
10 minute read
Pag Giorgia, una prof al bar tra cappuccini e libri da studiare
UNA PROF. AL BAR
Advertisement
ph. Paolo Stroppa
Giorgia, ventisette anni, lavora in un bar della città e studia alla facoltà di Lettere dell’Università. La sua vita è un continuo destreggiarsi tra manuali di letteratura, cocktail e cappuccini.
“Credo fortemente nel potere della gentilezza, qualità che pare essere in via d’estinzione e mi dispiace vedere sempre più spesso comportamenti che non ne portano neanche l’ombra.
Segno zodiacale? Chi sono mamma e papà, hai fratelli o sorelle? “Sono un acquario, pare che siamo lunatici, ma non saprei confermare... dovreste chiedere al mio fidanzato! Mamma è la quarta di sette fratelli, una donna buona, troppo ingenua e grande lavoratrice. É una tifosa sfegatata dell’Atalanta; il mio bisnonno ci giocò dal 1922 al 1928, quando la società era ancora agli inizi. Papà è un omone tutto d’un pezzo, tuttavia sospetto, anzi sono certa, che ci sia un’anima davvero sensibile nascosta lì dentro. E poi arriva Giada, mia sorella minore, una peperina so tutto io; quante litigate e quanti scherzi che le ho fatto (da piccola pare fossi davvero tremenda!), ma ci siamo date manforte durante tutti questi an-ni, soprattutto quando i nostri genitori si sono separati”.
Un ricordo delle elementari... “Una volta mi beccarono a copiare durante una verifica... in quarta elementare! Ero precoce a quanto pare. La maestra non fece una piega, mi lasciò finire il compito e poi mi diede un bell’otto. Ovviamente chiesi spiegazioni, mi aspettavo un non sufficiente scritto in pennarello rosso e sottolineato con tanto di punti esclamativi. Ilaria, così si chiamava l’insegnante, mi disse che me lo meritavo perché avevo risposto in modo corretto a quasi tutte le domande. Mi vergognai terribilmente. Grazie a quel voto non meritato mi diede una lezione di vita incredibile che tutt’ora mi porto dentro”.
Primo moroso a quanti anni? “Ero credo in terza o quarta superiore. Una fine tragica. Ricordo che obbligai mio cugino a portarmi a casa di questo morosino per parlarci, non volevo mi lasciasse. Partimmo in Vespa circondati da una nebbia che si poteva tagliare con il coltello. Arrivammo fradici, ci parlai e alla fine mi lasciò comunque”.
Le scuole superiori? Amicizie e ricordi... belli e brutti “Mi porto dentro cinque anni di ricordi che tutt’ora mi fanno sorridere. Ho avuto delle amiche meravigliose... e lo sono ancora! Sicuramente mi piace ricordare come abbiamo imparato a conoscerci giorno dopo giorno e le risate che ci siamo fatte, ne combinavamo una dopo l’altra! Poi ricordo davvero con piacere il giorno in cui uscì l’esito dell’esame di maturità: presi il massimo dei voti in tutte le prove, fu davvero un sollievo e la conferma, per me stessa, che potevo dare il meglio anche in situazioni di estremo stress. Vissi malissimo la preparazione degli esami: ricordo che il giorno prima dell’orale andai in panico totale, piangevo sdraiata sui libri e sugli appunti; mia madre venne in camera mia, chiuse il manuale di storia che tenevo in mano e mi disse: ‘quel che sai, sai’ ... poi andò come andò”.
Quindi una sospensione degli studi... Perché? “Sinceramente ne ho sofferto molto, anche se non mi piace ammetterlo. In casa c’era bisogno di un aiuto economico... In poche parole bisognava andare a lavorare, e così è stato; ho fatto quello che andava fatto. Ho messo da parte i miei progetti e li ho sostituiti con un grembiule. Una cosa che fanno in tanti ed è toccata anche a me”.

Come arriviamo alla Giorgia di oggi, impiegata in un locale pubblico molto conosciuto in città e studentessa all’Università per una Laurea in Lettere? “Lavoravo già da qualche anno al bar, una notte tornai tardi dal lavoro e ricordo che non riuscivo a prendere sonno, continuavo a pensare e pensare al futuro e alla mia vita... Volevo riprendere gli studi. Mi informai immediatamente sulla burocrazia, scelta della facoltà, tasse da pagare; alla fine riuscì ad iscrivermi per un pelo”.
Due ambienti completamente diversi, devi essere un camaleonte... “Il bar è molto più informale e caciarone, si fanno i classici discorsi da bar, niente a che vedere con l’aria che si respira in Ateneo. Il primo anno di università era un andirivieni continuo tra lavoro e facoltà, il casino e la leggerezza contrapposto al silenzio e alla compostezza. Non ci capivo più nulla e infatti poi ho smesso di fare la gincana; mi sono rassegnata al fatto che non sarei riuscita a frequentare tutti i corsi. Per dare un’idea, mi sentivo, e mi sento tutt’ora, esattamente come l’elefante che dondola sopra il filo di ragnatela della canzoncina per bambini, in bilico tra scuola e lavoro; in base alla situazione penzolo più da un lato o più dall’altro”.
Sei una ragazza molto carina. Come cambia l’atteggiamento degli uomini nei tuoi confronti in Università e al Bar? “In Università a nessuno interessa se sei carina o meno, conta solo l’impegno che ci metti. Non si prendono voti più alti perché si è di bell’aspetto e tantomeno il collega ti fa più favori... Si è lì per studiare, in fin dei conti. Al bar la situazione cambia radicalmente, una bella presenza dietro al bancone in genere viene apprezzata. Poi c’è chi si spinge un po’ più in là, prendendosi confidenze che non gli spettano, ma fortunatamente non è la prassi”.
Ci provano di più al bar o in facoltà? “Decisamente al bar. È un ambiente in cui in qualche modo ci si sente autorizzati a fare l’apprezzamento o la battutina sopra le righe. Come se chi ci lavora stesse aspettando solo quello...non è così! Non voglio essere fraintesa, il complimento fa piacere, ma deve fermarsi lì. A volte i clienti scambiano la carineria e la gentilezza come una predisposizione a qualcos’altro; la verità è che quando si lavora a contatto con il pubblico si è tacitamente obbligati ad essere accomodanti”.

Trovi più discriminazione verso la diversità dietro il bancone o nelle aule dell’Ateneo? “Dietro il bancone sei un bersaglio continuo, come se fossi in vetrina. Prendiamo questo esempio: se una/un barista ha dei tatuaggi in vista capiterà il cliente che glielo farà notare, anche in modo brusco, esponendo il suo disappunto o comunque la sua opinione (che in genere nessuno ha chiesto); e questo solo perché si sente libero, non si sa per quale motivo (forse perché paga a fine consumazione?), di dire qualsiasi cosa gli passi per la testa. Ovviamente non sono tutti così. In Ateneo non ho mai visto o vissuto una situazione analoga o simile. Piuttosto, se vogliamo parlare di discriminazione, mi sento di dire che gli studenti lavoratori talvolta vengono presi di mira: una volta ad un esame il docente mi fece sentire in difetto perché non avevo frequentato le lezioni, e io portavo dichiaratamente il programma da non frequentante. Lo studente che viene bollato con la lettera scarlatta di “non frequentante” spesso si trova a dover fare i conti con una mole di lavoro maggiore (e non di poco) di chi invece ha la possibilità di assistere alle lezioni. Certo, le nozioni spiegate dal docente a lezione non possono essere paragonate a quelle che si ritrovano nei libri, pertanto il non frequentante deve necessariamente confrontarsi con più materiali di testo. Io penso che sarebbe utile trovare delle soluzioni favorevoli per chi cerca di conciliare studio e lavoro, ad esempio registrando le lezioni e dando la possibilità di assistere in differita, così come è stato durante la pandemia grazie alla così temuta e così stigmatizzata didattica a distanza”.
Raccontaci come ti prepari per lavorare e come invece per un esame in Università... “Il lavoro non ha bisogno di preparazione, è una cosa che viene da sé dopo tanti anni nello stesso settore. La preparazione all’esame invece è lunga ed estenuante, quando finalmente si sostiene è una vera e propria liberazione. Ovviamente il fatidico giorno è preceduto da ansia e sessioni di “studio matto e disperatissimo”. Mi ricordo di un esame in particolare, il tempo ormai stringeva e non mi sentivo pronta, avevo bisogno di studiare ancora e allora di ritorno dal lavoro alle due o alle tre di notte mi mettevo a leggere, sottolineare e ripetere, vi lascio immaginare la lucidità.. una nocciolina, però alla fine è andato bene”.
Com’è cambiata la tua vita con il Covid? “Più che la mia vita direi che è cambiata la mia consapevolezza nel guardare e nel rapportarmi con ciò che mi circonda. Dopo una situazione del genere ti rendi conto che le cose brutte accadono improvvisamente e, anche se non ti toccano personalmente, sono reali. É bene tenerlo presente. Il Covid ha comportato un gap lavorativo, siamo stati fermi per svariati mesi e inevitabilmente è subentrata l’incertezza verso il futuro, ma soprattutto, in me, la consapevolezza di voler portare avanti gli studi a tutti i costi; infatti, ho sfruttato al massimo il periodo di inattività lavorativa per portare avanti gli esami. Infine, neanche a farlo apposta il periodo della quarantena è coinciso con l’inizio della convivenza con il mio fidanzato; di punto in bianco siamo stati catapultati in una nuova quotidianità, eravamo letteralmente senza via di fuga, lontani dai nostri punti di riferimento, ma tutto sommato è andata bene”.
Le tue grandi passioni... “Da piccola lessi Piccole Donne di Louisa May Alcott e ne rimasi incantata, mi immaginavo quella famiglia incasinata e il caminetto attorno al quale si riunivano e mi sentivo a casa. Mi immedesimai subito in una delle sorelle, Josephine March, un
GIORGIA
tornado di energia con la passione per le storie e i racconti. La notte indossava il suo cappello da scribacchina e, munita di penna e calamaio, passava le ore a scrivere ciò che accadeva a lei e alle sue sorelle. Ne uscì poi un romanzo che venne pubblicato e lei divenne una scrittrice. Come Jo March, anche a me piace scrivere, io non uso il calamaio, ma il pc... chissà, magari un giorno seguirò le sue orme. Infine, ma non per importanza, amo follemente i miei cani, due bassottini meravigliosamente buffi. É incredibile la facilità con cui ci si affeziona ai “pelosi”; nonostante siano entrati in famiglia da pochi anni ora non potrei mai immaginare la mia vita senza di loro! Sono la cura migliore ad ogni giornata no. Inoltre, sono una fonte d’ispirazione inesauribile; tant’è che, sfruttando le mie doti artistiche, ho deciso di iniziare a disegnarli, dando forma ad una coppia di bassotti burloni che ne combinano di tutti i colori... sia sulla carta che nella realtà”.
Cosa farai da grande? “Bella domanda, in realtà credo di essere già grande. Probabilmente sono un po’ in ritardo sulla tabella di marcia, almeno rispetto agli altri giovani della mia età. L’incertezza purtroppo domina, volenti o nolenti, le nostre vite; io nel mio piccolo posso mettercela tutta per cercare di arrivare laddove vorrei stare. La mia speranza più grande è di poter fare qualcosa per cui mi batte il cuore”.

Mi hai confidato che ti piacerebbe insegnare la lingua italiana a chi, arrivando nel nostro paese volesse o dovesse impararla. Certo, conoscere la lingua, potersi esprimere e capire ciò che si dice, è assolutamente il primo gradino di una già difficile integrazione... “Penso ad un bergamasco a Parigi o a Londra che gesticola alla nostra maniera e sfoggia termini improbabili per tentare di farsi capire; alla fine non lo capiscono comunque e magari voleva solo chiedere: “a che ora passa il prossimo bus?”. La non conoscenza inevitabilmente porta allo spaesamento e chi si ritrova a fare i conti, per un motivo o per un altro, con una nuova realtà, in più ignorando la lingua locale, si sentirà per forza un pesce fuor d’acqua! Il problema di fondo è che qui in Italia si parla solo italiano (e io mi ci tuffo con tutte le scarpe in questa categoria purtroppo, anche se ci sto lavorando). La verità è che chi arriva “da fuori” spesso conosce due o tre lingue, ma non riesce comunque a comunicare perché qui capiamo solo il “maccheronico”. Probabilmente c’è una falla nel sistema scolastico italiano? Io personalmente ritengo di sì. La conoscenza di una lingua che possiamo considerare universale, come l’inglese, favorirebbe la comprensione tra persone provenienti da luoghi diversi, pur mantenendo la propria cultura. Nel frattempo, bisognerà pur dare i mezzi a chi si trova in Italia senza conoscere la lingua di poterla imparare, per appunto favorire un processo d’integrazione già difficile di per sé; per questo mi piacerebbe poterla insegnare in futuro”.