riguardano: − il contributo dei beni e servizi ambientali al sistema economico; − il trattamento contabile delle spese per la difesa ambientale; − il deprezzamento dello stock del capitale naturale.
2.3.2.1. I beni e i servizi forniti dall’ambiente Il PIL, come già ricordato, è il principale indicatore dei sistemi di contabilità nazionale, il cui scopo è la descrizione sintetica delle attività di produzione e consumo che formano il complesso sistema economico di un paese. Analogamente al capitale riproducibile22 e al capitale umano, anche
Il Capitale Riproducibile (o Capitale Economico) rappresenta l’insieme dei beni durevoli che sono oggetto di proprietà ed hanno valore economico. Come evidenziato da Carlucci e Giannone (1990) il Capitale Riproducibile deve essere distinto dal cosiddetto Capitale Naturale, che è costituito, invece, da quei beni (risorse naturali, atmosfera, ambienti
22
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l’ambiente naturale fornisce un flusso di beni e servizi che costituiscono un input indispensabile allo svolgimento di attività di produzione e consumo. Alcuni esempi possono aiutare a chiarire il concetto: dalla biosfera vengono estratte le materie prime necessarie alla produzione agricola e industriale; l’ambiente naturale provvede allo smaltimento dei rifiuti e all’assorbimento di scarichi ed emissioni inquinanti, e garantisce anche il funzionamento di meccanismi ecologici essenziali per la sopravvivenza del pianeta e la disponibilità di luoghi a fini ricreativi. Occorre peraltro precisare che il concetto di “ambiente naturale” si presta a interpretazioni differenti. Nella sua accezione più generale, il termine viene adoperato per designare l’insieme delle condizioni esterne che determinano il modo di vita e l’evoluzione delle società umane. L’aria, l’acqua, le risorse del suolo e del sottosuolo, la biosfera sono i singoli elementi di tale complesso fisico dal quale dipende la sopravvivenza dell’intero genere umano. Dal punto di vista economico, invece, l’ambiente può essere visto come uno stock di capitale naturale che eroga un flusso di beni e servizi indispensabili per lo svolgimento di ogni attività economica. Perciò, fatte queste precisazioni, è possibile descrivere sinteticamente quali sono in concreto le principali tipologie di beni servizi messi a disposizione dall’ambiente. In primo luogo, esso fornisce risorse naturali, alcune delle quali vengono utilizzate dagli individui in modo diretto (ad esempio aria, acqua, piante e animali) mentre altre (materie prime e fonti di energia) costituiscono input necessari nei processi produttivi. Tali risorse sono essenzialmente di tre tipi: − risorse non rinnovabili (carbone, gas, etc.) disponibili in quantità data in quanto il loro processo rigenerativo avviene in tempi non
naturali, esseri viventi, ecc.) la cui esistenza, produzione e riproduzione è il risultato di un’attività naturale.
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apprezzabili su scala umana e per le quali si pone il problema del possibile esaurimento; − risorse rinnovabili (animali, piante, aria e acqua pulite etc.) la cui consistenza viene mantenuta nel tempo qualora il ritmo di estrazione non superi la velocità di riproduzione e crescita della risorsa stessa; − risorse inesauribili (sole, vento, maree, geotermia, etc.) la cui entità non viene sostanzialmente modificata dall’azione umana. In secondo luogo, l’ambiente provvede all’assimilazione dei residui generati dai processi biologici (quali, ad esempio, i residui organici delle piante e degli animali e l’anidride carbonica) e dei prodotti indesiderati delle attività umane di produzione e consumo (rifiuti, scarichi ed emissioni inquinanti). Qualora la produzione di residui inquinanti ecceda la capacità assimilativa dell’ambiente, si assiste alla progressiva concentrazione di sostanze dannose che costituiscono uno dei fenomeni più preoccupanti della civiltà industriale. Infine, l’ambiente naturale garantisce l’erogazione di alcuni sevizi ambientali il cui valore economico è meno evidente, ma non per questo meno importante. Esistono essenzialmente due categorie di servizi ambientali: − la disponibilità di luoghi ameni (parchi naturali, aree protette, spazi ricreativi, etc.) il cui uso e godimento contribuiscono direttamente a innalzare il livello di benessere individuale e sociale; − il mantenimento di funzioni ecologiche essenziali alla sopravvivenza della biosfera (stabilizzazione degli ecosistemi, regolazione del clima, etc.), che risultano di difficile identificazione, ma che possono avere, tuttavia, un impatto enorme sulla qualità della vita delle popolazioni. I beni e i servizi forniti dall’ambiente naturale sono, come appena visto, numerosi ed eterogenei. Tuttavia gli schemi contabili tradizionalmente usati per il calcolo dell’indice di Prodotto Interno Lordo non evidenziano il
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contributo dell’ambiente alle attività di produzione e consumo e offrono, perciò, un’immagine distorta dell’economia di un paese. Gli effetti esterni negativi del processo produttivo (inquinamento e degrado ambientale) non sono infatti internalizzati nella funzione di produzione dell’economia, mentre agli input forniti dall’ambiente viene implicitamente attribuito un valore nullo. La presenza di queste esternalità negative crea una divergenza tra costo privato e costo sociale della produzione e costituisce una delle cause del cosiddetto “fallimento del mercato” tipico dei beni pubblici, che ha come conseguenza diretta l’incapacità di formulare scelte di politica economica e ambientale socialmente ottimali, idonee, cioè, a promuovere lo sviluppo sostenibile di un paese. Per queste ragioni alcuni autori (ad esempio Peskin, 1989) hanno suggerito di includere il valore complessivo dei beni e servizi ambientali nel calcolo del PIL e di dedurre il valore relativo ai danni ambientali al fine di pervenire a una più accurata misura del benessere. Hamilton (1994), invece, più accuratamente sottolinea che i servizi ambientali alla produzione sono già compresi nel PIL in quanto il loro contributo costituisce parte del valore di produzione, mentre il consumo diretto di beni e servizi ambientali e il relativo contributo al benessere umano non è espresso nell’output di produzione. Secondo questa impostazione solo i servizi al consumo dovrebbero essere inclusi nel calcolo del Prodotto Interno Lordo.
2.3.2.2. Le spese difensive ambientali. La seconda tipologia di critiche di carattere ambientale rivolte al PIL in qualità di indicatore di benessere riguarda la spesa per la difesa ambientale.
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Occorre innanzitutto precisare che il caso ambientale rappresenta solo una delle fattispecie di spese difensive individuate dalla teoria economica e rientra in un problema concettuale più ampio, quello del trattamento delle spese intermedie, che varrà trattato nel dettaglio nel paragrafo 2.2.3. Per il momento basta ricordare che il calcolo del PIL dovrebbe tener conto esclusivamente del valore dei beni e servizi finali, escludendo quindi le spese intermedie sostenute per la produzione di nuovi beni e servizi. Esistono tuttavia una serie di spese che, seppur classificate come consumi finali, sono effettuate unicamente per ripristinare la capacità produttiva di una risorsa compromessa a causa degli effetti negativi derivanti da un processo di crescita del consumo o della produzione. Queste spese sono sostenute, cioè, per ristabilire una situazione preesistente e non vanno a migliorare il benessere di chi le sostiene. Secondo la definizione dell’Eurostat, con il termine spese difensive ambientali si identificano le spese connesse a diseconomie esterne che comportano la perdita di funzioni ambientali, ovvero le spese sostenute da agenti economici per prevenire e controllare il degrado ambientale ex-ante o eliminarlo e difendersi dai suoi effetti negativi ex-post. Seguendo il criterio proposto dall’O.N.U. e riportato in Cullino (1993), tali spese possono essere classificate in relazione al momento in cui vengono effettuate rispetto al verificarsi del danno ambientale, reale o potenziale, cui si riferiscono come segue : -
spese sostenute per prevenire ed evitare il danno ambientale, come nel caso di spese per l’adozione di tecnologie “pulite” o per l’installazione di impianti di abbattimento di sostanze nocive alla fonte;
-
spese finalizzate alla ricostituzione dei beni ambientali danneggiati da attività economiche (ad es. decontaminazione di aree colpite da
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incidenti nucleari, disinquinamento di corsi idrici interessati da versamenti di sostanze nocive, recupero di aree degradate, ecc.); -
spese sostenute allo scopo di allontanarsi o difendersi da danni ambientali inevitabili e irreparabili (ad es. spese di trasferimento verso luoghi di residenza meno inquinati, installazione di pannelli isolanti
contro
l’inquinamento
acustico
o
di
filtri
per
la
potabilizzazione dell’acqua); -
spese rivolte a compensare gli individui per i danni subiti a causa del danno ambientale (ad es. spese mediche per curare malattie respiratorie).
La varietà della fattispecie costituita dalle spese difensive di carattere ambientale è indicativa della complessità delle interconnessioni che caratterizzano le attività economiche e l’ambiente naturale. I macroaggregati forniti dagli attuali sistemi di contabilità sono incapaci di riflettere queste complesse interrelazioni e per questo sono numerose le critiche che ha sollevato l’attuale trattamento contabile riservato alle spese difensive. In particolare si assiste a una disparità di trattamento tra spese aventi la stessa natura, ma sostenute da settori economici differenti, oppure finanziate in forme differenti all’interno dello stesso settore economico. Se, infatti, a fronte di un danno ambientale, lo Stato interviene accollandosi i costi delle misure riparatrici, le relative spese sono considerate come finali e quindi incluse nel calcolo del PIL, andando ad accrescere, a parità di altre condizioni, il reddito nazionale. Qualora gli stessi interventi vengano effettuati dalle imprese, eventualmente costrette da provvedimenti di natura legislativa o amministrativa, essi sono considerati, a seconda dei casi, come investimenti o come spese intermedie, venendo rispettivamente aggiunti o sottratti nel calcolo del valore aggiunto. E’ stato, poi, osservato che, contabilizzando le spese difensive ambientali come spese finali, si può
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verificare la seguente incongruenza: il reddito di un paese può essere più elevato quando accade che un dato volume di beni e servizi viene prodotto arrecando danni ambientali anche irreversibili, intervenendo in un secondo tempo per porvi rimedio, rispetto al caso in cui, lo stesso volume di beni venga prodotto con tecnologie “pulite” o “eco-compatibili”. Pertanto, non solo il reddito nazionale non varia nella direzione che sembrerebbe auspicabile per riflettere il degrado ambientale causato dalle attività economiche, ma addirittura esso può muoversi nella direzione opposta, cioè registrando trend positivi a fronte di un degrado o un consumo dello stock di capitale naturale. È importante, comunque, notare che una semplice sottrazione delle spese difensive ambientali dal PIL non consentirebbe di ottenere un PIL “sostenibile” ma solo un PIL “corretto” in senso ambientale; si tratterebbe, infatti, soltanto di una semplificazione metodologica assimilare il consumo di capitale naturale alle spese sostenute per correre ai ripari dai danni conseguenti a tale consumo.
2.3.2.3. Il deprezzamento dello stock di capitale naturale. La terza critica di carattere ambientale rivolta al sistema si contabilità nazionale riguarda la mancata inclusione nel calcolo del reddito nazionale del costo del deterioramento delle risorse naturali e ambientali. Questa critica in realtà non riguarda propriamente il PIL, ma assume particolare rilevanza nel caso si ricorra a indici quali il Prodotto Interno Netto, spesso utilizzati per ovviare ad altre problematiche del PIL stesso.
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- La misurazione del benessere attraverso il PIL -
Come sottolineato da Daly e Cobb (1989), se si fa riferimento a una nozione di reddito alla Hicks23, il Prodotto Interno Lordo non soltanto è una misura inadeguata del benessere, ma è anche una misura inadeguata del reddito. È noto, infatti, che non sarebbe possibile consumare l’intero ammontare del PIL, senza subire di conseguenza un impoverimento a causa del deterioramento del capitale; per questo dal valore del Prodotto Interno Lordo si sottrae l’ammortamento del capitale, in modo da calcolare il Prodotto
Interno
Netto,
la
quantità
generalmente
assunta
come
rappresentativa del reddito in senso hicksiano. Il problema principale è che il PIN, come attualmente calcolato dai sistemi di statistica nazionali, tiene conto soltanto del deprezzamento del capitale fisico prodotto dall’attività umana, mentre trascura il fatto che gli attuali metodi di produzione provocano un generale deterioramento del capitale naturale. Mentre gli immobili, gli impianti, le attrezzature e gli altri elementi del capitale riproducibile partecipano alla formazione del reddito mediante l’ammortamento e i costi di manutenzione, il capitale naturale non viene preso in considerazione nonostante risulti ugualmente suscettibile di degrado qualitativo e di variazioni nella consistenza conseguenti al suo utilizzo. Tale asimmetria nel trattamento contabile del capitale implica che lo sfruttamento commerciale delle risorse naturali esauribili (legname, petrolio, carbone fossile, minerali, ecc.) contribuisce ad aumentare il reddito nazionale senza che sia fornita nessuna indicazione sulle conseguenze di tale attività in termini di riduzione nella capacità produttiva futura. Un vantaggio di natura temporanea, l’aumento del reddito, viene quindi ottenuto al prezzo di una riduzione permanente del patrimonio naturale
23
Secondo la definizione ormai classica proposta da Hicks il reddito è l’ammontare massimo che una nazione può consumare in un determinato periodo senza ridurre la consistenza del proprio patrimonio iniziale. Il concetto di sostenibilità è implicito in questa definizione.
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come accaduto in molti paesi in via di sviluppo, in cui si è dimostrato che gli elevati tassi di crescita raggiunti erano in gran parte attribuibili al consumo del loro stock di risorse naturali. Per questo Robert Repetto e i suoi collaboratori del World Resource Institute, in uno studio pioneristico del 1989, hanno proposto una serie di aggiustamenti contabili tenendo conto delle principali forme di deterioramento
delle
risorse
ambientali
(erosione
del
suolo,
disboscamento ed estrazione del petrolio). Applicando questa metodologia al caso indonesiano essi trovano che l’output domestico risulta nettamente inferiore rispetto al livello misurato dalla contabilità ufficiale. Nel 1984, ad esempio, il governo indonesiano riferisce di un PIL pari a 13,5 trilioni di rupie, mentre contabilizzando i cambiamenti nel capitale fisico di foreste, suolo e risorse petrolifere i ricercatori del WRI scoprono che il deterioramento di queste risorse ammonta a 2,3 trilioni di rupie, una somma pari al 17,3% del PIL. Secondo El Sarefy (1993), che ha rivisitato questo studio migliorandone la metodologia, i risultati ottenuti dal WRI sarebbero perfino sottostimati rispetto al vero valore del deterioramento ambientale in Indonesia.
2.3.2.4. Implicazioni sulla crescita. Occorre inoltre ricordare che la mancata contabilizzazione dei beni e servizi ambientali ripropone il medesimo problema visto in precedenza per i beni relazionali, cioè quello di una crescita economica che non produce un miglioramento nel livello di benessere degli individui. Il principio di sostituzione dei beni non di mercato con i beni mercificati descritto dai modelli GASP, infatti, può essere applicato, oltre che al capitale
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sociale, anche e soprattutto a quello ambientale. Si pensi, a titolo esemplificativo, allo sviluppo di quelle tecniche agricole che ottengono un aumento dei raccolti mediante l’impiego di prodotti dell’industria chimica. C’è un rovescio della medaglia, che potrebbe essere costituito, per ipotesi, dall’inquinamento della falda acquifera, con la conseguenza che, per restituire acqua potabile al consumatore, sarebbe necessario ricorrere a nuove attività mercificate (sistemi si depurazione o adduzione di acqua da altre sorgenti). Come per i beni relazionali, anche in questo caso le serie storiche del Pil registrano le variazioni intervenute nella produzione di merci senza riguardo a quelle intervenute nelle soddisfazioni non mercificate. Con riferimento al caso ipotizzato, il PIL registrerà insieme sia il maggior valore aggiunto registrato nell’economia, sia quello realizzato nelle opere occorrenti per ripristinare la potabilità dell’acqua, senza indicare se queste opere forniscano alla popolazione una soddisfazione supplementare o riparino (in maniera totale o parziale) a una perdita subita. A riguardo Antoci, Galeotti e Russo (2006) propongono un modello teorico che analizza gli effetti dell’interazione tra deterioramento ambientale e scelte di consumo sulle dinamiche di crescita economiche e sul benessere degli agenti economici. Essi dimostrano che se i beni privati possono essere consumati come sostituti (anche imperfetti) di quelli ambientali, la crescita economica può essere alimentata dal deterioramento ambientale. Il deterioramento ambientale stimola l’accumulazione di capitale e l’offerta di lavoro degli agenti economici, portando quest’ultimi a concentrare le loro fonti di benessere sui beni di mercato piuttosto che sui beni ambientali liberamente disponibili. Il conseguente incremento di consumi “mercificati” produce ulteriore degrado ambientale e il meccanismo si autoalimenta. La crescita economica che ne deriva è definita dagli stessi autori come “non desiderabile” perché caratterizzata da una correlazione inversa tra il livello
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di accumulazione del capitale (e di conseguenza tra il livello di PIL) e il benessere degli individui.
2.2.3. Consumi intermedi e spese difensive Il Prodotto Interno Lordo considera, come detto, il valore complessivo dei soli beni e servizi finali escludendo quindi i consumi intermedi. Come per il caso ambientale, la critica in questo senso nasce dal fatto che numerose spese classificate come consumi finali dai sistemi di contabilità nazionali sono in concreto spese intermedie di produzione e dovrebbero essere coerentemente escluse dal calcolo per evitare il problema del “doppio conteggio”. Il sistema attuale definisce, infatti, le spese intermedie come “il valore dei beni e dei servizi consumati quali input in un processo di produzione, escluso il capitale fisso il cui consumo è registrato come ammortamento” (Sec 95). Non si prende quindi in considerazione l’eventualità che spese intermedie possano essere sostenute anche al di fuori del sistema produttivo in senso stretto, cioè da famiglie e settore pubblico. Come osserva Juster (1973), che tra i primi sollevò questo problema: At present we classify everything purchased by households as final consumption… and most of the things purchased by business enterprise as intermediate products. However, most of what we now call final product is really intermediate in the more fundamental sense. Occorre quindi stabilire un criterio sostanziale di distinzione tra consumi intermedi e finali. Juster sostenne che tutti i prodotti usati per mantenere costante il flusso di servizi degli assets esistenti dovessero essere esclusi dai consumi
finali,
mentre
dovevano
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essere
inclusi
i
prodotti
che
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incrementavano il flusso dei servizi derivanti dagli assets, sia tangibili che intangibili. L’applicazione di questo criterio avrebbe, però, fortemente ridotto la misura dell’output nazionale, una conseguenza che Kuznets, padre della contabilità statunitense, aveva già anticipato e a cui si era fortemente opposto. Egli pur riconoscendo la necessità di trattare alcune particolari spese sostenute dalle famiglie (pendolarismo e abbigliamento da lavoro nel suo esempio) come consumi intermedi e non finali, evidenziò il rischio di una sostanziale indeterminatezza di un tale criterio, che avrebbe finito per sottomettere i bisogni dell’uomo a quelli della produzione24. Più recentemente, Christian Leipert (1989) ha apportato degli aggiustamenti ai dati del PNL per contabilizzare in maniera più ragionevole le spese intermedie. Egli ha proposto di misurare le “spese difensive”, cioè le spese sostenute per eliminare, mitigare, neutralizzare, o anticipare ed evitare i danni e il deterioramento che i processi di crescita della società industriale causano alle condizioni di vita e di lavoro e all’ambiente. Secondo la classificazione elaborata da Leipert, l’aggregato delle spese difensive include, oltre le spese difensive ambientali di cui si è già detto: − le spese indotte dalla concentrazione spaziale delle attività produttive e dai conseguenti fenomeni di urbanizzazione (tipico esempio è il costo del trasporto pendolare); − le spese sostenute in relazione all’aumento dei rischi associati all’attività industriale, quali ad esempio le spese per la protezione civile e la sicurezza sociale; 24
In Kuznets (1941) si legge infatti: “Widening the scope of intermediate... reduces the net National product… to that exceedingly minor magnitude that may be considered as not involved in the replacement of all goods, human capacity included, consumed in the process of the economic production of the other goods; consequently, we do not view the raising and education of the younger generation or the sustenance of the working population as intermediate consumption destined to produce or sustain so many human machines… It is this idea of economic goods existing for men, rather than men for economic goods, that gives point to the concept of ultimate consumption”.
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− le spese relative a problemi di traffico automobilistico, tra cui spese per riparazioni e spese mediche conseguenti a incidenti stradali; − le spese determinate da difficili condizioni di vita e di lavoro o da modelli di consumo e comportamentali insalubri (infortuni sul lavoro, uso di droghe, consumo di alcool e sigarette, ecc.). L’elemento concettuale fondamentale che contraddistingue le spese di carattere difensivo è la connessione più o meno stretta con gli effetti negativi esterni derivanti da un processo di crescita della produzione e del consumo. Sono perciò escluse dalla categoria delle spese difensive tipi di spesa quali, ad esempio, i consumi per l’alimentazione, l’abbigliamento e l’abitazione, che potrebbero essere impropriamente attribuiti alla necessità di difesa contro la fame e il freddo; questi bisogni esistono, infatti, a prescindere dall’esistenza dell’attività produttiva e non risultano significativamente influenzati dalle esternalità negative derivanti dai processi di crescita economica.
2.2.4. Beni durevoli e infrastrutture pubbliche Un problema analogo a quello dei consumi intermedi è rappresentato dal trattamento dei consumi domestici in beni durevoli, cioè di tutti quei beni che sono atti a soddisfare ripetutamente un determinato bisogno. Tipici esempi di beni durevoli sono rappresentati dalle automobili e dagli elettrodomestici. Questi cedono la loro utilità nel corso del tempo aumentando il benessere di chi li utilizza nel corso di più anni. Il Prodotto Interno Lordo (ma lo stesso discorso vale anche per il PIN), invece, incrementa il proprio valore unicamente nell’anno di acquisto del
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bene, senza ripartire il relativo costo per tutta la durata effettiva di utilizzazione del bene stesso. In questo modo non è possibile apprezzare la perdita di benessere derivante, ad esempio, da problematiche che riducono la vita utile del bene durevole. Anzi la conseguente maggior velocità di sostituzione di questi prodotti avrebbe come effetto un ulteriore incremento del PIL: anche in questo caso la crescita economica misurata dal PIL potrebbe essere alimentata da situazioni negative per il benessere degli individui, quali il peggioramento della qualità dei prodotti. Il medesimo ragionamento è applicabile anche ai beni durevoli acquistati o prodotti dalla pubblica amministrazione e in particolar modo alle infrastrutture che, a fronte di un elevato costo di realizzazione contabilizzato nel breve periodo, cedono la loro utilità in periodi generalmente molto lunghi. Il problema in questione potrebbe essere risolto apportando semplici aggiustamenti al PIL, sottraendo da esso il costo di acquisto dei beni durevoli e imputando a ogni anno il valore dei servizi ceduti dai beni stessi.
2.2.5. Distribuzione del reddito Nel primo capitolo si è sottolineato come il tema dell’equità distributiva sia stato al centro del dibattito teorico che si è sviluppato intorno alla definizione del concetto di benessere sociale. In particolare la divergenza tra i vari approcci teorici classici riguardava la possibilità di poter riconoscere un valore positivo all’uguaglianza reddituale all’interno di una funzione di benessere sociale. Mentre in Pareto mancava un qualsiasi riferimento di tipo equitativo, nell’approccio piguviano e nelle teorie che da esso hanno preso spunto si
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assisteva a giudizi di valore circa la desiderabilità di particolari stati allocativi. Riprendendo sinteticamente questa secondo impostazione, il modo classico che nell’economia del benessere viene seguito per introdurre giudizi di valore consiste nello specificare una funzione di benessere sociale. Una tipica espressione della funzione del benessere sociale è rappresentata dalla forma additiva: N
W = ∑U ( yi ) i =1
dove U(yi) e esprime la funzione di utilità dell’individuo i-esimo, ma può anche interpretarsi come la valutazione sociale che una collettività attribuisce al reddito dell’individuo stesso. La generica funzione del benessere sociale, oltre a essere crescente e simmetrica nei redditi individuali, è una funzione strettamente concava, cioè: ∂U ( y i ) / ∂y i > 0 , e 2
∂ 2U ( y i ) / ∂y i < 0 . Quest’ultima osservazione rappresenta l’ipotesi chiave in
quanto incorpora la valutazione che la società dà della disuguaglianza: la valutazione marginale sociale del reddito di ciascun individuo è positiva, ma è tanto più bassa quanto più elevato è il reddito individuale; questo implica una preferenza sociale per l’eguaglianza. La forma della funzione di utilità riflette quindi il grado di avversione alla diseguaglianza espresso dalla società. Affinché vi sia avversione alla diseguaglianza, occorre che U(yi) sia concava, come nella figura 4.
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U(y) -∆U
+∆U
+∆ y
-∆ y
y
Fig. 4- Forma della funzione di utilità nel caso di avversione alla disuguaglianza.
Data una certa funzione concava, un aumento del reddito dei soggetti più poveri determina un incremento maggiore nel benessere sociale rispetto al caso in cui lo stesso aumento di reddito sia stato realizzato dai soggetti più ricchi; questo significa anche che se si effettua un trasferimento di reddito ∆y da un soggetto ricco a uno più povero, il guadagno di utilità che la società ottiene è nel complesso positivo. Numerose indagini empiriche hanno dimostrato che ogni società presenta un certo grado di avversione alla disuguaglianza reddituale; il Prodotto Interno Lordo, invece, non attribuisce alcun valore alla distribuzione del reddito; e questo in coerenza con l’obiettivo iniziale per cui questo indice è stato introdotto: misurare il valore dei beni e servizi finali prodotti in una nazione. Utilizzare il PIL quale indicatore di benessere significa attribuire alla funzione di utilità una forma del tipo U(yi) = yi , dove il benessere sociale è semplicemente rappresentato dalla somma dei redditi e il grado di
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avversione alla disuguaglianza è zero: conta solo la somma dei redditi non come sono distribuiti25.
2.2.5.1. Crescita economica e disuguaglianza Le relazioni esistenti tra la crescita del reddito e la sua distribuzione sono state ampiamente investigate nella letteratura economica, da un lato analizzando gli effetti della crescita economica sull’equità sociale, dall’altro cercando di capire se il perseguimento di fini redistributivi sia ostativo o meno rispetto agli obiettivi di crescita reddituale. Con riferimento alla prima questione, il legame tra crescita e miglioramento dell’equità sociale è stato analizzato per primo da Kuznets (1955), che a riguardo ha espresso una posizione ottimistica, sostenendo che nella fase iniziale della crescita economica la disuguaglianza nella distribuzione cresce, ma, superata una certa soglia, man mano che il reddito pro capite sale, la disuguaglianza diminuisce26. Tuttavia la teoria di Kuznets, pur valida in alcuni contesti, non sempre ha trovato riscontro puntuale nelle verifiche empiriche, dove si assiste ad esempio ad un aumento del divario tra i salari reali dei lavoratori più qualificati e quelli dei lavoratori meno qualificati in molti paesi avanzati.
25
In tal caso si ha che ∂U ( y i ) / ∂y i = 1
benessere sociale è utilitarista, cioè W = 26
2
e ∂ U ( y i ) / ∂y i = 0 , mentre la funzione di 2
N
∑y i =1
i
.
Si ipotizza in pratica l’esistenza di una curva ad U rovesciata, e cioè di una relazione prima diretta e poi inversa tra reddito pro-capite ed un indice di diseguaglianza. Nella prima fase la relazione diretta può essere attribuita: 1) a mutamenti intersettoriali dell'occupazione, 2) all’aumento del risparmio delle classi più ricche, che grazie ad un processo di accumulazione si traduce in investimenti, redditi da capitale e nuovo risparmio. Nella seconda fase la diseguaglianza diminuisce a causa dei seguenti fattori: 1) emergere di una classe media (classe operaia ed impiegatizia). 2) maggiore importanza dei redditi da lavoro rispetto a quelli da capitale.
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Il secondo punto è quello che maggiormente interessa ai fini del presente lavoro. Riscontrare una relazione positiva tra equità distributiva e crescita economica significherebbe, infatti, individuare una giustificazione teorica all’avversione verso la disuguaglianza e alla conseguente forma concava della funzione di benessere sociale, anche a prescindere da considerazioni sull’utilità marginale dei singoli individui. Alcune teorie classiche sostengono, invece, l’esistenza di un legame negativo tra uguaglianza reddituale e crescita futura, giustificando di fatto l’esclusione dell’aspetto distributivo nella definizione del benessere. Si sostiene ad esempio che, dal momento che i ricchi risparmiano di più, quanto più elevata è la frazione del reddito totale guadagnata dalle persone ricche, tanto più elevato è il risparmio di un’economia; una più equa distribuzione del reddito quindi ridurrebbe il risparmio e l’accumulazione di capitale con effetti negativi sulla crescita. Altre impostazioni però respingono questa visione. In primo luogo un maggior grado di disparità economica determinerebbe ritardi nella crescita attraverso l’insorgere di conflitti sociali, crimini e attività illegali all’intero delle collettività (Alesina e Perotti, 1994; Benhabib e Rustichini, 1996). La disuguaglianza avrebbe effetti negativi sulla crescita anche attraverso i canali politici. In presenza di forte disparità reddituale l’elettore mediano risulta essere più povero rispetto alla media e per questo di norma favorevole a politiche di tassazione sui profitti più elevati. Poiché gli elettori che si trovano al di sotto del reddito medio sono la maggioranza, ci si attende l’elezione di governi che attueranno politiche redistributive attraverso un maggior carico fiscale. Queste aspettative potrebbero indurre gli individui a ridurre gli investimenti produttivi, con effetti negativi sui tassi di crescita (Persson e Tabellini, 1994; Bertola, 1993).
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Altre teorie suggeriscono che la disuguaglianza determina barriere di accesso al credito verso i soggetti più poveri, che non potendo offrire adeguate garanzie, non possono operare nuovi investimenti in capitale fisico e umano con conseguenze sulla crescita di lungo periodo (Banerjee e Newman, 1991; Aghion e Bolton, 1992). Del resto la preferenza sociale per situazioni redistributive più eque è stata già ampiamente dimostrata in letteratura. La riduzione della disuguaglianza infatti incoraggerebbe l’inclusione sociale (Killock, 2002; McKay, 2002) e avrebbe effetti positivi sulla struttura del mercato attraverso un aumento della domanda, una riduzione del mark-up e un conseguente ampliamento del benessere dei consumatori (si veda ad esempio Benassi, Cellini e Chirco 1999).
2.2.6. Tempo libero e disoccupazione
Il lavoro è alla base della crescita economica, ma non vi è dubbio che per gli individui la disponibilità di maggior tempo libero e la riduzione dell’orario lavorativo corrisponde a un aumento del relativo well-being, se questa situazione non è accompagnata da bassi salari (Beckerman, 1978). Molte delle attività svolte nel tempo libero hanno effetti positivi diretti sulla salute (riposo, attività fisica, ecc.), sull’estensione delle reti sociali, sul livello di apprendimento, sulla coesione sociale e familiare. Il tempo libero è in questo senso da considerare come un vero e proprio “bene”, la cui perdita produce ripercussioni negative sul benessere sia individuale che collettivo. Il PIL, invece, non attribuisce alcun valore al tempo libero, creando l’illusione che il benessere di una nazione stia aumentando quando in realtà i suoi individui stanno lavorando di più, rinunciando di conseguenza ai
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“benefici” del tempo libero. In questo modo un aumento della produzione derivante dall’incremento delle ore lavorative giornaliere di un soggetto è considerato del tutto equivalente al medesimo aumento ottenuto, ad esempio, grazie a un’innovazione tecnologica che migliora la produttività oraria del soggetto stesso. Se, invece, la produzione diminuisce perché la gente preferisce lavorare di meno, questo non rappresenta necessariamente un segnale che la società stia peggio. Anzi, dal momento che tale scelta è volontaria, significa probabilmente che essa è stata decisa al fine di ottenere un aumento di benessere. In una tale circostanza, però, il valore del PIL diminuisce, segnalando una riduzione del benessere.
Se da una parte l’aumento di tempo libero volontario è considerato un beneficio per gli individui, non si può considerare in modo analogo una situazione di disoccupazione o sottooccupazione27. Come osservano Talberth e al. (2006) i costi della sottooccupazione si ripercuotono sugli individui scoraggiati e sulle loro famiglie, ma anche sulla collettività che paga un prezzo ogniqualvolta le limitate opportunità di lavoro portano a sfiducia, suicidi, violenze, crimine, abuso di alcol e stupefacenti, ecc.. Per quantificare al meglio il benessere sociale le ore di sottooccupazione dovrebbero essere considerate un costo sociale così come le ore di tempo libero volontario un beneficio.
2.2.7. Indebitamento estero
Il concetto di sottooccupazione è più inclusivo di quello di disoccupazione, dove con quest’ultimo termine si intende la situazione in cui un individuo in cerca lavoro non riesce a trovare un occupazione. La sottooccupazione invece fa riferimento anche alle persone che sono cronicamente non occupate perché scoraggiate hanno smesso di cercare un impiego e alle persone involontariamente impiegate part-time.
27
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La sostenibilità economica di un Paese è influenzata anche dall’ammontare di fondi esteri che esso utilizza per finanziare la sua spesa corrente. Una posizione debitoria di una nazione verso paesi esteri non è necessariamente un elemento negativo se si utilizzano i fondi ottenuti per finanziare investimenti produttivi. Questi se adeguatamente remunerativi possono incrementare il livello di consumo futuro senza compromettere quello presente. Qualora invece si utilizzino i fondi esteri per finanziare il consumo corrente si assiste normalmente a una diminuzione futura del livello di benessere in corrispondenza di una riduzione dei consumi per far fronte agli impegni assunti in precedenza. Le evidenze empiriche indicano con chiarezza che molti paesi con alto debito estero hanno difficoltà a mantenere i livelli di investimento necessari a mantenere intatto lo stock di capitale riproducibile. Molte delle crisi economiche più recenti sono scaturite, infatti, da alti livelli di indebitamento, come in Thailandia (1997), Turchia (2000), Argentina (2001) e Islanda (2008). Inoltre, altre evidenze dimostrano che i paesi con alto indebitamento estero sono spesso costretti a liquidare lo stock di capitale naturale per ripagare il debito pregresso (George, 1988).
2.2.8. Pil e Benessere
L’utilizzo del Prodotto Interno Lordo quale indicatore sintetico del benessere di una nazione presenta, come appena visto, numerosi limiti concettuali, che lo rendono inadatto a tale scopo. Volendo rendere graficamente l’idea di come il Prodotto Interno Lordo non corrisponda a nessuno dei possibili aggregati di benessere visti nel primo capitolo è possibile osservare la fig. 5.
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- La misurazione del benessere attraverso il PIL -
Fig.5- Rapporto tra PIL e possibili componenti del benessere (fonte: Deutsche Bank R.).
Come si vede chiaramente il Pil attribuisce un valore positivo a elementi quali il deterioramento del capitale naturale e sociale e l’indebitamento netto con l’estero che riducono il benessere della collettività sia nel presente che nel lungo periodo; non distingue, inoltre, tra spese che aumentano il consumo e spese difensive che riparano un danno subito in precedenza; non considera il valore delle attività non di mercato e del tempo libero che invece contribuiscono a migliorare la qualità della vita, così come una più equa distribuzione del reddito. Fino a che gli elementi che sono esterni all’area di benessere (deprezzamento del capitale naturale, debito estero e spese difensive) o che influenzano in modo negativo il benessere stesso (come nel caso della disuguaglianza) sono contenuti esiste una buona approssimazione tra il reddito e il livello di benessere. Nel momento in cui questi elementi assumono un peso consistente, come avvenuto nel corso degli ultimi decenni, l’utilizzo del PIL quale unica guida delle politiche economiche può risultare fortemente fuorviante.
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- Indicatori alternativi di benessere -
3. Indicatori alternativi di benessere
3.1 Alcune classificazioni
A seguito delle critiche illustrate nel paragrafo precedente, gli studi finalizzati a dare un’espressione quantitativa più adeguata alle componenti del benessere sono stati numerosi e la ricerca in questo senso è tuttora molto intensa. Nel corso degli ultimi decenni sono state sviluppate numerose metodologie di misura, spesso molto diverse tra loro, ma tutte accomunate dalla necessità di superare le parzialità e le distorsioni derivanti dall’uso del PIL per uno scopo diverso da quello per cui era stato concepito. Stante l’impossibilità di rappresentare con esaustività tutta la mole di contributi che la letteratura continua a offrire sull’argomento, si ritiene necessario innanzitutto fornire uno schema classificatorio generale nel quale collocare tutti i possibili indicatori di benessere alternativi al PIL, focalizzando poi l’attenzione su quei particolari indici che sembrano avere maggiore possibilità di affermarsi a tale scopo, e che soprattutto possano essere utilizzati nella valutazione delle teorie economiche della crescita. Secondo una prima classificazione è possibile distinguere:
− indicatori che correggono il PIL − indicatori che si sostituiscono al PIL − indicatori che completano il PIL
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Gli indicatori che “correggono il PIL” partono dal valore derivante dalle statistiche ufficiali modificandolo per incorporare elementi sociali e ambientali non presi in considerazione nelle misure convenzionali. Gli indicatori appartenenti alla seconda tipologia, invece, si propongono di fornire una valutazione del benessere completamente alternativa rispetto al PIL ricorrendo, ad esempio, a criteri di soddisfazione media o di realizzazione delle funzioni umane di base. La terza categoria riguarda quegli approcci che non si propongono né di correggere, né di soppiantare l’indice di Prodotto Interno Lordo, ma forniscono informazioni addizionali di carattere sociale e ambientale che si affiancano all’indicatore reddituale. Un secondo tipo di classificazione può essere fatto in relazione alle componenti di benessere che sono considerate prevalenti nella costruzione della misura. Facendo riferimento, ad esempio, ai tre “pilastri” dello sviluppo sostenibile è possibile individuare indicatori:
− a prevalente carattere economico − a prevalente carattere ambientale − a prevalente carattere sociale Naturalmente esistono anche indici che combinano insieme tutti questi aspetti, come il Genuine Saving, l’Happy Planet Index e il Genuine Progress Indicator che per questo possono essere considerati indicatori di sviluppo sostenibile. Altri indici, invece, tendono a considerare solo due di queste componenti: è il caso dello Human Development Index che non prende in considerazione l’aspetto ambientale o del cosiddetto PIL Verde che al contrario non attribuisce alcun valore agli elementi sociali. La figura 6 che rappresenta questa situazione mostra anche come accanto agli indicatori sintetici, che si propongono di riassumere la qualità della vita e la sostenibilità dello sviluppo in un’unica misura rappresentativa, esista un approccio multidimensionale che considera gli strumenti (salute, ambiente,
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istruzione, innovazione tecnologica) come fini in sé e non solo come mezzi per ottenere un reddito più elevato. Questo approccio è seguito ad esempio dall’Unione Europea per monitorare la Strategia di Sviluppo Sostenibile (EU SDS).
Fig. 6- Indicatori di benessere e aspetti di sostenibilità.
Un’ulteriore classificazione, che verrà utilizzata anche per la presentazione seguente degli indicatori, è quella che distingue le tre impostazioni seguenti:
− l’impostazione oggettivista; − l’impostazione normativista; − l’impostazione soggettivista. Sono riconducibili all’approccio oggettivista tutte quelle ricerche che ritengono inefficace ogni tentativo di costruire un sistema di contabilità sociale tramite il quale sia possibile ottenere una rappresentazione d’insieme dello stato della società. Secondo questo approccio non è possibile costruire un indicatore di carattere sociale in sostituzione del valore del reddito, perché manca la possibilità di definire una comune unità di misura tramite
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- Indicatori alternativi di benessere -
la quale misurare tutti i diversi aspetti della situazione sociale. Date queste premesse, oggetto di misura può unicamente essere il benessere oggettivo di un Paese, e cioè un benessere legato ad aspetti cui è possibile attribuire un valore economico reale. Una misura adeguata del benessere non può comunque essere fornita dalla semplice contabilità nazionale ed è quindi necessario apportare adeguate rettifiche e integrazioni. Occorre inoltre notare che secondo questo approccio il termine benessere non deve essere inteso in maniera restrittiva, ma, anzi, scopo di questi indicatori è proprio quello di contabilizzare il maggior numero
possibile
di
aspetti
rilevanti
al
fine
di
costruire
una
rappresentazione che possa essere interpretabile in termini di benessere generale; naturalmente ognuno degli aspetti considerati deve essere in qualche modo ricondotto a una base monetaria, e in questo ambito si registrano alcune criticità legate alla misurazione degli aspetti sociali. Sono
riconducibili
all’approccio
oggettivista
anche
tutti
quegli
aggiustamenti apportati al PIL per correggere alcune sue criticità e che sono ora di uso comune: si pensi, ad esempio, alla possibilità di stimare il PIL pro capite in termini di parità dei poteri di acquisto, al fine di tener conto della struttura interna dei prezzi dei Paesi tra i quali si vuole effettuare un confronto. Gli indicatori che fanno riferimento all’approccio oggettivista vengono anche denominati “indicatori di contabilità estesa” e verranno analizzati nel 3.4.
Secondo l'impostazione normativista, invece, sono le statistiche sul reddito nazionale a non essere adatte a misurare il benessere in quanto non considerano i progressi che non hanno valore monetario (oppure che sono valutati in forma imperfetta dai prezzi di mercato) e che quindi non contabilizzano i costi e i benefici sociali della crescita economica. I
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normativisti ritengono auspicabile la messa a punto di statistiche sociali atte a misurare i differenti aspetti del benessere in forma diretta e non mediata tramite una trasformazione di tipo monetario; in altre parole auspicano la messa a punto di indicatori cosiddetti normativi che dovrebbero consentire un giudizio sul benessere sociale e rappresentare la base informativa su cui orientare le decisioni di scelta di una collettività. È evidente da questo come la costruzione degli indicatori normativi sia strettamente collegata alla specificazione della funzione del benessere sociale. Gli indicatori sociali riferibili a un’impostazione normativista saranno analizzati nel paragrafo 3.3.
Nell’ambito dell’impostazione soggettivista si attribuisce una grande importanza agli elementi del benessere individuale quali le aspirazioni, le soddisfazioni e le attitudini personali. Questi elementi del benessere possono esser misurati soltanto attraverso testimonianze dirette degli individui, tipicamente utilizzando indagini campionarie. Gli indicatori soggettivi misurano, quindi, gli elementi del benessere attraverso la percezione diretta da parte degli individui. L’impostazione soggettivista viene giustificata, tra l’altro, dal fatto che uno dei motivi più profondi del malessere sociale, anche in presenza di redditi medi elevati, sia costituito dalla separazione tra la reale natura dei bisogni e la natura delle soddisfazioni che vengono proposte. L’origine ultima del benessere
reale
dipende
dal
grado
di
soddisfazione
raggiunto
dall'individuo; non avendo informazioni sulla reale natura dei bisogni delle persone, non si possono proporre delle corrispondenti modalità di soddisfazione e di conseguenza l'insoddisfazione di reali bisogni diminuisce il benessere (Carlucci). Gli indicatori che utilizzano questo approccio sono analizzati nel prossimo paragrafo.
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3.2. Gli indicatori soggettivi
In questa categoria rientrano quegli indicatori che mirano a evidenziare il “benessere
soggettivo”
ovvero
tendono
a
misurare
un
grado
di
soddisfazione psicologica attraverso indagini sulla realtà soggettiva all’interno della quale vivono gli individui. La comprensione del cambiamento sociale e del livello di qualità della vita viene effettuata attraverso il monitoraggio di alcuni fattori chiave socio-psicologici. Occorre precisare che tramite gli indicatori soggettivi non si cerca di raccogliere preferenze individuali sugli stati sociali, perché altrimenti si ritornerebbe alle problematiche di un’impostazione di tipo welfarista (basata sull’individualismo etico), con il teorema di Arrow che impedisce l'espressione di una preferenza collettiva e quindi, in ultima analisi, la misura del benessere sociale. Un sistema di indicatori soggettivi è quindi una forma neutrale di raccolta delle opinioni, dei desideri o dei bisogni in genere di una collettività. Alla base di questi indicatori vi è la convinzione che per capire realmente il benessere degli individui è importante misurare direttamente le reazioni cognitive e affettive dei soggetti durante tutta la loro vita (Diener e Suh, 1997). Nel separare le misure soggettive dalle altre, Veenhoven (2002) effettua una distinzione tra sostanza e valutazione. La sostanza fa riferimento a ciò che deve essere misurato, la valutazione agli attuali metodi di raccolta dei dati. Normalmente si parla di misure oggettive quando queste sono legate a qualcosa che esiste indipendentemente dalla consapevolezza soggettiva e quando la misurazione si basa su criteri espliciti e riconoscibili dagli osservatori esterni; al contrario le misure soggettive cercano di quantificare qualcosa di non facilmente definibile, come la felicità,
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l’identità o la fiducia, ricorrendo a tecniche di misurazione soggettive come l’autovalutazione. Indicatori prettamente soggettivi sono l’Happiness e il Life Satisfaction, nati dagli studi dello psicologo Cantril (1965) e poi ripresi da Easterlin (1974) per formulare il suo Paradosso della Felicità. Attualmente stime annuali per tutti i paesi del mondo sono fornite dal World Database of Happiness. Un indicatore che, invece, combina elementi oggettivi con altri a carattere soggettivo è l’Happy Planet Index (HPI) introdotto nel 2006 dal New Economic Foundation e calcolato per 178 paesi. Questo indicatore combina aspetti ambientali e sociali e per questo può essere utilizzato per valutare la sostenibilità ambientale dello sviluppo umano. Come detto, è basato su due indicatori oggettivi, l’aspettativa di vita alla nascita e l’Ecological Footprint procapite (EF)28, e da un indicatore soggettivo, il Life Satisfaction. Moltiplicando quest’ultimo per l’aspettativa di vita si ottiene il cosiddetto Happy Life Years (HLY) che in pratica rappresenta il grado con cui le persone possono attendersi una “vita lunga e felice”. Dividendo questo risultato per l’Ecological Footprint procapite si ottiene appunto l’HPI. Questo indice quindi non misura la felicità di una nazione rispetto al resto del mondo, ma l’efficienza ambientale nel supportare il benessere e lo sviluppo umano in un determinato paese.
28
L’Ecological Footprint è un indice statistico di sostenibilità calcolato dal WWF e utilizzato per misurare la richiesta umana nei confronti della natura. Essa mette in relazione il consumo umano di risorse naturali con la capacità della Terra di rigenerarle. In altre parole, esso misura l'area biologicamente produttiva di mare e di terra necessaria per rigenerare le risorse consumate da una popolazione umana e per assorbire i rifiuti corrispondenti. Per calcolare l'impronta relativa ad un insieme di consumi si mette in relazione la quantità di ogni bene consumato con una costante di rendimento espressa in kg/ha (chilogrammi per ettaro). Il risultato è una superficie. Per calcolare l'impatto dei consumi di energia, questa viene convertita in tonnellate equivalenti di anidride carbonica, ed il calcolo viene effettuato considerando la superficie di foresta necessaria per assorbire le suddette tonnellate di CO2.
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I dati relativi al 2006 mostrano che i valori più elevati di questo indice si registrano per Vanuatu e per i paesi dell’America Centrale, mentre i Paesi del G8 risultano molto dietro nella graduatoria (Italia al 66° posto, USA al 150°). Mettendo in relazione questo indice con il PIL procapite è stato anche osservato come esista una correlazione positiva per livelli di reddito bassi, fino a 5000 $, mentre superata questa soglia l’HPI inizia a decrescere al crescere del PIL. Un indicatore soggettivo di benessere, simile all’HPI, e spesso citato come esempio di applicazione concreta dell’approccio soggettivista è il
Gross
National Happiness (GNH), voluto a partire dal 1972 dal Re del Buthan, Jigme Singye Wangchuck, per valutare le politiche pubbliche del suo paese. Con questo indice, che utilizza la metodologia dell’autovalutazione individuale, vengono messi a sistema lo sviluppo umano, la governance, la crescita equilibrata, il patrimonio culturale e la conservazione delle risorse naturali. Altro esempio di indicatore soggettivo è il Quality of Life Index sviluppato dall’Economist Intelligence Unit (2004) e calcolato per 111 paesi a partire dal 2005. Anche questo indice lega elementi soggettivi di life-satisfaction con determinanti oggettive della qualità della vita. I nove fattori di qualità della vita utilizzati nel calcolo sono: il benessere materiale (PPP PIL pro capite), la salute (speranza di vita alla nascita), la stabilità politica, il benessere familiare (tasso di divorzi), la vita sociale, il clima, l’occupazione, la libertà politica e le pari opportunità.
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3.3. Gli indicatori sociali Land (1999) definisce gli indicatori sociali come quelle particolari statistiche temporali “… used to monitor the social system, helping to identify changes and to guide intervention to alter the course of social change”. Tutti gli studi relativi agli indicatori sociali normativi affrontano due generiche categorie di problemi di fondo:
− la scelta di quali aspetti considerare come elementi del benessere, sia a livello individuale sia a livello collettivo;
− la
definizione
quantificazione
di
metodologie
degli
aspetti
formali
che
selezionati
e
permettano
una
un’interpretazione
concettualmente compatibile con l’accezione di benessere accolta. Il secondo problema, in particolare, è quello più difficile da affrontare per questa categoria di indicatori, anche in virtù della mancanza di un numerario comune tramite il quale esprimere elementi diversi non misurabili con il metro monetario. L’evoluzione degli indicatori sociali è piuttosto recente anche se i primi studi in tal senso possono essere fatti risalire al periodo della Grande Depressione statunitense. Nel 1930, infatti, alcuni studiosi americani costruirono, a livello di contea, quello che può essere considerato il capostipite degli indici sociali, il Plane Living Index. Per giudicare il livello di vita delle singole contee furono utilizzati tre indicatori, tutti espressi in termini pro capite: l'entità dell'imposta sul reddito, il numero dei telefoni e il numero di apparecchi radio. Ogni variabile veniva standardizzata con il corrispondente indice nazionale e quindi aggregata con le altre mediante una semplice media aritmetica che costituiva quindi l’indice sintetico. Questa l’origine del movimento degli indicatori sociali, sviluppatosi negli anni ’60 sempre negli USA, e diffusosi poi in tutti i Paesi maggiormente
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sviluppati. Il movimento era ispirato dall’idea di base che il benessere reale non fosse completamente catturato dagli indicatori economici, ma doveva tener conto di aspetti quali l’alimentazione, l’abitazione, l’educazione, la salute, le attese di vita, la qualità dell’ambiente, la criminalità e la povertà. Negli anni ’70 diversi paesi leader e organizzazioni internazionali iniziarono a pubblicare le serie storiche degli indicatori sociali; le applicazioni divennero sempre più numerose ed elaborate, e vennero evidenziati due dei principali problemi metodologici riguardanti questa tipologia di indici: la rappresentatività degli indicatori rispetto ai fenomeni reali che avrebbero voluto quantificare e la difficoltà di elaborare una sintesi delle diverse serie di osservazioni. Il movimento per i bisogni di base individuò un paniere di beni che nei paesi in via di sviluppo avrebbero dovuto essere considerati prioritari rispetto allo sviluppo economico. Con la stessa linea di pensiero Morris (1979), al fine di misurare il benessere con un unico valore, costruì l’Indice della qualità della vita fisica (PQLI), formato dalla media non ponderata di indicatori della mortalità infantile, dell’alfabetismo e dell’aspettativa di vita all’età di un anno, misurati ciascuno mediante una scala da zero a cento. Il confronto fra il PQLI e il PIL dimostrò che mentre nei paesi più avanzati la correlazione tra questi due indici era molto alta, nei Paesi con reddito medio-basso i punteggi del PQLI avevano un andamento sostanzialmente diverso da quello del PIL. Uno sforzo più ambizioso di misurare il benessere è stato fatto con l’Indice di sofferenza umana (HSI), pubblicato originariamente dal Population Crisis Committee (1987). Questo indice, pur utilizzando un maggior numero di variabili (dieci, tra cui il Pil procapite) presentava ancora molti limiti concettuali (legati soprattutto alla scelta arbitraria delle variabili e
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all’oggettiva valutazione) che ne spiegano la scarsa diffusione a livello internazionale. A partire dagli anni ’90 si assiste a un nuovo sviluppo nel movimento degli indicatori sociali con l’introduzione di nuovi indici sintetici quali il Weighted Index of Social Progress (WISP). Già nel 1984 Estes aveva sviluppato un indice multidimensionale per misurare il benessere sociale: l'Indice di Progresso Sociale (ISP, Index of Social Progress). Questo indice era stato progettato come tool di valutazione dei cambiamenti nella capacità delle nazioni di provvedere alle esigenze di base dei loro cittadini. La metodologia di aggiornamento proposta dallo stesso Estes (1997) supera l’approccio multidimensionale originario e porta appunto all’Indice Ponderato di Progresso Sociale (WISP) dove i 46 indicatori sociali sono aggregati in 10 sottocategorie prima di arrivare all’indice finale29. In virtù della raffinatezza metodologica usata questo indice può essere considerato uno dei più affidabili nel valutare i cambiamenti dello sviluppo sociale nel corso del tempo. Tuttavia, come osserva Osberg (2001), la sua alta complessità di calcolo sta limitando la sua diffusione. Tra gli indicatori sociali un’attenzione particolare merita lo Human Development Index, il più conosciuto e diffuso a livello internazionale.
3.3.1. Human Development Index Nel 1990 l'UNDP l'Agenzia delle Nazioni Unite per lo Sviluppo pubblicava il primo Rapporto sullo sviluppo umano; da esso emergeva una definizione di 29
I pesi statistici utilizzati per l’aggregazione sono derivati tramite un’analisi fattoriale varimax a due stadi in cui ogni indicatore e sotto-indicatore è analizzato per il suo contributo nello spiegare la varianza associata ai cambiamenti del progresso sociale nel tempo.
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sviluppo umano inteso come “continuo miglioramento delle condizioni che consentono alla popolazione di vivere una vita lunga, sana e creativa”. Nello stesso anno l’economista pakistano Mahbub ul Haq insieme a Richard Jolly, Gustav Ranis e Meghnad Desai sviluppava lo Human Development Index (HDI), un indicatore di sviluppo macroeconomico poi utilizzato dalla stessa agenzia delle Nazioni Unite per valutare la qualità della vita nei paesi membri. L’influenza del pensiero di Sen nella nascita di questo indicatore è evidente sia nella definizione di sviluppo umano, intesa come allargamento delle capacità di scelta delle persone, sia nel considerare l’aumento della ricchezza come un mezzo e non come un fine nella promozione dei due aspetti dello sviluppo umano, “la formazione del capitale umano – con miglioramenti nella salute, nella conoscenza e nelle capacità – e l’uso che la gente fa delle capacità acquisite – per tempo libero, per fini produttivi, culturali o sociali.” (UNDP, 1990, p.10). Nel calcolo dell’HDI vengono presi in considerazione tre aspetti ritenuti importanti per il benessere umano:
− la possibilità di avere una vita lunga e in salute, misurata attraverso l’aspettativa di vita alla nascita;
− il grado di istruzione, misurato attraverso l’indice lordo di iscrizioni scolastiche (con peso 1/3) e il tasso di istruzione degli adulti (con peso 2/3);
− lo standard di vita economico, misurato attraverso il Pil procapite (in dollari USA applicando la parità dei poteri di acquisto); Ciascuna dimensione è valutata attraverso un punteggio compreso tra 0 e 1, ottenuto applicando alle variabili la seguente formula:
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Dimension index= (valore osservato – val. target min)/(val. target max – val. target min.)
I valori minimi e massimi utilizzati nel calcolo sono sintetizzati nella tabella seguente: Variabile Aspettativa di vita Tasso di istruzione PIL procapite
Valore obiettivo minimo 25 anni
Valore obiettivo massimo 85 anni
0%
100%
100 US $ PPP
40000 US $ PPP
Tab. 3 – Valori obiettivo delle variabili utilizzate nel calcolo dell’HDI.
I punteggi ottenuti nelle tre dimensioni sono poi aggregati attraverso una semplice media aritmetica che rappresenta il valore dell’HDI. L’Agenzia per lo Sviluppo dell’ONU fornisce annualmente un ranking basato sull’HDI per 177 paesi. La tabella seguente mostra il punteggio ottenuto nel 2007 da alcuni di questi paesi e la variazione di rank rispetto all’anno precedente:
rank 1 1 3 4 5 6 7 8 9 10
Paese Islanda Norvegia Australia Canada Irlanda Svezia Svizzera Giappone Paesi Bassi Francia
HDI 0,968 0,968 0,962 0,961 0,959 0,956 0,955 0,953 0,953 0,952
Var. ▲1 ▼1 = ▲2 ▼1 ▼1 ▲2 ▼1 ▲1 ▲6
rank 168 169 170 171 171 173 174 174 176 177
Paese Rep. Dem. Congo Etiopia Ciad Rep. Centroafricana Mozambico Mali Niger Guinea Bissau Burkina Faso Sierra Leone
HDI 0,411 0,406 0,388 0,384 0,384 0,380 0,374 0,374 0,370 0,336
Var. ▼1 ▲1 ▲1 ▲1 ▼4 ▲2 ▲3 ▼2 ▼2 ▼1
Tab. 4 – HDI 2007: punteggio e variazione di rank di alcuni paesi.
L’HDI è quindi particolarmente indicato per effettuare confronti sia tra diversi paesi, sia all’interno di uno stesso paese nel corso del tempo. Per la sua semplicità di calcolo e il meccanismo di ranking utilizzato, inoltre, risulta essere facilmente comprensibile al grande pubblico. Come sottolinea
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Bagolin (2004) questo indicatore ha senza dubbio avuto il merito di aumentare la consapevolezza verso il concetto di sviluppo umano. Nonostante questo però l’HDI si rivela poco adatto a essere utilizzato nella teoria economica; numerose sono state infatti le critiche mosse verso questo indicatore. In primo luogo esso non considera molti aspetti del benessereumano, come ad esempio i diritti umani, la sicurezza e la partecipazione politica (si veda a proposito Anand e Sen (1992) e Ranis, Stewart e Samman (2006)). In secondo luogo la metodologia di calcolo utilizzata implica la possibilità di sostituzione tra i tre indici dimensionali; ad esempio una riduzione nell’aspettativa di vita può essere compensata da un aumento del reddito procapite30. Legate a questo aspetto anche le critiche che accusano l’HDI di usare un sistema di pesi arbitrario, dove a ogni variabile considerata è riconosciuta la stessa importanza relativa (si veda Kelley (1991), Srinivasan (1994) e Ravallion (1997)). Inoltre l’indice non include considerazioni di carattere ecologico e ambientale e per tale motivo non può essere impiegato per valutare la sostenibilità dello sviluppo. Anche l’HDI, al pari del PIL non tiene inoltre conto della distribuzione dello sviluppo umano all’interno dei singoli paesi (Sagar e Najam (1998)). A tal proposito, per introdurre considerazioni equitative, sono state proposte delle correzioni all’HDI attraverso suddivisioni in classi di reddito (Grimm e altri (2007)). Infine occorre ricordare che lo Human Development Index è stato concepito per misurare il progresso in paesi non ancora sviluppati, e per questo il potere esplicativo in paesi che presentano uno stadio di sviluppo più avanzato risulta essere limitato. In questi paesi infatti il tasso di istruzione degli adulti è già vicino al 100% e anche l’aspettativa di vita alla nascita, molto simile tra i vari paesi, è vicina ai livello obiettivo massimo. Quindi in 30
È stato messo in evidenza il paradosso relativo ad una situazione in cui l’aumento della mortalità nella popolazione più povera produce un incremento del reddito medio con la possibilità di aumento dell’HDI.
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questi paesi le variazioni di benessere dipenderebbero quasi esclusivamente da variazioni del reddito procapite, con problematiche simili a quelle viste per il PIL.
3.4. Gli indicatori di contabilità estesa
È possibile distinguere due ragioni fondamentali per estendere la contabilità economica tradizionale. In primo luogo alcune modifiche sono apportate per correggere errori metodologici, come la mancata considerazione del deprezzamento del capitale (che ha portato al calcolo del prodotto interno netto) o degli aspetti ambientali (che ha portato alla creazione di sistemi di contabilità ambientale satellite, come il SEEA). La seconda ragione per estendere la contabilità tradizionale è quella di fornire una misura del benessere teoricamente più fondata. Tipicamente i sistemi di contabilità estesa partono dal nucleo del Sistema di Contabilità Nazionale (SNA), e apportano aggiustamenti ai conti relativi al consumo e al capitale: alcuni beni e servizi che non sono considerati come consumo finale, ma come spese difensive, vengono eliminati, mentre viene attribuito un valore economico a fonti di benessere esterne al mercato (lavoro domestico, tempo libero, ecc.). Tra gli antesignani di questo tipo di contabilità si annoverano Kendrick (1967) e Sametz (1968) ma il saggio che per primo riporta una metodologia approfondita è quello elaborato da due economisti di Yale, Arthur Tobin e William Nordhaus, che costruirono il MEW (Measure of Economic Welfare) applicando delle correzioni al Prodotto Nazionale Lordo.
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3.4.1. Measure of Economic Welfare (MEW) Nel loro celebre lavoro “Is Growth Obsolete?”, Nordhaus e Tobin (1972) partono dalla considerazione che il PNL è una misura della produzione, mentre il benessere economico dipende dal consumo; pertanto occorre innanzitutto separare il consumo dall’investimento e dalle spese intermedie. In tal modo viene esclusa a priori la spesa pubblica, parte della quale è già classificata come investimento, mentre la rimanente va considerata di carattere intermedio e/o difensivo (spese per forze dell’ordine, difesa nazionale, sanità, manutenzione delle infrastrutture). Gli stessi autori, però, ritengono giustamente che non tutte le componenti del consumo privato apportino un contributo positivo al benessere degli individui. Come visto nel secondo capitolo, vi sono delle spese quali quelle sanitarie o in istruzione che è più opportuno classificare come investimenti (di capitale umano) o come spese difensive. Anche le spese di trasporto sostenute dai pendolari per recarsi al lavoro, non contribuendo al benessere, vengono pertanto sottratte dal consumo e riclassificate come intermedie. Un’analoga sottrazione viene effettuata anche per i costi indotti dal processo di urbanizzazione. Gli autori sottolineano, infatti, che molte delle esternalità negative prodotte dalla crescita economica sono più evidenti nella vita urbana, e perciò “… una parte dei redditi più alti dei residenti nelle città può rappresentare semplicemente una compensazione per gli aspetti spiacevoli della vita e del lavoro urbani” (Nordhaus e Tobin, 1972, p. 13). Nel MEW, inoltre, la spesa per beni di consumo durevoli è considerata come investimento, compensando però la conseguente detrazione dai consumi con l’aggiunta del valore stimato del flusso di servizi resi annualmente dallo stock esistente di tali beni. Il consumo viene anche rivalutato con l’aggiunta del valore dei beni e servizi esterni al mercato e di quello relativo al tempo
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libero. Dunque, in sostanza, gli autori propongono di modificare il consumo nazionale, da un lato riclassificando alcune voci di spesa e dall’altro imputando il valore di determinati fattori di benessere ignorati dalla contabilità nazionale.
3.4.2. Contabilità ambientale, Green GDP e Genuine Saving Le correzioni proposte dalle ricerche di Nordhaus e Tobin riguardano essenzialmente il benessere economico, mentre trascurano quasi del tutto la sostenibilità ambientale. Nella letteratura successiva prevale invece l’opinione che la correzione del PIL debba partire dalla sostenibilità e ciò non solo perché è cresciuta la consapevolezza dei problemi ambientali, ma anche per ragioni teoriche. Infatti, data l’impossibilità di precisare in modo oggettivo e univoco il concetto di benessere, qualsiasi correzione in questo senso non può che basarsi su giudizi di valore. Al contrario, l’aggiustamento in chiave di sostenibilità si basa sulla nozione di reddito alla Hicks che è teoricamente ben definita, anche se non è così semplice da rendere operativa. Un possibile aggiustamento del PIL per tenere conto almeno in parte del degrado ambientale è quello proposto da Pearce et al. (1989), che suggerisce di detrarre dal PIN il deprezzamento del capitale naturale, le spese sostenute per prevenire o riparare danni all'ambiente e alla salute e il valore dell'inquinamento residuo. Proposte molto simili nella sostanza sono state avanzate da altri autori, tra cui Daly (1989) e Hueting et al. (1991). I problemi da superare a tale riguardo si riferiscono soprattutto alla mancanza di informazioni sull’entità fisica dei danni ambientali e alla non uniformità dei metodi di valutazione economica dei danni stessi. Il primo ordine di difficoltà può essere superato solo attraverso l’attuazione di una contabilità
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in termini fisici del patrimonio naturale, mentre il secondo richiede una scelta politica a favore di quella metodologia che raccolga i maggiori consensi in ambito scientifico e/o rifletta meglio il concetto di sostenibilità a cui ci si intende riferire. La necessità di quantificare al meglio l’impatto ambientale della produzione e, più in generale, di descrivere il collegamento tra ambiente ed economia ha condotto alla progettazione di vari schemi di contabilità ambientale, sia per iniziativa di singoli Paesi, sia a livello sovranazionale, tra cui meritano di essere citati il SEEA (Sistema Integrato di Contabilità Ambientale ed Economica), elaborato dall’ufficio statistico delle Nazioni Unite e il SERIEE (Sistema
Europeo
per
la
Raccolta
dell’Informazione
Economica
sull’Ambiente), costruito dall’EUROSTAT. Questi schemi contabili sono definiti sistemi di contabilità satellite perché, pur lasciando intatto il nucleo della contabilità nazionale, sono a esso raccordabili. L’istituzione di questi sistemi di contabilità ambientale, oltre ad avere importanza in sé, ha permesso la costruzione dei primi indicatori sintetici in grado di correggere il PIL in senso ecologico. Infatti, nonostante la posizione dominante nell’ambito della statistica ufficiale sia ancora quella di escludere l’elaborazione di simili aggregati, a causa delle difficoltà teoriche connesse alla valutazione economica dei danni ambientali (United Nations,1993; Costantino, 1996) alcuni studiosi ritengono questi problemi non tali da pregiudicare il calcolo del PIL “verde”, sottolineando il fatto che la contabilità nazionale fa già largamente ricorso a imputazioni e valutazioni arbitrarie (Ekins, 1995). Il Green GDP è quindi un indice di crescita economica che incorpora le conseguenze ambientali della crescita stessa, considerando deterioramento delle risorse naturali e inquinamento ambientale.
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Le prime applicazioni concrete di questo indice sono state fatte in Cina, dopo che nel 2004, il Premier Wen Jiabao aveva annunciato l’intenzione di voler adottare la versione verde del PIL come strumento guida nelle decisioni del Partito Comunista Cinese. Il primo rapporto sul Pil verde cinese, rilasciato nel settembre 2006 dallo State Environmental Protection Administration (SEPA) e dal National Bureau of Statistics (NBS), indica che i costi dell’inquinamento ambientale in Cina ammontano a 64 bilioni di dollari nel 2004, pari al 3,05% della produzione annuale, mentre nella provincia settentrionale di Shanxi, il centro della produzione carbonifera, i costi ambientali rappresentano addirittura più del 33% del relativo PIL. Naturalmente anche questo indice soffre la mancanza di criteri standard di valutazione dei danni ambientali; in particolare risulta difficile quantificare il valore della perdita di benessere relativa a danni alla salute e all’ecosistema quando questi sono differiti nel tempo o dipendono dalle esternalità negative che un paese subisce dall’esterno. Un altro indicatore che cerca di dare risalto all’aspetto ambientale, apportando integrazioni e rettifiche agli schemi di contabilità tradizionali, è il Genuine Saving (GS) messo a punto dalla Banca Mondiale. Hamilton (2000) propone di utilizzare questo indice come indicatore di sviluppo economico sostenibile. Il GS, infatti, rivede il concetto di risparmio lordo, la tradizionale misura dell’accumulazione di ricchezza di un paese (derivata dal prodotto nazionale lordo dedotti i consumi pubblici e privati), integrando nel concetto di accumulazione anche il capitale umano e naturale. Il Genuine Saving rappresenta, in termini monetari, l’investimento in capitale fisico e umano meno il valore dello sfruttamento delle risorse naturali e dell’accumulo di inquinanti. Il Genuine Saving è derivato dal risparmio lordo deducendo il deprezzamento del capitale fisico, il valore dello sfruttamento
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delle risorse non rinnovabili, il valore dei danni da inquinamento e considerando come investimento in capitale umano le spese per l'educazione. La Banca Mondiale calcola questi dati come percentuale sul Prodotto Nazionale Lordo. In questo modo l’indice si sostanzia in un singolo valore che può assumere valori positivi o negativi; risultati negativi persistenti indicano che il paese non sta seguendo un percorso di sviluppo sostenibile. Anche questo indice tuttavia presenta dei limiti legati alla mancanza di dati e criteri di valutazione ambientale oltre che all’esclusione di diversi aspetti rilevanti ai fini del benessere, come ad esempio il grado di diseguaglianza sociale.
3.4.3. L’Index of Sustainable Economic Welfare (ISEW).
Il MEW di Nordhaus e Tobin ha dato vita, oltre che al filone prettamente ambientale appena descritto, anche a nuovi studi che, sempre con l’approccio della contabilità estesa, hanno cercato di costruire un indicatore sintetico di benessere che prendesse in considerazione il maggior numero di aspetti possibili. Zolotas (1981) ad esempio sviluppò la metodologia del MEW integrando elementi di sostenibilità e pervenendo alla misura dell’Economic Aspects of Welfare (EAW). Partendo da questi primi lavori nel 1989 Daly e Cobb costruiscono l’Index of Economic Welfare (ISEW). Anche l’ISEW parte dalle spese per il consumo personale e integra questo dato con una serie di fattori quali la distribuzione
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del reddito, la variazione del capitale netto, il deperimento delle risorse, i danni ambientali e il valore del lavoro domestico. Nel 1995 gli studiosi del Redefining Progress elaborano ulteriormente l’impianto dell’ISEW e giungono a una nuova misura di benessere: il Genuine Progress Indicator. Questo indicatore aggiunge alla misura nuove categorie come il valore del volontariato, la perdita di tempo libero e i costi relativi a crimine e disoccupazione. Nonostante queste differenze metodologiche i due indici sono considerati equivalenti dal punto vista teorico. Essi verranno analizzati in dettaglio nel prossimo paragrafo.
3.5. L’ISEW e il Genuine Progress Indicator
3.5.1. Aspetti teorici Per comprendere i fondamenti teorici di questi due indici è importante chiarire cosa essi misurano esattamente. Riassumendo la letteratura, Asheim (2000) identifica tre tipologie di concetti impliciti in queste misure:
− il reddito sostenibile − il welfare equivalent income − il profitto sociale netto Il reddito sostenibile fa riferimento alla basilare nozione di Reddito alla Hicks. Il principio centrale per la definizione di questo concetto è ben chiaro nelle parole dello stesso Hicks (1939):
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- Indicatori alternativi di benessere -
“we ought to define a man’s income as the maximum value which he can consume during a week, and still expect to be as well off at the end of the week as he was at the beginning”. La nozione di reddito hicksiano, come già detto, è sostenibile per definizione e l’espressione “reddito sostenibile” è superflua. Per arrivare a una adeguata misura del reddito alla Hicks la contabilità ambientale, così come l’ISEW e il GPI, deducono dal valore del reddito classico misurato dal PIL il deprezzamento del capitale naturale e materiale e le spese difensive. ISEW e GPI incorporano inoltre tutti e tre i domini di sostenibilità, quello economico, quello sociale e quello ambientale. Prendendo ad esempio la metodologia del GPI il dominio economico è composto dalle spese per consumi personali, dal flusso di servizi derivante dai beni durevoli, dagli investimenti netti in capitale e dall’indebitamento netto estero. Il dominio ambientale imputa costi legati all’inquinamento di aria, acqua e terreno, alla perdita di foreste e zone umide, e al depauperamento delle risorse energetiche. Il dominio sociale considera i benefici del volontariato, del lavoro domestico e dell’istruzione di livello superiore e i costi relativi a crimine, disuguaglianza, traffico e incidenti stradali. Ma il concetto di reddito implicito in questi due indici è addirittura più ampio di quello proposto da Hicks; il welfare equivalent income, infatti, fa riferimento al concetto di benessere associato con le attività di consumo, il cosiddetto “psychic income” definito da Fisher (1906). Per Fisher la ricchezza di una nazione non è data dai beni prodotti in un particolare anno, ma dai servizi goduti dai consumatori finali e derivanti dai beni prodotti dall’uomo. La definizione originaria proposta da Fischer è stata successivamente estesa per includere oltre il capitale artificiale anche quello naturale e umano. Riconoscendo il fatto che il processo di crescita
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coinvolge numerose attività “negative”, il cui consumo non migliora il benessere degli individui, il concetto di Psychic Income deve essere considerato in un’accezione “al netto”. Coerentemente con questa definizione di reddito, i sistemi contabili dei due indici considerati in primo luogo isolano le spese per il consumo personale rimuovendo il valore monetario speso per acquistare, mantenere o sostituire i beni durevoli e successivamente effettuano una serie di integrazioni e deduzioni che riflettono le esternalità positive o negative associate al consumo. Il profitto sociale netto è una misura dell’efficacia politica. L’analisi di questa misura può essere considerata come una versione estesa dell’analisi costibenefici che utilizza il reddito equivalente e il reddito sostenibile in sostituzione
del
reddito
misurato
dal
PIL.
Pertanto
l’utilizzo
di
aggiustamenti contabili nell’analisi del profitto sociale netto fornisce una misura alle implicazioni di benessere e di sostenibilità dei cambiamenti di policy (Asheim, 2000). In particolare il profitto sociale netto è dato dalla differenza tra il valore dell’indice con e senza quella particolare scelta di policy. Se il profitto sociale netto è positivo il cambiamento proposto incrementa il benessere; se negativo indica che i costi sociali eccedono i benefici. Come osserva Lawn (2003) l’ISEW e il GPI misurano “il benessere di cui gode una nazione in un particolare momento dato l’impatto delle attività presenti e passate”. Occorre infine ricordare le metodologie di calcolo dei due indici sono costruite utilizzando altri importanti riferimenti teorici, come il concetto di spese difensive, l’avversione verso la disuguaglianza o la sostituibilità tra attività di mercato e attività non di mercato di cui si è già ampiamente discusso in precedenza.
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3.5.2. Metodologia di calcolo
L’ ISEW fu sviluppato originariamente negli anni ‘80 da Herman Daly e John Cobb e prende in considerazioni aspetti ambientali, economici e sociali. La metodologia fondamentale per l'ISEW può essere riassunta come segue (Jackson e altri, 1997) :
+ + + =
Consumo personale Perdite dall'ineguaglianza di reddito Valore del lavoro domestico Spese pubbliche non difensive Spese difensive private Aggiustamenti al valore del capitale Costi al degrado ambientale Deprezzamento del capitale naturale ISEW Tab. 5 – Metodologia di calcolo dell’ISEW in sintesi.
La diseguaglianza reddituale è contabilizzata supponendo che lo stesso ammontare di denaro addizionale fornisce maggiore benessere a un individuo povero rispetto a uno ricco. I consumi privati sono quindi ponderati tenendo conto del grado di disuguaglianza. L'ISEW originale utilizza il coefficiente di Gini per adattare le spese personali, mentre studi successivi favoriscono l’uso dell’ Indice di Atkinson (per esempio Jackson e Stymne, 1996), che dichiara esplicitamente la preferenza per una distribuzione uguale di reddito. Gli stessi autori sottolineano l’esistenza di problemi legati alla definizione di mano d’opera familiare, alla sua misurazione e alla sua valutazione. I servizi del lavoro domestico, sono valutati moltiplicando il numero di ore annue impiegate in tali attività per un prezzo ombra pari alla retribuzione media oraria delle collaboratrici domestiche.
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Le spese pubbliche sono considerate principalmente difensive: solo la metà delle spese d’istruzione superiore e si quelle per la salute sono considerate migliorative del livello di benessere corrente. L’ISEW inoltre aggiunge il valore dei servizi erogati dal settore delle infrastrutture; ad esempio i servizi della rete stradale, sono valutati moltiplicando per un tasso di rendimento stimato il valore dello stock netto di rete stradale (ipotizzando che solo i ¾ di esso contribuiscano al benessere). Ulteriori detrazioni vengono apportate per le altre spese difensive; in particolare sono sottratte le spese relative a incidenti stradali e i costi indotti dall’urbanizzazione e dal pendolarismo. Le spese difensive ambientali comprendono i costi per l’inquinamento di acqua e aria, per l’inquinamento acustico, la perdita di zone umide e terreni agricoli, l’esaurimento delle risorse energetiche e minerarie non rinnovabili e i danni ambientali di lungo termine, stimati ipotizzando che la loro entità sia direttamente proporzionale al consumo di energie non rinnovabili. Gli aggiustamenti al valore del capitale si rendono necessari per un corretto trattamento dei beni durevoli e per tener traccia della crescita del capitale netto. Per quanto riguarda i beni durevoli, il loro costo di acquisto è sottratto dall’aggregato, mentre una quota di ammortamento annuo viene imputata con valore positivo per tutta la durata della vita utile dei beni stessi. Per calcolare la crescita del capitale netto Daly e Cobb introducono il concetto di “growth requirement”, definito come la crescita del capitale necessario a compensare il relativo deprezzamento e la crescita della popolazione. La crescita annua del capitale netto è data dalla differenza tra l’aumento totale di capita e il “growth requirement”. Gli autori invece escludono volontariamente dal calcolo elementi quali il capitale umano e il tempo libero. Pur riconoscendo l’importanza del capitale umano essi sostengono che i criteri di valutazione degli input, quali spese
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mediche e istruzione, necessari a mantenere costante il flusso di capitale umani, è discutibile. Discorso analogo per il tempo libero, a cui è difficile fornire un valore oggettivo. Nel 1995 il Redefining Progress apporta alcune modifiche alla metodologia dell’ISEW per correggerne alcuni limiti o per meglio stimare alcune variabili del benessere. Gli elementi utilizzati da questi studiosi per calcolare il GPI negli Stati Uniti dal 1950 al 1995 sono rappresentati in dettaglio nella tabella seguente:
-/+ + + + + -/+ -/+ =
Spesa per il consumo personale Indice di disuguaglianza reddituale Spesa per il consumo personale ponderata Costo dei beni durevoli Servizi forniti dai beni durevoli Servizi forniti da strade e autostrade Servizi forniti dal volontariato Valore del lavoro domestico Costi per inquinamento acustico Costi di commuting Costi per crimine Costi per sottooccupazione Perdita di tempo libero Costi di abbattimento inquinanti Costi per incidenti stradali Costi per divorzi Investimento in capitale netto Indebitamento estero netto Perdita di terreni agricoli Deterioramento delle risorse naturali Costi di deterioramento dell’ozono Costi per inquinamento dell’aria Costi per inquinamento dell’acqua Costi ambientali di lungo periodo Perdita di zone umide Perdita di foreste
Genuine Progress Indicator Tab. 6 – Metodologia di calcolo del GPI.
Le principali innovazioni rispetto all’indice di Daly e Cobb riguardano l’inclusione del lavoro volontario, della perdita per il tempo libero e dell’indebitamento
estero
netto
oltre
sottooccupazione.
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che
dei
costi
relativi
alla
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Si assiste anche a una migliore definizione delle spese difensive, dove ad esempio vengono contabilizzati anche i costi per il crimine, per il dissolvimento familiare e i danni all’ozono. Si può quindi affermare che pur rispettando pienamente lo spirito con cui è stato costruito l’ISEW, il Genuine Progress Indicator rappresenta un miglioramento metodologico rispetto a quest’ultimo che lo rende più adatto a misurare il benessere collettivo di una nazione. D’altro canto anche la metodologia sviluppata dal Redefining Progress non è esente da critiche e può essere ulteriormente implementata grazie all’adozione di adeguati sistemi di contabilità. In mancanza di questi infatti numerose variabili sono calcolate con procedimenti di stima che possono avere anche un carattere discrezionale, come dimostrano le diverse applicazioni empiriche, dove la metodologia è stata spesso modificata per far fronte alla carenza di dati in alcuni paesi.
3.5.3. I risultati
Da quanto finora detto appare chiaro come allo stato attuale, per questi indici, non esistano sistemi affermati di misurazione, con la definizione di standard e criteri di valutazione stabiliti unanimemente. Le diverse stime empiriche esistenti si devono quindi al lavoro di singoli ricercatori che hanno tentato di riprodurre la metodologia originaria per quantificare il benessere di determinati paesi; queste stime quindi non possono essere considerate pienamente equivalenti per la presenza di alcune divergenze metodologiche o per la non omogeneità dei dati utilizzati. Tuttavia appare interessante fornire una breve sintesi dei risultati ottenuti da questi studi
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- Indicatori alternativi di benessere -
anche per valutare l’andamento degli indici di benessere in relazione al classico Prodotto Interno Lordo. A tale proposito un’ipotesi molto popolare nell’ambito dell’Economia Ambientale è quella avanzata da Max-Neef (1995) e che va sotto il nome di “Threshold Hypothesis”. Secondo questa visione sembrerebbe esserci un periodo in cui la crescita economica (come tradizionalmente misurata attraverso il PIL) si accompagna a un miglioramento della qualità della vita, ma solo fino a un certo punto – detto “punto di soglia” – oltre il quale, se la crescita economica continua, la qualità di vita peggiora. E questo in virtù di costi sociali e ambientali non più sostenibili che influiscono negativamente sul benessere presente e futuro. Dal confronto tra PIL e indicatori di sostenibilità come l’ISEW e il GPI è possibile verificare se le evidenze empiriche confermano o meno l’ipotesi di Max-Neef. Le stime utilizzate in questa analisi sono quelle calcolate per Australia (Hamilton, 1999), Austria (Stockhammer e al., 1997), Cile (Castaneda, 1999), Italia (Guenno e Tiezzi, 1998), Pesi Bassi (Rosenberg e al., 1995), Svezia (Jackson and Stymne, 1996), Germania (Diefembacker, 1991) e Stati Uniti (Cobb e al., 2001). Gli studi relativi all’Australia e agli Stati Uniti sono stati realizzati con la metodologia del GPI, gli altri con quella dell’ISEW. I risultati di queste stime sono rappresentate nei grafici della figura 7, dove le serie storiche degli indicatori alternativi (in nero) sono poste in relazione con quelle del corrispondente PIL (in rosso).
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- Indicatori alternativi di benessere -
Fig. 7 â&#x20AC;&#x201C; Serie storiche di ISEW/GPI e PIL per gli otto paesi considerati.
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- Indicatori alternativi di benessere -
È possibile notare come in tutti i paesi il valore dell’indicatore alternativo sia stata quasi sempre inferiore a quello del reddito pro-capite; ma questa situazione può essere ritenuta fisiologica poiché le correzione di segno negativo che questi indici apportano al PIL di norma prevalgono su quelle di segno positivo. Risulta evidente anche come nella maggior parte dei casi i due indicatori abbiano seguito un processo di crescita analogo nel corso del tempo, e proprio questo andamento conferma la percezione comune che nel secondo dopoguerra vedeva la crescita economica essere accompagnata da un effettivo miglioramento della qualità della vita. Percezione che aveva portato a ritenere il Prodotto Interno Lordo un buon approssimatore della misura del benessere di una nazione. Tuttavia i grafici evidenziano anche che a un certo punto il divario tra i due indici inizia ad aumentare e in molti paesi le due misure addirittura divergono,
facendo
registrare
una
diminuzione
del
well-being
in
corrispondenza di un continuo aumento del benessere economico misurato dal PIL. I dati presi in considerazione, così come quelli di altri studi analoghi svolti in altre nazioni o a livello locale31, sembrerebbero quindi confermare l’ipotesi proposta da Max-Neef, relativa all’esistenza di un punto soglia oltre il quale la crescita del reddito produce effetti negativi sul benessere sociale. Osservando i dati relativi all’Italia risulta invece che l’ISEW ha continuato a crescere durante tutti gli anni ’80, sia pure a un tasso decrescente. Questo può essere spiegato dal fatto che la perdita di risorse esauribili risulta piuttosto contenuta e di minore importanza rispetto alle altre variabili ambientali. L’Italia è, infatti, un Paese piuttosto povero di questo tipo di risorse e come tutti i Paesi più industrializzati, tende a consumare le risorse 31
Andamenti analoghi si registrano per gli stessi indici calcolati nel Regno Unito (Jackson e al., 1997), in Thailandia (Clarke e Islam, 2004), ad Alberta (Anielski, 2001) e attraverso una procedura semplificata in Belgio (Bleys, 2005).
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- Indicatori alternativi di benessere -
di altri, principalmente dei Paesi in via di sviluppo. Ciò non viene registrato dall’ISEW e questo rappresenta un difetto di tale indice, perché si può avere l’impressione che lo sviluppo di un Paese sia sostenibile solo per il fatto che esso importa la quasi totalità di materie prime ed energia, mentre l’inquinamento da esso prodotto, magari, ricade soprattutto sui Paesi confinanti32.
Sotto questo punto di vista il Genuine Progress Indicator
appare più adatto a superare questo problema perché le importazioni di materie prime aumentano l’indebitamento netto estero e di conseguenza riducono il valore del GPI. Negli Stati Uniti, il paese che registra il maggior divario tra GPI e il PIL, la differenza tra i due indici è data soprattutto da un aumento esponenziale del deterioramento ambientale, la cui principale componente è rappresentata dalle emissioni in atmosfera. In tutti i paesi quindi questi indici evidenziano percorsi di sviluppo non sostenibile, con un peggioramento della qualità della vita o comunque con una crescita del benessere ben al di sotto di quella rappresentata dal Prodotto interno Lordo. L’adozione di questi indicatori consentirebbe di calibrare al meglio le politiche di intervento volte a migliorare il benessere di una
collettività.
Il
reddito
in
quanto
tale,
invece,
non
fornisce
un’informazione completa se non si comprende in che modo esso viene prodotto, se attraverso componenti che migliorano la qualità della vita delle persone, o se, al contrario, con elementi che riducono il benessere individuale e collettivo. Per questo motivo, per la maggior completezza di informazione e per la minore soggettività rispetto ad altri indicatori il GPI appare il più adatto a sostituire il Prodotto Interno Lordo anche nella teoria economica e nello sviluppo dei relativi modelli empirici. 32
Modifiche per ovviare a questo problema sono state proposte dal WWF (1992).
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- Indicatori alternativi e scelte di policy -
4. Indicatori alternativi e scelte di policy
Gli indici descritti nel capitolo precedente si propongono quindi di misurare il benessere di una collettività in modo più accurato di quanto non faccia attualmente il Prodotto Interno Lordo. Se questo è vero, sarebbe auspicabile utilizzare questi indicatori, o almeno quelli più completi da un punto di vista teorico, anche come strumenti di guida nelle decisioni di politica economica e in tutti quegli studi empirici che si propongono di verificare l’impatto di determinate scelte in termini di sviluppo e miglioramento del benessere. Obiettivo di questo capitolo è proprio quello di verificare le concrete possibilità di utilizzo degli indicatori precedentemente analizzati come strumenti di policy pubblica. In particolare verranno analizzati alcuni semplici modelli di crescita per capire quali sono le differenti implicazioni che si hanno sostituendo il Prodotto Interno Lordo con un indice alternativo di benessere. Per le ragioni espresse in precedenza i confronti con il PIL verranno effettuati ricorrendo a modelli che adottano l’ISEW/GPI come sostituto. Occorre innanzitutto sottolineare che in campo economico non tutti sono ancora d’accordo sulla concreta possibilità di impiego di questi indici. Neumayer (1999), ad esempio, sostiene una “policy irrelevance” del GPI, in virtù di alcuni dubbi metodologici legati a possibili aspetti soggettivi inclusi nel suo calcolo. E ancora Carson e Young (1994) osservano:
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- Indicatori alternativi e scelte di policy -
…a single dimension, aggregate measure of sustainable welfare will be of little direct use in guiding, shaping, or choosing among government policies because the factors determining welfare cannot be reduced and combined into a single measure that would command widespread agreement and acceptance. Altri, invece, sostengono che anche misure approssimate di benessere, quali possono essere l’ISEW e il GPI, sono pur sempre preferibili all’utilizzo della sola crescita economica quale obiettivo-guida per le politiche pubbliche. Anielski (2001) ritiene che il sistema di contabilità del GPI fornisce informazioni essenziali nel prendere decisioni di politica economica attraverso un approccio integrato e olistico, perché comprende ogni possibile area di intervento governativa. Come in precedenza ricordato anche Asheim (2000) in “Theories, Principles, and Critiques” si esprime a favore della rilevanza di questi indici, associando a essi i concetti di welfare equivalnt income, reddito sostenibile e profitto sociale netto; mentre Hanley (2000) ritiene che l’ISEW può essere utilizzato in combinazione con gli indicatori economici tradizionali per creare un più appropriato sistema di valutazione a disposizione dei decisori politici.
4.1. Alcuni esempi
4.1.1. Apertura dei mercati
Il dibattito sugli effetti dell’apertura dei mercati e della globalizzazione sullo sviluppo economico ha avuto inizio negli anni ’90, quando l’Organizzazione
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- Indicatori alternativi e scelte di policy -
Mondiale per il Commercio ha aumentato il ritmo delle liberalizzazioni nel commercio internazionale. Gli studi empirici tradizionali finora svolti hanno prodotto, però, risultati contrastanti. Un certo numero di ricerche evidenzia una relazione positiva tra crescita economica e apertura di un’economia agli scambi internazionali sia di beni che di capitali. Dar e Amirkhalkhali (2003), ad esempio, sostengono che l'espansione delle esportazioni aumenta il tasso di crescita economica per mezzo del suo impatto sulla produttività totale dei fattori produttivi. Di segno opposto altri studi che ipotizzano un deterioramento delle condizioni ambientali e sociali all’aumento del grado di apertura dei mercati33. Le ricerche empiriche che legano un maggior grado di openness a più alti tassi di crescita si basano quasi esclusivamente sul PIL e su misure a esso connesse, mentre gli studi che documentano gli effetti negativi di un’eccessiva
apertura
dei
mercati
si
rivolgono
a
misure
non
tradizionalmente utilizzate nei modelli di crescita. Talberth e Bohara (2006) suggeriscono di affrontare il problema utilizzando le serie storiche di ISEW e GPI al fine di superare il divario tra le differenti teorie. Questi indici, infatti, forniscono una misura più accurata del benessere, affrontando esplicitamente i principali fattori di critica del PIL, ma allo stesso tempo focalizzano l’attenzione su componenti, come la spesa per consumi finali, coerenti con i tradizionali concetti economici di crescita. Utilizzando dati panel relativi a otto paesi in cui erano stati calcolati i due indici (Australia, Austria, Brasile, Gran Bretagna, Italia, Paesi Bassi, USA, e Svezia) e un modello di produzione aggregata, essi individuano una forte correlazione negativa tra il grado di openness e il benessere misurato Si vedano, ad esempio, i lavori di Baten e Fraunholz (2004) che analizano gli effetti della globalizzazione sulla disparità di reddito e di Managi (2004) che ricollega l’aumento delle emissioni inquinanti al grado di apertura dei mercati.
33
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- Indicatori alternativi e scelte di policy -
attraverso gli indicatori alternativi, mentre la presenza di effetti non lineari sta a indicare che fino a un certo punto l’aumento del grado di apertura ha effetti positivi sullo sviluppo. Poiché nei modelli tradizionali la crescita è assunta essere una funzione degli stock di capitale fisico e umano Talberth e Bohara utilizzano quali variabili esplicative il gross fixed capital formation e il dependency age ratio, oltre che il grado di apertura dei mercati. Riprendendo i risultati di questo lavoro Talberth, Cobbs e Slattery (2007) verificano, utilizzando i dati relativi agli Stati Uniti, il seguente modello di crescita: GGPI t=α0 + α1 DGFCF t+ α2 DOPEN t+α3 DOPEN2 t+ α4 DADR t + u t dove GGPI è il tasso di crescita del GPI nell’anno t, DGFCF, DOPEN, DADR sono rispettivamente le variazioni annuali del tasso di formazione del capitale fisso lordo, del grado di apertura dei mercati, e dell’age dependency ratio, mentre ut è il termine di errore. Il termine quadratico relativo all’openness è incluso per tener conto di eventuali effetti non lineari. I risultati del modello sono sintetizzati nella tabella seguente:
Variabile dipendente: GGPI 35 osservazioni Variabile indipendente
Coefficiente
Statistica-t
Significatività
Costante DOPEN DOPEN2 DGFCF DDADR
0,03 -1,00 6,13 1,14 -9,00
6,73 -3,12 1,84 2,33 -3,03
*** *** * ** **
Tab. 7 – Risultati della stima del modello di openness.
Anche questo modello conferma l’esistenza di una relazione negativa tra il livello di benessere e il grado di apertura dei mercati, e la presenza di effetti
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- Indicatori alternativi e scelte di policy -
quadratici in virtù dei quali bassi livelli di openness sono comunque positivi ai fini del welfare. I risultati quindi contrastano con gli studi tradizionali che prendono come riferimento la crescita misurata dal PIL e forniscono un supporto empirico alla letteratura che associa una maggiore apertura dei mercati a degrado ambientale, disuguaglianza reddituale e attività economiche che non producono nuovo benessere. Il modello inoltre suggerisce un approccio più cauto anche verso politiche di liberalizzazione dei mercati, che potrebbero rivelarsi controproducenti dopo una certa soglia.
4.1.2. Politiche di riduzione fiscale
Lo stesso lavoro di Talberth, Cobbs e Slattery (2007) affronta con lo stesso approccio anche un altro importante problema economico, quello della riduzione del carico tributario. Nel contesto delle teorie di crescita tradizionali generalmente di afferma che una riduzione della pressione fiscale stimola la crescita di lungo periodo attraverso diversi canali. Tagli fiscali incoraggerebbero gli investimenti, la formazione della forza lavoro e la ricerca, aumenterebbero i consumi, e sposterebbero lavoro e capitale in settori altamente produttivi (Engen e Skinner, 1996). D’altra parte i tagli fiscali possono danneggiare la crescita economica se non accompagnati da una commisurata diminuzione della spesa pubblica; in questo caso, infatti, aumenterebbero i tassi di interesse e il deficit. Secondo Gale e Orszag (2005), inoltre, tagli fiscali sproporzionati a favore delle fasce più ricche potrebbero disincentivare nuovi investimenti. Infine una
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- Indicatori alternativi e scelte di policy -
riduzione fiscale potrebbe diminuire i benefici socioeconomici derivanti dalla spesa pubblica. Anche gli studi empirici che legano il taglio delle tasse alla crescita economica forniscono risultati ambigui. Hashemzaeh e Wayne (2004) seguendo una prospettiva storica evidenziano che i periodi di crescita economica sono generalmente associati ad alti livelli di pressione fiscale. Altri studi, invece, giungono a conclusioni opposte (si veda ad esempio Diamond (2005)). Talberth, Cobbs e Slattery analizzano questo problema riprendendo il modello di crescita visto nel paragrafo precedente e introducendo una nuova variabile, la crescita del livello di imposte procapite del periodo precedente (DTAX) : GGPI t=α0 + α1 DGFCF t+ α2 DOPEN t+α3 DOPEN2 t+ α4 DADR t + α5 DTAXt-1+u t I risultati di stima del modello sono rappresentati nella seguente tabella:
Variabile dipendente: GGPI 35 osservazioni Variabile indipendente
Coefficiente
Statistica-t
Significatività
Costante DOPEN DOPEN2 DGFCFpct DDADR DTAX
0,03 -1,28 7,55 0,21 -7,48 0,65
6,74 -4,31 2,54 0,67 -2,80 3,08
*** *** ** *** ***
Tab. 8 – Risultati del modello di openness modificato per tener conto della variabile fiscale.
Secondo questa analisi esiste una forte e significativa relazione positiva tra il tasso di crescita del livello di imposte procapite e il tasso di crescita del GPI. Vi sono vari modi in cui un più alto livello di imposizione può agire sul benessere di una collettività: attraverso una migliore redistribuzione del reddito, attraverso i benefici degli investimenti pubblici (per esempio nel
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- Indicatori alternativi e scelte di policy -
settore delle energie rinnovabili o nella protezione ambientale) o attraverso la riduzione dell’indebitamento estero. Questi elementi sono trascurati dal PIL e i risultati ottenuti con questo indice sono spesso in conflitto con quelli ottenuti attraverso gli indicatori alternativi di benessere.
4.1.3. Investimenti in ricerca e sviluppo
Un altro esempio di come la scelta di adoperare il Genuine Progress Indicator o il Prodotto Interno Lordo nella stima di modelli empirici non sia ininfluente rispetto alle indicazioni di policy ricavabili da tali modelli è dato dall’analisi della relazione tra il livello di investimenti in ricerca e sviluppo e la crescita. È comunemente accettata l’idea che alti livelli di investimento in R&S abbiano effetti positivi sulla crescita economica e sul benessere di un paese. Esistono però differenti canali attraverso cui gli investimenti vengono messi in pratica: in primo luogo una parte della spesa in R&S è sostenuta dal settore privato, tipicamente attraverso la ricerca interna al settore industriale; altri tipici soggetti che investono in R&S possono essere i governi, le università, gli istituti di ricerca e le organizzazioni senza scopo di lucro. È possibile quindi chiedersi attraverso quale di questi canali si ottengano i maggiori benefici in termini di sviluppo. Un modo molto semplice per fornire una prima risposta a questa domanda potrebbe essere quello analizzare la relazione tra l’indicatore di sviluppo e il livello di investimenti dei vari settori.
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Utilizzando i dati relativi agli investimenti in R&S negli Stati Uniti per il periodo 1953-2004 si vogliono stimare i seguenti modelli di sviluppo: 1) ln PIL= α0 + α1 ln R&Spublic t+ α2 ln R&Sindustry 2) ln GPI= α0 + α1 ln R&Spublic + α2 R&Sindustry 3) ln (PIL – GPI)= α0 + α1 ln R&Spublic + α2 ln R&Sindustry dove R&Sindustry è l’ammontare degli investimenti in R&S effettuati dal settore privato e R&Spublic è l’ammontare degli investimenti in R&S effettuati complessivamente dal governo federale, dalle università e dalle organizzazioni di ricerca no-profit. I dati forniti dal National Science Foundation (2008) sono stati trasformati in termini logaritmici. Il primo modello assume come variabile dipendente il PIL, il secondo il GPI, mentre nel terzo modello si analizza la relazione tra le variabili esplicative e il gap esistente tra PIL e GPI.
Costante ln R&Spublic R&Sindustry
Statistica F R2 corretto
Modello 1
Modello 2
Modello 3
Var. dipen. =ln PIL
Var. dipen. = ln GPI
Var. dipen. =ln (PIL-GPI)
7,76
8,87
4,44
(41,71) ***
(73,61) ***
(12,16) ***
0,16
0,49
-0,13
(1,21)
(5,21) ***
(-0,47)
0,37
-0,25
1,13
(3,14) ***
(-2.66) **
(5,28) ***
85,85 0,92
87,38 0,81
96,07 0,91
Tab. 9 – Risultati di sintesi dei modelli di regressione.In parentesi il test t-student.
Le stime relative al primo modello evidenziano una relazione positiva del PIL con il livello di ricerca e sviluppo sia del settore pubblico che del settore
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- Indicatori alternativi e scelte di policy -
privato. Il contributo maggiore è però fornito dal settore privato, mentre la relazione con la R&S pubblica non è significativa secondo il test t-student. Sostituendo, invece, il GPI al PIL come variabile dipendente risulta, invece, presente una forte e robusta relazione positiva tra gli investimenti pubblici in R&S e l’indicatore di benessere; mentre il contributo del settore privato avrebbe addirittura un effetto negativo. Dati confermati anche dal terzo modello che individua un aumento del gap tra i due indici nei periodi in cui i livelli di investimento privati sono più elevati e una riduzione del gap al crescere degli investimenti del settore pubblico. Le due tipologie di ricerca quindi hanno entrambe un impatto positivo sulla crescita economica, ma presentano relazioni differenti rispetto al’indice di sviluppo sostenibile. Le ragioni di questa discrepanza non sono chiare. Si potrebbe pensare alla diversa tipologia di ricerca sottostante: una prevalenza della ricerca di base nel settore pubblico e una prevalenza della ricerca applicata nel settore industriale, oppure una ricerca più attenta alle tematiche sociali e ambientali effettuata da governi, università e organismi no-profit rispetto a una ricerca volta alla massimizzazione della produttività del settore privato magari trascurando gli aspetti ambientali. Non è però compito di questo lavoro quello di indagare sulle cause di questi risultati; per far ciò il modello dovrebbe essere migliorato per tener conto della possibile casualità simultanea tra le variabili e degli errori da variabile omessa. Tuttavia questo semplice esempio di regressione dimostra come le conclusioni di policy che è possibile trarre da un modello econometrico possano essere radicalmente modificate cambiando l’indicatore di benessere utilizzato nella stima. Con riferimento al caso analizzato, ad esempio, un ipotetico decisore politico che si trovi d fronte al primo modello sarebbe portato a incentivare la ricerca nel settore privato riducendo magari gli
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- Indicatori alternativi e scelte di policy -
investimenti nel settore pubblico; conclusioni opposte a quelle che potrebbe ricavare osservando il secondo modello, che invece evidenziano un miglior contributo della ricerca svolta a livello pubblico.
4.1.4. Ricorso al credito
Un ultimo esempio di come l’utilizzo di un indicatore quale il GPI in sostituzione del reddito procapite quale misura del benessere possa modificare le indicazioni di policy di un modello econometrico può essere osservato valutando la relazione tra crescita e sviluppo del sistema finanziario. In particolare si vuole valutare l’esistenza di una qualche relazione tra l’aumento del ricorso al credito da parte delle famiglie e variazione del tasso di crescita di un’economia. Secondo una visione classica il ricorso al credito da parte delle famiglie dovrebbe avere un effetto positivo sul tasso di crescita dell’economia poiché la maggiore disponibilità finanziaria stimola i consumi e quindi la produzione. Un semplice modello per verificare questa ipotesi potrebbe essere il seguente: 1) PIL* t = α0 + α1 conscredit* t+ u t dove PIL* rappresenta il tasso di crescita annuo del PIL (approssimato attraverso le differenze logaritmiche del PIL) e conscredit* rappresenta, invece, la variazione annua del credito al consumo in rapporto al PIL (anche in questo caso approssimato dalla differenza logaritmica).
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- Indicatori alternativi e scelte di policy -
Per valutare la presenza di effetti non lineari è possibile aggiungere anche il termine quadratico relativo a conscredit* e stimare un secondo modello di crescita del tipo: 2) PIL* t = α0 + α1 conscredit* t + α2 (conscredit*)2 t+ u t Utilizzando i dati relativi agli Stati Uniti dal 1955 al 2003, messi a disposizione dalla Federal Reserve e la metodologia di stima OLS si ottengono i seguenti risultati:
Modello 1
Modello 2
Var. dipen. = PIL*
Var. dipen. = PIL*
Costante
conscredit* (conscredit*)2
0,01
0,01
(1,65)
(1,851) *
0,22
0,08
(2,72)***
(0,43)
-
1,32 (0,75)
R2 corretto
0,10
0,10
Tab. 10 – Risultati dei modelli di regressione utilizzando il PIL come variabile dipendente. In parentesi il test t-student.
I modelli evidenziano la presenza di una relazione positiva e lineare tra il tasso di crescita del credito al consumo (in rapporto al PIL) e il tasso di crescita del PIL (figura 8). Infatti aggiungendo il termine quadratico i coefficienti di regressione perdono di significatività. 0,07 0,06 0,05 0,04 0,03 0,02 0,01 0 -0,04
-0,02 -0,01 0
0,02
0,04
0,06
0,08
0,1
0,12
-0,02 -0,03 -0,04 consumcredit*
Fig. 8 –Relazione tra tasso di variazione del credito al consumo e tasso di crescita del PIL.
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- Indicatori alternativi e scelte di policy -
Gli effetti positivi del sistema finanziario sulla crescita, individuati dalla teoria economica tradizionale, appaiono quindi confermati dal modello di crescita analizzato. Anche in questo caso è utile valutare le concrete possibilità di utilizzo degli indicatori alternativi di benessere sostituendo nei due modelli il valore del PIL con quello del GPI, anche in questo caso espresso in termini di incremento percentuale annuo. I modelli da stimare saranno pertanto: 1) GPI* t = α0 + α1 conscredit* + u t 2) GPI* t = α0 + α1 conscredit* + α2 (conscredit*)2 t+ u t I risultati dei modelli sono riportati nella tabella seguente:
Costante
conscredit* (conscredit*)2
Modello 1
Modello 2
Var. dipen. = GPI*
Var. dipen. = GPI*
0,00
0,00
(1,07)
(0,02)
0,5
0,45
(0,05)
(0,05) **
-
-3,32 (-2,05)**
R2 corretto
-0,01
0,01
Tab. 11 – Risultati dei modelli di regressione utilizzando il GPI come variabile dipendente. In parentesi test t-student.
È possibile notare che utilizzando il GPI come variabile dipendente si ottengono nuove e diverse informazioni. In questo caso infatti la relazione con il tasso di crescita del credito domestico non è di tipo lineare, ma quadratica. La relazione è positiva per valori relativamente bassi della variabile conscredit*; mentre superata una certa soglia prevale un effetto negativo, come dimostra il coefficiente negativo del termine quadratico. Questa relazione è ben visibile nella figura 9:
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- Indicatori alternativi e scelte di policy -
0,08 0,06 0,04 0,02 0 -0,04
-0,02
0
0,02
0,04
0,06
0,08
0,1
0,12
-0,02 -0,04 -0,06 consumcredit*
Fig. 9 – Relazione tra tasso di variazione del credito al consumo e tasso di crescita del GPI.
Anche in questo caso le ragioni sottostanti questa divergenza rispetto ai modelli che utilizzano il PIL dovrebbe essere indagata a fondo. A titolo esemplificativo si potrebbe pensare che un ricorso eccessivo al credito per i consumi provochi un aumento dell’indebitamento netto con l’estero e questo come visto agisce negativamente sul GPI. Appare chiaro, invece, che l’effetto di una variabile sulla crescita reddituale può essere significativamente differente rispetto all’effetto che questa ha sulla qualità di vita di una collettività. Gli esempi visti in questo capitolo evidenziano l’importanza di sostituire il PIL nella teoria economica e nelle ricerche empiriche o almeno di affiancare a esso un indicatore di benessere più completo. Ciò eviterebbe di assumere decisioni di policy indirizzate unicamente verso un aumento della produzione materiale, magari a discapito di un benessere collettivo inteso in senso più ampio.
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- Conclusioni -
Conclusioni
Se l’obiettivo finale delle politiche economiche e istituzionali è quello di migliorare il benessere di una collettività risulta fondamentale possedere adeguati strumenti in grado di quantificare al meglio il benessere stesso. Come visto nel primo capitolo la difficoltà di giungere a una definizione condivisa e coerente del concetto di benessere collettivo ha portato ad associare a quest’ultimo il concetto di ricchezza prodotta da una nazione o da una collettività in genere. Questa semplificazione ha avuto come effetto quello di individuare il Prodotto Interno Lordo e le misure da esso ricavate come indicatori affidabili di benessere, anche in virtù di una buona correlazione con altri aspetti fondamentali per il miglioramento della qualità della vita. Tuttavia l’emergere negli ultimi anni di una diffusa convinzione che l’aumento della ricchezza misurata dalla contabilità ufficiale non si sia effettivamente trasformata in migliori condizioni di vita per le persone ha portato molti studiosi a interrogarsi sui limiti teorici del PIL e sulla possibilità di sostituire questa misura con altre più adeguate. In effetti le problematiche legate all’utilizzo del PIL nella misura del benessere sono numerose; come ampiamente descritto, questo indice non attribuisce un valore positivo o negativo agli aspetti che influenzano la qualità della vita e trascura, al tempo stesso, elementi che hanno un forte impatto sul livello di benessere. Le ricerche volte a costruire indicatori alternativi al PIL seguono approcci eterogenei e hanno condotto a metodologie molto differenti tra loro. Sono
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- Conclusioni -
stati sviluppati indicatori di carattere soggettivo che cercano di valutare direttamente il benessere percepito dagli individui, indicatori sociali che, secondo un approccio normativista, cercano di fornire parametri di valutazione del benessere completamente alternativi al PIL e indicatori di contabilità estesa che, invece, partendo dai sistemi di misurazione tradizionali apportano modifiche e correzioni contabili per pervenire a una misura più coerente di benessere. Quest’ultima categoria di indicatori, in particolare, appare adatta a essere utilizzata come strumento di guida delle politiche economiche e come parametro di valutazione per ogni studio teorico o empirico che voglia indagare gli effetti sulla qualità della vita di particolari scelte di policy. Sono stati, infatti, evidenziati i fondamenti teorici di questi indici e dell’ISEW/GPI in particolar modo e la loro superiorità dell’esprimere un concetto di benessere che tenga congiuntamente conto degli aspetti economici, sociali e ambientali. L’utilizzo di questi indici nei modelli economici tradizionali non è privo di effetti. Come evidenziato nel quarto capitolo sostituendo il Prodotto Interno Lordo con un indicatore alternativo di benessere si ottengono spesso risultati significativamente differenti. Diverse sono quindi le implicazioni che si possono trarre da uno stesso modello di valutazione delle politiche economiche: scelte di policy possono avere effetti positivi sul reddito di una collettività ma effettivi negativi o comunque inferiori sul reale livello di benessere della popolazione. Se l’aumento della quantità di beni e servizi prodotti, ciò che il PIL misura, resta l’unico obiettivo delle politiche economiche si possono adottare scelte inadeguate e non si perviene a una completa identificazione delle relazioni sottostanti le dinamiche economiche.
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- Conclusioni -
Occorrerebbe dunque ridurre lâ&#x20AC;&#x2122;enfasi sulla mera crescita economica e prendere consapevolezza delle distorsioni prodotte dallâ&#x20AC;&#x2122;assumere il Prodotto Interno Lordo quale misura del benessere. Ricorrere a indicatori alternativi, sia nella definizione degli obiettivi politici ed economici, sia nella ricerca economica, è quindi sicuramente auspicabile, ma per far questo occorre sviluppare ulteriormente le metodologie esistenti, pervenire a standard di valutazione condivisi a livello internazionale e costruire sistemi contabili che supportino adeguatamente lâ&#x20AC;&#x2122;indice scelto.
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- Bibliografia -
Bibliografia
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