Invito alla filosofia

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Invito alla filosofia

Invito alla filosofia

Nell’assoluta attualità dell’esistente, che precede ogni possibile concet­ tualizzazione dell’essere, risiede quel contrasto apparentemente ineli­­mi­nabile fra necessità e libertà che – in intima connessione al dissidio tra rea­lismo e idealismo – sta alla base del progetto filosofico della modernità e della crisi che ne è seguita. Un contrasto essenziale senza esperire il quale non è possibile fare filosofia – prospet­­tando le possibili vie d’usci­ ta dalle ­molteplici forme del nichili­ smo con­tem­poraneo –, e che costituisce l’at­tualità filosofica di Schel­ ling, dalla quale occorre ancora oggi prendere avvio.

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aAccademia University Press

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F. W. J. Schelling

«Certo un’esposizione dogmatica della filosofia potrebbe essere più comprensibile, ma lo scopo di chi vuole insegnare la filosofia non può mai essere quello di presentare i suoi risultati. Chi possiede i risultati, non possiede con ciò la filosofia stessa. Essi sono solo frutti colti dall’albero che marciscono tra le mani. Tra chi insegna meramente i risultati e chi invece insegna la filosofia vi è lo stesso rapporto che esiste tra chi distribuisce l’oro nella sua sostanza e chi dell’oro insegna direttamente la fabbricazione. La filosofia è la più alta alchimia spirituale. Dalle scorie produce il puro oro così come ciò che è afferrato dallo spirito del vero artista viene per così dire purificato attraverso il fuoco» (F.W.J. Schelling).

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ccademia university press

Filosofia Ontologia Schelling

€ 11,00

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788897 523079

F.W.J. Schelling

ISBN 978-88-97523-07-9

Initia Philosophiae


Initia Philosophiae collana diretta da

Emilio Carlo Corriero e Andrea Dezi comitato scientifico

Dmitrij K. Burlaka Accademia Russa Cristiana Umanistica di San Pietroburgo Massimo Cacciari Università San Raffaele di Milano Claudio Ciancio Università del Piemonte Orientale Manfred Frank Eberhard Karls Universität Tübingen (presidente) Sergio Givone Università degli Studi di Firenze Wolfgang Kaltenbacher Istituto Italiano per gli Studi Filosofici di Napoli Olaf Müller Humboldt Universität Berlin Marco Ravera Università degli Studi di Torino Petr Rezvykh Università Russa dell’Amicizia tra i Popoli di Mosca Federico Vercellone Università degli Studi di Torino Alistair Welchman University of Texas at San Antonio


Schellings Philosophie Opere e studi volume I a cura di Emilio Carlo Corriero e Andrea Dezi


Invito alla filosofia

F.W.J. Schelling traduzione e introduzione di Andrea Dezi


Invito alla filosofia F.W.J. Schelling

Volume pubblicato con il contributo di

Il logo della collana Initia Philosophiae è ideato e creato da Chiara Norzi Š 2011 aAccademia University Press via Carlo Alberto 55 I-10123 Torino Pubblicazione resa disponibile nei termini della licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 2.5

Possono applicarsi condizioni ulteriori contattando info@aAccademia.it prima edizione novembre 2011 isbn 978-88-97523-07-9 ebook www.aAccademia.it/schelling1 book design boffetta.com stampa Digital Print Service, Segrate (MI)


Indice

Introduzione

Andrea Dezi

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Invito alla filosofia Lezione I Lezione II Lezione III Lezione IV Lezione V Lezione VI Lezione VII Lezione VIII Lezione IX Lezione X Lezione XI Lezione XII Lezione XIII Lezione XIV Lezione XV Lezione XVI Lezione XVII Lezione XVIII Lezione XIX Lezione XX Lezione XXI Lezione XXII Lezione XXIII Lezione XXIV Lezione XXV Lezione XXVI Lezione XXVII Lezione XXVIII Lezione XXIX Lezione XXX Lezione XXXI Lezione XXXII Lezione XXXIII Lezione XXXIV

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Только у вас благовонные розы Вечно восторга блистают слезами. С торжищ житейских, бесцветных и душных, Видеть так радостно тонкие краски, В радугах ваших, прозрачно-воздушных, Неба родного мне чудятся ласки. Solo per voi le rose eternamente brillano in lacrime d’estasi. Dall’irrespirabile e grigia banalità dei mercati è gioia profonda la visione di sottili colori che traspaiono, nei vostri aerei arcobaleni, come improvvisa carezza del cielo patrio.

A.A. Fet, Ai poe­ti, 1890


Introduzione

Initium finisque philosophiae est admiratio. Struttura razionale del θαυμαστόν nella visione schellinghiana del pensiero filosofico Andrea Dezi

Il testo Dalla Germania verso capo Matapàn, poi fino a Kiel, a nord, e di nuovo nella discesa verso le Alpi patrie, fedele compagno del principe Massimiliano II di Baviera1 è un quaderno, profondamente amato e studiato, che raccoglie le lezioni tenute da Schelling a Monaco nell’estate del 1830. Il principe, discepolo e amico di Schelling, mosso da una sincera e umile ammirazione che si mostra nella effettiva comprensione della filosofia, scrive al maestro nel novembre del ’43 di essersi dedicato per alcuni mesi, nelle ore più belle vissute a Hohenschwangau, alla lettura e alla discussione, «frase per frase»2, di quel quaderno. Racconta di non aver risparmiato né fatica né tempo nel tentativo di comprendere a fondo delle lezioni che egli ritiene possano essere considerate come la «base dell’intera filosofia»3 schellinghiana. Il testo qui di seguito tradotto, per la prima volta in italiano, è una copia della trascrizione di quelle lezioni, probabil1. Cfr. W.E. Ehrhardt, Schelling Leonbergensis und Maximilian II. von Bayern. Lehrstunden der Philosophie, Schellingiana Band 2, Frommann-Holzboog, 1989, p. 60. 2. Ivi, p. 59. 3. Ivi, p. 60.

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Andrea Dezi

mente commissionata dallo stesso principe e rivista in seguito da Schelling. Conservata nella Bayerischen Staatsbibliothek di Monaco (segnatura Cgm 6283), la copia proviene dal lascito dell’allievo di Schelling Hubert Beckers, il quale la ricevette da Sebastian F. Daxenberger, colto giurista e segretario privato del principe Massimiliano II. La prima edizione è apparsa in Germania nel 1989. Curato da Walter E. Ehrhardt, il testo è stato pubblicato nella collana Schellingiana dell’editore Frommann-Holzboog con il titolo di Einleitung in die Philosophie. La filosofia Maestro della lettura, dell’approfondimento che è verticale esaltazione e illuminante trasfigurazione del senso delle parole e dei grandi pensieri, Schelling sente e dimostra in queste lezioni la necessità di una nuova e radicale intelligenza della filosofia. Nel 1830 egli è presago di una crisi che «il mondo non ha mai visto prima»4, sa che il pensiero rischia di affondare e di disperdersi definitivamente in una sostanzialità che con pari violenza divora e involve ogni articolazione dell’essere, consumata e dissolta nell’assurda spiritualizzazione di un onnivoco qhriodw'" zh'n. Per Schelling è necessario, quindi, che il pensiero si arresti, e si interroghi a fondo sulla direzione seguita a partire da Cartesio; esso deve comprendersi, si potrebbe dire trattenendo per un attimo il respiro, prima di procedere oltre e di affermarsi in una rinnovata e più limpida visione. La potenza e la scienza, poste al centro della riflessione filosofica moderna, assumono nel corso di queste lezioni monachesi un aspetto nuovo e inatteso, che grazie al delicato luminismo schellinghiano appare e si dispiega gradualmente, sino a rivelarsi in tutta chiarezza laddove s’investe del lampo abrupto della libertà, il quale, attraversando l’essere del mondo, ne chiarisce la superabilità e l’accidentale necessità (Unsein). Proprio perché il mondo potrebbe non essere, non è possibile comprenderlo a partire da una mera astrazione, ovvero da una negazione che si limiti a concepirne sostanzialmente l’essere. Il concetto dell’essere presuppone come eternamen-

4. Infra, p. 117.

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te necessario l’essere che esso concepisce. Di conseguenza l’essere predicativo, astratto e ipostatizzato in una potenza precedente l’essere stesso, si volge in fondamento inconcusso e insuperabile, dal quale non può avere inizio nulla se non un’immanente deduzione che è, secondo le parole di Schelling, mera emanazione logica ovvero soggettiva. La filosofia, chiudendosi nella passiva idealità del soggettivo, rinuncia alla comprensione obiettiva dell’unità sostanziale che essa presuppone, riducendone l’esplicazione a una consequenzialità logica che ha luogo nel solo pensiero: in questo modo il mondo non viene ad essere conseguenza di una causa, ma appare come mera predicazione di una sostanza, sia essa inerte come la sostanza spinoziana oppure viva e autoponentesi come l’Io dell’idealismo moderno. La ricerca di un prius del mondo, di quella potenza che ne sia conoscenza apriorica, alla quale ogni filosofia aspira, non può muovere da una debole negazione formale, che, negando l’essere del non-essente (mh; o[n) – incapace di sostenerne la contraddizione –, accetti tuttavia un essere indiscutibile che del non-essente, ridotto a mera forma predicativa, è, a un tempo, sostanza e negazione. Al fine di cogliere la connessione obiettiva tra il prius e il mondo, così che la sapienza possa originariamente mostrarsi e illuminare il desiderio che ad essa tende, Schelling ritiene del tutto vano ritrarsi nel puro pensiero, o volgersi al sovramondano per mezzo di concetti che inevitabilmente si legano a un’alterità incapace di coinvolgere e di comprendere in sé, radicalmente, l’essere del mondo. È in questo senso che la cosiddetta metafisica di scuola viene refutata, non tanto perché, come sostiene Kant, chiusa nell’impossibilità di una effettiva conoscenza dell’essenza divina, ma piuttosto per essersi arrestata a un’insufficiente determinazione del rapporto tra il mondo e il suo prius. La possibilità di un metafisico superamento dell’essere del mondo – nell’apparizione della quale è la meraviglia filosofica (to; qau'ma) – si spegne e viene inevitabilmente a mancare stabilendosi nell’attualizzazione di un essere-superato. La fissazione, nel superamento stesso, di ciò che non può non essere, quindi dell’essenza-non-essente dell’essere, sottrae quest’ultimo a ogni ulteriore negazione, precipitandolo nella necessità di una coincidenza immediata, ovvero di un’adeguazione che è soltanto formalmente, cioè logicamente, differita, con l’eterna presenza dell’essenzialità presupposta. Il

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mondo e il prius si chiudono in questo modo in una inarticolata correlazione che non lascia spazio alla meraviglia, la quale viene anzi inghiottita nell’ambiguo confine che ipostatizza il non-essere dell’essente nel suo proprio immanente dover-essere. Ma la filosofia non può rinunciare alla sapienza. Essa non può abbandonarsi alla mera percezione e accettazione di ciò che non potrebbe essere altrimenti. Mavla ga;r filosovfou tou'to to; pavqo" to; qaumavzein

Maxime enim philosophi haec affectio, quae admiratio dicitur 5.

Schelling ricorda e riafferma con forza queste parole, mostrando come l’oggetto della filosofia non possa ridursi a una prevedibile e soltanto predicabile necessità, la quale, al fondo di superficiali increspature o di squarci apparenti, sia inesorabile liberazione dell’uomo – costretto nel necessario e intrascendibile orizzonte del possibile – dall’affetto della meraviglia. L’oggetto della filosofia è invece nel meraviglioso stesso (to; qaumastovn), dunque non certo in una eterna e necessitata attuazione, ma piuttosto in un libero atto che ex improviso, potendo non essere, si affermi e enfaticamente sia. Il qau'ma del filosofo non può soggettivamente comporsi o superficialmente disperdersi, ma deve innanzitutto dimostrarsi come apparizione di un tevra" obiettivo il quale, in quanto tale, possa essere compreso dalla filosofia. Nella Critica del Giudizio Kant distingue tra il meravigliarsi (Verwunderung) e la meraviglia (Bewunderung). Il primo – così si afferma nel paragrafo § 62 – è un sobbalzo dell’animo nell’impossibilità di unificare, di accordare una rappresentazione – insieme alla regola che si dà attraverso di essa – con i principi che già si trovano a fondamento nell’animo (per cui si dubita della visione o del giudizio). La seconda è invece un continuo meravigliarsi che non cessa con la conoscenza dell’oggetto o con la perdita della novità, e permane indipendentemente dalla sparizione del dubbio6. Ora chiaro esempio di questa meraviglia, che può esser detta obiettiva o metafisica, è l’affetto suscitato dall’unimento della necessità di un meccanismo naturale con l’accidentalità di una libera finalità

5. Platone, Teeteto, 155 d (trad. lat. di M. Ficino, Omnia divini Platonis, liber XIII). 6. Cfr. I. Kant, Kritik der Urteilskraft, Meiner, Hamburg 2009, pp. b xl, 122, 277.

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Introduzione

interna, la quale non sia quindi riconducibile alla necessità concettuale imposta da un intenzionale tecnicismo esterno. E proprio in questo limite critico, qui segnato dall’esclusione di un realismo teistico degli scopi di natura – il quale comunque nulla spiegherebbe di una tecnica di produzione divina, o, se si vuole, di una contraddittoria intenzionalità naturale –, Schelling vede la possibilità di una comprensione ontologica di quel miracoloso accordo; nell’intimo e libero unimento della necessità e della libertà egli scorge la possibilità di comprendere la natura dell’effettivo rapporto tra il prius e il mondo, ovvero tra l’essere e la potenza dell’essere. Nel fatto stesso del mondo traluce e appare il vero oggetto della filosofia, e il mondo, nella visione del filosofo, non dilegua come vana idealità di una realtà sostanziale né si mostra come necessario dispiegamento di un’implicita e tuttavia già composta contraddizione, ma si rivela come reale espressione, nel suo stesso essere, dell’inconcepibilità dell’essenza. Una metafisica e enfatica negazione dell’essere del mondo vi si profonda sino a perdersi nell’essere stesso, il quale, reagendo all’interna e reale possibilità di non essere, si afferma con la forza di una stasi (stavsi") che è, nell’ineluttabile attualità dell’essere, tragica contraddizione dell’essere e del nonessere. La libertà penetra e attraversa la necessità, e proprio suscitando la violenta reazione dell’essere che, minacciato, si afferma come destino, l’inizia a una storica (geschichtliche) e positiva determinazione. Nell’affermazione dell’essere, che dunque ne è radicale negazione, si mostra un principio (chiamato da Schelling «B», in opposizione all’essenzialità del poter-essere indicata in generale con la lettera «A»), il quale, essendo posto fuori di sé, cioè fuori del limite della propria potenza, è insieme atto a sé stante e iniziale sostanza di un futuro processo. Questo principio, imponendosi come ciò che assolutamente è e che tuttavia è relativo, non essendo in vista di se stesso, rivela la natura anfibolica della potenza dell’essere, la quale viene appunto compresa da Schelling in relazione alla duav" pitagorica. Una tale potenza può passare transitivamente all’essere, ma è essente, in quanto actus potentiae, solo attraverso la sollevazione, ovvero l’elevazione a potenza – in una negazione a sua volta negata nel corso del processo – di un essere-attuale (purus actus, rein Seyendes) che contiene intransitivamente l’essere-in-potenza prima del suo effettivo attuarsi.

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Questa seconda potenza (indicata con A²), che nella sua pura attualità consente alla prima e immediata potenza di mantenersi come tale, e dunque di essere-non-essendo, eccede l’atto del B. Essa erompe dall’essere-in-atto, l’attraversa e ne scuote l’intima radice, ma è, in potenza, proprio quell’essere. E la tensione generata dalla limitazione in B, il quale è soltanto poiché esso stesso potrebbe essere il suo proprio limite (A) e dunque l’interna ed enfatica negazione di sé, non è trattenuta e fissata come immobile e materiale correlazione dei due principi, ma si mostra, in un terzo e ultimo principio, come effettiva e piena superabilità dell’essere. Attraverso la mediazione della seconda potenza, quell’ulteriore principio, che è libera articolazione tra i due precedenti e ne segna, in quanto reale possibilità del superamento, l’effettivo discrimine, si realizza, essendo perfetta la conversione di B in A, come terza potenza dell’essere (A³). «Uno e il medesimo è il principio della materia e quello del nou'"». Con queste parole, pronunciate nel corso della lezione XXXIII7, Schelling evoca la vivente e originaria unità delle potenze, nella realizzazione della quale l’essere stesso del mondo, volto in miracolosa apparizione, è interiormente e dunque realmente superato. La cieca forza, la follia, nella quale esso si afferma durante il processo, vinta ma non certo tolta o distrutta, trapassa infine nella lucida delicatezza del pensiero. Le tre potenze sono espressione ontologica del confine tra la potenza e l’atto. Come comprensione dell’essere del mondo in quanto reale alterità dell’essere essenziale, le potenze permettono l’esistenza dell’essenza. Esse dicono la struttura di una reale e imprevedibile potenza, di un’essenza che scopre la possibilità di essere altro, ovvero la possibilità di essere ciò che essa è pur non essendolo. Le potenze esprimono dunque l’interna discrezionalità, e in questo senso la razionalità, dell’unità originaria, manifestando la possibilità di un universo che è potenza d’inversione dell’essere-uno. In questo modo esse rivelano la libera e assoluta unità spirituale dell’essenza, la quale, all’apparire di un universo, può sciogliersi dalla sostanzialità del suo proprio essere unitario. L’esistenza del mondo dunque, come espressione della potenza che è insieme esistenza dell’essere e dell’essenza, è

7. Cfr. infra, p. 127.

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frattura dell’eterna e sostanziale presenza dell’essere, il quale può quindi esser compreso dalla filosofia nel limite tra il passato e il futuro. L’essere e il concetto che ne è predicazione si incrinano, e cedono alla possibilità del superamento attraversati da quella meraviglia filosofica, espressa con precisione nella lingua russa dalla parola изумление, il cui uscir (из-, lat. ex) di ragione (ум, i.e. *au; cfr. lat. audio), qui intesa come «organo del presente»8, è speranza che nell’inaudito si riveli e lampeggi il primo bagliore del pensiero.

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8. Cfr. F.W.J. Schelling, Grundlegung der positiven Philosophie, hrsg. von H. Fuhrmans, Bottega d’Erasmo, Torino 1972, p. 90.



Invito alla filosofia



Invito alla filosofia F.W.J. Schelling

Lezione I L’acclamazione gioiosa con la quale avete salutato il mio ritorno in cattedra è per me tanto più piacevole quanto più serie sono le considerazioni che farò insieme a voi nel corso di queste lezioni. Se un’esposizione accademica su una qualche scienza è in generale legata a numerose difficoltà, a maggior ragione lo sarà un’esposizione sulla filosofia. Questa è infatti la scienza che presuppone non solo una formazione matura, ma anche una matura esperienza spirituale – quindi non meri concetti superficiali – nel campo del sapere. Ammetto che l’esigenza di tali prerequisiti riguardi soprattutto coloro che liberamente vogliano generare da se stessi la filosofia; ma anche colui che vorrà apprendere in maniera completa la filosofia in quanto già prodotta deve essere in grado di seguire un’esposizione di questo tipo e di comprenderla nella propria visione. Il riferimento in generale a dei prerequisiti si rende necessario anche a causa di quell’opinione che non molti anni fa era ancora dominante. Intendo l’opinione secondo la quale bisognava separare lo studio delle scienze generali da quello delle scienze particolari, assegnando a ognuna di esse un tempo determinato. La filosofia rientrava, secondo tale prospettiva, nella serie delle scienze propedeutiche. Ci auguriamo che mai più torni quell’infelice opinione, la quale non può avere altra conseguenza che il facile e rapido abbandono delle scienze generali e il rifiuto di quel che in sé racchiude la fondazione del cosiddetto sapere, la quiete della vita. Oppure, nell’accettare quell’opinione, si dovrebbe poter mettere in dubbio che il generale e il particolare si rafforzano a vicenda attraverso il reciproco legame, che essi solo in questo modo sussistono veramente e possono sussistere, infine che il particolare può ottenere consistenza e forza soltanto attraverso il generale. Se ricordo bene, si erano mostrate di quest’avviso già altre università, ma anche qui da qualche tempo si è formata attraverso la libera costituzione una libera visione; ed è con piacere che notavo la presenza tra i miei uditori di molte persone che, oltre ad avere grande esperienza nelle discipline specifiche, hanno già assistito in passato alle mie lezioni. Sebbene i prerequisiti di cui parlavo siano quelli di maggior valore e importanza, non li ritengo tuttavia sufficienti

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Invito alla filosofia

per la piena idoneità a una esposizione sulla filosofia in senso proprio. Molto infatti deve essere appreso dai filosofi, non solo compreso e riconosciuto. Tra le cose che i filosofi devono conoscere c’è la logica, la quale in passato, ma spesso ancora oggi, costituiva una parte integrante della filosofia. Per quest’ultima la logica non è più di quanto essa non sia per ogni altra scienza, e però la logica è generata dalla filosofia. Ogni scienza ha la sua dialettica, in ognuna di esse infatti ci sono falsi concetti. Nelle scuole dei sofisti il giovane greco imparava tutte le tecniche di questa dialettica, tuttavia non sempre affinché un giorno potesse brillare nella filosofia, più spesso, anzi, soltanto per diventare abile seduttore degli animi come oratore popolare. Ma certo possono dirsi ben fatti e adatti allo scopo quegli ordinamenti in base ai quali, già negli anni che precedono le esposizioni propriamente filosofiche, vengono impartite lezioni sul puramente logico e formale. Ma se la filosofia si è allontanata da ciò che pure si è ritenuto le appartenesse essenzialmente, essa ha tuttavia legato a sé in maniera indissolubile, potremmo dire come base, qualcosa di cui, soltanto qualche decennio fa – per quanto se ne avesse vaga intuizione – quasi non si osava parlare. Da quando infatti si è riconosciuto che la natura e l’uomo non sono che il doppio riflesso dell’unico Dio, la scienza della natura costituisce una parte essenziale della filosofia; e già non v’è più necessità di sostare dinanzi alle sue porte, è ormai possibile penetrare nel suo seno accogliente. Nelle scienze storiche inoltre è stato scoperto almeno un capo del filo d’Arianna che potrà guidarci attraverso il vasto labirinto. È vero, si avvicina sempre di più il momento in cui la scienza raggiungerà il suo compimento e l’uomo abbraccerà l’organismo del proprio sapere, il momento in cui quel che finora è rimasto separato dovrà trasfigurarsi in un supremo punto luminoso. Sarà versato infine un balsamo sulle ferite che lo Spirito vivo ha procurato a se stesso nel suo moto quasi troppo rapido e intenso. Ma il lato più triste non può esser taciuto. Proprio ora è anche il momento in cui alla confusione si aggiunge la perversione. Proprio ora è il momento in

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Lezione II

cui tutti gli antichi concetti vacillano e tutto viene aggredito al fine di sollevare al trono l’opinione. Si può quasi dire che presto verrà tributato omaggio solo a quelle filosofie che servono l’opinione di ieri, non importa che sia appunto soltanto di ieri. Certo io non chiamo filosofo colui che venera la moda e nega la realtà. Proprio ora è anche il tempo in cui la filosofia ha grande effetto sulla vita e questa su quella, proprio ora il giovane angosciato dall’instabile oscillazione cerca intorno a sé un maestro che gli consegni un metro sicuro, che gli dia la verità. Guai a quel maestro che abusa di questa fiducia, che svia e seduce con teo­remi il cui fondamento egli stesso deride. Io credo tuttavia che il tempo di quei sistemi artificiali passerà presto e l’opinione soggettiva sarà abbandonata per far posto alla verità obiettiva. Per sistemi artificiali intendo quei filosofemi soggettivi che suppongono di dover muovere da una vuota astrazione, come pure quelli che iniziano con una mera negazione. Cos’è infatti il loro principio se non un’opinione che resta, seppur ottenuta attraverso l’astrazione da cose obiettive, soggettiva? Ma su questo si dirà di più nella prossima lezione. 5

Lezione II Prima di considerare più da vicino la differenza tra una filosofia meramente soggettiva e una filosofia oggettiva, ritengo necessario fare alcune osservazioni in generale sui diversi sistemi in filosofia, essendo proprio la mutevolezza dei sistemi quel che tanto le si rimprovera. In verità, non dico se si guarda indietro alle antiche scuole di sapienza greca, delle quali non ci restano che alcune colossali rovine, ma anche solo passeggiando tra le lapidi dei più recenti filosofemi, come si potrebbe non esser colti da un malinconico sconforto, da una profonda pena per lo sforzo ininterrotto e vano dello spirito umano? Non si ergeva forse invitta quella scolastica che, abituata alla lotta, utilizzata e favorita persino dai capi di partiti religiosi avversi, svanì rapida nel nulla di fronte a una filosofia, in fondo dotata di non molto acume, come quella di Cartesio? La filosofia sprofondò allora a tal punto che si rese necessario tutto il prestigio e l’intelligenza di Leibniz affinché potesse essere ricondotta in qualche modo al suo precedente splendore. Ma non si conservò a lungo nel nuovo stato. Lo


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spirito formale di Wolff non fu in grado di trattenere la filosofia all’altezza a cui l’aveva sollevata Leibniz. Presto essa dovette cedere alla critica kantiana e già in precedenza non aveva saputo difendersi da una piatta filosofia popolare. Ma la stessa critica di Kant non riuscì a sottrarsi al comune destino, dovendo arretrare allorché l’energico Fichte intraprese la fondazione della propria filosofia trascendentale. Allora irruppe il tempo nel quale, secondo le parole di Goethe, sembrava potesse dischiudersi il cielo del sapere. Ma non durò molto, una nuova oscurità seguì alla luce che rapidamente scomparve. Anche Fichte non riuscì a evitare il crollo. Ovunque si cercava una autorità che in quella confusione potesse disserrare la verità. Pensando a questo rapido alternarsi di sistemi, a questa mancanza di un risultato soddisfacente, non dovrebbe apparire strano se si arrivasse a disperare di un sicuro risultato e si esclamasse come fa Goethe nel suo Faust: «È solo per Uno questo mondo! Egli vive da solo nel suo splendore, per l’uomo c’è soltanto il giorno e la notte». Ma tutti quei tentativi falliti non possono provare l’impossibilità di spingersi sino al fine desiderato, è invece possibile che al fondo di ognuno di essi si trovi un errore comune. E in verità c’è un difetto comune, una precisa mancanza per la quale tutti quei sistemi decaddero. Ne abbiamo già parlato, si tratta proprio della fondazione meramente logica ovvero della soggettività. È giunto ora il momento di considerare più da vicino questa mera fondazione logica e di chiarire come si debba intendere la suddetta soggettività. Un tale chiarimento si rende ancor più necessario poiché soltanto a partire da esso sarà possibile presentare un concetto di vera filosofia. Anche a fondamento di tutti quei sistemi si trova certo un concetto della filosofia, intesa come la scienza che deve render conto del fondamento ultimo di ogni essere e conoscere, ma noi non possiamo accontentarci di questo concetto generale. Dunque, dico che si dà una mera necessità logica quando noi possiamo pensare un triangolo solo come una figura di tre lati e tre angoli. Questa necessità non segue in alcun modo da una costituzione naturale del triangolo che preceda il nostro pensare. È solo col pensiero che è posta quella necessità. Se riportiamo quanto detto a quei filosofemi meramente soggettivi, diverrà chiaro che cosa si debba intendere quando si fa riferimento a un carattere meramente logico. Il signi-

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Lezione III

ficato di questa espressione si mostra in maniera perspicua nell’affermazione di Spinoza  – e qui introduciamo subito il rappresentante di quei sistemi – secondo la quale tutte le cose finite sarebbero soltanto modificazioni dell’infinita forza di pensiero del primo essere. Ma tralasciando quel che solo a torto si rimprovera a Spinoza, e cioè che non distinguerebbe le cose finite dall’infinita sostanza originaria, dico che, se veramente le cose finite fossero poste originariamente ed eternamente col pensiero, perderemmo allora una creazione con libertà e decisione propria, ottenendo così al posto di un Dio positivo una mera necessità. Chi crede a una creazione, cioè chi la riconosce come possibile  – e questo soltanto infatti vorrei chiamare credere – crede di conseguenza anche a un libero e sensato creatore. Ma si tratta qui di sapere, non di credere, e mai si potrà giustificare la rinuncia al sapere laddove il sapere è propriamente un dovere. Ritornando a quei filosofemi soggettivi, dico che a essi non si potrebbe rimproverare nulla se si limitassero a proporsi per quello che sono, cioè come mere costruzioni da prospettive soggettive, ammettendo quindi che quel che è oggetto potrebbe anche essere altrimenti. Ma questo non possono farlo, né volerlo, senza aver prima giudicato sé stessi. Non si può risalire a quel che è oggetto seguendo delle vie soggettive. Deve condurvi un’altra via, che per il momento – cercando di limitare per quanto possibile i fraintendimenti – chiamo via storica. Ma su questo, cari signori, diremo nella prossima lezione. Lezione III Cari signori! La nostra ultima ricerca ci ha condotto alla determinazione del concetto di filosofia, non in generale, ma della vera e propria filosofia. È necessario tuttavia, ancora prima di riflettere su quel concetto, liberare il campo dalle obiezioni che potrebbero esser rivolte alla filosofia a causa della sua presunta indeterminatezza e variabilità. Dimostrerò che quelle obiezioni sono in parte infondate e in parte non costituiscono affatto delle obiezioni. Che quelle obiezioni siano infondate, vi apparirà chiaro riconsiderando quanto detto finora. Alla base di tutti i siste-

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mi filosofici, per quanto possano apparire diversi, si trova un concetto comune, anche se non sempre esplicitamente espresso. Tutti si accordano nello sforzo di rintracciare e mostrare il fondamento ultimo dell’essere e del conoscere. Che ci sia un tale necessario concetto ultimo della filosofia, in verità non possono negarlo nemmeno i suoi avversari: essi cercano forse solo di mettere in dubbio con qualche apparente ragione la possibilità di una filosofia di un certo tipo, della cui esistenza parlerò in seguito. Ma anche ammesso che nei diversi sistemi filosofici si trovi una diversa determinazione del concetto di filosofia, resta da accertare se questa diversità possa in effetti valere come obiezione o se non si tratti piuttosto di una conseguenza tanto naturale quanto necessaria di una causa che appartiene propriamente alla filosofia. Se è fuor di dubbio che possono a buon diritto aspirare a un sistema in sé fondato solo quelle scienze generate puramente da conoscenze soggettive; se è fuor di dubbio che la matematica deve la sua esistenza solo a questa soggettività, perché mai si dovrebbe rimproverare alla filosofia di non riuscire in ciò che potrebbe fare solo se fosse una scienza soggettiva, essendo essa invece, come già detto, una scienza storica o obiettiva che, poiché appunto ha una viva radice, deve poter essere individualmente trattata? Un’altra ragione della diversità di quei concetti e sistemi è che ciascuno dei loro autori non si è mosso a intraprendere ciò per cui un altro avrebbe potuto sentirsi più idoneo, ma ha esposto soltanto quel che riteneva di poter mostrare e nella maniera in cui credeva di poterlo fare. L’umanità tuttavia non può accontentarsi di quel che una persona è in grado o non è in grado di fare. Questo concetto secondario, per così dire, non può sostituirsi al primitivo. La filosofia, come dice il nome stesso, è un volere, un aspirare alla sapienza. Sulla natura di questo primitivo volere, di questo primo bisogno dell’umanità, non può esservi alcun dubbio. La filosofia ha a che fare non con ciò che ognuno opina o intende, ma con ciò che effettivamente, realmente è. Dio, uomo, natura, libertà e moralità, questi sono i cardini di quel primitivo bisogno: su questo v’è chiarezza da sempre in tutte le filosofie, persino in quelle che non riconoscono alcuna moralità. Soltanto sul modo di fondazione di questo sapere si può essere in disaccordo, e la ragione di quei sistemi soggettivi va ricercata nella disperata rinuncia a una fondazione obiettiva. Ma una

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Lezione IV

tale prospettiva, come già detto, non va ammessa finché il suo contrario non sia stato dimostrato come assolutamente impossibile. Quando però dico che quelle filosofie soggettive non debbano essere approvate, non voglio certo intendere che siano da rifiutare in tutto e per tutto; non ho intenzione di rinnegare ciò a cui io stesso ho largamente partecipato. Tali filosofie sono da respingere soltanto se si attribuiscono una oggettività, non però se non pretendono di essere nient’altro che lo sviluppo di una necessità del pensiero. In quest’ultimo caso il loro difetto è appunto soltanto una mancanza, un meno cui deve essere aggiunto un più. Per questo possono essere designate in maniera del tutto corretta col nome di filosofia negativa, mentre l’altra filosofia, quella che comunque vogliamo ancora chiamare storica, può esser designata come filosofia positiva. Positivo è qui usato nel senso in cui potrebbe dirsi positiva l’emanazione di un’espressa volontà, di una determinata intenzione, di un atto voluto; nello stesso significato si parla di una legge positiva o di una religione positiva. Negativo, al contrario, significa solo un non-atto. Il rapporto di questa filosofia negativa con la positiva, concludiamo ripetendolo, non è di reciproca esclusione, ma di reciproca integrazione. Lezione IV Nell’ultima esposizione ho chiarito i concetti di filosofia positiva e filosofia negativa. Poiché in precedenza ho tuttavia designato la filosofia positiva anche col nome di filosofia storica e potrei quindi, a causa di questa denominazione, essere facilmente frainteso, ritengo sia necessario, prima di procedere oltre, cercare di allontanare ulteriormente i possibili fraintendimenti. Si potrebbe infatti credere che l’espressione «filosofia storica» debba essere intesa in riferimento a quella che è considerata la seconda parte dell’intera filosofia, vale a dire alla cosiddetta filosofia della storia, essendo la natura e la storia le due parti che si ritiene costituiscano l’universo. Ma che io non volessi intendere la filosofia storica in questo modo, credo non abbia bisogno di ulteriori chiarimenti. Potrebbe invece sembrare che si stia qui proponendo un punto di vista – tanto più perché di solito nel concetto di

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Invito alla filosofia

filosofia si fa riferimento a una distinzione di questo tipo – secondo il quale la filosofia storica consisterebbe in quel sapere che si dà non attraverso la via razionale, ma soltanto attraverso la via della Rivelazione. Non volevo però riferirmi nemmeno a una filosofia di questo tipo. Che cosa infatti si potrebbe ottenere da essa se non al massimo un mero sapere storico? A questo punto si rende necessaria una più precisa spiegazione del rapporto tra Rivelazione e filosofia. È un tratto generale del tempo presente che la Rivelazione non si lasci più dimostrare meramente come mero fatto storico, provato da avvocati e presentato attraverso le deposizioni di testimoni. Si vuol vedere il cristianesimo fondato in maniera obiettiva e non più attraverso una mera necessità psicologica. La tiepidezza che si rimprovera al nostro tempo non trova forse il suo fondamento proprio nella mancata soddisfazione di questo bisogno, nella incoerente frammentazione nella quale si vuol rappresentare il cristianesimo? È stata la disinvoltura e la negligenza di chi avrebbe dovuto aver cura della religione che, attraverso la vana speranza di poterne pienamente ed efficacemente dimostrare la realtà in maniera meramente storica, ha provocato quella tiepidezza e distacco. Vano e inadeguato è l’impegno dei teologi per bandire il razionalismo dalla religione. Solo attraverso di esso, infatti, la religione può ottenere fermezza e vigore, e dar quiete all’animo vacillante. Non dunque quella trattazione storica, così come è intesa dai teologi, costituisce il carattere storico della filosofia, ma esso risiede piuttosto nel suo stesso oggetto. L’universo non è scaturito da una mera necessità di pensiero, ma da una libera autodeterminazione e da un atto particolare. Ora quella filosofia che cerca di dimostrare l’essere sulla via così segnata, la chiamo filosofia storica. Tale filosofia, a differenza della filosofia soggettiva, che vorrei chiamare proprio per questo anche filosofia non-storica, non fonda la propria storicità sul rifiuto di ogni storia, ma cerca piuttosto di comprendere pienamente l’oggetto che le è dato. Il cristianesimo e la Rivelazione non sono per la filosofia una dottrina, come di solito li si presenta, ma sono una cosa che vuole essere inseguita fin nei suoi primi principi e quindi conosciuta a partire dai suoi fondamenti primi. Il cristianesimo non ha per la filosofia alcuna autorità se non quella di un oggetto da indagare imparzialmente e secondo verità.

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Lezione V

La detta filosofia storica non può dunque in alcun modo fare a meno del razionalismo, il quale è in generale necessario per la fondazione di ogni sistema. Cosa può esserci infatti di più alto della convinzione? Ma quella filosofia non è puro razionalismo, come invece lo sono i sistemi che abbiamo chiamato negativi. Ed è proprio lo storico nella filosofia quel che attrae così irresistibilmente lo spirito e non l’acquieta nonostante i così numerosi tentativi falliti di trovare un sistema nel quale l’umanità potesse alla fine mantenersi; è proprio questo carattere storico ciò che anche in secoli ostili alla filosofia ha tenuto in piedi lo spirito. Cos’era quel che nella mitologia e negli antichi misteri attraeva in maniera tanto irresistibile se non un figurarsi della storia in unità e la dottrina che su di esso si fondava? Se anche fosse possibile mutare l’intero cristianesimo in un puro razionalismo, non solo non si guadagnerebbe nulla, ma ne seguirebbero inevitabilmente freddezza e indifferenza. Questa è la ragione del netto rifiuto di un tale processo di riduzione da parte di popoli presso i quali esso sarebbe stato possibile anche da un punto di vista legale; questa è la ragione per cui anche i nostri più tenaci razionalisti consigliano di restare nella terra della Chiesa. Di un’altra prospettiva, secondo la quale una filosofia storica sarebbe quella che si dispiega in una storia dei sistemi filosofici, parlerò nella prossima lezione. Lezione V Che io non intenda la filosofia storica nel significato cui si è fatto riferimento nell’ultima lezione, credo sia ormai chiaro. Ora vorrei invece fare alcune osservazioni sul rapporto tra una storia della filosofia e la filosofia storica. Innanzitutto bisogna qui distinguere tra colui che sta ancora ricercando e chi ha già raggiunto la meta. Al primo si può solo augurare di giungere alla convinzione che nel nostro tempo il vero sistema non può che essere un sistema non esclusivo, il quale consenta di considerare col dovuto rispetto ogni principio filosofico e il sistema formato a partire da esso. Il vero sistema può ormai essere solo un sistema che abbracci tutto e si sollevi tuttavia al di sopra di tutto. Nel dirigersi verso questo punto d’arrivo, colui che ancora sta cercando troverà la storia della filosofia di grande utilità. Essa infatti può spronarlo a intensificare gli sforzi e a svilup-

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Invito alla filosofia

pare le ricerche, l’indurrà a non aver requie fin quando non abbia riconosciuto in tutti i sistemi la verità, la quale è certo soltanto nella loro limitazione, ma deve anche trovarsi in ciascuno di essi in quanto è verità. La verità può esser spesso distorta, ma non mancherà mai in quel che abbia impegnato seriamente lo spirito umano. Purtroppo è fin troppo vero che in mani meramente compilatorie la storia della filosofia diventa inevitabilmente una letteratura della filosofia. Tornando alla possibile utilità di una storia della filosofia, dico che essa può essere effettivamente utile solo a chi abbia già in qualche modo presentito l’eterna e imperitura filosofia. Il possesso di tale filosofia non può essere riservato né al singolo, né a un tempo determinato. Ma finché non ci si sarà accordati sulla via da percorrere, saranno impossibili passi in avanti. Di continuo persone prive di vocazione riconducono nell’oscurità ciò che si era guadagnato in precedenza. Sistemi artificiali vengono rapidamente costruiti e altrettanto rapidamente abbandonati, ma il vero sistema esige profonde e intense ricerche della verità. Una vera storia della filosofia è rivolta, almeno indirettamente, all’esposizione di quella eterna filosofia. E si annuncerà come vera storia della filosofia soltanto quella che presenti, al di là di ogni accidentalità, in una successione puramente scientifica, pochi grandi sistemi nella loro intima connessione. Ciascuno dei principali sistemi lo si può conoscere nella maniera migliore non seguendo la successione cronologica, ma considerando che esso si sviluppa e cresce laddove è innestata la sua radice. Attraverso una tale trattazione sarà poi facile per lo studente riconoscere quel sistema principale anche nelle sue conseguenze accidentali. Chiamo accidentale la successione cronologica, perché in essa lo spirito umano presenta proprio lo stesso fenomeno che osserviamo nelle forze della natura: torna indietro allo scopo di raccogliere nuove forze per la rincorsa. Esso abbandona una vetta già raggiunta, affinché, arricchito di nuove esperienze, possa conquistare e mai più perdere quanto aveva già in precedenza ottenuto. Ma se una storia della filosofia trattata nel suddetto modo può comunque essere di grande utilità per colui che sta cercando e aspira al sistema della vera filosofia, non ritengo tuttavia in alcun modo opportuno iniziare una introduzione alla filosofia per principianti con una storia della filosofia. Non dovrebbe – senza considerare quel che diceva Cicero-

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Lezione V

ne, e cioè che non v’è nulla di così strano che non sia già venuto in mente a un filosofo – non dovrebbe, dicevo, gran parte di quella storia apparire del tutto assurda al giudizio di un principiante che non sappia ancora nulla di quel che gli dovrebbe esser dato con la filosofia? È necessaria una precomprensione filosofica già solo per capire la domanda che dall’antichità fino a Fichte si è espressa come dubbio sulla realtà del mondo esterno. Quel procedimento non sarebbe diverso dal raccontare una storia di guerra a chi ancora non conosce la guerra. Una introduzione dovrebbe invece tentare di condurre l’ascoltatore in quel punto centrale a partire dal quale tutto si chiarisce e tutto può essere afferrato. Ritorno dunque al vero sistema della filosofia. Leibniz, nel luogo in cui annuncia l’idea di una imperitura filosofia futura, dice: «Quanto più ci si spinge a fondo, tanto più si troverà verità nella maggior parte delle pagine della filosofia. Si mostrerà che a fondamento anche dei dubbi degli scettici sulla realtà sostanziale, dei numeri e delle armonie di Pitagora e dell’e{n kai; pa'n di Parmenide v’è una verità. La necessità degli stoici, la filosofia vitalista degli ionici, le forme e le entelechie (intelligenze) di Aristotele si raccoglieranno tutte in un centrale punto prospettico». Qui Leibniz stesso accenna alla possibilità di un sistema che racchiuda in sé tutti quei sistemi e si sollevi tuttavia al di sopra di essi. In verità, lo spirito di setta è stato finora l’errore di fondo di tutti i filosofi. È stata una riduttiva autolimitazione l’aver respinto ciò che gli altri insegnavano. Non sulla via dell’esclusione, ma solo su quella dell’inclusione si può sperare di risolvere in armonia quella stridente disarmonia. Il vero sistema sarebbe in questo senso eclettico, cioè un sistema che elegga e ponga ogni principio nel luogo che gli appartiene. Non si può pertanto assumere l’espressione eclettico nel senso in cui si dissero eclettici anche i Neoplatonici, autori di quel torbido sistema che si è rinnovato anche nel nostro tempo. Non si può mettere insieme un vero sistema eclettico come si fa con gli acquisti al mercato: un’idea organica deve animare l’intero sistema. Considerando le spiegazioni e i chiarimenti dati, l’espressione filosofia positiva usata al posto di filosofia storica non dovrebbe più essere fraintesa. Chiamo filosofia positiva, lo ricordiamo ancora una volta, quella filosofia che nella spiegazione del mondo ammette qualcosa di positivo, quindi la volontà, la libertà, l’azione e non qualcosa di meramente

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Invito alla filosofia

negativo, penetrabile attraverso la sola necessità di pensiero. Non è ancora possibile una immediata decisione per l’una o l’altra filosofia, ma si può già osservare che quei sistemi logici non possono in alcun modo essere originari e che essi sono stati ritenuti veri soltanto quando si è smesso di sperare in una spiegazione della connessione positiva. Questa connessione è palesemente quel che lo spirito umano innanzitutto incontra. E tuttavia quei sistemi, senza una dimostrazione dell’impossibilità di una spiegazione della connessione positiva, vogliono rappresentarsi assolutamente come gli unici, vogliono dar pietre come pane e scorpioni come pesci. Certo oggi non si ritiene affatto necessario impegnarsi in quella dimostrazione, ma ci si richiama al fatto che la filosofia è stata da sempre considerata una scienza da costruire attraverso il mero pensiero. È chiaro però che in questa spiegazione non v’è più di quanto ognuno possa ammettere, e cioè che per far filosofia ci si debba rivolgere soltanto al proprio pensiero e non a un sostegno esterno. Ma riprenderemo il discorso nella prossima lezione. Lezione VI L’uomo dunque per far filosofia deve rivolgersi al proprio pensiero. Ma questo vuol dire soltanto che, qualunque sia la natura dell’oggetto della filosofia, ciò che di esso si aspira a conoscere lo si potrà possedere solo attraverso il pensiero. Non si sta affatto dicendo che la filosofia, anche per quanto riguarda il suo oggetto, debba rivolgersi al puro e semplice pensiero, e che quindi nell’oggetto stesso non possa esser contenuto più del mero pensiero. Se si accettasse una tale spiegazione, la filosofia verrebbe necessariamente a mancare. Chi infatti vuole pensare sul pensiero smette per questo di pensare. Il pensare che si fa oggetto a se stesso non può essere un pensare originario, che si riferisca cioè allo stesso tempo all’oggetto stesso, e quindi non può essere un vero pensare. Il pensiero originario si rivolge all’oggetto, senza prima pensare sul proprio pensare. È segno di scarsa fluidità nel pensiero, come a tavola di scarso appetito, se, quando si pensa o si mangia, ci si mette a rimuginare sull’azione stessa del pensare o del mangiare. Con una tale limitazione la filosofia smetterebbe di essere scienza del vero pensare. Questo è infatti un pensiero che si dirige verso qualcosa di esterno.

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Lezione VI

Proprio perché la filosofia pone la sua forza nel pensiero, il suo oggetto non può essere il pensare stesso. Il pensiero è infatti immediatamente trasparente a se stesso e dunque per pensarsi non ha affatto bisogno di un gran pensare. Un professore di filosofia, il quale vede nel concetto – in linea con la filosofia moderna in generale – il legame che tutto tiene, dice che la filosofia si genera attraverso la riflessione, quindi attraverso un pensiero che faccia del pensare stesso il proprio oggetto. Ma la riflessione in questo senso appartiene a tutte le attività umane e non costituisce affatto il carattere distintivo della filosofia. Anche il naturalista deve riflettere sulle proprie esperienze per poterle catalogare, e certo secondo un procedimento tutt’altro che filosofico. La filosofia non cerca di esporre esperienze, dal che tuttavia non segue in alcun modo che essa vada al di là di ogni esperienza, o comunque di tutto ciò che è commisurato all’esperienza. Ogni personalità, solo per richiamare l’attenzione su un esempio, sia essa sensibile o sovrasensibile, proprio perché è una personalità, non è un oggetto dell’esperienza immediata. Essa è tuttavia commisurata all’esperienza, essendo conoscibile solo attraverso il suo esternarsi. Anche nella vita ordinaria si dice «chi può sapere cosa c’è nell’uomo!», sottintendendo «prima della sua azione». Ogni personalità è allora secondo la sua natura qualcosa di commisurato all’esperienza, conoscibile mediatamente attraverso il suo agire, ovvero essa è cosa del mero pensiero. Dicendo che ciò che la filosofia ricerca è soltanto cosa del mero pensiero, non si è ancora detto che il suo oggetto si trovi al di fuori di ogni effettiva esperienza, o che secondo la sua natura non sia commisurato all’esperienza; e però non si afferma neppure che la filosofia potrebbe esser dimostrata in una esperienza immediata. L’oggetto proprio della filosofia è infatti cosa della riflessione, cioè di un pensiero che riflette sull’esperienza, proprio perché la filosofia non vuol rappresentare l’immediata esperienza stessa, ma soltanto una conoscenza che sia mediata dall’esperienza. La filosofia ha dunque a che fare con una ricerca graduale e non con un meccanismo di pensiero che una volta innescato proceda da solo senza alcuna riflessione. Se così fosse, la filosofia potrebbe essere comunicata anche al meno dotato, poiché ciò che procede necessariamente da sé è proprio quel che procede senza il nostro pensiero. La filosofia richiede invece un pensare che sia, dall’inizio alla fine, costantemen-

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Invito alla filosofia

te presente. Che poi il riflettere possa essere un pensare sul pensare, non voglio negarlo; più importante è per noi ora rispondere alla domanda: in che cosa consiste quel famoso puro pensiero? Esso è solo un pensare svuotato da tutto ciò che è commisurato all’esperienza. Tutto il positivo, tutto ciò che è volontà o la racchiude in sé e quindi anche tutto quel che è commisurato all’esperienza ne è escluso. L’inizio della filosofia consisterebbe allora nella decisione di ritrarsi nel puro pensiero, di sottrarsi a tutto, di astrarsi da tutto. Il puro pensiero è infatti ciò a cui si giunge attraverso l’astrazione – a sua volta raggiunta attraverso una decisione – dunque attraverso qualcosa di artificiale. Una filosofia del genere risulta essere allora qualcosa di fabbricato, il che è quanto di peggio possa esser detto di una filosofia. Ciò che alla fine si può raggiungere attraverso una tale completa astrazione è qualcosa che può essere soltanto pensato, che non viene più posto e non può essere più posto, qualcosa di artificiale, che manca di ogni obiettività, che è propriamente quanto di più vicino ci sia al nulla. Attraverso un tale inizio questa filosofia si mostra già come mero prodotto dell’intelletto, quindi come una filosofia solamente soggettiva e di conseguenza unilaterale. Se poi si pensa che quell’astrazione viene operata per esser di nuovo tolta e mutata in un che di concreto, si vedrà facilmente che quella filosofia può al massimo aspirare a esser riconosciuta come pezzo di bravura. In ogni libera arte è certo possibile imporsi arbitrariamente una condizione, anche solo per dimostrare la propria destrezza. Ma un pezzo di bravura artistico richiederebbe certo più raffinatezza di quanta ne sia necessaria per calarsi in un niente allo scopo di cavarne un qualcosa che però già si possedeva. La filosofia allora è certo un’opera del mero pensiero, ma non si può fare del pensiero stesso, pensato come mezzo, l’oggetto immediato. Il vero senso di quell’espressione è dunque che lo scopo della filosofia dev’essere una conoscenza reale, alla quale si può giungere attraverso il mero pensiero. Il suo oggetto è naturalmente qualcosa di positivo, qualcosa in più del semplice pensiero; la via per raggiungerlo, l’uomo deve trovarla attraverso l’intelletto. Il grande libro della natura è aperto davanti ai nostri occhi. L’uomo può leggerlo e capirlo solo con l’aiuto del proprio intelletto, percorrendo una via che non può essergli data, ma che egli stesso deve tracciare.

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Lezione VII

La filosofia è stata chiamata anche scienza del puro intelletto, ma con questa espressione sicuramente non si intendeva ciò che più tardi è stato detto intellectus purus. Ci si riferiva piuttosto all’intelletto vivo, efficiente, a quell’intelletto, esaltato anche nella vita, che consiste nel trovare i mezzi per un determinato scopo. Se si giudica in questo senso la filosofia cosa dell’intelletto, non si può intendere qui l’intelletto generale, ma quello speciale che può essere eccezionalmente ascritto soltanto a particolari individui. La filosofia è stata inoltre definita come scientia rerum mere intelligibilium. Anche questo concetto è stato frainteso, riferendo la rem mere intellegibilem semplicemente al sovrannaturale, come se puri nohtav non potessero presentarsi anche nella natura. Secondo un’altra spiegazione della filosofia essa sarebbe la scienza per eccellenza o la scienza tout court, perché soltanto la filosofia è assoluta, cioè non muove da alcun presupposto, mentre le altre scienze presuppongono già qualcosa come certo. Prima di concludere, vorrei soltanto fare ancora qualche osservazione sul significato di scienza. Un sapere in senso proprio viene fondato soltanto attraverso l’esclusione di un a sé e per sé possibile opposto. Colui che afferma di sapere deve poter indicare qualcosa il cui contrario non sia impossibile. Un sapere si dà solo laddove vi sia certezza, cioè un dubbio superato. E si può dubitare, come dice la parola stessa, solo laddove sono possibili due casi. Ne segue che il sapere è un esser convinti grazie alla positiva esclusione dell’opposto. Lezione VII Miei cari signori! La determinazione scienza la filosofia l’ha in comune con diverse scienze, in particolare con quelle matematiche. Ma poiché quella determinazione, in quanto riferita alla filosofia, viene intesa in un senso particolare e il sapere in essa contenuto deve di conseguenza avere un peculiare significato, sarà innanzitutto necessario determinare questo sapere in maniera più precisa. L’espressione «sapere» viene in genere utilizzata in un senso più ampio e in uno più ristretto. Nel primo caso s’intende quel sapere in sé che può essere trovato attraverso la mera riflessione, senza alcun altro aiuto, ovvero quel sapere

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Invito alla filosofia

il cui contrario è impossibile. Da questo sapere nel mero pensiero o comunque ottenibile attraverso il solo pensiero, si distingue il sapere in senso stretto, il quale è invece deciso attraverso un actus, un’azione. Un tale sapere si trova solo laddove qualcosa può essere e non essere; per questo lo si può chiamare anche sapere enfatico ovvero sapere cum emphase. Così in ogni espressione «è» può esser detto con o senza enfasi. Per esempio nella proposizione «l’orologio è una macchina» – in cui soggetto e predicato sono legati attraverso il mero pensiero – la copula «è» viene posta senza alcun vigore, senza enfasi. Affinché la proposizione diventi enfatica, il soggetto deve poter essere o non essere. A è B, se A può anche essere non B. Il sapere in questo senso racchiude sempre in sé la possibilità del contrario ed è per questo un sapere che decide; la decisione si dà infatti solo laddove si sa con certezza. È forse necessario spiegare ulteriormente la parola enfatico. Si tratta di un’espressione della fisica e significa trasparente. La proposizione «A è B» è detta enfatica in quanto lascia trasparire la possibilità per cui A potrebbe anche non essere B. Da quanto detto finora risulta che il sapere in matematica non è propriamente un sapere, poiché il suo contrario non si dà mai come possibile. Anche le sue dimostrazioni apagogiche ricorrono infine a una impossibilità internamente fondata, essendo le ipotesi assunte solo fatti soggettivi costruiti in vista della dimostrazione. La certezza in matematica è allora di tutt’altra natura rispetto alla certezza in filosofia. Chiunque abbia minimamente riflettuto sul modo di procedere della geo­me­tria sa che tra le sue premesse e le conseguenze non v’è nient’altro che un sapere logico, non certo un sapere attuale ed enfatico. Anche Platone infatti, nella genealogia delle scienze, introduce la geo­me­tria soltanto come diavnoia e non come ejpisthvμh. La diavnoia è una scienza di mera intellezione, per questo è corretto dire che la matematica intende certo qualcosa, ma non sa niente. Così Platone in una delle sue acute similitudini dice che la geo­me­tria sogna quel che veramente è, ma non lo raggiunge. Come nel sogno infatti non dubito degli oggetti che mi appaiono, e proprio per questo neanche so che essi effettivamente sono, così in geo­me­tria, con l’esclusione del dubbio, viene escluso anche il sapere affermato ed enfatico. Se dunque le cosiddette scienze apodittiche, cioè quelle che pongono come impossibile il contrario della loro affer-

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Lezione VII

mazione, non solo non sono scienze che sanno, ma neanche possono esserlo, la filosofia allora, a differenza di quelle scienze, dovrà essere una scienza che sa, una scienza cioè non del non poter essere, ma di quel che comunque potrebbe essere. In una parola, una scienza positiva. Filosofia è stata chiamata anche quella scienza che non presuppone nulla e comincia assolutamente dall’inizio. In questa determinazione bisogna intendere l’espressione «scienza che non presuppone nulla» in maniera non del tutto letterale. Chi infatti non presuppone nulla, non può nemmeno posporre nulla. Quella espressione deve essere intesa nel senso che non si può presupporre nulla che provenga da qualcos’altro. In questo modo non si esclude affatto la possibilità di determinare la natura di ciò che non ha più alcun presupposto. Quel prius che precede tutto, che non ha più alcun prius, proprio per questo non deve anche essere ciò che è svuotato da ogni commisuratezza all’esperienza. Esso dev’essere in generale e secondo la sua natura commisurato all’esperienza, se non immediatamente, certo in maniera mediata. Se si considera quel prius una intelligenza che liberamente vuole e agisce, comunque lo si dovrà conoscere attraverso il suo fare e agire. La presupposizione invece dell’assenza in quel prius di ogni commisuratezza all’esperienza condurrebbe la filosofia a quel che più si avvicina al nulla, a ciò che non si può più non pensare; nel prius stesso infatti non si trova alcuna determinazione della natura o della costituzione né dell’inizio, né del conosciuto a priori. Ma poiché ogni intelligenza è il prius della sua propria azione, e certo non per questo smette di essere commisurata all’esperienza, non si vede perché quel primo prius dovrebbe cessare di essere qualcosa di commisurato all’esperienza. Non si può dire che ciò che può essere conosciuto a priori smette di essere qualcosa di commisurato all’esperienza. Così l’artista ha una conoscenza a priori della sua opera, ma anche altri possono arrivare a conoscerla a posteriori. L’espressione «la filosofia è una scienza che comincia assolutamente dall’inizio» dice dunque soltanto che la filosofia deve derivare in maniera originaria tutte le cose da un primo inizio, nel loro primo annunciarsi, secondo l’ordine in cui sono nate e si sono sviluppate. Ma con questa definizione non è stato ancora stabilito nulla di determinato sulla natura e la costituzione dell’inizio stesso: non è stato ancora detto

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Invito alla filosofia

se lo si possa o debba conoscere attraverso la ragion pura o se invece tale conoscenza richieda qualcosa in più. E non si è stabilito nulla sulla natura del sorgere delle cose, se sia storico e quindi commisurato all’esperienza, oppure meramente logico e razionale. Ma, qualunque sia la natura dell’inizio, con la parola «filosofia» non si potrà mai indicare una scienza puramente logica che comincia dall’inizio; chi comincia logicamente va incontro proprio per questo a una petitio principii. Che cosa vuol dire infatti quel pretendere che ci si ritiri nel mero pensiero, se non che non bisogna presupporre che l’inizio che tutto spiega contenga più del mero pensiero, che esso sia più d’un mero concetto (pretesa che racchiude chiaramente in sé la negazione di un inizio personale)? Se si può certo in una dottrina nella giovinezza non decidersi per un inizio personale, sicuramente non ne segue che non ci si possa più decidere per un tale inizio. Se alla fine tutto si risolvesse effettivamente nel pensare, ogni inizio sarebbe quel che ormai non può non esser pensato (un triste pensiero, invece di una gioiosa affermazione). Ciò non potrebbe che essere la fine della filosofia, poiché il contrario dovrebbe subito mostrarsi come perfettamente impossibile. Attraverso la filosofia, si dice ancora, l’uomo dovrebbe esser condotto al di là della mera rappresentazione. Questa posizione è stata sostenuta da Reinhold e, prima di lui, da Eschenmayer. Secondo la sua classificazione le conoscenze si susseguono in questo ordine: rappresentazioni, concetti categorici (Kant) e infine concetti della ragione, cioè idee (Fichte). Ora non possiamo dedicarci all’esame di questa dottrina, si tratta solo di capire come vadano intese quelle rappresentazioni oltre le quali l’uomo dovrebbe esser condotto dalla filosofia. Se si suppone che si tratti soltanto di comuni rappresentazioni empiriche, allora con quella proposizione si afferma qualcosa di scontato. Intendendo invece che la filosofia debba andare al di là di tutte le rappresentazioni, incorriamo di nuovo in una petitio principii. In questo modo infatti anche l’oggetto della filosofia verrebbe a trovarsi al di là di ogni esperienza, il che era proprio quel che doveva esser dimostrato. Certo la maggior parte si ritrova a credere di dover innanzitutto ricercare i concetti più lontani, ma anche di questo è possibile dubitare e sarebbe il trionfo della filosofia se riuscisse a mostrare che anche un puro nohtovn è qualcosa di vicino alla rappresentazione.

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Lezione VIII

L’ultimo sistema deve essere un sistema naturale, esso si rappresenterà soltanto attraverso pochi grandi tratti. L’insipienza può salire fino all’insopportabilità, ma ancora più grande è la tortura inflitta da un sistema innaturale. Diceva già un antico: rJadv/ ion to; ajlhqev"! Riassumendo, possiamo dire che le consuete definizioni di filosofia possono servire a distinguere la filosofia dalle altre scienze, ma non riescono in alcun modo a chiarire in maniera decisiva la natura del rapporto tra filosofia logica e filosofia positiva. Di questo importante punto, da cui dipende l’ingresso stesso nella filosofia, ci occuperemo nella prossima lezione. Lezione VIII Cari Signori! Se si deve decidere tra due sistemi in disaccordo, bisogna innanzitutto vedere se abbiano qualcosa in comune. La controversia sulla quale si deve qui decidere ha luogo tra i sistemi filosofici negativi o meramente logici e quelli positivi o storici. In precedenza si era già osservato che i sistemi positivi non escludono i negativi, sebbene accada l’inverso quando i sistemi negativi si pongono come assoluti. Bisognerà quindi innanzitutto mostrare nei sistemi positivi un lato negativo; poiché infatti i sistemi positivi non escludono i negativi, si dovrà supporre che essi racchiudono in sé anche un lato negativo. Ora i sistemi sono positivi principalmente per questi tre presupposti: (1) l’esistenza del mondo non è un’esistenza meramente accidentale, ovvero essa non è qualcosa che si comprende attraverso la mera necessità del pensiero; (2) essa è piuttosto qualcosa che può esser spiegato attraverso un libero actus, ovvero qualcosa che è liberamente posto, liberamente causato, e proprio per questo (3) un libero autore è la causa dell’organismo del mondo. Solo dopo che si è arrivati a quell’autore, può iniziare la scienza positiva. Ma la questione preliminare è come appunto si arrivi a quel libero autore. Chiaramente questo non può accadere attraverso un semplice concetto generale di autore del mondo, attraverso un tale concetto infatti non è dato proprio nulla. Si può invece risalire a quel punto che precede la scienza positiva riconoscendo innanzitutto quell’autore come possibile, per il che però si richiede: (1) che si dimostri

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Invito alla filosofia

che egli vuole essere; (2) che abbia nella sua natura anche i mezzi per essere. Solo dopo l’accertamento di quanto affermato in questi due punti può esser creata una scienza positiva, solo allora può esser mostrata a priori una genealogia dell’essere ulteriore. La mera consapevolezza che ci sia un libero autore, un Dio, non può servire a nulla; bisogna dimostrare almeno provvisoriamente come possibile una connessione reale, causale, del mondo con Dio. Già da qui si può riconoscere la debolezza della vecchia metafisica, la quale affermava di poter dimostrare Dio, ma tralasciava volutamente la dimostrazione della natura divina o la distorceva sino a renderla incomprensibile. Quale connessione si dà infatti tra un autore delle cose e un ens realissimus come lo si definisce di solito? Attraverso un tale concetto non si dovrebbe piuttosto essere indotti a credere che l’ente più reale di tutti non abbia più creato nulla fuori di sé? Anche il concetto di infinità offre altrettanto poco un mezzo per raggiungere il finito. Ciò che innanzitutto bisognerebbe chiedersi in quell’indagine che precede la scienza positiva è se Dio sia conoscibile a priori come possibile creatore. Conoscere a priori qualcosa significa senza dubbio conoscerlo a partire dal suo prius, ma questa proposizione in riferimento a Dio si muta in assoluta contraddizione. Come potrebbe infatti il prius assoluto essere a sua volta conosciuto da un ulteriore prius? Non smetterebbe in questo modo di essere un prius assoluto? Ora sebbene Dio non sia conoscibile a priori da un qualcosa di esterno a esso, si è tentato tuttavia di costruire la possibilità di questa conoscenza a priori posponendo il prius al suo concetto, in modo da poter poi affermare la necessaria esistenza di Dio attraverso il suo concetto. Di questo procedimento ci si è serviti nel vecchio argomento ontologico, utilizzando il quale si è creduto di possedere una prova condotta a priori. Ma con questo argomento non si ottiene nulla. Esso non può dimostrare l’esistenza, ma solo il modo dell’esistenza. Se in Cartesio riconduciamo tale argomento al suo vero contenuto, vedremo che esso non vuol dire altro che questo: risiede nel concetto di un essere perfettissimo che esso esista. Ma da dove poi questo concetto provenga, resta indeterminato: viene supposto come fatto della coscienza. Poiché Dio dev’esser visto come l’essere perfettissimo, allora deve necessariamente esistere. Ma con quest’argomento si dice solo che Dio, se è, può essere solo ciò che è necessariamente e

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Lezione VIII

non accidentalmente. Ma la modalità d’esistenza non spiega affatto la natura dell’esistente. Il modo dell’essere non dà alcun concetto della natura dell’essere. Tra il concetto dell’essere necessariamente esistente e quello del creatore non c’è alcuna connessione, da un’esistenza necessaria non segue la possibilità di un creatore. Quella esistenza resta comunque una determinazione esteriore. E infatti, se anche riconoscessimo in quell’argomento una prova dell’esistenza necessaria, cosa avremmo guadagnato? Anche ogni cosa finita è necessitata a esistere ed è proprio per questo un essere necessariamente esistente. O, se il senso di quella esistenza necessaria dovesse esser questo, che Dio non è determinato all’esistenza da nient’altro, in sé o fuori di sé, cosa si potrebbe dire affermando quella necessità se non che Egli esiste senza fondamento? E non chiamiamo accidentale proprio una tale esistenza? Non dovremmo secondo questa presupposizione coerentemente affermare che Dio è un essere che esiste in maniera del tutto accidentale, non essendo appunto possibile scorgere alcun fondamento del suo essere? Proprio questo argomento cartesiano è ciò che ha prodotto la grande confusione nei sistemi filosofici, ciò che li ha oppressi come un indissolubile incantesimo o piuttosto come un incubo. Una filosofia migliore sarà possibile solo se riuscirà a esorcizzare quel concetto. Per il momento basta osservare solo questo: concetto ed essere di Dio non cadono l’uno fuori dall’altro. Non c’è alcun concetto di Dio fuori e prima del suo essere, Egli non è pensabile prima che sia. Dio può essere pensato come possibile solo perché è attualmente. Ciò si accorda anche con il concetto di ente necessario che si ha in mente quando si dice che esso non è derivabile puramente da se stesso né è causa sui come l’intende Spinoza. In breve, quando si dice che è l’essere originario. Noi chiamiamo infatti originario, anche nella sfera della produzione artistica, non ciò che viene prodotto secondo un previo concetto, ma ciò di cui otteniamo un concetto solo perché è, ovvero ciò che noi comprendiamo come possibile solo attraverso la sua attuale effettività. Se Dio fosse preceduto da un concetto, se cioè fosse quel che non è originariamente ma necessariamente, come sarebbe possibile allora un ateismo, sia che si tratti di un positivo negare o di un negativo non conoscere? L’ateismo non può essere, non appena Dio non può non essere.

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Invito alla filosofia

La storia dei sistemi filosofici dopo Cartesio mostra chiaramente dove conduca il concetto di Dio inteso come ciò che è di per sé evidente. Certo non c’è più alcun ateismo, ma Dio è diventato una sostanza generale. Una necessaria conseguenza questa, del tentativo di trovare Dio sulla via dell’astrazione. Che cosa infatti si potrebbe infine trovare su questa via, se non una sostanza generale? Cartesio e Spinoza si trovano in questo senso in una stretta, necessaria connessione. Quella sostanza generale non si lascia certo in alcun modo negare e sottrarre dall’essere. Vorrei a questo punto riassumere brevemente ciò che abbiamo finora trovato. Il concetto di Dio è un concetto tràdito in maniera precisamente determinata. Se non vogliamo al posto di Dio una sostanza indeterminata e generale, allora Egli può essere solo colui di cui sappiamo che è soltanto perché è. Dio, nella pienezza del suo concetto, è ciò che più di ogni altra cosa è conoscibile soltanto a posteriori. Inoltre: (1) il sapere che comincia veramente dall’inizio sarà solo quello che, muovendo da Dio, segua in origine, secondo il suo primo annunciarsi, la nascita e lo sviluppo dell’essere derivato da Dio; (2) quel punto di partenza potrebbe esser raggiunto solo a posteriori. Abbiamo dunque riconosciuto due diverse direzioni: una progressiva, che procede appunto dal prius conosciuto al posterius, da Dio al prodotto, o dal centro alla periferia, e una regressiva che torna indietro dal posterius al prius assoluto, dal prodotto al producente, dalla periferia al centro. Oggetto immediato dell’esperienza è soltanto il mondo. Se quindi Dio deve essere conosciuto a posteriori, allora sarà possibile spingersi verso di Lui solo attraverso il mondo. La connessione nella prima direzione sarà, secondo quanto detto, obiettiva, nell’altra solamente logica e quindi soggettiva. Incontriamo qui una inevitabile differenza nella direzione della filosofia ed è facile già a questo punto concludere che non può esserci un concetto generale di filosofia, essendo possibile chiamare filosofia sia la scienza che procede nella prima direzione, sia quella che procede nella seconda. Rimando una più dettagliata spiegazione di questo punto alla prossima lezione.

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Lezione IX

Lezione IX Cari Signori! La scienza positiva può muovere solo dall’assolutamente positivo. Il positivo è propriamente ciò di cui non si può sapere in anticipo che è. Esso è ciò di cui si sa che è soltanto perché è, e quindi in quanto lo si esperisce. L’assolutamente positivo è ciò che meno di ogni altra cosa è conoscibile a priori. Ogni singola cosa all’interno della natura è conoscibile a priori più del fondamento originario di tutto l’essere. Si distingue di nuovo l’esser prius dal conoscibile a priori. Il vero esser prius non ha niente prima di sé, ciò che meglio conosco a priori è quel che ho fatto da solo. Tutti coloro che affermano che il fondamento originario di tutto l’essere è conoscibile a priori, partono da qualcosa che hanno fatto da se stessi. La geo­me­tria è una mera scienza a priori perché produce essa stessa tutti i suoi concetti, ma le cose non vanno allo stesso modo se si tratta del prius assoluto. L’espressione «la filosofia è una scienza aprioristica» non è una definizione incondizionata di filosofia. Il suo senso è solo che nella filosofia tutto viene conosciuto dall’inizio, cioè nell’ordine in cui deriva da un inizio obiettivo. Ora, se quest’inizio stesso è positivo, allora non è conoscibile a priori, ma solo a posteriori. Sono state così riconosciute nella filosofia solo due direzioni, una progressiva, dal prius al posterius, e una regressiva, dal posterius al prius. È facile vedere che solo la prima direzione può essere la via della scienza obiettiva. Ma si dovrebbe per questo negare assolutamente il predicato di scienza all’altra direzione? La connessione nella prima direzione è la connessione dell’essere stesso, dell’obiettivo divenire. Nella seconda invece si dà solo una connessione logica, soggettiva. Entrambe le direzioni sono nella filosofia necessarie e inevitabili. Se non venissero però chiaramente distinte sarebbe inevitabile una confusione, la quale diventerebbe massima nel momento in cui si mostrasse improvvisamente il concetto di una scienza positiva premendo per una più chiara decisione. Ritornando al problema dell’attribuzione del nome di filosofia alla direzione progressiva o a quella regressiva, posso dire che non sarebbe impossibile ritenere la direzione meramente logica propria della filosofia, poiché essa comunque consiste in una ricerca, in un’aspirazione alla sapienza. Ma solo una scienza che procede dall’inizio, attraverso il mezzo, fino al punto finale può esser detta sapienza. L’uomo si trova implicato

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Invito alla filosofia

in un processo nel quale non può comportarsi in maniera puramente passiva, ma deve intervenire anche attivamente; per far questo sarà però necessario conoscere il processo stesso. Dunque per seguire con comprensione e libertà l’altrimenti inarrestabile corrente, v’è un assoluto bisogno della sapienza. Se si volesse far valere semplicemente la scienza logica come filosofia, la vita garantirebbe comunque per la realtà di quella scienza completa. Se la scienza voluta infatti fosse assolutamente irraggiungibile, allora la tensione verso di essa sarebbe stoltezza. Ma la stoltezza non può mai essere chiamata sapienza. La nostra intenzione comunque non è tanto stabilire a quale delle due direzioni spetti effettivamente il nome di filosofia, quanto piuttosto far chiarezza sulle visioni in contrasto, in modo da riuscire a capire subito di che cosa si stia parlando, se dell’uno o dell’altro metodo. Il risultato della ricerca sin qui condotta è infatti in breve questo: noi abbiamo indicato in filosofia accanto alla direzione progressiva o positiva, anche una direzione regressiva o negativa e si è mostrato che è possibile attribuire anche a quest’ultima scienza il nome di filosofia. E proprio attraverso l’individuazione di quelle due direzioni abbiamo trovato che in effetti la filosofia storica ha qualcosa in comune con i sistemi negativi che si sono succeduti finora. È stato così fornito anche il medio che si cercava per una possibile reciproca comprensione; ci si intende e comprende infatti solo se si ha in generale qualcosa in comune. Dicevo: abbiamo trovato ciò che la nostra prospettiva ha in comune con tutti i sistemi che l’hanno preceduta. Ma per chiarire in maniera più precisa questo punto è necessario andare nel particolare più di quanto non abbia fatto finora. Intanto voglio osservare che non dev’esser mostrata una successione storica, ma prenderò in considerazione i sistemi moderni solo in quanto tutti rappresentano la direzione regressiva e non procedono affatto dal supremo, o, se lo fanno, propongono un supremo che porta in sé chiari i segni della sua provenienza empirica. È noto a chi solo abbia un po’ di confidenza col sistema cartesiano, il quale sta all’inizio di tutta la filosofia moderna europea, che esso non vuol essere nulla di più di un sistema regressivo, cosa che anch’esso dice di sé. Cartesio muove dal solo immediatamente certo, che è per lui il suo proprio pen-

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Lezione IX

siero e dunque un qualche essere: cogito ergo sum. La filosofia ha chiaramente per lui un inizio empirico. Solo alla fine egli giunge all’idea di Dio, in modo che il supremo viene a costituire per lui non l’inizio, ma la fine della filosofia. Della sua dimostrazione dell’esistenza di Dio si è già detto e abbiamo osservato che si è creduto di essere in possesso con tale dimostrazione di un argomento a priori. Il suo fondamento ultimo, come detto, è di nuovo un fatto. Solo dopo aver presupposto la coscienza, Cartesio conclude dalla natura di un ente perfettissimo al suo essere. L’ente perfettissimo infatti non potrebbe esser tale se esistesse in maniera accidentale, cioè nella dipendenza. Ma, se non c’è bisogno di dimostrare che un essere accidentale, dunque oltremodo relativo, non può essere perfettissimo, non ne segue che questo esiste, ma soltanto che, se esistesse, non esisterebbe nella dipendenza. Ora però non si tratta qui di confutare quell’argomento, ma soltanto di mostrare la direzione negativa. Questa appare chiara del resto anche per il fatto che Cartesio, dopo aver posto il concetto dell’ente supremo, rimane bloccato; se avesse preso la direzione opposta, si sarebbe sicuramente accorto della debolezza e dell’inesattezza del suo sistema. Spinoza inizia dove Cartesio finisce. Se tuttavia si osserva attentamente da che cosa egli muova, si troverà facilmente che il suo prius è ripreso proprio dalla filosofia cartesiana, con la sola differenza che Cartesio considera come supremo ancor sempre un creatore, mentre Spinoza ha soltanto una sostanza generale, cioè quel che resta dopo che sono state tolte tutte le distinzioni dell’essere. Questo concetto dell’essere, che si trova generalmente nel mondo e non può essere più rimosso dall’essere speciale delle cose, presuppone proprio il mondo dell’essere diversificato ed è per questo soltanto un concetto negativo, astratto. La dipendenza del sistema di Spinoza dalla filosofia di Cartesio si mostrerà anche considerando quanto segue. Il mondo fu diviso da Cartesio in mondo della natura estesa e mondo della natura pensante, intesi come opposti che si escludono completamente l’un l’altro. Poiché tuttavia non poteva restargli nascosto quanto variamente i due mondi si toccassero, per esempio nelle impressioni dei sensi e nei pensieri, o nel passaggio dei pensieri nella natura esterna, egli si vide necessariamente costretto ad assumere un qualcosa che mediasse questi fenomeni, ponendo tale mediazione nella costante assistenza del supremo

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Invito alla filosofia

onnipotente. Ma questo supremo ha in Spinoza già smesso di essere libera causa, Dio è diventato una sostanza generale. In Spinoza, Dio è ridotto a ciò che media in maniera sostanziale, all’identità della natura pensante e di quella estesa. Le due nature rimangono però così contrapposte come lo erano in Cartesio, dal che si vede che questa identità è figlia della filosofia cartesiana. Ma poiché Cartesio ha tratto questa posizione soltanto da un’esperienza incompleta, dobbiamo evidentemente giudicare la stessa cosa di Spinoza. Ne segue che anche Spinoza è da confutare di fatto o empiricamente, essendo possibile mostrare che il pensante e l’esteso non sono così separati come egli ritiene, che anzi partecipano in larga misura l’uno dell’altro e che secondo i presupposti spinoziani non sarebbe possibile costruire neppure un corpo organico. L’intero sistema di Spinoza ha dunque in sé il carattere negativo. Poiché del resto egli non produce nulla nella direzione progressiva, non potendo né mostrare come nella suprema sostanza generale si riuniscano pensiero ed estensione né come questi arrivino alle modificazioni (Spinoza non avrebbe assolutamente parlato di modificazioni se nell’esperienza non si fossero manifestate cose particolari), poiché dunque conosce quella sostanza generale solo come la si può conoscere a partire da una rozza esperienza, la direzione progressiva è in lui soltanto apparente, tutto il reale resta completamente nella direzione regressiva essendo appunto solo il risultato di una empiria molto parziale. Spinoza ha dunque bisogno tanto poco quanto Cartesio di una correzione speculativa. Entrambi possono già essere confutati attraverso una più profonda e penetrante esperienza. Spinoza ebbe subito fama di ateo e questa è la ragione per cui il suo sistema non fu ammesso nella scuola della filosofia. Il suo tentativo fallito di partire dal supremo riportò tuttavia la filosofia di nuovo alla direzione regressiva. Già in Leibniz si mostra di nuovo questa direzione. Egli non ha certo edificato alcun sistema proprio, ma le sue idee furono raccolte in quella già più volte menzionata metafisica di scuola che potrebbe esser chiamata la normale filosofia tedesca. Io sono ben lontano dal volerne parlare utilizzando i toni sprezzanti con i quali dopo Kant molto spesso se ne parla; ciò che essa voleva ottenere è infatti proprio ciò che anche oggi si tenta, e per stabilire che non fosse riuscita a ottenerlo non occorreva certo la critica kantiana. Dal fatto però che essa non abbia

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Lezione X

raggiunto il suo scopo, né poteva farlo, non segue che la via regressiva sia in generale sbagliata, sebbene da quanto è stato già osservato si possa concludere che tale via non sia la via della scienza obiettiva. Più di questo lo stesso Kant non ha dimostrato. Che alla base di quella filosofia ci fosse tuttavia qualcosa che è necessario per dare alla filosofia calma e consistenza, risulta chiaro già dal fatto che dopo Kant la filosofia non è più riuscita a trovar pace. Ma su questo diremo di più nella prossima lezione. Lezione X Cari signori! Soltanto quella scienza, che da un inizio già conosciuto attraverso necessari punti medi perviene alla fine, contiene la connessione obiettiva, storica. Ogni storia infatti è progressiva. Quella scienza invece che ricerca l’inizio non ammette in sé una connessione obiettiva, ma soltanto una connessione logica, la quale potrebbe appunto esser detta astorica. È stato già mostrato che la scienza negativa può essere una direzione necessaria nella filosofia. L’errore della filosofia negativa pertanto non può risiedere nella direzione negativa in sé, ma soltanto nell’incapacità di spingersi sino a quella positiva. Che essa non trovi il punto di penetrazione nella direzione positiva dimostra che non è giunta ai fatti veri, nei quali è espresso il positivo. Nella distinzione tra le due scienze è quindi necessario mostrare come la negativa abbia falsamente compreso quei fatti. Non è vero che la natura pensante e quella estesa siano così contrapposte come si è sostenuto. Poiché il principio di questi sistemi è falso e l’errore dipende da una inesatta comprensione del fattivo, è possibile allora confutare tali sistemi già solo attraverso la mera esposizione dei fatti adeguatamente compresi. Per quanto in avanti possano averci sinora condotto le nostre ricerche, ci troviamo tuttavia ancora nell’ambito della direzione negativa, oltre la quale i sistemi che ci hanno preceduto non sono comunque riusciti a pervenire. Spinoza si trova così involto in concetti negativi che il suo supremo è solo la sostanza del mondo e non può spingersi al di là di questo. Cartesio ha almeno tentato di andare al di là di mondo. Quel che a questo punto bisogna esaminare è la metafisica scolastica che discende dalla filosofia di Lei-

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Invito alla filosofia

bniz. Che anch’essa tenti di raggiungere il supremo risulta già chiaro dal fatto che le dimostrazioni teleologiche sull’esistenza di Dio ne costituiscono l’ultima parte e che dunque tale metafisica aspira a raggiungere lo scopo che si è proposta attraverso una successione delle dimostrazioni. Dalla prima infatti, cioè dall’argomento ontologico, segue al massimo il concetto dell’essente che è all’inizio, da se stesso e senza fondamento. Ma questo essente da se stesso può essere tanto una sostanza spinoziana quanto una libera personalità. Nel concetto di essere da sé non è data alcuna libera personalità autocosciente; quest’ultimo concetto bisogna che arrivi da qualche altra parte. Quella metafisica dunque fa seguire all’argomento ontologico il cosmologico, dove dall’impossibilità di pensare le cose di questo mondo come essenti da sé, si conclude al concetto di una causa producente a sua volta non prodotta, la quale viene quindi detta necessaria. Ma anche questo concetto è molto indeterminato e non offre alcuna conoscenza sul modo della produzione; con questo argomento infatti non ottengo più di quanto già non avessi. Certo si potrebbe mettere in dubbio la possibilità di una piena penetrazione del modo di quella produzione, ma lascio per il momento indeciso se essa sia possibile o meno. L’onestà scientifica esige comunque che io non prenda quello sguardo generale per una penetrante visione. Chi conosce Dio come causa non conosce ancora il modo della causa. Secondo Spinoza Dio è una causa rerum, la quale è immanente e non transitoria, così come l’organismo è causa degli organi, essendo questi posti insieme a quello, in modo che l’organismo realizzi se stesso negli organi solo secondo il suo concetto. Una causa transitoria è invece per esempio lo spirito dell’artista nei confronti dell’esteriorità che egli produce. Quella metafisica o in generale una vera metafisica deve mostrare Dio non meramente come causa interna, ma anche come una causa transitoria. Per questa ragione è necessario che essa mostri anche il modo in cui ciò sia possibile. Spinoza pervenne al concetto di quella causa immanente solo perché non penetrò il modo di tale possibilità. Anche per lui infatti le cose non sono da se stesse, ma attraverso qualcos’altro, come nella metafisica cui si è fatto riferimento; anch’egli quindi, definendo la sostanza generale come ciò cuius conceptus non eget conceptu alterius rei, o come ciò che per se concipi potest, ritiene che le cose finite non potrebbero essere com-

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Lezione X

prese senza qualcos’altro. E quand’anche ci spingessimo in maniera effettivamente scientifica sino a un Dio che produce le cose come un qualcosa di esterno a se stesso, e quindi non come meri organi, resterebbe pur sempre la possibilità che Dio le produca solo per una necessità procreante: in breve, tra il concetto di causa e quello di causalità restano ancora molti concetti intermedi e quindi l’argomento cosmologico non raggiunge affatto il suo scopo. Inoltre non si dovrebbe prendere in considerazione soltanto l’accidentalità dell’essere, ma anche il modo accidentale dell’essere. E non sarebbe facile qui avvicinarsi a un’idea del mondo come produzione da due opposti principi equipotenti, in breve all’idea di un dualismo nell’antico senso orientale della parola? Se del resto la metafisica moderna non è stata condotta fino a questo punto, è solo per la disciplina esercitata dal cristianesimo. Ma la filosofia è omnium temporum et hominum, essa deve soppesare tutte le possibilità. Quei due principi non avevano bisogno del resto di essere rappresentati come se l’uno fosse assolutamente buono e l’altro assolutamente malvagio. E forse il dualismo non è mai stato rappresentato in questo modo, ma piuttosto in modo che un principio precedesse l’altro e a questo non restasse che impedire quanto più possibile la produzione del primo al fine di procurarsi la più ampia parte possibile. Ora, considerando il contrasto a partire dal primo dio, l’altro ci apparirà certamente malvagio, ma il secondo avrebbe ugual diritto di chiamare malvagio il primo. In breve, quel concetto generale di causa del mondo è ancora troppo generale perché si possa fondare su di esso un concetto determinato di Dio. Per questo l’antica metafisica aveva trovato ancora un terzo argomento, attraverso il quale intendeva arricchire il concetto di causa. In questo argomento si conclude dalla commisuratezza a scopi nella natura, in particolare nella natura organica, a una causa che necessariamente dev’essere un’intelligenza. Si tratta del cosiddetto argomento fisico-teologico. Ma anche questo concetto è ancora troppo generale. Il solo intelletto infatti non è sufficiente per produrre un mondo: Dio potrebbe essere un essere intelligente e tuttavia potrebbe non produrre il mondo. È chiaro che il concetto di «natura intelligente» non distingue Dio in quanto tale. Anche l’uomo infatti ha una natura intelligente ed è persino capace di sapienza. Per portare alla luce la differenza si pensò che fosse necessario

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Invito alla filosofia

chiamare Dio non sapiente, ma onnisapiente, non potente, ma onnipotente, dal che si mostra che quell’argomento non è ancora per sé sufficiente, dunque che la differenza specifica tra Dio e l’uomo non è contenuta nel concetto di intelligenza o di bontà ecc., ma in quello di creatore. Per spingersi in questa direzione quella metafisica avrebbe però avuto bisogno di concetti concreti. Se infatti Dio deve esser creatore, allora devono trovarsi nella natura stessa segni che conducano a questo concetto positivo. Purtroppo Dio e il mondo sono stati tenuti così separati, che non si è creduto di poter trovare nella natura stessa i bavqra e le uJpoqevsei" (sostegno per ergersi, base, fondamento) di Platone. Ora si dice comunemente che la natura è riflesso di Dio. Ma se questo non dev’essere un mero modo di dire, allora devono necessariamente trovarsi nella natura le orme di Dio. È stato dunque facile per Kant svelare l’insufficienza di quella metafisica per una conoscenza dell’essenza divina. Ma quella metafisica non mirava, come invece le rimprovera Kant, alla conoscenza di Dio; piuttosto, attraverso l’ordinamento di certi concetti generali, come quelli di causa ed effetto, che essa già possedeva e proprio per questo poteva considerare aprioristicamente, le premeva rappresentare il rapporto di Dio con il mondo. Avendo citato Kant, non posso evitare di richiamare l’attenzione sull’effetto che ha avuto la sua critica, la quale è stata presentata come una confutazione di ogni metafisica. Poiché Kant non sapeva nulla di una direzione in filosofia diversa da quella regressiva, possiamo momentaneamente per i nostri fini riformulare la sua posizione in questo modo: nella direzione negativa una scienza è impossibile – se si pone, certo, l’accento sulla parola scienza e la si intende come scienza obiettiva. Anche la filosofia precedente infatti, sebbene fosse soggettiva, si è fatta valere come obiettiva; noi abbiamo però già mostrato che la scienza in senso proprio si dà solo nella direzione progressiva, mentre la regressiva non va oltre la connessione del mero pensiero. Se ammettiamo questo, allora, come sembra, abbiamo anche espresso il giudizio sulla nostra propria impresa, tanto più perché per pensiero nella parte scientifica della filosofia non s’intende un pensiero necessario, ma libero. Come già detto, un pensiero necessario, conforme cioè alla natura dell’oggetto si dà solo nella direzione progressiva. Il pensiero libero dovrà pertanto essere un pensiero più o meno accidentale e accadrà con esso

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Lezione XI

quel che accade con altre ricerche condotte secondo concetti non strettamente determinati. In questi casi eserciterà una grande influenza persino la diversità dei singoli individui, se in generale Goethe ha descritto correttamente una tale filosofia come l’opera di un tessitore in cui un colpo di pedale è l’occasione per mille diversi impulsi. Lezione XI Kant ha considerato la confutazione della metafisica del suo tempo come la confutazione di ogni metafisica, cioè di ogni conoscenza del sovrasensibile; dopo Aristotele è questo infatti che si indica con quell’espressione distinguendola dall’iperfisica. Se ci fosse una conoscenza del sovrasensibile, così ritiene Kant, essa dovrebbe darsi sulla via della metafisica del suo tempo. Ma egli, come abbiamo già notato, conosceva solo la direzione negativa della filosofia e quindi riteneva che la via di quella metafisica fosse l’unica possibile. La nostra posizione rispetto a Kant è dunque questa: egli ha ragione nei confronti di quella metafisica di scuola, ma non ha ragione nel credere che gli unici mezzi per salire fino al supremo siano quelli utilizzati dalla suddetta metafisica. Noi ammettiamo inoltre che nella parte della filosofia dedicata al cercare abbia luogo soltanto una connessione soggettiva. E infatti soltanto quando il vero prius sia stato trovato può iniziare la scienza obiettiva. Ma si dirà: avendo noi ammesso la soggettività della scienza propedeutica alla filosofia in senso proprio, abbiamo esposto al dubbio la scienza positiva stessa, poiché appunto questa poggia su quella. A questa obiezione si può rispondere che il pensiero nella scienza preparatoria è certo accidentale rispetto agli individui, ma non è affatto a sé e per sé accidentale, poiché in quel che è dato nell’esperienza esso ha una norma, nella quale sale e si orienta. Ci sarà sempre una grande differenza tra il pensiero di chi penetra in profondità il dato empirico e il pensiero di chi lo comprende solo in maniera superficiale. Ma questo errore può rimaner nascosto altrettanto poco che nelle altre scienze empiriche. È stato già mostrato infatti come Cartesio e Spinoza potessero essere confutati attraverso una più precisa osservazione dei fatti che essi presupponevano. Quell’accidentalità allora non è tale da poter esser corretta, da non ritrovarsi di nuovo nell’oggetto a cui

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Invito alla filosofia

si riferisce. Non si può rimproverare a una qualunque scienza che in essa qualcosa dipenda dall’individualità; questo è stato da sempre riconosciuto in filosofia e non ci si dovrebbe vantare di aver colto il pieno concetto della filosofia se non si riesce a vedere oltre al carattere della necessità anche quello della libertà. Se l’errore è qualcosa di umano, dovrebbe forse la più umana di tutte le scienze esserne immune? Ma questa obiettiva possibilità dell’errore si trova solo nella parte prescientifica della filosofia. Solo qui si dà una scepsi. Una volta però che la filosofia abbia raggiunto il supremo, essa si mette all’opera positivamente. Chi sente ancora in sé un libero spirito come potrebbe sopportare che la filosofia assuma quella forma servile che così spesso si è tentato di conferirle? Ogni filosofia deve partire dal dato, poiché prima di una spiegazione bisogna innanzitutto conoscere che cosa debba essere spiegato. Ma ognuno può farlo in modo diverso, come da una circonferenza possono esser tracciate infinite linee nelle più diverse direzioni e però tutte alla fine conducono allo stesso punto centrale. Ciò che infine raccoglie le diverse direzioni in un centro è la forza dell’arbitrario ovvero del dato. Appartiene propriamente alla filosofia l’esser gradualmente non tanto realizzata, quanto piuttosto inventata. Chi la consideri storicamente riconoscerà che essa non può raggiungere il suo compimento con il primo passo. Ma, si potrebbe obiettare, la scienza deve allora partecipare dell’incerto e dell’indeterminato, dando adito a dubbi sulla capacità della filosofia di raggiungere quel punto a partire dal quale essa inizia a essere scienza positiva. Per meglio chiarire il problema è necessario qui fare la seguente distinzione. Fintantoché la vera filosofia non è stata trovata o comunque non è stata riconosciuta, la filosofia viene a trovarsi in un duplice rapporto. Da un lato, con coloro che vogliono produrre la filosofia puramente a priori e che dunque negano che ci sia una direzione a posteriori, che cioè una tale direzione possa essere filosofia. Che non venga riconosciuta una tale direzione, la vera filosofia potrebbe ben accettarlo, tanto più perché essa stessa non afferma di essere da questo lato sapere positivo, ma solo la via che vi conduce. Nel caso in cui quella direzione venisse in generale riconosciuta (cosa che potrebbe certo accadere, visto che gli stessi che negano carattere filosofico a una direzione a posteriori non

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Lezione XI

possono non ammettere che dovrebbero prima di ogni cosa esser convinti del dato nell’esperienza), la differenza di prospettiva verrebbe allora a consistere semplicemente nell’esser scivolati sull’esperienza più rapidamente e senza una chiara coscienza. Ma posto che noi riusciamo a raggiungere il nostro obiettivo, essi non potranno più escludere il sapere trovato a posteriori. Questo si mostrerà con tale chiarezza ed evidenza rispetto al sapere costruito meramente a priori che non sarà più possibile chiudere gli occhi. Tutto quel che si rende manifesto a partire dall’esperienza, l’intelletto umano deve infatti accettarlo e assumerlo, che lo voglia o no. (Continuo qui a presupporre che il prius venga a posteriori effettivamente trovato). Dall’altro lato, la scienza positiva è in rapporto con coloro che non credono affatto alla possibilità di una tale scienza, ma riconoscono tuttavia quella direzione che comincia dal basso. Con questi la scienza positiva si troverà sempre in contrasto, fin quando non avrà effettivamente trovato quel prius positivo. Ma ammesso anche che la filosofia possa non trovare subito questo prius positivo, la filosofia in senso letterale, come aspirazione e sforzo, sarebbe comunque presente e non ci troveremmo certo in una situazione peggiore di quella in cui si trovano i francesi, gli inglesi ecc., i quali credono ancora che la filosofia debba essere trovata attraverso la mera esperienza. Quand’anche nessuno all’inizio dovesse arrivare a quel punto supremo e cento tentassero invano, non si sarebbe perso nulla nella cosa se soltanto una volta quel tentativo riuscisse. Prima o poi, non importa quando, quel tentativo riuscirà, tanto certamente quanto è certo che quella filosofia che tutto separa, la quale presuppone che il sensibile e il sovrasensibile non abbiano niente in comune – sebbene abbiamo nel sensibile così tanto sovrasensibile – e che il creatore abbia abbandonato la sua opera, sia solo una filosofia che deriva dal pregiudizio, da concetti artificiali. Se solo si è d’accordo sul fatto che il prius assoluto sia da rintracciare soltanto a posteriori, è ancora possibile aspettarsi un tempo nel quale venga effettivamente trovato. Lo spirito umano, rapido e sicuro, porterà a compimento la base gettata. Questo è quanto credevo di dover dire dopo il riferimento alla critica kantiana. Ciò che abbiamo imparato da essa è che la filosofia deve innanzitutto immergersi profondamente e comprendere il fattivo. Se questo è il risultato della critica kantiana, allora in effetti il passaggio alla filosofia della na-

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Invito alla filosofia

tura, la quale appunto ricerca il vero prius nella natura, ne è una conseguenza naturale e comprensibile. Effettivamente la filosofia della natura ha dato la prima prova dell’esistenza di Dio. Vorrei ancora osservare che io ho creduto di poter passare da Kant immediatamente alla filosofia della natura, poiché lo stesso Fichte espose la sua filosofia come compimento della critica kantiana. Fichte era del tutto convinto dei fondamenti kantiani. Ora, prima di passare alla filosofia della natura, ritengo necessario premettere alcuni concetti generali. Innanzitutto dall’esperienza «Esperienza» è un concetto molto ampio. Nel senso in cui noi lo usiamo è impossibile intenderlo come cruda esperienza immediata. L’esperienza in quel senso è invece il risultato di ricerche filosofiche. Se lo stesso sistema di Spinoza poggia su un qualche fatto, allora si può a buon diritto dire: tutti i sistemi che si sono sinora succeduti sono serviti in maniera diretta o indiretta a trovare quello che è il fatto in senso proprio in filosofia. Proprio per questo tutti i precedenti sistemi possono essere paragonati a degli esperimenti nella scienza naturale. La filosofia deve spiegare il fatto del mondo. Il vero fatto è però sempre qualcosa di interiore; il vero fatto di una battaglia per esempio si trova nello spirito del generale, non negli assalti o nei colpi di cannone; il vero fatto di un libro lo conosce solo chi lo capisce. Il fatto deve dunque essere prima cercato; molto è per noi incomprensibile nella natura perché non conosciamo il fatto. Il gran fatto del mondo può essere accolto solo dalla filosofia. Essa tenterà e si sforzerà di rintracciarlo e scoprirlo nella sua purezza; per questo non si toglie valore a quei sistemi se vengono considerati come esperimenti nell’ambito di questa ricerca. Anzi, forse proprio in questa prospettiva trovano la loro giustificazione: nessuno di essi è stato vano, lo spirito umano non deve vergognarsi di nessun gradino sul quale si è soffermato. Ogni nuovo sistema ha compiuto un passo verso l’alto rispetto al precedente. Il fatto rappresentato puramente sarà il risultato di tutte le ricerche filosofiche. La mia intenzione è fin qui soltanto quella di separare e indicare nella filosofia ciò che è commisurato all’esperienza, al fine di guadagnare il suo uJpokeivμenon (la base, il supporto) in vista della scienza positiva. Proseguirò dopodomani.

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Lezione XII

Lezione XII Se si deve ammettere, seguendo la spiegazione data alla fine dell’ultima lezione, che nessun sistema è riuscito a spingersi al di là del fatto, dovrò dire la stessa cosa anche del sistema della filosofia della natura, sebbene riconosca che tale filosofia abbia compreso il fatto più profondamente di tutte le altre, essendo quella che più si è avvicinata – cosa che credo di poter mostrare – al luogo in cui si accede al fatto assoluto: «vi è un Dio». Se pur non è essa stessa scienza positiva, ne è tuttavia il confine naturale. La direzione negativa infatti era stata dominante a partire da Cartesio e anch’essa doveva comunque raggiungere il proprio limite. Chi vorrà osservare la mia filosofia complessivamente, secondo la sua successione, riconoscerà che io ho presentato solo ciò che si sussegue in una connessione naturale. Poiché del resto ho descritto questo stadio della filosofia come necessario, dovrò anche trattarlo in maniera dettagliata e desidero che voi in questo contesto veniate a conoscenza di ciò che mi ha condotto sino al punto presente. Mi impegnerò dunque il più possibile affinché ognuno di voi riesca a veder chiaro e arrivi a scorgere il laboratorio interno di questa filosofia, sebbene la mia esposizione possa risultare per alcuni insolita o poco familiare. Non posso infatti presupporre che tutti i miei uditori conoscano le mie precedenti posizioni. Per coloro che già le conoscono, vorrei osservare che in quel che andrò ora a esporre non dovrebbero vedere alcuna contraddizione con la mia precedente dottrina, ma solo un più rispetto a essa. La dottrina presente è solo conseguenza della precedente e ha con essa lo stesso rapporto che ha il frutto con il fiore. La circostanza accidentale per cui non posso parlare della filosofia della natura senza parlare di me stesso non dovrebbe trarvi in inganno riguardo all’imparzialità delle mie affermazioni. Ho avuto tempo a sufficienza per maturare un giudizio libero e imparziale sui risultati. Anche oppositori ostili hanno dovuto ammettere ormai da un quarto di secolo che non è più possibile ricondurre la filosofia al punto in cui si trovava in precedenza. A Kant, che aveva dimostrato l’insufficiente connessione soggettiva di tutti i precedenti sistemi, succedette Fichte, il quale, continuando a lavorare in maniera conseguente rispetto alla critica kantiana, sorprese il mondo con questo risultato: il principio di ogni essere e conoscere si trova nell’Io.

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Invito alla filosofia

Rispetto ai sistemi prekantiani venivano in questo modo poste le seguenti differenze. (1) Rispetto a Cartesio: questi partiva certo dall’Io, ma connetteva all’«io sono» l’ulteriore conoscenza, esterna all’Io, attraverso mere deduzioni, senza affermare che l’«io sono» fosse anche il principio obiettivo della filosofia. Questo passo è compiuto in tutta chiarezza da Fichte, il quale afferma come verità obiettiva che solo l’Io esiste obiettivamente ed è l’unica vera sostanza. (2) Rispetto a Spinoza si è ottenuto che la sostanza non è più morta, ma vivente. Essa è ciò che in se stesso si pone ed è posto, un soggetto-oggetto, un Io. Questo passo, l’aver determinato la sostanza come vivente, come ciò che si pone in un atto perpetuo e che consiste nell’autoporsi, è già qualcosa di significativo. Spinoza si è certo servito di una parola simile, chiamando la sostanza suprema causa sui, ma questa parola resta nel suo sistema priva di conseguenze, limitandosi all’angusto significato dell’essere da sé, dell’essere che non ha più alcuna causa fuori di sé. Se Spinoza con quell’espressione avesse voluto dare un concetto positivo, avrebbe dovuto mostrare come la sostanza assoluta, essendo causa di se stessa, si ponesse necessariamente come estesa e pensante. Ma non l’ha mostrato. Quel che di decisivo il concetto di Fichte avrebbe potuto avere in questo contesto egli l’ha rovinato, poiché il suo principio è inteso in maniera soltanto soggettiva e dunque l’egoità a sé non è la sostanza generale. Egli comprende l’Io solo come io umano. Dice infatti che l’Io di ognuno è la sostanza assoluta. Il suo sistema è dunque un idealismo unilaterale, espressione questa con la quale già in passato sono stati indicati quei sistemi che negano ogni realtà. Secondo Fichte il mondo empirico comincia d’un sol colpo, per ogni uomo, con l’atto trascendentale della coscienza, il quale si esprime con l’«io sono». L’universo in generale c’è solo per una coscienza umana. Con questa autoposizione il mondo comincia per ogni individuo da capo, in modo che l’inizio atemporale del proprio sé sia insieme l’inizio del mondo. Certo Fichte non poteva evitare, volendo stabilire un mondo morale, di ammettere altri io al di fuori di ogni io, ma la necessità di questo presupposto resta per lui soltanto immanente. L’Io non va oltre se stesso, anche la rappresentazione di altri individui è posta solo attraverso un’affezione che è già contenuta nell’«io sono». Tutto è soltanto evoluzione di quel che è implicitamente già posto nell’«io sono». Naturalmente Fichte

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Lezione XII

avrebbe dovuto indicare in maniera determinata questo essere implicito nell’«io sono», per esempio avrebbe dovuto mostrare le cose extraumane come interne mediazioni di quell’atto di autoposizione. Ma il mondo è per lui così chiuso nel non-Io, che non se ne preoccupa più, se non laddove lo postula secondo il rapporto di commisuratezza a scopi (per esempio luce ed aria come medi del vedere e del sentire). La sua deduzione della natura è dunque soltanto teleologica. Sarebbe un errore credere che Fichte abbia lasciato che l’Io, nel necessario divenir se stesso, si autocostruisse. L’Io è certo per Fichte azione dell’esser sé, ma la sua attività appunto non va oltre tale azione. L’Io diviene quindi per Fichte solo oggetto della riflessione. Non è più l’Io stesso a muoversi e a porsi, ma è Fichte a porre l’Io mediante la soggettiva connessione di tutte le altre cose con l’Io. In questa connessione si mostra tuttavia così tanta arbitrarietà e accidentalità che ci si sentirebbe a disagio nel dover render comprensibile anche solo in maniera approssimativa il percorso della principale opera fichtiana, sebbene questa abbia a suo tempo destato ammirazione, probabilmente proprio perché così poco comprensibile. Successivamente, Fichte cercò di rielaborarla in vista di una comprensione generale, scrivendone un compendio, secondo le sue stesse parole, chiaro come il sole. Ma proprio quando ha cercato di rendersi comprensibile al pubblico è diventato incomprensibile e inutile per i filosofi. Negli ultimi scritti ha poi posto in connessione idee di filosofi successivi, perdendosi infine nell’assenza di carattere. Ciò che di Fichte resta di significativo per la storia della scienza non è nient’altro che quel primo accorgersi che la vera sostanza è vivente, pone se stessa, è un soggetto-oggetto. Anche solo quest’unico passo è così importante che si può ben dimenticare quanto piccola si sia poi fatta quella scoperta nella trattazione delle sue conseguenze. Quell’idea fu per così dire un lampo che scomparve nel suo mostrarsi. Essa ha tuttavia acceso un fuoco che ancora arde. Fichte passò così rapidamente sulla scienza che non ebbe neppure il tempo di sviluppare pienamente la propria individualità, cosa che in ogni caso si potrebbe pretendere. Quanto detto è sufficiente per comprendere il passaggio successivo. Il punto nel quale si inserì la filosofia successiva è stato già indicato. Fichte aveva compreso l’Io solo come sostanza dell’essere umano, così che tutto il resto, cioè il mondo

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Invito alla filosofia

sensibile o esterno, poteva essere soltanto attraverso la rappresentazione di quell’Io. Ma qui sarebbe apparso chiaro a chiunque che la soggetto-obiettività non può trovarsi solamente nella coscienza umana. Infatti, anche ammesso che l’uomo soltanto, tra le cose dell’intera natura, possa dire a se stesso «io sono», non ne segue affatto che io soltanto sia, cioè che io, l’uomo, sia l’unico essente. Ciò che in me è l’«io sono» può essere anche fuori di me, sebbene non possa allo stesso modo dire «io sono». Come qualcosa in me è, così anche qualcosa fuori di me può essere essente, e anche se non lo è nello stesso modo dell’essere, lo è tuttavia nella stessa sostanza dell’essere; in questo modo tutto il resto è essere obiettivo. Il pensiero appena espresso è stato indicato come il pensiero dell’identità del soggettivo e dell’obiettivo. Ciascuno comprende facilmente che la realtà di ogni conoscenza obiettiva riposa soltanto su questa unità tra essere e sapere. Se non si dà questo, non è possibile alcuna realtà. Anch’io come Fichte parto dalla coscienza dell’uomo, poiché questa si esprime come ciò che secondo la sua natura pone se stesso, mentre in tutto il resto v’è certo autoposizione, ma la coscienza non si riconosce in quanto tale. Tuttavia per la produzione della scienza è necessario ancora un secondo atto. L’Io, da quella più alta potenza, propria della coscienza umana, deve essere spogliato di ogni potenza, fino al punto in cui stia non più come soggetto-oggetto soggettivo, ma soltanto come soggetto-oggetto obiettivo. L’egoità deve essere compresa non come sostanza unica, ma come sostanza generale. A tal fine è però necessario discendere con l’Io della coscienza umana fino al punto in cui esso pone se stesso solo sostanzialmente e non actu. L’Io autocosciente è chiaramente solo l’Io venuto a se stesso, propriamente l’espressione del venire a sé stessi. Quest’Io pertanto non è possibile senza presupporre un fuori da sé – può venire a sé infatti solo ciò che era fuori di sé – e dunque presuppone un essere uscito da se stesso. Questo esser fuori di sé ed essere uscito da sé può esser rappresentato solo attraverso la natura inconscia. Resta la domanda: che cosa dovrebbe fare in questo contesto la scienza? L’Io autocosciente non si ricorda dell’essere fuori di sé, cioè della via che ha percorso dall’esser fuori di sé sino all’esser cosciente di sé. Il compito della scienza è dunque quello di far fare all’Io della coscienza di nuovo lo stesso percorso a partire

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Lezione XIII

dall’originaria estraniazione, ma questa volta appunto con coscienza e non attraverso un atto incosciente. La scienza deve risalire con coscienza l’intera via, dal punto più basso fino al più alto, dunque fino alla coscienza. La filosofia è pertanto veramente una anamnesi, come la chiamò Platone, certo secondo un concetto alquanto oscuro ed anche in un senso, è vero, piuttosto diverso. L’Io venuto a se stesso deve spingersi fino alla fine di questo ricordo, fino alla potenza in cui esso resta certo sostanza, ma solo secondo la natura e non più actu, per poi risalire fino al punto in cui viene a riunirsi con la propria coscienza. Lezione XIII Per Fichte tutto è solo attraverso e per l’Io. L’Io tuttavia non è considerato come sostanza assolutamente generale: tutto è solo per l’Io della coscienza umana. Ma in questo modo non è possibile alcuna scienza. La scienza infatti consiste nel progredire e deve quindi necessariamente avere almeno un inizio, un punto centrale e una fine. Il primo punto è solamente l’Io. L’Io della coscienza, essendo l’Io venuto a se stesso, è già più dell’Io in senso assoluto. Questo continuo venire a se stesso presuppone un esser stato fuori di sé, e questo a sua volta un essere uscito da se stesso. L’esser stato fuori di sé non può però trovarsi nell’Io della coscienza, il quale è appunto l’esser venuto a sé; altrettanto poco può trovarsi nell’Io la via del venire a sé, poiché l’Io è appunto l’esser presso di sé. Entrambi devono allora trovarsi fuori dell’Io, quindi nella natura. La natura è la sfera dell’esser fuori di sé dell’Io, è la storia dell’Io che solo gradualmente è venuto a se stesso. Tutti i momenti della natura pertanto possono esser detti momenti della storia dell’autocoscienza. L’inizio della natura è l’estremo dell’essere fuori di sé, il progresso è il passaggio da questo estremo all’essere in sé, la fine è il compiuto essere venuto a se stesso ovvero l’Io umano. Tra questi punti deve trovarsi la scienza obiettiva, o comunque attraverso di essi è data la possibilità di un movimento e quindi della produzione di una scienza. L’Io della coscienza è solo il soggetto-oggetto alienato da sé nella natura, oppure il soggetto-oggetto ridato a se stesso. Giunto a quest’altezza l’Io è certo cosciente di sé, ma non della via del venire a se stesso, la quale infatti è stata percorsa in parte inconsciamente e in parte in un stato oscil-

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Invito alla filosofia

lante tra la coscienza e l’incoscienza. Il compito della scienza è, come già detto, quello di far ripercorrere con coscienza all’Io la via che ha percorso senza coscienza. Per questo la coscienza deve ritornare al suo inizio. Qui è essenzialmente primo il porre se stesso, ma con esso l’Io si è anche già effettivamente posto. Noi abbiamo assunto questa distinzione nel pensiero, soltanto allo scopo di separare perspicuamente nel concetto i momenti necessari. L’assoluto non può infatti cominciare a porsi temporalmente. Tuttavia, come già detto, noi distinguiamo nel pensiero questi momenti, poiché comunque si dà un passaggio. Ciò nella cui natura risiede il porre se stesso non può certo esser pensato escludendo che abbia posto se stesso. Noi non possiamo trattenerlo nel momento in cui è ciò che pone se stesso, evitando che passi subito al secondo momento e quindi all’attuale posizione di sé. Attraverso tale posizione l’Io assume un essere e nell’assumere un essere è già diventato dissimile da sé. Esso non è più infatti ciò che era a sé e prima di sé, ovvero prima del suo agire. Vorrei però chiarire questa espressione «a sé e prima di sé». Chiamo «essente a sé» [an sich] ciò che non è ancora andato via da sé. Tutto ciò che agisce, necessariamente va via da sé. L’essente a sé va inteso dunque in maniera del tutto letterale. «Essente a sé» ha lo stesso significato di «essente prima di sé», espressione questa che non può valere per l’«essente per sé». «Essere a sé e prima di sé» significa dunque proprio lo stesso che «essere a sé», del resto vi sono nella lingua tedesca numerosi sinonimi di tali espressioni. Quell’espressione può diventare ancora più chiara in questo modo: l’Io nella sua sostanzialità, nella sua pura essenzialità, è per così dire il prius di se stesso nella sua attualità. Esso è dunque l’Io prima di se stesso nella sua attualità. In quanto è l’effettivamente posto da se stesso, dicevo, l’Io è qualcos’altro rispetto al suo esser prima di sé e a sé, rispetto cioè al momento in cui non era nulla, o meglio, in cui era, ma non in quanto qualcosa. Incontriamo qui di nuovo un’espressione che credo di dover chiarire. Si tratta della parola «in quanto» o «come», che in filosofia è di grande importanza. Essa esprime sempre qualcosa di accessorio, accidentale, che è venuto ad aggiungersi all’essenza e ha anche nell’uso che se ne è fatto sopra un significato attrattivo. La differenza espressa da questa parola si vede particolarmente in certe proprietà che l’uomo ha senza sapere di averle, che ha solo fintantoché non le pone di fronte

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all’animo. Così per esempio la grazia, questa suprema attrattiva della natura femminile, sparisce immediatamente non appena qualcuno ne assuma l’abito. La grazia consiste solo nel non prender l’abito di se stessa. Un altro esempio: un re che viaggia in incognito non smette per questo di essere re, però viaggia non in quanto re. L’Io nella sua pura essenzialità era una assoluta assenza di proprietà. Esso non aveva ancora indossato o tratto a sé nulla, era solo se stesso. Ma ponendo effettivamente se stesso, fa di se stesso un qualcosa. Da questo momento in poi l’Io è ciò che è impigliato con l’essere. Egli sente, trova questo essere come un qualcosa di contratto, acquisito e quindi accidentale. Devo qui di nuovo richiamare l’attenzione sul concetto di accidentale. Il primo inizio del puro Io verso se stesso, il primo volgersi ad afferrare se stesso viene espressamente pensato come accidentale. Il primo essente, il primum existens, è il primo accidentale, l’originariamente accidentale, che già la sapienza degli antichi rappresentava come nutrice del mondo, come madre del mondo. Tuttavia il discorso riguarda qui solo il fondamento. Abbiamo dunque tre momenti dell’Io: (1) nella sua pura essenzialità, cioè a sé e prima di sé, (2) poi nel suo uscire da sé e infine (3) in quanto risultato di questo atto, cioè ormai affetto da un essere accidentale. Con questa dissonanza è però dato proprio l’inizio. Non possiamo fermarci qui, la scienza della scienza riposa sul procedere oltre. Otteniamo così la seguente nuova determinazione. L’Io assoluto è non solo ciò che pone se stesso, ma anche ciò che pone se stesso in modo infinito. L’Io è infinito non in senso negativo, in modo cioè da non poter diventare finito – nel qual caso non potrebbe che restar fermo –, ma nel senso positivo per cui può comunque farsi finito e tuttavia riemergere vittorioso da ogni finitezza, presentandosi in una nuova, più alta infinità. L’Io è infatti infinito anche nel suo essere prima di sé, visto che non è limitato in alcun modo e ha tutto davanti a sé. La finitezza che esso contrae, proprio in conseguenza della perdurante infinità della sua essenza, diventa solo il mezzo per una nuova ascesa. Esso si pone come infinito, ma in una nuova potenza, essendo non più meramente l’infinito, ma un infinito contrapposto al finito. Si pensi la cosa nel seguente modo. L’Io a sé e prima di sé è un infinito, ma non in quanto infinito. Questo è qui di nuovo il primo momento. Se ora l’Io vuole essere come

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infinito, diventa per questo un qualcosa o un finito. Solo in seconda potenza può raggiungersi in quanto infinito. Proprio quel porre finitamente è il mezzo per porsi in quanto infinito. Dapprima l’Io è infinito in maniera infinita, ma nel secondo modo è infinito in quanto infinito. Provo a chiarire il discorso ulteriormente attraverso un’altra riformulazione. Supponiamo che l’Io sia, accidentalmente. L’accidentalità è certo l’opposto dell’essenzialità, ma non perché aderisce all’accidentalità l’Io è tolto in quanto essenza. Esso è infatti essenza in maniera infinita. L’Io era dapprima essenza, ma non in quanto essenza. Esso era un’essenza che poteva anche essere non-essenza. Una mera essenza infatti sta sul punto di confine dell’esser non-essenza. Se si muove, diventa un sui dissimile, qualcosa che è impigliato nell’essere. L’essenza nella sua purezza vuole mostrarsi anche in quanto tale. E già in questo volere si sposta, prima infatti non voleva. Solo in seconda potenza può porsi in quanto essenza. Questa essenza posta nella seconda potenza è quel che noi chiamiamo essenza senza inizio, solo con la precisazione che essa è qui posta e fissata subito in quanto essenza. Potrei presentare questo discorso ancora da un altro lato, ma, poiché non arriverei più alla fine, voglio concludere con la lettura di un frammento poe­tico che apparve al primo inizio della filosofia della natura e che potrebbe chiarire forse nella maniera migliore il pensiero fondamentale dell’identità. Non vedo come potrebbe spaventarmi il mondo, giacché dall’esterno e dall’interno m’è noto. È un docile e lento animale, non minaccia né agguata ritroso. Deve piegarsi alle leggi e quieto giacere ai miei piedi. Uno spirito di gigante, certo, v’è dentro, ma è pietra nei sensi. Non sa uscire dalla stretta corazza, né rompere la ferrea prigione. Eppure spesso smuove le ali, violento s’agita e s’espande, nelle cose morte e viventi aspira potente alla coscienza. E da qui la qualità alle cose, perché in esse egli oscilla e preme.

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La forza per cui sorgono i metalli e gli alberi esplodono in primavera cerca e tenta in ogni dove di volgersi alla luce. Dalla fatica mai vinto, ora si slancia verso l’alto, distende gli organi e le parti, ora s’accorcia e si raccoglie e spera di trovare girando e rigirando la giusta forma e figura. E nella lotta opposto all’elemento avverso, sa vincere nello spazio angusto, e lì solo arriva alla coscienza. In un nano conchiuso, bella e dritta figura (umana creatura è il suo nome), lo spirito del gigante se stesso ritrova. Si sveglia e dopo il ferreo sonno e il lungo sognare si riconosce a stento. Di sé si meraviglia e con grandi occhi si misura e saluta. Vorrebbe subito con tutti i sensi sciogliersi nella gran natura, ma una volta che s’è distinto e scisso non può fondersi e dissolto svanire. Per tutta la vita minuto e stretto, sarà solo nel gran mondo angusto. Si spaventa in sogni angosciosi, il gigante potrebbe insorgere audace e come il dio antico Saturno inghiottire nell’ira i suoi figli. Non sa che è sempre egli stesso, dimentica l’origine antica, di fantasmi soffre il tormento, ma potrebbe ben dire a se stesso: Io sono il dio ch’ella nutre nel seno, lo spirito che in tutto si muove, dalla prima lotta di forze oscure alle prime linfe che s’effondono vive, dove forza s’agita in forza e materia in materia. Il primo fiore; la prima rosa respira

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al primo raggio di luce non nata, che rompe la notte come seconda creazione e dai mille occhi del mondo il cielo, così il giorno come la notte, rischiara. È una forza, un gioco di fili intrecciati, anelito e impulso a sempre più alta vita. Lezione XIV Cari signori! Ciò a cui più bisogna stare attenti nella scienza è il modo in cui essa procede. Ci troviamo ora nel punto di passaggio ed è importante innanzitutto conoscere in maniera precisa il modo del procedere. Il cosiddetto Io in senso assoluto, l’Io assoluto, quello che in tutto l’essere – almeno in quello finito – è effettivamente la sostanza generale, è ciò che secondo la sua natura pone infinitamente se stesso. Esso non può quindi evitare di incominciare effettivamente ad autoporsi. Non appena è, si pone immediatamente actu. Ma in questo modo diventa altro, non è più ciò che può essere o non essere. Segue qui un grande ribaltamento attraverso una mera distinzione di tempo: come ciò che pone se stesso l’Io è libero da ogni accidentalità, come ciò che invece ha posto se stesso esso ha un essere acquisito, il quale proprio per questo è accidentale. Questo essere assunto è certo per l’Io che pone se stesso insopportabile, ma ciò che è successo non si può più cambiare. L’io non può più togliere la figura in cui si è chiuso, ma in quanto è quel che esce sempre vittorioso da ogni finitezza può ben porsi, in una seconda figura, come ciò che è uguale a se stesso, cosa che inizialmente non poteva ma che ora può proprio perché è divenuto un qualcosa di dissimile rispetto a sé. Esso non può porsi immediatamente come l’uguale a se stesso, deve prima esser diventato diverso da sé. Vorrei qui ricordare di nuovo la parola «come», «in quanto». Nel suo puro essere a sé l’Io è assolutamente uguale a se stesso, ma non in maniera da non poter divenire diverso da sé. Sotto la sua uguaglianza a se stesso è nascosto il suo poter diventare diverso da sé. Questa possibilità si trova nascosta nell’unità. Proprio il poter essere diverso da sé è infatti quel che è uguale a se stesso. Esso racchiude quindi già in sé la possibilità di uscire da sé. Nella sua assoluta purezza l’Io è certo se stesso, ma non è posto come l’uguale a se stesso.

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Infatti quel poter essere diverso da sé che si trova nell’Io a sé e prima di sé non è certo ancora diventato effettivo. Solo dopo che quella possibilità è stata esclusa attraverso l’attualità, dunque solo dopo che l’Io è diventato diverso da sé, può nell’opposizione a questa figura porsi nella sua essenzialità come quel che è uguale a se stesso. Forse riesco a rendere più chiara la cosa nel seguente modo. L’Io prima di un qualsiasi movimento è solo se stesso, è puro A, ma non è in quanto A, cioè non in modo da non poter essere anche uguale a B. Questo essere non in quanto A lo esprimiamo come A nella potenza 0. L’Io è dunque posto come A0, ovvero non in quanto A, perché racchiude ancora in sé la possibilità di essere non-A, dunque di essere B. Essendo l’Io nella sua libera purezza, non v’è né un A deciso, né un B, poiché l’Io può diventare B, ma non lo è ancora diventato. Si tratta dell’Io nella sua indifferenza, A e B equiparati, senza che esso sia in quanto A oppure B, sebbene racchiuda in sé come identiche possibilità non solo l’essere come A, ma anche l’essere come B. Se però si decide e assume effettivamente l’essere, il quale quindi in quanto contratto è un qualcosa di diverso dalla sua pura essenza, l’Io non è più come A0, ma in quanto A, essendo divenuto B. Delle due possibilità che si trovavano nell’Io, una è stata ora adempiuta. Prima entrambe le possibilità erano in esso equivalenti, ora però l’A posto in quanto A è duplicato con se stesso. Se questa espressione non si trova più nella logica moderna, essa è tuttavia comunemente usata nella logica wolffiana, nella quale l’espressione «porre reduplicativo» significa che l’A esce dall’implicito poter essere B e dunque in quanto A è A moltiplicato con se stesso. A non può dunque essere B senza essere nel contempo in quanto A. Avremmo pertanto da un lato A = B, dall’altro A nella contrapposizione e nella tensione attraverso le quali diventa un A². Questo A² deve essere dunque considerato un qualcosa di innalzato in se stesso proprio perché attraverso l’effettiva contrapposizione è posto nella propria essenza. Ogni essere immediato è un indeterminato finché non ha affrontato un opposto, solo attraverso l’opposto può essere innalzato nella sua propria essenza. Nell’immediatezza esso ha l’opposto in sé come meramente possibile, ma in tal modo non l’esclude: esso è A, ma in modo da essere anche non-A. Questo credevo di dover dire per chiarire l’emergere dei primi due punti in questo sistema. Mi sono soffermato su

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questo processo proprio perché esso ha una generale validità di fondo per il sistema stesso. Siamo pervenuti in questo modo dall’unità alla dualità e abbiamo così posto il fondamento per un ulteriore progresso. Dopo un sufficiente chiarimento dell’opposizione passo ora al suo significato. Ho già spiegato che in A² l’Io, nella misura in cui è ora uguale a B, si è sollevato a un più alto livello di sé. Il più alto si rapporta al più basso come l’ideale al reale. Anche questi concetti devono qui essere spiegati. Quel primo esser qualcosa è la materia che nella sua originarietà è proprio il primo essere non più libero, il primo esser-legato dell’essere in precedenza libero. Questa materia originaria non è affatto quel che vediamo di fronte a noi, essa è piuttosto la materia della nostra materia. È già facile vedere che la prima materia, questo primo esser-qualcosa, diventerà di nuovo oggetto di un processo immediato attraverso il quale perderà il proprio stare a sé in quanto materia. Questo primo reale, questo primo esser-qualcosa sta ora contrapposto a quel reale che, nella misura in cui non è qualcosa, è un niente. Ma proprio perché quest’ultimo è la pura essenza contrapposta al qualcosa, esso è comunque qualcosa e quindi non un niente negativo, ma positivo. Questo rapporto può essere mostrato nella natura dalla filosofia della natura, la quale è così chiamata proprio perché inizia con la natura per risalire allo spirito. Essa ha determinato quel primo ideale come luce. La luce è rispetto alla materia come un nulla. Ma se volessimo far valere come reale solo ciò che è materia, allora dovremmo negare la realtà alla luce. Non vi riconosciamo infatti alcuna materia, visto che penetra direttamente i corpi trasparenti in tutte le direzioni. Sarebbe ben difficile ammettere che questi corpi siano porosi in ogni punto della loro superficie. La luce non è materia, ma è nell’ideale ciò che la materia è nel reale. Essa infatti riempie lo spazio in modo ideale esattamente come la materia lo riempie in modo reale. La luce è il concetto di materia, essa è concepita come più alta potenza della materia. La luce è il concetto obiettivo ed esterno della materia. Vorrei soffermarmi per un momento su questa determinazione, poiché mi dà l’occasione di chiarire un passo essenziale della filosofia della natura rispetto a Fichte, Spinoza e Cartesio. Spinoza aveva contrapposto non meno di Cartesio il pensante e l’esteso. Ma la luce, per esempio, è nel mondo esteso un

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analogo dello spirito; certo, la luce non è nient’altro che spirito pensante, solo al suo più basso livello. Fichte separò Io e non-Io e con quest’ultima, piatta parola volle indicare l’intero mondo obiettivo, nel quale vedeva soltanto un lato negativo. Certo Fichte avrebbe dovuto affermare, seguendo la sua propria dottrina, che l’Io è l’unica sostanza della natura, poiché appunto secondo la visione fichtiana la natura esiste o potrebbe esistere soltanto nella misura in cui essa è essenzialmente Io. Ma invece proprio per questa ragione Fichte ha negato l’essere obiettivo della natura e le ha lasciato solo un essere soggettivo, nella nostra rappresentazione. E anche lo spirituale, sempre per la stessa ragione, poteva essere per lui solo soggettivo. Uno dei primi mezzi di confutazione che ho usato contro di lui fu appunto la luce, attraverso la quale potevo mostrare che lo spirituale non è necessariamente soggettivo. La luce è infatti rispetto a noi obiettiva ed è tuttavia spirituale. Essa è dunque uno spirituale obiettivamente posto. L’opposizione tra i due è solo relativa, non assoluta. Fichte non vide che qualcosa poteva essere insieme ideale e reale. Ma la luce appartiene al mondo obiettivo ed è in esso ideale. Solo in opposizione a una più alta idealità, quella dello spirito umano, la luce appartiene al mondo reale. Rispetto alla materia essa è invece tanto ideale quanto lo è il pensiero nella sua propria potenza. Dovevo dimostrare contro Fichte l’obiettività dello spirito non meno della soggettività della materia. Ho presentato in maniera più dettagliata questo primo passo nella filosofia della natura affinché sappiate in che modo la nostra filosofia si muove verso i suoi risultati. D’ora in avanti mi limiterò invece a un semplice schizzo, visto che comunque questo sistema è preso in considerazione solo come momento di passaggio. La filosofia della natura comprende la materia come sostanza, come un essere-esteriormente, dunque come un essere che in se stesso e da se stesso è privo di limitazioni. Contrapposto alla materia sta l’ideale o la luce, la cui aspirazione, tensione, è di riportare in se stesso quell’essente fuori di sé. Questo è ora possibile solo attraverso limitazioni, dunque forme, e può accadere soltanto in un processo, che è detto dinamico. Questo processo è dato con l’opposizione della materia e della luce e presenta esso stesso diversi momenti. Noi chiamiamo tali momenti processo magnetico, elettrico e chimico. Poiché essi hanno luogo ancora adesso, dovevano

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trovarsi già nell’originaria materia corporea, altrimenti non potrebbero mostrarsi. Questi processi sono stati indicati anche come le tre categorie della fisica. Ora nel processo dinamico luce e materia devono essere pensate in tensione, tensione che però la luce costantemente aspira a togliere. Ma questo può solo accadere se la luce riporta la materia all’essere-in-sé. Nella misura in cui ciò riesce, la materia diviene una mera forma dell’esistenza dell’ideale. Dal momento in cui la materia perde il suo opposto separato, inizia un mondo più alto, quello della natura organica. L’organismo non è propriamente organismo per il tramite della sostanza, la quale gli è anzi del tutto indifferente, ma esso agisce soltanto sulla conservazione della sostanza in una forma determinata. L’organismo ha questo nome poiché la materia, che nel processo dinamico ancora affermava il suo esser-se-stessa, diventa qui mero organo di una più alta potenza. La potenza più alta non può però togliere la sostanza del reale, senza con ciò togliere la sua opposizione nei confronti del reale stesso. Dunque né la materia, né la luce per sé è quel che io chiamo essere sostanziale. Quest’ultimo, comune a entrambi, è invece l’organico. Ma anche qui tutto succede attraverso un processo. Questa identità può essere prodotta solo gradualmente, attraverso un graduale toglimento del reale e un corrispondente graduale ingresso dell’ideale, cosa che si mostra attraverso i diversi organismi nel loro ordinarsi secondo vari livelli. Nel contesto e nel corso del diventare-uno fa il suo ingresso una più alta potenza, finché il concetto del suo compiuto figurarsi in unità si presenta come A³. In questa più alta potenza luce e materia sono ormai presenti solo come accidenti, si tratta del concetto vivente di entrambi. Questo momento del riportare a se stesso il B estraniato da se stesso è il segnale della terza potenza. Queste stesse potenze le abbiamo nell’Io assoluto, solo che ora sono poste come momenti distinguibili, mentre nell’A indeterminato erano caotiche e indistinte. L’Io assoluto, poiché si è posto come B, si è esplicato in un cerchio, mentre a sé e prima di sé era un punto che racchiudeva in sé circonferenza, diametro e centro. Nella potenza dell’esser B si trova la mediata possibilità di essere A e l’ancor più mediata possibilità di vedersi come identità di entrambi. L’Io assoluto doveva uscire dalla possibilità, che è in esso posta, di essere non-Io, affinché potesse poi riunirla di nuovo in sé in quanto posta, realizzandosi compiutamente.

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Ogni cosa infatti si realizza solo se pone l’essere implicito come esplicito. L’identità del B inizialmente estraniato da sé e di quello che è arrivato a conoscersi compiutamente è proprio l’Io della coscienza umana. Lezione XV L’Io della coscienza, che è la vera conclusione della natura, contiene in sé gli stessi momenti che noi dobbiamo assumere come indistinti nell’Io assoluto. L’assoluto A0 contiene: (1) A che può essere uguale a B, dunque B, ma non ancora essente in quanto B; (2) A che una volta deciso non può più divenire l’opposto. Se l’Io assoluto contenesse meramente A, il quale può essere soltanto B, allora esso sarebbe A solo fintantoché non è effettivamente B. Nell’esser-B attuale smetterebbe di essere A, cosa che non è possibile ammettere. L’A assoluto è dunque nell’attuale esser-B anche l’essente necessariamente A. Solo in questa concatenazione del B, dunque del poter essere l’opposto di se stesso, si trova la possibilità della vita. Se A non potesse comunque essere B, sarebbe assolutamente bloccato e in quiete, legato al suo proprio essere. Se invece fosse meramente il poter-essere-B, anche in questo caso non potrebbe muoversi, poiché nell’esser-B attuale non potrebbe mantenere se stesso. Il fatto che esso possa essere necessariamente l’essente A e anche l’opposto B, ovvero il dover essere necessariamente A, gli dà la libertà di essere B, altrimenti in B annienterebbe se stesso. Propriamente non è né soltanto l’uno, né l’altro. Esso è piuttosto ciò che può essere B nel necessario essere A, e A nel necessario esser B. Qui si dà ora un terzo momento, cioè il poter essere in B necessariamente A e in A necessariamente B. Come primi due momenti avevamo infatti A = potere essere B, e A = dover necessariamente essere A. Ora questi tre momenti nell’Io assoluto non sono separati, ma ciò che è il primo è anche il secondo, e ciò che è il primo e il secondo è anche il terzo, come in un punto geo­me­trico la circonferenza è uguale al raggio e la circonferenza e il raggio sono uguali al centro. Questi momenti sono momenti posti solo nel pensiero. Non appena infatti l’Io assoluto è, si mette in movimento. Nel poter assumere un altro essere = B, il movimento è infatti già posto. Ma attraverso l’esser B attuale, l’Io esclude da sé il necessariamente essente della sua

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essenza, ovvero pone l’essere necessario della sua essenza in quanto tale. Attraverso questa esclusione si è ora posto puramente. Così abbiamo da un lato ciò che non ha più potere su se stesso, cioè il B che, essendo oggetto e non soggetto di se stesso, non è libero; dall’altro lato abbiamo l’A che, necessariamente, in quanto puro A, sta immobile e non ha più in sé la possibilità dell’altro essere, essendo questa possibilità già portata a compimento attraverso l’esser-B. Questo puro A dunque, nel suo essere anch’esso vincolato, è il puro soggetto che non è più oggetto di se stesso. Ma come tale esso cerca di ristabilire l’originaria libertà, cerca di ricevere in sé di nuovo quel B come possibilità, come attualità infatti non può averlo in sé. Questa tensione si mostra come mera aspirazione nel processo dinamico. Nell’attimo in cui gli diventa possibile raggiungere questo scopo, si mostra la vita. Il vivente è dunque ciò che è sempre un altro e in questo essere altro rimane tuttavia costantemente lo stesso. Solo questo è il veramente libero, il vero soggetto-oggetto. Il mero esser-B infatti non è il libero, poiché esso non è soggetto. Anche ciò che deve necessariamente essere A non è il libero, poiché non è oggetto di se stesso. Solo ciò che può essere un oggetto rimanendo un soggetto e un soggetto rimanendo un oggetto è il vero libero, il soggetto-oggetto. Ma anche questo terzo momento si mostra nella natura solo gradualmente e raggiunge la terza potenza soltanto quando materia e luce appaiono insieme come attributi subordinati. Questo processo è il processo organico, che noi dobbiamo assumere come attivo nei diversi organismi secondo i vari gradi. Quando la terza potenza è diventata, come l’Io originario, una perfetta unità, il processo della natura ha raggiunto il suo più alto grado e si mostra ora l’essenza dell’uomo, il quale si possiede nella totalità di tutti i momenti. In questo modo abbiamo ripercorso la via dall’Io assoluto fino all’Io della coscienza umana, presentando quanto ritenevo fosse necessario esporre del sistema della filosofia della natura. Un’esposizione che si mostra ancor più necessaria se si considera che dopo quel sistema, nonostante i tentativi in altre direzioni, non è stato più possibile riportare la filosofia al punto in cui si trovava in precedenza e si è dovuto riconoscere la filosofia della natura come base da cui muovere. Certo, è estremamente difficile voler rappresentare o com-

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prendere in questa generalità quella filosofia della natura, essendo essa dotata di grande ricchezza nei singoli momenti e nei passaggi. Ho del resto già ricordato che la filosofia della natura era solo il fondamento dell’intero sistema. La natura è solo un lato del mondo, l’ideale l’altro. La filosofia doveva dunque discendere nel profondo della natura, per risollevarsi allo spirito nel mondo ideale. Quest’altro lato della filosofia lo si potrebbe chiamare, in opposizione a quello della filosofia della natura, filosofia ideale o filosofia dello spirito. Se quindi ho chiamato l’intera filosofia «filosofia della natura», il nome è stato preso soltanto a priori o per mera comodità. Nominare adeguatamente tale filosofia è difficile già solo per il fatto che essa ha tolto in sé le opposizioni di tutti i precedenti sistemi. Il nome «sistema assoluto dell’identità», che ho usato solo una volta, in una prefazione, è solo una designazione esteriore. Curioso è quel che molti, i quali non sono mai penetrati nell’interno di questo sistema, hanno cercato di far seguire da quel nome: si è tentato infatti di mostrare che in quella filosofia venivano eliminate tutte le differenze tra Dio e il mondo, bene e male, verità ed errore. Altri hanno trovato anche altre denominazioni del sistema, ma su questo dirò di più in un’altra occasione. La filosofia della natura ha solo fatto procedere la genesi dell’essere ideale e reale fino al punto in cui l’Io originario si è effettivamente realizzato nella totalità di tutti i suoi momenti, fino dunque al suo elevarsi all’Io della coscienza umana. Questa coscienza non restava però coscienza generale, pura, ma diventava coscienza individuale. Di qui si sviluppa una nuova opposizione e con essa un nuovo movimento nel quale fanno il loro ingresso i diversi momenti dell’ideale esattamente come si erano susseguiti i momenti della natura dall’altro lato. Ora non è possibile considerare nel dettaglio i momenti dell’ideale. L’essenziale è comunque quanto segue. Al primo livello veniva mostrato il dispiegamento del sapere nella coscienza secondo tutti i momenti. Il secondo livello si dava grazie all’opposizione di libertà e necessità introdotta dal primo livello. Qui veniva quindi presa in considerazione la vita etica, lo stato, il quale interviene nella costruzione dell’intero come l’organismo nella natura. Il terzo livello conteneva infine la soluzione della contraddizione tra libertà e necessità. Esso introduceva l’arte, nella quale si riuniscono coscienza generale e individuale. Mi si potrebbe chiedere

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Invito alla filosofia

se e dove in questo modo io abbia lasciato ancora un posto per Dio e la religione, ma questo verrà mostrato più tardi, quando darò più precise spiegazioni su religione e filosofia. Vedete che questa filosofia attraversava, in uno sviluppo costantemente progressivo, tutti i momenti del reale e dell’ideale. Ma essa procedeva sempre a contatto con il mondo effettivo facendo riferimento al suo primo lato. Tutto trovava nel mondo reale la sua conferma e attestazione. Poiché ora con questa limitazione la filosofia stessa diveniva appunto limitata, ma in alcun modo falsa, essa doveva essere riconosciuta anche attraverso la filosofia più alta e assunta nella sua giusta posizione. Chi consideri quale forza questo stringersi alla realtà effettiva doveva esercitare e quale violenza fosse stata usata fino ad allora con Fichte a tutte le rappresentazioni, comprenderà come non siano potuti mancare al mio sistema, come conciliazione di questa contraddizione, efficacia e approvazione. La dottrina di Fichte, la quale non era nient’altro che un idealismo unilaterale, ricevette con questo sistema un significato del tutto diverso. In tutt’altro senso ora l’Io era sostanza dell’intera natura. Nacque al posto di quell’idealismo unilaterale un real-idealismo. Una cosa era ormai chiara e decisa, e cioè che è un’unica e identica cosa quel che conosce e quel che viene conosciuto. I deboli tentativi di provare il contrario da parte di Jacobi dovevano naturalmente fallire. Certo materia e spirito non sono una sola cosa secondo il modo dell’essere. Se non si ammettesse questo non sarebbero stati necessari i due nomi. Faccio notare queste cose solo in riferimento a coloro che accusavano quel sistema di materialismo e si chiedevano se dopo Kant, Leibniz e Spinoza si dovesse tornare a qualcosa di tanto misero. Non si sarebbe potuto anche ammettere – cosa che certo sarebbe stata più lineare e conseguente – che la materia in quanto tale venisse tolta e dunque risolta nello spirito così come la rappresenta Leibniz? Ma non si affermò che spirito e materia fossero formalmente la stessa cosa, fu detto soltanto che l’ultima essenza a fondamento di entrambi è un’unica e medesima cosa, la quale appare qui come materia, lì come spirito. E gli effetti indiretti, forse più delle dirette conseguenze di quel sistema, furono tanto più soddisfacenti poiché esso produsse un modo in generale diverso di osservare le cose. Era proprio di quel tempo che dovesse sorgere una nuova generazione

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Lezione XV

dotata di un nuovo organo del pensiero. La natura, negli intimi impulsi della quale non si sospettava alcun segreto più profondo che nelle arti di un prestigiatore, doveva esser sottratta all’estraneità in cui era stata confinata e portata di nuovo vicino allo spirito e all’animo. Le teo­rie precedenti spiegavano solo per necessità, e solo con l’aggiunta di tutti i loro presupposti, ciò che appare nella natura. Ma si potrebbe chiedere a ragione: perché questi atomi, a qual fine questo intero apparato, se la natura non può avere altro scopo che mostrarci le apparenze esterne della natura? Proprio come si osservava la natura, cioè senza alcun interesse profondo, come se si trattasse di un gioco, così veniva trattata anche la storia, considerata appunto un puro gioco dell’arbitrio senza legge e degli impulsi senza scopo. Per un certo tempo, anzi, il più acuto e pieno di spirito sembrò proprio colui che fosse in grado di scoprire e mostrare l’insensato nella storia. Costituisce qui una lodevole eccezione Johan von Müller. Mentre egli scriveva, la maggior parte dei dotti in «materie positive» rendevano la loro propria scienza disprezzabile. Scorgere nella natura il soffio dello spirito, e nella storia, così come nella natura, una commisuratezza alla legge, questo è lo spirito del nostro tempo. Se solo si considera nell’insieme il percorso della natura tedesca, non si potrà evitare di ammettere che a partire dalla filosofia più recente, da Kant in poi, si è formata una via della letteratura del tutto nuova e tesa verso il meglio. Proprio stringendosi al mondo effettivo la filosofia ha raggiunto il suo punto più alto. Si sa ora ciò che è da sapere nel sapere. Sono stati dati punti direzionali determinati, attraverso i quali anche le scienze più settoriali possono venire in organica connessione con la coscienza generale. Non più la proprietà di una coscienza parziale, ma la trasfigurazione nella coscienza generale deve essere l’aspirazione della singola scienza. L’ampia regione del sapere non è più una landa bruciata e disseccata, essa è piuttosto un campo che illuminato dalla fresca rugiada mattutina divinamente scintilla. Felice colui che è nato in un tempo in cui il supremo in ogni scienza è che essa si risolva, anche se questo dovesse accadere ancora attraverso molti passaggi intermedi, in un organismo che abbracci ogni cosa! Nulla è precluso alla speranza dello spirito in tensione, se solo ci si volge allo sviluppo che gradualmente procede.

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Ma certo anche la filosofia più recente ha i suoi limiti e finora non è riuscita a superarli. Di questo parleremo però in un’altra ora. Lezione XVI Il limite dello sviluppo della filosofia presentato nell’ultima lezione consiste in una parola in questo, che anche quella filosofia in fondo non è andata al di là del meramente fattuale. Tutto ciò che essa ha in più, non le è proprio. Il suo pregio, se confrontata con gli altri sistemi, può quindi essere solo che essa ha esplorato e mostrato in maniera più pura il fatto stesso. Questa più chiara e adeguata comprensione del fatto consisteva, come risulta da quanto spiegato finora, nel seguire e accompagnare la genesi dell’intera natura (osservo che questo porre prima la natura si giustifica già solo perché il soggetto conoscente presuppone necessariamente quell’oggetto conoscibile) dalla preponderanza dell’oggettivo fino alla coscienza umana, dunque fino al punto in cui l’oggetto è ormai divenuto pienamente soggetto. Per questa filosofia quel che è ogni cosa esterna alla coscienza è, secondo la sostanza, proprio quel che è il soggetto, con la sola differenza che quelle cose sono poste, appunto, al di fuori della coscienza. L’intera natura è una linea continua che verso un lato rappresenta l’oggettivo e verso l’altro il soggettivo, ma non in modo che nell’obiettivo venga del tutto annientato il soggettivo e nel soggettivo l’obiettivo. Piuttosto il soggettivo resta al fondo dell’obiettivo, così come nella coscienza umana l’obiettivo è soltanto divenuto latente. In un corpo trasparente la materia oscura non è stata affatto annientata, ma solo mutata in chiarezza. Nessun punto di quella linea è puramente l’uno o l’altro, anche all’estremo punto dell’obiettivo. In quanto realtà l’obiettivo si mostra come già afferrato dal soggettivo, già da questo determinato. Le cose vanno allo stesso modo anche sul lato opposto. Anche qui l’obiettivo della sostanza non è tolto. Il B è solo posto come A, cosicché il B resta comunque a fondamento dell’A, ovvero l’A è certo A, ma solo come il B mutato in A. Nella prima gioia ancora giovanile per la scoperta di questo rapporto, esso venne rappresentato come rapporto di polarizzazione. Proprio come ciascuna delle due forze nel magnete fugge il lato omogeneo, ma cerca e attira l’oppo-

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Lezione XVI

sto, così – si disse –, essendo quella tensione per così dire il primo segno della vita nella natura, anche il reale si afferma, in quanto è solo obiettivo, soltanto attirando il soggettivo e viceversa. L’obiettivo e il soggettivo trovano infine il loro punto di indifferenza nella coscienza umana. Nell’intero universo ritroviamo gli stessi rapporti che si danno in una linea magnetica, nella quale non si presentano propriamente più di tre punti, cioè i due poli e il punto di indifferenza, e ogni punto contiene a sua volta questi stessi punti, poiché può essere rispettivamente polo nord, polo sud o punto di indifferenza. Tutto il conoscibile è solo un obiettivo dato attraverso il soggettivo, in maniera tale per cui nella natura inorganica predomina l’obiettivo e in quella organica o animale il soggettivo. Ma già nella natura inorganica l’obiettivo è al servizio del soggettivo, finché nell’uomo esso certo non viene a mancare, tuttavia va a fondo, secondo un’espressione della lingua tedesca qui particolarmente efficace. Il punto di indifferenza è nella natura il regno vegetale, che è ugualmente imparentato alla vita e alla morte, ma già con gli infusori fa il suo ingresso il soggettivo come preponderante e quindi il più libero movimento. Chi conosce la rigida contrapposizione di Fichte tra soggettivo e obiettivo, comprenderà come l’immagine che abbiamo proposto abbia contribuito a sollevare l’epoca al di sopra di quella contrapposizione. Io ho del resto introdotto questo analogon solo perché l’intero riposa su una felice intuizione, che nasceva da una penetrante visione del processo del mondo. Il processo ha luogo solo grazie a un progredire dell’obiettivo verso il soggettivo e questo movimento generale è ciò che qui più conta. La cosa più importante dell’intero sviluppo è proprio l’aver trovato questo progresso. Nella direzione opposta infatti non è possibile alcun movimento e dunque alcuna scienza. Solo con quella filosofia è stato portato il progresso nella scienza, in modo che, nella graduale e costante successione, ogni livello successivo ricomprendesse il precedente e tutti fossero infine riuniti al livello più alto nella coscienza generale. Compreso nella sua piena determinatezza il contenuto della scienza era ormai un processo che aveva luogo attraverso successive potenze. Anzi la scienza stessa divenne un processo, mentre con Spinoza si rimaneva in assoluta immobilità. Con il concetto di processo era dato il concetto di potenze e momenti. In queste potenze si trovava il mezzo di un progresso scientifico,

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poiché non si passava mai a un momento successivo senza che questo trovasse in quello precedente la sua fondazione. Finora la filosofia non è comunque riuscita a spingersi oltre il concetto di processo. Si poteva certo alterare il significato di questo processo e renderlo da reale dialettico, ma nella cosa stessa attraverso tale alterazione non si guadagnava nulla, poiché con essa la filosofia non veniva in alcun modo sollevata al di sopra della sfera della mera necessità. Sebbene io sia convinto che da un’altra rappresentazione del processo non si produca per la filosofia alcun guadagno, mi sento tuttavia in dovere di dire una parola sui tentativi di miglioramento della filosofia fin qui presentata. Il più importante di essi, il quale soltanto si procurò una certa autorevolezza, consisteva nel riformulare la stessa cosa dialetticamente. Parlo di mera riformulazione, poiché il suo stesso autore non negherebbe che il movimento della propria filosofia è stato del tutto ripreso dall’altra. La differenza è meramente formale, quindi anche il miglioramento è stato soltanto formale. Non voglio qui considerare quale merito sia da attribuire a colui che trascrive un concerto per violino in un concerto per pianoforte. L’autore di questa conversione, che insegnava con me in una università, fu indotto a trasporre il processo reale in un processo dialettico dal consiglio di alcuni suoi amici che lo invitavano a far lezione su un ambito della filosofia non troppo esteso, quale era allora la logica. Era infatti un pensiero naturale e non indegno della filosofia mostrare anche nel pensiero i rapporti del reale, in modo da progredire, in constante incremento, da ciò che è privo di contenuto a ciò che è sommamente pieno. Attraverso questo progredire di concetti, in maniera che l’uno avesse sempre per base l’altro, era certo possibile fondare una logica autocosciente come rinascita pensante del nostro pensare. E ciò è effettivamente accaduto con Hegel nella sua scienza della logica. Ora, se questa si sia prodotta senza alcuna forzatura e se, anche qualora non fosse stata preceduta dal processo obiettivo, avrebbe comunque visto la luce, avendo essa assunto in effetti il principio del progresso dall’oggettivo al soggettivo, a queste questioni vorrei qui dedicare alcune osservazioni. Il punto d’avvio della logica di Hegel è un concetto obiettivo, che sia cioè mescolato col soggettivo nella minor misura possibile. Come tale concetto viene assunto il puro essere. Questo concetto è proprio ciò che è il puro B, con la sola differenza che

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Lezione XVI

esso è qui qualcosa di puramente costruito, mentre quel B è nominato come inizio effettivamente obiettivo. Questo concetto, nel mero pensiero, trapassa nel concetto del divenire, dal quale segue il concetto della quantità. Come già detto, come sistema dei concetti questa logica può essere ritenuta un’opera veramente riuscita, sebbene, in quanto opera artificiale, sia inevitabilmente qualcosa di fragile. Ma l’autore di questo sistema non si sentì soddisfatto nell’ambito di una tale limitazione, pensò che forse in seguito avrebbe potuto utilizzarlo come sistema della filosofia. Ma questo presupposto arbitrario, che cioè il pensiero in filosofia abbia per oggetto soltanto se stesso nel suo graduale passaggio dall’astratto al concreto, non è identico al compito della filosofia. Da sempre si è ammesso che la filosofia abbia per oggetto la spiegazione del mondo oggettivo. Anche Hegel non può sottrarsi a questa necessità, ma non si riesce a vedere come sia possibile trovare effettivamente un passaggio alla natura a partire dal mero concetto. È facile giungere nel puro pensiero, questo dipende solo da ciascuno di noi, ma non è altrettanto facile uscirne. Il mondo infatti non solo non consiste di quei concetti astratti, ma neppure di quelli concreti: in generale esso non consiste di concetti. Anche il più concreto dei concetti è ancora un concetto, per quanto non sia astratto. Il mondo consiste di concetti e di cose accidentali. Il reale è proprio la differenza dal pensiero. È facile stabilire quale aspetto abbia il mondo nel pensiero, niente infatti è più afferrabile ovvero concepibile del concetto. Ma ciò che troviamo nel mondo al di là del concetto, questo necessita di una spiegazione. Hic Rhodus, hic salta! Hegel crede di poter compiere questo passaggio attraverso una mera definizione. La sua filosofia del resto non è nient’altro che una successione di concetti, i quali si legano però l’un l’altro attraverso un movimento interno e non rimangono pertanto rigidamente separati come invece accade nella filosofia wolffiana. Ma poiché si muove solo attraverso definizioni, la filosofia di Hegel non arriva a essere più di un wolffianesimo che si ripete in una più alta potenza. Il passaggio è dunque compiuto da Hegel attraverso la seguente definizione: «La natura è l’idea nella forma del suo essere altro». Se tutto dipendesse da una mera definizione, questa potrebbe certo essere accettabile. Ma attraverso di essa chi impara più di quanto già non sapesse? Non che la natura sia

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l’idea nella forma dell’esser altro, ma come l’idea arrivi a diventare dissimile da sé, questa è propriamente la questione. Tutti noi ben vediamo, osservando la natura, che c’è qualcosa che separa natura e concetto. Ma la definizione di Hegel più di questo non dice. Chi dovrebbe essere così sprovveduto da non ritrovare il significato del qavteron dei pitagorici, il quale non dovrebbe essere ma tuttavia è, è contrapposto al concetto, mal lo sopporta, e tuttavia l’accetta? Chi è così ottuso da non dire a se stesso che la natura è un più, qualcos’altro rispetto al concetto e accetta tuttavia il concetto? La questione è come avviene che il concetto giunga a questo altro. Nessuna definizione può spiegare questo passaggio. Nella prima edizione della sua Enciclopedia delle Scienze filosofiche Hegel presenta la natura «a ragione» come caduta dell’idea da se stessa. Nella seconda edizione egli omette l’«a ragione» e presenta il tutto solo storicamente. Si deve dunque supporre che non ritenesse più ragionevole, giusto, rappresentare la natura nel modo precedente, o comunque si può pensare a un’oscillazione. Come può l’idea decidersi a decadere da se stessa? Se la caduta è effettiva, allora bisogna stabilire un evento reale e il concetto in questo caso non è niente più che concetto. Se invece non s’intende alcuna caduta effettiva, allora quella parola è del tutto vuota. Per risolvere il vero problema della filosofia non sarebbe troppo andare da un capo all’altro del mondo, se lì si trovasse la sua soluzione. Un mero concetto non lo risolverà mai. Ma certo è facile in base a esso formare un sistema. Io avrei potuto, come si può ben comprendere, semplicemente tralasciare questa filosofia intesa come miglioramento e perfezionamento – essa è infatti piuttosto una deviazione della filosofia dalla sua precedente linea – ma si è soliti pensare: qui tacet consentire videtur. Lezione XVII Si diceva nell’ultima lezione che niente è più comprensibile, cioè meglio concepibile del concetto. L’inconcepibile comincia solo con ciò che è contrapposto al concetto. Ma proprio per questo la filosofia ha soltanto nell’inconcepibile i mezzi per la propria ascesa. La filosofia della natura si era rivolta a questo essere contrapposto al pensiero, al principio teso contro l’intelletto e poi a esso di nuovo sottoposto nell’assun-

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zione di una determinazione soggettiva. In questo processo ha luogo un progresso effettivo, un vero movimento. Il movimento si dà infatti solo laddove viene superata una resistenza. Nella filosofia di Hegel, che si dice dialettica, il pensiero procede monotonamente in se stesso. Esso non ha alcuna opposizione da superare. Come si può dunque in questa filosofia parlare di un processo? Il punto d’avvio dell’intero sistema è il concetto più vuoto, il più astratto, quindi né qualcosa di reale né qualcosa di contrapposto al vero e proprio pensiero. Attraverso la sua vacuità esso non offre nient’altro che la possibilità di essere nuovamente riempito; soltanto in questo senso ha luogo un movimento. E poiché questo vuoto è qualcosa di meramente costruito, anche il movimento di riempimento è soltanto costruito, artificiale, esistente solo nel soggetto che filosofa. Quel puro essere, quindi, espressamente definito come ciò che più è vicino al nulla, non è qualcosa di reale, né può darsi al di fuori dell’astrazione. La filosofia della natura inizia con il puro diventare oggetto, con il perder se stesso del precedente soggetto-oggetto. In questo modo è data una dissonanza, una interna necessità di movimento verso la produzione della consonanza. Un vuoto concetto non ha alcuna interna necessità di riempimento, la quale può esser sentita solo dall’io che filosofa. La necessità immanente che Hegel ascrive al vuoto concetto è dunque un puro modo di dire e può solo significare che devo far procedere il concetto astratto fino alle concrete determinazioni. Il concetto di un movimento obiettivo viene quindi del tutto a mancare, soltanto il pensiero infatti si muove. Non si dà alcun effettivo accadere. Il presunto movimento è solo una imitazione del movimento obiettivo e per di più, non me se ne voglia, una cattiva imitazione. La differenza di questa filosofia rispetto alla filosofia della natura consiste dunque in questo, che essa si astiene da ogni penetrazione nel reale e nel difficile, procedendo quindi con facilità e disinvoltura. D’altronde, l’ultimo concetto accoglie in sé tutti i momenti precedenti solo idealmente, non dunque nella realtà, come sussistenti anche al di fuori di esso, cosa che certo non accade nella filosofia della natura. Ora se una connessione nel mero pensiero evidentemente non trapassa nel mondo effettivo, allora il pensiero deve proiettare fuori di sé i suoi momenti e abbandonarli, lasciandoli separare l’uno dall’altro, per nessun’altra ragione se non perché nell’esperienza

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si dà effettivamente una natura. L’idea è infatti già del tutto compiuta quando arriva a quel divenire dissimile da sé. La necessità di questo passaggio non si trova nel concetto stesso, ma solo nel filosofo, il quale deve ammetterla solo perché costretto dall’esistenza di una natura. Ma il concetto non guadagna nulla con questa proiezione esterna, e non è, in quanto concetto, di alcun interesse finché una buona provvidenza non spieghi all’uomo quei momenti della separazione. I fili del passaggio sono qui del tutto staccati e il grande iato viene nascosto con una definizione. Vale la pena di fare ancora alcune osservazioni sulla posizione che la filosofia della natura in questo contesto viene ad assumere. Come già detto, il concetto attraverso questo diventare altro non guadagna nulla, esso non ottiene alcun nuovo momento. Il nuovo è dato solo dalle diverse figure del concetto stesso. La natura considerata a partire dall’idea consiste semplicemente nel cadere l’uno fuori dall’altro e nel consistere l’uno accanto all’altro dei vari livelli che nell’idea consistono l’uno nell’altro. La genesi della natura consiste meramente in questo, che all’idea va, le piace far cadere esternamente i momenti in essa contenuti, lasciandoli consistere l’uno accanto all’altro. La natura è secondo questa dottrina nient’altro che l’idea caduta nella separazione. Ma ciò potrebbe avere un senso solo se si comprendesse la necessità di questo separarsi. La filosofia della natura che ne segue infatti non ha più per oggetto il prodotto originario, ma consiste nella mera conseguenza di una definizione. I polloni freschi e verdeggianti della filosofia della natura fiorita in precedenza li ritroviamo qui come in un erbario. Tutto viene risolto velocemente attraverso definizioni, in un facile movimento che ricorda fin troppo il detto di Goethe: La scienza stessa non perde nulla del suo rapido corso. Ciò che in noi ancora vegeta rapidamente è seccato. Forse c’è qualcuno tra noi che ancora ricorda la vivace agitazione del sud della Germania quando l’apparizione del magnetismo animale tenne occupate negli anni ’80 diverse teste. Allora la rivista berlinese Berliner Monatsschrift non riusciva a smettere di denunciare quella scoperta come ingannevo-

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le macchinazione dei gesuiti. Ma nel 1814 la scoperta e la conseguente dottrina furono trapiantate a Berlino e la stessa rivista non seppe trattenersi dall’esaltarle come qualcosa di completamente nuovo. A partire da Berlino questo vangelo doveva diffondersi attraverso tutta la Germania. Gli insulsi scritti del dott. Mesmer, che nella Germania meridionale nessuno era riuscito a leggere, furono venerati come gli stracci di un mendicante che avesse fama di santo. Le cose andarono in maniera molto simile con la filosofia della natura. Anch’essa fu all’inizio ignorata, poi perseguita e ostacolata anche attraverso provvedimenti governativi. Vorrei far notare che, nel ricordare queste cose, certo non voglio pormi al fianco di popoli che proprio a causa del loro sviluppo letterario debbano subire l’inevitabile destino di educare una gran quantità di teste vuote, capaci di entusiasmarsi per un nulla. Possa invece il tedesco del sud rimaner cosciente dei propri pregi con modestia, e possa il nuovo wolffianesimo trovare qui una barriera tanto più salda quanto più esso sembra irrompere con rinnovata violenza. Questo wolffianesimo, pur non avendo portato avanti la scienza, l’ha deviata dal suo precedente corso. Esso ha provocato un arresto che ancora oggi può essere avvertito in tutte le discipline. La direzione obiettiva è stata d’un tratto rovesciata in una direzione soggettiva. Sembra a questo punto doveroso interrogarsi sulle ragioni di una così rapida diffusione e penetrazione in Germania di questo razionalismo wolffiano. Ma se si osserva la cosa più da vicino, essa apparirà molto semplice. Questo razionalismo consiste in fondo solo di tautologie e non offre alcuna risposta al problema principale, lasciando ciascuno dove già era. Un tale razionalismo, il cui primo principio è ciò che non può più non esser posto e che anche successivamente non afferma nulla, mi sembra massimamente adeguato alla media del pubblico tedesco. Tutto l’obiettivo infatti, e quel che vi conduce, il tedesco lo rifugge come misticismo; il permanere volontario nel concetto soggettivo è visto invece come l’unico mezzo di salvezza. Bisogna però riconoscere che la direzione obiettiva al suo inizio si è presentata in maniera debole e imprecisa. Pertanto quando Hegel se ne è servito per proporre una filosofia soggettiva in più alta potenza, l’invincibile inclinazione del tedesco per il soggettivo accolse di buon grado e prontamente questa inversione. Influì inoltre favorevolmente in questa direzione il fatto che ci si poté impossessare

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completamente di questa filosofia. Non era necessario un grande sforzo per trovare il suo punto d’avvio, visto che alla fine bisogna comunque arrivare a questo primo concetto, e certo necessariamente. Anche nella progressione non è facile sbagliare, essendo essa costruita ad arte. Una tale arroganza del pensiero non penetrerà certo in una natura sana, ma di sicuro riempirà teste mediocri con vapori di profonda scienza. In verità, guadagnò molto non ciò che è proprio di questa filosofia, ma l’idea vivente riformulata a partire dalla precedente filosofia. Quest’ultima è così venuta per tempo a conoscenza dei propri limiti e ha potuto osservare tutto quell’episodio nell’ambito della filosofia – la filosofia logica non è infatti più di un episodio – con tanta più tranquillità quanto più proprio attraverso di essa si è potuta conservare la dignità della filosofia in un tempo in cui un Krug o, per scendere ancora più in basso, un Fries potevano avere un ruolo nella filosofia. Sono così di nuovo tornato alla mia filosofia. Lezione XVIII Mi è stato ricordato che nella precedente presentazione della filosofia della natura la trattazione dell’aspetto religioso del sistema era stata rimandata a una successiva esposizione. Incontestabilmente anche da questo lato si mostra il limite che dicevo non esser stato ancora superato dalla filosofia. L’ostacolo principale che essa incontra, spesso utilizzato anche dai suoi oppositori, si trova sicuramente nel concetto riguardante Dio e il suo rapporto con il mondo. Ma i modi di quell’opposizione lasciano emergere gravi fraintendimenti. Si è creduto di poter descrivere il sistema della filosofia della natura come spinozismo, come se lo spirito filosofico da Spinoza in poi si fosse mosso in circolo, senza guadagnare un più alto livello. Questo è già di per sé incredibile. A ciò si aggiunge che la maggior parte, anche dei dotti, aveva sullo spinozismo idee molto imprecise e in parte erronee. Spinoza è uno spirito che si aggira nella filosofia sin dalla sua prima apparizione, e però non è stato affrontato e considerato col dovuto vigore quasi da nessuno. L’accusa principale rivolta al suo sistema era che si trattasse di panteismo. Visto che devo qui servirmi di questa ominosa parola – con la quale ancora oggi si designa tutto quel che non merita approvazione, ed

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è spesso usata da molti senza pensiero, solo per dar sfogo a una rabbia impotente – non sarà superfluo prendere in considerazione il concetto che a essa si lega. La più comune rappresentazione dello spinozismo o panteismo è questa: si crede che ogni cosa singola sia solo un dio modificato o che ci siano tante divinità quante sono le singole cose. Alcuni hanno persino rappresentato il panteismo come una sorta di feticismo. Ma nessuno che conosca, anche solo storicamente, le differenze dei modi di pensare umani arriverà a dire che il feticismo dei neri sia in qualche misura imparentato con lo spirito entusiastico di un panteismo indiano. Allo stesso modo si potrà comprendere come sia insensato sostenere che Spinoza, affermando che Dio è ciò che è tutto – e in quanto tale non è appunto alcun particolare, ma anzi trascende ogni singolarità – volesse anche affermare l’esser dio di ogni singola cosa. La divinità sta invece per Spinoza nell’andare al di là del delle singole cose, ciascuna delle quali è la limitazione, la modificazione della divinità. Essendo il rapporto delle cose con Dio lo stesso che le figure geo­me­triche hanno con lo spazio infinito, si potrebbe anche pensare che ogni singola figura geo­me­trica sia uguale allo spazio infinito, ma questa rappresentazione del sistema di Spinoza bisogna lasciarla alla plebe letteraria. Un’altra spiegazione, certamente migliore, è la seguente. Si sostiene che per Spinoza, sebbene nessuna cosa singola sia Dio, il mondo è tuttavia uguale a Dio, ovvero è Dio stesso o comunque non è distinto da Dio. Se però s’intende quest’indistinto effettivamente solo come il collettivo delle cose singole, allora non è corretto dire che Spinoza non faccia distinzioni rispetto a un tale insieme. La sua dottrina è infatti stabilmente questa: Dio è ciò che non presuppone alcun altro concetto, come lo spazio nella geo­me­tria; il mondo invece può esser compreso solo come conseguenza a partire da Dio. Questa dottrina pone dunque veramente una distinzione tra Dio e il mondo. Secondo Spinoza il mondo non può mai essere chiamato Dio, poiché Dio è substantia in se considerata, substantia quae prior est suis affectionibus, e per affezioni qui si intendono le cose finite. Il mondo resta sempre indipendente da Dio e presuppone la pura sostanza. In questo senso la parola panteismo descrive il sistema di Spinoza in maniera inadeguata. Piuttosto si potrebbe dire che in tale sistema non è il tutto Dio, ma Dio è necessariamente il tutto o il mondo, e in que-

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sto senso bisogna ammettere che per Spinoza necessariamente il mondo è subito con l’essere e l’essere con l’essenza, quindi necessariamente il mondo è subito con l’essenza, cosicché Dio non può affatto essere pensato senza mondo. Egli non è actu prius rispetto al mondo. Secondo Spinoza è proprio della natura di Dio porre il mondo non appena egli stesso è. Certo ultimamente è stato fatto un tentativo di considerare il mondo come esterno al sistema di Spinoza. Hegel nella seconda edizione dell’Enciclopedia dice: bisognerebbe chiamare il sistema di Spinoza più opportunamente acosmismo invece che panteismo. Vi prego di non considerare qui la parola acosmismo come derivata dall’aggettivo greco a]kosμo" (disadorno, disordinato), cosa che certo in riferimento ad alcuni sistemi potrebbe risultare appropriata. Essa è piuttosto costruita come la parola ateismo. Ma può essere detto in questo senso il sistema di Spinoza acosmico? Certo il mondo è per lui prodotto da mere modificazioni di Dio, non può essergli attribuito l’a se existere. Ma nega egli per questo l’essere del mondo in generale? Spinoza nega che il mondo sia fuori di Dio, non che in generale sia. È pura illusione pensare che Spinoza abbia negato la realtà del mondo. Se egli non vuole che si attribuisca alle singole cose empiriche la stessa esistenza che si attribuisce a Dio, proprio per questo è costretto a porre la sostanza di queste cose in Dio, come mere affezioni di Dio. Ancora un’altra denominazione del sistema spinoziano la si trova in Jacobi, il quale per tutta la vita si è scontrato e ha affrontato, avvistandolo ovunque, il fantasma del panteismo. Egli ritiene che se questo sistema si chiamasse cosmoteismo, sarebbe più facilmente accettato e compreso. Solo che non vedo alcuna differenza tra kovsμo" e pa'n. Il sistema di Spinoza può essere tanto poco cosmo- quanto pan-teismo. Si potrebbe invece dire che quel sistema sia un teopanismo, poiché Dio è necessariamente posto con il tutto, ovvero teocosmismo, essendo Dio, non appena esiste, kovsμo" o pa'n. Dio è causa rerum così come è causa sui. Le forme della sua esistenza sono contemporanee alla sua esistenza, e questa a sua volta è una necessaria conseguenza della sua essenza. Dio è attraverso la sua essenza causa della sua esistenza e attraverso la sua esistenza causa dell’esistenza del mondo. Nello stesso luogo dal quale ho preso l’elegante parola acosmismo Hegel afferma anche che invece di panteismo si dovrebbe parlare di monoteismo, essendo Dio l’unico esistente, cosa che

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perlomeno è presente nel sistema di Spinoza. Ma anche qui Hegel sembra non aver notato che monoteismo non significa che Dio è l’unico esistente, ma che Egli soltanto è. Segno di un fraintendimento del concetto di monoteismo, sia detto di passaggio, sembra anche essere il chiamare monoteismo la dottrina dell’unità di Parmenide o comunque, in generale, parlare in quel caso di monoteismo. Se dunque si vuol rimproverare qualcosa al sistema di Spinoza una volta che sia stato inteso come teopanismo, devo far notare che ogni obiezione rimarrà priva di significato fin quando tutti gli altri sistemi continueranno a non chiarire in qual senso Dio non è tutto. L’obiezione secondo la quale Spinoza non distingue Dio dal mondo, in base a quanto detto finora, può voler dire solo che egli non li distingua nella maniera giusta; che infatti in generale li distingua, è stato già mostrato. Ma dubito che gli altri sistemi abbiano raggiunto ciò la cui mancanza si rimprovera a Spinoza e, nell’incertezza riguardo alla distinzione di Dio dal mondo o sul modo dell’esser uno, quella obiezione perde necessariamente ogni forza e determinazione. La stessa cosa vale per la comune osservazione secondo la quale Spinoza nega la personalità di Dio. Certamente il compito più alto della filosofia è rendere comprensibile la personalità di Dio. Ma finché quelle filosofie che si ritengono chiamate a lottare in vista dell’adempimento di tale compito spiegano che la personalità di Dio è incomprensibile, o, come dice Jacobi, impossibile secondo ogni concetto filosofico, anche quell’obiezione risulta priva di un particolare significato. Si può ancora soltanto dire che il sistema di Spinoza vede il mondo come prodotto da una mera necessità, non da una volontà divina, ovvero come mero corollario della natura divina. Ma finché quei filosofi buoni e giusti continueranno ad ammettere che ogni filosofia debba approdare infine al fatalismo – anche questa è una espressione di Jacobi – e finché nessun sistema riuscirà a rompere il cerchio della necessità, ma si continuerà anzi a considerare un orgoglio della filosofia comprendere tutto come mera necessità, anche all’ultima obiezione non sarà possibile riconoscere alcun significato specifico. Spinoza ha piuttosto il pregio di aver chiaramente e schiettamente mostrato ciò che gli altri, infine, comunque dovevano ammettere. Ho detto queste cose su Spinoza perché vorrei incoraggiarvi a conoscerlo meglio e a leggere la sua Ethica il più presto possibile.

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Invito alla filosofia

Poiché ora la filosofia della natura è stata considerata spinozismo, dovrò far chiarezza su questo punto. Ritengo tuttavia che la differenza tra le due filosofie sia qui irrilevante, visto che neanche la filosofia della natura è riuscita a rompere il cerchio della necessità. Con questo non voglio certo dire che tra la filosofia precedente e quella successiva non sia avvenuto alcun progresso, ma bisogna comunque riconoscere che il sistema di Spinoza resta il fondamento di tutti i sistemi. Gli sviluppi del periodo successivo sono certo estranei a Spinoza, ma essi si trovano già tutti preparati nella sua opera, cosa che ne rende la lettura particolarmente attraente. I boccioli lì ancora chiusi dovevano alla fine dispiegarsi in fiori. Ho già una volta paragonato la sua filosofia a un idolo, all’immagine di un dio a cui egli per timidezza non ha osato dare alcun tratto divino. Il dio di Spinoza è ancora del tutto affondato nella sostanza. Le cose non fluiscono da lui in conseguenza di un movimento del suo volere, ma senza alcun movimento, come tra il concetto di un triangolo rettangolo e quello dell’ipotenusa non ha luogo alcun movimento in senso proprio. Tutto è incomprensibile, la connessione meramente logica. Ma dal sistema quasi privo di sviluppo di Spinoza il sistema della filosofia della natura si distingue in maniera evidente per la sua pienezza, per la sostanza vivente che pone se stessa (cioè l’Io, ovvero l’infinito soggetto-oggetto). Una seconda differenza è questa: le forme dell’essere finito, che per Spinoza sono solo affezioni che ineriscono alla sostanza senza volontà, assumono nell’altro sistema il significato di momenti della vita, attraverso i quali l’idea somma procede verso l’autorealizzazione. Di qui anche la grande differenza tra la fisica di Spinoza e quella della filosofia della natura. La fisica di Spinoza è ancora del tutto meccanica e atomistica e non ha nulla in più rispetto a quella di Cartesio, il quale persino negli animali vedeva soltanto delle macchine inanimate. Per quanto riguarda il rapporto tra Dio e la natura, la proposizione di Spinoza omnia sunt in Deo et nulla sine eo nec sine eo concipi possunt giunge nella filosofia della natura a una reale comprensibilità, il modo in cui le cose fluiscono da Dio è stato in essa mostrato e indicato. La prossima volta potremo dunque spiegare che cosa sia Dio per la filosofia della natura.

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Lezione XIX

Lezione XIX Il sistema della prima filosofia della natura si distingue, come già detto, da quello di Spinoza per il suo principio, ovvero per il suo primo concetto. Certo anche Spinoza chiama la sostanza assoluta causa sui, ma con un significato meramente negativo, cioè solo in quanto essa – a differenza delle singole cose finite, causate appunto dalla sostanza – non viene a sua volta causata da qualcos’altro. Nella filosofia della natura il principio è anche causa sui, ma qui la sostanza si autopone, nella totalità produce se stessa. Mentre in Spinoza la sostanza è morta, nella filosofia della natura essa pone incessantemente se stessa ed è quindi spirituale. Per Spinoza le cose finite sono soltanto modificazioni della sostanza infinita, rispetto alle quali, sebbene esse siano date insieme alla sostanza stessa, questa non è meno passiva di quanto lo sia lo spazio infinito rispetto alle figure che vengono in esso descritte. Per la filosofia della natura queste determinazioni sono invece determinazioni della sostanza poste dalla stessa sostanza infinita, la quale è infinita nel senso reale per cui può essere anche finita, cioè essa racchiude in sé effettivamente forme finite ma fuoriesce da ogni limitazione con più alta interiorità. Solo questo principio infinito che si mantiene nella totalità di determinazioni che sono finite ma superate dalla totalità stessa è per la filosofia della natura Dio. L’obiezione secondo la quale in questo modo Dio è tutto, proprio come Zeus è tutto nelle poe­sie orfiche e Brahma in quelle indiane, non va immediatamente respinta come infondata, tuttavia non bisogna dimenticare che Dio è tutto poiché attraversa tutte le cose, non in quanto egli è un qualcosa. Proprio perché attraversa tutto, egli è tutto. È tutto, poiché non è nessuna cosa singola. In questo modo egli è però posto come nulla e proprio come questo nulla, rispetto alla totalità di tutte le determinazioni finite, egli è Dio. Non vi è dunque alcun punto in cui Dio potrebbe restar fisso. Se chiamiamo Dio A, allora egli è certo uguale alle determinazioni finite B, C, D ecc., ma non in modo da essere B seiunctim a reliquis. Egli è invece B + C + D… in movimento inarrestabile ed è B solo tamquam in transitu. Nella serie senza fine delle cose finite, per quanto lontano io possa spingermi, non troverò mai Dio stesso, ma soltanto le sue orme. «Non c’è niente che sarebbe Dio e niente che Egli non sarebbe», così recita un’antica sentenza. Io non posso dire che egli è B, ma neanche che

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Invito alla filosofia

non lo è, poiché egli è appunto B + C + D…. In questo senso si poteva dire, almeno per lo stato fino ad allora raggiunto dalla filosofia, in maniera non assoluta, che Dio è materia come un fuoco distruttore, cioè in modo da toglierla sempre di nuovo. Dicendo dunque che Dio è tutto non si afferma nulla di riprensibile, almeno secondo i concetti di cui finora si dispone. Soltanto in seguito, nel corso di ulteriori sviluppi, potremo fornire più sottili distinzioni. Il limite del sistema della filosofia della natura era dunque che in fondo si trattava di uno spinozismo potenziato, di un sistema della necessità, sebbene sollevato sino al più alto livello. L’infinita sostanza che pone se stessa poneva infatti quelle determinazioni dell’essere, la cui totalità costituiva il mondo, non con volontà e libera decisione, ma soltanto seguendo la sua propria natura. Questo aspetto però, tenendo conto del punto in cui ora si trova la filosofia, non può costituire alcun fondamento per una confutazione. A chi dicesse infatti di accontentarsi di un sistema in cui tutto si rappresenta come necessario effluvio di una ragione, non si potrebbe opporre nulla di rilevante. Ma se non si vuol rinunciare alla libertà, se il volere originario è rivolto a un sistema della libertà, sarà importante innanzitutto indagare se quel fatto originario, che è alla base dei sistemi filosofici precedenti, non ci costringa in effetti a rimanere in questo stato che si suppone negativo. Ciò apparirà insostenibile già considerando che nel puro fatto non è contenuto nient’altro se non che nel processo si trova una preponderanza del soggettivo. Ora se questa preponderanza segua dalla natura dell’essenza che si autogenera o invece da una libera causalità, non può essere deciso attraverso il puro fatto. Qualunque conclusione sarebbe qui rischiosa, tanto più perché potrebbe discendere da una comprensione del fatto più o meno limitata o indeterminata. In ogni caso è necessario ritornare al fatto. È indubbio infatti che l’espressione di quel fatto resti pur sempre molto indeterminata e il concetto di soggetto-oggetto è stato per così dire ammesso semplicemente come tràdito e già noto. Finora conosciamo il fatto stesso solo attraverso sviluppi storici nei diversi sistemi. Il reale contenuto, la sua ultima, decisiva determinazione richiedono un altro sviluppo. Noi dobbiamo muovere dal punto in cui si trova colui che inizia a filosofare. Solo allora sarà posta con certezza l’ultima e decisiva determinazione. Se la mia esposizione è stata finora introduttiva, d’ora in poi

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Lezione XIX

sarà definitiva, inizierà cioè dal punto in cui ogni filosofia che si autofondi dovrebbe iniziare. Passo dunque dallo sviluppo storico a quello puramente scientifico. Sistema di Schelling Innanzitutto è naturale che una filosofia che voglia autofondarsi rifletta su se stessa, divenendo cosciente di dover avere a che fare con un conoscere. Essa deve dunque per prima cosa determinare il modo, ovvero la natura del suo conoscere. In questo senso ha ragione Kant nel sostenere che la filosofia debba iniziare con la critica della facoltà della conoscenza. Certo si intende qui la filosofia non come scienza in senso proprio, ma come ricerca del punto a partire dal quale essa possa procedere nella direzione progressiva. Questo compito preliminare non può essere assolto nella mera astrazione, cioè in modo che l’essere resti del tutto escluso dal conoscere e il conoscere trovi in seguito una via che lo conduca all’essere. Se infatti si vuole operare in quella critica in maniera non meramente empirica, ma scientifica, la critica stessa deve essere metodica. Qui si ha a che fare precisamente con un conoscere del conoscere, cosicché il conoscere stesso è reso oggetto ed è spiegato come essente. Non posso dunque evitare l’essere che volevo aggirare, devo spiegare il conoscere o come essente o come non essente. Se non tenessi conto di questo non potrei andare al fondo della cosa. Ma è così poco possibile considerare il conoscere come non essente che esso è stato anzi riconosciuto da Kant e da Fichte come l’essente per eccellenza e il meramente conoscibile è stato invece considerato inferiore al conoscere, lo si è ritenuto persino non veramente essente. Così Cartesio ha riconosciuto l’essere solo come immediatamente posto col pensiero: cogito ergo sum. Di tutto il resto egli ha dubitato. Il pensare non è tuttavia per lui ciò che noi principalmente chiamiamo pensare, ma ogni funzione del soggetto pensante, comprese le sensazioni. Cartesio è stato in ogni caso il primo a dare alla filosofia questa direzione. Attribuendo però il primo essere al conoscere, egli si è visto costretto a dubitare dell’essere del meramente conoscibile e sebbene successivamente si sia mostrato convinto dell’essere di questo mondo, ha potuto concedergli solo un essere secundo loco. Il conoscere è dunque a tal punto l’essente che inevitabilmente si è tentati di negare l’essere al puramente conoscibile, cosa che è accaduta nei sistemi dell’idealismo di

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Invito alla filosofia

Malebranche e di Berkeley, secondo i quali non esiste nient’altro che Dio e il mondo degli spiriti, insieme alle rappresentazioni che Dio in essi produce. Ma questo negare l’esistenza del mondo dei corpi è del tutto contrario all’accordo tra colui che filosofa e colui che ne ascolta l’insegnamento. L’accordo prevede infatti che il filosofo spieghi e chiarisca il mondo e non che lo sottragga, come non essente, a ogni spiegazione. Che cosa si penserebbe di un chirurgo che per rendersi la cosa più facile decidesse subito di asportare del tutto l’arto che avrebbe dovuto invece guarire? È una prova significativa dell’esperienza spirituale del nostro tempo il fatto che simili spiegazioni difficilmente trovino ascolto. Con un idealismo del genere ormai non si può iniziare più nulla; si deve prima riconoscere un essere alla parte conoscibile del mondo, almeno in quanto essa è non non-essente. Cartesio fonda la certezza immediata di sé dicendo: anche se dubito di tutto, alla fine resto comunque io come colui che dubita o pensa. Egli non crede di poter dubitare di se stesso, poiché, posso esser sveglio o sognare, comunque penso. Di conseguenza più dubito, tanto più spesso provo la mia esistenza, dovendo infine inevitabilmente erompere nelle parole: io penso, io dubito, dunque io sono. Ma in questo modo egli non esclude la possibilità del dubbio sulla sua propria esistenza. Nel cogito ergo sum infatti, il conclusum «sum» non può contenere più di quel che è contenuto nel praemissum «cogito» e quindi quella proposizione significa non più di sum quodammodo, ovvero sum quatenus cogito, cioè sono solo in quanto pensante. Questo sum non ha dunque il significato di un essere incondizionato, ma solo di un essere relativo. E un tale essere Cartesio deve concederlo anche al meramente conoscibile. Anche in quest’ultimo infatti egli può solo mettere in dubbio l’incondizionatezza delle cose. Il dubbio stesso altrimenti non avrebbe alcun senso. Affinché io possa mettere in dubbio le cose, queste devono almeno non non-essere. L’opporsi del mondo riposa quindi solo su un certo modo dell’essere, su un essere quodammodo. Il non-cosciente non può infatti essere nello stesso senso in cui il cosciente è. Si potrebbe dire che quest’ultimo sia l’essente per eccellenza, senza tuttavia affermare che l’altro non sia assolutamente nulla. Il non-cosciente è infatti solo relativamente nulla, ovvero soltanto in rapporto a ciò che è cosciente. Ed è solo in questo senso che anche i filosofi greci hanno parlato di un μh; o[n.

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Lezione XX

Lezione XX In filosofia si ricorre a un aiuto solo apparente e a lungo andare del tutto inutile se si rinuncia alla realtà del mondo dei sensi e si lascia esistere il mondo esterno solo nella rappresentazione del mondo intelligente. Come già accennavo infatti, il dubbio sull’esistenza delle cose fuori di noi non è più fondato del dubbio sulla nostra propria esistenza. Per questo, chiunque voglia prendere sul serio la filosofia dovrà assolutamente iniziare con il proposito di riconoscere un essere anche alla parte non conoscente del mondo; certo, non nel senso in cui è il conoscente, tuttavia in modo che il meramente conoscibile comunque non sia del tutto non essente. Posso dire, certo, che ciò che non è come il conoscente, rispetto al conoscente, è il non-essente, ma con ciò non è affatto detto che anche rispetto a se stesso sia un niente, esso può infatti ancora essere a suo modo essente. In questo senso anche i filosofi greci parlano di un μh; o[n, cosa che ha colpito alcuni tra i moderni. Di questo non-essente i filosofi antichi non affermano l’assoluto non essere, ma dicono soltanto che esso relativamente non è. La stessa cosa dice Plutarco spiegando che se si fa riferimento a un μh; o[n bisogna distinguere tra μh; ei\nai e μh; o[n ei\nai: il primo toglie del tutto l’essere, il secondo invece toglie l’essere soltanto in un certo modo. Il μh; o[n è il mero non-essente rispetto a ciò che noi principalmente chiamiamo l’essente, ma non è affatto il non essente in tutto e per tutto. Lo stesso Platone in un dialogo chiamato Sofista intraprende la confutazione della nota posizione degli antichi sofisti secondo la quale il non-essente non può essere in alcun modo, dal che seguirebbe, tra l’altro, l’impossibilità dell’esistenza di un qualunque errore e dunque della verità. Platone ha mostrato che in un certo senso il non-essente è e che, senza un tale essere, errore e verità non sarebbero affatto possibili. Ho fatto riferimento a questo dialogo perché vorrei assolutamente raccomandarlo ai miei uditori. Se dopo la lettura di questo testo sarete sicuri di averlo compreso, potrete essere altrettanto sicuri di aver ottenuto la prima iniziazione alla scienza. E dal Sofista emergerà chiaramente che tra i momenti preliminari di una vera filosofia vi è il riconoscere che quell’essente di genere inferiore sia comunque a suo modo essente. Questo senso dell’equilibrio deve diventare sin dall’inizio una regola, il suo contrario conduce infatti immediatamente a concetti innaturali.

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Invito alla filosofia

Sulla base di questo presupposto è possibile ora occuparsi della questione successiva, cioè di come questo inferiore sia essente. Qui bisogna subito osservare che questo non-essente non è in alcun modo essente se si spinge la determinazione per cui esso non è il conoscente sino all’estremo di una completa assenza del principio conoscente. L’essente in modo inferiore non è il conoscente, ma non è tuttavia del tutto escluso dal principio conoscente. Questo sarebbe impossibile per le seguenti ragioni. Noi abbiamo determinato il nonessente come comunque essente, ma ciò per cui esso è un essente è proprio la misura, la determinazione, il limite. Ora il limite non può venire da ciò che viene limitato e che ha bisogno esso stesso di un limite, dunque da quel che secondo la sua natura è l’illimitato. Tutto ciò per cui il non-essente è essente – e quindi anche conoscibile –  può provenire solo dal principio contrapposto all’essere. Poiché si tratta perlomeno della forma della conoscibilità, esso deve essere imparentato con ciò che è anche la causa del conoscere, o detto altrimenti, la causa dell’esser conosciuto e la causa del conoscere deve essere uno stesso principio. Tutto ciò che è conoscibile deve portare già in sé l’impronta dell’intelligenza dell’intelletto e ciò di cui l’intelletto assolutamente non partecipa è anche assolutamente inconoscibile. Ciò che invece non è meramente il conoscibile, ma è conoscente, può esser distinto dal puro conoscibile perché non porta in sé solo l’impronta dell’intelletto, ma è il conoscente stesso. Ricapitolando, siamo partiti dalla domanda su come debba essere pensato il genere dell’essere inferiore e ho osservato che in esso il principio conoscente non manca del tutto. Quell’essere infatti viene comunque presupposto come conoscibile, quindi limitato e proprio per questo partecipe, almeno secondo la forma, dell’intelletto. Possiamo anche esprimerci così: ciò che conferisce al conoscibile l’impronta dell’intelletto può essere solo il principio dell’intelletto stesso. Se questo principio produce soltanto una forma a sé non estranea, ciò che ne nasce è un conoscibile, non un conoscente; se invece esso converte l’essere interamente in se stesso, ne nasce il conoscente stesso, non il mero conoscibile. Già seguendo Cartesio sarebbe stato possibile determinare il principio contrapposto all’essere come intelletto. E Spinoza nel concetto dell’infinita sostanza estesa, alla quale egli contrappone l’infinito pensiero, aveva già il concetto di

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Lezione XX

un essere infinitamente senza limiti, conoscibile solo grazie alla forma dell’intelletto. Spinoza quindi, come ho già mostrato, disponeva di un mezzo che gli avrebbe consentito di rendere comprensibili le modificazioni della sostanza estesa, ma non ne ha fatto alcun uso. Egli non ha attribuito infatti al pensiero alcuna parte nella determinazione della natura estesa, sebbene sia possibile pensare delle modificazioni solo laddove vi è una determinazione, e una determinazione solo laddove v’è intendimento. Ma nella sostanza infinitamente estesa non v’è alcun intendimento, l’infinita estensione è proprio la forma di ciò che non ha potere su se stesso, che non si possiede e che proprio per questo non può imporre a se stesso alcun limite. Si tratta di un infinito cui non corrisponde alcun pregio, ma che costituisce appunto una mancanza. In generale, è un grave errore della filosofia tedesca considerare l’infinito come qualcosa di positivo, come un pregio, mentre esso non può che essere qualcosa di negativo. In maniera molto più appropriata i francesi indicano come perfetto qualcosa di concluso, fini. Seguendo Spinoza dunque sarebbe stato possibile pensare l’infinito pensiero come la potenza che pone di nuovo in se stesso ciò che è posto fuori di sé. Ma un tale riportare indietro non può accadere senza modificazioni dell’essere esteso, il che a sua volta non accade senza una progressiva interiorizzazione di ciò che, inizialmente esteriore, arriva a diventare il conoscente stesso, ovvero la coscienza. Spinoza tuttavia non sfrutta questa possibilità esplicativa. Come abbiamo già osservato, egli pone delle modificazioni nell’estensione solo perché le cose ci sono. Se queste non ci fossero, non seguirebbero affatto dal suo principio. In Leibniz – che nella successione dei filosofi è il più vicino a Spinoza – troviamo già il riconoscimento della soggettività delle modificazioni. Tutte le modificazioni sono considerate effetti della soggettività ovvero delle monadi. L’estensione è per Leibniz un mero fenomeno che riposa su una confusa rappresentazione delle monadi spirituali. Egli ammette la materia al di fuori di me, ma pur sempre come uno spirituale. Ogni monade è un’essenza assolutamente incorporea. Se intuissimo le cose come fa Dio, vedremmo le sostanze che si rappresentano il mondo interamente nella loro unità e interiorità. Ma noi non siamo in quel centro prospettico, dal che segue lo sfasamento tra le monadi, la rappresentazione

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Invito alla filosofia

confusa, la materia. Tutto ciò che è materiale è per Leibniz il mondo dormiente delle monadi, il quale sogna nell’organico, mentre l’uomo è la monade che è presso di sé. Facendo riferimento a questa visione, Leibniz potrebbe essere considerato il precursore della filosofia della natura, ma egli resta un intellettualista, volendo riservare la parola idealista per una classe di filosofi successivi. Leibniz ha più o meno risolto tutto nell’intelletto. Con il suo sistema egli ha tolto del tutto il principio originariamente opposto all’intelletto. Proprio perché ritiene che originariamente tutto sia spirituale, diventa per lui difficile spiegare la conoscibilità e si vede costretto a ricorrere a un’armonia predestinata. Essendo la sua monade puramente spirituale, essa non può agire e produrre effetti sulle altre; ma poiché comunque nel mondo le monadi agiscono continuamente l’una sull’altra, Leibniz si vede costretto a spiegare questa influenza reciproca attraverso un’armonia predeterminata, per cui ogni alterazione in una monade si rappresenta nell’altra non direttamente, ma soltanto in conformità a una predeterminazione. In questo modo è penetrata nel suo sistema una certa fantasticheria. Ma voi vedete che nella filosofia tedesca la distinzione tra conoscente e conoscibile si è comunque mantenuta e sviluppata, e Leibniz, riducendo tutto alle monadi, ha almeno mostrato che nessuna cosa è del tutto libera dal principio conoscente. Ma è da attribuire a Kant il merito immortale di aver espresso con chiara coscienza che tutto ciò che è porta in sé l’impronta dell’intelletto. Kant pone come fondamento, cioè alla base di ogni conoscibilità un inconoscibile, che egli chiama cosa a sé [Ding an sich]. L’espressione è certo inappropriata, infatti o quel fondamento è un essente ed è quindi conoscibile, dunque non più ciò che Kant vuol designare con cosa a sé, vale a dire qualcosa che sia al di fuori di ogni determinazione dell’intelletto, oppure esso è effettivamente un inconoscibile a sé e smette allora di essere una cosa. Altrettanto inappropriata è l’espressione noouvμenon. Secondo il suo concetto infatti quel fondamento dovrebbe essere piuttosto un ajnoouvμenon, visto che ogni cosa compiuta deve avere in sé l’intelletto. La seconda cosa che bisogna osservare su Kant è che egli pone le determinazioni dell’intelletto soltanto nel soggetto delle nostre rappresentazioni. La cosa obiettiva fuori di noi è soltanto una cosa a sé e solo in noi assume le de-

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Lezione XXI

terminazioni della conoscibilità. Certo v’è un inconoscibile, ma la cosa a sé kantiana, l’obiettivo, si è già soggettivamente posto e dunque avvicinato al conoscere. Per Kant la cosa a sé diventa una cosa soltanto attraverso la sintesi trascendentale dell’appercezione. In quanto cosa a sé, essa è al di là di ogni determinazione dell’intelletto, una X dei matematici. Noi invece diciamo: non c’è nulla di assolutamente obiettivo, ma ogni cosa a sé è già un obiettivamente soggettivo. Senza determinazione soggettiva infatti non c’è più alcuna vera cosa. Fichte infine parla dell’obiettivo solo in generale e non dell’obiettivo dell’effettiva rappresentazione. Anche per questo non vede quanto già nell’obiettivo vi sia di soggettivo. Egli ha tolto del tutto l’inconoscibile, il quale è il fondamento di ogni conoscibile, convertendo in questo modo tutto in mera soggettività. Ma una tale posizione estrema non può essere mantenuta a lungo. L’obiettivo non può essere negato, esso è il necessario prius della conoscibilità, sebbene la priorità qui non sia intesa come superiorità. Lezione XXI Il meramente conoscibile si distingue, come già notato, dal propriamente conoscente perché ha in sé soltanto l’impronta dell’intelletto, mentre il conoscente in senso eminente è del tutto volto in intelletto. Ma l’opposto al soggettivo, il B, resta pur sempre il fondamento. Nell’intera successione dei vari gradi il sostrato è sempre lo stesso. Ciò che all’inizio è il cieco oggetto B diventa sempre più soggettivo, sempre più uguale ad A, ma anche al livello più alto dell’A esso è ancora B, sebbene posto come A. Si ha dunque una continua oscillazione tra essere e non-essere. L’essere A è infatti per B il non-essere o, per usare un’efficace espressione della lingua tedesca, nell’essere A il B va a fondo. L’A è la morte per il B a sé o da se stesso, cioè per il solamente B. È necessario distinguere in maniera più precisa tra il soggettivo che in B è soltanto posto e il principio del soggettivo. Quest’ultimo, dunque non il B volto in A, può solo essere la causa della mutazione, per cui il B, che diventa sempre più uguale ad A, è l’essere cieco, privo di limiti, l’a[peiron di Platone, mentre l’altro principio è l’A non in quanto prodotto in B, ma come il suo puro opposto, al quale non si può attribuire nient’altro che la volontà di porre B uguale ad A.

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Invito alla filosofia

Il secondo principio è quindi A, in quanto è causa rispetto a B. Devo qui osservare che ci troviamo ancora sul terreno della fattività. La conversione di cui parliamo è conosciuta solo attraverso l’esperienza, non sappiamo ancora che cosa sia questo principio contrapposto al B. Per il momento è sufficiente che ci abbia condotto a un dualismo, il quale è però qui inteso nel senso più ampio, per cui non è affatto detto che quei due principi non si lascino riunire in un principio più alto. Per ora abbiamo solo trovato il cieco essere privo di limiti, ovvero il principio reale, e il principio a esso contrapposto, il quale è causa del diventare soggettivo. Più sarà precisa la vostra comprensione di questa opposizione, tanto più chiaro risulterà per voi quel che dirò in seguito. Siamo qui giunti al punto in cui si trovava Pitagora quando insegnava che ogni cosa è nata dall’illimitato e dal limitato. Egli spiegava questa dottrina in un senso del tutto analogo al nostro, dicendo che ciò che è privo di limiti sarebbe del tutto inconoscibile, ma con il limitante e l’illimitato si dà un concetto di entrambi. L’identità della nostra visione e di quella pitagorica apparirà ancor più chiara se si considera la distinzione tra μonav" e duav" posta da Pitagora, il quale chiama la μonav" il padre e la duav" la madre di tutte le cose1. Concetti del genere non si lasciano facilmente prendere in prestito dagli autori antichi né è facile chiarirne il senso, come mostrano a sufficienza i fraintendimenti da parte di numerosi filologi. Solo alcune ricerche filosofiche possono condurre sino a quei concetti. Quella duav" dei pitagorici, spesso anche accompagnata dall’espressione hJ ajorv isto", certo non significa, come un moderno filologo crede, la molteplicità empirica. Se così fosse, i pitagorici sarebbero arrivati subito alle cose, mentre essi le fanno nascere soltanto a partire dalla duav".2 Dove c’è molteplicità deve esserci limitazione, e dove c’è limitazione devono esserci delle cose, cosicché ponendo subito il molteplice viene inevitabilmente presupposto ciò che invece dovrebbe essere spiegato. Quella duav" non può essere nient’altro che il nostro B, il quale è capace di ricevere l’A nonostante sia a esso opposto. Il nostro B è a se stesso 1. a margine: confronta su questo e su quel che segue il Filolao di Boekh, pp. 45-57 2. a margine: Boeckh (cit. 55 sgg.) dice: «L’ajovristo" duav" rappresenta il concetto di un vario molteplice al quale solo con la limitazione data dall’unità si aggiunge il numero determinato».

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Lezione XXI

meramente B, ma anche, in relazione all’altro principio, un B capace di ricevere il soggettivo che il principio opposto A vi dovrà produrre. Per questa ragione la duav" è necessariamente pensata come femminile e anche dai pitagorici viene espressa come femminilità. Per sé il B è dunque capace del soggettivo, ma nell’attualità è costantemente un doppio che è sempre B. Esso è l’indeterminato, l’incerto, quel che oscilla tra due: ciò che esso è, sempre anche non lo è. Allo stesso modo l’essere umano non è tanto spirituale da non essere anche non-spirituale, non così cosciente da non essere anche incosciente. Questa è la sorte di ogni finitudine, che ciò che è, lo è solo in modo da poter anche non esserlo, o come si è espresso un antico, l’ei\nai kai; μh; ei\nai. Se ora osserviamo anche il secondo principio pitagorico, la μonav", apparirà chiaro che essa coincide perfettamente con il nostro A. Anche questo infatti è sempre volto alla limitazione di B, il che non può accadere senza mutare B in soggettività. Il nostro principio A racchiude in sé sempre identità, il principio B sempre duplicità. In questo modo si chiarisce anche ciò che intende Pitagora quando dice che la duav" diventa duav" solo attraverso la partecipazione alla μonav", come anche il nostro B a sé è identità, e diventa effettivamente duav" solo nella misura in cui partecipa del principio opposto. Abbiamo quindi dato una spiegazione del principio illimitato e di quello limitante. Ogni essere conoscibile si dà attraverso due principi contrapposti, di cui l’uno è la sostanza, il soggiacente (uJpokeivμenon), che gradualmente posto diviene comprensibile, afferrabile concettualmente; l’altro fa il suo ingresso come causa, come ciò che dà la misura. Che entrambi siano sempre incatenati l’uno nell’altro, lo si trova senz’altro nel fatto. Ma alla domanda su come questa concatenazione abbia luogo qui non si può ancora rispondere. Infatti non solo colui che apprende ma anche chi sta conducendo la ricerca deve evitare domande premature, proseguendo lungo la direzione scelta fino a quando non sia certo di aver raggiunto il proprio scopo. Non possiamo dunque andare avanti prima di esser certi di aver conosciuto tutti i principi del divenire. Ciò risulterà più chiaro considerando quanto segue. Nel processo del divenire è oggetto di continuo superamento un principio che si rappresenta come il non-dovente-essere, certo non come non dovente essere in senso assoluto, ma comunque non come dovente essere ciò

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che esso è nel processo. Il processo esige infatti che esso sia A e dunque procede continuamente verso la posizione di B come A. Senza questo non-dovente-essere-B, o comunque non-dovente-essere nel modo in cui esso è, non si darebbe alcun processo. Poiché ora questo primo principio in quanto B è il non-dovente-essere, ne segue necessariamente che esso, in quanto è B, è l’essere accidentale, che non è in vista di se stesso. Il secondo principio, invece, che si rivela come la potenza negante il primo principio nel suo essere B, appare necessariamente e inevitabilmente posto non appena B è. Poiché però si mostra come necessario solo se B è, esso non è a sé, ma soltanto ipoteticamente necessario, cioè non è per essere esso stesso, ma è solo al fine di negare il primo. Esso è dunque soltanto ciò che media. Il primo principio nel processo viene negato. Ora non potrebbe essere negato se un altro non dovesse essere al suo posto. Ma questo dovente essere in quanto è ciò che dovrebbe essere non può essere il secondo principio, il quale è presente solo per negare il primo. Questo dovente-essere è dunque necessariamente una terza potenza che parimenti appartiene al processo. Ancor più brevemente, quanto detto si può esprimere in questo modo: l’occasione per l’inizio di un processo del divenire è data dal primo principio, il quale si comporta quindi solo come inizio del processo. Del secondo principio è stato mostrato che esso è soltanto ciò che media. Ma laddove c’è un inizio e un mezzo deve esserci anche una fine. E se c’è una fine, deve esserci anche un terzo principio. Ora per determinare questo terzo possiamo procedere in vari modi; inizialmente, in maniera più formale, nel modo seguente. Abbiamo detto che il primo principio è l’inizio, il principio in senso proprio, ciò che propriamente è la sostanza, id quod substat. Del secondo, abbiamo osservato che si comporta nel processo come causa. Esso è ciò che non è in vista di se stesso ma è solo per negare il non-dovente-essere; è del tutto privo di egoità, senza alcuna aspirazione alla sostanza. Dunque il primo principio è in rapporto col secondo come la sostanza con la causa. Il terzo dunque non può che essere ciò che è tanto sostanza nell’esser causa quanto causa nell’esser sostanza. Abbiamo qui dunque un procedere del tutto diverso rispetto a Kant, per il quale i tre principi si susseguivano in questo modo: categoria (sostanza), causa e azione reciproca, quest’ultimo principio non essendo però nulla in quanto so-

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stanza. La vera successione è invece: sostanza, causa, causa e sostanza nel medesimo e uno. Questa determinazione è comunque ancora solo formale. Ci si chiede ancora che cosa sia quel che come sostanza non smette di esser causa e viceversa, e osserviamo che se finora tutte le determinazioni sono state meramente formali, più esterne che interne, d’ora in poi indagheremo più l’interna natura del principi che il loro rapporto. Lezione XXII Il nostro compito è ora quello di considerare i principi che abbiamo riconosciuto nel processo in quanto sono a sé, cioè prima del processo. Nel processo essi sono soltanto divenuti, cosa che abbiamo già chiarito chiamando accidentale il primo principio. Ora nella nostra ricerca su cosa siano i principi prima e fuori del processo, ovvero in quanto mere potenze, dobbiamo porci prima dell’essere. Ed è possibile vedere immediatamente che il più vicino all’essere, il quale quindi se è, precede ogni altro essere, è ciò che immediatamente può essere, vale a dire ciò che per il suo essere non ha bisogno di nient’altro che di se stesso, che può dunque passare nell’essere direttamente da se stesso, attraverso un mero volere a potentia ad actum. Questo prossimo all’essere è dunque un essere per mezzo del puro volere. Questa espressione può essere chiarita osservando che quel prossimo all’essere non è più di un mero potere. Ma ogni poter-essere può trapassare nell’essere attraverso il proprio volere, come ogni volontà extra actum, per diventare volontà attuale, non deve far altro che volere. E poiché ogni actum appare come volontà, quel principio originario dell’essere sarà nell’essere stesso ancora in quanto volere, come cieco volere privo d’oggetto. Esso non vuole infatti un qualcosa, non ha nulla da volere e vuole solo per volere. Questo volere è quindi nell’attualità un volere senza misura, infinito, un volere senza scopo che è l’inizio di ogni natura. Ho chiamato molti anni fa «ricerca», «brama» proprio questo volere, indicando in questo modo un essere cieco e privo d’intelletto. L’originario reale in tutto è dunque il volere, e si mostra come tale anche nel mondo corporeo, per esempio nel contraccolpo di un urto. Ma questo volere è anche ciò che è posto fuori della propria potenza, per cui si può anche dire che quell’essere originario è il volere che

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si è disvoluto. È chiaro finora che il processo dell’essere è possibile solo grazie al passaggio a potentia ad actum. Questo poter-essere è dunque la prima potenza. Se ora esso si solleva all’essere attuale, ciò che ne nasce non è quel che questa prima potenza voleva, ma piuttosto ciò che non può essere, se deve esserci un processo. Questo primo essere che si produce dal poter-essere è la sinistra dei pitagorici, ciò che non dovrebbe essere e tuttavia è, ciò che viene posto per esser negato. Naturalmente ciò sarà possibile solo attraverso un secondo principio. Abbiamo già conosciuto questo principio nel processo, ma ancora non sappiamo che cosa esso sia prima del processo. Lo scopriremo nel seguente modo. Una volta guadagnato il luogo di quel che immediatamente può essere, il secondo principio non potrà che essere l’opposto del primo, ovvero ciò che è per sé incapace di passare dalla potenza all’atto e che dunque può soltanto passare ab actu ad potentiam. In quanto opposto del poter-essere, esso è ciò che non ha in sé alcun potere ed è quindi soltanto attualità. Abbiamo così trovato due potenze: il puro infinito poter-essere e il puro infinito essere, al quale è dato un poteressere solo se viene negato, il che accade se il primo si solleva all’essere. Si pensi la cosa nel seguente modo. Il secondo principio è puro essere che si effonde secondo la sua natura. Se ora viene frenato nel suo uscire da se stesso perché la pura potenza passa dal potere all’essere, allora necessariamente il puro essere viene escluso dalla propria posizione e posto indietro nel poter-essere. Volendo proporre una similitudine non posso che indicare un’infiammazione nell’organismo. Se infatti una parte si infiamma e diviene attiva rispetto alla sua precedente quiete, anche le altre parti sono costrette a cambiare i reciproci rapporti. La potenza originaria, sollevandosi all’essere, esclude dal luogo dell’essere il puro essere, il quale viene posto come relativamente non-essente e dunque, poiché il «non essere relativamente» significa potenza, come poter-essere. Il puro essere viene posto nello status potentiae, respinto in se stesso in modo da ottenere – visto che in precedenza era posto fuori di sé – potere su di se stesso. Forse la cosa risulterà più chiara in questo modo. Prima di ogni essere attuale pensiamo l’essere originario, nel quale tutti i principi sono contenuti come potenze. Esso sarà innanzitutto il poteressere e questo a sua volta l’essere. Segue una seconda forma dell’essere, cioè il puro essere obiettivo, il quale tuttavia è

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posto come essere obiettivo solo finché il soggettivo resta nella sua soggettività. Non appena quest’ultimo fuoriesce, l’altro è costretto a rientrare in se stesso; non per questo però il puro essere smette di esser tale. Proprio attraverso questa potenzializzazione esso è posto nella necessità di negare il diventato-essente, di superare quel primo non-dovente-essere e dunque di ristabilire se stesso come puro essere. Ciò che è a sé pura attualità può passare a potentia ad actum solo se in esso viene posta una potenza. Finora dunque abbiamo come prima potenza al di là del processo il puro poter-essere e come seconda potenza il puro essere. Ma già solo per il fatto che un secondo c’è soltanto per negare il primo, e in questa negazione il primo è negato in quanto actus, non possiamo fermarci al secondo. Se nell’essere deve essere raggiunto ciò che è stabile e rimane, allora in luogo dell’essere tolto deve esser posto un terzo. Mediazione di questo terzo è il secondo principio, il quale cerca di portare il primo principio all’espirazione di ciò che propriamente dovrebbe essere, di ciò che è in vista di se stesso. Ora il terzo non può essere né un puro poter-essere, come il primo, né un puro essere, come il secondo. Esso allora non può che essere l’essente-che-può-essere. Il primo non è, essendo, ciò-che-può-essere, ma è tale solo nel non-essere; non appena infatti trapassa nell’essere, smette di poter essere. Ma ciò che nell’essere smette di essere il potente-essere è impossibile che sia in quanto potente-essere. Si potrebbe allora dire in maniera del tutto appropriata che il primo principio è e non è ciò-che-può-essere. Esso è un mero poter-essere in senso intransitivo, è un poter-essere a sé, non fuori di sé, dunque, un non-potente-essere in senso transitivo. Esso non è pertanto libero di trapassare o di non trapassare nell’essere. Se ora ci volgiamo al terzo principio, troveremo che esso è ciò-che-può-essere essendo libero di essere o non essere. Esso è il poter-essere che si possiede, è il primo principio che però con il suo poter-essere può iniziare quello che vuole: è dunque uno spirito. Noi infatti chiamiamo spirito non ciò che ha meramente il potere di essere, ma piuttosto quel che ha la libertà di esternarsi e di non esternarsi, che nell’esternarsi non perde se stesso, ma rimane eternamente presso di sé: in una parola, l’indistruttibile soggetto-oggetto. La prima potenza è solo soggetto, la seconda solo oggetto, la terza infine è il soggetto-oggetto sicuro di sé. Il puro B è divenuto sulla via della conversione

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soggetto-oggetto, attraverso il divenir soggetto dell’oggetto e viceversa. E questo accade solo nel processo, prima di esso si danno solo l’unilaterale soggetto e l’unilaterale oggetto. Vorrei ancora soltanto osservare che ciò che dovrebbe essere si distingue dal primo poter-essere solo perché esso è ciò che rimane il poter-essere e quindi non deve rinunciare nell’essere al poter-essere e nel poter-essere all’essere. Nel passaggio a potentia ad actum esso non può perdere se stesso. Lezione XXIII Le tre potenze finora conosciute convengono tutte nel poteressere e si distinguono solo per il loro più o meno stretto rapporto con l’essere. Il più vicino all’essere è l’immediato poter-essere, a potentia ad actum, che possiamo dunque chiamare poter-essere del primo ordine. Ponendo il poter essere uguale ad A, il primo poter essere sarà A¹. La seconda potenza non è più l’immediato, ma il mediato poter-essere. Il concetto di mera potenza racchiude in sé un potere = non-essere e però il secondo principio è il non poter non essere ovvero ciò che non può essere potenza, dunque il puro essente. Questa sembra essere la più immediata contradictio in terminis, essendo questo principio da un lato il puro essente e dall’altro pura potenza. Ma esso è detto possibile solo in relazione a se stesso. Provate a pensare la cosa in questo modo. Il secondo principio è nel processo non il puro essente, ma piuttosto quel che certo non è posto senza negazione. Ora ciò che deve necessariamente superare una negazione che gli è imposta può essere originariamente ovvero a sé solo ciò che assolutamente non tollera alcuna negazione, può dunque essere solo il puramente essente. Qui il puro essente sarebbe pertanto la potenza che nel processo effettivo appare come ciò che necessariamente deve essere, dunque come ciò che non è libero di agire o non agire, ma che deve necessariamente agire. Questo secondo principio è l’essente non immediatamente, e dunque non a sé, ma solo in maniera mediata, grazie all’esser posto in potenza da altro. Questa mediazione consiste nel dover negare qualcosa che lo precede, una necessità che del resto riposa sul fatto che esso stesso viene negato. Questo poter-essere mediato, hac negatione medianti, lo chiameremo A², ovvero il poter-essere del secondo ordine. Il terzo, che è ancora più lontano dall’essere, se deve appunto venire all’es-

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sere come terzo o, come ci siamo espressi in precedenza, se deve essere ciò che dovrebbe essere, certo non può essere l’immediato poter-essere. Esso presuppone infatti sia A¹ che A². Attraverso quest’ultimo deve esser negato nell’essere il non-dovente-essere, affinché si faccia spazio per il secondo dovente-essere, ovvero affinché, attraverso l’espirazione del primo, il secondo venga posto come il propriamente essente. Il terzo per arrivare all’essere può solo esser posto, certo non dal primo, il quale piuttosto si oppone ed esclude il terzo, ma nemmeno senza il primo, essendo posto dal primo attraverso il superamento da parte del secondo. Esso può quindi arrivare all’essere solo tertio loco e possiamo pertanto chiamarlo A³, poter-essere del terzo ordine. Le tre potenze convengono dunque nel poter-essere e si distinguono solo per l’ordine. Proprio questo loro rapporto mostra anche che esse, in quanto potenze, non si escludono, cosa che comunque cercherò di rendere più chiara. Il primo è quel che immediatamente può essere, il secondo, invece, quel che immediatamente non può essere. Finché ciò che può essere è appunto soltanto questo, esso, come ciò che invece non può essere, non è nulla. Le due potenze quindi non si escludono, poiché entrambe, finché restano non essenti, sono soggettive. Il secondo è certo quel che nega il primo, ma fintantoché il primo non fuoriesce, il secondo non ha nulla da negare. Pertanto, finché non è attuale, ciò che non dovrebbe essere è allo stesso modo in cui è ciò che dovrebbe essere. Si potrebbe dire che quello è contenuto in questo, proprio come nel bambino il male è contenuto nel bene. Entrambi però diventano l’uno diverso dall’altro non appena quel che non dovrebbe essere fuoriesce. Soltanto allorché il primo si fa principio, il secondo e il terzo appaiono come esclusi. Prima della tensione tutte le potenze sono in un comune non-essere, ritratte nell’essenza, essenza qui intesa come l’opposto dell’essere, ovvero come puro poter-essere, il quale è non-essere ma non è un niente. Prima della tensione vengono a trovarsi tutte in una comune potenzialità, così come circonferenza, raggio e centro nel punto geo­me­trico. Come nel punto nessuno dei tre è in quanto tale, ma tutti sono uno eodemque loco, così quelle tre potenze sono riunite in un nulla comune. Ma una tale unità, così come l’abbiamo fin qui conosciuta in quanto preesistente al processo, sarebbe non soltanto negativa, ma anche materiale e sostanziale. In

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essa non si trova alcun fondamento positivo né della differenza, né della non-differenza. Non si riesce in alcun modo a vedere perché quel primo principio della tensione fuoriesca. Se si dicesse «da se stesso», si tratterebbe solo di un modo di dire per velare l’accidentalità della sua essenza. Altrettanto poco quella unità accidentale può affermarsi nella successiva separazione. Non si vede affatto come nel processo sia possibile quell’essere-insieme che è necessario per la reciproca tensione. I principi infatti, nel separarsi l’uno dall’altro, si contraddicono a vicenda. Non serviva alcun principio positivo affinché restassero insieme nella precedente unità, ma nel processo, che B sia negato da A², è possibile solo in quanto vi è un legame, ovvero l’esigenza del divenire nuovamente uno. Se non c’è questa esigenza o se il legame viene meno, ogni principio entra in un suo proprio mondo, e avremmo così tre poter-essere, ognuno dei quali sarebbe un immediato poter-essere. La necessità di questa unità appare dunque chiara, come è chiaro che quella unità materiale non potrebbe affermarsi nella reciproca separazione, poiché essa riposa soltanto sul non-essere dell’opposizione. Ora se il non-essere dell’opposizione è solo accidentale, anche il suo sorgere è del tutto cieco, cosicché l’opposizione sarebbe nel migliore dei casi priva di contenuto e dunque senza limiti e determinazioni. In che modo infatti si dovrebbe determinare una preponderanza del limitante sul limitato? Entrambi vogliono l’opposto e non si dà quindi una lotta regolata dall’intelletto. In tal modo si giunge necessariamente al sistema di una cattiva filosofia della natura, nella quale si conduce un mero gioco tra + (negante) e – (negato). La preponderanza di un principio sull’altro esige una causa in senso ampio, la quale è più del processo. Nella mera preponderanza non si produce assolutamente nulla e in un’alterna preponderanza viene invece posta solo un’alternanza di generazione e corruzione. Questa preponderanza è finora ancora parte del nostro fatto, essa si dà attraverso la superiorità solo fattivamente, e non si lascia pensare senza il fine ultimo del processo; nel principio a sé e per sé non si trova assolutamente nulla. Ho paragonato questa unità accidentale, incapace sia di darsi separatamente che di affermarsi internamente, a un punto geo­me­trico che involve e implica un cerchio intero. Vado ora oltre e dico che anche un cerchio che si è svolto dal punto si potrebbe vedere come punto, almeno fintantoché lo voglio in quanto

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tale. Allo stesso modo sarebbe stato possibile comprendere il mondo a partire da quella unità, se l’avessi pensata come indissolubile, volendo appunto pensarla come tale. Ma questo sarebbe un mero arbitrio. Una unità veramente indissolubile può solo essere una unità spirituale, sovrannaturale. Soltanto una tale unità è propriamente causa, la quale non produce, come invece fa il principio, necessità, ma fattività. Il concetto di causa ci conduce dunque a un quarto che sta sopra i tre principi. Anche qui ci troviamo in accordo con in pitagorici, per quel che possiamo conoscere della loro dottrina a partire dai frammenti e dagli scritti di Platone, in particolare dal suo Filebo, un dialogo che, oltre al Sofista, vi consiglio vivamente di leggere. Nel Filebo Platone è palesemente pitagorico, egli parla dell’a[peiron, del pevra" e di entrambi insieme, del peperasμevnon. Non sarebbe difficile leggere in questo peperasμevnon, il fini, il nostro terzo principio. Abbiamo infatti determinato il primo principio come puro poter-essere, il quale ha l’essere ancora davanti a sé ed è quindi illimitato, a[peiron. Ma, essendo illimitato, esso può ancora divenire dissimile da sé, così che il terzo sia poi illimitato come il primo e però, anche se posto come ciò che può essere, di nuovo limitato. In questo modo il terzo può rimanere stabilmente ciò-che-può-essere. Come quarto concetto Platone pone la causa, il nou'", che vale «intelletto», o, ancor più precisamente, «intelletto volente», e non «ragione», come invece traduce il peraltro ottimo traduttore di Platone, il quale rende il famoso passo del nou"' di Zeus con «ragione regale». Ma la ragione è il generalmente umano, l’intelletto invece, l’eccellente. Lezione XXIV Se nell’ultima lezione abbiamo posto come quarto concetto quello di causa, naturalmente si intendeva la causa in senso proprio, la quale non può che essere libera. Una causa necessaria infatti è essa stessa un effetto della necessità o della causalità. In quest’ultimo senso si potrebbero chiamare cause anche i tre principi, usando una denominazione di cui ci siamo effettivamente già serviti, facendo riferimento in particolare al secondo principio. Ma ora ci troviamo a trattare della causa in senso proprio e in questo contesto ci si chiede che cosa sia, a sé, questa causa e anche in che modo lo sia. Qui

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si presentano diverse possibilità. La prima consisterebbe nel fare di quella causa una causa dei tre principi solo secondo l’actus e non secondo la sostanza. Anche come tale, essa sarebbe ancora causa. Ma a questo ci si è sempre opposti. Tutte le filosofie si sono sforzate di raggiungere l’essere attuale e di superare l’essere sostanziale di quella causa. Questo è stato tentato sulla via dell’astrazione. Ma in questo modo non si può giungere a nient’altro che a un essere in senso sostanziale. In maniera puramente logica infatti si può pensar via da ogni proposizione solo il predicato. Ma tutti i predicati si riuniscono infine in un predicato, l’essere, che io chiamo l’essere della proprietà, l’essere obiettivo. Per esempio, nella proposizione «Caio è sano», il predicato «sano» è un modo dell’essere organico e questo, a sua volta, dell’essere in generale. Un numero di oggetti apparenti si risolve dunque in predicati, i quali riposano soltanto su un apparire. Se ora pensiamo via dall’essere tutto quel che è proprietà, resterà infine, come quel che non si può più astrarre, proprio l’essere in senso sostanziale. Questo, ovvero ciò che noi in questo modo possiamo chiamare essente, è l’e}n di Parmenide, la sostanza di Spinoza e, come è facile intuire, anche di tutti quelli che li hanno seguiti su questa via e hanno dimenticato che tale prius assoluto è soltanto apparente. Esso stesso infatti potrebbe esser posto come dubbio e quindi come non originario, cosa che avviene nel caso di coloro che hanno affermato una creazione e di conseguenza hanno posto il mondo come originariamente non-essente, cioè come un qualcosa che appunto è stato soltanto fatto. Si può comprendere come la ragione, dopo essersi separata in seguito alla filosofia ionica della natura, abbia creduto di aver fatto un gran passo in avanti allorché ritenne di aver trovato la vera essenza come nohtovn. Ma non si potrà mai capire come in tempi successivi, nei quali la ragione avrebbe potuto spingersi al di là della sostanza, quel vuoto astratto abbia potuto esercitare un potere tale da indurre lo stesso Jacobi, e prima ancora anche Schlegel, ad affermare che tutte le filosofie conducono a quella dottrina dell’unità, il cui ultimo è la pura sostanza. Restando su questo non plus ultra si delinea il seguente risultato: (1) Questo essente è solo in stato originario – e non obiettivo – un mero poter-essere senza essere = mera sostanza. (2) Come obiettivamente essente pone se stesso non nella prima progressione, ma solo secundo loco. Puro es-

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sente senza potere e solo mediatamente capace di un puro potere. (3) Nella totalità della forma infine esso deve essere, obiettivamente e viceversa, obiettivo in quanto è in stato originario e viceversa. In questo modo avremmo dunque le nostre tre potenze come altrettanti aspetti dell’unico essente. È facile vedere che queste tre figure, finché la prima non è effettiva, attuale, sono in unità. E poiché la potenzialità del primo è soltanto accidentale, l’unità stessa non può essere accidentale. Nonostante la totalità di queste forme appartenga essenzialmente alla completezza del primo essere, bisogna comunque osservare che esso non viene parcellizzato in queste forme. Ognuna di esse infatti è ciò che è solo grazie alla propria posizione. Sostanzialmente, ciascuna è ciò che è l’altra. Il rapporto è lo stesso che si ha tra le parti di un organismo, le quali sono poste doppiamente. L’occhio destro è ciò che è l’occhio sinistro e tuttavia non è il sinistro. Ho utilizzato questa similitudine solo per chiarire la proposizione: l’uno è la stessa cosa che è l’altro, eppure non come la stessa cosa. Questi concetti devono essere precisati in maniera accurata. In ciascuna delle suddette figure ognuna è ciò che è l’altra, cioè è uguale ad A. Proprio per questo in ognuna di esse è posto l’intero essente, però in una forma particolare. Il primo è posto = – A (mancanza dell’essere obiettivo = –), il secondo = + A (l’essere obiettivo = +), il terzo = ± A. Non abbiamo quindi meramente tre poter-essere in comunanza, ma ognuno di essi è l’intero A, però in una particolare figura. L’esser + A, come l’esser ± A, dipende dall’esser la prima potenza uguale a – A. Se questa diventa uguale a + A, il secondo principio non può più restare uguale a + A, poiché esso era + A solo in rapporto a – A. Esso deve arretrare nella sua pura sostanza e sarebbe necessitato a restare + A solo se fosse in qualche modo legato al nuovo + A. Ma proprio per un tale legame manca il presupposto. La necessità che il + A negato si ristabilisca come tale tentando di togliere il falso + A, il quale si è completamente emancipato, appare nel processo del tutto precaria. La prima triade, come l’abbiamo vista finora, potrebbe forse essere ulteriormente spiegata. Si potrebbe dire che l’essente può essere all’inizio solo – A. Così è dato spazio per l’essere immediatamente obiettivo e anche per l’obiettivo che è in stato originario e viceversa. In questo modo le tre forme trovano certo il loro compimento, ma non si riesce a com-

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prendere come il + A negato, dopo che la relazione è stata tolta, resti ancora + A. È infatti necessario che esso resti tale, almeno interiormente, se deve negare ciò che non dovrebbe essere + A; ovvero, non si riesce a comprendere come il secondo resti + A, poiché è libero dall’essere obbligato e senza impedimenti può trapassare nell’assoluto A¹. Possiamo facilmente vedere quale sia l’aspetto della cosa nel processo; non si riesce però a scorgere come si arrivi a un processo, per il quale è infatti necessario che quel primo principio esca dalla potenzialità e trapassi nell’essere, mostrando come non possa affatto essere fissato come – A e diventi tra le mani un altro. Se pensiamo però quel primo principio come necessariamente trapassante, allora tra – A e + A (e quindi nemmeno per ± A) non resta alcun tempo. Quel divenire + A del primo principio risulterebbe del tutto incomprensibile. Volendo accantonare questo totalismo si dovrebbe affermare che quel primo principio non sia ciò che necessariamente trapassa. Ma allora si deve assumere o che esso si sappia come potente essere, e in tal caso sarebbe un libero poteressere (ma proprio questo contraddice l’ipotesi), oppure si deve assumere che esso non si sappia come potente-essere e quindi sarebbe fissato nella sua posizione. Ma allora come si può pensare un passaggio all’essere, visto che non c’è niente al di fuori dell’essente che potrebbe presentargli il suo potere di trasgressione, niente che potrebbe indurlo a essa? Dal che segue o che quella unità non è affatto posta o che debba rimaner ferma, poiché non si vede come potrebbe togliersi o esser tolta, essendo il terzo e il secondo del tutto dipendenti dal primo. Un quarto dovrebbe dunque sopravvenire. Arrivo qui alla prima possibilità di rappresentarsi la causa del processo e non la tralascio poiché assolutamente non vorrei che una qualsiasi possibilità venisse trascurata, restando indiscussa. Ammetto che un’esposizione dogmatica della filosofia potrebbe essere più comprensibile, ma lo scopo di chi vuole insegnare la filosofia non può mai essere quello di presentare i suoi risultati. Chi possiede i risultati, non possiede la filosofia. Essi sono solo frutti colti dall’albero che marciscono tra le mani. Tra chi insegna meramente i risultati e chi invece insegna la filosofia stessa vi è lo stesso rapporto che esiste tra chi distribuisce l’oro nella sua sostanza e chi dell’oro insegna direttamente la fabbricazione. La filosofia

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è la più alta alchimia spirituale. Dalle scorie produce il puro oro così come ciò che è afferrato dallo spirito del vero artista viene per così dire purificato attraverso il fuoco. La filosofia scientifica può solo essere speculativa e lo speculativo consiste nel soppesare il possibile. Se dunque ammettiamo la possibilità che quella unità venga tolta, dobbiamo pensare un quarto al di fuori di essa. Ma ora ci si chiede come si possa pensare un tale quarto. Ciò sarebbe possibile nel seguente modo. L’essente stesso è libero da ogni particolare modo dell’essere, ma esso prima progressione, inizialmente, può essere solo il potente essere, cioè il puramente soggettivo, nella seconda soltanto il puramente obiettivo e solo nella terza può raggiungere se stesso come l’inscindibile soggetto-oggetto. In ognuna di queste forme l’essere essente ha posto una relatio, a sé esso è però libero da ogni forma e sopra tutte le forme. Solo dopo che ha portato a compimento queste forme dell’essere obbligato, esso può essere come il puro essere, come mero A. Senza queste forme otterremmo comunque un puro A, il quale però non potrebbe evitare di darsi in quelle forme. Questo quarto o puro A è dunque libero da tutte queste forme, la cui relazione rispetto a esso consiste nel rendergli possibile l’essere in quanto puro A. E dunque il libero A è anche giustificato a trattare quelle forme come sottoposte, essendo esse in effetti la base dell’esser puro A. Se questo ora è libero nei confronti di quelle tre forme, sarà anche libero di porle in reciproca tensione e di essere causa del processo. Attraverso la deduzione siamo stati dunque condotti a una causa che è libera, ma che è solo causa dell’actus, non della sostanza. Questa libera causa, intesa come l’essente al di là delle tre forme, la si potrebbe ora chiamare Dio, il che si accorda chiaramente con la primitiva espressione secondo la quale Dio è to; o]n e sicuramente non è tanto inopportuno quanto eguagliare Dio all’astrattamente essente. Lezione XXV Nell’ultima lezione è stato mostrato che nell’unità meramente potenziale dei principi non v’è alcuna ragione né per una connessione dei principi nella loro separazione, né per una determinata direzione del processo, la quale è necessaria per la completa vittoria dello spirituale sul non spirituale. Ed è

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stato quindi mostrato che per entrambe le cose è richiesto il concetto di una causa extraprocessuale per indicare la quale in tutte le lingue umane è usata una sola espressione: Dio. Ma questo nome non è sufficiente in ogni contesto e ovunque viene aggiunto qualcosa affinché si possa distinguere il vero dal falso Dio. La lingua greca per esempio aggiunge o tralascia l’articolo, distinguendo oJ qeov" da qeov". Finora non abbiamo legato al concetto di Dio nient’altro che la causa nel processo del mondo, la quale dà all’ideale la preponderanza sul reale. Dio, dice Platone, è causa non del bene, ma del meglio. Considerando le cose dal punto in cui ora ci troviamo, possiamo chiamare «il meglio» la preponderanza dello spirituale sul non-spirituale. Ma se Dio, o piuttosto, ciò che è causato da Dio, è «il meglio», allora un «meno buono» viene necessariamente escluso. Il modo in cui però Dio venga a relazionarsi all’ideale e al reale secondo la sostanza, non viene affatto determinato dalla spiegazione di Platone, anzi la sua posizione sul tema è notoriamente ancora dubbia e oggetto d’indagine. In questo contesto, vorrei soltanto osservare che in Platone ci sono luoghi dai quali sembra emergere che egli ammettesse al di fuori di Dio ancora una sostanza indipendente. Tuttavia tenendosi allo spirito platonico non si possono trarre da quei luoghi conclusioni precipitose; è anzi possibile che si tratti di mere transizioni. In verità anche con la nostra spiegazione viene soltanto espressa una preponderanza dell’ideale sul reale e Dio è solo posto come ciò che dà la preponderanza. L’interrogazione, dunque, ora non riguarda più l’«esser-così», ma è rivolta all’essere stesso dei principi. E qui possiamo confrontarci per un ulteriore chiarimento con quella filosofia aprioristica. Secondo tale filosofia, quando pensiamo via dall’essente tutte le determinazioni, resta ancora un essente in generale. Questo essente, sebbene sia un mero abstractum dal posterius viene tuttavia considerato come l’assoluto prius. L’eterno è per questa filosofia quel che non si può non pensare. Tuttavia essa non può mantenere questo concetto nella vuota astrazione, anche del suo essente deve dire che è in un qualche modo. Ora si può mostrare facilmente che il primo modo dell’essente può essere solo l’esser soggetto dell’essere, in modo che tutto l’essere obiettivo sia da esso escluso. Questo si trova già nel concetto di soggetto = suppositum. Il primo nel pensiero può essere solo il soggetto, non l’oggetto, altrimenti dovrebbe già

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avere un soggetto prima di sé. Dopo l’esplosione dell’effettivo divenire il terminus a quo è certamente l’essere. Ma prima di esso, nel puro pensiero, è il soggettivo il primo, proprio come il soggetto in una proposizione, mentre l’essere obiettivo è il secondo, come il predicato. Nella prima progressione l’essere è soltanto poter-essere, esso è di conseguenza mancante e v’è il fondamento per un ulteriore procedere. Nella seconda progressione diviene un puro essere senza potere, non si possiede e si riversa completamente senza trattenersi. In entrambi i casi l’essente è posto con una negazione. Solo con la terza posizione si dà l’essente nel poter essere e viceversa, ovvero l’indistruttibile soggetto-oggetto. Fin qui anche la filosofia astratta deve riconoscere la triplicità necessaria per il processo. Le sarà però impossibile trovare il passaggio al processo stesso. In quel caotico essere originario infatti (lo chiamo caotico non perché, secondo il generale concetto, vi pensi una confusione, ma perché le potenze sono in esso separate non materialiter, ma solo formaliter), il potente-essere deve essere pensato come assolutamente intransitivo, quindi come quel che non si sa, che è ignaro di sé. Se infatti fosse transitivo, non lo si potrebbe più incontrare in quanto potente-essere, ma sarebbe già trapassato nell’essere. In tal modo l’essere originario non potrebbe passare alla tensione che necessariamente è richiesta per il processo e dovrebbe rimaner fermo in una mera potenzialità. Se ora questa potenzialità non può togliere se stessa, essa può certo esser tolta grazie a quella stessa necessità per cui l’essente viene determinato a essere immediato poter-essere. E proprio in questo modo esso deve anche porsi come puro A. Questo essere che rimane puro A e non trapassa in alcuna forma particolare la filosofia astratta potrebbe chiamarlo Dio. Riguardo a questo passaggio dal concetto dell’essere a quello di Dio, bisogna dire che, se si parte dall’essente, difficilmente si potrebbe pervenire in maniera logica a Dio attraverso un percorso diverso da questa successione. Ma, pur riconoscendo la consequenzialità del procedimento, ci si può ancora chiedere se in generale si debba cominciare con l’astrazione. Il concetto di quell’essente ha pur sempre soltanto una necessità relativa, esso è necessario solo in relazione all’essere che ci si trova davanti nell’esperienza. Ma il vero inizio della filosofia non è questo, esso consiste piuttosto nel presupporre l’essere come non disponibile da nessuna parte, dunque anche nel non trattarlo

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come materiale a partire dal quale si possa fare astrazione. La filosofia astratta non osa ritrarsi sino a un completo niente, essa vorrebbe invece ancora salvare quel suo essere almeno come potenza. Ma per chi invece ha il cuore di iniziare da Dio e di pensare tutto solo come posposto alla Potenza, quel concetto non esiste affatto. Per lui Dio non è l’essente, ma un essenza singola, l’unico nel senso più alto, quel che non conosce nulla di uguale a sé. Se Dio è l’essente, non lo è nel senso secondo cui non ne avrebbe nessun altro vicino a sé. Dio è certo l’essente, ma, cosa che assolutamente non può essere tralasciata, l’essente singolarmente, con il che si esprime che Egli è un essente determinato. È l’errore più grave identificare il concetto di Dio con l’essente stesso, o, come si dice, con l’essenza generale. Egli non è in alcun modo l’essente stesso ed anche la teo­ria appena esposta giunge al concetto di Dio solo poiché pone l’essente con la determinazione dell’assenza di determinazioni; egli è uguale a un A, il quale presuppone se stesso come – A e + A, ed è libero da queste determinazioni solo perché non le assume più. Notavo che il passaggio logico non può essere aggirato, se si comincia logicamente. Ritorniamo alla spiegazione del processo e vediamo come la filosofia astratta deve procedere per mostrare che l’A posto come puro A mette le determinazioni in tensione. Essa potrebbe spiegare il rapporto di Dio con quella unità caotica delle potenze, la quale viene anteposta a Dio stesso, nel modo seguente. Ciò che è posto come puro A sarebbe il propriamente trascendentale in Dio. Egli si rapporterebbe dunque con il suo interno in maniera del tutto libera, e altrettanto liberamente potrebbe rendere questo interno visibile. In effetti, in quello stato caotico, in quello stato dell’interiorità, l’interiorità stessa riposa solo sulla latenza del primo principio, omnia concludens, rispetto al quale + A sarebbe il relativamente esteriore, ± A quel che è ancora più esterno, e Dio il più esterno in assoluto. Ora poiché a Dio resta la libertà di estrovertere o meno l’interno, allora, se egli effettivamente ne fa uso, il più interno deve necessariamente diventare il più esterno, in modo che Dio stesso venga nascosto dietro quel che prima era in lui nascosto. In questo modo si potrebbe spiegare il processo del mondo come una conversione dell’interno divino. Questa teo­ria potrebbe spiegare in un certo senso persino una creazione, certo non una creazione dal nulla, essendo le potenze già presupposte,

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ma una creazione in genere, il che è comunque meglio di una mera emanazione logica. Ma osservando la cosa più da vicino, si vedrà che la creazione in quel senso riposa sul presupposto che Dio sia libero di porre le potenze fuori di sé, di conseguenza egli è certo libero dalle determinazioni poste, ma, se è libero verso se stesso, non è però libero nei confronti delle potenze, avendole come presupposto, come condizione del suo essere puro A. Proprio perché egli in quanto assoluto A è soltanto in questa relazione, non può togliere questa relazione senza togliere se stesso come assolutamente libero. Anche il suo essere assoluto è un essere obbligato, egli è assoluto solo perché – A e + A già sono. Se questi sono posti fuori del loro rapporto, anch’egli è posto fuori del proprio, quindi di nuovo come un A del tutto indeterminato, il che ci costringerebbe a iniziare di nuovo da capo. E comunque tutto dipende dal trattenersi insieme durante la separazione. Se non si desse questo non si arriverebbe ad alcun processo. Certo quella teo­ria dice che Dio è l’unità delle potenze e preso logicamente egli è eminenter ciò che ognuna è in un certo modo, ma tra una tale identità logica e quella che tiene insieme delle potenze che si tendono l’una contro l’altra vi è ancora una gran distanza. Dio smetterebbe di essere unità se quel rapporto cessasse. Ma perché discutere ancora su questo punto? Una volta che ci siamo sollevati al concetto di causa non possiamo più lasciarci trattenere dal passare dalla filosofia negativa alla filosofia positiva, a una causa assoluta, che non pone nient’altro che se stessa. Secondo quella teo­ria erano le potenze ciò che innalzava la divinità, ma proprio per questo Dio non poteva separare effettivamente le potenze o porle in tensione e ancor meno mantenere il processo fino allo scopo predeterminato. Dio infatti, in quanto causato, non può poi divenire a sua volta causa. Il vero concetto di Dio può dunque essere solo questo: Egli è la causa del processo del mondo senza alcuna preesistente potenza. Dio è la causa suprema, in assoluta purezza; i principi invece esistono come causae instrumentales non prima di Lui, essi sono solo in actu e grazie alla volontà divina. Uno è il Dio, il Dio che dà a se stesso questo esserci. Qui è guadagnato il passaggio alla filosofia positiva e d’ora in poi ci occuperemo solo di essa.

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Invito alla filosofia

Lezione XXVI Una volta ammessa una libera causa del processo, non la si può più rendere dipendente da potenze presupposte. Si deve invece procedere fino al concetto della causa che inizia il processo a partire puramente da sé stessa. Certo bisogna però evitare di suscitare un falso concetto quando si dice che la causa è causa dei principi non solo secondo l’atto, ma anche secondo la sostanza. Questa proposizione è certo a sé e per sé del tutto corretta, ma non va intesa come se la causa producesse anche le potenze, le quali piuttosto sono subito disponibili soltanto in quanto principi. Tutte le potenze sono non-essenti e il non-essere non può essere prodotto senza che l’essere sia. Ogni prodotto è essente. I principi nel processo non lo precedono in quanto potenze, ma sono subito soltanto come potenze actu, in modo da non avere prima di sé nient’altro che la causa. Le potenze non hanno alcun esserci che preceda l’actus, ovvero alcun puro essere all’infuori della causa. Ora bisogna solo vedere come la causa sia causa dei principi. Già in precedenza abbiamo distinto tra causa immanente e causa transitoria. L’artista è, rispetto alla statua che produce, causa transitoria, poiché il suo prodotto rimane fuori di lui ed egli può anche abbandonarlo. Invece egli è causa immanente del clima dell’anima che infonde all’opera. Tale disposizione infatti non è nulla se non vi è l’artista. Tornando al nostro problema, dobbiamo dire che ai principi non spetta alcun essere al di fuori della causa. Essi hanno esistenza solo nella volontà di Dio, ovvero della causa, e sono soltanto grazie alla volontà della causa che continuamente li inabita, il che è a sua volta possibile soltanto se essi sono punti di passaggio dell’essere proprio di Dio. Dio è dunque la causa immanente e non transitoria dei principi. Del resto questi principi possono essere punti di passaggio dell’essere di Dio soltanto se Dio si è liberamente dato in queste forme. Ma che quest’essere sia un essere che Egli stesso dà a sé, è possibile solo se Dio è libero da qualsiasi essere. Tutto l’essere fuori di Dio è un essere che non si è dato il suo proprio essere. Non è esso stesso, ma c’è solo insieme a un essere rispetto al quale non è libero e nel quale deve mantenersi. Non credo che qualcuno obietterà a queste determinazioni l’apparente libertà dell’uomo di distruggere il suo essere. Si tratta della deplorevole illusione del suicida di poter strappare a se stesso l’essere. L’uomo può certo togliere

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Lezione XXVI

l’apparenza esterna, ma non l’essere interno. Anzi, proprio distruggendo quella, egli si priva dei mezzi per giungere a uno stato migliore; proprio attraverso la distruzione rende eterno quello stato dal quale voleva fuggire. Già nel tempo più antico si è sentita l’infelicità dell’essere, in quanto non si può sfuggire all’essere. Certo era più facile sentire questa infelicità che mutarla in felicità, ma questo sentimento conteneva incontestabilmente il primo impulso alla filosofia. Lo spirito cercava di sollevarsi al di sopra di questo essere non libero, la cui realtà tuttavia non poteva negare. Non avrebbe potuto accontentarsi di una suprema sostanza generale, dove l’essere non libero è comunque ancora presupposto in quanto mezzo. Lo spirito poteva trovar soddisfazione solo nel non volere assolutamente quest’essere, ponendo subito l’assolutamente libero. Chi è capace di un tale eroico atto d’anelazione, non avrebbe bisogno di alcuna filosofia regressiva, di alcuna dialettica che avanzi distruggendo. Egli potrebbe dire: io voglio che tutto proceda dalla assoluta libertà, che tutto non sia opera di un intelletto privo di volontà, ma l’opera di un intelletto volente, un’opera della sapienza: io desidero originariamente la sapienza. Qui soltanto si darebbe la vera filosofia. Io non sto chiedendo se un tale punto d’inizio si lasci giustificare; io affermo soltanto che solo un tale uomo potrebbe filosofare. Ma un tempo che si è così profondamente abbandonato al negativo, che vede nella necessità di fare delle deduzioni da un principio il trionfo della scienza, ha bisogno della liberazione dai legami di quel che progressivamente si succede. Dopo essere arrivati così lontano, abbiamo ancora bisogno solo di qualche spiegazione, per consolidarci. Per i principi, come già detto, non v’è alcun essere al di fuori della volontà divina. Ma per poter dare a se stesso questo essere, Dio deve essere del tutto libero dall’essere, deve cioè essere meramente Egli stesso. Ho già affermato in precedenza che in Dio essenza ed essere sono uno, e ho osservato che questa formula permette diverse spiegazioni. È stata già data la spiegazione possibile nella precedente situazione, vengo ora alla spiegazione che può essere esposta nel punto in cui adesso ci troviamo. Qui parliamo di Dio a sé e prima di sé, dunque prima di quell’essere che Egli stesso si dà. A sé e prima di sé Dio è mero Sé, questo v’è appunto nell’esser egli Egli. Il senso di quella formula è dunque questo: in Dio a sé e prima di

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Invito alla filosofia

sé non v’è un essere che sia diverso da Lui, ma si dà soltanto quest’essere: che Egli è. E questa è proprio la sua essenza, ovvero Egli stesso osservato nella sua essenza. Anche l’altra formula: in Deo non differunt esse et quod est, cioè in Dio l’essere e ciò che Egli è sono uno, non significa nient’altro che in Dio a sé e prima di sé si tratta solo di ciò che Egli è, non di un essere che vada al di là della sua essenza. L’essere che pensiamo di Dio non è un essere di proprietà, vincolante, come per esempio una cosa è vincolata dalle sue proprietà. Proprio questa libertà permette a Dio di assumere un essere diverso dalla propria essenza. Se un tale essere fosse già attribuito a Dio, Egli non sarebbe libero. Dio può assumere un essere uscendo da se stesso, questa è l’espressione positiva alla quale corrisponde la negativa: Dio è libero da ogni essere. Pronunciando questa frase, mi rendo conto che per una completa spiegazione sono necessarie molte più precise determinazioni, le quali possono essere introdotte solo gradualmente. Per il momento mi limito a osservare che questa proposizione può comunque poggiare sulle più antiche autorità. A essa è legata l’antica spiegazione secondo la quale Dio è causa sui; certo non così come è intesa da Spinoza, ma nel senso per cui Dio è propriamente causa di Se stesso, cioè Egli non smette, nell’essere, di essere. Dio è – come si esprimerebbe un platonico – non come si trova a essere, cioè l’essere che Dio ha non è un essere che Egli deve sopportare e accettare, come invece accade al finito, il quale si trova a essere l’essere che ha, a essere così come si dà il caso che sia. L’essere di Dio non è accidentale, cioè contro la sua intenzione. È un essere che Egli dà a se stesso, che Egli è solo in quanto lo vuole. Dio è causa solo da sé stesso e attraverso se stesso, o come dice Platone: ejrgavzetai tav te a]lla kai; eJautovn. Lo stesso concetto lo ritroviamo anche nell’Antico Testamento. Non meravigliatevi del fatto che io oltre a Platone, agli Orfici e ai Veda, faccia riferimento anche all’Antico Testamento. I libri dell’Antico Testamento appartengono alla comune ricerca e non dovrebbero più restare solo nelle mani dei teologi. Quei libri ci offrono più dei tesori della Persia e dell’India. Essi risalgono a un tempo in cui le pareti di Persepoli non erano coperte da alcuna scrittura cuneiforme e gli obelischi da alcun geroglifico. Poiché nel corso di tutta la filosofia moderna il nome «Dio» è stato usato e abusato in così disparati concetti, sarà necessario risalire fino al tempo in cui quel

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Lezione XXVII

concetto fu per la prima volta fissato nella coscienza umana. Ma tutti i più antichi documenti hanno profanato il concetto di «Dio» più di quei libri. In essi si riflettono i rapporti di un originario passato del mondo, illuminato per così dire dai lampi di oscure nubi. Ma ritorniamo alla cosa. In quei libri v’è un luogo in cui Dio, rispondendo al grande legislatore dell’antica alleanza che lo interrogava sul suo nome, dice: «Io sono colui che sarò». Cos’altro significa questo se non: «Io sono ciò che sono non in maniera sostanziale, ma attraverso volontà e azione», ovvero: «Io non sono nient’altro che la volontà di essere colui che sarò»? Dio è dunque la volontà non di essere colui che Egli è, ma di essere colui che sarà. Credo finora di aver giustificato in generale il concetto di cui si parlava. Tutta la differenza di Dio rispetto alla creatura consiste in questo, che Egli non è come si trova a essere, ma è ciò che vuole. Dio non è dunque né la morta sostanza di Spinoza, né la sostanza che pone se stessa in maniera del tutto necessaria dell’idealismo moderno. In luogo di questi concetti abbiamo posto il concetto del Dio che liberamente pone se stesso. Se dunque abbiamo giustificato questo concetto in generale, la prossima domanda sarà: come Dio propriamente assume un essere? Abbiamo già parlato, come ricorderete, di momenti; e già si può intuire in generale che Dio, fin qui determinato come colui che può darsi liberamente un essere, sarà d’ora in avanti da noi determinato anche come colui che non vuol restare sconosciuto. Determineremo dunque Dio non come la volontà di essere in generale, ma come la volontà di essere in quanto Dio. Ma per essere in quanto Dio, egli dovrebbe essere il sovraessente. Ed è già chiaro che ciò non è possibile immediatamente, ma soltanto attraverso una sorta di ripercussione (sfavillio). Lezione XXVII Proprio perché Dio è pura essenza, Egli è la natura che immediatamente va via da se stessa. Il pensiero di Dio a sé e prima di sé è solo il pensiero dell’attimo. Il primo o vero concetto di Dio è quello del suo futuro, cioè il concetto secondo il quale Dio è la volontà di essere colui che sarà. Dio infatti non è solo colui che può dare a se stesso l’essere, ma anche la volontà di rendere se stesso conoscibile. Egli è la volontà

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Invito alla filosofia

di essere il sovraessente e non la volontà soltanto di essere, in generale. Questa è chiaramente una contraddizione, ma chi ne ha paura non troverà mai la vita di Dio. Senza timidezza dobbiamo gettarci in essa. La prossima domanda sarà dunque: come Dio viene a trovarsi in questa contraddizione? Si può già vedere che ciò che non può essere immediatamente non sarà possibile nemmeno in maniera mediata, ovvero che Dio, per essere ancora qualcosa al di fuori della pura essenza, non può evitare di assumere immediatamente un essere. Si rifletta su cosa sia un essere assunto, contratto. Certamente è solo quello che consiste nella volontà dell’assumente. Dio assume questo essere e volere attraverso la propria volontà, così come l’uomo per trasformarsi, per fingere, ha bisogno solo della propria volontà. Più avanti cercherò di chiarire in maniera più dettagliata il concetto di volontà. Qui mi servo di esso solo in generale. Ma ora chiedo: come si potrebbe negare a Dio la possibilità di assumere un essere, se l’uomo stesso ne è capace? Anche nella teo­ria più comune si ammette qualcosa che è solo grazie alla volontà divina, vale a dire la produzione delle singole cose. Ma non meno di questa ammissione è noto che di essa non si è ancora potuto dare alcun concetto intellegibile. Noi stessi ci troviamo ora a dover conoscere più da vicino qualcosa che è solo grazie alla volontà divina, cioè l’essere assunto da Dio. E qui è sicuramente già chiaro che la volontà attraverso la quale Dio assume immediatamente l’essere va solo all’essere, non a un essere determinato. Qui si ha a che fare meramente con l’essere e dunque si tratta di un essere in se stesso infinito, il quale in se stesso e da se stesso non ha alcuna limitazione, in una parola: a[peiron. Ma proprio per questo esso è anche inconoscibile. L’assenza di limiti di questo essere può esser compresa nel seguente modo. Il proposito di Dio non è limitato a questo essere, pertanto questo essere non ha alcuna vera limitazione. Esso è l’essere in se stesso non finito, l’essere privo d’intelletto, potremmo dire il crudo essere. Il vero intelletto è inizialmente fuori di quest’essere, il quale solo attraverso quel che seguirà diventerà comprensibile. In esso infatti non si trova alcun fine, ovvero, come ci siamo già espressi in precedenza, l’essere infinito è il divenir conoscibile in conseguenza del suo divenir finito. In questo senso si può dunque dire che Dio è posto fuori di sé, è dissimile da sé, così come diciamo che un uomo è posto fuori di sé. Dio

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è se è Dio nell’estasi e quindi se è l’inizio di tutta l’esistenza, la quale non è appunto nient’altro che estasi; non v’è dubbio infatti che il latino existere sia il greco ejxistavnai. Dio, che a sé e prima di sé è pura essenza, è attraverso quest’essere, in seguito a una arbitraria estasi al di fuori dell’essenza. Questa libertà di uscire da sé non può essere negata a Dio senza con ciò togliergli ogni libertà del movimento. Movimento o vita consistono nella libertà di divenire dissimili da se stessi; vale a dire però, non nel mantenersi nella dissomiglianza, ma piuttosto nel divenire di nuovo uguali a se stessi. Noi non possiamo dire che Dio non avrebbe dovuto assumere un tale essere; per Dio infatti non c’è alcuna legge. Il nostro Dio in cielo, dice l’Antico Testamento, può fare ciò che vuole. Nessuno può chiedergli perché faccia questo o quello. Certo si vorrebbe dire: in questo essere assunto c’è una caduta in basso, una umiliazione. Ora non è questo il luogo per trattare il problema, basti però ricordare che l’esuberante libertà di Dio consiste nel poter Egli negare se stesso. Dio assume questo essere perché così a Lui piace. Gli enti finiti invece hanno solo la libertà di porre eternamente se stessi. In questo porre se stessi si esprime il carattere del finito. Quanto più un individuo è limitato, tanto meno è in grado di porre qualcosa che non sia se stesso. Un poe­ta al quale mancano creazioni geniali rappresenterà sempre e solo se stesso. Questa è la ragione per cui in ogni produzione viene così tanto lodato l’obiettivo. Laddove si è mostrata la facoltà di produrre qualcosa di diverso da se stessi, gli uomini hanno sempre riconosciuto il divino. Per questo anche Omero è chiamato il divino. Come dice un antico conoscitore dell’arte, egli allontana da sé la meraviglia per lasciarla alla sua opera, è orgoglioso di far dimenticare se stesso attraverso la sua opera d’arte. Questa è la magia dell’arte, che essa ci sposta in qualcos’altro. «Io sono colui che voglio essere», può dirlo solo colui che è libero anche dalla propria divinità. Il pensiero di questa assoluta libertà estende a tal punto la capacità del nostro pensare, che ammettiamo di essere giunti al supremo, oltre il quale non c’è più nulla da pensare. Nell’essere inizialmente assunto, Dio non è certamente in quanto Dio, tuttavia non possiamo dire che Egli non sia in quell’essere. Così anche Bruto, nella dissimulazione contro i tiranni della sua patria, non era in quanto Bruto. Se dunque questa è un’estasi voluta,

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allora nel concetto di essere assunto v’è già che tale essere è soltanto un mezzo, o, come si esprime l’Antico Testamento, un aspetto, un viso di Dio. Così dice Dio al legislatore degli Israeliti: «il mio viso non puoi vederlo». Queste parole, tenendo conto di quanto è stato sinora esposto, non dovrebbero più apparire oscure. Il primo essere appare proprio come l’essere che consuma ogni finito, l’a sé inconoscibile, che diviene conoscibile solo allorché esso stesso è di nuovo inconoscibile. Esso è il vero a sé, che non è conoscibile né come inconoscibile né come conoscibile; è quel che è conosciuto nel non sapere, ignorando cognoscitur. Non voglio comunque negare che quel luogo dell’Antico Testamento possa mantenere anche un riferimento diverso rispetto a quello dato. Esso può essere anche così inteso: Dio, in quanto è colui che ha l’essere solo attraverso la propria volontà, è conoscibile solo a posteriori, come ogni volontà è conoscibile solo attraverso l’azione; una proposizione questa, che ho già chiarito in precedenza. Quelle parole verrebbero quindi a significare: «io sono per ogni mortale a priori inconoscibile». Non è questo il primo caso in cui un’affermazione moderna si trovi anche nelle lingue antiche. Chi si ostina a non riflettere su come l’immagine nasconda ancora un senso più alto, e non riesce quindi a vedere quante espressioni, oggi ritenute puramente logiche, siano immagini provenienti dalla fanciullezza del genere umano, certamente non troverà sotto l’immagine nient’altro che un’immagine, senza un più alto significato. Quel carattere orientale, della cui forza d’immaginazione tanto si discute senza sapere che cosa essa propriamente sia, è la prima espressione naturale di idee speculative, che il moderno, avendo smarrito il significato proprio delle immagini, non riesce più a percepire. Fin quando si ha a che fare solo con la costruzione di sistemi artificiali, l’espressione non può che essere scolastica, ma non appena un sistema assume il carattere obiettivo, l’espressione diventa di nuovo propria. Ritornando però al passo a cui si è fatto riferimento, credo che vada inteso soltanto nel primo significato. A sostegno di questa affermazione posso ricordare che anche il Nuovo Testamento dice nello stesso senso che davanti a quel volto cielo e terra fuggono e non trovano più alcun luogo. Cielo e terra sono, proprio perché quel volto è coperto. Ma se quel volto si mostra, le barriere si frantumano, trema il tutto, ogni creatura deve necessariamente perire. Quel che infatti

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Lezione XXVIII

è fondamento di ogni conoscere, sarà, se viene a essere esso stesso, il fondamento di ogni toglimento. Se quel che è posto a fondamento si solleva, toglie (tollet) necessariamente ciò a fondamento del quale è posto. Ma proprio perché l’essere assunto è soltanto un mezzo per un fine determinato, la volontà in esso non è propriamente volontà, ma piuttosto un Unwille, una involontà divina, ovvero una volontà che Egli propriamente non vuole, così come nella parola tedesca Unfall (incidente) il prefisso negativo un- non indica l’assenza dell’accadimento, ma soltanto che quel che è accaduto, secondo la nostra volontà, non sarebbe dovuto accadere. Allo stesso modo la parola Untat (misfatto) indica quel fatto, quell’azione che noi non riusciamo a rappresentarci come umanamente voluta. La volontà in questo senso è dunque una divina nolontà e quell’essere una consonante per una parola che ancora attende la vocale. Dio per essere il sovraessente deve innanzitutto essere il contrario di se stesso. Solo in questo modo Egli può giungere a sé. Affinché appaia che Egli è un essere liberamente voluto, deve immediatamente porre l’inverso di ciò che Egli propriamente vuole. Per oggi concludiamo qui, rimandando alle prossime lezioni l’inizio di una nuova ricerca. Lezione XXVIII Lo scopo di tutta l’azione di cui finora si è parlato, ovvero quel che Dio propriamente si propone in essa, è porre se stesso. Inizialmente Egli è infatti sopra l’essere, ma non è in quanto tale. Questo non è per Lui raggiungibile immediatamente. In principio Dio può liberamente, attraverso la propria volontà, contrarre o meno un essere. Nell’essere che ha contratto Egli è poi in effetti l’essente, e, sebbene prima fosse libero di assumere o meno l’essere, nell’assunzione dell’essere non è più libero. A sé e prima di sé la divinità di Dio consiste nel non volere nulla (Dio è infatti la natura che non ha bisogno di nulla), ma attraverso quel volere che è in vista di un altro, ed è dunque accidentale, viene ora posto in Dio qualcosa di estraneo, nei confronti del quale la volontà originariamente non volente e quindi del tutto libera (solo quella volontà che non vuole nulla è infatti del tutto libera) entra in tensione. Questa volontà completamente libera non può più restare indifferente, deve entrare in contraddizione,

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ma in tal modo la volontà fino ad allora del tutto non volente diviene volere, viene soggettivamente posta. Prima essa era in quanto niente e non sapeva niente, ora diventa essa stessa volere, sapere (sapere significa infatti rendere obiettivo, il che presuppone a sua volta un volere), al fine di restaurare il suo originario non-volere, se stessa, il suo cielo. Non desiderare nulla, non volere nulla, è infatti il cielo. Ogni uomo ricerca questo cielo, certo in modi diversi. L’uno cercando di attirare tutto a sé, in modo da sfuggire al tormento della propria cupidigia; l’altro attraverso la purificazione da ogni voglia. Ma non perdiamo il filo della nostra ricerca. Quella volontà posta fuori dal proprio cielo non può che volersi ristabilire in esso, facendosi quindi maestro e guida del primo principio nel passaggio dal volere al non-volere. Ci siamo già serviti in precedenza di queste espressioni, ma solo qui divengono del tutto chiare. Se l’Unsein (non-essere) non fosse un volere, non si riuscirebbe a pensare un superamento di esso. Solo la volontà infatti è superabile, essa può certamente essere portata al non-volere. Attraverso la volontà innalzata all’atto è espressa quella che propriamente è la volontà di Dio, ma anch’essa non è Dio stesso, è soltanto una figura di Dio. Dio a sé e prima di sé è la volontà assolutamente priva di tensione. Anche quella seconda volontà è dunque solo un momento del libero autoporsi divino. L’intenzione successiva alla prima assunzione dell’essere era quella di rendere un qualcosa la volontà che niente vuole, fare in modo che tale volontà fosse in quanto non volente e quindi necessariamente negante. Quel che non vuole nulla può infatti apparire, se vuole, soltanto come il negante. Ciò che a partire da se stesso pone un altro in modo che esso stesso inizialmente non sia, ma la posizione è tale per cui esso necessariamente si realizza nell’atto stesso, è quella volontà negante nel suo significato proprio. Noi possiamo quindi dire che questa rimozione dell’assunzione dell’essere sia il generare la volontà del non-volere, la quale può dunque essere solo secundo loco. Vi apparirà chiaro ora lo scopo dei precedenti esercizi preparatori. Attraverso di essi doveva esser impresso il formale del nostro discorso. La volontà che non vuole niente può essere solo una volontà generata; per sé infatti essa non può nulla, è del tutto priva di potenza, le può solo esser dato un essere a sé stante. Essa stessa, essendo ciò che non vuole nulla, non può darsi

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Lezione XXVIII

un tale essere. Ma la generazione di questa figura è soltanto la successiva intenzione di quella assunzione dell’essere; l’intenzione finale è che Dio attraverso il vero volere superi un volere apparente e ponga in questa espirazione del primo volere la pura libertà, la quale non potrà più diventare dissimile da sé e quindi, lo si può già intuire, non potrà essere né nella prima, né nella seconda posizione. Se ora ci poniamo nel punto in cui Dio è prima e al di fuori di ogni essere, apparirà chiaro che Dio può porre se stesso solo attraverso una tale mediazione, per la quale il primo si rappresenta come l’inizio, il secondo come mezzo e il terzo come fine. Dio, per essere il sovraessente, deve essere ciò che Egli non vuole essere, per poi porsi come colui che Egli è. Come potrebbe Dio porsi cum ictu et actu se non sollevandosi in un qualche essere? Ho già affermato in precedenza che Dio è la volontà di essere: ora se Egli può così essere, allora sarà anche la volontà di essere in tal modo. In questa volontà Egli si è già posto anticipatamente nel concetto di sé. Di conseguenza Egli può dire di sé: «io sarò colui che sarò». Qui Dio scorge, aspetta, le già predeterminate potenzialità del suo essere futuro. Egli vede le potenze del suo essere. Queste potenze non hanno quindi esse stesse alcun essere sostanziale, indipendente da Dio. Esse sono solo nel proponimento di Dio, soltanto se Egli vuole; non sono, se non vuole. Tutte queste possibilità della propria autogenerazione si rappresentano a Lui dall’eternità. Dall’eternità quelle potenze sono i punti di passaggio della sua generazione, ma in maniera tale che Egli si trovi rispetto a esse in un rapporto del tutto libero. Proprio per questo, tali figure future sono ancora senza separazione sostanziale, esse sono interamente nella volontà divina e quindi ancora non si escludono. Dio è la loro apriorica, sovrammateriale, spirituale e indistruttibile unità. Dio non nasce da queste potenze, ma queste nascono, originano da Lui. Esse non sono Dio, ma punti di passaggio della sua eterna, perpetua vita. Se esse assolutamente non sono Dio, tuttavia sono, nel loro legame, Dio compreso nell’autoporsi. Ora, se Dio non è nessuna di queste singole potenze, possiamo chiamare Dio soltanto l’indissolubile volontà di porre in tensione le potenze mantenendole insieme. Egli è la causa permanente del processo esterna al processo, la quale tutto effettua e secondo deliberazione pone. Anche il processo è solo un passaggio, un transitare. Ciò che propriamente Dio vuole è l’unità, la quale però Egli

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Invito alla filosofia

può porre solo per contrarium. In questo senso le potenze appaiono come l’uno inverso, il quale originariamente è nella volontà divina in quanto universo = unius versum. Qui osservo soltanto che quando determiniamo quei poteri divini come universo, non si può intendere l’universo divenuto, ma solo quell’universo originario, puramente spirituale, intellettuale, gli Elohim dell’Antico Testamento. Solo dal congresso di queste potenze puramente spirituali nasce l’universo materiale. È facile vedere che in quelle tre figure originarie dell’essere divino sono in effetti contenuti tutti modi dell’essere. Esse costituiscono pertanto il vero pa'n, tuttavia in modo da rappresentare nella totalità che è infine prodotta l’unico, il tutt’uno. Quest’ultima unità dovrebbe apparire come quella voluta, ma affinché appaia come tale è necessario che venga posto l’inverso del propriamente voluto. Dio non è dunque il tutt’unico in maniera solamente materiale, ma la sua volontà di porsi come tale è piuttosto il tutt’unico spirituale, ovvero il sovratutt’unico, per così dire il Dio della propria divinità. Dio pone in tensione ciò che secondo la sua volontà è unità. Ma attraverso la sovversione la volontà non viene tolta. Egli vuole sempre lo stesso, sebbene si contraffaccia e attraverso questa ironia sia il contrario di ciò che Egli è, o, come dice il profeta: non nella tempesta, non nel terremoto, non nel fuoco; ma in questo sibilo delicato del vento, qui è Dio. Dio non è quel principio privo di ogni forma, ridotto alla mera passività, Egli è anzi libero di proporsi in quella involontà, poiché già aspetta in sé l’altro mondo, che vince e riconcilia il primo. La vera volontà di Dio va sempre al superamento del contrario, e tutta la durezza e il non conciliato viene dall’antica natura, nella quale Dio è soltanto potere e non propriamente volontà, ovvero «si nutre solo della propria natura divina», secondo l’espressione usata da Platone, il quale vuol far riferimento a ciò che non va escluso e che costituisce la conditio sine qua non della vita e della rivelazione di Dio. Dio lascia che tale condizione sia superata nel processo, ma in una certa successione, affinché nella pienezza della sua gloria si riveli che Egli è Signore nella suprema dissonanza non meno che nella più semplice armonia. Proprio per questo Dio lascia che quel contrario si sviluppi in tutti i modi possibili. Questa verità, che cioè Dio nella sua rivelazione mostra qualcos’altro rispetto a quel che vuole, può apparire a

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un primo sguardo un pensiero ardito. Ma questo pensiero è il solo che può sciogliere il dubbio più profondo della ragione umana. Poiché questa ricerca ci condurrebbe ora troppo lontano, oggi voglio soltanto aggiungere una mera osservazione metodologica, la quale si spinge però in profondità. Avrete certo notato che la nostra esposizione è pervenuta di nuovo a una triplicità dei principi. Ora sin dal tempo in cui questa triplicità è stata nuovamente riconosciuta in generale, non sono mancati vistosi tentativi di conferirle validità. Si cominciava con tre concetti e si finiva, naturalmente, con una triplicità presupposta. Ma come arriva una filosofia che non vuole presupporre nulla alla determinazione di un numero, il quale è certo una distinzione possibile soltanto nella coscienza? Se c’è una coscienza divina, si possono certo concepire tre potenze. Ma da dove arriva un numero se non c’è alcuna coscienza? È inutile iniziare con il concetto astratto; esso deve infatti o restare o procedere. Nel primo caso non spiega nulla; nel secondo, si ritorna a un numero. Al primo passo deve essere presupposto l’intero intelletto umano, altrimenti si inizia senza intelletto. Una filosofia di questo tipo dovrebbe innanzitutto zittirsi, giacché vuole prima dedurre la possibilità del pensiero. Questo non-presupporre-nulla dunque non è più che vuota iattanza. Dove non v’è nulla, non solo l’imperatore, ma anche l’intelletto, ha perso il proprio diritto. Lezione XXIX I principi che conoscevamo come agenti nel processo li abbiamo ora compresi come dei principi che non si trovano insieme soltanto accidentalmente o in quanto meramente riuniti da un legame transeunte. Abbiamo visto che essi sono posti in azione da una originaria unità. Una tale unità, indissolubile nella separazione, si lascia pensare soltanto come voluta. Soltanto una volontà, in vista dello scopo, può volere anche i mezzi, rendendo in una certa misura scopo anche ciò che scopo non è. La volontà è assolutamente indissolubile e solo essa è in grado di mantenere la contraddizione sino alla conciliazione. La volontà di Dio pone il processo e lo mantiene per porsi nell’essere. Dio è la pura essenza e la pura libertà da ogni essere. Ma per porsi come tale, deve assumere un essere, dopo il toglimento del quale Egli può presentarsi

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Invito alla filosofia

come il sovraessente. Una rivelazione immediata di Dio è impossibile, certo non nel senso in cui ne parla la dogmatica cristiana, la quale fa comunque riferimento a una rivelazione che potrebbe esser considerata molto mediata. Ci si riferiva piuttosto a una rivelazione assolutamente immediata. Inizialmente, nel processo, Dio appare come ciò che è dissimile da se stesso. Questo pensiero è l’unico veramente esplicativo. Il processo del mondo è la rivelazione di Dio per contrarium, l’arcano la cui graduale spiegazione Egli ha riservato per sé. Ora quelli che prescrivono a Dio, secondo un metro umano, ciò che è degno o è indegno di Lui e coloro che, attraverso i loro concetti ridimensionati invece che elevati, dopo aver portato Dio per così dire a una dispotica dipendenza, gli negano ogni moto vitale, potrebbero trovare tali pensieri sconvenienti o offensivi. Ma il concetto di offesa è molto relativo. Il cristianesimo stesso dice di essere pietra che offende e scandalizza. Nessun filosofo può avere l’obbligo di non offendere, di accettare un impedimento che risulterebbe ancor più pesante qualora volesse rappresentarsi pensieri divini, i quali, come dice Dio stesso, sono tanto al di sopra dei pensieri umani quanto il cielo sopra la terra. La filosofia è la tensione verso la più alta sapienza, verso l’arcano del mondo. Questo dovrebbe esser contenuto da pensieri consueti? Posso dire infatti con un acuto francese: vale veramente la pena entusiasmarsi per dire delle cose comuni? Certi razionalisti, i quali tanto si occupano e preoccupano di un Dio razionale, possono ritenere non più razionale un Dio che come un virtuoso si procuri delle difficoltà. Insieme a Hamann posso qui obiettare: Dio è un genio e non si cura di quel che gente di quel tipo chiama razionale o irrazionale. Diversi anni fa ho scritto sull’album amicorum di un francese gentile e di buon cuore, il quale era in segreto ateo (siete troppo giovani per ricordare persone di questo genere. L’atmosfera in Francia oggi è molto cambiata, gli scritti degli enciclopedisti non trovano più alcun lettore, anche se si stampano ancora migliaia di esemplari per contrabbandarli in Italia, Spagna e Portogallo, dove vengono letteralmente divorati), ho scritto, dicevo, queste parole: «il mondo è l’esistenza di Dio messa in dubbio da Dio stesso. Egli è dilettato da uomini che si lasciano sviare e coloro che lo negano, per il piacere che gli preparano, possono certo sperare nel perdono. La natura è

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l’esistenza di Dio sospesa, finché essa non si ristabilisce nella sua essenza, nella coscienza umana». Se la filosofia deve aver riguardo per qualcosa, questo sarà solo la religione pubblica, non la religione privata. Pertanto solo la religione pubblica può a sua volta accordarle protezione. Nessuno può pretendere che la filosofia sia meno offensiva del cristianesimo stesso. Il concetto di una rivelazione per contrarium o di una contraffazione divina è così poco scandaloso che, lo confesso, senza questa presupposizione l’intero cristianesimo risulterebbe inintelligibile. Il cristianesimo, come dice l’Apostolo, riposa su un piano taciuto da tempi eterni. L’apparizione di Cristo è il primo svelarsi di questo piano. Essa porge la chiave per la spiegazione del piano del mondo, il quale è stato rivelato non tanto attraverso la dottrina di Cristo, quanto piuttosto dalla sua stessa apparizione. In questo piano consiste la divina economia del mondo. Agire kat’oijkonoμivan infatti non significa altro che fare, secondo l’apparenza, qualcosa di diverso rispetto a quel che si ha intenzione di fare. Viene detto di Dio che Egli si contraffà finché cerca di esprimere la propria intenzione attraverso il contrario. Ma questa divina economia noi non potremmo conoscerla, se Dio perseguisse una eterna riconciliazione, se l’intera creazione fosse soltanto una grande riconciliazione. E la libertà di Dio non viene affatto tolta, niente può impedirgli di lasciar irrompere a tratti il fuoco della sua collera. All’invertito, Dio apparirà invertito; Egli infatti non può apparirgli un nulla. Ma anche di fronte al devoto Dio può contraffarsi. Mi servo di un’espressione orientale dicendo che Dio può contraffarsi anche di fronte a colui che percorre le sue vie. Un’espressione che è tuttavia diffusa in tutta l’antichità. Già Pindaro dice di un vincitore dei giochi olimpici, che egli ha percorso la via di Zeus. Così anche Platone parla di vie che Dio percorre. Weg (via) e Bewegung (movimento) sono parole connesse per il significato e per l’etimo. Le vie divine non indicano altro che il movimento divino. Chi agisce contrariamente a questo movimento, cammina in senso contrario rispetto a Dio, il quale può però contraffarsi anche di fronte a chi cammina con Lui, per metterlo alla prova. Ma come può la volontà devota essere messa alla prova se non rendendo più facile la decisione opposta? Non mostra già l’esperienza che Dio pone montagne sulla via del buono, mentre spiana la strada al malvagio? Non bisogna lasciarsi

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ingannare dall’apparenza del corso del mondo, non si deve prenderlo per l’intenzione. Se una grandezza terrena si accresce in un modo che non ha precedenti e poi sparisce improvvisamente senza lasciar traccia, anche uno sciocco potrà capire che il divino governo del mondo persegue scopi sconosciuti, umiliando l’intelletto degli intelligenti. Se però la libertà di Dio è riconosciuta già nel corso del governo del mondo, quale difficoltà ancora si oppone a una spiegazione dell’intera creazione del mondo? Non è forse commisurato all’uniformità delle vie di Dio, che la prima azione riposi sulla decisione di rivelarsi mediatamente attraverso il contrario? Il concetto di una divina contraffazione non ha dunque assolutamente nulla di offensivo. Colui che avrebbe potuto rimaner nascosto è anche in grado di uscire e presentarsi liberamente, affinché si renda visibile e afferrabile come il divenuto. Per questo Platone lo chiama la divinità incapace di stare, alla quale appartiene propriamente non il rimanere in quel primo proposito, ma generare piuttosto se stessa e rendersi consapevole del processo. Ora l’estroversione della verità posta nel proposito divino può esser chiamata universio = conversione di quell’unità che è voluta ed è nell’intenzione di Dio. Nella non-unità Dio resta comunque inafferrato, intatto, non in quanto quarto al di fuori delle potenze, ma piuttosto in esse, senza però essere esse stesse nella loro inversione. Egli è la causa che rimane in esse. Nella loro separazione le potenze non possono essere chiamate Dio, e tuttavia non sono un niente. Esse sono pure essenze spirituali, non posso qui evitare di dichiararle personalità. Sono vere personalità viventi, di modo che ciascuna è disposta contro l’altra e un’unica coscienza è affetta da esse. Non si tratta però di personalità divine nel senso del dogma, sono piuttosto paragonabili agli Elohim che si consultano nella creazione. Le potenze sono personalità e non sarebbe neppure corretto non chiamarle affatto «Dio». Esse sono Dio, ma nell’inversione. Anche secondo la possibilità sono comunque Dio. Dio è infatti ciò che si genera in esse. Ma di questo, qui non si può ancora parlare. Il principio della divina involontà = A², la vera essenza di Dio, è soltanto posto fuori dalla sua divinità, ed essendo appunto solo sospeso, può alla fine restaurarsi nella propria divinità. Avendo determinato fin qui le potenze come personalità, vorrei ancora far notare che si sbaglierebbe di molto

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se si volesse vedere il primo principio = B come materiale. Questo principio, nella successione, viene infatti determinato attraverso A² alla realizzazione della materialità. Ma all’inizio esso non è affatto natura, a sé è piuttosto l’opposto di ogni natura, ciò che è contrario alla creatura. In virtù di questo principio non ci sarebbe alcuna natura, poiché esso è puramente spirituale e contraddice ogni natura. Si tratta, come si esprime Eraclito, di un fuoco che si consuma, il quale, solo se smorzato, permette un mondo. Questo principio, in quanto privo di ritorno su se stesso, non è una personalità, ma lo diventa nel processo. Finora abbiamo dunque trovato che: (1) Dio dall’eternità, cioè da dove Egli è, è la possibilità di realizzarsi in quelle tre distinzioni delle potenze che prima sono del tutto in Lui. (2) La divina volontà di essere deve indirizzarsi a essere in una tale mediazione. Ma qui sorge la domanda: in che modo Dio viene determinato a portare effettivamente a compimento questa volontà, o comunque originariamente a concepirla? Se noi consideriamo tutto quel processo come un’autorivelazione o un’autogenerazione di Dio, come una teogonia dunque, non possiamo fare a meno di chiederci per chi questa rivelazione dovrebbe essere. Certo non per se stesso, Egli non ha infatti bisogno di procurarsi un riflesso e, in tal caso, la rivelazione sarebbe da ogni punto di vista un gioco senza scopo. Se essa dunque non è per Dio stesso, sarà per un altro non ancora presente, ma futuro. Non serve dire che questo non-essente è la creatura. Siamo dunque arrivati al punto in cui bisogna mostrare se l’esigenza di comprendere il mondo non come emanazione di Dio, ma come libera produzione possa essere soddisfatta o meno. Lezione XXX Il concetto della creazione è il vero scopo di una filosofia positiva. Le varie filosofie artificiali che si sono sinora succedute sono solo servite da pretesto per aggirare questo vero compito della filosofia. Esse non sono state che dei surrogati dei quali ci si è accontentati perché ciò che avrebbe dovuto essere propriamente l’oggetto del volere, e che talvolta forse è stato anche voluto, veniva comunque considerato irrag-

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giungibile. Tali filosofie imponevano alla ragione un peso, del quale, nella vita, si tentava di disfarsi il più rapidamente possibile. O dov’è una filosofia che passata dalla scuola nella vita, potrebbe affermarsi nella vita? La ragione non poteva non tentare di salvarsi dai tormenti della sostanzialità. Colui che abbia una volta gustato un più alto conoscere nel comprendere il mondo attraverso una libera causa non tornerà mai più nelle angustie dei sistemi razionali, non si farà mai più dare pietre al posto del pane. Ora al concetto della libera creazione appartiene innanzitutto che Dio non sia legato a nulla, cioè ad alcuna potenza preesistente. Perdono ormai ogni significato i sotterfugi che si vogliono utilizzare dicendo che il concetto di una creazione dal nulla è formato a partire dal μh; o]n dei Greci, così che Dio, nella creazione, semplicemente innalza all’essere un non-essente, il quale quindi non necessariamente non è. Ogni potenza è tuttavia solo relativamente non-essente, non è in assoluto un niente. La lingua tedesca ha per il niente solo un’espressione, mentre la lingua francese indica con rien il niente in senso proprio, e con néant il niente che sta di fronte al concreto. Ora entrambi possono essere detti di una creazione dal niente, il materiale immediato della creazione del mondo è infatti anche il néant contrapposto all’essere concreto. Noi abbiamo descritto l’essere privo di misura e di limiti come un essere privo di potere su di sé, il quale diventa reale soltanto quando viene prodotto in esso il non-essere. La creazione comprende in sé due momenti. Nel primo si trova l’essere illimitato, cosicché non la potenza precede l’essere, ma l’essere la potenza. Soltanto interiorizzandosi, l’essere privo di limiti diviene potente su se stesso. Solo attraverso la negazione, nel secondo momento, può possedersi. Per questo, anche nella vita comune, si dice che Dio punisce coloro che ama. Solo con questa punizione limitante l’uomo viene ridato a se stesso. Per questa ragione la punizione è un mezzo così necessario per un sé migliore e la vera amicizia è di così alto valore perché essa diviene un mezzo per non disperdersi, per tornare in se stessi, per riaversi. Solo una tale flessione può condurre alla teo­ria di una filosofia positiva. Chi certo fin dal principio spiega la creazione come un miracolo incomprensibile ha rinunciato a ogni diritto alla filosofia oggettiva e può soltanto gettarsi tra le braccia del sistema dell’assoluto nonsapere. La teo­ria della creazione richiede necessariamente una

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Lezione XXX

spiegazione di come nel prodotto sia possibile un movimento indipendente dal producente. Il problema è risolto attraverso i momenti della creazione. Il primo principio del processo – voglio ancora chiamarlo, invece che personalità, principio – non è posto per rimanere, ma per esser riposto nel niente da quella volontà che esso stesso aveva negato, ora a sua volta negante. Tale primo principio è a sé certo = B, ma attraverso il secondo principio viene posto come soggettivo = A, cosicché ora da due poteri nasce un terzo principio, il quale non è né meramente A né meramente B. In questo vibrare, vacillare tra A e B si trova il primo inizio della creatura, l’ei\nai kai; μh; ei\nai di Ippocrate. Il tremare, l’oscillare, l’esser sempre cangiante e mobile per il più lieve soffio è il proprio di ogni creato, il quale sta nel mezzo tra due potenze efficienti. Certamente è qui che il dualismo della natura ha la sua radice. Ogni fenomeno della vita nasce dalla contesa di un movimento che va verso l’esterno e verso l’interno. La prima vita si annuncia come fremito nell’ago magnetico, nelle tremelle, nella gelatina animale. L’essere diviene per sé stante soltanto se viene prodotto A. Solo in tal modo infatti è dato a se stesso. Riuscirà tuttavia a ottenersi completamente soltanto nella coscienza umana. Allorché questo terzo dei due viene posto, diviene indipendente da entrambi e il divenuto si rapporta a essi come legame comune, e certo, in quanto legame divenuto indipendente da entrambi, come un mobile, libero legame. Tutto ciò che è creatura è originariamente soltanto un qualcosa che è sfuggito al B. Solo grazie alla potenza che così si produce la creatura non è più afferrabile dal fuoco del cieco essere. Un tale essere-scampato esprime anche la parola greca sw'μa, la quale sicuramente deriva da swvzein, in modo che sw'sμa = swzovμeno" = salvato. Questo è il fondamento di ogni movimento, come è ancora visibile nel movimento originario dei corpi celesti, i quali tutti si muovono in una mano invisibile. Come dovrà apparire assurdo allora voler rappresentare la natura come una caduta dall’idea divina! Non è forse questo prodursi della natura ciò che è voluto da Dio stesso? E secondo quella visione, poiché la graduale successione delle cose riposa solo sul grado di liberazione delle cose dalla volontà che tutto consuma, propria la più perfetta delle cose non dovrebbe apparire allora come la più colpevole? Ma quel divenire per sé stante di ciò che è creato può essere pensato anche nel seguente modo. Essendo B, che a sé

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è sempre B, grazie alla seconda potenza posto in quanto A, il divenuto che ne segue è, nella misura in cui è A, un che di separato dal mero B. Ne nasce così una articolazione in B, la quale ha rispetto a questo un libero movimento, come la parte articolata di un arto. Il profondo segreto dell’articolazione nell’organismo si lascia effettivamente spiegare solo in questo modo. Dell’espressione «articolazione» ci serviamo anche in riferimento alla lingua, e in questo senso avevo in precedenza già detto che l’oscuro e inintelligibile di quell’essere obiettivo della divinità dipende dal suo essere mera consonante senza vocale. La creazione è il dire quell’essere indicibile, e quindi, con una metonimia, potrebbe anche esser chiamata «parola». Così del resto è stata effettivamente già chiamata da Filone o nel Nuovo Testamento. Finora abbiamo sempre parlato soltanto di due principi, il primo dei quali può esser detto in accordo con Aristotele causa primitiva, che precede cioè l’inizio effettivo. Essa è la volontà che è oggetto del superamento, ovvero la causa che non può non essere, conditio sine qua non del processo. Il secondo principio è invece la causa creatrice, la volontà che supera. Ma per produrre la molteplicità delle cose, questo superamento non può accadere istantaneamente, esso deve piuttosto accadere in maniera graduale. Chiarirò in seguito in maniera più precisa l’assunto di un graduale superamento. Qui è già sufficiente l’aver richiamato l’attenzione su di esso in generale. Ora, se il superamento è graduale, le cose si trovano nel mezzo, tra il primo momento della più esterna tensione e l’ultimo. Il fine ultimo di tutto il movimento è l’unità, la quale viene prodotta soltanto quando la prima volontà è del tutto superata e riportata nell’interiorità arrivando così a porre il terzo. In questa ultima unità è tolta la prima universio. Ciò che nel processo è più nascosto in questo modo riemerge e si mostra, si rivela. Ma, essendo tale unità soltanto la fine del processo, potrebbe sembrare che la terza potenza possa fare il suo ingresso solo alla fine del processo. A ciò si può obiettare che, poiché quella unità è scopo dell’intero processo, essa deve essere anche scopo dei singoli momenti, cosicché il terzo in un qualche modo è comunque posto in ciascun momento. Affinché nasca un intero devono concorrere le tre potenze, solo in tal modo nascono nel processo forme che sono, più o meno, raffigurazioni della più alta unità, in una parola, cose. Non ci sarebbe alcuna cosa se la terza potenza

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Lezione XXX

non fosse affatto. Le cose sono infatti qualcosa di conchiuso e finito. Esse sono dunque produzioni della volontà conversa nel suo niente originario, ma non meno lo sono della volontà superante e, poiché la prima volontà non può essere superata senza porre la terza potenza, anche della più alta, terza potenza. Proprio questa espressione della più alta potenza è ciò per cui le cose sono. Proprio questa espressione della più alta causa è ciò che possiamo chiamare l’idea delle cose. Ma non basta mostrare che il processo riposa su un continuo superamento del primo principio. Si deve anche dar ragione dell’indugiare del processo su diversi gradi, ovvero del prodursi di cose determinate. E in effetti la domanda su come le cose stiano richiede una risposta certo non più agevole di quella richiesta dalla domanda sulla loro provenienza. Andremo ora a conoscere la causa ultima del restare delle cose. La vera causa del divenire è quella terza potenza che, avendo noi chiamato la prima causa primitiva o preinizio e la seconda causa creatrice o producente (dhμiourgikhv), può ora esser detta causa perfettiva o finale, aijtiva teleutikhv. Poiché il primo principio, in un certo modo e in una certa misura, viene superato in ogni cosa, esso è costantemente causa della terza potenza. Una e una sola è la causa dalla quale, per mezzo della quale e verso la quale tutto è creato. Già Varrone tentò di ricondurre l’intera dottrina degli dei a questa triav" di concetti. In tal senso egli parla di un de quo, a quo et secundum quod, l’ultimo dei quali significa modello e prefigurazione. Nulla può essere portato a stare, cioè prodotto in uno stato, che non sia l’impressa effigie dello Spirito. In ogni cosa la triplicità è necessariamente compiuta. Questo concetto è stato anche così espresso: Deus omnia pondere, numero et mensura constituit, dove il peso significa il primo principio, il numero il secondo (la molteplicità) e la misura lo Spirito, il quale soltanto rende le cose partecipi dell’ultima mensura. Una delle immagini più antiche attraverso cui si è tentato di rendersi comprensibile la creazione è certo anche l’immagine del tessere. Goethe l’ha per primo reintrodotta, seguendo il suo giusto sentire. L’interiore di ogni cosa corporea è incontestabilmente un tessuto, in cui innanzitutto ci sono i fili distesi secondo la lunghezza (ordito), poi quelli trasversali (trama), e infine il compenetrarsi di entrambi. In ogni possibile cosa, per quanto essa possa esser lontana dalla più alta unità, è comunque posta in un certo modo l’unità, e

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dunque v’è presente Dio. L’unità spirituale delle tre cause è certo soltanto Dio, la causa causarum dei pitagorici. La volontà nella quale le tre cause possono essere uno può solo essere immediatamente la volontà divina, nessuna cosa esiste infatti senza la volontà divina. Egli parla e la cosa sta. Cioè essa resta, e non, come è stato falsamente interpretato, viene a esserci. L’ardita espressione di Spinoza, secondo la quale ogni cosa è un dio modificato, è certo condannabile se si considerano le cose come modificazioni dell’essenza propriamente divina, se, dunque, cosa e modificazione sono poste in questo senso come identiche; è invece del tutto vera, se si intende che in ciascuna cosa, in un certo modo, è comunque posta l’unità delle tre potenze. Le potenze, del resto, sono il Dio inverso, cioè Dio compreso nel divenire, e in questa relazione si può ben dire che ogni cosa è una modificazione del Dio compreso nel divenire, esse sono differenze. Se si vuol legare un senso a quell’espressione, non la si deve comprendere con concetti comuni. Nel momento in cui si stabilisce l’unità, un bagliore, per così dire, percorre l’intero. Ogni cosa nascente è un’immagine luminosa, un apparente fenomeno della divinità, ei]dwlon. Solo l’ultima cosa sarà la sua immagine propria. Dopo aver chiarito fin qui il processo della nascita, verremo la prossima volta alla nascita del quarto. Lezione XXXI Nel corso delle precedenti osservazioni, il terzo, in quanto è il divenuto tra due potenze spirituali, è pervenuto al quarto, il quale riunisce le tre potenze spirituali e le mantiene separate. Si racconta di un giuramento dei pitagorici – ritenuto apocrifo per delle ragioni insufficienti – in conseguenza del quale essi rafforzavano la loro asserzione con queste parole: «nel quattro sacro alla nostra anima, fonte della natura che eterna fluisce». Già in precedenza ci siamo trovati d’accordo nei nostri concetti con i pitagorici e anche qui non potevamo tralasciare gli antichi amici. In quel giuramento si esprime chiaramente la conoscenza della tetrade come sacra visione. Ma cosa è più mobile di quella inesauribile fonte di un eterno esser-altro? A ragione possiamo osservare questo quattro come il pa'n. Dio non è tutto e dunque non pa'n. Egli è il tutt’unico, ma a quel quattro hanno contribuito

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Lezione XXXI

tutte le potenze. Il pa'n stesso tuttavia è conchiuso in Dio ed è dunque un finito. Come può infatti qualcosa che continua a estendersi in maniera insensata essere un kovsμo", il supremo ornamento, la suprema perfezione? Come deve apparire oscuro ciò nelle teste di coloro che dopo Kant non hanno avuto remore ad affermare che la ragione, interrogandosi sulla finita perfezione del pa'n, entra necessariamente in contraddizione! Guai a quella filosofia che non si è ancora sollevata al di sopra dell’antinomia per cui il mondo è limitato e illimitato. In effetti in quella affermazione di Kant io non posso vedere nient’altro che l’opposizione a noi ben nota tra filosofia negativa e filosofia positiva. Lasciar procedere il mondo nel senza fine è una mancanza di affermazione. Affermare che non c’è alcun limite significa non affermare e dunque affermare il nulla. Porre un limite e mostrarlo, questa è un’affermazione, alla quale appartiene ben più del non porre un limite. Un limite può essere posto solo actu, dunque con volontà. Colpisce che Kant rappresenti questa contraddizione come unica, propria della sola cosmologia, mentre essa si trova in tutte le idee, sia teologiche che psicologiche. La contraddizione tra la connessione causale e l’idea psicologica della libertà, tra la libertà di Dio e la necessità, è la stessa contraddizione che si dà tra limitatezza e illimitatezza del mondo. La vera ragione, non quella che è presente negli uomini solo potentialiter, ma quella giunta nel suo luogo, vede che il pa'n deve essere concluso, poiché è kovsμo", ancor più precisamente, poiché esso nasce, per così dire come un quarto, dall’azione congiunta dei tre soggetti originari. Anche in questa conclusione siamo in accordo con i Pitagorici, i quali dicevano del pa'n che è compreso, custodito da Dio w{sper ejn froura'/, dunque che esso è nell’originaria chiusura divina. Come il supremo dappertutto si raccoglie, per quanto possa essere diviso nel tempo e nello spazio, così anche qui si ritrova unito. Ciò a cui si riferiscono i Pitagorici parlando di una divina custodia, non è nient’altro che la protezione di cui si parla nell’Antico Testamento. Come potrebbe non dare protezione colui per il quale il mondo sta come mobile ago della bilancia? Vi comunico volentieri queste conclusioni, la filosofia viene esposta infatti anche per la vita. Vorrei che ne possiate trarre convinzioni coerenti, delle quali ora si ha così tanto bisogno. Si prepara una crisi come il mondo non ha mai visto prima. Vorrei preservarvi da quella filosofia debole

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e indecisa e offrirvi conclusioni che siano un balsamo per il cuore umano. Troppo a lungo si è tenuto Dio lontano dal mondo, a malapena ancora si conosceva la rappresentazione di una Provvidenza generale e speciale, anzi si riteneva addirittura impossibile portarla in accordo con la filosofia. Se il mondo è per Dio qualcosa di assolutamente esterno, allora il suo rapporto con esso è meramente meccanico, la sua azione su di esso soltanto un’azione meccanica. L’argomento principale contro ogni provvidenza si trova nell’azione meccanica di Dio sul mondo. La cosa sta ben altrimenti se Dio custodisce il mondo nel suo interno, o, come dice Goethe in maniera così bella: «non è proprio di Dio conchiudere il mondo solo dall’esterno e farlo ruotare sulle dita. Ma muoverlo nell’interno, solo questo è degno di Dio, cosicché a quel che in Lui s’agita, vive ed è, mai mancherà il suo Spirito». Se si vuol chiamare un tale sistema panteismo, non solo non respingo questo nome, ma sono fiero di aver aggiunto la vocale a quel che Spinoza profondamente sentiva sebbene fosse a lui stesso non ancora intellegibile: omnia quae sunt in deo sunt. Ma non abbiamo ancora del tutto giustificato il nostro presupposto. Resta come obiezione che l’intero processo non abbia alcuno scopo, che esso non debba porsi necessariamente. Ma se l’intero processo consiste solo nella volontà divina, e solo grazie a questa volontà può esser posto fuori di essa ciò che dovrebbe nascere, allora è possibile osservare che quella graduale successione del divenire può esser voluta solo nella volontà divina e solo a causa di quel che dovrebbe divenire. Se il primo volere, il quale contrasta ogni natura, venisse istantaneamente superato dal secondo, senza lasciar traccia, e il primo divenisse così del tutto latente, allora non ci sarebbe alcuna possibilità di distinguere se quel che è posto a fondamento fosse già ovunque soltanto latente o se sia stato in effetti riportato indietro dall’esteriorità. Dio vuole essere il Signore e la graduale successione è necessaria affinché appaia che ciò che è superato sia stato superato con volontà propria. Dobbiamo osservare che quel principio è lo uJpokeivμenon del processo e, attraverso tutto il processo, è sempre lo stesso quel che assume in sé e conserva tutti i momenti posti nel corso del processo, in modo che in ogni successivo il precedente, sebbene conservato in quanto passato, non venga perduto. Quel principio è inoltre determinato, con l’intera pienezza della scienza ottenuta attraverso

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il processo, a giungere in un’ultima coscienza. Questa può essere soltanto la coscienza umana, la quale, essendo dotata della scienza dell’intera via, deve abbracciare in sé l’unità così che il creatore possa effettivamente crescere ed educare in essa un consciente della propria via. È naturale che la coscienza umana non si rapporti subito in questo modo alla creazione, soltanto attraverso la filosofia essa arriva a conoscere quei momenti come momenti del suo proprio divenire. Inizialmente la coscienza li conosce solo come momenti di un altro ed estraneo. Ora alla domanda su come l’uomo arrivi a questa conoscenza, qui non si può ancora rispondere. Ma è tuttavia già chiaro che proprio quel primo principio è anche, nel processo, il propriamente conoscente, quel che propriamente sa. Infatti poiché è riportato nel non-essere, nell’essere che non è più instante, obiettivo, esso è divenuto il soggettivo, ovvero conoscente del processo. Anche in questo, nel vedere il primo soggettivo dell’intero processo come sapiente, l’antichità ci ha preceduti. Come una fresca rugiada mattutina questa visione scende dolcemente sull’Antico Testamento. Un antico libro testamentario lascia dire in questo senso alla Sapienza: «Il Signore aveva me all’inizio delle sue vie», cum eo progreditur. La Sapienza è dunque posta come il prius. Ma allo stesso tempo essa descrive se stessa come produzione della creazione nel suo procedere. Dice: «Io sono prima di tutte le opere. Prima che il cielo e la terra furono creati, io ero presso di Lui. Ero presso di Lui come bambina e giocavo davanti a Lui giorno e notte.» Ma si vorrebbe forse chiedere: come è possibile riferire ciò che qui vien detto della Sapienza a quel primo volere? Non sono forse volere e sapienza dei concetti del tutto distinti? A questa domanda abbiamo già risposto. Quel cieco principio, a sé, certo non è il sapiente. Tuttavia esso è ciò che dovrebbe essere mutato nel sapere. Qui vale quel che vale per le spiegazioni della mitologia, che cioè il principio viene nominato secondo quanto esso è alla fine. Accade la stessa cosa con la ragione. Chiamiamo infatti ragione effettiva, reale, solo la ragione posta nel suo giusto luogo. La ragione a sé è solo ragione potenziale, dunque possibile ragione e non-ragione. E gli effetti dell’irragionevolezza sono a noi ben noti nella scienza e in tutte le azioni umane. Faccio questa osservazione in riferimento a coloro che si attribuiscono una ragione a priori. Dopo queste considerazioni non può più apparire strano porre il cieco

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volere come sapienza. Il cieco volere diviene infatti intelletto, sebbene in precedenza fosse ciò che è privo di intelletto. Ora l’intelletto effettivo mostra la propria forza, il proprio potere su ciò che è privo di intelletto. Se si chiede per che cosa la stupidità si distingue dalla pazzia, si può rispondere che la stupidità è uno stato in cui l’anima è esclusa da ogni pazzia. La pazzia a sé e per sé non è niente di cattivo, ma deve essere regolata. Di qui il furor dei poe­ti presso i Romani e la μaniva presso i Greci. L’energia dell’intelletto si mostra solo in quel che è privo di intelletto. Il più alto intelletto ha a fondamento la più profonda pazzia, certo come il nascosto. Sono note le parole di Aristotele: all’intelletto viene opposto il volere, e a ragione, se per volere si intende il volere senza limiti ovvero quel che è privo di intelletto. Il volere riportato indietro è invece eo ipso intelletto. Il volere è il produttivo, l’intelletto è il signore e domina. Se quello è riportato indietro, in sé, allora il volere e l’intelletto sono uno e il medesimo. L’intelletto è la fine del volere sussistente, il volere l’inizio dell’intelletto, così che il volere è soggetto dell’intelletto: esso è quel che assume l’intelletto. Senza esitazione chiamo quindi il volere Vorstand (pre-posizione) della vita divina. Il prius è dunque uguale al suo Verstand (intelletto). A conferma dell’affinità etimologica si può far riferimento anche alle parole Unversehen e Unvorsehen (imprevisto). Ma Verstand = Urstand (stato originario), cosicché quel primo può anche esser chiamato stato originario del processo, del movimento divino. Una volta divenuto del tutto interno, esso sarà l’effettivo soggetto (Unterstand) del movimento divino, così come in anglosassone l’intelletto di una cosa non è che il divenuto in essa sostanza sussistente. Approfitto dell’occasione per osservare che con il greco ejpivstaμai = io so, le cose stanno allo stesso modo. Esso non è altro che la forma ionica per ejfivstaμai, che significa «io mi arresto», così come l’intelletto, in quanto ultimo del processo del mondo, è giunto a star fermo. ∆Efivstaμai significa anche «ottengo potere, forza», poiché ciò che è divenuto soggetto rispetto a un altro, ha potere su di esso. Scientia, come dice Bacone, est potentia. Il nostro tedesco können significa anche sapere, così come in ebraico il sapere è identificato con l’aver potere. Vorrei concludere con alcune osservazioni sul passo dell’Antico Testamento prima introdotto. La Sapienza, come è facile vedere, viene ben distinta da Dio: «Il Signore», si

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Lezione XXXII

dice, «la aveva». Di conseguenza Egli non è Lei. Dio è certo anche il primo soggetto, ma Egli va subito oltre: «Egli l’aveva già all’inizio della sua via», come possibilità di porre in essa tutto, e certo «prima di tutte le opere», poiché essa era la possibilità della loro futura produzione. La creazione inizia col porre a fondamento questo principio. Il discorso infatti subito prosegue in questo modo: «Io ero presso di Lui prima che creasse il cielo, ecc.» E poi: «Io ero presso di Lui come bambina», per così dire sotto la tutela del Padre, come conchiusa dalle tre personalità. Possiamo anche spiegarla come pollone, nel quale Egli voleva far crescere ed educare il consciente della propria creazione. Per questo si dice anche: «Io giocavo davanti a Lui giorno per giorno», cioè gli mostravo tutte le possibilità della creazione, l’onnipotenza, come, si potrebbe dire, la Maja degli indiani. Il fondamento della graduale successione si trova unicamente nell’intenzione di mutare il primo soggetto nel conoscente generale, nel quale tutti i momenti della creazione devono infine riunirsi. Questo soggetto generale, che ha sopportato tutte le delizie e i dolori, doveva essere il principio della coscienza umana. 121

Lezione XXXII Il necessario esito del processo è che le tre forme si tolgano nella loro opposizione e producano insieme un quarto, che è nella maniera del divenuto ciò che Dio è nella maniera del non-divenuto. All’inizio del processo ha luogo la più alta tensione, poiché il primo non dà alcuno spazio al secondo e il secondo al terzo. L’intenzione è però che il secondo volere superi il primo volere. Affinché questo sia possibile, è necessario che innanzitutto il primo sia superabile. Come primo momento del processo deve esser pensata la violenza esclusiva del primo volere, il quale, a sé e per sé, contrasta ogni natura. Questo stato dell’assoluta esclusività possiamo certo pensarlo soltanto come momento, e, in effetti, dobbiamo pensarlo come tale. A esso segue il momento nel quale il primo volere non è ancora superato dal secondo, sebbene sia già in generale a esso sottomesso, e quindi superabile. La seconda volontà non può realizzarsi altrimenti che attraverso il superamento della prima. La potenzialità della seconda volontà è una negazione posta in essa. Per togliere la negazione, la seconda volontà deve necessariamente togliere il


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negante esterno. Solo con questo secondo momento ha inizio il divenire. Questo momento deve esser pensato soltanto come prima materializzazione del principio originario e non già come conversione. Presuppongo che il modo in cui uso queste parole sia già noto, cosicché per «materializzarsi» non si intenda il divenir corporeo ma il farsi uJpokeivμenon = soggetto. Pongo quindi il sistema cosmico come il primo passaggio al divenir natura. Una natura nasce solo laddove quel B è già mutato e inizia a esser riportato in A, così che ne nasca quel medio tra A e B. In questo momento però, B non è stato ancora mutato, ma obnoxium tantum se secundo reddidit, e da questo non ha ancora subito alcun effetto. Che noi dobbiamo qui fermarci a un mero assoggettamento si mostra anche nell’impossibilità di ricondurre il sistema cosmico sotto un’unica categoria insieme all’ente di natura, non essendo possibile né riportarlo sotto la categoria dell’inorganico né sotto quella dell’organico. Chi accetterebbe di chiamare il sistema cosmico opera della natura, come possono esserlo per esempio i metalli? Tra il bruciare della volontà che tutto esclude dall’essere e ciò che propriamente è il processo, si trova il momento del sistema cosmico. Affinché B diventi oggetto di effettivo superamento, deve innanzitutto essere in generale superabile dalla più alta volontà. La vera scienza non può saltare alcun momento. Il fenomeno della prima soggezione è dunque il nascere del sistema cosmico. Dal che segue che il sistema cosmico, a sé, non è nulla di concreto ma, originariamente, è ancora il puro, immutato B, sebbene, per così dire, interrotto. Secondo la sua natura esso tende sempre verso il centro assoluto, mentre viene sollecitato dalla potenza più alta a ritirarsi da quel luogo. In questo modo si produce l’opposizione di centro e periferia. Ora quel primo principio da un lato tende a essere l’assolutamente escludente, dall’altro deve però riconoscere la superiorità del secondo. Da questa contraddizione nasce una distrazione e, attraverso di essa, lo spazio, il quale non è nient’altro che la forma generale del divenir fratturato di un principio in precedenza infrangibile. In ogni elemento che nasce da questa fratturazione deve mostrarsi la traccia del divenir fratturato. In ognuno di essi, B cerca effettivamente di essere il centro assoluto, ma viene costantemente posto nel luogo periferico per esso determinato. Questa forza che lega al luogo determinato è la gravità. Ma poiché B tenta costantemente di sot-

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trarsi, ne nasce un movimento che è uguale alla quiete, una mera rotazione, che, come già detto, pone costantemente B in un luogo, dal quale altrettanto costantemente esso tenta di fuggire. Questa controtensione è chiamata, in opposizione alla gravità, forza proiettiva, tangentizia o centrifuga, ma la si potrebbe chiamare altrettanto bene forza centripeta, poiché attraverso di essa B cerca di sollevarsi sopra l’essere periferico e di guadagnare di nuovo il centro assoluto. Il movimento del corpo celeste è un costante lottare per porsi come centro, il che può darsi soltanto come sollecitazione. Il processo fin qui descritto è la katabolh; tou' kovsμou, l’inizio dell’universio in senso proprio, quel che vuole affermarsi come spirituale viene qui posto come materiale. A questa che potremmo chiamare la prima universio, segue la seconda, ovvero l’universio in senso proprio, attraverso la quale ciò che non dovrebbe essere viene superato e ricacciato nell’interno, in modo da ristabilire, come rivelata, l’originaria unità. Immediatamente dopo la katabolhv inizia la creazione naturale. Se il movimento circolare era l’inizio, cioè la katabolh; tou' kovsμou, la rotazione assiale è l’inizio della creazione propriamente naturale. La nascita del sistema cosmico è il fenomeno del divenir materia della volontà B, finora puramente spirituale e ignea. Ma oltre a evitare di pensare a una qualche materia corporea, non bisogna dimenticare che quel volere diviene materia solo in relazione a un più alto volere. In se stesso esso resta spirituale, astrale. Rispetto alle cose concrete, la stella, in senso proprio, dei corpi celesti è astrale, sovracorporea. Le cose corporee, che noi incontriamo sulla superficie del nostro pianeta e sotto di essa, fin dove siamo sinora penetrati (esse potrebbero rapportarsi al raggio della terra come la punta di un ago sulla superficie di un globo si rapporta al raggio dello stesso) sono, in relazione all’astrale, qualcosa di completamente accidentale. L’astrale, il sidereo, è sovracorporeo. Quella materia relativa può essere spiegata anche nel seguente modo. È in certo modo una contraddizione che il medesimo e uno debba essere a sé attuale, ma potenziale rispetto ad altro. La soluzione della contraddizione si trova soltanto nella materia spirituale. Ma una materia spirituale sembra essere di nuovo una contraddizione, che però si risolve ricordando che questa materia è a sé spirituale e solo in opposizione ad altro materiale. Questa materia è ora il

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puro B, che in quanto tale non può arrendersi – in questo modo diventerebbe regressivo – e deve pertanto darsi a conoscere come relativo μh; o[n in opposizione a una più alta potenza. In questa pressione esso non trova per così dire altra via d’uscita che diventare quella prima materia, nella quale, interiormente, esso è puramente attuale, e, esternamente, materiale in opposizione a una più alta potenza. Essendo in sé ancora l’originario fuoco, esso cede di fronte a una più alta potenza, facendole spazio, quello spazio che in precedenza negava. Ora questi sono i due elementi a partire dai quali solitamente si cerca di spiegare ogni cosa: il fuoco interiore e quello esteriore, cioè spento = acqua. Ma quel che in questo processo è stato posto è soltanto una frattura, non ancora una effettiva alterazione dell’originario principio. Nessuna molteplicità dunque, ma soltanto spoglio, desertico e vuoto essere. Così dice anche Mosè: «In principio Dio creò il cielo e la terra, ma la terra era ancora vasta e vuota», il che non significa che la molteplicità era su di essa confusa, ma che, in generale, non v’era alcuna molteplicità. E nemmeno si può dire che la terra sia divenuta inane e vuota per la caduta degli spiriti, una interpretazione questa che si può ben lasciare a F. Schlegel e a quelli che come lui non riescono a pensare la creazione originaria senza la partecipazione di satana. Nel corpo celeste si trova ancora inalterata, sebbene infranta, la forza originaria del primo principio. Da qui l’espressione «opera delle sue mani», delle mani di Dio: le due prime potenze si trovano qui ancora in gioco. Anche nei corpi celesti in senso proprio si trova ancora questa paterna forza originaria, ma già mutata. Si aggiunge infatti una terza potenza. Da sempre è stato riconosciuto qualcosa di astrale. Anche dell’uomo si dice che viene guidato, mosso dalla sua stella. Questa stella non è altro che la forza del volere in lui. Uomini di questo genere si muovono sulla strada del loro destino, come la stella nella propria orbita. Ma quel forte volere non è il male. Una dottrina che non riconosca questo genererebbe soltanto ipocriti. Dio si serve di un tale forte volere ovunque debba accadere qualcosa di grande. La volontà astrale è stata considerata un’apparizione del mondo superiore e soltanto il sentimento di un tale volontà fu quel che spinse mondi precedenti a legare uomini di quel gene-

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re alle stelle e a connettere l’apparizione di comete con la morte di un Cesare. La nascita del sistema cosmico è solo il passaggio alla completa realizzazione della seconda potenza. La causa creatrice, la volontà che abbiamo posto = A, si realizzerà solo quando avrà superato quel primo volere. Ma la possibilità di un tale superamento è data allorché il primo volere si fa madre, mater, materia. Qui è quella katabolhv, il divenir reale del primo principio, e qui poggia il vero inizio della natura in quanto tale, la quale, già secondo il nome, non vuol dire nient’altro che nascita. Qui inizia la prima vita naturale, qui è il punto in cui la filosofia della natura potrebbe entrare, senza essenziali alterazioni, nel sistema positivo. Ho già osservato che nella natura nulla verrebbe a stabilirsi se non vi avessero posto mano le tre potenze, ma questo non ci impedisce di assumere un graduale e successivo ordine, in modo che ogni volta, in una determinata sfera, l’una sia predominante sulle altre due. Sebbene infatti B si sia reso superabile dalla più alta vita, esso non smette di opporre resistenza. Questa storia interna si lascia rappresentare soltanto come poe­tica o mitologica. Il B, quel che propriamente è l’oggetto del superamento, si comporta nel processo come vera personalità. Tutto l’obiettivo, tutte le qualità della natura presente, che appaiono ora soltanto come un sentito, erano nell’originario principio sensazioni. Il ricordo di questa storia veramente interiore l’abbiamo perso. Possiamo trovarla ancora soltanto nei momenti stabilmente rimasti. Ci ricorderemmo di quella storia immediatamente, se l’uomo non si fosse allontanato dallo stato del generale sapere, preferendo all’onnicoscienza la sua coscienza particolare. La natura, deprivata dell’onnicoscienza, è per così dire un ente acefalo. Ma se non possiamo ricordarci immediatamente di questa storia interiore, possiamo tuttavia, attraverso la continua ricerca, ricomporla esteriormente, per poi riannodarla interiormente. Che la natura sia erede di una vera storia interiore, solo divenuta per noi inintelligibile, segue già dal suo poggiare sul superamento del primo principio, il quale certo dovrebbe averne sensazione. Chi si sia sollevato al di sopra di quell’opinione, seguendo la quale la natura viene osservata soltanto come un obiettivo, senza alcun soggetto, non riterrà più possibile che la nascita delle cose avvenga in maniera così morta come suppongono coloro che lasciano discendere tutto dalla mera acqua, o da

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un concetto, dove il separarsi dei momenti non è più comprensibile. La storia della natura è la nostra storia. Pensare a una preesistenza dell’uomo, nel senso che egli è tanto antico quanto il mondo, è dunque del tutto corretto. La filosofia della natura potrebbe in effetti iniziare con le stesse parole che Enea rivolge a Didone: infandum, regina, iubes renovare dolorem. Da dove viene questo interesse dell’uomo per la natura, se non dal suo esserne partecipe? Attraverso tutte le sofferenze e le delizie, l’essenza nell’uomo ha compiuto il suo cammino con la natura, e la natura stessa si rattrista, è in lutto per l’abbandono. Tuttavia quell’essenza è ancora capace dell’identità con la natura. Senza vero soggetto la natura non si lascia assolutamente comprendere. Chi può immaginare che l’amarezza del mare, i fetidi vapori dei miasmi, siano pacifiche generazioni della natura? Non sono piuttosto frutti della tristezza, dell’angoscia e della disperazione? Certo noi ci troviamo davanti alla natura come davanti a un libro chiuso, ovvero a una storia tramontata, ma c’è comunque una grande differenza tra questa ignoranza e l’opinione secondo la quale la natura, per l’uomo, originariamente non è niente. Lezione XXXIII Nell’ultima lezione ho accennato al passaggio dall’inorganico all’organico dicendo che quel B sempre contraddice il superamento e cerca ancora, sebbene già periferico e posto come esteriore, di affermarsi nel proprio regno. Assolutamente interiore prima della katabolhv, quel principio è poi perifericamente sottomesso alla più alta potenza. Ma anche la contraddizione di questo momento finisce di nuovo in una katabolhv, i cui segni più chiari si mostrano nel processo geologico. La differenza tra questa e quella katabolhv è che in quella il B è oggetto di un possibile superamento, in questa di un superamento attuale. E a questo il B si presta poiché passa dalla sua iniziale cecità all’intelligenza. Il B offre se stesso per l’edificazione di una natura organica, la quale, senza quest’inversione di senso, mai avrebbe potuto innalzarsi. Questo processo si mostra in tutte le formazioni organiche. Che un principio possa sollevarsi all’intelletto, non può esser negato da alcuna filosofia che ponga a fondamento un principio cieco ma capace d’intelletto. A tal

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riguardo, si è espresso in maniera degna di ammirazione lo stesso Kant: il tecnicismo nell’organico non è superficialmente prodotto, ma proviene dallo stesso principio dal quale proviene la materia. Lo stesso principio che si pone come materiale pone anche questa forma. Ma poiché ciò non può accadere senza intenzione, esso deve mostrarsi come intellettivo, certo non a sé, ma attraverso la momentanea illuminazione, attraverso la più alta potenza. È uno e il medesimo, come abbiamo già detto in altri luoghi, il principio della materia e quello del nou'". La spiegazione di come questo possa accadere appartiene alla generale spiegazione dei principi. Deve apparire infine il momento in cui il B, sempre più preparato per la sede dello spirito, si senta, nell’uomo, innalzato a un volere ridato a se stesso, il momento in cui questo principio sia completamente libero, essendo stato prima passivo e non libero. Quell’essere originario giunge alla piena libertà, sebbene divenuta e non originaria. Esso perviene a un cielo creato, un cielo del non volere, della volontà libera da ogni volere. Il cielo è la libertà di una volontà che in quanto volontà senza volontà basta a se stessa. Con la fine di questo sviluppo tocchiamo uno dei più difficili problemi della filosofia, una difficoltà che è stata ritenuta finora insuperabile, cioè quella posta dalla libertà della volontà umana nell’unione con la causalità divina. La soluzione di questo problema è stata ritenuta a tal punto difficile che una filosofia precedente, per salvare quella libertà, ha lasciato che tutto fosse posto attraverso l’Io. Chi conosce a grandi linee la storia della filosofia saprà che finora nessuna filosofia è riuscita a dare una rappresentazione di come un ente del tutto posto come prodotto, possa essere signore del suo agire e muoversi. Ciò che è mero effetto può effettuare solo ciò che l’effettore ha già posto in esso. Questa difficoltà si può risolvere solo se la libertà non arriva per posizione, ma per negazione. Dio è un B posto come altro, certo non in quanto è Dio, ma in quanto appunto è B. Questa inversione procede fino alla completa conversione del B in A, il quale ora non esclude né B né A e non appartiene a nessuno di essi. Dunque è libero rispetto a entrambi. Ora in quanto questo A nel momento più alto è ciò che pone quella suprema potenza, allora v’è un quarto indipendente da ciascuna di quelle potenze, il quale è libero e di conseguenza capace di un rapporto immediato con Dio.

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La libertà non è possibile né solo grazie al primo principio, né solo grazie al secondo. Soltanto per la riunione di entrambi nasce una libera mobilità e interna indipendenza da Dio, in modo che il quarto venga a essere una seconda divinità, una libertà tanto assoluta, sebbene divenuta, quanto lo è Dio. Una vera visione della libertà umana chiarificherà anche alcuni rapporti dell’uomo con Dio. L’uomo è l’ultima creatura. In essa due personalità hanno egual parte con eguale signoria. L’ultima forza del primo principio è vinta e sulla creatura si riversa lo Spirito, attraverso il quale tutto deve essere vinto, perfettamente compiuto, nel senso in cui Maometto è detto il sigillo dei profeti. Il fine ultimo della creazione era sollevare il volere del pavnta ejnergw'n ovvero di colui penes quem erat velle a legame comune di tutto l’essere. Il rapporto dell’uomo con Dio non è dunque, come intende la comune ortodossia, meramente ideale, ma sommamente reale. L’uomo è il legame dell’unità divina ed è per questo che è così importante per Dio, cosa che certo non può che sorprendere se si osserva l’uomo nella sua bassezza e miseria. Così anche quel profeta esclama: «Signore, cosa c’è nell’uomo, perché tu ti prenda cura di lui?» Solo in questo reale rapporto trovano una spiegazione numerose ipotesi che gli uomini generalmente ammettono, per esempio quella della necessità e obbiettiva efficacia della preghiera. Anche l’eroe greco Achille prega e non v’è religione della quale la preghiera non sia essenziale parte costitutiva. A fondamento di ciò v’è chiaramente la convinzione di un reale rapporto dell’uomo con Dio. Ciò che riunisce la divinità divisa deve necessariamente esercitare un certo potere sulla divinità. Il senso della vera preghiera è rinnovare l’unità mediatrice della divinità. Una altrettanto generale convinzione la troviamo riguardo al sacrilegio. L’uomo commette sacrilegio innanzitutto contro se stesso, ma allo steso tempo rompe il legame con la divinità. Nessun illuminismo può togliere il brivido interno di un sacrilegio; questo apparirà sempre come profanazione del segreto divino, come turbamento della pace divina. Proprio laddove lo scopo, cioè la libertà divenuta, è stato raggiunto, ciò che da un lato è fine, può dall’altro divenire inizio di una nuova storia. L’uomo, che secondo la sua intima essenza è il B posto in libertà, è del tutto indipendente dal B originario. Ma la sua libertà è essa stessa, secondo la propria natura, ancora in dubbio. L’uomo è posto in libertà affinché

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attraverso la propria azione si stabilisca in questo luogo. Dunque è data in tal modo la possibilità di un nuovo movimento, potendo l’uomo rimanere in quella posizione o abbandonarla. Se egli vi sia rimasto o meno, non è qualcosa che si possa conoscere a priori. Abbiamo sin dall’inizio chiarito che la nostra filosofia è ben lontana da quella filosofia che cerca di rappresentare tutto come un necessario movimento. Noi sentiamo il nostro stato come sommamente condizionato, il sentimento di una libertà radicata si solleva contro il pensiero che dall’eternità sia stato sempre così, che il triste anello mai sarà interrotto. Si potrebbe chiedere a quella monotona filosofia che spiega tutte le determinazioni della circostanza presente come corollario del sempre essente concetto, se essa non arretri di fronte a nulla. Quella creatura, il B del tutto converso in libertà, non è rimasta nel luogo in cui era stata posta. Dio ha contato su un mondo libero, la libera volontà che doveva costituirlo era per Lui di così gran valore che ha voluto esporre la propria creazione al pericolo del sovvertimento e se stesso all’umiliazione. Tutto doveva esser posto attraverso la libertà, la conclusione della creazione doveva posare sulla libertà dell’uomo. Voglio qui introdurre la parola di un trattato ebraico, che suona così: «Guardati o uomo dallo scuotere e muovere il mio mondo!» Nell’uomo è superato il principio dell’intera natura. Quando egli lo ha attivato, è stata turbata e tolta la quiete, il sabato della creazione. Se infatti ciò che è posto a fondamento si muove, o piuttosto si solleva, ciò a fondamento del quale esso è posto deve necessariamente essere scosso. «Se tu rovini il mondo», si dice ancora in quel luogo, «non potrà ricostituirlo più nessuno». Ora l’uomo l’ha effettivamente scosso, lo mostra lo stato della natura, e quello dell’uomo a sé e in relazione alla natura. Attraverso l’uomo tutto doveva esser portato in eterna coscienza. Invece tutto è rimasto nel tempo, senza alcun progresso. Da quando l’uomo si è sottratto a quel movimento attraverso il quale una eterna consistenza doveva esser perseguita, la natura è un tutto fermo e silente, che in sé è certo ancora vivente, ma, contro la propria volontà, impegnato senza uno scopo. Laddove c’è un tempo dovrebbe esserci anche un progresso, e dove non c’è alcun progresso non dovrebbe esserci più alcun tempo. Questa è la contraddizione della natura, che essa mostra sempre lo stesso volto. Pochi uomini possono

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aver compreso rettamente questa contraddizione, sebbene tutti più o meno la sentano. A ragione disse Lessing a una donna benevola, la quale lo esortava a rallegrarsi con lei del rinverdire della natura in primavera, che egli avrebbe preferito il rosseggiare piuttosto che il rinverdire, affinché potesse darsi per una volta un cambiamento e potesse esserci qualcosa di diverso. La natura si ripete nel circolo di quelle che appunto sono apparenze. Se assolutamente non producesse nulla, sarebbe comprensibile il suo restar ferma, ma essa resta ferma pur essendo vivente nella propria radice. Sin dal tempo di questo sopravvenuto impedimento risuona l’antico lamento: «Non c’è nulla di nuovo sotto il sole; tutta l’acqua si riversa nel mare senza riempirlo; ogni nuova generazione nasce per sparire, per far posto a un’altra generazione che a sua volta sparirà». Sin da quel tempo la natura, contra la propria volontà, oujc eJkou'sa, è, come dice l’apostolo, soggetta alla vanità, si affatica e non produce nulla. Vorrei qui ricordare anche il detto secondo il quale il tempo non va al di là del mondo. Se si intende per mondo la forma dell’esistenza presente e per tempo quello che è da essa inseparabile, dunque un tempo determinato, allora quella proposizione è innegabile e ha lo stesso significato delle antiche parole: «Non c’è nulla di nuovo sotto il sole». Se si chiede: che cosa è accaduto, che cosa è stato fatto? La risposta sarà: ciò che già accadde, ciò che anche prima è stato fatto. Questo mondo non ha in sé né un vero passato, né un futuro. Se qualcosa è accaduto oppure no, è del tutto indifferente rispetto al mondo. Qualunque cosa il mondo possa tentare non riesce ad andare al di là del tempo in esso esposto. La parola Welt (mondo) viene dall’antico Währung = durata di un tempo determinato. Questo mondo è la durata di questo unico tempo. Anche in greco aijwvn significa sia mondo, sia tempo. Ciò che noi chiamiamo mondo è solo un tempo che non ha né un vero passato –  quel che passa infatti si ripropone subito in quel che segue –  né un vero futuro. Si ripete sempre quel che è già accaduto. Il mondo presente è nel futile e vano sforzo di produrre il proprio futuro o di determinarsi rispetto al passato. L’eternamente rimosso si ripresenta tra le sue mani. Ma un tempo che non può restare, né divenire passato, deve incessantemente porsi di nuovo, in una serie a + a + a ecc. La costante durata di quest’unico tempo è ciò che noi solitamente chiamiamo tempo, il quale, chia-

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ramente, è un tempo soltanto apparente e un impedimento del vero tempo. Quest’ultimo infatti è il tempo che pone a come vero passato ed è quindi uguale alla serie: a + b + c ecc. Questo vero tempo si contrappone dunque all’impedimento, mentre il tempo apparente è un trattenere, un’epoca, del vero tempo. Essendo il tempo apparente ostacolato o impedito nel porre il proprio vero futuro, esso diventa uno spazio temporale, cioè un tempo stazionario, che silenzioso ristagna. Questo è il carattere del mondo presente, anche se noi subito riconosciamo che esso non può essere assoluto, ma soltanto causato e quindi accidentale. La proposizione secondo la quale il tempo non va al di là del mondo è dunque una mera tautologia. E però – concludo per oggi il discorso con quest’ultima osservazione – è invece falsa l’affermazione per la quale il tempo assolutamente non andrebbe al di là del mondo. Con questa distinzione ho abbattuto il muro che impediva di spingersi oltre il mondo. Colui al quale manca questa conoscenza può comunque rappresentare lo stato presente come eterno. Noi abbiamo invece superato anche questa falsa eternità. 131

Lezione XXXIV Come preinizio dell’effettiva creazione abbiamo posto l’assoluta esclusività del principio cieco. Il momento nel quale B abbandona la propria esclusività e si mostra alla più alta, centrale potenza come superabile, divenendo quindi periferico, è stato riconosciuto come momento di passaggio. Infine come effettiva creazione, abbiamo posto il graduale superamento di quel principio. Nasce in questo modo una continua lotta tra i due principi, nella quale il principio cieco in una certa misura viene sempre superato e in una certa misura non viene superato. Ne scaturisce, in ogni attimo, un tempo determinato. Ogni cosa nella creazione è una lancetta nel grande orologio della natura. Tutto ha il suo tempo e solo questo dà a ciascuna cosa ciò che le è specificamente proprio. Ogni tempo segue l’altro in una continua e graduale successione. E tali sono i giorni della creazione, dei quali la Sapienza dice «giorno dopo giorno giocavo davanti a Lui», cioè gli mostrava tutte le possibilità che Egli poteva chiamare all’essere, essendo la Sapienza stessa l’onnipotenza. Giocava per terra davanti a Lui, ma la sua più dolce gioia


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era riposta nella prefigurazione dell’uomo. Il tempo della creazione è dunque soltanto un tempo del passaggio alla più alta coscienza. Se però le porte di questa coscienza le rimangono serrate, cosa può fare la natura – non potendo né smettere né spingersi sino al proprio fine – se non porre se stessa sempre di nuovo? Questa è l’origine del tempo presente, il quale genera costantemente, senza partorire qualcosa di veramente nuovo. Ma questo tempo non è il tempo vivente della creazione, né quello dell’eternità, è piuttosto un tempo chiuso tra di essi. Un noto apoftegma orientale dice di questo tempo: «esso riposa e tuttavia scorre, scorre e però continua a riposare». Scorre poiché pone sempre a + a + a…, ed è in quiete poiché resta sempre e soltanto a. La placida continuità che viene espressa con la similitudine di una corrente va intesa solo in riferimento al porsi sempre di nuovo dell’intero tempo di questo mondo = a, dunque al continuo susseguirsi dell’intero. Il tertium comparationis in questa immagine non dev’essere però cercato nella placida, continua successione delle singole parti, ma in questo: che la corrente di un fiume, come un intero, dalla sorgente sino alla foce, è in ogni attimo un’altra e tuttavia di nuovo la stessa, poiché in ogni attimo perde alla foce una parte, mentre ne assume un’altra alla sorgente. Qui va compresa quell’acuta espressione di Eraclito, secondo la quale nessuno entra due volte nello stesso fiume e nessuno due volte ne esce. La corrente è infatti in ogni attimo un’altra, ma poiché all’intera corrente segue sempre l’intera corrente, essa è in ogni attimo la stessa. Ed è secondo questo rapporto che il fluire di un fiume può essere osservato come immagine del tempo presente. L’intero tempo a segue infatti sempre all’altro a, esso è sempre lo stesso e tuttavia di nuovo non lo è. Non potevo tralasciare questa spiegazione del tempo dopo aver presentato la nascita dello spazio. La filosofia ha sempre trovato enormi difficoltà nella spiegazione del tempo. Se una metafisica innaturale fugge il tempo come il senso di colpa di una cattiva coscienza, io non potevo tralasciare la spiegazione – che mai da quella metafisica ci si potrebbe attendere – del perché il polso del tempo non batte più vivo. Noi abbiamo superato quell’opinione che chiama questo tempo determinato tempo in generale e afferma che il tempo non va al di là del mondo, esistendo il mondo solo modo quodam aeterno. Ma il vero tempo deve andare al di là del

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mondo. Quel tempo apparente è l’impedimento del vero tempo, il quale sarà allorché al tempo presente seguirà un altro tempo = b. Secondo l’originaria intenzione il mondo doveva subito penetrare in questo b, ma non l’ha fatto e ne è scaturita la continua durata di un unico tempo. Esteriormente nella viva natura tutto è placida quiete. Ogni mobilità è passata nell’uomo il quale doveva essere causa della quiete. In questo modo è posto il mondo ideale, il mondo della storia, al quale almeno per ora, volendo soltanto mostrare il fatto del sopravvenuto impedimento, non ci rivolgeremo. Finora abbiamo cercato di esporre quel fatto a partire dallo stato presente della natura. Ma lo si può illustrare anche facendo riferimento allo stato dell’uomo e al suo rapporto con la natura. Attraverso l’uomo la natura doveva trovare la propria suprema unità, ma mutandosi in una non-guida per la natura, egli l’ha costretta a costituirsi separatamente, in una vana ricerca del proprio punto d’unità. Il mondo doveva essere assunto in Dio attraverso la mediazione dell’uomo. L’uomo doveva essere il magico motore, il dio immediato della natura. Ma questa potenza egli poteva possederla – come dice l’antico documento – soltanto se non l’avesse attirata a sé, dunque soltanto nella completa perdita di sé. Ma poiché egli si sollevò nella propria individualità, quella magia scomparve. L’uomo non è più l’onniessenza, è stato cacciato dal centro ed è divenuto di fronte alla natura essenza naturale. Di qui il suo strano rapporto con la natura, al di sotto e al di sopra di essa. Ora egli deve cercare di ottenere qualcosa dalla natura con la furbizia e con l’arte o, come l’antico documento dice, col sudore della fronte. La natura non entra mai in un legame duraturo con l’uomo, insensibilmente essa lo oltrepassa. Si parla così tanto delle attrattive della natura senza conoscerle rettamente. La bellezza della natura è malinconica, la sua suprema attrattiva è nella malinconia, il cui dolce veleno l’arte antica diffonde in maniera inimitabile. Involontariamente la natura si fa bella come una sposa il cui sposo muore il giorno delle nozze. Ella è ancora lì nel suo vestito da sposa. Lo testimoniano persino quegli pseudofilosofi che tanto volentieri vorrebbero ricondurre l’uomo all’animalità. Come uno straniero l’uomo sta di fronte alla natura. Egli deve fuggire laddove questa agisce in tutta la sua forza. In conseguenza di una congiuntura strana e incomprensibile,

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ma certo non accidentale, le più antiche sedi della cultura umana dovettero divenire teatro della barbarie. Solo presso una piccola parte del genere umano, sospinta nell’alto Nord, la cultura continua ancora a prosperare. La contraddizione di questo rapporto non è meno forte di quella che si mostra nella natura a sé. Da quando l’uomo si è negato alla natura, questa è una produzione dell’inquietudine che manca della propria unità. E l’uomo ora sopporta il pesante carico che egli avrebbe facilmente mosso se fosse rimasto nel centro. Non meno che nei rapporti sinora considerati, l’impedimento di cui si parla si mostra nello stato dell’uomo per sé osservato. Nell’uomo il principio originario della natura doveva essere del tutto mutato in spirito e libertà. La vita naturale doveva essere nell’uomo la vita spirituale, cioè esserne il soggetto, così come il cerchio descritto su una lavagna è il soggetto del concetto spirituale del cerchio. In questo senso la vita naturale doveva essere anche quella spirituale. Era richiesto soltanto quell’ultimo atto volontario del B posto in libertà affinché vita spirituale e vita naturale fossero riunite in modo per sempre indissolubile. Ma invece di riunirsi, esse sono entrate in un rapporto tale da escludersi vicendevolmente. E poiché l’esigenza di quell’unificarsi persiste, non resta che vivere in successione, ogni volta in maniera esclusiva e per sé, la vita spirituale e quella naturale, e certo questa prima di quella. In effetti la vita presente è soltanto naturale, per quanto in alto l’uomo possa spingersi. La vita spirituale resta in indipendenza da quella naturale. La natura si mostra insensibile verso ogni spiritualità. La vita presente è solo la prima potenza della vita umana. Ora poiché l’uomo è creato per entrambe, egli deve morire per vivere la vita spirituale. Questa deve essere intesa come la seconda potenza dell’intera vita umana e, poiché essa è posta con l’esclusione della vita naturale, non può che essere considerata come un esserci unilaterale. La vita dopo la morte quindi non va affatto considerata come beata. Una vita meramente spirituale è per l’uomo altrettanto una privazione quanto lo sarebbe una vita unilateralmente materiale. Il cristianesimo stesso non è così sovrumano, da non vedere la morte come un’avversità e la vita dopo la morte come una privazione. Il più acuto degli apostoli dice infatti: «noi non vogliamo essere spogliati, ma essere sopravvestiti», cioè vogliamo che ciò che è mortale sia inghiottito dalla vita spirituale. Con «sopravvestirsi» l’aposto-

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Lezione XXXIV

lo intende il riunirsi della vita naturale e di quella spirituale ed è ciò che egli si augura per non dover transitare a una ulteriore vita. Mi si obietterà che se anche quella vita spirituale è una privazione, allora la sorte di tutti gli uomini è egualmente segnata, poiché tanto i buoni quanto i malvagi soffriranno allo stesso modo per questa privazione. Ammetto che entrambi soffriranno, ma in un modo del tutto diverso. Coloro infatti che durante la vita presente sono completamente affondati in essa, anche nell’altra vita, come dice Socrate in Platone, giaceranno nel fango. Il loro tormento consisterà nell’esser costretti a una vita spirituale il cui seme essi hanno soffocato in questa vita. Coloro invece che già qui, proprio come dice Socrate nel Fedone, in quel canto delle sirene che con i suoni più seducenti allontana dalla vita materiale, coloro che già qui, dunque, cercano di purificarsi dalla vita materiale, non sentiranno nella vita spirituale alcuna privazione. Voglio ancora soltanto osservare che se la vita presente e quella successiva sono in rapporto come prima e seconda potenza, dovrà necessariamente porsi un terzo periodo dell’intera vita umana. Ciò a cui stiamo accennando risulterà certo comprensibile per la persona assennata e riflessiva. In quel terzo periodo sarà tolta la separazione. Così anche questa dottrina, la quale nella consueta astrazione contiene così poco – infatti cos’è il concetto di immortalità se non il vuoto e indeterminato concetto di una continua durata, o, al massimo, del perpetuarsi della coscienza individuale? – anche questa dottrina, si diceva, nel farsi storica, ovvero essendo stata spiegata in una successione di momenti, è divenuta comprensibile e naturale. Non soltanto il perdurare, ma anche il modo della durata è un necessario corollario della nostra intera ricerca. Non voglio dire nulla delle consuete prove dell’immortalità. Tutte infatti presuppongono l’immortalità per poi renderla comprensibile attraverso mezzi esterni. La necessità di quella successiva separazione è la prova che si trova già chiara nell’uomo stesso. Ma la prova ultima è ormai soltanto questa, che sopra la natura si sollevi un secondo, nuovo mondo ideale, più ricco di sensi rispetto alla natura. Ma ora non posso inoltrarmi in esso. Devo rinviare coloro che desiderano chiarimenti al prossimo anno, durante il quale ho intenzione di spiegare quel fenomeno. In questo secon-

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do mondo la storia della natura viene ripetuta attraverso la coscienza umana. Il principio del graduale superamento ritorna a un livello superiore, in una figura innalzata (storia in senso proprio). Come nella natura questo principio è un vero Proteo, cosÏ esso si mostrerà anche nella storia sotto diverse figure, sebbene in sÊ resti costantemente lo stesso. In questo modo credo di aver trovato il filo di Arianna nella storia.


Invito alla filosofia

Invito alla filosofia

Nell’assoluta attualità dell’esistente, che precede ogni possibile concet­ tualizzazione dell’essere, risiede quel contrasto apparentemente ineli­­mi­nabile fra necessità e libertà che – in intima connessione al dissidio tra rea­lismo e idealismo – sta alla base del progetto filosofico della modernità e della crisi che ne è seguita. Un contrasto essenziale senza esperire il quale non è possibile fare filosofia – prospet­­tando le possibili vie d’usci­ ta dalle ­molteplici forme del nichili­ smo con­tem­poraneo –, e che costituisce l’at­tualità filosofica di Schel­ ling, dalla quale occorre ancora oggi prendere avvio.

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aAccademia University Press

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F. W. J. Schelling

«Certo un’esposizione dogmatica della filosofia potrebbe essere più comprensibile, ma lo scopo di chi vuole insegnare la filosofia non può mai essere quello di presentare i suoi risultati. Chi possiede i risultati, non possiede con ciò la filosofia stessa. Essi sono solo frutti colti dall’albero che marciscono tra le mani. Tra chi insegna meramente i risultati e chi invece insegna la filosofia vi è lo stesso rapporto che esiste tra chi distribuisce l’oro nella sua sostanza e chi dell’oro insegna direttamente la fabbricazione. La filosofia è la più alta alchimia spirituale. Dalle scorie produce il puro oro così come ciò che è afferrato dallo spirito del vero artista viene per così dire purificato attraverso il fuoco» (F.W.J. Schelling).

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ccademia university press

Filosofia Ontologia Schelling

€ 11,00

9

788897 523079

F.W.J. Schelling

ISBN 978-88-97523-07-9

Initia Philosophiae


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