Focus Storia Wars Vol. IV

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VOL. IV 1800-1897 DA MARENGO A KABUL

LE PIÙ GRANDI BATTAGLIE DELLA STORIA


1800-1897 IV DA MARENGO A KABUL LE PIÙ GRANDI BATTAGLIE DELLA STORIA D

all’inizio del XIX secolo, segnato dai trionfi di Napoleone e dalla sua caduta a Waterloo, passando per i moti del ’48, le vicende belliche dell’Ottocento sembrerebbero relegate ai campi di battaglia della vecchia Europa. E invece, ecco che la guerra si sposta in Oriente, verso la Crimea, approda sul suolo americano, e poi arriva a toccare terre lontane, come l’Africa e l’Afghanistan. E gli echi si sentono ancora oggi.

COPERTINA: I ARCANGEL - IV C. GIANNOPOULOS

1800 MARENGO

6

1804 TRIPOLI

10

1805 AUSTERLITZ

14

1805 TRAFALGAR

18

1805 ULMA

20

1812 BORODINO

24

1815 WATERLOO

28

1836 ALAMO

32

1848 MESSINA

36

1848 I MOTI DEL ’48 IN ITALIA

40

1848 Ia GUERRA D’INDIPENDENZA 44 1849 LA REPUBBLICA ROMANA

48

1853-1856 UNIFORMI IN CRIMEA

52

1859 SOLFERINO - S. MARTINO

58

1860 VOLTURNO

62

1860 CASTELFIDARDO

66

1860 IL BRIGANTAGGIO

70

1862 SHILOH

74

1862-1863 VIRGINIA

78

1864 ATLANTA

82

1866 LISSA

86

90

1876 LITTLE BIGHORN

1870-1871 PARIGI

94

98

1879 RORKE’S DRIFT

1879 ANGAMOS

102

1879-1883 ATACAMA

106

1882 KASSASSIN

110

1885 KHARTOUM

114

118

1897 AFGHANISTAN

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GLI SPECIALI DI FOCUS STORIA WARS N. 13

NON VENDIBILE SEPARATAMENTE DAL NUMERO DI FOCUS STORIA IN EDICOLA * PREZZO RIVISTA ESCLUSA

1800-1897 DA MARENGO A KABUL

IV


1800 MARENGO FRANCESI-AUSTRIACI

LA FORTUNA DI NAPOLEONE Nel 1796 il giovane generale era entrato in Italia con un’armata stracciona e vi si era laureato condottiero. Ci tornò valicando i monti quattro anni dopo, da Primo console, e per un pelo non perse tutto

SUL PASSO

L’armata di Napoleone sul Colle del Gran San Bernardo, il 20 maggio 1800. A destra, Il primo console varcando le Alpi, di David.

6


re valanghe prima del passaggio dell’esercito. Inoltre, l’armata marciava sempre di mattina, prima che la neve si allentasse, e i carri venivano mandati avanti solo dopo essere stati svuotati, mentre il contenuto era trasportato a dorso di mulo. Giunti al passo dopo aver percorso un ripido sentiero che si inerpicava fino a 2.188 metri, i francesi trovarono ospitalità dai monaci dell’ospizio di San Bernardo, che li rifocillarono con vino, pane e formaggio, prima che affrontassero la discesa, ben più pericolosa della salita, anche per la sua prossimità alle acque assai mosse della Dora Baltea. L’avanguardia condot-

RMN/ALINARI

INTERPHOTO/ALINARI

L’

armata di riserva partì da Martigny il 15 maggio per andare a soccorrere Genova e il fidato Massena. Procedette suddivisa in cinque colonne, che marciavano a distanza di un giorno l’una dall’altra per coprire i 40 chilometri che le separavano da Aosta. Ogni soldato aveva razioni per nove giorni e 40 cartucce, ma la vera difficoltà era costituita dal trasporto dei cannoni, perché si diceva che la parte più ripida dell’ascesa fosse impraticabile per i veicoli a ruote più pesanti. Marmont, il comandante dell’artiglieria, escogitò i sistemi più bizzarri per permettere ai suoi cannoni di superare la neve ancora alta sul Gran San Bernardo: da tronchi d’albero scavati a mo’ di abbeveratoi, entro i quali venivano posti pezzi da 8 libbre e mortai, a slitte e rulli, su cui i pezzi, una volta smontati, venivano trasportati a sezioni, e perfino barelle, sollevate da un decina di uomini ciascuna, per portare gli affusti dei pezzi da 8 libbre. Assegnò inoltre a ogni cannone un centinaio di uomini, che impiegarono due giorni per superare il valico, e ricorse all’espediente di far sparare in anticipo per provoca-


1815 WATERLOO FRANCESI-INGLESI

DUELLO PER L’EUROPA

I due più brillanti generali della loro epoca, Napoleone e Wellington, si scontrarono una sola volta: a Waterloo

28


la in grandi masse e portandola a poca distanza dalle posizioni nemiche», rimarca lo storico Alessandro Barbero, autore di un libro sulla battaglia di Waterloo. A Friedland, il 14 giugno 1807, le sue “grandi batterie” avevano messo a tacere l’artiglieria russa e poi massacrato con un mostruoso fuoco a mitraglia le colonne di fanteria che cercavano di raggiungerle. La stessa tattica utilizzata due anni dopo a Wagram: gli austriaci erano riusciti ad aprire una falla nelle linee francesi e Napoleone, per tapparla, aveva schierato di fronte alla fanteria nemica 100 cannoni. Il còrso. Bonaparte era un audace, e spesso riuscì a prendere in contropiede i nemici. Sapeva che la vittoria si ottiene aggirando il nemico e intrappolandolo in posizioni dove non può difendersi. Nel settembre del 1805, sempre combattendo gli austriaci, in soli 20 giorni fece percorrere alla sua guardia imperiale 430 chilometri, tagliando la strada alla ritirata del generale Mack, imbottigliato a Ulm. Dopo cinque giorni di tregua, 17 generali austriaci, insieme a 30mila soldati e 60 canno-

A PROVA DI CAVALLERIA

La carica dei corazzieri francesi contro i “quadrati” della fanteria britannica durante la battaglia di Waterloo (18 giugno 1815).

BRIDGEMAN/ALINARI

N

apoleone Bonaparte e Arthur Wellesley non si erano mai incontrati sul campo di battaglia, ma si conoscevano molto bene. L’imperatore francese sapeva che il duca di Wellington aveva sistematicamente battuto i suoi generali nella Campagna di Spagna, trasformando la penisola iberica in una trappola umiliante per le divisioni francesi. E il duca di Wellington non poteva non rispettare l’avversario, che aveva conquistato mezza Europa in poco più di vent’anni: “Il suo cappello da solo vale 40 mila uomini”, aveva detto di Napoleone. E probabilmente non sbagliava di molto. Talento naturale. I due generali erano molto diversi. Napoleone era un leader naturale, capace di trasformare un “esercito di straccioni” in un’armata inarrestabile. Nato come ufficiale di artiglieria, sapeva utilizzare i cannoni meglio di qualunque altro generale dell’epoca. Mentre i suoi avversari vedevano ancora l’artiglieria come un’arma statica e di appoggio alla fanteria, «Napoleone la usò in modo audace e innovativo, concentrando-


1859 SOLFERINO FRANCESI-AUSTRIACI

UOMINI AL MACELLO

Lo scontro decisivo della Seconda guerra d’indipendenza italiana (1859) fu una carneficina. Dovuta anche all’uso di armi di nuova concezione

E

ra piovuto in abbondanza, la sera del 24 giugno 1859, sulle campagne fra il Lago di Garda e Mantova, ma la mattina seguente, umida e afosa, nelle pozze e nei rigagnoli scorreva più sangue che acqua. I raggi del primo sole scioglievano i vapori e illuminavano il massacro: morti ovunque, a migliaia, feriti sventrati dalle baionette e dalla mitraglia o con gli arti spezzati dal passaggio delle ruote dei pezzi d’artiglieria, corpi spogliati e depredati dagli sciacalli. L’aria era irrespirabile a causa dei cadaveri che cominciavano a decomporsi e per le piaghe infette dei moribondi. Dialetti e lingue si sovrapponevano in lamenti e grida: italiano, piemontese, algerino, croato, austriaco, ungherese, francese... Intorno, come fantasmi, altre migliaia di uomini e donne, nobili e contadini, militari e suore, si muovevano smarriti, per prestare in qualche modo soccorso. Ogni veicolo che avesse ruote era stato trasformato in ambulanza. Nelle città vicine tutti gli ospedali si erano riempiti già durante la notte, e i sopravvissuti venivano adesso portati in case private, castelli, conventi. A quel tempo Brescia aveva 40mila abitanti, ma in poche ore erano già diventati più di 60mila, se si contavano i feriti arrivati dalle campagne: solo all’interno del duomo ne erano stati ricoverati più di mille. Il giorno precedente, 24 giugno, dall’alba al tramonto, senza un attimo di tregua, a Castiglione delle Stiviere, Cavriana, Desenzano, Guidizzolo, Lonato, Medole, Pozzolengo, Volta Mantovana... ma soprattutto a Solferino e a San Martino, si era combattuta una delle più spietate battaglie dell’intero Ottocento, quella che avrebbe di fatto concluso la Seconda guerra d’indipendenza italiana: tre eserciti (francese, piemontese, austriaco), tre sovrani (Napoleone III, Francesco Giuseppe d’Austria, Vittorio Emanuele II), circa 250mila soldati in tutto, ben 39mila dei quali sarebbero morti, feriti gravemente o dispersi. Le premesse. E dire che la battaglia era iniziata quasi per sbaglio. In quei giorni, infatti, gli eserciti erano in pieno movimento. Quello austriaco, per volere del suo comandante, il feldmaresciallo Ferencz Gyulai, dopo una serie di sconfitte subite fra maggio e giugno – Montebello, Vinzaglio, Palestro, Confienza, Magenta – e dopo che i franco-piemontesi erano entrati a Milano l’8 giugno, si era ritirato oltre il fiume Mincio, emissario del Lago di Garda. Una sorta di confine naturale: lì, all’interno del ce58

lebre quadrilatero di fortezze austroungariche (Peschiera, Mantova, Legnago, Verona) avrebbe atteso il nemico. Ma la strategia di Gyulai aveva i giorni contati; a Vienna l’indignazione per il negativo andamento del conflitto era altissima, e il malcontento popolare avrebbe presto spinto il giovane imperatore Francesco Giuseppe ad assumere direttamente il comando delle operazioni. Primo ordine: attraversare nuovamente il Mincio e tornare a ovest, fino a occupare le colline moreniche a sud del Lago di Garda, e attendere lì l’esercito avversario. Nel frattempo, però, francesi e piemontesi stavano avanzando a tappe forzate: la straordinaria efficienza del genio francese aveva ripristinato i ponti fatti saltare dagli austriaci in ritirata, e le truppe marciavano in colonne parallele verso il Mincio. A nord procedevano le quattro divisioni dei piemontesi (35mila uomini, 1.400 cavalli, 80 cannoni), più a sud i quattro corpi d’armata francesi (79mila uomini, 9mila cavalli, 240 cannoni). Paradossale però era soprattutto il fatto che franco-piemontesi e austriaci si stessero muovendo gli uni all’insaputa degli altri: nessuno si trovava dunque in ordine di battaglia, non c’erano particolari schieramenti e gli stati maggiori non avevano ancora previsto tattiche specifiche. In più, i francesi avevano fretta perché dispacci giunti a Napoleone III da Parigi, e spediti dall’imperatrice Eugenia stessa, invitavano a una rapida conclusione del conflitto in quanto di quelle truppe c’era bisogno sul fronte del Reno, dove i prussiani avevano cominciato a fare pressione. Così fino alla notte del 23 giugno gli eserciti si contrapposero quasi senza rendersene conto, ignari, lungo un fronte che si allargava fino a 20 chilometri. Le rispettive pattuglie a cavallo mandate in ricognizione si erano scontrate spesso, ma i comandi non avevano cambiato opinione: per i franco-piemontesi si trattava delle retroguardie austriache, per gli austriaci delle prime avanguardie franco-piemontesi. Invece le armate erano già lì, praticamente una di fronte all’altra. Gli studiosi le chiamano “battaglie d’incontro”, e sono le più terribili, perché bisogna affrontarsi all’improvviso, in modo caotico e violentissimo, senza che ci sia stata alcuna preparazione. Così nel giro di poche ore, dalle 4:00 alle 7:00 del mattino del 24 giugno, i francesi si trovarono di fronte alla collina di Solferino occupata dal V Corpo d’armata austriaco del maresciallo Franz von Stadion, e i piemontesi,


L’ARTE SI FA CRONACA

LESSING

L’ingresso a Solferino dei volteggiatori della Guardia imperiale e della fanteria francese in una litografia di Carlo Bossoli. L’illustratore italiano pubblicò nel 1859 The war in Italy per l’editore londinese Day & Son, raccontando agli inglesi la battaglia di Solferino anche per... immagini!


1860 VOLTURNO GARIBALDINI-BORBONE

ALL’ESAME DA GENERALE Con i suoi Mille Garibaldi partì come sapeva fare, da grande guerrigliero. Ma poi abbandonò quei panni per guidare l’azione da vero comandante. Ecco come l’Eroe dei due mondi divenne anche uno stratega, un capo militare capace di battere un esercito

“O

bbligo di re e di soldato mi impone di rammentarvi che il coraggio e il valore degenerano in brutalità e in ferocia quando non siano accompagnati dalla virtù e dal sentimento religioso. Siate dunque generosi dopo la vittoria; rispettate i prigionieri che non combattono e i feriti e prodigate loro [...] quegli aiuti che è in vostro potere di apprestare”. Povero, ingenuo Francesco II, viene da dire leggendo queste parole, belle e generose ma certo non proprio piene di furia guerriera e tali da infondere ai soldati quella feroce determinazione che spesso aiuta a combattere e vincere. Malgrado ciò il re di Napoli le inserì nel proclama che venne letto ai soldati napoletani il 30 settembre 1860, alla vigilia di quella battaglia del Volturno in cui il giovane sovrano si giocava tutto. Doveva sconfiggere Garibaldi, che impegnato nell’assedio di Capua lo fronteggiava sulla riva sinistra del fiume. Solo così avrebbe tolto a Cavour, che aveva mandato l’esercito piemontese incontro ai garibaldini, la giustificazione politica dell’intervento nello Stato Pontificio e in quel che restava del Regno delle Due Sicilie. Il primo ministro del Regno di Sardegna aveva infatti dato inizio all’invasione, senza nemmeno uno straccio di dichiarazione di guerra, sventolando sotto il naso delle cancellerie europee il pericolo di una deriva “mazziniana e rivoluzionaria” della spedizione delle Camicie rosse (nonostante le attestazioni di fedeltà alla corona sabauda che Garibaldi pronunciava in continuazione). Se però il Borbone avesse sconfitto il Generale e rafforzato con la vittoria la propria legittimità a sedere sul trono, sarebbe stato difficile continuare a sostenere una tesi del genere. Ma quel proclama, così moscio, proprio non dava l’idea della posta in gioco ai soldati napoletani che, nelle prime ore del 1° ottobre 1860, aspettavano ansiosi il momento di entrare in battaglia. E non è un caso che oggi gli storici di ispirazione neo-borbonica ravvisino nel messaggio alle truppe il primo dei molti errori di quel giorno cruciale. Ne sarebbero seguiti altri, ben più gravi. 62

Eppure la Campagna del Volturno non era cominciata male, nonostante l’altro errore, anche questo non da poco, commesso dal generale Giosuè Ritucci, comandante in capo dell’esercito napoletano, che con la propria inerzia aveva concesso a Garibaldi il tempo di rafforzarsi di fronte e intorno a Capua. Il 21 settembre, comunque, i borbonici, sfruttando un’imprudenza del generale Stefano Türr (uno dei tanti ungheresi che combattevano in camicia rossa), avevano strappato al nemico l’importante abitato di Caiazzo, punto di appoggio garibaldino sulla riva destra del fiume. Controllando tutto il corso del Volturno, i generali napoletani potevano spostare con tranquillità le proprie forze in modo da minacciare l’intero schieramento avversario, tenendolo nell’incertezza su dove sarebbe caduto l’attacco principale. Questo, unito alla superiorità in artiglieria (tra cui alcuni eccellenti cannoni rigati) e in uomini (più o meno 40 mila soldati contro i circa 21mila dell’Esercito meridionale, com’erano stati ribattezzati i Mille), dava ottime chance di vittoria. Fra monti e colline. Ma anche Garibaldi e i suoi uomini avevano qualche elemento di vantaggio dalla loro, essenzialmente la possibilità di manovrare per linee interne. I due schieramenti, che si fronteggiavano su un terreno collinoso e montuoso, avevano infatti più o meno forma semicircolare, con la convessità verso nord. Quello garibaldino, con fronte a nord, lungo una ventina di chilometri, si appoggiava a ovest agli abitati di Santa Maria Capua Vetere e San Tammaro (di fronte a Capua), a nord-ovest a Sant’Angelo (che era il punto focale dello schieramento), a nord-est a Castel Morrone (presidiato con circa 300 uomini dal maggiore Pilade Bronzetti) e a est si imperniava su Maddaloni, altro punto delicato, non per nulla affidato a Nino Bixio. “Ricordatevi che io considero Maddaloni come punto di estrema importanza: voi lo difenderete, e occorrendo, eccovi il punto dove si muore gloriosamente, conto su voi”, aveva detto Garibaldi al suo generale preferito. Se i borbonici avessero conquistato Maddaloni, avrebbero preso sul rove-


Garibaldi sulle alture di Sant’Angelo a Capua, dalle quali si vede il Volturno (in una tela di Domenico Induno del 1861, oggi al Museo del Risorgimento di Milano). Scrisse un garibaldino che durante la battaglia il Generale, al quale ammazzarono il cocchiere della carrozza, avanzò verso Sant’Angelo “con in mano la sua rivoltella a sei colpi” per incitare gli uomini.

VIOLLET/ALINARI

IN PRIMA PERSONA


1866 LISSA PIEMONTESI-AUSTRIACI

L’ONTA FINALE

Dopo l’amara sconfitta di Custoza, il neonato Regno d’Italia cercò invano in mare il suo riscatto

IL COMANDANTE PERDE LA NAVE

La corazzata Re d’Italia, già ammiraglia della flotta comandata da Carlo Pellion di Persano, affonda dopo essere stata speronata dall’ammiraglia austriaca Erzherzog Ferdinand Max.

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popolazione assistette all’epico scontro tra le due flotte che intendevano dominare l’Adriatico, quella austriaca di Wilhelm von Tegetthoff e quella italiana di Carlo Pellion di Persano. Lo scontro prese il nome di Lissa (oggi Vis) perché l’obiettivo strategico consisteva nel conquistare quell’isola, ma il combattimento navale avvenne in effetti nel canale di Lésina, ovvero il braccio di mare tra le due. E l’esito non fu di quelli da lasciar dubbi: gli italiani persero due navi (Re d’Italia e Palestro) ed ebbero 643 morti, gli austriaci nessuna nave affondata (solo il Kaiser fu gravemente danneggiato) e 34 morti; gli italiani rinunciarono alla conquista e rientrarono ad Ancona, mentre gli austriaci rimasero padroni dell’Adriatico Orientale. Ciononostante, i giornali italici parlarono di vittoria e per decenni la storiografia nazionale si rifiutò di ammettere la sconfitta. Lotta fratricida. Sono molti i punti da chiarire e i miti da sfatare su questa che fu la seconda battaglia perduta dagli italiani nella Terza guerra d’indipendenza (l’altra fu Custoza). Intanto, per alcuni aspetti, si trattò di uno scontro fratricida: c’erano

IMAGNO/ALINARI

“I

o stava sulla cima del colle [...] e la terra sentivasi tremare sotto i piedi. In breve, su tutta la linea, le navi furono avvolte da un fumo densissimo che ci avrebbe tolto la possibilità di distinguere i movimenti delle flotte, se il vento non lo avesse diradato. Lo scontro fu animato, rapido, violento, e perciò in un’ora e mezzo si decise del più vasto combattimento navale dopo l’invenzione delle navi corazzate. [...] La popolazione di Lésina era tutta uscita sui colli, per osservare la battaglia, non senza molta angoscia e molte preghiere per la vittoria della flotta imperiale, in cui trovavansi centinaia de’ nostri isolani. Veduto l’esito, grida di giubilo si levarono al cielo; tutte le chiese sonarono a festa e s’inalberò il vessillo austriaco sullo stendardo in piazza, fra il suono della nostra banda e le acclamazioni del popolo”. Questa è la cronaca della battaglia navale di Lissa come riferita da un testimone oculare e riportata da un giornale “austriaco”, ovvero la Gazzetta uffiziale di Venezia del 31 luglio 1866: dai colli dell’isola dalmata di Lésina (oggi Hvar, in Croazia) la


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